Un’altra giustizia è possibile di Maurizio Crippa Il Foglio, 21 marzo 2021 Avvicinare il male e “ripararlo”. Per chi l’ha compiuto e per le vittime. Memorie (e pensieri) del criminologo Ceretti. “Professo’, ogni sera, prima che io mi addormenti, il diavolo viene e mi accarezza i capelli”. Una mattina d’autunno del 2016, in una cella del Due Palazzi di Padova, si sentì rispondere così da un detenuto. Lo avevano chiamato per una mediazione nel conflitto tra due carcerati, ormai fuori controllo. Non era certo la prima volta che oltrepassava i cancelli di una prigione, fa parte del suo lavoro, dei suoi molti lavori. Uno di quei lavori che si scelgono, o arrivano, per un’intima necessità. Sono lì che attendono a ogni passo del cammino. Non era la prima volta e in vita sua aveva già sentito di tutto, tragedie, esplosioni di rabbia e dolore. Le forme del male. Ma quel diavolo silenzioso e carezzevole se l’è portato dentro, “è una risposta che sento anche mia”. Così l’ha messa a titolo di un libro straordinario, che racconta il suo lavoro e la sua vita: “Il diavolo mi accarezza i capelli - Memorie di un criminologo”. Adolfo Ceretti è un criminologo di fama mondiale, professore ordinario alla Bicocca di Milano e visiting professor all’Università Federale di Rio de Janeiro. Saggista, consulente di tribunali e istituzioni, collaboratore in disegni di legge innovativi in tema di giustizia. Nelle sue tante vite ce n’è una che gli è particolarmente cara: l’idea di giustizia riparativa, che ha contribuito a introdurre in Italia e poi a rendere operativa. Qualche giorno fa il ministro Marta Cartabia, esponendo in commissione Giustizia della Camera il suo programma di lavoro ha parlato, oltre che delle riforme richieste dall’Europa per il Netx Generation Eu, anche di carcere: “Non è l’unico modo per scontare la pena”. E ha detto anche che il tempo è maturo per “aumentare il ruolo della giustizia riparativa”. Un cambio di prospettiva netto, rispetto agli ultimi anni, che lascia intravvedere uno spiraglio: un’altra giustizia è possibile. La giustizia riparativa è come il mare d’inverno, un concetto che nessuno considera. Chi si occupa professionalmente di queste cose, soprattutto nell’ambito dell’esecuzione della pena, sa di cosa si tratta, ne conosce prospettive di utilizzo e limiti. Ma nella maggior parte delle persone spesso prevale una generica confusione, l’idea che sia uno strumento di pena alternativa. Adolfo Ceretti ha dedicato molta della sua vita professionale e accademica, sempre rischiosamente vicina al male e a un bisogno personale e civile di porvi rimedio, alla giustizia riparativa. È una metodologia extragiudiziale, che non entra nei processi, ma attuata in disciplinato rapporto con i tribunali e i servizi sociali preposti. Serve a costruire un percorso differente, a leggere il reato attraverso le persone che lo hanno commesso e subìto. Dialogo, incontri (quando diviene possibile) fra colpevoli e vittime di reati più o meno gravi (si va dall’omicidio alle liti di condominio) in base a una serie di modelli mutuati in parte dalla psicologia, in parte dal metodo analitico, in parte da esempi alti e che hanno segnato la storia, come la Commissione per la verità e la riconciliazione di Desmond Tutu. Perché ci sono i carnefici, ma ci sono anche le vittime: che dalla giustizia ordinaria possono avere al massimo, se va bene, la punizione del colpevole. Ma quasi mai la possibilità di ricostruire una propria normalità, uscire dalla gabbia in cui il torto subìto li ha inchiodati. Basterebbe l’esempio delle vittime del terrorismo per chiarire il concetto. Dall’altra parte delle sbarre, ci sono colpevoli che spesso non hanno mai nemmeno compreso, “visto”, giudicato il loro comportamento. Un giorno usciranno dal carcere, non usciranno mai da se stessi. Esempi minori ed esempi eclatanti. “Ceretti, avevi ragione, non era una cazzata quella che mi avevi proposto. Ne valeva la pena”. Se lo sentì dire da Renato Vallanzasca, che ha trascorso in carcere più di metà della sua vita, ma mai prima di allora era riuscito a pensare a se stesso come a un autore di crimini, e come a un uomo che poteva cambiare. Adolfo Ceretti, “Gingio” per chi lo conosce e gli vuole bene, e tutti quelli che lo conoscono gli vogliono bene, questa idea è come l’avesse sempre coltivata, da quando studiava Giurisprudenza alla Statale di Milano. Così come fa parte della sua sensibilità, una sensibilità estrema, rabdomantica, la percezione del male e dell’ingiustizia. È pieno di Maestri (in maiuscolo) o di padri, il libro di Ceretti. Il suo, un rapporto muto e doloroso in una famiglia tradizionale e borghese, di cui racconta senza precauzioni. E gli altri. Il primo fu il magistrato Guido Galli, con cui voleva laurearsi e che fu ucciso quasi sotto i suoi occhi in un corridoio della Statale, nel 1980, dai terroristi di Prima Linea. Il lutto che ha deciso per lui, e lo ha portato a cercare Giandomenico Pisapia, che lavorava al nuovo Codice di procedura penale e che lo volle come assistente, “l’ultimo puledrino della mia scuderia”. O Mario Gozzini, “un rivoluzionario”, che nel 1986 aveva varato la legge sul carcere e le pene alternative, indicandogli un percorso di lavoro dentro e fuori dai luoghi di reclusione. E una riflessione scientifica e accademica diversa, negli anni in cui la criminologia era solo una tecnica del darwinismo sociale o una branca ideologica delle sociologie di sinistra. Non è un libro semplice, quello che Gingio Ceretti ha scritto (in collaborazione con Niccolò Nisivoccia, pubblicato a inizio pandemia dal Saggiatore). Per due motivi. Il più banale è che sono molti libri insieme. C’è la storia senza filtri della sua vita, compreso un 1968 vissuto a distanza per il rifiuto delle ideologie e della violenza, lui che vedrà ucciso il suo primo Maestro. C’è molto della storia della giustizia in Italia; c’è la riflessione teorica, c’è la critica dei sistemi giudiziari e carcerari di mezzo mondo. Ci sono le incursioni sul campo nella guerra delle Farc, del Fronte Polisario, delle carceri brasiliane, gli incontri straordinari nel Sudafrica pieno di vita e lacerazioni del post Apartheid. All’improvviso possono comparire come da altri mondi Boy George incontrato in una festa a Londra o Claudio Abbado. O giornate di epifania perfetta sulle colline di Città del Capo. Il secondo motivo, più difficile da dire in parole, è che Ceretti scrive come vive, senza pelle, con una profondità e un rimescolio continuo (le sue malattie, la sua famiglia, gli incontri, i dolori e sprazzi improvvisi di gioie) da cui spesso non è facile tenere le distanze, separare ciò che è prima persona da ciò che è riflessione, dottrina giuridica e sociologica. Per questo è un libro importante, che farebbero bene a leggere non solo gli addetti e i politici, ma anche i romanzieri. Ad esempio quando racconta dei suoi incontri con i ragazzi nei tribunali e nelle carceri minorili, l’urgenza di entrare in un dialogo non fittizio, le volte in cui ci è riuscito e quelle no. O quando racconta, da vero scrittore, il cambiamento che ha provocato nel suo modo di percepire e giudicare lo sguardo in un tribunale alle “mani di un condannato”. Un ex terrorista col viso di un ragazzino. Mani che avevano ucciso. “A fianco di quelle mani vidi personificarsi la vittima, la ‘sua vittima’, che fino a quel momento era stata solo un concetto astratto lontano”. Un pezzo importante della storia di Ceretti, forse il più noto anche alle cronache, è il lungo, faticoso, percorso di giustizia riparativa tra alcune vittime del terrorismo e alcuni loro carnefici. C’è di mezzo un altro maestro, il gesuita del San Fedele di Milano Guido Bertagna che lo coinvolse nell’avventura culminata in un libro incredibile, o impossibile, il Libro dell’incontro, un’opera collettiva composta da vittime e responsabili della lotta armata. Di mezzo c’è sempre il personale: tra loro c’era Sergio Segio, l’assassino di Guido Galli. Ci volle tempo e una tensione psichica allo spasimo per poter parlare con il proprio “nemico”. Fa parte di quel “demone che dorme dentro di noi” la cui scoperta, nelle condizioni più diverse della vita, è così essenziale, come una porta che apre su abissi o a nuove vette. Non c’è solo il terrorismo. Le prigioni di tutto il mondo sono piene di diavoli banali e comuni. La nostra società è piena di vittime non ascoltate, di vite interrotte. Possono essere i contesti mafiosi, possono essere le liti aziendali da comporre (ci lavorò, dentro una banca come Unicredit al tempo di Alessandro Profumo, per un codice di conciliazione per i dipendenti). C’è la vicenda di una ragazza di buona famiglia cui un coetaneo aveva rubato il cellulare sul tram. L’aveva inseguito, raggiunto, riempito di botte, fatto arrestare. Poi si era chiusa in casa in un silenzio di morte, tutti pensavano che fosse per la paura, il danno subìto. Invece era stata la scoperta di quel potenziale di violenza dentro di lei. Ne uscirono insieme, lei e il suo ladro. Riuscirono a incontrarsi. A vedersi. E siamo al cuore della questione. Uno dei pregi del libro è rimettere al centro la nostra storia, riannodando i fili di percorsi non compiuti. L’Italia (Ceretti di questo non parla direttamente) è un paese che da decenni non ha “riparato” le sue ferite. Gli anni del terrorismo con le vittime rimaste inascoltate, colpevolmente dallo stato, rinchiuse nel ruolo assegnato e dimenticato. I terroristi, impossibilitati a capire se stessi. I delitti di mafia. Poi una lunghissima stagione giudiziaria sempre condotta con l’unica idea di sorvegliare e punire, e una crescita smisurata nell’opinione pubblica di un senso di paura, spesso ingiustificato, di un desiderio vendicativo (populismo giudiziario, diciamo spesso) e di una separazione securitaria tra persone e persone, luoghi e luoghi che ha prodotto gli esiti noti di una società condizionata dalla paura. Con le conseguenze politiche che hanno condotto alla stagione giustizialista del buttiamo la chiave e del risentimento continuo. Un fenomeno mondiale, ovviamente. Paesi come il Brasile, che Ceretti ama proprio per quello che noi, solitamente, non capiamo e temiamo: l’assenza o il rimescolamento della storia, una diversa percezione dei corpi, la promiscuità assoluta. Ma i paesi occidentali, quanto a violenza e paura, non sono da meno. In tutti questi decenni in cui non si è saputo “riparare”, si sono come perduti maestri e percorsi diversi: sul processo penale, sul carcere ridotto a discarica sociale, sulla riflessione attorno alla giustizia. Così si parla anche di luoghi che non sono carcere, che sono le città con tassi di violenza esplosivi e che tutte le statistiche del mondo sanno non poter essere contenuti solo con muri più alti e sbarre più forti. Gingio Ceretti non è un criminologo da talk-show, categoria pessima. È stato perito in importanti processi che hanno agitato l’opinione pubblica ma non troverete il gossip, il dietro le quinte. Troverete la riflessione sul caso di Erica e Omar, la sua atipica e infernale tipicità, ma anche sulla possibilità di una redenzione cui nessuno voleva credere (c’entra un padre, anche qui). Troverete un accenno al complicato rapporto con Vallanzasca, ma solo a confermare il paradosso della pena che riguarda migliaia di individui: un uomo può passare la vita recluso senza mai arrivare a riflettere su che cosa lo ha condotto lì. Senza mai aver dialogato con se stesso. Senza mai aver convocato dentro se stesso il suo “parlamento interiore”, come lo definisce Ceretti con un’immagine magnifica. Ognuno di noi, anche di noi che non commettiamo reati, e persino chi non ha un’educazione morale e nemmeno un’etica primitiva (i viaggi di Ceretti in certe prigioni sudamericane sono scoperte terribili) possiede una serie di voci, di immagini, di riferimenti con cui dialoga. Fossero solo la madre, un amico. Convocare quel parlamento, liberarne la voce, è il primo passo per riconoscere sé e i torti, per riparare insieme “assassino e città”. Può essere vero persino nelle condizioni più estreme. Da anni Ceretti lavora a un progetto con l’Università di Rio: sta realizzando uno studio, basato su interviste a criminali, spesso assassini, dentro istituti di pena specializzati nella detenzione di chi compiuto reati contro le donne: violenze, stupri, omicidi. Spesso seriali. L’irrecuperabile. Ma che voci sentivano dentro? Cosa li ha spinti? Quali le cause? E che voci sentono, o non sentono, adesso? Dov’è il loro parlamento interiore? Sono pagine incredibili e drammatiche. Ma l’idea, in un paese così violento anche nella dimensione dei rapporti tra sessi, di far parlare per la prima volta queste persone indica come ci sia una necessità di comprendere i fenomeni profondi, se si vuole uscirne, cambiare. La stessa cosa prova a fare, nelle sue molte vite, cercando una delle riconciliazioni più difficili del mondo, tra palestinesi e israeliani vittime di reciproche violenze; o entrando a suo rischio dentro carceri colombiane grandi come paesi e in cui i detenuti sono l’unica legge a se stessi. Aspetti estremi di una vita anche avventurosa, dietro la mitezza e l’incarico accademico. “In una mediazione occorre sempre cercare di aiutare le parti a spostarsi dall’oggetto del conflitto, a provare a guardarlo da una prospettiva diversa”. Di sé dice semplicemente di essere uno dei criminologi che, “non solo in Italia, più si occupano di cose concrete, del cuore, dell’anima delle persone, pur senza aver mai perso il mio interesse verso la costruzione di ipotesi teoriche”. Adolfo Ceretti e Marta Cartabia vengono da percorsi personali, accademici e professionali molto diversi. Ma hanno avuto modo di lavorare sugli stessi argomenti, nella prospettiva di una giustizia che abbia un percorso differente. Alla ricerca di un pensiero ancora “in attesa di essere pensato”, come dicono in un libro scritto a quattro mani: “La costruzione di un sistema che assicuri l’armonia dei rapporti sociali; una cura che salvi insieme assassino e città”. Nemmeno il più ottimista dei Candide potrebbe pensare che tutto cambierà, e presto. Ma i fili riannodati attraverso le molte vite di un criminologo atipico ed empatico sono l’indicazione che certi pensieri possono tornare a essere pensati, più e diversamente da prima. Per sentire forse, come è capitato a Gingio, un bene improvviso che accarezza i capelli. Tregua instabile sulla giustizia, si apre il caso della presunzione di innocenza di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 21 marzo 2021 Emendamenti “garantisti” per applicare la direttiva europea sulla presunzione di innocenza appena citata da Cartabia alla camera. E scontro anche sull’utilizzo allargato del trojan. La coalizione extralarge rompe subito la tregua firmata sulla prescrizione. La tregua sulla giustizia, costruita sul rinvio a fine aprile degli emendamenti alla riforma del processo penale, sarà messa alla prova la prossima settimana. Le avvisaglie ieri, quando Renzi ha ripreso il tiro al giustizialismo del ministro Bonafede, come se il 5 Stelle fosse ancora in via Arenula e non fosse stato tirato via da Draghi e sostituito con Marta Cartabia. “Da che parte