La dignità del nome per i morti di Modena di Franco Corleone* dirittiglobali.it, 22 marzo 2021 Può sembrare poca cosa, ma avere dato un nome ai tredici detenuti morti dopo le rivolte, di cui ben nove del carcere di Modena, rappresenta un risultato significativo, come risposta alla coltre di silenzio che voleva coprire e dimenticare. La strategia dell’archiviazione della strage, perché di questo si è trattato, è fallita grazie alla tenacia del Comitato nazionale per la verità e giustizia e alle parole di Enrico Deaglio e all’inchiesta di Carlo Bonini. Più di mezzo secolo fa, cinque giovani ammazzati dalla polizia ebbero l’onore di essere ricordati da una canzone che veniva cantata con rabbia ed emozione: Morti di Reggio Emilia… Sarebbe bello che Gianfranco Manfredi e Ricky Gianco componessero un nuovo capitolo di una Spoon River italiana, da ricordare più dell’infelice motto “Andrà tutto bene”. Il 9 marzo, si è svolto un lungo e intenso incontro a un anno dalla triste storia, in concomitanza con la richiesta di archiviazione del procedimento relativo a otto vittime. Molti interventi hanno messo in luce le tante, troppe incongruenze, delle ricostruzioni fatte dall’amministrazione penitenziaria e dall’ex ministro Bonafede che rimarrà ricordato come il ministro perlopiù, l’avverbio usato in Parlamento per collegare le morti all’abuso di metadone. La questione più inquietante è stata sollevata da Franco Maisto nella analisi rigorosa del documento del magistrato che intende chiudere il caso e soprattutto nell’interrogativo sulla opacità della linea di comando in quelle terribili ore e giornate, dalla direzione alla polizia penitenziaria, dal DAP al magistrato di sorveglianza. Nulla di simile si era mai verificato in vicende analoghe. È stato ricordato naturalmente il caso della “macelleria messicana” di Bolzaneto e della Caserma Diaz. A me pare che non vada trascurata la tragedia tutta femminile, del giugno 1989, accaduta nel carcere delle Vallette a Torino in cui morirono in un rogo, assurdo e inconcepibile, nove detenute e due vigilatrici. La causa era legata a sciatteria e non a una protesta e ricordo che mi precipitai nel carcere per capire e per manifestare dolore e solidarietà. Rammento questo episodio perché la volontà di cancellare la memoria e i nomi delle detenute si è riproposta recentemente, nel momento in cui si onorava solo il sacrificio delle custodi. Legato strettamente è il pestaggio organizzato scientificamente e a freddo, nel carcere San Sebastiano di Sassari nel 2000. Si trattò di una spedizione punitiva perché i detenuti di piccolo calibro e molti “tossicodipendenti” davano fastidio. Dopo il massacro furono effettuati i trasferimenti e di detenuti venivano caricati nei cellulari infilati nei sacchi dell’immondizia perché coperti di sangue ed escrementi, provocati dal terrore e dalla paura. Corpi trattati come cose. Io ero sottosegretario alla Giustizia e quando venni a conoscenza del fatto gravissimo di violenza, lo resi pubblico bloccando la volontà di alcuni responsabili del Dap di coprire e nascondere. Non solo in quel caso, ma anche per la morte di Marco Ciuffreda, detenuto a Regina Coeli, deceduto nel 2000 senza essere stato assistito né in carcere né in ospedale, proprio come Stefano Cucchi; io scelsi sempre la strada della chiarezza contro le spinte all’omertà. Uno dei tanti casi colpevolmente dimenticati. Per fortuna anche il Comitato cittadino continua in una opera di sensibilizzazione assai meritoria e il fronte giudiziario è ancora aperto grazie alla denuncia di cinque detenuti, coraggiosi e determinati. Una particolare cura andrà riservata a Salvatore Piscitelli, Sasà, che ha lasciato un ricordo intenso in chi l’ha conosciuto. L’evocazione di simboli come verità e giustizia può apparire azzardata, visti anche i tempi che viviamo e il buco nero per la cultura e la politica in cui siamo precipitati, ma qualche considerazione è possibile trarre da un caleidoscopio pieno di colori che emerge da questa storia. Il sistema sanitario subalterno all’apparato di polizia - Diverse letture e tante chiavi di interpretazione. Partiamo dai fallimenti che colpiscono come schioppettate: prima di tutto il fallimento del servizio sanitario pubblico, che invece di rappresentare una garanzia per il diritto alla salute delle persone private della libertà e quindi nelle mani dello Stato, si è rivelato subalterno alle logiche militari dell’amministrazione penitenziaria sia nell’assistenza delle persone ferite, sia nella decisione dei trasferimenti, sia all’arrivo nelle nuove destinazioni. Fallimento del sistema premiale, usato per governare il carcere e non per essere aderente allo scopo della risocializzazione. Un modello per i detenuti italiani e non per tutti, e inefficace per gli “stranieri”. Fallimento della legge sulla droga, che riempie le carceri di consumatori di sostanze e di piccoli spacciatori per oltre il 50% delle presenze, ma a Modena (città non casualmente di Carlo Giovanardi, che da sottosegretario tanti danni ha fatto in materia di droghe con una scelta iperproibizionista), ancora di più. Il sovraffollamento è la fotografia di una detenzione etica ed etnica resa evidente dai 417 trasferimenti. Fallimento dell’informazione, che ha accreditato che la rivolta fosse stata compiuta sotto la regia della mafia. Una bufala come la trattativa Stato-mafia che è costato il posto al capo del Dap, Francesco Basentini, non per aver mal governato la pandemia, ma per avere scarcerato centinaia di boss, accusa ovviamente falsa. Fallimento, infine, della retorica della salute che in questa vicenda è stato l’ultimo parametro. Varare una Commissione d’inchiesta - Davvero i 13 sventurati sono morti per overdose, perché si sono attaccati ai flaconi di metadone come fosse champagne? Se è stata questa la causa, è ancora più grave rispetto all’ipotesi di percosse e violenze. Vuol dire che la disperazione è immensa e che la distruzione del carcere è legata a una insopportabilità delle condizioni di vita. Questa rivolta non aveva un obiettivo, una piattaforma. L’assalto all’infermeria invece che all’armeria ha mostrato plasticamente che non c’era neppure l’idea della fuga e dell’evasione. La relazione della Polizia penitenziaria del 21 luglio dipinge alla fine della devastazione un cortile pieno di persone disfatte dalla fatica e dagli oppiacei. Che fare? Sono convinto che occorra chiedere alla neoministra Cartabia di ricostruire con decenza la vicenda. Il Consiglio regionale dell’Emilia-Romagna potrebbe istituire una Commissione d’inchiesta sui fatti accaduti, tenendo conto che la responsabilità del servizio sanitario è della Regione e che la vicepresidente e assessore al welfare è Elly Schlein. Le carceri da un anno vivono in un limbo, senza rapporti con la società, con le attività bloccate, i colloqui con i parenti sostituiti da skype o effettuati con il plexiglas che divide. L’emergenza non può diventare la norma. Per questo occorre chiedere riforme che facciano immaginare un nuovo orizzonte di diritti, a cominciare dall’affermazione del diritto all’affettività e alla sessualità per le prigioniere e i prigionieri. Va messa all’ordine del giorno anche la modifica dell’articolo 79 della Costituzione per ridare al Parlamento l’agibilità dell’uso, in situazioni motivate, dello strumento della amnistia e dell’indulto. Molte persone durante questo anno di pandemia, colpite dal virus, sono morte in solitudine e anche i funerali si sono svolti dopo cremazioni forzate, senza la presenza di testimonianze e ricordi. Per il carcere l’abbandono rischia di essere la realtà. Una volta si diceva che Pietà l’è morta. I fatti di Modena ci obbligano a non rassegnarci. *Comitato Scientifico della Società della Ragione Modena, la richiesta di archiviazione. Qualche interrogativo su metadone e Narcan di Stefano Vecchio* dirittiglobali.it, 22 marzo 2021 A leggere le notizie riportate da alcuni giornali e media locali e nazionali e in particolare scorrendo il testo della “Richiesta di archiviazione per reato commesso da persone ignote”, della Procura di Modena, sembrerebbe che “la natura” delle proteste nelle carceri avvenute nel primo lockdown, nel corso delle quali sono morte ben 13 persone, sarebbe attribuibile alla ricerca sfrenata e senza limiti di droghe da consumare. Nelle autopsie dei corpi delle persone detenute trovate morte sono state rilevate tracce di metadone e altri psicofarmaci, per lo più sedativi come le benzodiazepine, associate a segni di depressione respiratoria e altri legati a una possibile overdose. Osservo che quando si inserisce in una inchiesta giornalistica o giudiziaria la droga questa semplice presenza sposta lo scenario di riferimento e diventa immediatamente la causa del male sia per chi indaga che per chi costruisce le notizie sui media. Se poi si aggiunge che gli interessati sono migranti e detenuti non c’è via di scampo. Nel corso della pandemia, tra l’altro, gli stigmi si sono amplificati e diffusi in modo notevole. Nella discussione si dimentica il contesto reale che ha provocato le proteste: la decisione dell’Amministrazione penitenziaria di chiudere tutte le comunicazioni dei detenuti con l’esterno, con i familiari in particolare, nel corso dell’emergenza Covid-19. Una reclusione nella reclusione, senza alcun tentativo di coinvolgimento dei detenuti né di informazione appropriata che ha creato e disseminato il panico prevedibile e da qui le proteste. Senza negare che vi siano stati atti di vandalismo, lo scenario che emerge dai racconti e dagli stessi resoconti ci parla di una gestione dei disordini da parte delle amministrazioni penitenziarie fortemente securitaria e con violenze diffuse nei confronti dei detenuti. Se inquadriamo in questo scenario le vicende delle proteste, gli interrogativi sulla causa delle morti attribuita all’uso di metadone e psicofarmaci sono particolarmente inquietanti. Mi riferisco in particolare a quanto risulta dalla lettura della citata Richiesta di archiviazione che, attualmente, rappresenta il documento disponibile che fornisce maggiori informazioni sugli eventi. 1. Diverse testimonianze delle forze dell’ordine penitenziarie e del personale sanitario hanno descritto, con dovizia di particolari, i danni arrecati alle infermerie con la constatazione degli ammanchi del metadone e dei farmaci psicoattivi. Alcuni agenti della polizia penitenziaria raccontano anche di aver osservato detenuti visibilmente alterati e di averli collocati nelle celle insieme a detenuti più lucidi, per “cautela”. 2. Altre testimonianze raccontano una realtà interessante: di aver allertato il 118 che è intervenuto salvando, in una circostanza, limitata a quella fascia oraria, diverse vite di detenuti che avevano una sospetta depressione respiratoria da uso di droghe, iniettando il Narcan, che è l’antidoto contro l’overdose da oppioidi e quindi anche da metadone. Non così in altre situazioni, come quelle dei trasferimenti. 3. Mi chiedo: se si era riscontrata in modo così puntuale la sottrazione di ingenti quantità di metadone, se molti detenuti apparivano chiaramente alterati, se vi erano già stati interventi efficaci con il Narcan, come mai non è stata prevista e organizzata una osservazione continuativa da parte del personale sanitario o d’intesa con questo, considerato che i sintomi dell’intossicazione da metadone sono frequentemente tardivi e possono manifestarsi nel corso del sonno? Una tale organizzazione di monitoraggio che definirei di routine, e comunque doverosa stante le premesse, avrebbe potuto consentire un intervento appropriato visto che, come si sostiene, le morti sono state determinate prevalentemente da una overdose di metadone anche nei casi in cui si sono trovate tracce di altri psicofarmaci. 4. Le descrizioni del rilevamento del metadone e degli psicofarmaci nelle autopsie sono riportate in modo molto dettagliato, così come le testimonianze sugli atti vandalici a carico della farmacia, ma sorprende che non vengano nemmeno notate le contraddizioni evidenti che ho esposto. E tra queste in ogni caso il rilievo, pure riportato, di ecchimosi e lesioni diverse e diffuse sui corpi dei detenuti deceduti, espressione di violenze considerate poco rilevanti in quanto non sufficienti a giustificare il decesso. Ma in ogni caso l’evidenza di una violenza subita non avrebbe richiesto una indagine? O la violenza sui detenuti, per giunta tossicodipendenti e migranti non fa né notizia né ha la dignità di essere presa in considerazione e quindi non può esigere giustizia? 