sta il Pd sulla prescrizione? Dalla parte del diritto o dalla parte di Bonafede? In parlamento c’è una maggioranza garantista, il Pd sta con noi o con i 5S?” ha attaccato il leader di Italia viva. “La cultura delle garanzie non si improvvisa tifando per questo o per quello - ha risposto la neo responsabile giustizia del Pd, chiamata da Letta in segreteria, la senatrice Anna Rossomando - ma si misura sul faticoso lavoro affinché sia condivisa e patrimonio comune. Suggerirei a Renzi di archiviare gli slogan e lavorare per le soluzioni”. Lo scontro sulla prescrizione non è però imminente. Proprio perché Cartabia ha affidato il dossier al gruppo di lavoro di soli tecnici guidato da Giorgio Lattanzi, illustre processual-penalista e anche lui ex presidente della Corte costituzionale. Il nervosismo dei partiti è anche frutto di questa scelta, che sembra aver sottratto alla mediazione politica quello che è uno dei punti di maggiore frizione nella nuova maggioranza extralarge. Nel corso della sua recente audizione alla camera, la ministra ha promesso che gli emendamenti alla legge delega di riforma del processo penale non caleranno in parlamento dall’alto di via Arenula. Ma non ha offerto garanzie su quel confronto preventivo con i gruppi di maggioranza che tutti i partiti le hanno chiesto. Durante quella stessa audizione, Cartabia ha anche fatto un chiaro riferimento alla necessità che l’Italia si adegui alla direttiva del parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento della presunzione di innocenza. E a quella direttiva hanno intensione di richiamarsi i deputati di Azione +Europa Enrico Costa e Riccardo Magi che hanno presentato due emendamenti alla legge di delegazione europea in discussione nell’aula della camera da martedì. Gli emendamenti puntano a fare sì che l’Italia, come chiede la direttiva, adotti degli strumenti per limitare le dichiarazioni pubbliche dei pm volte a sostenere in maniera unilaterale le tesi dell’accusa, frenare la diffusione di filmati e audio di intercettazioni ai danni degli imputati e “prevedere che alle inchieste non venga assegnata una denominazione non prevista dalle norme di legge”, abitudine invece assai diffusa tra gli investigatori e che contribuisce a scardinare il principio di non colpevolezza. Come su ogni passaggio che riguarda la giustizia, la maggioranza teorica del parlamento è sfavorevole ai 5 Stelle che presidiano il fronte sostanzialista. Ma proprio il precedente della prescrizione dimostra che né Italia viva né Forza Italia hanno interesse ad aprire subito una ferita nella neonata maggioranza. Al momento basta lasciare le polemiche verbali libere di scorrere. Come sul trojan, il “captatore informatico” già previsto dalla riforma Orlando (ex ministro della giustizia e attuale titolare del lavoro) e poi esteso nell’utilizzo dalla “Spazza-corrotti” di Bonafede - ha debuttato nella famosa indagine di Perugia su Palamara. Una sentenza del 2 marzo della Corte di giustizia europea impone di limitare l’intrusione nei dati elettronici personali ai soli reati gravi, mentre Bonafede ha incluso i reati contro la pubblica amministrazione. Forza Italia annuncia iniziative per tornare indietro e consentire il trojan solo per i reati strettamente di terrorismo o mafia. I 5 Stelle fiutano il pericolo e dichiarano in massa, accusando i colleghi di governo di voler “indebolire la lotta alla corruzione”. Renzi sfida il Pd su giustizia e reddito 5S: “Da che parte state?” di Massimo Malpica Il Giornale, 21 marzo 2021 La giustizia come spartiacque, il garantismo come bandiera da contrapporre ai grillini. All’assemblea di Italia Viva Matteo Renzi tende la mano al “nuovo” Pd di Enrico Letta, ma chiede di accordarsi sui paletti per camminare insieme, tornando a rimarcare le distanze dai Cinque Stelle. “Sul tema della giustizia - domanda l’ex premier - il Pd sta dalla parte dei grillini e di Travaglio? Da che parte sta sulla prescrizione? Dalla parte del diritto o dalla parte di Bonafede? Vogliamo essere riformisti? In parlamento c’è una maggioranza garantista: da che parte sta il Pd con noi o con i Cinque Stelle?”. La dichiarazione d’intenti è palese, l’invito al suo ex partito è a chiarire la rotta in maniera inequivoca, al netto degli “auguri di buon lavoro” che Renzi inoltra alla “grande novità” Letta, “che rappresenta oggettivamente una svolta rispetto all’epoca di Zingaretti”. Il problema, per l’ex premier, non sono però le parole, perché “le parole sono interessanti ma sulle parole non è difficile trovarsi d’accordo”. Serve una nuova stagione riformista, da inaugurare passando “dalle parole ai fatti”, e la giustizia, insieme a Sud, diritti e lavoro, per Renzi è la cartina di tornasole, lo spartiacque, appunto, sul quale “lanciare la sfida sui contenuti a chi si proclama riformista”. E la precondizione, aggiunge l’ex sindaco di Firenze, lanciando la “primavera delle idee” per il suo partito, da oggi al 21 giugno, è spezzare “insieme la catena d’odio che la politica italiana ha creato in questi anni e che ha un grande responsabile: l’atteggiamento di Beppe Grillo”. Quanto alla crisi, Renzi non rinnega la svolta che ha portato Draghi a Palazzo Chigi, una mossa necessaria “per un’emergenza, che era al contempo economica, sanitaria ed educativa”. E nonostante un governo che vede “stare insieme persone con le quali non ci saremmo mai candidati alle elezioni e non ci candideremo”, l’esecutivo Draghi è il “trionfo della politica”, l’affermarsi di una leadership credibile a livello internazionale che ha riportato l’Italia ad essere “in due mesi una potenza mondiale”. Oltre che la dimostrazione che si sbagliava chi ripeteva “o Conte o morte”, e che ora invece di asfaltare Renzi e Iv “è andato a casa”. Insomma, al suo vecchio partito il leader di Iv chiede di lasciar perdere i “dilaniati” M5s e indica nella giustizia la prima delle battaglie qualificanti da affrontare. A confermare la generale “sfida” al Pd sui temi riformisti da parte di Iv è anche Elena Bonetti: “Mettiamo più soldi sull’assegno unico dice il ministro alla Famiglia - o continuiamo a metterli su Rdc e reddito d’emergenza che neanche li vedono i figli? Ecco, chiedo a chi si dice riformista di stare con noi in questa battaglia”. Un altro tema in ballo, mentre a Renzi risponde il responsabile giustizia del Pd, Anna Rossomando, che ricorda come i dem siano “da sempre impegnati per le garanzie di tutti senza distinzione di censo o di posizioni”, rivendicando le “molte misure sulla giustizia introdotte con il ministro Orlando nella passata legislatura” e invitando Renzi ad “archiviare gli slogan a costo zero e lavorare soprattutto per le soluzioni”. Ermini: “Toghe, carriera legata ai processi” di Alberto Gentili Il Messaggero, 21 marzo 2021 Intervista al vicepresidente del Csm: “Se troppo spesso l’accusa non regge o la sentenza è annullata, deve incidere sulla valutazione. Palamara? Responsabilità di singoli”. La carriera dei giudici va legata alla fondatezza dei “processi”. David Ermini, vicepresidente del Csm, ritiene necessaria “la riforma e una rifondazione etica della magistratura”. Martedì Mattarella presiederà il plenum del Csm, è il segno di una nuova legittimazione? “È così. Il Presidente venne nel giugno del 2019 all’esplodere delle note vicende e il fatto che martedì sia ancora lui a presiedere il plenum è più che significativo e ci rincuora e rafforza - risponde David Ermini, vicepresidente del Csm - C’è stato da quel giugno uno stillicidio di chat e intercettazioni, sono emersi in tutta la loro evidenza i guai del carrierismo e del correntismo e comportamenti esecrabili, ma anche letture francamente denigratorie della magistratura. Un periodo di per sé molto travagliato, a cui si è aggiunta la terribile pandemia. In tutti questi mesi il presidente Mattarella è stato per noi guida preziosa, non ha mai fatto mancare il suo sostegno, i suoi consigli. Tutta la magistratura, non solo noi consiglieri del Csm, sa di avere nel capo dello Stato il difensore strenuo dell’indipendenza e dell’autonomia dell’ordine giudiziario. Inoltre martedì è uno dei passaggi finali affinché l’Italia prenda parte a pieno titolo all’avvio e al funzionamento della Procura europea che dovrà indagare e perseguire frodi e reati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione: strumento indispensabile in vista del Recovery Plan. Si pensi all’imponente flusso di risorse che verranno dall’Europa e al rischio di frodi comunitarie”. Lei parla di letture denigratorie della magistratura, lo scandalo Palamara ha però avuto effetti devastanti... “È vero. Ma dico denigratorie perché si arriva a mettere in dubbio l’imparzialità della magistratura e dunque la legittimità dei suoi provvedimenti. Ma quanti sono i magistrati coinvolti a vario titolo nello scandalo? Cinquanta? Cento? Sono però migliaia i magistrati che in tutti questi anni hanno garantito diritti e legalità, a volte rischiando anche la vita e a volte purtroppo perdendola. Si badi, difendere la magistratura non è difendere una casta, ma è difendere la giurisdizione che è un pilastro della democrazia. Giurisdizione di cui fanno parte anche gli avvocati e le cui libertà sono sotto attacco in diversi Paesi europei. Se viene meno la fiducia nella magistratura, viene meno un pilastro della democrazia”. Ma il Csm come ha reagito in questi due anni? “Il Csm non ha mai mancato un plenum, mai una commissione, mai ha smesso di svolgere tutte le funzioni attribuite dalla Costituzione e dalla legge. In tutti questi mesi sono stati nominati capi di uffici giudiziari, sono state approvate circolari, valutati magistrati, votati pareri e linee guida per l’organizzazione dei processi in emergenza pandemica. La prima commissione è da mesi al lavoro su migliaia di trascrizioni inviate da Perugia, per individuare se ci sono i presupposti per il trasferimento per incompatibilità dei magistrati seriamente coinvolti nelle chat. Soprattutto è al lavoro la sezione disciplinare: abbiamo fissato e in gran parte già avviato tutti i procedimenti istruiti dalla procura generale”. Sembra che descriva il migliore dei mondi possibili… “Per carità, non dico questo. Risalire la china di un discredito così profondo non è per nulla facile. Critiche, delusioni, ci può stare tutto, ma un sistema spartitorio nel Csm ora non c’è più. C’è trasparenza nelle decisioni, nelle nomine prevale l’ordine cronologico, le istruttorie prevedono audizioni degli interessati. Ci stiamo seriamente provando, anche se resto convinto che i fatti incresciosi e dolorosi che hanno incrinato il prestigio e la credibilità della magistratura e del suo organo di autogoverno non possano risolversi solo attraverso sanzioni o trasferimenti dei colpevoli. Richiedono anche buone leggi di riforma e soprattutto una rifondazione etica, una vera rivoluzione culturale, da parte dei magistrati”. Il pallino delle riforme ora è in mano alla ministra Cartabia. Sarà presente anche lei al plenum di martedì… “E noi siamo ben lieti di accoglierla, nel Csm troverà sempre un interlocutore leale, attento e aperto al cambiamento. La ministra è una giurista eccelsa, ha un senso profondo della giustizia e delle istituzioni. Sa che le istituzioni vanno salvaguardate al di là delle persone. Va accertata fino in fondo e a tutti i livelli qualsiasi responsabilità, ma mai le colpe personali devono trascinare in basso le istituzioni”. La legge di riforma del Csm è ferma, tra un anno e mezzo si vota per il nuovo Consiglio. Una corsa contro il tempo quella della ministra Cartabia… “Ho piena fiducia nel suo metodo e nelle sue capacità di mediazione. Certo, la maggioranza che sostiene il nuovo governo è piuttosto variegata, sono però convinto che saprà fare sintesi tra posizioni anche diverse e portare in porto una riforma che è indiscutibilmente necessaria. È necessario cambiare la legge elettorale e bisogna fissare criteri più stringenti nelle procedure di nomina. Personalmente, sono dell’avviso che nel valutare la professionalità di un magistrato vi sia anche un controllo sulla qualità e sulla tenuta dei suoi provvedimenti: se ad esempio la gran parte dei processi chiesti da un pm finiscono in assoluzione o se le sentenze di un giudice civile vengono riformate in quantità, va considerato o no in una valutazione di professionalità? Ma al di là delle mie opinioni, resta il fatto che la riforma del Csm va fatta”. Lei dice che va fatta, però il Csm sulla riforma si è già spaccato… “Respingo questa raffigurazione. C’è questo tic mediatico per cui opinioni diverse significano subito divisioni e spaccature. Mi chiedo: diciamo tutti che le correnti devono smetterla di gestire incarichi e potere e devono tornare a essere fucina di idee, e non è questo il caso? Qui si sta parlando di una riforma monumentale che riguarda tutto l’ordinamento giudiziario, se la discussione è giustamente animata, è proprio perché ci sono culture e sensibilità diverse. La riforma va fatta ma deve essere una riforma giusta, non punitiva o vendicativa. Alla fin fine, rimangono tre paletti: 1) rispetto dell’autonomia e indipendenza della magistratura e della giurisdizione, 2) rispetto del ruolo costituzionale del Csm, 3) rispetto del pluralismo ideale”. E le riforme del processo civile e penale? “Sono assolutamente necessarie anche queste. In primo luogo per i cittadini, perché la giustizia funziona se i processi sono giusti ma anche rapidi. Il tempo è variabile essenziale: avere giustizia dopo 10 anni non è giustizia. È indispensabile una riforma nel civile, anche per le sue ricadute sull’economia, insieme a quella importantissima del fallimento. Specie in una situazione di crisi drammatica come quella che stiamo vivendo, un’impresa insolvente che salta rischia di travolgere tanti lavoratori, un intervento rapido della giustizia può evitare che la crisi d’impresa si risolva in crisi occupazionale e sociale. E poi, naturalmente, c’è il penale. Dico solo che sul carcere sono perfettamente d’accordo con la ministra Cartabia e che, se vogliamo deflazionare il carico dei processi, vanno sul serio agevolati (e fatti funzionare, e i primi a farlo dovrebbero essere i magistrati) i riti alternativi. Ma sia chiaro che le riforme del processo sono necessarie anche alla magistratura, perché rispondere alla domanda di giustizia in tempi rapidi accresce fiducia e credibilità”. Ma lei crede davvero che il Parlamento riuscirà ad approvare queste riforme? “Beh, ci voglio credere. È però necessaria una sorta di pacificazione nazionale: i partiti, tutti i partiti, dovrebbero deporre le armi ideologiche e ragionare per il bene dei cittadini. Il funzionamento della giurisdizione non può e non deve essere tema divisivo. Io davvero auspico che vi possa essere un clima non conflittuale ma collaborativo nel risolvere i problemi più urgenti della giustizia. E poi, sa cosa le dico? Non so se compatibile con la nostra Costituzione, ma l’idea della ministra Cartabia di un rinnovo parziale del Csm mi convince non poco”. “Chi canta la mafia commette reato”. L’ultima idea dei grillini di Davide Varì Il Dubbio, 21 marzo 2021 Al bando canzoni che strizzano l’occhio alla criminalità