5. Sembrerebbe che vi sia stata l’esigenza di risolvere rapidamente la vicenda tralasciando le molte domande aperte, o meglio di “archiviare” l’accaduto. 4. Mi chiedo ancora: se questi detenuti sono morti per overdose da metadone, è probabile che non fossero in trattamento presso il Ser.D. dell’Istituto di Pena in quanto è difficile che una persona che assume il farmaco con una dose terapeutica possa avere una intossicazione acuta mortale. Allora mi chiedo che livelli di sofferenza stavano vivendo quei detenuti che, mentre protestavano, hanno avuto il bisogno di somministrarsi farmaci che non sono, in genere, i più ricercati da chi usa droghe perché non hanno effetti ritenuti piacevoli ma prevalentemente sedativi. È evidente che queste persone hanno ricercato una forma di autocura con un gesto estremo, in un contesto di agitazione e confusione che non ha consentito nemmeno di valutare vantaggi e svantaggi, rischi e danni. E mi chiedo ancora: ma questa sofferenza profonda avrebbe diritto a essere ascoltata e accolta? E quando dico diritto sottolineo diritto, visto che una legge dello Stato italiano, il DL 230/00, recita “i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione”. Forse i diritti alla salute sanciti dalla legge vanno sospesi nelle emergenze? A questi interrogativi chi darà risposta? Spero che le indagini continuino per gettare luce sulla vicenda e per affermare il senso di giustizia di un Paese democratico. Non mi anima alcun sentimento di rivalsa verso qualcuno. Certo se vi sono responsabilità individuali è giusto che vengano accertate e con i dovuti provvedimenti, ma non vorrei che il tutto si limitasse a individuare le eccezioni di alcuni comportamenti individuali. La pandemia sempre di più fa emergere gli aspetti problematici dei nostri sistemi istituzionali, da quelli sanitari a quelli delle carceri. Le carceri nella pandemia sono sempre più chiuse, le attività di socializzazione sono sospese o limitatissime, quando resistono, e mentre noi, i liberi, abbiamo le disposizioni di stare distanziati, loro, i detenuti, stanno uno affianco all’altro sovraffollati e chiusi. La dimensione securitaria delle carceri emerge in questa fase in modo violento e pervasivo. Così come gli effetti perversi della legge 309/90 che - come documentato nei libri Bianchi dalla Società della Ragione, Antigone, Forum Droghe, il Cnca e molti altri - riempie le carceri per più di un terzo di tossicodipendenti e persone con condotte legate alle droghe. Aggiungo che la logica securitaria nella forma biopolitica e psicopolitica che sta pervadendo le nostre vite quotidiane per effetto delle strategie del cosiddetto contenimento “infinito” della pandemia fa sempre più da specchio all’inasprimento securitario nelle carceri italiane. Nessuno restituirà le vite dei tredici detenuti alle loro famiglie, ma questi eventi tragici non possono essere silenziati e richiedono anzi una profonda analisi, per affrontare la natura strutturale perversa che le produce. E questa prospettiva ci riguarda direttamente, non solo per un’esigenza etica di giustizia ma anche perché è in gioco la libertà di tutti noi. *Presidente di Forum Droghe L’eterno ritorno del manicomio. In carcere di Emilio Robotti psychiatryonline.it, 22 marzo 2021 I provvedimenti ad interim della Corte Europea dei Diritti Umani sono misure cautelari che possono essere destinati ad uno Stato membro del Consiglio di Europa per impedire la violazione di un diritto fondamentale durante il tempo occorrente alla Corte per valutare un ricorso o anche per consentire all’interessato di proporre il ricorso. I provvedimenti ad interim possono arrivare addirittura a poche ore dalla loro richiesta (qualcosa di inaudito ed insperato per qualsiasi Avvocato che si rivolga ad un Tribunale nazionale italiano), ma non è per niente facile ottenerli. Sono noti, ad esempio, casi che hanno fatto scalpore, nei quali la Corte di Strasburgo ha rigettato la richiesta di una misura ad interim: il caso Open Arms, oppure il caso dell’Avvocata Turca Ebru Timkik, della quale si chiedeva la scarcerazione dalle carceri turche perché in fin di vita per lo sciopero della fame e le condizioni di prigionia. Come noto, Ebru Timkik non ha ottenuto la misura ad interim, avendo la Corte ritenuto che non fosse in pericolo imminente di vita, ed è deceduta. Ed anche nel caso Open Arms, che non ha avuto un epilogo tragico come per Ebru Timkik, per fortuna, la misura non è stata concessa. Eppure, nel più o meno costante disinteresse dei media e soprattutto del sistema che governa le sorti italiane della salute mentale, nel 2021 la Corte di Strasburgo ha nuovamente comminato all’Italia, come nel 2020 era avvenuto, un provvedimento ad interim, ordinando al nostro paese di provvedere ad inserire in una REMS un paziente psichiatrico che da oltre un anno attendeva - in carcere, insieme agli altri detenuti - si liberasse un posto in una struttura dove poter essere curato. Persone prima che pazienti, assolti per incapacità totale di mente, ma ritenuti pericolosi e che, in attesa si liberasse un posto in una REMS, sono rimasti in carcere. Una detenzione illegale, in un istituto penitenziario, che purtroppo si protrae ormai ordinariamente anche per un anno, un anno e mezzo, in attesa che si liberi un posto in una REMS. Non ci sono dati ufficiali recenti reperibili sulle liste di attesa per le REMS. Quelle più recenti ed ufficiose parlano di 683 posti nelle REMS esistenti sul territorio nazionale, con 813 pazienti in lista di attesa, dei quali 98 in carcere. Novantotto pazienti, quindi, nelle stesse situazioni che hanno visto intervenire l’Ordine della Corte nel 2020 e nel 2021. Ma il provvedimento della Corte arriva dopo una richiesta. E non tutti hanno a disposizione un Avvocato specializzato per un ricorso o una istanza alla Corte di Strasburgo. Non tutti, poi, hanno purtroppo la forza di aspettare che si liberi un posto in una REMS: è pendente in Lazio un procedimento penale per il caso di uno di questi pazienti in carcere, che nell’attesa di un posto libero nelle REMS, si è tolto la vita. La chiusura dell’ultimo residuo manicomiale, ovvero l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG) e la creazione delle REMS ha insomma rappresentato un ulteriore cortocircuito dell’assistenza psichiatrica, attraverso un dibattito non di rado autoreferenziale e comunque solo specialistico e di nicchia, diversamente da quanto accaduto nella stagione che ha portato all’approvazione della L. 180/78. Una chiusura degli OPG senza la messa a disposizione delle risorse necessarie, inserita in un quadro di depotenziamento dell’assistenza psichiatrica territoriale e residenziale, affermando la necessità di costruire REMS esclusivamente pubbliche, ma senza avere (anzi, senza mettere a disposizione) le risorse materiali, umane e professionali. Meglio sarebbe stato, meglio sarebbe oggi, rendere disponibili le risorse necessarie ed aprire, oggi che è tardi, ma prima che sia troppo tardi, un dibattito vero. Quel dibattito che fino ad ora è mancato, coinvolgendo quelle realtà che sono nate dalla chiusura molti anni prima dei manicomi, le Comunità Terapeutiche così necessarie ed utilizzate dal sistema Sanitario Nazionale., eppure così snobbate a livello centrale, la cui voce non è mai ritenuta necessaria nei palazzi del Ministero e di Agenas, L’Agenzia Sanitaria Nazionale, che periodicamente organizzano convegni e gruppi di lavoro in cui magari si denunciano fenomeni di istituzionalizzazione non meglio chiariti, ma dove il fenomeno che riguarda otto o novecento pazienti abbandonati con misure cautelari o addirittura in carcere in attesa per un anno e mezzo di posto in una REMS non rappresentano un problema da affrontare e tantomeno da risolvere. Un coinvolgimento delle Comunità terapeutiche psichiatriche sul territorio potrebbe ovviare innanzitutto alle problematiche di quei settecento pazienti ritenuti pericolosi, non ancora in carcere, ma in attesa di posto nella REMS che potrebbe non arrivare mai e che nell’attesa, abbandonati a sé stessi, spesso commettono altri reati che li portano in carcere. Durante l’attesa, questi pazienti potrebbero essere curati nelle strutture residenziali psichiatriche e forse evitare non solo il carcere, ma la necessità stessa di un ricovero in REMS al termine del percorso residenziale e semiresidenziale. C’è una associazione nazionale, Fenascop, della quale da alcuni mesi chi scrive è Presidente Nazionale, che da anni è disponibile ad aprire un dibattito che coinvolga quelle comunità terapeutiche psichiatriche che tale associazione da trent’anni ormai rappresenta a livello nazionale e regionale. Un dibattito per realizzare soluzioni che interrompano la spirale di abbandono sul territorio o addirittura in carcere e quell’insostenibile dialettica tra l’amministrazione penitenziaria i servizi sanitari regionali o i Dipartimenti di Salute Mentale, che nella situazione attuale, mai potrà arrivare ad un traguardo rispettoso dei diritti della persona. Per trovare soluzioni che siano rispettose della Legge 81/14 che ha istituito le REMS e degli approdi della Giurisprudenza anche Costituzionale, per la quale le misure di sicurezza detentive devono essere sempre considerate residuali e per la quale, anche quando è stata accertata la persistente pericolosità sociale, il ricovero in REMS deve essere considerato eccezionale e “transitorio”. Nell’attesa che il Servizio Sanitario Nazionale e Regionale, nella parte che governa la Salute Mentale, finalmente crei le REMS previste dalla Legge. O chieda di cambiare la Legge per rispondere alle esigenze di cura dei pazienti ritenuti socialmente pericolosi e garantire anche i loro diritti. Perché in caso contrario, si è abolita la barbarie dell’OPG per creare quella dei pazienti psichiatrici in carcere. L’eterno ritorno del manicomio, insomma. Scuola in carcere: progetti e buone pratiche in corso di Carmelina Maurizio tecnicadellascuola.it, 22 marzo 2021 Sono buone notizie quelle che vengono in questi giorni da un settore speciale del mondo della scuola, ovvero le scuole carcerarie, che come vedremo, in Italia, spesso rappresentano dei luoghi di buone pratiche. Sono infatti due i progetti che, grazie all’impegno di docenti e studenti, ma anche di dirigenti innovativi fanno riflettere su come lo studio e la scuola siano un passaporto quanto mai importante nella vita, per chi segue percorsi formativi all’interno degli istituti di pena. In Italia ci sono cento Centri provinciali per l’Istruzione degli Adulti che hanno sezioni di scuola attive negli istituti penitenziari, di cui diciassette anche minorili, definiti IPM (Istituti di Pena Minorili). Questi ultimi hanno una popolazione studentesca di circa 200 alunni, a cui si sommano coloro tra i 18 e i 25 anni, che sono (anno scolastico 2019/20) circa 300. Le carceri minorili, che hanno caratteristiche e dimensioni diverse tra loro, ospitano in prevalenza maschi, e vi è consentito rimanervi fino al compimento del 25° anno e sono diffuse a livello nazionale. Nel corso dell’ultimo anno numerose sono state le iniziative per garantire l’istruzione nei penitenziari, anche a distanza. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria già dal 2015 aveva consentito di attivare esperienze in rete all’interno delle carceri, ma bisognerà attendere il 2019 quando lo sesso DAP aveva invitato i direttori degli istituti a rendere possibile per i detenuti dei reparti di media sicurezza le videochiamate per comunicare con i familiari, rendendo possibile un collegamento sincrono tra dentro e fuori. In piena emergenza, il DAP ha esteso la possibilità di utilizzare le videochiamate anche per lo svolgimento degli esami universitari e i colloqui didattici, emanando una nuova circolare (12 marzo 2020). Le criticità emerse sono state molte, per esempio una dotazione tecnologica adeguata, gli spazi idonei dove effettuare le lezioni online, la preparazione del personale docente e carcerario. Eppure, in questo clima sono nate idee e buone pratiche. Tecnologie dentro le mura a Massa Carrara. Il progetto scuola-carcere ha fatto un altro passo avanti e grazie al Pon Fesr Smartclass promosso dal ministero della istruzione, nell’ambito del progetto Classe Connessa, che ha permesso di investire cinquemila euro per dotare la scuola carceraria di via Pellegrini di mezzi informatici all’avanguardia, tra cui cinque computer portatili di nuova generazione, cinque proiettori Acer, un carrello stazione di ricarica per custodia ed una grande lavagna interattiva. La società civile, ha affermato la Dirigente Langella, è entrata nella quotidianità dei detenuti, circa un centinaio, che frequentano la scuola. Filosofia fuori le mura - È questo un altro progetto attivo in ambito carcerario, che nato a Napoli nel 2000, per portare la filosofia nei luoghi estremi, come il carcere, ha promosso buone pratiche educative in cui i partecipanti fanno parte di laboratori in cui si dialoga insieme su temi generali, per mezzo della voce, della scrittura, della lettura e dell’arte. Queste iniziative continuano ancora oggi, nonostante l’ostacolo pandemico: i corsi, che si svolgono da anni, in particolare a Bellizzi, in provincia di Salerno, e a Carinola, in provincia di Caserta, mostrano risultati eccellenti. Occorre considerare il carcere nella sua interezza, nella sua complessità, non per sfuggire a responsabilità, ma per ritrovare le vie sociali alle identità smarrite o mai avute, distorte o mai vissute, ha commentato Giuseppe Ferraro, animatore dell’iniziativa, docente della Federico II di Napoli. Sulla presunzione di innocenza il M5S è solo contro tutti: maggioranza a rischio alla Camera di Liana Milella La Repubblica, 22 marzo 2021 Scontro in vista mercoledì in aula. I Cinque Stelle tentano di bloccare gli emendamenti garantisti di Azione e Forza Italia. Favorevoli anche Italia Viva e Lega. Il Pd vuole evitare lo scontro adesso. Il principio europeo di massima tutela per l’imputato è condiviso però dalla ministra Cartabia. Se “presunzione d’innocenza” può voler dire anche stop alle conferenze stampa dei procuratori, alle ordinanze per i giornalisti, alle foto e alle riprese tv degli arrestati, allora M5S non ci sta. E cerca ormai da mesi, dopo esserci riuscito in commissione, di bloccare in aula alla Camera gli emendamenti che, proposti nella legge di delegazione europea, farebbero diventare tutti questi principi obbligatori per legge. Anche perché sono già contenuti in una direttiva europea del 2016. Proprio questo avrebbe dovuto essere l’antipasto, il 28 gennaio, alla relazione sullo stato della giustizia dell’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede, sopraffatta poi dalla crisi di governo. Torna a essere adesso il piatto forte dello scontro tra le anime - oggettivamente diverse - all’interno del governo sulla giustizia. Succederà mercoledì alla Camera quando arriverà di nuovo al voto - era stata bloccata dalla crisi - la legge di delegazione europea, una sorta di contenitore delle norme Ue che l’Italia deve necessariamente recepire. Con uno scenario però che si presenta del tutto diverso rispetto a quello di due mesi fa. Perché allora c’era Bonafede, e la maggioranza rossogialla. Pronta a fare quadrato rispetto alle “provocazioni” dell’opposizione. Adesso i “provocatori”, cioè gli autori degli emendamenti sulle norme garantiste filo imputati, sono dentro la maggioranza. M5S solo contro tutti - E in aggiunta in via Arenula c’è la ministra Marta Cartabia che ovviamente non può che condividere i principi sulla presunzione d’innocenza fissati in un atto europeo. E che i deputati Enrico Costa di Azione e Riccardo Magi di Più Europa, nonché Pierluigi Zanettin e Francesco Paolo Sisto di Forza Italia (oggi pure sottosegretario alla Giustizia del governo Draghi), hanno già tradotto in altrettanti emendamenti. Per i quali, se un gruppo lo richiede, è possibile anche ottenere il voto segreto. Italia viva, con Lucia Annibali, ha fatto di più, ha presentato una sua legge. E quindi ovviamente non può che essere favorevole. Altrettanto la Lega. E naturalmente Fratelli d’Italia dai banchi dell’opposizione. Sul piano dei principi dovrebbe essere d’accordo anche il Pd, ma non condivide l’urgenza di discuterli proprio adesso. Mentre M5S, sin dal dibattito in commissione Giustizia, ha puntato i piedi. Tant’è che la votazione finì 23 pari, con il voto contrario e quindi determinante per l’esito della votazione, anche del presidente grillino Mario Perantoni. Tant’è che gli emendamenti - riproposti da Costa e Magi per l’aula - a novembre furono bloccati. Oggi, proprio come due mesi fa, è il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà di M5S a chiedere - stavolta ai partner della sua stessa maggioranza - di soprassedere. Con una motivazione apparentemente tecnica, la stessa utilizzata a fine gennaio. La legge di delegazione europea arriva dal Senato e D’Incà chiede di non toccarla per evitare che ci ritorni. Soprattutto perché, per via del Covid, in quel ramo del Parlamento molte leggi sono accodate. Ma Costa gli controbatte che invece “non c’è nulla di così particolarmente urgente che scada nella legge di delegazione europea, mentre sicuramente sui principi del giusto processo l’Italia è in ritardo di anni”. Come dimostrano le battaglie di un Radicale come Magi. Quindi, sostiene Costa, “questa è l’occasione buona per votare gli emendamenti, senza ulteriori rinvii e senza accampare qualche pretesto procedurale per sfilarsi”. A questo punto - per evitare una spaccatura in aula, dove peraltro Costa e Magi sono intenzionati a chiedere comunque il voto segreto sui loro emendamenti - non resterebbe che una mediazione della ministra della Giustizia Cartabia che eventualmente potrebbe garantire il loro inserimento nella legge di revisione dell’ordinamento giudiziario. Anche se qualsiasi rinvio non cambierebbe la situazione, poiché tra i garantisti alla Costa e alla Magi, e M5S, non ci sarà mai alcuna possibilità di incontro. Pur se adesso sono prigionieri della stessa maggioranza. Gli emendamenti di Costa e Magi - Basta leggere gli emendamenti di Costa e Magi per rendersene conto. Dovrebbero essere adottate misure “per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole”. Quindi stop, ad esempio, alle interviste dei procuratori. Ancora: “regolamentare le forme di comunicazione giudiziaria da parte delle procure durante le indagini preliminari, consentendo esclusivamente e tassativamente la diramazione di comunicati stampa con l’indicazione degli specifici fatti e delle norme contestate ai soggetti indagati”. E questo significa la pietra tombale sulle conferenze stampa post arresti e anche sulle interviste agli stessi procuratori. E poi: “fino alla conclusione delle indagini preliminari, prevedere che non vengano diffusi dall’autorità giudiziaria, a fini di comunicazione, filmati contenenti riprese di atti di indagine preliminare (intercettazioni, perquisizioni, esecuzione di misure cautelari), né audio di intercettazioni non ancora vagliate nell’apposita udienza stralcio”. Un’altra stretta sempre sul piano dell’informazione. Stop anche a battezzare un’inchiesta con un nome, come fanno ormai tutte le procure italiane. Vietare di nuovo “la pubblicazione integrale dell’ordinanza di custodia cautelare”. Insomma, ce n’è anche per i giornalisti che, dopo anni di insistenza, avevano spuntato dall’ex Guardasigilli Andrea Orlando la possibilità di ottenere subito l’ordinanza di custodia. La direttiva europea - Lo spirito della direttiva europea è chiaramente garantista. Tant’è che recita: “La presunzione d’innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole. Ciò dovrebbe lasciare impregiudicati gli atti della pubblica accusa che mirano a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato, come l’imputazione, nonché le decisioni giudiziarie in conseguenza delle quali decorrono gli effetti di una pena sospesa, purché siano rispettati i diritti della difesa”. Ma, nel processo, la pubblica accusa, dopo anni di indagini, gioca la sua parte. Ed è proprio questa “parte” che i garantisti di casa nostra vogliono sopprimere. Il più presto possibile. Di qui la battaglia di mercoledì. Giustizia, Partito radicale e Lega studiano una campagna referendaria di Silvio Buzzanca La Repubblica, 22 marzo 2021 Il segretario radicale Maurizio Turco: “Non è un fidanzamento o un matrimonio. È l’unica opportunità che abbiamo individuato per inserire la riforma della giustizia nell’agenda politica di questo paese”. Nasce la Fondazione Pannella. Il Partito radicale e la Lega discutono di una campagna referendaria sulla giustizia. Il progetto è stato annunciato da Maurizio Turco, segretario del Partito radicale non violento transnazionale e transpartito, all’assemblea degli iscritti italiani. “C’è un’interlocuzione con la Lega per vedere se ci sono i margini per una campagna referendaria sula giustizia”, ha detto Turco durante la relazione che ha avviato discussione online. Un progetto che richiama un tentativo già sperimentato nel 1993 da Umberto Bossi e Marco Pannella. Il segretario radicale non si nasconde le difficoltà che si dovranno affrontare: i tempi stretti per elaborare i quesiti e presentare la richiesta in Cassazione entro il primo luglio. Pe non parlare di una raccolta delle firme, 500 mila, durante la pandemia e l’estate per arrivare alla consegna entro il 30 settembre. Ma le sfide piacciono ai radicali, partendo dalla scrittura dei quesiti che dovrà essere fatta insieme ai leghisti. Nella replica Turco ha spiegato di avere chiamato il leader della Lega, di avergli chiesto un incontro per chiedere la possibilità di collaborare su un progetto referendario e di avere incassato la sua disponibilità. Il segretario radicale spiega che trattandosi di una collaborazione non si parlerà solo di giustizia. Si dovrà tenere conto anche di altri temi cari ai leghisti. Ma a noi, ha spiegato serve l’aiuto della Lega e della sua ramificazione territoriale. “Abbiamo chiesto alle Lega e non abbiamo trovato la porta chiusa, e dobbiamo fare in modo che non si chiuda. Ci sono altri che possono garantire la riuscita di una campagna referendaria? Il Pd, I Cinque Stelle? Io non vedo altri”, ha concluso Turco Dunque, adesso si dovrebbe passare alla stesura dei quesiti. Tenendo magari conto dei problemi giudiziari di Matteo Salvini e di altri dirigenti leghisti. Ma Turco cita proprio il caso del leghista Edoardo Rixi, assolto nel processo ligure sulle spese pazze dei consiglieri regionali, costretto a suo tempo a lasciare l’incarico di viceministro, come un esempio di quella giustizia che si vuole riformare. Caso evocato insieme a quello di Ambrogio Crespi, appena tornato in carcere per scontare sei anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, sentenza molto criticata, e Fabrizio Corona: anche lui ritornato in prigione per scontare diverse condanne. Casi emblematici dei temi classici dell’iniziativa politica dei radicali. A partire dal caso di Enzo Tortora: giustizia e carceri. Turco apprezza naturalmente il cambio di passo arrivato con l’arrivo di Marta Cartabia al ministero della Giustizia. Ma il segretario radicale è pessimista sulle reali possibilità della Guardasigilli di mettere mano ad una riforma della giustizia. Nonostante il rumore mediatico sollevato dal libro di Luca Palamara sulla gestione dell’Anm e le carriere dei magistrati. Mentre Irene Testa, la tesoriera del partito, lamenta lo scarsissimo interesse suscitato dagli scioperi della fame di Rita Bernardini per attirare l’attenzione sul problema del Covid in carcere. Lo zero assoluto, dice Testa, anche sull’ultima iniziativa di Bernardini: una passeggiata quotidiana, un’ora d’aria, battezzata “memento”, intorno al ministero della Giustizia per richiamare l’attenzione del ministro, prima Alfonso Bonafede, oggi Marta Cartabia, sulla condizione carceraria. “Non è un fidanzamento, tanto meno un matrimonio con la Lega: - spiega Turco - è l’unica opportunità che abbiamo individuato per inserire la riforma della giustizia nell’agenda politica di questo paese”. E che qualcosa si muova fra i due partiti sul terreno giustizia lo dimostra anche quello che oggi dice Matteo Salvini. “Non sarà questo, ovviamente, il governo che affronta in grande stile i problemi della giustizia italiana, perché è troppo disomogeneo; ma il prossimo governo, quello che verrà eletto liberamente e in presenza dal popolo italiano, avrà come primo punto all’ordine del giorno una grande, compiuta, sistematica riforma della giustizia che rimette al centro i cittadini e le imprese, che punisce i colpevoli in tempi rapidi, perché anche i colpevoli dopo 10 anni sono un po’ meno colpevoli, e soprattutto libera gli innocenti in tempi altrettanto rapidi”. Una dichiarazione che, però, ai radicali dovrebbe evocare brutti ricordi. Il maggio del 