organizzata. Il De Andrè di “Don Raffaè” avrebbe rischiato l’ergastolo. “La mafia vive di messaggi e certi messaggi vanno fermati. Qualsiasi sia il canale di cui si servono”. Stefania Ascari, deputata M5s e componente della commissione Antimafia, è prima firmataria di una proposta di legge che prevede di introdurre nel nostro ordinamento l’aggravante dell’istigazione o dell’apologia del delitto di associazione di tipo mafioso. “È intollerabile che certi boss o certi stili di vita vengano lodati o addirittura proposti a modello”, spiega Ascari, ricordando casi eclatanti come le esequie di Vittorio Casamonica o le processioni religiose con soste davanti alla casa del padrino di turno: “Una deriva inaccettabile, che negli ultimi tempi ha trovato nuova linfa nei social network e in alcune canzoni”. Chissà che fine farebbe il povero Fabrizio De Andrè che con la sua (splendida) don Raffaè, visto che osò addirittura cantare le “gesta” del boss della camorra Cutolo. Probabilmente sarebbe finito all’ergastolo. L’ultimo caso in ordine di tempo, spiega la deputata pentastellata, è quello del video rap di solidarietà ai fratelli Travali di Latina, uno dei quali ritenuto numero due del clan Di Silvio: nella clip, rimasta per diverse ore su YouTube, si vedevano giovani con il volto coperto da passamontagna e si inneggiava con parole e gesti alla violenza e ai “soldi facili”. Dell’argomento si era già discusso qualche tempo fa, quando in Calabria era esploso il caso dell’artista Teresa Merante, messa alla gogna e bollata come “cantante della malavita” per le sue strofe dedicate ai detenuti. “Di esempi come questo - stigmatizza Ascari - cominciano ad essercene tanti, troppi, è ora di intervenire”. L’istigazione a delinquere nel nostro codice è prevista dall’articolo 414 del codice penale: “C’è una aggravante se l’istigazione o l’apologia riguarda delitti di terrorismo ma noi (gli altri firmatari sono i deputati De Carlo, Mariani, Martinciglio, Romaniello, Spadoni, Termini e Villani) crediamo che sia il caso di prevedere un’aggravante specifica, proprio per chi istiga alla mafia: è il caso di tenere separati i due piani, soprattutto per il valore simbolico che tutto questo può assumere”. L’articolo 1 (la proposta di legge si articola su due) stabilisce che la pena è aumentata fino a due terzi “se il fatto è commesso durante o mediante spettacoli, manifestazioni o trasmissioni pubbliche o aperte al pubblico ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”. E che “non possono essere invocate, a esimente, ragioni o finalità di carattere artistico, letterario, storico o di costume”. “Non ha senso parlare di censura - obietta però Ascari - La libertà d’espressione è sacra e nessuno si sogna di metterla in discussione: ma dire, come ha fatto qualcuno, che era giusto far saltare in aria Falcone e Borsellino con la libertà d’espressione non c’entra davvero niente. È solo una forma di istigazione. E come tale va punita. Anche tenuto conto del fatto che messaggi come quelli veicolati, ad esempio, dal rap o dalla canzone neomelodica entrano non solo nelle periferie ma anche nelle carceri. Dove, non lo dimentichiamo, sono tanti i giovani al 41 bis”. L’articolo 2 prevede invece che quando il reato viene commesso “mediante l’utilizzo di social network ovvero mediante emittenti radio o televisive o per mezzo della stampa, il soggetto responsabile della divulgazione del contenuto non conforme al divieto di apologia previsto dal medesimo comma è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 10.000 euro e con l’obbligo di rettifica”. “L’obiettivo - conclude la parlamentare M5s - è quello di responsabilizzare tutti gli operatori della comunicazione, nessuno escluso. Perché ancora oggi il fenomeno mafioso non viene preso con la dovuta serietà nemmeno a livello di istituzioni e di enti locali. Almeno in certe aree, più che di infiltrazioni, parlerei di radicamento. E il contrasto parte anche dal linguaggio”. “Contro le mafie serve un pensiero nuovo e radicale” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 21 marzo 2021 Don Ciotti alla giornata in ricordo delle vittime della criminalità. “È necessario un pensiero nuovo, radicale e rigeneratore nella lotta alle mafie: se non rigeneriamo rischiamo di degenerare”: il grido di allarme viene da don Luigi Ciotti, che ha partecipato all’evento romano della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie è promossa da Libera ormai da ventisei anni e da quattro è riconosciuta per legge nazionale come ricorrenza ufficiale. Ciotti ha parlato a Roma, all’Auditorium della musica, dove è stato letto l’elenco delle 1031 vittime della mafia censite dall’associazione, alla presenza di esponenti delle istituzioni e della società civile. “La lotta alle mafie non è una questione da delegare solo a forze dell’ordine, magistrati, prefetture, cui va la nostra riconoscenza - ha proseguito Ciotti - La repressione deve arrivare alla fine di un percorso”. Il presidente di Libera ha parlato anche delle Ong che soccorrono i migranti nel Mediterraneo, finite nel mirino di diverse procure. “Sostenere le Ong è un dovere - ha detto - vuol dire permettere loro di proseguire nell’attività di soccorso e far parte di quell’Italia che si oppone al naufragio delle coscienze”. Il tema riguarda la “legalità”, che non può prescindere dalla giustizia: “Ci sono leggi inadeguate, funzionali a tutelare i potenti. Siamo chiamati a lottare contro impunità per i diritti umani calpestati, violati. Dobbiamo colpire impunità economica che perpetua le ingiustizie”. Da qui il riferimento allo Ius Soli, di recente tornato nei radar del dibattito dei partiti. Per Ciotti “è una vergogna respingere lo ius soli, ancora una volta una grave emorragia di umanità”. A Napoli, il lungo elenco dei nomi delle vittime ha risuonato all’interno della sala sociale della fabbrica Whirlpool, luogo simbolo delle crisi e della precarietà. La città di Milano ha ricordato le vittime delle mafie con una cerimonia a Palazzo Marino. Dalla facciata del comune sono state stese otto lenzuola con i nomi di altrettante vittime della mafia uccise a Milano. I nomi delle vittime sono stati proiettati sul campanile di Piazza San Marco a Venezia e della Mole Antonelliana a Torino. Molte iniziative si sono tenute nei luoghi della cultura chiusi per la pandemia: a Palermo al Teatro Massimo, a Locri al Teatro Greco di Portigliolo, a Torino in Piazza del Conservatorio Giuseppe Verdi. Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale, ha scritto a Libera per lanciare l’allarme: “Con la pandemia, le mafie, e la sottocultura mafiosa, si stanno rafforzando”. Dunque, dice il presidente della Camera, Roberto Fico, “lo stato deve arrivare prima”. Per il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, “la lotta alla mafia deve coinvolgere tutti”, istituzioni, società civile e “soprattutto i più giovani”. Cuneo. Detenuto s’impicca con un lenzuolo nel supercarcere di Carlotta Rocci La Repubblica, 21 marzo 2021 Aveva 41 anni, era originario di Torino: aperta un’inchiesta. Un detenuto nel supercarcere Cerialdo di Cuneo si è suicidato questa notte impiccandosi con un lenzuolo nella sua cella. L’uomo, 41 anni, di Torino, è stato trovato dagli agenti di polizia penitenziaria che hanno dato l’allarme. Nemmeno il tentativo di salvarlo da parte di un’equipe del 118 è servito. Ora sulla sua morte è stata aperta un’indagine. Il detenuto era stato trasferito a Cuneo da altri carceri ed era tenuto separato dagli altri detenuti perché già in passato si era dimostrato aggressivo nei confronti degli altri carcerati e degli agenti della polizia penitenziaria. Anche nelle altre case circondariali in cui era stato detenuto si erano verificati episodi violenti. Ora le indagini dovranno capire che cosa abbia spinto il carcerato al suicidio e come l’uomo sia riuscito a portare a termine il suo piano senza che nessuno riuscisse a impedirglielo. Torino. “Mio figlio in isolamento per mesi. Nudo, luce sempre accesa e senza acqua corrente” di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 21 marzo 2021 Il diario drammatico narrato dalla famiglia del giovane, 24 anni, in carcere per una tentata rapina. Poi il trasferimento in una cella di osservazione del reparto psichiatrico, dove avrebbe dovuto trascorrere solo poche notti. La “liscia”, così la chiamano al carcere Lorusso e Cutugno. Non è una cella come le altre: è la numero 150 e si trova all’interno del Sestante, il reparto psichiatrico. Una stanza completamente vuota, priva di mobili e suppellettili. Le uniche parvenze di arredo sono un materasso, una coperta e il bagno a vista con lo scarico attivato dall’esterno. M., 24 anni, nella “liscia” avrebbe dovuto trascorrere solo poche notti, invece vi sarebbe rimasto per molto più tempo: oltre i limiti stabiliti dai regolamenti. “È rimasto nudo, con la luce sempre accesa e senza acqua corrente”, denuncia il padre. Il giovane entra in carcere nel dicembre del 2019: deve scontare due anni di reclusione per una tentata rapina. Prima viene mandato all’istituto penitenziario di Verbania, poi trasferito a Torino perché ha problemi psichici: la diagnosi è disturbo borderline della personalità. “Una patologia che è possibile curare con la psicoterapia”, racconta il papà. In carcere, però, le sue condizioni di salute si aggravano ed M. tenta il suicidio. Basta questo per trasferirlo in una cella di osservazione del reparto psichiatrico: lì non c’è nulla con cui possa provare a mettere fine alla propria vita. Quel trasferimento avrebbe dovuto essere temporaneo. Invece M. ci rimane per diversi mesi. Uscirà nel febbraio del 2021, quando i genitori riescono a riportarlo a casa (sta scontando il resto della pena ai domiciliari). Un risultato raggiunto al temine di una strenua battaglia a suon di carte bollate, istanze davanti al giudice di Sorveglianza, perizie psichiatriche e interventi del garante dei detenuti. “Mio figlio è stato sottoposto a un trattamento disumano. È stato denudato e abbandonato in una cella - spiega il padre. Per calmarlo lo hanno imbottito di psicotici. A nulla è servito insistere sul fatto che avesse bisogno di psicoterapia e non di trattamenti farmacologici, che per altro come effetti collaterali portano a depressione e suicidio”. È un diario drammatico quello narrato dalla famiglia del giovane. “Mio figlio ha riportato anche alcune ustioni: si era rotta la finestra e non l’hanno riparata. Così in pieno inverno e con solo una coperta addosso per scaldarsi, si è rannicchiato vicino al termosifone fino a bruciarsi. Per quattro giorni, poi, non gli hanno fornito acqua in bottiglia e così quando dall’esterno attivavano lo scarico dei bagni, lui la raccoglieva prima che finesse negli escrementi. Lo hanno mortificato, insultato, umiliato”. Una perizia psichiatrica ha anche stabilito che M. era sottoposto a trattamento psicofarmacologico “esagerato” e “abnorme”, con il rischio “non solo di aggravare e perpetuare la sintomatologia psichica e comportamentale, ma anche di ostacolare e compromettere le possibilità di recupero”. “Da quando è a casa sta meglio, ma è uscito distrutto dal carcere. Ancora adesso ha gli incubi per quello che ha subito”. Della vicenda di M. si è occupata anche Emilia Rossi, componente del collegio del Garante nazionale dei detenuti. Nel luglio dello scorso anno ha fatto un’ispezione. “Abbiamo riscontrato il disagio di questo giovane - spiega. Sono anni che denunciamo l’inadeguatezza del Sestante e soprattutto della camera liscia”. In un rapporto del 2017, il Garante ne chiedeva l’abolizione rilevando non solo le pessime condizioni igienico-sanitarie, ma anche “l’illegittimità dello stato di isolamento del detenuto” per un periodo superiore al limite di 15 giorni previsto dalla legge. E ora la storia di questo ragazzo è anche racchiusa nell’ultimo rapporto di Antigone, l’associazione che dagli anni Ottanta si occupa di diritti nell’ambito del sistema carcerario e alla quale la famiglia si è rivolta per chiedere aiuto. È stata scelta perché rappresenta un caso limite, la cui crudezza mette a nudo “quanta strada ancora c’è da fare per garantire diritti e protezione a chi vive all’interno delle carceri italiane”, si legge nel documento. Reggio Emilia. Il Covid entra in carcere, una ventina di positivi tra detenuti e poliziotti di Ambra Prati Gazzetta di Reggio, 21 marzo 2021 Lo rivelano i sindacati Cgil e Cisl “In centinaia in quarantena”. Malorni, segretario del Sappe fa un appello ai colleghi “Vaccinatevi appena si potrà”. “Nell’istituto penitenziario di Reggio Emilia il Covid corre tra dipendenti e detenuti. Necessari esami e vaccinazioni per evitare disordini e il dilagare del virus”. A lanciare l’allarme sull’impennata di casi di positività all’interno del carcere della Pulce è il sindacato Fp-Cgil e Fns-Cisl, che rende noto un incremento dell’epidemia potenzialmente esplosivo nella struttura: una decina di positivi tra i detenuti e un numero imprecisato in quarantena, altrettanti positivi tra gli agenti (due i ricoverati) più 24 in quarantena fiduciaria. “Registriamo un numero di casi positivi che desta preoccupazione - dichiarano Fp-Cgil e Fns-Cisl - Ad oggi si contano dieci casi di positività tra il personale della polizia penitenziaria (di cui due ricoverati nel reparto Infettivi) e ventiquattro casi di quarantena fiduciaria, mentre sono duecento i detenuti, in ben quattro sezioni, chiusi nelle celle in quarantena per la presenza accertata di alcuni casi positivi”. Numeri che, secondo il sindacato, “rendono sempre più evidente come, alla luce del prolungarsi della situazione pandemica, nelle carceri ci sia terreno fertile per la diffusione del virus: sia per la promiscuità delle condizioni sia per gli spazi molti ristretti. Chiediamo si proceda speditamente al monitoraggio della popolazione detenuta ma anche di tutto il personale, e alla vaccinazione sia dei dipendenti sia dei detenuti. Siamo consapevoli della gravità della situazione generalizzata ma i rischi, anche di disordini come avvenuto in passato, richiedono un intervento immediato”. Concorda con i sindacati Federico Amico, consigliere regionale Emilia-Romagna Coraggiosa: “Tutta la popolazione carceraria e il personale deve essere sottoposto con urgenza a monitoraggio. Presenterò un’interrogazione in Regione nelle prossime ore”. Il carcere di via Settembrini è una città dentro la città che conta circa 200 agenti di polizia penitenziaria, 40 amministrativi e 378 detenuti, ai quali occorre aggiungere le figure che ogni giorno gravitano intorno alla struttura (volontari, fornitori, docenti, infermieri, medici, due sacerdoti, parenti). E, se finora la Pulce era stata graziata rispetto ad altre carceri, ora è allarme. “È una situazione nota”, sottolinea Michele Malorni, segretario del Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria che come ricetta contro l’impennarsi della curva ha presentato precise richieste all’amministrazione penitenziaria: “Tampone molecolare ripetuto nel tempo per gli agenti e per tutte le persone che orbitano intorno al pianeta carcere nonché sospensione immediata e temporanea di tutte le attività, servizio mensa e servizio bar per il personale”. Alla situazione attuale si aggiunge il caos vaccinazioni: per la polizia penitenziaria la vaccinazione, iniziata sabato 13 marzo, è stata interrotta dopo tre giorni a causa della sospensione nei confronti di AstraZeneca (poi revocata giovedì). Risultato: appena una ventina di agenti hanno ricevuto la prima dose e tra coloro che erano in lista le defezioni sono state numerose. “Io sono stato il primo a vaccinarmi - prosegue Malorni. Il mio personale appello va ai colleghi che hanno revocato l’assenso alla vaccinazione: oggi, a seguito delle delibere Ema (Agenzia europea dei medicinali) e Aifa (Agenzia italiana del farmaco), dovrebbero farsi avanti, a tutela della loro e dell’altrui salute. Sono convinto che in un ambiente particolare come il nostro, dove tra l’altro siamo chiamati a un servizio pubblico, il vaccino dovrebbe essere d’obbligo. Appena superata questa emergenza chiederò il vaccino per la totalità del personale e dei detenuti”. Pistoia. Carcere, il Comune deve nominare il Garante dei diritti dei detenuti di Alberto Vivarelli reportpistoia.com, 21 marzo 2021 “Sarebbe opportuno che il Comune di Pistoia, quanto prima, nominasse il garante per i diritti dei detenuti e delle persone della libertà personale”. È quanto ha detto la consigliera regionale del Partito Democratico, Federica Fratoni, durante l’ultima seduta della terza commissione, “Sanità”, che prevedeva l’audizione del garante regionale Giuseppe Fanfani. L’audizione è stata l’occasione giusta per fare il punto sull’affollamento delle carceri in Toscana in un momento storico particolare come quello che stiamo vivendo ed alla luce anche del moltiplicarsi, in tutta Italia, di casi di positività proprio negli istituti di pena. Nella Casa circondariale di Pistoia, secondo gli ultimi dati aggiornati a pochi giorni fa, sono presenti 64 persone (delle quali 42 di nazionalità straniera) a fronte di una capienza di 56 posti e sorvegliati da 68 addetti. Secondo il monitoraggio effettuato sui positivi al Covid-19, relativo allo scorso 8 marzo, fra i detenuti si registra un solo caso di contagio mentre ce ne sono ben 10 fra gli addetti che rappresenta, in proporzione alle presenze, la percentuale più alta di tutta la regione. “Gli effetti della pandemia si vedono anche dentro le nostre carceri - ha aggiunto Fratoni - soprattutto perché con la limitazione degli ingressi e la sospensione delle attività di supporto da parte del volontariato sono aumentate anche le fragilità psichiche. Nell’attesa di ricevere il report annuale nel quale ci sarà una ricerca specifica delle problematiche per affrontare il tema in profondità, sarebbe opportuno quanto prima che il Comune di Pistoia nominasse il garante per i diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, figura tra l’altro prevista dallo specifico regolamento approvato dal consiglio comunale. A questo proposito, presenterò un atto in Consiglio regionale per sollecitare la copertura di questo ruolo delicato ed importantissimo in tutti quei comuni della Toscana nei quali è presente una Casa circondariale e che ne sono attualmente sprovvisti”. Volterra (Pi). Covid in carcere, il sindaco: “Ringrazio chi ha affrontato questa emergenza” La Nazione, 21 marzo 2021 In una lettera il primo cittadino ringrazia la direzione carceraria e tutto il personale impegnato nella gestione del focolaio esploso nella struttura penitenziaria. Un ringraziamento che il sindaco Giacomo Santi invia alla direzione carceraria, ai detenuti, alla polizia penitenziaria, al personale sanitario e agli operatori del carcere dopo i giorni della grande paura per lo scoppio di un focolaio Covid nel Maschio di Volterra. “Un grazie alla direzione, a tutto il corpo di polizia penitenziaria, al personale sanitario, all’area educativa, a tutto il personale, agli operatori e a tutta la popolazione reclusa del carcere di Volterra - scrive il sindaco - Sono state giornate molto dure, e fronteggiare l’emergenza dovuta al cluster di contagio scoppiato, in maniera così repentina e inattesa, nella casa di reclusione di Volterra non è stato assolutamente facile. Sento di dover ringraziare, anche a nome di tutta l’amministrazione comunale, la direzione, il personale e gli operatori, il personale sanitario, l’area educativa e tutto il corpo di polizia penitenziaria per l’abnegazione, la professionalità e la tempestività massima con le quali hanno saputo affrontare questa grave criticità, mostrando grande spirito di sacrificio e attaccamento alla missione del loro lavoro. Il mio pensiero va anche a tutte le persone contagiate, alle loro famiglie e a tutti i ristretti, che rappresentano la parte più fragile della nostra comunità. A tutti - conclude il sindaco - faccio gli auguri di una pronta guarigione”. Trieste. Le detenute donano mascherine e copricapi a Fondazione Lucchetta e all’Oncologico di Annamaria Peragine Corriere Nazionale, 21 marzo 2021 A conclusione del corso di formazione “Tecniche di sartoria”, svoltosi presso la sezione femminile della Casa Circondariale di Trieste “Ernesto Mari” dal 20.07.2020 al 19.11.2020, presso la Sala riunioni dell’istituto si è tenuta, nel pieno rispetto dei protocolli anti-covid, la presentazione dell’attività trattamentale con relativa consegna di circa 100 manufatti, creati da dieci detenute, impegnate nell’acquisizione di competenze tecnico professionali in ambito sartoriale. Accolti dal Direttore Dr. Paolo Bernardo Ponzetta, Capo Area Trattamentale Anna Bonuomo e dalla Vice Comandante Annamaria Peragine, sono intervenuti all’incontro Francesco Russo- Vicepresidente del Consiglio Regionale FVG, Paola Stuparich e Carola Duranti, rispettivamente Direttrice Generale Enaip e Coordinatore Enaip Formazione Svantaggio-area detenuti Trieste, Viviana Taberni e Maria Stachel - operatrici della Fondazione Lucchetta Ota D’Angelo-Hrevatin, Rita Ceccherini e Carla Dellach, quali Responsabile e referente presso SC Centro Sociale Oncologico (CSO) - Oncologia Senologica e dell’Apparato riproduttivo Femminile (Ssd Osarf) ed Elisabetta Burla - Garante dei Detenuti per la Provincia di Trieste. La consapevolezza del delicato momento storico, in uno con le vive emozioni che alimentano le giornate trascorse all’interno del carcere e la speranza, sempre più sentita, di un superamento definitivo dell’emergenza pandemica in atto, ha rappresentato per le detenute uno stimolo forte, cresciuto in modo spontaneo, di offrire un piccolo contributo solidaristico ad una parte fragile della società. È nata così l’idea di avviare un corso, durante il quale si potessero anche produrre di mascherine di protezione, in stoffa, da donare alla Fondazione Lucchetta Ota D’angelo Hrovatin e al SC Centro Sociale Oncologico (CSO) - Oncologia Senologica e dell’Apparato riproduttivo Femminile (Osarf) di Trieste. Le allieve si sono dimostrate, da subito, interessate e pronte ad apprendere le tecniche di realizzazione delle mascherine e ad affiancare questa competenza a quelle già previste come obiettivi formativi del progetto, ovvero lo studio sulla creazione di copricapi, dedicati alle donne colpite da patologie oncologiche. Il livello di interesse, partecipazione e coinvolgimento delle detenute è stato elevato, tanto che sono state le stesse corsiste ad individuare i destinatari della donazione ed a dotare ogni singola confezione di mascherine della loro dedica “Questo oggetto è stato pensato, progettato e realizzato con le nostre mani e vuole essere un modo per sentirci vicine senza toccarci. Non sei sola”. Con uno sguardo verso progettualità future, che promuovano competenze trasversali e percorsi orientati all’auto imprenditorialità, Paola Stuparich - Direttrice Generale Enaip - ha spiegato come questo corso sia la testimonianza della precisa richiesta di questo carcere ad avere una formazione di “qualità”, ben lontana dall’idea di una formazione come “riempitivo”, interna e chiusa all’interno del carcere stesso, ma finalizzata al reinserimento sociale, utile alla crescita personale e soprattutto professionale delle persone, con acquisizione di competenze spendibili durante e dopo il periodo di carcerazione, che fosse in grado di comunicare con la realtà esterna, con il mercato e che producesse risultati. L’iniziativa riceve il plauso anche di Francesco Russo - Vicepresidente del Consiglio Regionale FVG - che formula apprezzamenti per la compiuta organizzazione, garantita dalla presenza attenta e costante della Polizia Penitenziaria e per il lavoro svolto dalle detenute, ribadendo il valore imprescindibile della formazione in un luogo che si va, pian piano e fortunatamente, affrancando dal ruolo di “istituzione totale” che l’ha connotato per troppo tempo, per trasformarsi in uno spazio aperto al dialogo con l’esterno. Questo percorso è stato, sin dalle prime battute, abbracciato dalla Direzione della Casa Circondariale di Trieste che, a fine 2020, ha direttamente conosciuto l’estenuante lavoro di contrasto dell’emergenza sanitaria, a causa di un importante focolaio scoppiato al suo interno, che ha interessato 85 detenuti e 35 agenti di Pol. Pen. risultati positivi al Covid 19. La criticità ha imposto un’urgente e precisa rimodulazione della gestione ordinaria del carcere, ben riuscita grazie alla sinergia profonda che si è mantenuta tra le professionalità operanti nell’istituto che, congiuntamente, hanno adottato misure volte al contenimento del contagio, a salvaguardia della salute di detenuti e di tutti gli operatori penitenziari. Perché la Costituzione ha fallito, facendo nascere uno Stato privo di autorevolezza di Alberto Cisterna* Il Riformista, 21 marzo 2021 L’affermazione del professor Ainis (La Repubblica, 12 marzo) secondo cui la degenerazione correntizia della magistratura, al pari di quella che affligge i partiti, “non è figlia della Costituzione” appare così importante, nella discussione in corso in questi tempi così travagliati, da suggerire qualche ulteriore riflessione (v. Il Riformista 16 marzo). Se la tesi fosse corretta se ne dovrebbe ricavare la convinzione, che l’autorevole commentatore ha esplicitato, per cui basterebbe qualche aggiustamento alla legge elettorale che regola la composizione della parte togata del Csm (i 2/3 del tutto) per porre rimedio ai tanti mali della corporazione che, a occhio e croce, sono sopravvissuti ad almeno tre decenni di leggi, profluvi di circolari e, persino, modifiche costituzionali (l’articolo 111) volte a tentare un riequilibrio dei rapporti di forza processuali e ordinamentali dentro e fuori della magistratura. Discorso complesso ovviamente e che purtroppo impone un certo schematismo e qualche inevitabile approssimazione. Che la Costituzione del 1948, secondo la retorica rinfocolata dal referendum costituzionale del 2016, sia la “più bella del mondo” è in verità largamente opinabile. A occhio e croce: 67 Governi in circa 70 anni, gli ultimi 3 in meno di 3 anni; un presidente della Repubblica che, ben oltre le funzioni previste, ha dovuto in almeno 3 occasioni (Ciampi, Monti, Draghi), costruire una maggioranza parlamentare e indicare il premier da votare con il relativo programma di governo; una Corte costituzionale che, ben oltre le funzioni previste, ha espanso il proprio intervento sino a imporre al Parlamento tempi e modi della legislazione e a esautorarlo su questioni cruciali per la società (eutanasia, fecondazione assistita, carceri e molto altro); una società malata di una denatalità cronica, malgrado la famiglia sia stata innalzata a “società naturale” che lo Stato “riconosce”; una “eguaglianza morale e giuridica dei coniugi” strangolata senza rimedi da una legislazione che penalizza il lavoro femminile e lo priva di assistenza pubblica; una scuola “aperta a tutti” e in cui ai “capaci e meritevoli” è riconosciuto “il diritto di accedere ai gradi più alti degli studi”, sbeffeggiata dalla fuga all’estero dei migliori alla ricerca di opportunità di studio e di lavoro; l’autonomia universitaria tante volte trasformata in escamotage per assunzioni familistiche e per la moltiplicazione di cattedre in cui allocare congregati e affiliati; un sistema tributario, giustamente, “informato a criteri di progressività” che tuttavia - proprio a causa di questo suo connotato ideale - è divenuto la ragione prima dell’evasione e dell’elusione fiscale dei redditi più alti inevitabilmente inclini alla flat tax; un assetto regionalista che ha trasformato l’Italia in un caleidoscopio di inefficienze e sprechi; una pubblica amministrazione esautorata da commissari e generali persino per svolgere la più elementare delle funzioni in tempi di pandemia; un parlamento surrogato dai Dpcm per mancanza di una minima regola costituzionale sui poteri d’emergenza. E si potrebbe proseguire a lungo, quasi articolo per articolo, per dimostrare che la Costituzione più bella del mondo ha finito per agevolare lo sviluppo di un modello di società consociativa, ipergarantita, corporativa, insofferente allo Stato, vocazionalmente anomica, esosa per le finanze pubbliche, riottosa ai propri doveri, rancorosa per i diritti negati. Sarà stata anche bella la Carta, ma appare oggi un compendio di troppe inefficienze che proprio il suo scudo rende quasi insormontabili e praticamente ineliminabili. Poi, per carità, la parte dei diritti fondamentali e delle libertà è un inno alla gioia, ne possiamo andare fieri come una Venere di Milo, splendida, ma senza braccia per agire. Se le regole sugli apparati pubblici e sulle sue articolazioni sociali ne impediscono o ne ostacolano la piena attuazione, allora la beffa consumata dai costituenti appare ancora più grande. Temevano, giustamente, uno Stato autoritario e hanno posto le radici per la nascita di uno Stato privo di autorevolezza, sfiduciato alla fine dai suoi stessi cittadini, tante volte indotti a costruire circuiti alternativi - vere e proprie corporazioni, spesso, se non lobby e cosche - attraverso cui esercitare le proprie pretese, tutelare i propri diritti, soddisfare le proprie aspettative; tutte cresciute e prosperate al riparo della tutela accordata alle “formazioni sociali” che costituiscono l’ossatura politica della Nazione (articolo 2) e ne sono divenute, una volta di troppo, la pietra d’inciampo. Lunga, quanto sommaria, premessa per tornare al tema se la degenerazione correntizia della magistratura sia o meno “figlia della Costituzione”, se si possa davvero ritenere che la sua bellezza sia stata sfigurata da figli degeneri e irriguardosi. Oppure se sia lecito dubitare che l’architettura costituzionale della giurisdizione, anche dopo la riforma del 1999, portasse con sé e in sé i germi di una inevitabile corrosione interna. Si faccia il caso: affiancare al principio di obbligatorietà dell’azione penale il precetto della ragionevole durata del processo (1999-2001) è equivalso a innescare una miccia esplosiva che ha fatto definitivamente deragliare un treno già reso ondivago e traballante dalla previsione di un rito processuale di stampo accusatorio (1988). È chiaro che la prescrizione sia uno scempio morale e costituzionale, ma è resa inevitabile dall’enormità del carico penale che è generato proprio