2000 gli italiani furono chiamati a votare sul pacchetto radicale di referendum che prevedeva anche la riforma della giustizia, Ma Silvio Berlusconi incitò gli elettori ad astenersi dal voto perché le riforme le avrebbe fatte lui quando avrebbe vinto le elezioni politiche previste per l’anno successivo. Il segretario radicale ricorda invece l’ultima campagna referendaria dell’estate del 2013, una raccolta di firme su dodici quesiti fallita per sole 20 mila firme. Una campagna segnata dalla firma da un Silvio Berlusconi “pentito”, sui sei quesiti sulla giustizia. Il Leader di Forza Italia era appena stato condannato dalla Corte di appello di Milano a 4 anni di carcere e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici che portò poi alla sua decadenza dal Senato sui sei quesiti radicali. Una firma apposta a favore di telecamere che arrivò la mattina del 31 agosto in una romana piazza Argentina assolata e con uno show mediatico della coppia Pannella- Berlusconi. Oggi Turco dice che quella campagna fallì per l’avversione al contributo di Berlusconi di una parte dei radicali di allora. Anche se fu palese il disinteresse di una parte consistente dei dirigenti di Forza Italia. Ma il segretario radicale, si capisce chiaramente, punta il dito contro i compagni che sono poi usciti dal Partito radicale intorno ad Emma Bonino nel 2016, alla fine di un acceso congresso tenuto nel carcere di Rebibbia. Un altro capitolo della lotta feroce che divide gli ex compagni di partito che rivendicano l’eredità di Marco Pannella. Uno dei temi dello scontro era anche il patrimonio del partito che era affidato alla lista Pannella con una gestione affidata a tre persone e accusata di opacità. A questo proposito Turco annuncia che, sempre polemicamente lui, Giuseppe Candito e Rita Bernardini hanno dato vita alla Fondazione Marco Pannella che “mette tutto il patrimonio sotto il controllo dello Stato”. L’ex numero 2 del Csm Verde attacca i Pm: “Hanno troppo potere, serve una legge ad hoc” di Viviana Lanza Il Dubbio, 22 marzo 2021 “Non c’è attività umana che non abbia controindicazioni e, paradossalmente, il rischio è la molla che spinge a osare e senza la quale si avrebbe la mediocre stagnazione. Questa è la situazione dell’Italia oggi, che da anni non cresce, in tutti i sensi, e sembra destinata ad un inarrestabile declino. Le riflessioni che ho condensato nel mio recente libro Giustizia, politica, democrazia - Viaggio nel Paese e nella Costituzione, nascono dalla convinzione - non vado oltre il mio campo, essendomi da sempre occupato di giustizia e di processo - che ciò che avviene è in qualche modo collegato al nostro sistema di giustizia”. Il professor Giovanni Verde, giurista, tra i massimi esperti di processo civile, già vicepresidente del Csm, avvocato, docente universitario e per dodici anni magistrato, accetta di fare con il Riformista una riflessione sullo stato attuale della giustizia. “Il nostro sistema è afflitto da panpenalismo che, insieme con l’estensione incontrollabile della burocrazia, è il prodotto deteriore del giustizialismo. Purtroppo non abbiamo rimedi, se non riusciamo a correggere la nostra cultura, fondata sul sospetto e sulla sfiducia. E siamo destinati a perdere nella competizione con Paesi che hanno opposti punti di partenza”. La cultura del sospetto, negli anni, ha alimentato il groviglio di norme che spesso paralizza le decisioni della pubblica amministrazione e rende biblici i tempi del processo. “Al lettore chiedo se si è mai interrogato su che cosa pensino della nostra giustizia gli altri Paesi, avendo appreso che spesso le nostre sentenze di condanna in materia penale sono annullate in appello o cassate dalla Suprema Corte perché il fatto non sussiste o non è stato commesso. Lo straniero si chiederà: “Ma come è possibile una condanna, se anche la vostra Corte suprema insegna che si può condannare soltanto oltre ogni ragionevole dubbio”? È evidente - ci direbbe - che i vostri giudici condannano anche in caso di dubbio e che, pertanto, si pongono fuori dalla Costituzione, se è esatto che nell’articolo 27 è implicita la presunzione d’innocenza”. “Il nostro processo simil-accusatorio - continua Verde - deve fare i conti con il giustizialismo che ci appartiene e che è latente nella stessa nostra Carta fondamentale che - unica o tra le poche al mondo - prevede l’obbligatorietà dell’azione penale. Questa è, sul piano logico, un ossimoro e, nella realtà, un’ipocrisia. Su di una contraddizione logica e su di un’ipocrisia regge l’impalcatura che ha dato ai pm un potere immenso. Le Procure sono oggi altrettanti “grandi fratelli” che penetrano, senza limite, nelle nostre vite private”. Qual è il loro peso? “Le attuali vicende del Csm rendono chiaro che il problema è lì: nelle Procure. È in atto un’operazione di oscuramento o di depistaggio tendente a fare credere che il problema sia quello delle nomine e della carriera dei magistrati, da risolvere con un’ennesima (e inutile) riforma della legge con cui si eleggono i consiglieri del Csm. Non è così. Il problema delle nomine e della carriera non interessa il cittadino, che vuole giustizia rapida, prevedibile e ragionevole. Oggi vi è una sovraesposizione del potere inquirente sugli altri poteri dello Stato”. Quali soluzioni sono possibili? “Il ministro attuale, così come quelli passati, pensa che i problemi possano essere superati lasciando fermo l’attuale contesto e modificando regole, riti e procedure. Così avviene che il tema della prescrizione dei reati diventi divisivo (mentre è un non problema: dopo venti anni la condanna si trasforma in vendetta). Il ministro chiama esperti - scegliendoli tra magistrati e teorici - che in un mese dovrebbero dare consigli appropriati. Il tema richiederebbe, piuttosto, oltre che tempo adeguato, la sensibilità del cittadino e il coraggio di affrontare il male là dove ne sono le cause. Si cura la febbre, mai la malattia”. “Dal mio libro - aggiunge Verde - è possibile enucleare non poche proposte. Ne ricordo qualcuna: distinguere nell’ordinamento giudiziario lo “status” del giudice da quello del pm; scrivere una legge sulla responsabilità disciplinare del pm diversa da quella per i giudici; fare lo stesso per la legge sulla responsabilità civile; valorizzare la capacità del giudice di organizzare il processo, sanzionando l’attuale prassi per la quale il giudice studia sul serio il processo soltanto quando deve decidere (un’altissima percentuale di processi si allunga nel tempo perché non sono gestiti correttamente); introdurre filtri tesi a limitare il ricorso per Cassazione per controversie bagattellari; riesaminare il mito del doppio grado, anche perché l’attuale appello civile è un brutto doppione del giudizio di legittimità. Potrei continuare. Ma a chi parlo? A chi crede di risolvere i problemi allungando la prescrizione dei reati o costruendo modellini processuali? Auguri”. Flick: “Non si indaga più sui fatti, così falliscono i processi” di Valentina Errante Il Messaggero, 22 marzo 2021 L’idea di una riforma che prevedesse anche le “pagelle” per i magistrati, Giovanni Maria Flick, ex presidente della Corte costituzionale, l’aveva avuta 25 anni fa, da ministro della Giustizia del primo governo Prodi, e aveva scelto come direttori generali di via Arenula alcuni dei magistrati più esperti ai quali adesso si è rivolta anche la Guardasigilli Marta Cartabia. Oggi non ha cambiato idea, ma ritiene che un intervento di questo tipo debba fare parte di una ristrutturazione sostanziale del sistema giudiziario. Ovviamente partendo dai tempi dei processi. Il vicepresidente del Csm, David Ermini, ipotizzava che nella valutazione di un pm possa pesare anche l’esito dei processi che istruisce. Che ne pensa? “Penso che un sistema che valuti le competenze di un magistrato sia indispensabile. Penso addirittura siano necessarie verifiche periodiche sulla preparazione e che debba essere valutata work in progress. Le pagelle non possono, ovviamente, diventare uno strumento di controllo; invece bisogna evitare che, dopo l’ingresso in magistratura, si entri in un sistema di autoreferenzialità. Le cose cambiano e anche i magistrati devono essere all’altezza dei loro ruoli. Credo che i criteri di valutazione oggi siano insufficienti. Raramente all’interno di un ufficio si leggono relazioni che mettano in luce lacune o impreparazione dei magistrati. Bisogna trovare un’unità di misura sulle conoscenze che si manifestano anche attraverso il modo di decidere dei magistrati, senza, però, intaccarne l’indipendenza”. Però tante inchieste si concludono con assoluzioni… “L’articolo 25 della Costituzione stabilisce che nessuno possa essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso. La legge chiede al magistrato di accertare quel fatto e la responsabilità della persona, quando al fatto si sostituisce il fenomeno la situazione diventa problematica. Insisto, e non da ora, ci sono tre sfere concentriche di responsabilità per un magistrato: quella penale, come tutti i cittadini, quello disciplinare e quella deontologica. Quest’ultima, fondamentale per magistrati, è affidata alla reputazione e agli organi associativi. Ed è la premessa per la responsabilità disciplinare. Certi comportamenti, etichettati come espressione di libertà, andrebbero riconsiderati, nell’ottica di un possibile attrito con la deontologia. Al magistrato si riconoscevano un ruolo e una credibilità che adesso stentano a essere riconosciuti”. Quando è iniziato tutto questo? “L’ho detto più volte, penso che questa tendenza sia iniziata con Tangentopoli. La magistratura ha ritenuto di dovere perseguire anche i costumi. Dopo Tangentopoli, abbiamo abbandonato il metodo di giudicare il fatto per guardare successivamente all’uomo. Oggi si giudica l’uomo, il corruttore, l’associato a delinquere, ossia il tipo di persona che è espressa da quel fatto; quest’ultimo è oggetto del trattamento penitenziario”. La giustizia è in crisi? La crisi del processo è legata a due questioni: in primo luogo si è allargato a dismisura l’impiego della tecnologia come strumento di indagine. La violazione dell’articolo 15 della Costituzione deve avere un carattere di eccezionalità. Strumenti come l’intercettazione, e tanto più il trojan, dovrebbero essere utilizzati solo in casi indispensabili, per proseguire indagini già aperte. Invece si fa pesca a strascico, violando così anche il principio costituzionale della libertà di espressione”. Però c’è l’obbligatorietà dell’azione penale... “L’obbligatorietà dell’azione penale è fondamento di eguaglianza ma rischia di diventare un’utopia, quindi deve esserci una legge che la regoli. Non può essere affidata alle circolari del Csm o dei capi degli uffici o alla discrezionalità dei singoli procuratori”. Il secondo dei motivi della crisi del processo? “La durata dei processi viene scaricata sulla posizione di uno dei protagonisti, ossia solo sull’imputato. La ragionevole durata del processo è, invece, in carico allo Stato, che deve disporre degli strumenti per dare una risposta in tempi rapidi. Ma c’è anche una terza questione: la crisi del principio di legalità, legata alle troppe fonti normative. Alle nostre leggi, si aggiungono le decisioni della Corte dei diritti dell’Uomo, della Corte di giustizia europea e della Consulta. Oltre che l’interpretazione dei singoli giudici. Una confusione nella quale, da ultimo, abbiamo scoperto i Dpcm, che sono ordini amministrativi. Più le leggi sono numerose più c’è la possibilità di interpretarle; se poi chi deve interpretare la legge, rispetto a un fatto specifico, non ha adeguata cultura e preparazione, sorgono altri problemi. Al giudice è dato un potere molto ampio al livello di interpretazione. Ma la decisione non può essere una creazione. Il superamento della nomofiliachia (il rispetto delle precedenti decisioni), in assoluto, è un errore”. L’immagine della magistratura ha subito un duro colpo, pensa che una riforma del Csm sia indispensabile? “Indispensabile, ma non dimezzando i tempi per cambiare metà del Consiglio, come sostiene Ermini. Bisognerebbe limitare il correntismo e invece, così, ci sarebbero doppie elezioni”. Nel pianeta Giustizia c’è anche la questione carceri... “La pandemia ha fatto esplodere in maniera evidente una questione già aperta. In questo momento si vietano i contatti, i rapporti tra le persone avvengono da remoto, invece i detenuti hanno un obbligo di convivenza coattiva che favorisce i contagi; ma, il problema