dal principio di obbligatorietà dell’azione penale per giunta da attuare in un processo accusatorio. Una miscela talmente instabile da aver consentito a taluno di affermare che, purtroppo, le prove granitiche acquisite durante le indagini evaporano in dibattimento; quasi che, se non ci si mettessero di mezzo i difensori, avremmo il processo perfetto. La Prima Repubblica mitigava il tutto grazie a un rito di stampo inquisitorio (1930) e, soprattutto, dispensando diffusamente amnistie e indulti. Poi il parlamento, sotto il cielo giustizialista (1992), si è privato anche di questo strumento di regolazione politica delle pendenze processuali e di depurazione delle aule di giustizia - prevedendo un’irraggiungibile maggioranza dei due terzi per approvarle - e gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. L’ultimo provvedimento deflattivo è del 2006, mentre dal 1948 al 1992 erano stati adottati oltre 40 leggi clemenziali. Donde l’ergersi di un pm che, senza prescrizione, può condannare l’imputato alla pena del processo eterno e senza che nessuno possa porvi rimedio. È chiaro, ancora, che prevedere un Csm elettivo esaltava l’autogoverno della magistratura (non la sua autonomia), svincolandola dal ministro della Giustizia, ma si doveva immaginare che - nella pressoché totale inerzia del legislatore, incapace di mettere mano in modo radicale a un ordinamento giudiziario del 1941 - Palazzo dei Marescialli avrebbe finito per svolgere un ruolo decisivo e attrattivo verso le toghe, totalmente soggette al potere dell’organo di autogoverno e sotto ogni profilo della loro carriera. Tanto da costringere la Corte costituzionale a dover ricordare che “nel patrimonio di beni compresi” nello status professionale dei magistrati “vi è anche quello dell’indipendenza, la quale, se appartiene alla magistratura nel suo complesso, si puntualizza pure nel singolo magistrato, qualificandone la posizione sia all’interno che all’esterno: nei confronti degli altri magistrati, di ogni altro potere dello Stato e dello stesso Consiglio superiore della magistratura” (sentenza 497/2000); un argine alle stesse funzioni consiliari previste dalla Costituzione e da rendere ancor più insuperabile nella crisi clientelare con un’adeguata “rivoluzione costituzionale”. *Magistrato Gli scioperi dei rider e di Amazon ci dicono che la gig economy è senza regole di Aboubakar Soumahoro L’Espresso, 21 marzo 2021 Cambia il mercato, l’algoritmo genera profitti crescenti ma nessun diritto. E i legislatori sfuggono alla sfida di dare dignità a questi nuovi lavoratori. “Credo di scorgere due principi anteriori alla ragione, di cui l’uno interessa fortemente al nostro benessere e alla nostra conservazione, l’altro ci ispira una ripugnanza naturale a vedere perire o soffrire qualunque essere sensibile, e soprattutto i nostri simili”, scrive Jean-Jacques Rousseau in “Origine della disuguaglianza”. Le trasformazioni in corso nel mondo del lavoro - con l’adozione di termini nuovi e processi sempre più disarticolati nella catena produttiva - portano con sé delle conseguenze sulla qualità di vita delle lavoratrici e dei lavoratori. La proclamazione dello sciopero contro Amazon di lunedì 22 marzo da parte dei sindacati Filt Cgil, Fit Cisl, Uil-trasporti che interesserà “tutto il personale dipendente di Amazon Logistica Italia e Amazon Transport Italia cui è applicato il Ccnl Logistica Trasporto Merci e Spedizione e di tutte le società di fornitura di servizi di logistica, movimentazione e distribuzione delle merci che operano per Amazon Logistica e Amazon Transport”, come si legge nel loro comunicato, s’inserisce all’interno di questo processo di trasformazione da tempo in corso. Tuttavia, parlare della trasformazione del lavoro porta con sé la necessità di interrogarsi sulle condizioni e sulla qualità di vita delle lavoratrici e dei lavoratori lungo la filiera della catena di produzione del “valore”. Ed è proprio dietro questo obiettivo di generare il valore che si materializzano modalità e fenomeni abbrutenti dal punto di vista umano soprattutto sul piano della precarizzazione del lavoro e dell’esistenza. Tuttavia, questo abbrutimento viene celato dietro terminologie nuove ed esteticamente attrattive sul piano linguistico, per renderlo più accettabile agli occhi dell’opinione pubblica. Questo maquillage linguistico illusorio è emblematico delle nostre società odierne. Mentre da una parte alcuni principali player internazionali vedono il proprio valore di mercato crescere (ad esempio, come riporta la Commerce Connecté, Amazon ha raggiunto i 320 miliardi di euro di vendita netta nell’esercizio 2020 con una crescita di oltre 100 miliardi di dollari), dall’altra parte le ricadute e i benefici di questa crescita non trovano riscontro in termini di miglioramento delle condizioni materiali delle lavoratrici e dei lavoratori. Perciò parlare della trasformazione del lavoro in corso lungo la catena di produzione, oramai disarticolata e frammentata, è un invito ineluttabile ad interrogarsi, in una prospettiva olistica, sui veri e reali detentori del “comando di potere” lungo il ciclo produttivo, caratterizzato da ritmi temporali frenetici e cadenze spaziali frammentate anche su scala globale, senza che tuttavia si abbiano dei diritti globali. I beneficiari dei profitti, al vertice di questo ciclo produttivo, hanno innumerevoli intermediari tra sé e l’ampia base di lavoratrici e lavoratori, che permettono l’accumulo di ingenti guadagni. Per coloro che sono alla base, il vertice è evanescente, invisibile, spesso irraggiungibile, il che rende difficoltoso l’agire sindacale. Questa dinamica, che si inserisce nella corsa globale della competitività e della redditività, “vede la diffusione di processi con ritmi frenetici, disgregazione del lavoro, frammentazione del ciclo produttivo, ricorso al sistema degli appalti e subappalti con false cooperative, evasione fiscale e contributiva, padroni e padroncini senza scrupoli, sottrazione di diritti salariali e sindacali”, come ho analizzato più ampiamente nel mio libro “Umanità in rivolta” (Feltrinelli). Tuttavia, la necessità di costruire dei diritti globali non può prescindere dal chiedersi cosa sia oggi l’agire sindacale nell’era in cui “è in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”, come sostiene l’imprenditore ed economista statunitense Warren Buffett. Che ci sia in corso una lotta alla classe lavoratrice si spiega con il fatto che “nel mondo il numero dei paesi in cui ai lavoratori è impedito di esercitare il diritto di istituire un sindacato o di aderirvi è aumentato da 92 nel 2018 a 107 nel 2019; che l’aumento maggiore è stato registrato in Europa; che il 40 per cento dei paesi europei non permette ai lavoratori di aderire ai sindacati, il 68 per cento ha violato il diritto di sciopero e il 50 per cento ha violato il diritto alla contrattazione collettiva”, come ricorda la risoluzione del Parlamento europeo del 10 febbraio 2021 in merito alla riduzione delle disuguaglianze, con particolare attenzione alla povertà lavorativa. La recente indagine condotta dalla procura di Milano in merito alle condizioni dei riders, braccianti metropolitani, riporta sotto i riflettori ciò che la politica non si decide a fare. Ovvero fare in modo che l’attività lavorativa nel mondo della gig economy possa svolgersi considerando la persona del rider non uno schiavo da sfruttare, ma un cittadino-persona da tutelare perché è portatore di diritti e dignità indipendentemente dal genere, dal colore della pelle e/o dalla provenienza geografica. Una necessità di riconoscimento che la politica stenta ad assumere perché molto probabilmente il potere economico ha preso la supremazia sul potere politico. Questo sollecita nel contempo ad assumere in modo “décomplexé” una riflessione approfondita e sincera su cosa sia e debba essere l’agire sindacale in un simile contesto. Intanto qualcosa si muove sul campo delle contraddizioni, con la nascita di processi da parte di lavoratrici e lavoratori che decidono di auto-organizzarsi collettivamente per rivendicare in prima persona i diritti negati. A questo riguardo, la rete “Rider x i Diritti” si mobiliterà a livello nazionale il prossimo 26 marzo, per chiedere “con urgenza la necessità di applicare un contratto collettivo nazionale di settore che regolamenti tutta la categoria riconoscendo a lavoratrici e a lavoratori tutti i diritti e piene tutele”, come si legge nel comunicato della rete. Un appello al quale la Lega Braccianti ha deciso di aderire in segno di solidarietà e per una unione delle lotte al fine di assicurare un cibo eticamente sano alle persone, e di garantire uguale lavoro e uguale salario - in prospettiva del riconoscimento dei diritti salariali, previdenziali, di sicurezza sul lavoro, ecc. - alle lavoratrici e ai lavoratori. La mobilitazione contro Amazon del 22 marzo e quella dei rider del 26 marzo esprimono una necessità di regolamentare il mondo del lavoro degli algoritmi in particolare e della gig economy in generale: perché “gli strumenti ci sono già, oppure si possono individuare tramite la discussione collettiva. L’importante è non dare l’innovazione per scontata né temere di contrastarla, quando necessario, per indirizzarla verso il progresso a beneficio di tutti. Non solo non è impossibile, non sarebbe neppure inedito”, come sostengono Antonio Aloisi e Valerio De Stefano nel loro libro “Il tuo Capo è un algoritmo” (Laterza). La sfida risiede proprio qui: ovvero come mettere l’innovazione al servizio dello sviluppo della persona in un sistema economico che deve essere al servizio dell’uomo entro una cornice di regole chiare in termini di doveri-responsabilità e di riconoscimento dei diritti. Riusciremo a vincere questa sfida se le lavoratrici e i lavoratori della gig economy e tutte le persone che usufruiscono di questi servizi digitali saranno uniti soprattutto in nome di quei “due principi anteriori alla ragione”, di cui parlava Jean-Jacques Rousseau. La Giornata contro il razzismo: “Cara Italia, ci siamo anche noi” di Claudia Brunetto La Repubblica, 21 marzo 2021 Nella Giornata contro le discriminazioni, “Repubblica” ha scelto di dare voce ai giovani di origine straniera, ma nati e cresciuti qui. Sono professori, ingegneri, sportivi, web influencer, studenti modello. Hanno lottato per anni contro razzismo e burocrazia per avere il diritto di chiamarsi cittadini a pieno titolo del Paese di cui si sentono figli. E ora dicono: “Siamo oltre un milione, vogliamo essere protagonisti”. Simohamed Kaabour: “Insegno al liceo educazione civica e cultura araba” - Simohamed Kaabour ha 39 anni e un leggero accento genovese. Insegna educazione civica e lingua araba al liceo Deledda. È arrivato da bimbo: “Ricordo il viaggio in treno. Un signore ci regalò dei disegni: sul mio c’era un pallone”. Era il 1991. Suo padre Hassan lucidava l’acciaio. “I compagni erano simpatici, ma non sapevo l’italiano. Uno mi ripeteva: “Negro!”, gli altri ridevano. Me lo spiegò il mio amico Idrissa, che aveva il padre del Burkina Faso: “Non farci caso, non sono cattivi”. Ora ha un ristorante a Bergamo”. Laurea in lingue, specializzazione in diritti umani. Nel 2006 supplente in una scuola media. “Scoprirono che non ero italiano, credevo bastasse il permesso di soggiorno. Mi cacciarono male”. Tre anni di battaglie per riavere il posto e la cittadinanza. “Il futuro è certo: lo dicono i numeri. Il presente meno. Va ripensato, per dare anche a noi la possibilità di diventare protagonisti”. Hilda Ramirez: “Quando tornavo in Ecuador mi mancava casa” - Hilda Ramirez, figlia di due prof, da piccola soffriva di meningite: a 5 anni lasciò l’Ecuador per curarsi in Italia. Le cure andarono avanti fino ai 13, la sua famiglia vendette casa e si trasferì. Papà si arrangiava come muratore finché fu assunto dalle Ferrovie, mamma per un po’ provò a farsi riconoscere la laurea, poi rinunciò e si mise ad assistere gli anziani. “Ho avuto la cittadinanza alla vigilia della laurea, dopo vent’anni. Poi l’ho fatta avere ai miei, che quasi si sentivano in debito con l’Italia, non volevano disturbare”. Hilda oggi ha 30 anni, è una webmaster, vive nel Bergamasco, sposata a un altro ragazzo di seconda generazione: “Lui è ingegnere”. Ricorda la prima vacanza nel Paese d’origine: “Piangevo sempre, mi mancava casa”. Poi da adolescente, in questura: “Con i miei che ogni volta dovevano rinnovare i documenti capii che non ero italiana come gli altri: nessuno me lo aveva detto, prima”. Giorgia Cociorva: “Mi sono laureata con una tesi sullo ius soli” - Giorgia Cociorva è laureata in ius soli. “Dopo anni passati a lottare contro una vecchia legge da rottamare, sentendomi straniera in casa mia, ho dedicato la tesi a tutti gli italiani senza cittadinanza”. Giorgia Cociorva, 22 anni, papà albanese, mamma moldava, studia e lavora come modella. Il padre non l’ha mai conosciuto, è stato rimpatriato poco dopo la sua nascita. “Sono nata e cresciuta a Bologna. Ho vissuto tutta la mia vita in affidamento presso una famiglia italiana. Solo dai 2 ai 5 anni mi sono trasferita in Moldavia, terra della mia madre biologica. Quando sono diventata maggiorenne ho chiesto la cittadinanza e me l’hanno negata: l’Italia non mi riconosceva perché avevo vissuto tre anni all’estero. Ma ero solo una bambina, come potevo capire allora cosa fosse meglio per me?”. Poi, finalmente, i nodi burocratici si sono sciolti e l’8 giugno 2017 ha ottenuto il passaporto tricolore: “Un giorno indimenticabile”. Mihai Zugravel: “Ho la media del 9, ma il mio sogno è il passaporto” - Mihai Zugravel colleziona record. A scuola è un talento, media del 9,36, premi, borse di studio. Le sue materie preferite? Economia e matematica. Mihai Zugravel, 18 anni, è un “italiano al 100%”, pur essendo nato in Romania. La sua casa è Ottone, in provincia di Piacenza. Appassionato di moto e ottimo calciatore, ha due sogni nel cassetto: laurearsi in economia “per poi fare carriera in una grande azienda” e il passaporto tricolore. Arrivato in Italia nel 2006 quando aveva appena tre anni, frequenta oggi il quarto anno dell’istituto tecnico San Colombano di Bobbio. Il razzismo? “Quello vero, qui a Ottone non l’ho mai vissuto”. Presto avvierà le lunghe pratiche per ottenere la cittadinanza. “In verità chi nasce qui o ci arriva da piccolino dovrebbe avere un canale più veloce per diventare italiano. Nella mia classe ci sono altri due studenti di origine straniera: è questa la normalità, questo il futuro dell’Italia”. Filippo Hu: “Parlo male cinese, mangio e penso solo in italiano” - È stato in dubbio, quando, a 18 anni, ha dovuto scegliere fra la cittadinanza cinese e quella italiana, il torinese Filippo Hu. Ma oggi, che di anni ne ha 25 e sta facendo un dottorato in informatica, non è pentito della decisione presa fra mille perplessità: “I miei genitori hanno mantenuto il passaporto cinese e un legame forte col Paese d’origine”. Lui, che studia recommender system ma è nato in una famiglia di imprenditori tessili stabilitasi trent’anni fa a Moncalieri, ha capito presto che il suo futuro non sarà in Cina. “Vivo in Italia, questa è la mia lingua madre, non so parlare bene in cinese, mangio e penso in italiano, i miei amici sono tutti italiani, come Eleonora, la mia ragazza, che mi ha fatto sempre sentire a casa. Prendere la cittadinanza era la scelta più naturale. Sulla carta di identità sono Zhongli Filippo Hu. Un nome italiano e uno cinese composto da due ideogrammi: significano Italia e Cina”. Gaia Cavina: “Gioco a rugby e sfido i pregiudizi anche nello sport” - Nel rugby, il mediano di mischia è il più sveglio: il regista. Gaia Cavina è la più giovane di 4 sorelle, tutte rugbiste. Due, Giulia e Micol, giocano in Nazionale. Ma gli esperti dicono che la più forte è lei, anche se ha solo 16 anni. Il padre, Stefano, è di Cogoleto. La mamma, Nkem, di origine nigeriana. “L’altro giorno un compagno mi ha mostrato la chat dei maschi: ho scoperto che mi prendono in giro. “Negra di m...”, scrivono. E dei disegni che mi vergogno a raccontarli. Io sorrido sempre e vorrei essere amica di tutti. Così ne ho parlato con le compagne: forse andremo a dirlo alla psicologa della scuola”. Ne ha parlato anche a papà. “Voleva andare dai professori, gli ho detto di aspettare. Sono solo ragazzini, forse capiranno”. Dice che la discriminazione non è solo sulla pelle: “Malagò, presidente del Coni, ha detto che avrebbe voluto un figlio maschio, per farlo giocare a rugby. Da uno come lui non me lo aspettavo”. Tasnim Ali: “Grazie a TikTok aiuto chi mi segue a capire l’Islam” - Ha solo 21 anni, Tasnim Ali, ma già 307 mila follower su Tik Tok e altri 61 mila su Istagram. Nata ad Arezzo da genitori egiziani, cresciuta a Roma, ha da tre anni la cittadinanza italiana e un lavoro in tasca: influencer e content creator con un’agenzia alle spalle. “Da dicembre sono anche inviata di Sky per la trasmissione “Ogni Mattina”“. Tasnim è un bellissimo vulcano, che con la sua immagine patinata ed affascinante promuove oggetti di moda assieme alla sua cultura d’origine, la sua religione, il suo essere a cavallo fra due mondi e starci molto comodamente. “I miei follower sono soprattutto 18-25 enni, ragazzi italiani come me, incuriositi dalle origini della mia famiglia e dalla mia cultura, dal mio modo di vivere. Mi fanno domande, vogliono capirmi, imitarmi. Qualcuno mi critica per il velo, ma io rispondo in modo ironico. E molti si ricredono nei loro pregiudizi verso l’Islam”. Gian Matteo Marie: “Nato a Palermo ma fino a 18 anni non avevo diritti” - Gian Matteo Marie è nato a Palermo da genitori mauriziani. La cittadinanza italiana l’ha conquistata a 18 anni, ma lui che adesso ne ha 21 si sente palermitano da sempre. “La cittadinanza mi ha permesso di dirlo ancora con più forza che sono italiano. È ingiusto, però, dovere aspettare fino ai 18 anni per ottenerla”, dice Gian Matteo. Alle Mauritius è tornato una volta quando aveva otto anni. “Il mio futuro è in Italia, spero anche a Palermo, anche se è difficile trovare un lavoro”, dice il ragazzo. È iscritto al primo anno del corso di laurea in Ingegneria elettrica. Vive a Ballarò, un quartiere multietnico del centro storico. Accanto allo studio coltiva la passione per il teatro. “A parte qualche episodio spiacevole all’oratorio, con il bullo di turno che mi chiamava “turco”, qui sono cresciuto bene. Ho amici di tutte le nazionalità. Parlo il dialetto siciliano come il creolo. Palermo è casa mia”. Hasnain Abbas Bhatti: “Pachistano o italiano? Non voglio scegliere, ma rivendicare una doppia identità” - “Pachistano o italiano? Me lo sono chiesto più volte: la verità è che non voglio scegliere, ma rivendicare una doppia identità”. Hasnain Abbas Bhatti, nato in Pakistan, è arrivato in Italia nel 2003. Da sempre vive a Carpi, in provincia di Modena. Oggi ha 24 anni, gli manca poco alla laurea in ingegneria gestionale, è titolare di due uffici Caf e Patronato, è impegnato nel volontariato e in politica, fa parte della Consulta per l’integrazione di Carpi ed è un musulmano praticante. Il 21 dicembre scorso è diventato italiano: “Ci sono voluti 4 anni e sette mesi di pratiche burocratiche”. Spesso si è sentito straniero. “Alle elementari, mi sono presentato con una tuta rosa. Gli altri bambini si sono messi a ridere. Non capivo. In Pakistan il rosa non è associato alle ragazze. Poi ricordo una professoressa con cui discutevo che mi chiese: “Le donne le trattate così nel tuo Paese?”. Ma il mio Paese è l’Italia!”. L’Italia ha speso oltre un miliardo di euro per fermare i migranti di Gloria Riva L’Espresso, 21 marzo 2021 Negli ultimi 5 anni è questa la cifra impiegata dal nostro Paese. Con i fondi per favorire lo sviluppo di Paesi africani impiegati per aerei, navi e droni. Al di là dell’Oceano la questione migranti è plasticamente rappresentata dal muro di Tijuana, che separa il Messico da San Diego. Il muro della Vergogna, lo chiamano i messicani. Una tangibile barriera di sicurezza incarna il gretto tentativo yankee di stoppare il flusso umano proveniente da Centro e Sud America. In Europa, non essendo possibile costruire una muraglia in mezzo al Mar Mediterraneo, tantomeno sulle spiagge di Lampedusa, si è quindi lavorato a una cortina fatta di fondi, finanziamenti e progetti utili a materializzare armi, posti di blocco militari, droni, sistemi di sorveglianza e tanto altro ancora per stoppare gli sbarchi sulle coste italiane di chi proviene da Niger, Sudan, Libia, Tunisia, Etiopia. Quell’immaginaria linea Maginot che separa i due continenti è composta da 317 linee di finanziamento, gestite dall’Italia con fondi propri e parzialmente cofinanziati dall’Unione Europea, costate ai contribuenti 1,33 miliardi di euro tra il 2015 e la fine del 2020. A calcolarlo è il dossier The Big Wall, Il Grande Muro, realizzato da ActionAid Italia, l’organizzazione internazionale impegnata nella lotta alle cause della povertà, che per la prima volta rivela quanti soldi il nostro paese ha investito nel contrasto all’immigrazione irregolare e come sono stati spesi. Un lavoro complesso perché, come spiega Roberto Sensi, Policy Advisor Global Inequality di ActionAid, “non esistono dati ufficiali che raccolgono, organizzano e rendono accessibili le informazioni sulla distribuzione di queste risorse pubbliche. Sono serviti mesi di lavoro per ricostruire, attraverso numerose richieste di accesso effettuate dalla società civile, quanti e quali fondi sono stati utilizzati per contrastare il fenomeno dell’immigrazione”. Risultato: la metà delle risorse - 666,3 milioni - è stata usata per il controllo dei confini, ovvero per l’acquisto di 16 imbarcazioni, due aerei, cinque elicotteri, sette droni, più svariati sistemi radar e di intercettazione da parte della Guardia di Finanza, della Marina Militare e della Polizia di Stato. A vincere gli appalti sono quasi sempre Leonardo spa, il cui maggior azionista è il ministero dell’Economia e delle Finanze, e i Cantieri Navali Vittoria che, ironia della sorte, negli stabilimenti navali di Monfalcone, in Friuli Venezia Giulia, impiegano soprattutto manodopera straniera: sono loro stessi a realizzare le unità marine che contribuiscono a respingere i migrati nel Mediterraneo. “Il controllo dei confini, come rileva la nostra indagine, ha poco a che vedere con l’aiuto dei migranti, molto con la repressione dei flussi migratori. Un sostegno fondamentale è arrivato dalla stessa Unione europea, che ha finanziato per il 65 per cento la spesa italiana per il controllo delle frontiere”, spiega Sensi. Mentre lo Stato italiano va all’incasso, perché i soldi stanziati per l’acquisto di nuovi equipaggiamenti finiscono nelle casse dell’ex Finmeccanica, e quindi del ministero dell’Economia. Sensi spiega inoltre che “quel contributo è destinato ad aumentare nei prossimi anni come prevede il nuovo quadro finanziario pluriennale europeo, in vigore da quest’anno e fino al 2027, che ha stabilito un capitolo specifico per le migrazioni, destinate per lo più al controllo dei confini e ai rimpatri”. Per un totale di 195,3 milioni di euro, la seconda voce di spesa è quella delle cause profonde: rappresenta il 14 per cento delle spese totali. Si tratta di 97 progetti di cooperazione allo sviluppo nei paesi di origine o di transito che puntano a migliorare le condizioni sociali ed economiche per evitare che la popolazione locale sia costretta a lasciare i propri territori: sostanzialmente risponde alla logica dell’”Aiutiamoli a casa loro”. Il primo paese a beneficiarne l’Etiopia e molti dei fondi - 19,8 milioni - sono stati usati dal governo locale per realizzare il Youth Employability Center a Dahir Bar, per ovviare al problema dei giovani disoccupati e quindi potenziali migranti. “L’obiettivo primario del progetto, secondo il documento di finanziamento, è la “riduzione della migrazione irregolare, tramite un miglioramento delle condizioni di vita”. Ma in quel documento non corrisponde alcun indicatore progettuale: di fatto il raggiungimento dell’obiettivo non è verificabile”, si legge nel dossier The Big Wall. Detto altrimenti, non è possibile sapere se, dopo aver partecipato al progetto, i giovani hanno trovato un’occupazione o sono comunque saliti su un barcone alla volta di Lampedusa. Infatti il meccanismo di ripartizione di quei fondi segue altre logiche: “Più uno Stato si impegna nella repressione della migrazione e nei rimpatri, più riceve finanziamenti per lo sviluppo locale. Il fine ultimo è sempre quello di ridurre gli sbarchi e poco interessa sapere se i finanziamenti siano serviti per migliorare le condizioni di vita di chi rimane in Africa”, dice Sensi, che racconta come non a caso al ministero degli Esteri, per via di una norma contenuta nel Decreto Sicurezza bis voluto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, è stato istituto un Fondo Premialità per i Rimpatri, che ha una capienza di 50 milioni di euro, e sostiene quei paesi africani che più si impegnano ad ostacolare la dipartita dei loro connazionali, “anche se le azioni messe in atto sono di tipo repressivo”, commenta Sensi. È un funzionario del ministero degli Affari Esteri, che chiede l’anonimato, a spiegare che quel denaro veniva elargito a piene mani, senza troppi vincoli: “Il mantra era che più sviluppo avrebbe fermato le migrazioni e in un certo momento ha funzionato per tutti. Ha funzionato per l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, ente che fa capo al ministero degli Esteri, e che giustificava i propri fondi di fronte a una politica spaventata dalla questione degli sbarchi; e ha funzionato per molte Ong, che hanno sfruttato le migrazioni, inserendo questa voce come il prezzemolo nella presentazione di richieste di finanziamento”, spiega ad ActionAid un funzionario del ministero degli Affari Esteri. Eppure molti studiosi dei fenomeni migratori nutrono perplessità sulla strategia “aiutiamoli a casa loro”. Michael Clemens, economista dello sviluppo che lavora al Center for Global Development di Washington, sostiene infatti che proprio lo sviluppo locale creato su modello delle economie occidentali può far aumentare le migrazioni. E ancora, Bram Frouws, direttore del Mixed Migration Center, un think-tank che studia la mobilità internazionale, sottolinea come l’approccio delle “cause profonde” paradossalmente rimane sempre in superficie: “Non si parla mai di accordi internazionali per salvaguardare la pesca, che è una risorsa per le comunità locali, tantomeno di accaparramento di terre da parte di speculatori, di grandi opere o di corruzione e vendita di armi o di preservazione dell’ambiente, che è una delle prime cause di migrazione, ma di una generica vulnerabilità economica, della scarsa stabilità degli stati. Di un fenomeno quasi astratto, in cui gli attori europei si esentano da qualsiasi responsabilità”. Inoltre, in nome della lotta alla migrazione irregolare, l’intervento non avviene nei paesi più poveri, ma in quelli ad alta incidenza migratoria: ecco perché Etiopia e Sudan, che sono paesi in cui transita la tratta dei migranti, si spartiscono rispettivamente 47 e 32 milioni di euro. Recentemente anche il Niger è diventato un grande beneficiario di questi fondi. Non perché è uno dei paesi più poveri al mondo, ma perché da qui passa il flusso di persone che, dopo aver attraversato il paese fino alla città di Agadez, scompare nel Sahara per poi emergere, giorni dopo nel Sud libico. Nel 2016 l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni registra quasi 300mila persone in transito lungo quella tratta e così, dall’anno successivo, l’Italia stanzia 50 milioni per lo sviluppo del Niger: “I documenti progettuali contengono una serie di condizioni per la prosecuzione al finanziamento, tra cui l’aumento dei controlli lungo le piste per la Libia e l’adozione di normative stringenti per il controllo delle frontiere”, rivela l’indagine di ActionAid. L’effetto è il blocco della libera circolazione garantita all’interno della Comunità Economica degli stati Uniti dell’Africa Occidentale, una sorta di spazio Schengen tra 15 paesi della zona: “Sarebbe come immaginare che l’Unione Africana convincesse l’Italia a non far scendere i cittadini francesi al di sotto di Roma perché potrebbero imbarcarsi per l’Africa”, commenta Sensi. In nome dello stop alla tratta, l’allora ministero dell’Interno italiano, Angelino Alfano, appoggia anche l’Egitto e lo fa nel 2016, a ridosso dell’omicidio del ricercatore Giulio Regeni, in cui la complicità e la copertura da parte delle forze di sicurezza egiziane sembrano fin da subito evidenti: “È assurdo, ma l’Italia inizia a sostenere l’Egitto nei negoziati con l’Unione Europea proprio in quel periodo”, spiega l’avvocato Muhammed Al-Kashef, membro della Egyptian Initiative for Personal Right e oggi rifugiato in Germania. L’Italia finanzierà un software per la presa delle impronte digitali in uso alla polizia locale egiziana e la creazione di un’accademia di polizia al Cairo per formare agenti di frontiera: “Roma poteva giocare un ruolo in Egitto, sostenere il processo democratico dopo la rivoluzione del 2011, ma ha preferito cadere nella trappola della migrazione, temendo un’ondata migratoria che non ci sarebbe mai stata”, sostiene Al-Kashef. Anche il capitolo della governance, a cui sono dedicati 146,2 milioni di euro, ovvero l’11 per cento della spesa totale, si ricollega in modo significativo all’obiettivo di accrescere il controllo delle frontiere, dotandoli di apparati amministrativi, strutture di coordinamento e quadri normativi contro la tratta. Poco o nulla (14,7 milioni) resta per per i progetti di sensibilizzazione, ovvero per fornire informazioni sui rischi della migrazione irregolare, finanziati tramite i progetti di cooperazione internazionale del ministero degli Esteri e dell’Interno. Gli interventi di sensibilizzazione sono a loro volta sovrapposti, dentro lo stesso progetto, a interventi di contrasto alla tratta e al traffico di migranti (il cosiddetto antitraffiking) a cui sono stati destinati 142,5 milioni. Una parte significativa di questi interventi è rivolta alla lotta agli scafisti del Mediterraneo, che complessivamente è servita ad arrestare 143 scafisti e distruggere cinquecento imbarcazioni: “Ma questa attività non ha condotto a interventi giudiziari e di indagine in grado