si poneva anche prima. Inoltre la sicurezza collettiva rischia di prevalere sulla funzione rieducativa e sul rispetto dei cosiddetti residui di libertà compatibili con la reclusione, attraverso l’ostacolo a concedere misure alternative ai condannati per reati gravi, come mafia e terrorismo, che non collaborino con la giustizia. Di questo si occuperà la Consulta questa settimana”. Commemorare le vittime di mafia nello strano clima della piazza in lockdown di Nando Dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 22 marzo 2021 I nomi risuonano uno in fila all’altro davanti a Palazzo Marino, dirimpetto alla Scala. Bandiera tricolore, bandiera europea e bandiera biancorossa sul balcone del Comune, sopra lo striscione che chiede “Verità per Giulio Regeni”. Bandiere simmetriche sulla facciata del grande teatro lirico. Sul mio lato destro gli stendardi della mostra del Tiepolo. I nomi si inseguono. Sono quelli delle vittime innocenti di mafia, che vengono pubblicamente recitati da ventisei anni il primo giorno di primavera. Stavolta si recitano il 20, essendo il 21 di domenica. E c’è il lockdown, divieto di marce, di “fiumi di giovani”, di piazze gremite. Nessuna manifestazione nazionale. Testimonianze simboliche nelle piazze di tutte le città. Anche a Milano, che ha le sue vittime di mafia benché si creda spesso l’opposto. Nessuno legge i nomi da un podio. E l’altoparlante che rimanda voci registrate: alcune ben scandite, altre sussurrate, qualcuna addirittura biascicata. Una trentina di familiari distribuiti nella piazza, una dozzina di telecamere che aumentano via via che si attende l’arrivo del sindaco. Una ventina di curiosi che non capiscono ma forse afferrano, fermando il passeggio o le bici. È un clima strano, rarefatto. Ripassa davanti agli occhi, grazie ai nomi, un pezzo della storia d’Italia. E per la prima volta cerco di dare un tempo preciso a quelli che sento, di riordinare almeno quelli che conosco. Realizzo così, è una folgorazione, la stupefacente concentrazione di nomi di vittime negli anni ottanta e nei primi anni novanta. Osservo inquieto i simboli di Milano. E penso che in quegli anni di mattanza questa era diventata la Milano da bere, la città felice che correva incontro al futuro, mentre i delitti e la violenza si scatenavano in Campania, in Calabria, in Sicilia, luoghi lontani che nessuno riteneva avessero a che fare con il destino della città. E da cui invece era già partita da tempo la conquista progressiva di territori e di hinterland, o la fila dei malloppi della finanza sporca. Che amarezza esala da quei nomi che si condensano nella piazza semivuota, la fila di taxi alla mia destra che non si muove. Alla mia sinistra due bimbetti tengono sui due lati una piccola bandiera lilla di Libera. Dietro la mascherina della loro mamma riconosco Ilaria, la ragazza che quasi dieci anni fa - è un’immagine di repertorio - spuntò per prima in piazza Beccaria portando sulle spalle ricciolute la bara con i poveri resti di Lea Garofalo ai funerali pubblici della giovane madre calabrese ribelle. Storie che si sovrappongono, più che incastonarsi. Come quelle in arrivo dalla Sicilia e dalla Puglia, dalla Calabria e dalla Lombardia: Antonio Fava, Marisa Fiorani, Francesca Bommarito, Francesca Ambrosoli, Maria Luisa Rovetta, Maria Concetta Riggio, Arianna Mazzotti, Paolo Setti Carraro, Marino Cannata, Rosy Tallarita, Lorenzo Sanua, Jamila Chabki, i nomi dei parenti che si allineano alla distanza prescritta. Fisso la facciata della Scala. Ripenso alla mia infanzia. A quando mio padre e mia madre andavano alla prima del 7 dicembre, i loro nomi sulla cronaca della Notte quotidiano della sera (“il maggiore Carlo Alberto dalla Chiesa e la signora Dora”), il biglietto omaggio e la citazione a compensare col prestigio le fatiche di una coppia sempre in lotta con la fine del mese. Mai avrei mai immaginato di commemorare davanti a quel luogo di festa e di successi né mio padre né altri uccisi dalla mafia con i loro parenti al mio fianco. Lucilla che porta in mano le sue poetiche stelle di carta, Caterina allieva di università che giunge nel mezzo della cerimonia con i suoi ragazzi della giustizia riparativi, sono un altro mondo che entra con delicatezza nel mio. Ce la faremo, dice il sindaco Sala. E lo penso anch’io. Intanto però quanto vantaggio gli abbiamo dato, santo cielo. Per non curarci del sud, e nemmeno del nord. Mediazione, la lite temeraria non giustifica l’assenza di Marco Marinaro Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2021 Non basta comunicare la mancata partecipazione per lettera all’organismo. Non è giustificata l’assenza all’incontro di mediazione della parte invitata, pur comunicata anticipatamente con una lettera inviata al mediatore e motivata dalla considerazione dell’inutilità della procedura conciliativa alla luce delle pretese temerarie della controparte. Infatti, appare irrilevante la prognosi di impossibilità di un accordo. La partecipazione alla mediazione è assolutamente doverosa e l’assenza può essere giustificata solo in presenza di un giustificato motivo impeditivo che abbia i caratteri della assolutezza e della non temporaneità. Sono le conclusioni cui perviene la Corte d’appello di Genova che, con la sentenza 652/2020, ha deciso sul gravame relativo al pagamento della sanzione disposta in primo grado per l’ingiustificata assenza al procedimento di mediazione. La mancata partecipazione era stata giustificata con una lettera inviata al mediatore in cui si esponeva che ogni questione era già stata risolta con altra sentenza e che la procedura conciliativa appariva inutile alla luce delle pretese temerarie della controparte. I giudici d’appello, dopo aver precisato che le sanzioni per la mancata partecipazione in mediazione senza giustificato motivo (articolo 8, comma 4-bis, Dlgs 28/2010), nel solco di quanto chiarito dalla Cassazione, sono impugnabili con l’appello, hanno respinto l’impugnazione e confermato la sanzione. Invero, si rileva preliminarmente nella sentenza, che la valutazione di manifesta infondatezza delle ragioni della controparte è stata clamorosamente smentita dall’esito del giudizio. Resta in ogni caso del tutto irrilevante “la prognosi di impossibilità di una conciliazione, in quanto l’introduzione di tale istituto è stata determinata dalla necessità di consentire alle parti di trovare un accordo amichevole, proprio laddove questo non sia raggiungibile coni soli mezzi di cui i contendenti e i loro procuratori dispongono”. La Corte d’appello di Genova evidenzia che nello spirito della norma sul procedimento di mediazione “la partecipazione delle parti, sia al primo incontro che agli incontri successivi, rappresenta una condotta assolutamente doverosa, che le stesse non possono omettere, se non in presenza di un giustificato motivo impeditivo che abbia i caratteri della assolutezza e della non temporaneità”. Al riguardo, alcuni tribunali avevano già chiarito come non fossero rilevanti le giustificazioni attinenti al profilo relativo alla ritenuta utilità o meno del tentativo di mediazione o, comunque, all’infondatezza degli assunti dell’altra parte (Tribunale di Verona, sentenza del 25 maggio 2019, e ordinanza del 13 maggio 2016). D’altronde, ragionando diversamente, sussisterebbe sempre in ogni causa un qualche giustificato motivo di non partecipazione, posto che se la parte istante condividesse la tesi del suo avversario la lite non sarebbe neppure insorta: “È proprio tale diversità di opinioni che costituisce al tempo stesso la ragion d’essere sia della lite e sia della mediazione” (Tribunale di Roma, sentenza del 23 febbraio 2017). Sequestro delle somme sul conto corrente non oltre il triplo della pensione sociale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2021 Il calcolo vale una sola volta per gli accrediti retributivi e pensionistici già percepiti e confusi nel patrimonio. I limiti all’impignorabilità dei crediti di lavoro o pensionistici, stabiliti in materia civile, si applicano anche al sequestro preventivo di somme, finalizzato alla confisca per equivalente, nel processo penale. E in entrambi i campi vale la distinzione tra accrediti già ricevuti e quelli coincidenti con l’applicazione della misura o successivi. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 10772/2021, ha respinto il ricorso della ricorrente imputata di omessa dichiarazione fiscale. La contribuente inadempiente contestava in Cassazione di aver subito un iniquo sequestro sulle somme già presenti nel proprio conto bancario perché, nonostante l’avvenuto rispetto del limite “impignorabile” pari al triplo della pensione sociale, il calcolo era stato operato sull’intero ammontare e non sui singoli accrediti. In concreto la ricorrente sosteneva l’erronea interpretazione da parte del tribunale dell’articolo 545 del Codice di procedura civile. La Cassazione spiega, invece, che il sequestro su stipendi e pensioni già confluiti sul conto corrente e già confusi nel patrimonio del debitore si calcola, una sola volta, con il limite del triplo della pensione sociale. Proprio in applicazione del comma 8 dell’articolo 545 Cpc, che riguarda emolumenti non futuri, ma esistenti e percepiti. Quindi nella prima applicazione della misura cautelare reale è l’intero ammontare delle somme indistinte che viene preso in considerazione ai fini del calcolo della parte impignorabile, in base alla misura fissata nel comma 8. Non si applicano cioè i limiti stabiliti negli altri commi della disposizione e in particolare quello fissato al comma 7, che prevede il pignoramento di ogni singolo accredito di emolumenti non oltre la misura dell’assegno sociale aumentato della metà. Infatti, tale comma si riferisce alle somme accreditate a titolo di stipendio o di pensione “successivamente” all’applicazione del sequestro. Campania. Più misure alternative? Nemmeno il Covid ci è riuscito di Viviana Lanza Il Riformista, 22 marzo 2021 Sulla carta il carcere dovrebbe essere il rimedio straordinario, l’extrema ratio, e le misure alternative quello ordinario. Nella realtà accade esattamente il contrario, per cui i più finiscono in cella e a pochi sono concesse misure alternative alla reclusione. Eppure il sistema, nel suo complesso, funzionerebbe in maniera molto più efficace se si rispettasse quello che prevede la Costituzione, evitando di alimentare oltremodo questa proporzione al contrario. Dall’ultimo report sullo stato delle carceri in Campania emerge che la popolazione carceraria è composta da 6.570 detenuti, 2.349 ancora in attesa di giudizio, mentre sono 8.426 le persone sottoposte a misure alternative o sanzioni di comunità. Quest’ultimo dato è in calo rispetto al 2019. E il garante regionale Samuele Ciambriello, nel suo report annuale, spiega che il numero è anche “sintomatico del debole sforzo compiuto dal legislatore per contrastare il sovraffollamento carcerario in un periodo in cui tale esigenza è stata avvertita in modo ancora più impellente a causa dell’esplosione del contagio da Covid-19”. “Per contrastare efficacemente il rischio che le carceri divenissero veri e propri focolai epidemici - ragiona il garante - sarebbe stato necessario incrementare l’utilizzo delle misure alternative nei confronti di quanti devono scontare una pena inferiore a 4 anni, o residuo di essa, per reati non ostativi. L’ emanazione del Decreto Cura Italia e le successive proroghe non hanno sortito gli effetti sperati”. Degli 8.426 soggetti sottoposti alle misure alternative in Campania, 4.829 sono a Napoli, 1.380 a Caserta e il resto diviso tra Salerno e Avellino. In particolare, a Napoli, si contano 1.471 casi di messa alla prova al servizio sociale, 1.714 in detenzione domiciliare, 223 in semilibertà, 354 in libertà vigilata. Quando si parla di Uffici dell’esecuzione penale esterna si parla di uffici territoriali del Ministero della Giustizia che si occupano di persone che devono scontare una condanna penale e, dal 2014, anche di imputati o indagati, quindi persone in attesa di giudizio, e di persone che chiedono di accedere all’istituto giuridico della messa alla prova. Il nodo cruciale resta però quello delle risorse messe a disposizione, cioè del personale. Attualmente, in Italia, sono operativi 58 Uffici dell’esecuzione penale esterna. In Campania ci sono una sede a Napoli, una a Salerno e uffici locali ad Avellino, Benevento e Caserta. Rispetto alla mole di lavoro il personale impiegato è carente: complessivamente si