di risalire ai vertici delle organizzazioni criminali. Di più, ha contribuito a reimmettere le persone intercettate in circuiti di detenzione e partenza”, si legge nel dossier di ActionAid. Una parte minoritaria di questa spesa è invece dedicata alla protezione delle vittime di tratta e alla cooperazione tra forze di polizie e apparati giudiziari per casi di tratta internazionale di persone a scopo di lavoro forzato o prostituzione. Novantadue milioni di euro sono destinati alla protezione dei rifugiati, mentre un capitolo di spesa importante è destinato ai rimpatri forzati o volontari: sono 64 milioni di euro. “Anche qui, non si tiene traccia di quale strada prendano queste persone dopo essere tornate in Africa. È probabile che molte, non avendo alternativa, cerchino nuovamente di imbarcarsi alla volta dell’Italia”, dice Sensi. Infine, appena 15,1 milioni di euro - ovvero il 1,1 per cento della spesa totale - sono stanziati, “per quella che potrebbe rappresentare una delle crepe più importanti, e finora quasi impercettibili, nel Grande Muro”, dice Sensi, che aggiunge: “Il modo migliore per stoppare la tratta irregolare dei migranti è rendere legale la migrazione”. Ma in questo grande piano di finanziamenti e convenzioni c’è una regola che non viene mai meno: dai 25 paesi africani nessuno deve arrivare in Italia. Unica eccezione ammessa è partire con un visto. I funzionari delle ambasciate, però, hanno istruzioni precise: chi non ha qualcosa a cui tornare non va accettato. E non valgono amori e affetti, ma solo rendite, proprietà, affari, posizioni. Migranti. Quelle Ong criminali che salvano vite di Michela Murgia L’Espresso, 21 marzo 2021 Le inchieste sulle organizzazioni attaccate da Minniti. E la continuità sui migranti del governo Draghi. Indizi di nuova spietatezza politica. Tutte le valanghe cominciano con un fiocco di neve. Questo proverbio andrebbe tenuto bene a mente ogni volta che un fenomeno di grosse proporzioni, non necessariamente naturale, si manifesta improvviso in un modo che appare casuale. Ne è buon esempio la sequenza di procedimenti giudiziari - tre in un giorno solo la scorsa settimana - aperti contro le Ong che fanno soccorso in mare ai migranti. L’accusa delle procure di Ragusa, Catania e Trapani, rivolte a Medici senza frontiere e a Mediterranea, è la stessa per la quale tutti i precedenti tentativi di rinvio a giudizio delle Ong si sono sempre conclusi con un nulla di fatto: favoreggiamento dell’immigrazione illegale, con e senza scopo di lucro. La criminalizzazione del salvataggio umanitario si ripete da anni e non ha colore politico, perché quando si parla di migranti non esistono governi amici. Le norme esplicite contro le Ong sono iniziate infatti col Pd al governo sotto il ministero dell’Interno di Marco Minniti, che da un lato stringeva accordi con la Libia per i respingimenti dei migranti e dall’altro pretendeva dalle organizzazioni umanitarie un codice di comportamento che le trattava di fatto tutte come presunte trafficanti. Nel 2017 l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha giudicato “disumano” l’accordo italo-libico per la gestione dei flussi migratori firmato da Minniti, ma per tutta risposta Minniti è stato premiato il mese scorso con la nomina alla presidenza della fondazione di Leonardo spa, ex Finmeccanica specializzata in - così recita il sito - “un nuovo umanesimo tecnologico”, curioso modo per dire che ci si occupa di difesa, sicurezza e aerospazio. La lotta al soccorso ha però vissuto il suo apice mediatico durante il primo governo Conte, con Matteo Salvini che aveva fatto dello slogan #portichiusi il suo principale mantra da comizio e spronato le forze dell’ordine a muoversi quotidianamente per rendere difficile la vita a chi salvava la vita. Col Conte bis i più ingenui si erano illusi che avremmo assistito a un cambio di passo, a partire dalla cessazione della criminalizzazione del soccorso e dalla stipula di accordi europei che portassero a un’azione congiunta di accoglienza, non di respingimento, di chi cerca una vita migliore. Sotto il ben più discreto ministero Lamorgese le decisioni sono però andate nella direzione opposta: gli accordi con la Libia sono stati rinnovati tali e quali a dispetto delle denunce di tutte le organizzazioni internazionali, le multe alle navi Ong sono state ridotte, ma non cancellate, e anche se diminuivano gli attacchi giudiziari all’attività di soccorso, aumentavano le pastoie burocratiche che tenevano mesi e mesi i mezzi umanitari in porto per i più vari “controlli”. Nell’era Draghi qualcosa è cambiato. Non il ministro (è sempre la muta Lamorgese) e nemmeno la linea: l’Italia del nuovo premier supporta totalmente l’agenzia europea Frontex, che quest’anno spenderà più di un miliardo di euro per pattugliare con droni, navi e uomini i confini europei whatever it takes. A essere cambiato sembra il clima politico, con un raggelamento della temperatura sociale sufficiente a far cadere quel famoso fiocco di neve da cui poi può partire il resto. Il segnale della valanga imminente non è però caduto in mare, ma a terra, e precisamente sulla testa di un uomo anziano di Trieste, Gian Andrea Franchi, e di sua moglie Lorena Fornasir. I due, 84 anni lui e 67 lei, sono noti da anni nel mondo del soccorso umanitario per essere i samaritani che prestano aiuto ai migranti che arrivano dal confine sloveno dopo essere sopravvissuti alla via gelida della rotta di terra. I due vecchi avrebbero la colpa di aver ospitato “a scopo di lucro” per una notte una famiglia iraniana con due bambini. Come è già accaduto ogni volta che la loro associazione negli anni si è vista rivolgere dalla procura la stessa accusa, è facile prevedere che anche stavolta non ci sarà niente da rimandare a giudizio, ma non è questo il punto. C’è una nuova spietatezza politica nell’aria e qualcuno spera forse che l’emergenza pandemica ci distragga dal vederla. Dal Myanmar al Sudan, i teenager martiri delle nuove piazze di Michele Farina Corriere della Sera, 21 marzo 2021 Kyal Sin aveva 19 anni, era l’Angelo di Mandalay e li è morta mentre protestava contro il golpe dei militari: è diventata il volto simbolo di una generazione che in tanti Paesi, con innocenza e consapevolezza, ha scelto di sfidare il potere autoritario. Una maglietta nera con la scritta bianca, “Everything will be Ok”, una maschera da sub che anziché a guardare i pesci doveva servire a proteggerla dai lacrimogeni. Gli ultimi minuti della vita di Kyal Sin luccicano in un video che ha fatto il giro del mondo: una giovane donna di diciannove anni con i capelli raccolti che guida un gruppo di pacifici dimostranti lungo una strada di Mandalay, mercoledì 3 marzo 2021, un mese e due giorni dopo il golpe con il quale i militari hanno dato un calcio alla fragile, imperfetta democrazia birmana. Dal fondo della via le forze di sicurezza fanno partire i primi spari. Molti ragazzi appaiono disorientati, ed è Kyal Sin a rassicurarli con la sua voce decisa: “Siamo uniti?”. La risposta è una canzone che rinsalda i cuori: “Uniti, uniti”. Uno del gruppo, Myat Tu, poi racconterà di come la sua giovane amica con la maglietta nera l’avesse convinto ad abbassarsi: “Sta’ giù, o i proiettili ti colpiranno”. In prima linea - Il giorno dopo erano migliaia al suo funerale. Kyal Sin, conosciuta come Angel, è una delle decine di vittime della repressione birmana 2021. Molti dei caduti di queste settimane sono ragazze e ragazzi. Volti incontaminati che agli occhi dell’opinione pubblica internazionale hanno preso il posto di un simbolo ingombrante e imbarazzante come quello di Aung San Suu Kyi, la storica Signora della speranza che per non inimicarsi i generali ha finito per rendersi corresponsabile dei loro crimini, per esempio nei confronti del popolo Rohingya e di altre minoranze. Ma la cosiddetta Generazione Z, nata a cavallo del milennio, è in prima linea non soltanto nel Paese che i generali amici della Cina e del Giappone hanno ribattezzato Myanmar. In diversi luoghi caldi del mondo dove è in gioco la libertà, dalla Russia al Sudamerica, dall’Africa a Hong Kong passando per l’Egitto, accade che a metterci la faccia e il petto siano anche - e talvolta soprattutto - i giovani e giovanissimi. Si potrebbe sostenere con più di una ragione che questa è una costante anagrafica di tante rivoluzioni e di mille resistenze umane. Eppure c’è qualcosa che unisce, rendendoli a loro modo unici nella storia, i ragazzi e le ragazze come Kyal Sin. Innocenza e consapevolezza, praticità e idealismo, fantasia e tecnologia. E una precocità disarmante, che li/le rende veterani/e (o martiri) mentre sulla carta non dovrebbero essere altro che teenager alle prime armi tutti/e Instagram e smartphone. Il loro tempo non è lineare, si muove a salti, fughe in avanti e scatti di lato: è la tensione tra un futuro che non è mai parso così smisurato e l’urgenza di un presente con il fiato corto. Un tempo di lungimirante impazienza. La tenerezza - Così l’Angelo di Mandalay indossava una maglietta con quella scritta ottimista, da vecchio reggae caraibico o da inizio pandemia (“Tutto andrà bene”), ma intanto agli amici mandava messaggi indicando il suo gruppo sanguigno, nel caso fosse rimasta ferita. Ma non ha avuto bisogno di trasfusioni, Kyal Sin. È morta sul colpo, per un proiettile alla testa, nel giorno in cui molti teenager sono stati uccisi in tutta la Birmania. Su Facebook aveva chiesto per ogni evenienza che i suoi organi fossero donati. Al funerale, la zia ha trovato parole semplici e forti: “Sono triste, ma so che loro cadranno presto. La nostra lotta vincerà”. Fa tenerezza, questa saldatura familiar/generazionale tra una nipote e una zia. Kyal Sin era una cultrice di taekwondo e amava ballare al DA-Star Dance Club di Mandalay, hanno raccontato gli amici. Aveva votato orgogliosamente per la prima volta l’8 novembre scorso, alle elezioni che avevano visto la sconfitta netta del partito dei generali. In una foto Angel bacia il dito con l’inchiostro viola, segno dell’avvenuta votazione: “Ho fatto il mio dovere per il mio Paese”. Tra i suoi doveri non ci doveva essere quello di farsi ammazzare dai militari golpisti un mercoledì mattina. E certo nella rabbiosa naturalezza con cui i giovani come Kyal Sin mettono in conto l’eventualità della morte c’è il mucchio di aspettative che hanno alimentato le loro brevi vite. Ci sono le cose non vissute: i ragazzi birmani non hanno patito la paura e il terrore che hanno reso guardinghi i genitori. Sprigionano un’energia contagiosa che risale le generazioni e alla quale si aggrappa un’intera comunità come nella saga di Hunger Games, con quel saluto a tre dita incredibilmente diventato il segno onnipresente della resilienza dei birmani contro gli antichi potenti. La rabbia - Aspettative mancate: nella rabbia dei giovani tunisini che in questo inizio 2021, lontano dai riflettori internazionali, hanno urlato la loro frustrazione (disoccupazione al 36%) c’è anche la delusione per le promesse dissolte di quella rivoluzione dei gelsomini che dieci anni fa era stata l’unica fioritura duratura delle “primavere arabe”. Certo è indubbio che a Tunisi come a Mosca i giovani protestino perché tutto sommato gli è permesso farlo, non si spara sulla folla come si è pronti a fare altrove. In Siria non si mobilitano i figli dei ragazzi che nel marzo 2011 scesero in strada per chiedere riforme a Bashar Assad, perché o sono morti o sono profughi o sono nipotini del regime. In Egitto la repressione del governo Al Sisi impone il silenzio e colpisce capillarmente il dissenso prima che diventi massa critica. La violenza della repressione ha sempre le sue gradazioni territoriali, così come la forza delle proteste ha molte sfumature. Nella sfida giovanile ai niet delle autorità costituite ci può anche essere una certa dose di strafottenza, la curiosità di andare oltre il limite imposto, un impegno minimo o casuale che si focalizza strada facendo. “Voi ce lo proibite e proprio per questo noi lo facciamo”. Tra le decine di migliaia di manifestanti scesi nelle strade gelate delle città russe alla fine di gennaio per chiedere la liberazione dell’oppositore Alexsej Navalny c’erano tanti giovani e una fetta mai vista di teenager. Kirill Prokofiev, studente di storia all’università di Kostroma, a nord di Mosca, ha raccontato al New York Times: “Conosco ragazzi che non avevano alcuna intenzione di manifestare in favore di Navalny. Ma quando hanno sentito di tutti quei divieti, hanno deciso di sfidarli”. Nella città di Yekaterinburg, l’insegnante Irina Skachkova ha raccontato come hanno risposto gli studenti di una scuola superiore a una domanda sul presidente Vladimir Putin: “Putin ha un palazzo costruito con soldi rubati, Putin è un ladro”. Le accuse - Milioni di persone hanno visto il film-report di 113 minuti sulla reggia segreta di Putin che Navalny ha messo su YouTube prima di rientrare in Russia per farsi arrestare. La storia di quel palazzo ha colpito molto anche i giovani, sottolineano gli osservatori di cose russe, li ha colpiti probabilmente più delle rivelazioni sull’avvelenamento dell’oppositore da parte dei servizi di sicurezza legati al Cremlino. La povertà e la ricchezza, e la crescente forbice delle disuguaglianze, sono molle cruciali della Generazione Z: ma anche nel 2017, quando i ragazzi di Mosca bloccarono le strade della centralissima Tverskaya, il fattore scatenante era stata l’inchiesta del solito Navalny sulle finanze sospette dell’allora premier Medvedev. E rispetto a quattro anni fa, oggi i social network hanno una forza e una leggerezza che sfuggono alle maglie della censura (non solo) in Russia. I video con l’hashtag #Navalny alla vigilia delle grandi proteste di sabato 23 gennaio hanno raccolto 800 milioni di visualizzazioni. La mobilitazione dei ragazzi via TikTok si è rivelata imprendibile per la polizia. E anche molto divertente: in una clip che ha ottenuto mezzo milione di like una giovane donna impartisce lezioni di inglese ai manifestanti. Argomento: come passare per americani in caso di contatto ravvicinato con la polizia, come pronunciare la fatidica frase e farsi rilasciare sventolando la minaccia di chiamare un avvocato: “I’m gonna call my lawyer”. Gli altri Navalny del mondo rischiano la vita nell’ombra di Andrew Stroehlein* Il Domani, 21 marzo 2021 Ilham Tohti, Ahmed Mansoor, Sonia Guajajara, Bobi Wine: anche se meno noti, esprimono i loro ideali con la stessa forza Decine di attivisti decidono di sfidare il potere, consegnando le proprie vite a una causa, anche fino al sacrificio estremo. Vengono da parti diverse del mondo ma hanno in comune gli ideali e lo stato di dissidenti. Quando l’attivista dell’opposizione Aleksej Navalny è tornato in Russia a gennaio, nonostante lì fosse stato avvelenato, in tanti si sono chiesti perché. Sapeva che sarebbe stato arrestato e presto è stato condannato a più di due anni di carcere. Perché mettersi in una posizione simile? Navalny ha dimostrato di avere un tipo raro di determinazione e coraggio. Raro, ma non unico. Se ci guardiamo intorno nel mondo, ci sono persone coraggiose in altri contesti che corrono rischi