contano 44 operatori amministrativi, 19 unità di Polizia penitenziaria, 79 assistenti sociali, 23 esperti e consulenti. “Irrisorio - aggiunge il garante - è il numero dei volontari, ulteriormente ridotto anche a causa dell’interruzione dei progetti di fondamentale valenza trattamentale realizzati all’interno delle carceri, una riduzione che è conseguenza della pandemia e della necessità di ridurre gli ingressi per diminuire i rischi di contagio”. La carenza più grave si riscontra nel personale destinato al supporto psicologico: presso l’ufficio dell’esecuzione penale esterna di Napoli, che ha la gran parte dei soggetti presi in carico, operano soltanto due psicologi, un solo funzionario pedagogico e nessun operatore amministrativo. Asti. Vaccinati i detenuti del carcere, i sindacati chiedono l’intervento del Gom di Elisabetta Testa La Stampa, 22 marzo 2021 Sono circa 200 i detenuti che grazie all’Asl di Asti sono stati vaccinati contro il Coronavirus dopo che in carcere a Quarto era scoppiato un focolaio. Alcuni sono in isolamento. Non tutti i carcerati hanno però accettato il vaccino, alcuni hanno rifiutato. Tamponi molecolari al personale della polizia penitenziaria e dell’istituto. Intanto i sindacati Osapp (Domenico Favale); Sappe (Domenico Profeta); Uil Pa (Missimei Marco); Sinappe Bruno Polsinelli; Uspp (Roberto Cecere); Cgil (Angelo De Feo); Cisl (Domenico De Sensi); Cnpp Angelo Santoru hanno scritto al sindaco Rasero, al prefetto Alfonso Terribile, ai dirigenti del Dap di Torino e Roma perché intervenga il Gruppo operativo mobile (Gom). Questo anche in seguito ad “Una protesta di alcuni detenuti che nei giorni scorsi si sono rifiutati di rientrare in cella e hanno dormito sui materassi in corridoio per poi insediarsi nel box riservato all’agente di polizia penitenziaria in servizio”. E aggiungono: “Se la situazione ad Asti sta reggendo è solo grazie al poco personale di polizia penitenziaria che con orari ben oltre l’ordinario si sacrificano per la sicurezza dell’istituto”. Nella mattinata di oggi 21 marzo, in carcere c’è stata anche la visita della Garante comunale dei detenuti Paola Ferlauto. Sergio Rovasio e Mario Barbaro, Presidente e Coordinatore dell’Associazione Marco Pannella di Torino, hanno scritto al Presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio e all’assessore regionale alla Sanità Luigi Icardi, perché si possano scongiurare rischi di ulteriori contagi. Nei prossimi giorni l’associazione potrebbe anche indire una protesta non violenta con lo sciopero della fame. Palermo. Rigenerazione. Nuove sperimentazioni teatrali dentro e fuori il carcere Comunicato stampa, 22 marzo 2021 Il 26 marzo evento in diretta streaming per il progetto Per Aspera ad Astra. Testimoni di un tempo durissimo per il teatro, che cerca nuove strade per reinventarsi e si interroga sul futuro. C’è anche la siciliana Baccanica, fondata dalla regista palermitana Daniela Mangiacavallo, tra le associazioni e gli artisti che il 26 marzo, in occasione della Giornata Mondiale del Teatro porteranno il loro contributo di idee e ispirazioni al grande evento streaming “Rigenerazione. Nuove sperimentazioni teatrali dentro e fuori il carcere” che ha tra i propri ospiti anche il ministro della Cultura, Dario Franceschini. Il progetto “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” è promosso da Acri e sostenuto da dieci fondazioni associate: da tre anni coinvolge circa 250 detenuti, di dodici carceri italiane, in percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro. Per partecipare all’evento è richiesta la registrazione, entro il 23 marzo, a questo link: https://www.acri.it/peraspera21/ Il convegno, che si terrà in diretta streaming, dalle 10.30 alle 12.30, è condotto da Andrea Delogu. Interverranno i testimoni dell’iniziativa: Enrico Casale, Associazione culturale Scarti; Ibrahima Kandji, attore Compagnia della Fortezza; Micaela Casalboni, Teatro dell’Argine. A seguire, Francesco Profumo, presidente di Acri; Bernardo Petralia, capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria; Aniello Arena, attore; Giorgia Cardaci, attrice, vicepresidente Associazione Unita - Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo. Concluderà il ministro Franceschini. Per l’occasione verrà anche proiettato il video di azione collettiva “Uscite dal mondo”, diretto dal regista Armando Punzo, ideatore dell’acclamata Compagnia della Fortezza, con la drammaturgia musicale di Andrea Salvadori e la partecipazione di: Ivana Trettel - Opera Liquida, Enrico Casale - Compagnia Scarti, Daniela Mangiacavallo - Associazione Baccanica, Franco Carapelle ed Elisabetta Baro - Teatro e Società, Micaela Casalboni -Teatro dell’Argine, Vittoria Corallo - Teatro Stabile dell’Umbria, Alessandro Mascia - Cada Die Teatro, Sandro Baldacci - Teatro Necessario, Marco Mucaria e Grazia Isoardi - Voci Erranti Onlus, Alessia Gennari - FormAttArt, Leonardo Tosini e Marco Mattiazzo -Teatro Stabile del Veneto. Un’occasione di riflessione in un momento in cui lavorare in presenza è difficile per il rispetto delle norme anti Covid, ma l’amore e la passione per il teatro non si fermano. Formatasi all’interno della Compagnia della Fortezza di Volterra, primo Centro Nazionale di teatro e carcere, fondato trent’anni fa dal regista e drammaturgo Armando Punzo, Daniela Mangiacavallo ha importato a Palermo, al carcere Pagliarelli-Lo Russo, il modello Punzo, creando un dialogo profondo tra istituzioni, pubblico e detenuti stessi. L’obiettivo è fare del lavoro di attore un’autentica professione per i detenuti e non semplicemente un’attività riabilitativa, tanto che in questi anni Baccanica ha avviato all’interno dell’istituto corsi professionali per imparare i mestieri del teatro. Per ulteriori informazioni o chiarimenti: 0668184.286 Area.Comunicazione@acri.it Disordini dell’anima sociale in un mondo troppo veloce di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 22 marzo 2021 Il terzo romanzo del costituzionalista Michele Ainis è candidato allo Strega su proposta di Sabino Cassese. Che tipo di reazione si dovrebbe avere ritrovandosi di fronte a un’altra persona, dopo essersi specchiati? Nessun panico. Si deve imparare ad abitare nella nuova persona, diversa rispetto a quella di prima. È questa la prima misura da prendere per non farsi inghiottire dal vortice della disperazione. È quello che fa Oscar, protagonista del nuovo romanzo di Michele Ainis. In “Disordini” (La nave di Teseo, collana Oceani, pp. 160, euro 17) il costituzionalista, lasciati manuali e codici, indaga sulla profondità e sulle mille sfaccettature dell’io. Oscar è professore associato di giurisprudenza - uno degli elementi di contatto tra chi si muove tra le pagine del romanzo e chi l’ha scritto - e nel momento in cui nello specchio vede un altro pensa a una allucinazione, cade nello sconforto. Amici, conoscenti e colleghi non lo riconosceranno più. Ma poi si carica di buona volontà. Dovrà adattarsi alla nuova persona che è diventato. Sembra quasi una traccia per affrontare questo periodo di pandemia, dove ognuno di noi dovrebbe essere impegnato a trarre il massimo delle forze per evitare di sprofondare nella paura e perdere definitivamente la fiducia verso il futuro. Trovatosi di fronte a un’altra persona Oscar inizia il suo viaggio. Parte verso una meta che si presentava ogni anno, d’estate: il paese di mare Roseto degli Abruzzi. Nella pensione Cacioli viene riconosciuto dalla proprietaria. Non tutto, quindi, è perduto. Le sembianze sono cambiate, ma altri elementi distintivi della sua persona sembrano essere stati conservati. Alcune atmosfere piene, ma al tempo stesso riempite dalla solitudine delle ambientazioni, sembrano ricordare l’attesa e l’inquietudine dei quadri di Edward Hopper. A Roseto iniziano gli incontri di Oscar. Come quello con la vecchia fidanzata e con altri personaggi fuori dalla norma. Da qui prende il via lo stravolgimento collettivo con al centro il protagonista del romanzo. Oscar si rende conto che la metamorfosi ha interessato tante persone da quelle a lui più vicine a quelle meno importanti. È un morbo che avvolge tutti, intacca e disgrega la società civile, senza risparmiare la politica, sempre cara a noi italiani. La politica la si può contestare, detestare, far finta di ignorarla, ma ritorna sempre nei nostri ragionamenti. La si caccia dalla porta per farla poi ritornare dalla finestra; entra sempre nella vita di tutti noi e si ritaglia uno spazio significativo pure nella letteratura. Quello di Ainis è un viaggio tra fughe d’amore e nostalgie profonde, tra smarrimenti individuali e crisi generali. Tra regole assurde e libertà promesse, in un mondo a sua volta assurdo. Ma tanto, tanto simile alla nostra realtà. “Oscar - dice al Dubbio il professor Ainis - non è il mio alter ego. Nessuno scrittore costruirebbe la propria faccia allo specchio per poi modificarla. Nel mio romanzo ho dato vita ad un’operazione di genere che ha richiesto molto impegno”. Nel suo terzo romanzo Michele Ainis propone il tema dell’identità. “In Disordini - riflette l’autore - sdoppio l’identità e creo un rapporto tra letteratura e vita. Proprio come ho fatto in uno dei miei romanzi che mi stanno più a cuore, Risa, propongo un gioco di scambi e di doppie sembianze. Oscar quando nota i cambiamenti che l’hanno riguardato fa di tutto per restare fermo e distaccato. Cerca di essere razionale come risposta a una situazione imprevedibile. Scopre di avere inclinazioni e di provare sentimenti che non avrebbe mai immaginato”. Il rapporto di un giurista con la narrativa non è detto che sia sempre armonico. “Posso dire - afferma Ainis - che per quanto mi riguarda è piuttosto impegnativo. Quando devi scrivere un pezzo giuridico parti sempre da una base, da qualcosa, da un testo che esiste già. Per un artista invece tutto è ingegno e fantasia. Quest’ultimo elemento lo ritengo importante per un giurista come spinta energetica per argomentare al meglio e fino in fondo”. Da giurista a giurista il romanzo Disordini è stato candidato al Premio Strega su proposta di Sabino Cassese. “Sono grato alla generosità di Sabino Cassese”, commenta Ainis. “Mi ha fatto molto piacere prosegue - il suo apprezzamento. Le sue sono parole importanti perché provengono da una persona che ha un angolo visuale molto ampio”. Il giudice emerito della Corte costituzionale in effetti parla in maniera entusiastica di Disordini. “Nel racconto, che nasconde molti risvolti e sorprese - scrive Cassese - si intrecciano una riflessione eraclitea sul mutamento prodotto dal tempo sull’uomo e un apologo sul disordine che sembra dominare il presente. Stendhal ha distinto il raccontare narrativamente dal raccontare filosoficamente. Ainis, alla terza prova con il genere, sa raccontare narrativamente una vicenda che nasconde una più profonda narrazione filosofica, riprendendo la linea di svolgimento che va da Ovidio a Kafka”. Ai lavoratori in smart working vanno riconosciuti gli stessi diritti di Titti Di Salvo Il Dubbio, 22 marzo 2021 Durante il lockdown con lo smart working è aumentato per le donne non solo il carico di lavoro ma anche la fatica e lo stress. Di nuovo il Paese si ferma. Di nuovo quasi ovunque le scuole chiudono, i negozi abbassano le saracinesche. Così come i bar e i ristoranti. Le città si spengono. Un nuovo governo è chiamato alla prova di provvedimenti che sostengano l’economia, le persone, le lavoratrici e i lavoratori, le famiglie e tengano insieme emergenza e prospettiva. Già nell’anno che abbiamo alle spalle lo smart working ha consentito la continuità produttiva e il distanziamento sociale necessario per battere la pandemia. E ha cambiato la vita delle persone, delle imprese e delle città. Sarà un cambiamento certamente non transitorio. Il carattere del cambiamento però non è già scritto e non è neutro. Dipenderà dalla lungimiranza delle scelte con cui se ne affronteranno i limiti e se ne valorizzeranno i vantaggi. Certo ciò che abbiamo visto in questi mesi assomiglia più al telelavoro, ma è stato sufficiente per valutarne l’impatto, per apprezzarne i vantaggi e leggere i limiti. Che dal punto di vista delle lavoratrici, dei lavoratori e dell’impresa andranno affrontati con la contrattazione collettiva aziendale e territoriale e con una legge leggera di sostegno. Senza smarrire nell’emergenza tre punti fermi decisivi perché il cambiamento sia positivo: lo smart working non fa rima con home working. Non è uno strumento di conciliazione dedicato alle donne. E soprattutto è una modalità flessibile di lavoro. Lo smart working cioè è lavoro e a chi lo svolge vanno riconosciuti gli stessi diritti e richiesti gli stessi doveri previsti per chi non lavora da remoto. Come peraltro dice la legge 81/ 2017. Per questo è un errore d’impostazione negare il bonus baby sitter a chi è smart. Come fa il Decreto sostegni appena varato. Come se il lavoro da remoto fosse in sé uno strumento di conciliazione e che per questo a chi lo svolge non siano riconosciuti gli stessi supporti al lavoro di cura destinati a chi non lavora da remoto. Un errore per l’oggi: nega la realtà di donne (o uomini) che si trovano, in queste ore e in questi giorni, strette tra la tenaglia dello smart working, della chiusura delle scuole e della Dad, della cura in generale. In case spesso prive degli spazi e della connessione necessaria. E un errore d’impostazione carico di conseguenze per il futuro. Perché fuori dal lockdown la coincidenza dello smart working con l’home working non è per nulla obbligatoria. Sono sempre più diffusi i coworking, spazi condivisi di lavoro, attrezzati con servizi, dotazioni informatiche e standard di sicurezza accertati e accertabili. Che rispondono alla esigenza di socialità delle persone e alla necessità di qualità di servizi di connessione di cui le singole abitazioni sono prive. In secondo luogo. Durante il lockdown totale con lo smart working è aumentato per le donne non solo il carico di lavoro ma anche la fatica e lo stress per la somma in contemporanea di più lavori: da quello al computer al ragù, alla Dad, all’aspirapolvere, alla cura dei figli. Non sarebbe stato obbligatorio che toccasse solo alle donne caricarsi del lavoro di cura, che in tempi normali è già sulle loro spalle per più del 70%. Non è lo smart working che l’ha determinato ma gli stereotipi nella divisione dei ruoli: alle donne la cura, il lavoro riproduttivo cioè, e agli uomini il lavoro produttivo fuori casa. Non è cambiata la sostanza anche quando sono cambiate le condizioni. Si può cambiare. Gli stereotipi possono essere aggrediti da politiche pubbliche adeguate: per sostenere in modo deciso la condivisione delle responsabilità della cura con tre mesi di congedo di paternità obbligatorio. Oltre che a scuola, educando al rispetto. Nel Family Act lo smart working è definita come misura per aiutare l’occupazione femminile e anche questo però va cambiato chiarendo che si tratta di una modalità di lavoro che riguarda donne e uomini. Per questo chi lavora in smart working deve avere a disposizione tutte le misure e le risorse di sostegno previste per la genitorialità e la cura: dai voucher baby-sitter ai congedi. E anche per questo il decreto sostegni va rapidamente cambiato. Non è una sfida solo climatica, dove manca l’acqua ci sono povertà e fame di Maurizio Martina* Corriere della Sera, 22 marzo 2021 Secondo dati Fao, negli ultimi vent’anni le riserve di acqua dolce sono diminuite di oltre il 20 percento. Occorrono investimenti per l’irrigazione e gli impianti, l’occasione è oggi. Due miliardi e duecento milioni di persone nel mondo vivono ancora senza accesso quotidiano alle risorse idriche. È fondamentale ricordare questo dato oggi, Giornata Mondiale dell’Acqua. Ma è ancora più importante agire ogni giorno con coerenza per fare in modo che questi numeri diminuiscano velocemente e si azzerino davvero, così da raggiungere l’ambizioso Obiettivo 6 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Non possiamo non riflettere a fondo su come stia cambiando la situazione idrica in relazione ai cambiamenti climatici che stiamo vivendo. L’acqua è il bene comune primario per eccellenza ma spesso, a molti, sembra ancora sfuggire questa importanza. Secondo dati FAO, negli ultimi vent’anni le riserve di acqua dolce sono diminuite di oltre il 20 percento. Ciò impone soprattutto al settore agricolo, che è tra gli ambiti produttivi proprio il principale consumatore d’acqua con oltre il 70 percento dei prelievi idrici, un cambio di passo per produrre di più con un minor dispendio di risorse. È questa la sfida irrinunciabile se si vogliono davvero fare passi verso una maggiore sostenibilità dei modelli produttivi territoriali. Da una parte in diverse zone del mondo la carenza cronica d’acqua è ancora una drammatica emergenza che minaccia la sicurezza alimentare di intere comunità e dunque la vita di milioni di persone. Dall’altra, in troppe zone del pianeta, assistiamo ogni giorno a sprechi e perdite idriche: un contrasto insopportabile e insostenibile. Per l’ottanta percento dei terreni coltivati e il sessanta percento della produzione agricola mondiale, l’apporto d’acqua dipende innanzitutto dalla piovosità e bisogna dunque insistere per investimenti nella raccolta e nella conservazione delle acque nelle zone irrigate e per la modernizzazione dei sistemi irrigui in quelle aree che necessitano di metodi irrigui artificiali. È necessario accompagnare questi investimenti anche con le migliori pratiche agronomiche, valorizzando le varietà colturali più resistenti alla siccità ed è centrale applicare efficaci sistemi di assegnazione delle risorse idriche, come i diritti e le quote regolati dai soggetti pubblici a garanzia della collettività, per garantire un accesso equo a questo bene essenziale. Di certo l’acqua non può essere trattata alla stregua di un semplice bene di consumo e di mercato. Il quaranta per cento delle persone che vivono in aree in cui l’agricoltura ha gravi carenze d’acqua è localizzato in Asia orientale e sudorientale. Condizioni analoghe di grave difficolta si vivono in Africa settentrionale e Asia occidentale. Nella sola Africa subsahariana sono cinquanta milioni le persone che vivono dove almeno ogni tre anni si assiste a una grave siccità con conseguenze disastrose su pascoli e coltivazioni. In sintesi, dove manca l’acqua ci sono povertà e fame. Accanto a questi dati assai difficili, ce ne sono altri che lasciano sperare. Diverse analisi indicano che entro il 2050 le superfici coltivate con tecniche irrigue cresceranno ovunque nel mondo e raddoppieranno in particolare nell’Africa subsahariana. In queste zone, dove solo il tre percento delle terre coltivate è attrezzato per l’irrigazione anche a causa delle difficoltà a operare sui regimi di proprietà e sull’accesso ai finanziamenti pubblici, supportare i sistemi irrigui di piccola scala può essere di gran lunga più promettente che sostenere grandi e complessi progetti. Se ci spostiamo nel nostro Paese, di certo dobbiamo riconoscere che l’Italia certo ha caratteristiche proprie, ma non è esente da questa sfida. Sulla penisola cadono circa mille millimetri di pioggia ogni anno e i fenomeni metereologici - come sappiamo - si sono radicalizzati per intensità negli ultimi anni. Allo stato attuale dei dati forniti dall’Associazione Nazionale Consorzi di gestione, nel nord Italia assistiamo a un calo delle riserve idriche mentre di segno opposto è la situazione dei bacini nel mezzogiorno. I cambiamenti climatici in atto anche alle nostre latitudini accentuano l’andamento torrentizio dei più importanti corsi d’acqua. Non si tratta di un cambiamento di poco conto. In troppe aree del Paese, specie al Sud purtroppo, assistiamo a sprechi e perdite d’acqua e a una scarsa capacità di raccogliere e gestire questo bene essenziale. Oltre il trentasette per cento dell’acqua immessa nelle reti dei comuni capoluogo si perde e non arriva ai cittadini mentre a livello agricolo sono circa venti i miliardi i metri cubi d’acqua usati nei campi per la produzione di cibo. Siamo i secondi in Europa, dopo la Spagna, in termini di superficie irrigata. E proprio l’acqua introduce anche un differenziale significativo di valore, tra le colture irrigate o meno, stimato l’anno scorso nell’ordine di circa 13.500 euro a ettaro. Una differenza importante che ricade sulla redditività delle diverse esperienze agricole territoriali e di settore. Ci sono anche segnali positivi che indicano vie interessanti e moderne per una corretta gestione della ricorsa idrica. Dal lato delle tecnologie l’Italia possiede professionalità e competenze all’avanguardia che vanno certamente meglio valorizzate. Ma anche nell’ammodernamento degli strumenti territoriali, a volte, si sanno sperimentare vie interessanti. Come ad esempio i Contratti di Fiume o di Foce che recentemente si sono diffusi in diverse zone e che creano le condizioni per una gestione aperta, accurata ed efficace insistendo su un approccio legato alla logica di bacino idrografico. È indubbio che anche da noi occorre ora aumentare la resilienza dei territori ai cambiamenti climatici e riflettere strategicamente sul bene idrico migliorandone sia il risparmio che l’efficienza di gestione. Per questo, se c’è oggi la possibilità di concretizzare un salto di qualità degli investimenti infrastrutturali pubblici anche con le risorse europee, bisogna toccare anche questo fronte e supportare i lavori di ammodernamento degli impianti in grado di riportare a piena efficienza tanti bacini in difficoltà. E servono invasi in tutto il Paese per raccogliere l’acqua piovana che oggi va sprecata 9 volte su 10. A metà del 1800, in Piemonte, prese le mosse la realizzazione del canale artificiale di cui fu tra i primi promotori proprio Cavour. Un’opera idraulica eccezionale a supporto dell’agricoltura, lunga ben ottantatré chilometri da Chivasso fino al Ticino. Ancora oggi questo canale è una infrastruttura fondamentale di servizio per la nostra agricoltura e quelle terre e ci testimonia, concretamente, come sia possibile agire in modo corretto, innovativo e sostenibile proprio per gestire una risorsa straordinariamente preziosa come l’acqua. Il Recovery Plan può essere l’occasione per pensare a una nuova stagione delle infrastrutture irrigue del futuro. L’occasione è oggi. *Vice direttore generale Fao Libia. Tangenti, segreti, torture, mafia politica, faide e patti indicibili di Nello Scavo Avvenire, 22 marzo 2021 Gli ispettori delle Nazioni Unite hanno consegnato un report di 548 pagine. Dalle mazzette per tentare di pilotare la nomina del presidente alle accuse per l’intesa Roma-Tripoli. Tangenti per far nominare il nuovo presidente. Faide tra milizie e accordi indicibili con governi esteri. Il flop dell’embargo sulle armi. Le violazioni dei diritti umani, i campi di tortura istituzionalizzati. Il contrabbando di petrolio, armi, droga ed esseri umani, da maneggiare come pedine nella partita per il potere interno, spaventando i governi europei disposti a fare arrivare un fiume di soldi pur di millantare d’essere riusciti a fermare gli scafisti. E poi i rimproveri per il memorandum d’intesa tra Roma e Tripoli. La Libia raccontata nelle 548 pagine dell’ultimo rapporto degli ispettori delle Nazioni Unite è uno Stato a pezzi, sfasciato sotto la spinta di potenze esterne, cannibalizzato dalle mafie che possono contare su referenti politici interni e padrini nei palazzi presidenziali all’estero. Nel dossier, che riassume le investigazioni dell’ultimo anno, ci sono omissis e molti fronti lasciati aperti. I tentativi di ricomposizione tra fazioni non sono facili, e forse anche per non scoraggiare un certo ritrovato attivismo della comunità internazionale il documento si tiene alla larga da previsioni catastrofiche. Ma non vuol dire scambiare la speranza con l’ottimismo. Prendiamo i campi di prigionia, nei quali avvengono “tortura, violenza sessuale e di genere, lavoro forzato e uccisioni”. I vertici delle Forze armate di Tripoli hanno spiegato all’Onu che quelle galere “sono una necessità della politica migratoria degli Stati membri dell’Unione Europea”. E non è che l’inizio. Tra le pagine oltre a testimonianze e documenti ci sono copie di messaggi privati, foto satellitari, immagini scattate sul campo, contratti con mercenari e fornitori di armi. Tutto con nomi e cognomi, e con le conferme alle denunce finite in questi anni sulle dei giornali di tutto il mondo. Cominciamo dalla fine. Dal recente negoziato per la nomina del governo unitario di transizione che dovrebbe condurre il Paese fino alle elezioni del 24 dicembre. Scrivono gli ispettori: “Durante il round iniziale del Forum di dialogo politico libico facilitato dalle Nazioni Unite, tenutosi all’inizio di novembre 2020, il gruppo (di esperti Onu, ndr) ha stabilito che ad almeno tre partecipanti sono state offerte tangenti per votare un candidato specifico come primo ministro”. A quanto se ne sa, “i partecipanti al forum coinvolti nell’episodio sono stati categorici nel loro rifiuto delle tangenti”, segnalate all’ufficio del procuratore generale libico, “che ha ricevuto denunce da membri del Forum e gruppi della società civile sulla questione”. Sullo sfondo il conflitto che non è ancora cronaca del passato. “I gruppi terroristici - si legge - sono rimasti attivi in ??Libia, anche se con attività ridotte. I loro atti di violenza continuano ad avere un effetto dirompente sulla stabilità e sulla sicurezza del Paese”. Di armi, del resto, non ne mancano. L’embargo del 2011 “che obbligava gli Stati membri delle Nazioni Unite a impedire la fornitura diretta o indiretta alla Libia rimane totalmente inefficace”. Non bastasse, “l’attuazione delle misure di congelamento dei beni e di divieto di viaggio per le persone indicate dall’Onu rimane inefficace”, ha aggiunto il gruppo di esperti riferendosi anche a trafficanti di uomini e petrolio che hanno spostato capitali e patrimoni fuori dal Paese. Per comprendere in che modo i drammi dei migranti prigionieri influiscano sulle dispute interne e nelle relazioni internazionali, il “panel of experts” menziona una serie di passaggi. “Nel febbraio 2020 è stato rinnovato per tre anni il memorandum d’intesa Libia-Italia sulla migrazione”. L’accordo, i cui dettagli operativi non sono mai stati resi noti dai governi italiani, “prevede il supporto italiano alle autorità marittime libiche per intercettare le imbarcazioni e riportare i migranti in Libia. Nel luglio 2020 il parlamento italiano ha approvato la componente finanziaria dell’accordo”. Un mese dopo il rinnovo del memorandum, nel marzo 2020, “l’Ue ha deciso di porre fine a un’operazione contro il contrabbando di migranti che coinvolgeva principalmente aerei di sorveglianza, nota come Operazione Sophia, e di schierare navi militari con il compito principale di sostenere l’embargo sulle armi delle Nazioni Unite, sotto il nome di Operazione Irini”. Il risultato è stato quello di fare il solletico agli scafisti, sottrarre il Mediterraneo centrale al prevalente controllo navale italiano, e non riuscire neanche a ostacolare la consegna di armi da guerra al generale Haftar in Cirenaica e al governo centrale di Tripoli. Nel giugno 2020 la Libia ha firmato con Malta un accordo “nel settore della lotta all’immigrazione clandestina con il quale Malta si è impegnata a finanziare due centri di coordinamento e a proporre alla Commissione europea e agli Stati membri dell’Europa l’aumento del sostegno finanziario per aiutare il governo di accordo nazionale, in particolare, nel rendere sicuri i confini meridionali della Libia e nel rafforzare le capacità di intercettazione dei migranti”. Nessun riferimento alla protezione dei diritti umani. Nel corso dei colloqui con gli ispettori il ministro dell’Interno Fathi Bashaga, riconfermato anche nel nuovo esecutivo, “ha sottolineato che meno dello 0,5% di tutti i migranti in Libia sono detenuti in centri di detenzione (vale a dire, circa 2.000 dei 574.146 migranti presenti in Libia a novembre 2020). La stragrande maggioranza era tenuta in strutture non ufficiali in condizioni di vita degradanti”. Tra le strutture ufficiali, che dunque ricevono sostegno dal governo centrale attraverso vari progetti di finanziamento dall’Italia e dall’Ue, il luogo peggiore resta Zawyah, il centro petrolifero sulla costa, lungo la strada tra Tripoli e il confine con la Tunisia. Il campo di prigionia si chiama “Al-Nasr”, dal nome della milizia che lo gestisce da un decennio. “Il panel ha scoperto che il suo direttore de facto, Osama al-Kuni Ibrahim, ha commesso diverse violazioni del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei diritti umani”. Si tratta di un nome noto ai lettori di Avvenire. Nel settembre del 2019 per la prima volta abbiamo pubblicato le sue foto e ricostruita la sua storia, legata a doppio filo con il comandante “Bija” e i capi della potente milizia, i fratelli Kashlaf. Negli ultimi mesi la milizia ha subito per mano del ministro dell’Interno Bashaga quello che sembra un avvertimento, con l’arresto nell’ottobre scorso dello stesso Bija “accusato di traffico di esseri umani e contrabbando di carburante”. Tuttavia, viene precisato, Bija si trova in “detenzione provvisoria”. Curiosamente, le autorità non hanno fornito agli ispettori “dettagli sull’indagine riguardo le finanze e le proprietà” riconducibili a Bija. In ogni caso “le circostanze del suo arresto nell’ottobre 2020 dimostrano gli interessi contrastanti all’interno dei servizi di sicurezza del governo di accordo nazionale, a scapito dell’applicazione della legge”. In altre parole al-Milad ha potuto godere di protezioni interne e internazionali e, al momento, anche la sua posizione giudiziaria non è delineata, tanto da definire “provvisorio” lo stato di detenzione. A Zawyah i migranti prigionieri “hanno raccontato di atti di rapimento a scopo di riscatto, tortura, violenza sessuale e di genere, lavoro forzato e uccisioni. Il centro è ancora in funzione, nonostante le dichiarazioni che regolarmente ne annunciano la chiusura”. Nel report viene tracciata una mappa delle “rete di Zawyah” e dei molteplici interessi del clan al-Nasr. “La brigata al-Nasr, guidata da Mohammed Al Amin Al-Arabi Kashlaf, mantiene il controllo del complesso petrolifero di Zawiyah. Fino alla sua detenzione, Abd Al-Rahman al-Milad (Bija) era il capo de facto del distaccamento della Guardia costiera libica presso il complesso petrolifero”. Alcune nuove e più piccole bande di contrabbandieri hanno cercato di inserirsi nel business, “aumentando le tensioni con i gruppi preesistenti”. Con scarsi risultati: “La rete Zawiyah - riassume il report - ha esercitato grandi sforzi per mantenere lo status quo in città e mantiene il suo ruolo centrale e preminente nel contrabbando di carburante”. Contrabbandieri e trafficanti possono ancora vantare un credito nei confronti del governo centrale. Durante l’aggressione del generale Haftar, la coalizione di milizie e forze armate che sosteneva il governo centrale di Tripoli (Gna), “i contrabbandieri sono diventati molto visibili nel corso della controffensiva. Il 13 aprile 2020, un video online mostrava al-Milad (Bija) unirsi all’operazione del Gna a Sabratha”, come mostra l’immagine qui sotto: l’uomo in alto cerchiato in rosso è proprio Bija durante i giorni della battaglia a sostegno del governo centale di Tripoli. Il 15 aprile 2020 un altro boss, al-Fitouri, “ne ha seguito l’esempio ed è apparso in un video online in cui ha dichiarato la sua cooperazione con il Gna”. Molte immagini di uno dei fratelli Kashlaf “sono circolate online mostrandolo presumibilmente a Sabratha o a Surman”, a riprova della “illegalità dilagante che ha avuto luogo intorno alla metà di aprile come parte dell’operazione del Gna”. Le esportazioni illecite di petrolio sono in calo, ma a causa del Covid. Al contrario non diminuiscono le operazioni dei trafficanti di esseri umani. Che i campi di prigionia ufficiali siano ingestibili anche a causa del sovraffollamento lo ha ammesso anche il colonnello Abdallah Toumia capo della guardia costiera di Tripoli: “Ha affermato al panel che a causa del sovraffollamento dei centri di detenzione, la Guardia costiera libica è stata “talvolta costretta a lasciarle andare i migranti”. Un “rilascio” che non ha nulla a che fare con la “liberazione”. Poiché in queste circostanze, appena fuori dai porti di sbarco, i trafficanti attendono i migranti “rilasciati” per catturarli e condurli nelle prigioni clandestine. Ma a chi gli chiede il perché le gattabuie per stranieri non siano ancora stati chiusi, il colonnello Mabrouk Abdelhafid, capo del Direttorato anti-immigrazione illegale, risponde “collegando la necessità dei centri di detenzione alla politica migratoria degli Stati membri dell’Unione Europea, sottolineando che il 99% dei migranti presenti nei centri di detenzione erano stati intercettati in mare e consegnati dalla Guardia Costiera libica. Mentre ha respinto l’idea di chiudere tutti i centri di detenzione, ha presentato al panel una politica di riorganizzazione, che avrebbe dovuto interrompere le reti di contrabbando e consentire un migliore controllo da parte della Direzione”. A scaricare le responsabilità ancora una volta sui Paesi europei è proprio l’uomo forte del nuovo governo, il ministro dell’Interno Fathi Bashagha, che ha mantenuto l’incarico nell’esecutivo di transizione dopo essere uscito perdente nella corsa presidenziale. Incontrando il “panel” delle Nazioni Unite è stato categorico “ha riconosciuto le sfide poste dalla situazione dei centri di detenzione - si legge. Ma ha anche legato l’attività delle prigioni alla pressione esercitata da alcuni Paesi europei per impedire ai migranti di attraversare il Mediterraneo”. In particolare alludendo all’Italia. Egitto. Sanaa come Zaki: “Rapita” dalla polizia, in carcere per i post di Viviana Mazza Corriere della Sera, 22 marzo 2021 Condannata a un anno e mezzo di carcere. L’accusa: “Ha pubblicato notizie false sulla diffusione del coronavirus nelle prigioni e offeso un ufficiale”. La famiglia: aiutateci- Per la festa della mamma, che in Egitto era ieri, Laila Soueif riceverà in regalo la possibilità di far visita ai suoi due figli in carcere una volta in più del previsto: oggi vedrà Sanaa, dopodomani Alaa. Di solito - ci dice al telefono dal Cairo - è possibile solo una volta al mese, per venti minuti, e per un solo membro della famiglia. “Giustificano queste restrizioni con il coronavirus”. La sua è la famiglia di attivisti più nota dell’Egitto. Mercoledì scorso, Sanaa Seif, 27 anni, la più giovane dei suoi tre figli, è stata condannata a un anno e mezzo di carcere: un anno per aver “pubblicato fake news” sulla pandemia in Egitto e la diffusione del virus nelle prigioni; sei mesi per offesa ad un ufficiale di polizia. La giovane aveva criticato su Facebook la gestione del Covid da parte delle autorità carcerarie. Non era l’unica. Un rapporto di esperti delle Nazioni Unite lo scorso agosto sollevava sospetti sullo scoppio di focolai in diverse prigioni e stazioni di polizia egiziane e Human Rights Watch aveva “notizie credibili” sulla morte per Covid di almeno 14 prigionieri tra marzo e luglio. Lo scorso giugno, Sanaa, con la sorella Mona e la madre Laila, avevano dormito per due notti davanti al carcere di Tora in attesa di ricevere una lettera di Alaa Abdel Fattah, il fratello imprigionato dal settembre 2019 con l’accusa di aver organizzato proteste contro il regime di Al Sisi (è solo l’ultimo dei suoi periodi di detenzione; Alaa non ha potuto né veder morire il padre né veder nascere il figlio di 9 anni). La madre e le sorelle non lo vedevano dal marzo 2020: le visite erano state vietate, anche allora per Covid, ma i guardiani avevano promesso di recapitare la lettera. Mentre le attiviste dormivano davanti al carcere, sono state aggredite e derubate da donne che sospettano siano state mandate dalle autorità. Il giorno dopo, il 23 giugno, si sono recate tutte e tre in procura, insieme con i loro avvocati, per fare denuncia e mostrare i lividi, ed è allora che Sanaa è stata “rapita in strada da agenti in borghese”. L’hanno portata via in un minibus bianco alle 2 del pomeriggio. Due ore dopo, è apparsa alla procura della Sicurezza di Stato che ha ordinato la sua detenzione preventiva con l’accusa di incitamento al terrorismo, diffusione di notizie false e uso improprio dei social media. Accuse simili a quelle che hanno raggiunto, tra gli altri, Patrick Zaki, rinchiuso a Tora. Docente di matematica, Laila è sorella della scrittrice Ahdaf Soueif e suo marito era l’avvocato dei diritti umani Ahmed Seif Al Islam, a sua volta imprigionato quattro volte sotto i presidenti Anwar Sadat e Hosni Mubarak e morto nel 2014. Mona, la sorella di Sanaa, è stata la leader della campagna contro i processi militari ai quali l’esercito dopo la rivoluzione del 2011 sottopose almeno 1.200 civili. La scorsa settimana 31 Paesi, tra cui l’Italia, hanno dichiarato preoccupazione per i diritti umani in Egitto, inclusa “l’applicazione di norme anti terrorismo a chi solleva critiche pacifiche”. Il Cairo ha replicato che hanno ricevuto “informazioni inaccurate”. “Voi italiani - dice Laila Soueif - dovete fare pressione perché il vostro governo non venda armi ad Al-Sisi”. Se le chiedi se intenda continuare il suo attivismo, risponde: “Finché i miei figli sono in prigione, non ho scelta”.