simili. Anche questi dissidenti, meno conosciuti a livello mondiale, meritano la nostra attenzione. Ognuno di questi “altri Navalny” ha una storia particolare. Alcuni hanno ambizioni politiche. Altri si concentrano nell’offrire un aiuto alle vittime di oppressione oppure nel fare pressioni per riforme sui diritti umani. Qualcuno inizia con l’attivismo e finisce per cercare una carica politica. Eppure ciò che questi dissidenti hanno in comune è una singolare dedizione alle proprie cause, che ci lascia a bocca aperta. Ilham Tohti - La Cina ha tanti eroi viventi. Tra questi c’è Tohti, un economista di etnia uigura critico del governo. Di fronte agli abusi e alla discriminazione delle autorità nei confronti della popolazione uigura nella regione dello Xinjiang, Tohti è stato la voce della ragione e del decoro. Ha proposto soluzioni pratiche alla discriminazione economica degli uiguri e ha parlato della necessità di un sistema legale indipendente per contrastare gli abusi dello stato. Tohti ha sollecitato un dibattito pacifico tra studenti, studiosi e la popolazione più in generale. Era il tipo di riformatore pacifico che le autorità avrebbero dovuto accogliere, visti i timori spesso dichiarati di disordini da parte dei radicali nella regione. Ma nel 2014 Tohti è stato condannato all’ergastolo con false accuse di “separatismo” dopo un processo ingiusto e assurdo. Tohti non ha taciuto nella miniera di carbone dello Xinjiang. Negli anni successivi alla sua condanna il governo cinese ha intensificato la repressione nella regione, detenendo arbitrariamente un milione di uiguri e di altri musulmani turchi in “campi di rieducazione” ed espandendo i suoi sistemi automatizzati di sorveglianza di massa a estremi oscuri. Il governo cinese vuole che il mondo dimentichi Tohti. Non è successo. Il Parlamento europeo gli ha conferito il prestigioso Premio Sacharov nel 2019 e la diaspora degli uiguri ha tenuto Tohti e gli abusi della Cina sotto gli occhi di tutto il mondo. Ahmed Mansoor - Noto attivista per i diritti umani negli Emirati Arabi, Mansoor è stato condannato a 10 anni di carcere nel 2018 con accuse interamente legate alle sue dichiarazioni sui diritti fondamentali. Sì: un decennio in prigione per non aver detto nient’altro che la verità. Come se anche le autorità degli Emirati Arabi Uniti si rendessero conto di quanto fosse imbarazzante, il processo e l’appello di Mansoor si sono svolti a porte chiuse. Il governo si è rifiutato di rendere pubblici il documento di accusa e le sentenze del tribunale. Il caso ricorda una frase di 1984 di Orwell: “La libertà è libertà di dire che due più due fa quattro”. L’insistenza sui semplici fatti richiede coraggio nei luoghi in cui le autorità repressive sembrano coscienti della frase successiva di Orwell: “Se questo è concesso, tutto il resto segue”. Come ha detto Khalid Ibrahim, direttore esecutivo del Gulf centre for human rights, “Ahmed Mansoor sapeva di rischiare la prigione quando si è dato alla protesta contro le violazioni dei diritti umani nel suo paese e nella regione più ampia, eppure lo ha fatto con coraggio e dedizione. Ecco perché le autorità degli Emirati Arabi Uniti lo hanno punito così duramente”. Sônia Guajajara - L’attivista brasiliana è diventata una potenza nella causa dei diritti degli indigeni e dell’ambiente, in forte opposizione al governo populista di Jair Bolsonaro per le sue politiche disastrose che hanno contribuito alla rapida distruzione dell’Amazzonia. C’è chi potrebbe pensare che non sia corretto mettere a confronto un dissidente della Russia, della Cina o degli Emirati Arabi con uno di un paese più democratico come il Brasile. Ma l’attivismo ambientale, compreso quello relativo ai diritti delle terre indigene, lì è incredibilmente pericoloso. Secondo la Pastoral land commission, un’organizzazione non profit che aiuta le vittime, nel decennio scorso più di 300 persone sono state uccise in Brasile in conflitti legati all’uso della terra e delle risorse negli stati amazzonici. Molte di loro sono state assassinate per mano di chi è implicato nella deforestazione illegale. Nata in un villaggio della foresta pluviale del popolo Guajajara, Sônia è diventata la prima indigena in Brasile a candidarsi per un ufficio esecutivo federale, mirando alla posizione di vice presidente. Di certo conosce i gravi rischi che deve affrontare dopo l’uccisione di attivisti della sua stessa etnia. Eppure continua a far sentire la sua voce, in particolare contro le violente reti criminali che stanno dietro a questi omicidi. Bobi Wine - Il musicista ugandese e leader dell’opposizione Robert Kyagulanyi, meglio conosciuto con il nome d’arte Bobi Wine, ha avuto l’ardire di sfidare il presidente da cinque mandati, Yoweri Museveni, per la carica più alta del paese (anche se Museveni detiene tutte le leve della violenza di stato e i suoi scagnozzi non hanno paura di usarle). La storia di Wine quasi implora di essere trasformata in film. Proviene da una baraccopoli di Kampala e ha saputo esprimere le frustrazioni di una nuova generazione, prima nella musica e poi nella politica. “Mi sono reso conto che non ci salverà nessuno”, ha detto in un’intervista a Rolling Stone. “Dobbiamo farlo da soli”. È diventato la voce dei giovani ugandesi stanchi della corruzione dilagante di pochi e del profondo impoverimento di molti. È stato arrestato innumerevoli volte e torturato per aver esercitato il suo diritto fondamentale alla libertà di parola. Il fatto che Wine abbia dovuto fare una campagna con addosso un giubbotto antiproiettile e un elmetto la dice lunga sulla politica dell’Uganda, e anche sulla dedizione di Wine. Nelle settimane che hanno preceduto le elezioni di gennaio, Human rights watch ha documentato “uccisioni da parte delle forze di sicurezza, arresti e percosse di sostenitori e giornalisti dell’opposizione, l’interruzione di manifestazioni e la chiusura di Internet”. Museveni è stato dichiarato vincitore e Wine è stato messo agli arresti domiciliari. Wine continuerà a combattere, questo è certo. Cosa li accomuna - Questi dissidenti vengono tutti da contesti diversi e lavorano in contesti diversi. C’è un valore però nel mettere insieme esempi come questi, per aiutarci a capire meglio cosa rende tali leader eccezionali. Lavorando sui diritti umani e seguendo dissidenti come quelli presentati - a volte, anche avendo la fortuna di lavorare con loro - ho scoperto una caratteristica costante: la certezza di visione e di obiettivo. Vent’anni fa ho chiesto ad Anna Politkovskaya, giornalista investigativa russa e difensore dei diritti umani, come riusciva a continuare a fare quello che faceva. Per i suoi resoconti sugli abusi delle forze russe nella seconda guerra cecena i militari l’hanno arrestata, picchiata e sottoposta a una finta esecuzione. “Come fa a portare avanti le sue indagini?”, le ho chiesto. “Sicuramente sa che le intimidazioni dei militari non sono solo una farsa, e che la prossima volta potrebbero effettivamente ucciderla, no?”. “Certo”, ha risposto. Non poteva fare altrimenti: i crimini dovevano essere resi noti e lei era nella posizione per farlo. Conosceva i rischi. Politkovskaya è stata avvelenata su un aereo nel 2004, come è successo a Navalny l’anno scorso. È sopravvissuta all’avvelenamento, ma le hanno sparato mortalmente di fronte al suo appartamento nel 2006. Non credo che i difensori dei diritti umani come Politkovskaya abbiano alcun desiderio di diventare martiri. Sentono profondamente la gravità della questione e diventano posseduti dall’importanza storica di ciò che fanno. Tutti questi dissidenti vedono ciò che è fondamentale in un modo diverso da chi li circonda, o in un modo in cui chi è loro intorno non riesce a esprimere a parole. Le loro società sono impantanate nella corruzione e nelle reti di potere, ma loro fanno breccia con richieste essenziali che risuonano: il diritto di dire ciò che si pensa; il diritto a un ambiente sano; il diritto di protestare pacificamente; il diritto di eleggere i propri rappresentanti e che il proprio voto sia considerato. Non chiedono il mondo, ma quello che centinaia di milioni di persone in tutto il mondo hanno già e spesso danno per scontato. È la semplicità del loro messaggio che rende questi dissidenti efficaci. Questa semplicità può catalizzare un sostegno diffuso, e le persone politicamente consapevoli lo sanno. Ma ciò che vale per tutti loro è che non possono fare altrimenti. Le ragioni dell’anima - La maggior parte delle persone guarda il ritorno di Navalny in Russia e lo giudica irrazionale. Ma un dissidente vede l’irrazionale come una chiamata. Anzi, per i dissidenti, invece, sono le autorità a essere irrazionali. I dissidenti rimangono convinti delle loro idee, anno dopo anno. fino a quando, con un duro lavoro e con fortuna, un numero sempre maggiore di persone inizia a considerare razionale l’irrazionale. È allora che ottengono una vittoria in un’aula di tribunale, o a un risultato elettorale fondamentale, o forse anche a qualcosa di monumentale come la fine di un sistema oppressivo. Purtroppo più spesso accade che siano le autorità a schiacciarli. Il fatto è che la maggior parte dei dissidenti non finisce per persuadere le proprie società a cambiare. Molti dissidenti affrontano un destino orribile che forse vedono venirgli incontro. Non è che non abbiano a cuore la propria vita; è che vogliono che la propria vita sia importante. Insieme ai miei colleghi ho avuto il privilegio lo scorso anno di intervistare a distanza un difensore dei diritti umani incarcerato in Kirghizistan, Azimjon Askarov, pochi mesi prima che morisse, in prigione, perché le autorità gli hanno negato cure mediche adeguate. Tra le tante cose profonde che ha detto, dopo dieci anni di ingiusta detenzione, ricorderò soprattutto questa: “Anche se sono in prigione, sento che la mia anima è libera”. Molti penseranno che è una cosa irrazionale. Ma dentro a questa visione del mondo, che incomincio a capire e condividere, ha senso. Le autorità repressive continuano a cercare di farci impazzire. Ma ci aggrappiamo a ciò che è reale, almeno nell’unico luogo che controlliamo e che non possono raggiungere: l’anima. *Questo articolo è stato pubblicato sulla testata online Persuasion Turchia. Erdogan ripudia la Convenzione di Istanbul di Ezio Menzione Il Dubbio, 21 marzo 2021 Stracciata la Convenzione anti femminicidio pur di blandire gli ultraconservatori. Con un decreto presidenziale, il “sultano” ritira l’adesione della Turchia alla Convenzione di Istanbul, la più importante Carta europea contro la violenza di genere. Non è solo un attacco al movimento Lgbt+ ma anche una lisciata agli integralisti del partito Mhp, decisivo per la maggioranza del governo di Ankara. Con un decreto presidenziale pubblicato stamani sulla Gazzetta Ufficiale turca, Erdogan ha ritirato l’adesione del proprio paese alla Convenzione di Istanbul del 2011, sottoscritta dal Parlamento turco all’unanimità nel 2012. La Turchia era stata il primo firmatario della Convenzione, seguita da 31 paesi su 37 del Consiglio d’Europa. La Convenzione e i suoi 81 articoli è unanimemente considerata la migliore tutela che le donne abbiano raggiunto in questi anni per difenderle dagli atti di violenza di genere e di discriminazione: un caposaldo legislativo che rende un po’ meno deboli le donne di tutta Europa. Essa individua nuovi (allora) reati come lo stalking, la violenza psicologica, il matrimonio, l’aborto e la sterilizzazione forzati e altri ancora, e costringe gli Stati firmatari ad approntare rimedi contro la violenza di genere. Violenza che proprio in Turchia raggiunge vette e numeri di fronte ai quali impallidiscono quelli degli altri paesi: un recente studio ha dimostrato che una donna su tre ha subito una vera e propria violenza sessuale in vita sua. Basti dire i numeri dei femminicidi: negli ultimi anni sono su una media stabile di più di 300 l’anno (324 nel 2019, 284 nel 2020, 33 nel solo febbraio 2021, ultimo dato pervenuto), con punte di più di 400. Se c’è un paese che ha bisogno più di ogni altro della Convenzione di Istanbul, questo è la Turchia. Il ministro della Famiglia e il portavoce di Erdogan, nell’intervenire sul decreto presidenziale, hanno affermato che la Turchia non ha bisogno di una norma internazionale, che la famiglia e la cultura della famiglia bastano a tutelare le donne, soprattutto “bastano i valori tradizionali che fanno della famiglia un asse portante della società turca”. Questo richiamo ai “valori tradizionali” è la chiave per comprendere la mossa di Erdogan: l’attacco è sì principalmente contro le donne, ma tiene d’occhio anche (se non soprattutto) il movimento Lgbt+, molto forte nelle grandi città e che vede in primissima fila lesbiche e trans, su posizioni di chiara opposizione al governo. Facile prevedere come prossima mossa una messa fuori legge di tale movimento, che trovava proprio nell’articolo 4 della Convenzione una difesa dagli atti discriminatori delle persone sulla base degli orientamenti sessuali. Ma quale è l’obiettivo politico di una mossa simile? Ci sta dentro, naturalmente, l’insofferenza tipica del sultano ad ogni norma e legame pattizio e proveniente da qualche altra fonte, pur se recepita dall’ordinamento interno. Ma ci sta pure la sudditanza ai voleri del partito Mhp, alleato fondamentale della coalizione di governo (da solo lo Akp, il partito di Erdogan, non avrebbe avuto il 50% dei voti alle ultime politiche e al referendum costituzionale). Lo Mhp è partito ultraconservatore, islamista integralista, che mira alla reintroduzione della sharia (la legge islamica) per governare le questioni familiari: era stata bandita da Ataturk nel 1923 al momento della costituzione della repubblica. È su questo che si gioca la partita in Turchia. La rimoscheizzazione di Santa Sofia e di Chora a Istanbul, non erano state che l’assaggio. Naturalmente, la disdetta dell’adesione della Turchia alla Convenzione di Istanbul ha suscitato sdegno in tutta Europa (eccetto che da parte di Di Maio). Ma ha sollevato proteste soprattutto in patria sia per le modalità con cui è avvenuta - un decreto presidenziale che abroga una legge approvata unanimemente dall’intero Parlamento - sia perché il forte movimento delle donne considera la Convenzione una conquista e uno scudo necessario. Difatti in tutto il paese le donne si sono convocate in piazza per stasera e, c’è da giurarci, la questione non finisce qui. *Osservatore Internazionale Ucpi Turchia. “Non obbediamo”, le donne vogliono la loro Convenzione di Chiara Cruciati Il Manifesto, 21 marzo 2021 Migliaia di donne ieri in piazza contro l’uscita del governo di Ankara dal trattato di Istanbul. La ministra della famiglia: “La carta contro la violenza di genere non ci serve”. Ma i numeri dicono altro 8 marzo di protesta per le donne turche di Istanbul. Le donne turche e le associazioni femministe lo avevano già capito. Manifestano dall’anno scorso, nonostante la pandemia, perché l’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul era nell’aria, portata dalle parole insistenti come martelli pneumatici di ministri, politici, dello stesso presidente Erdogan. Venerdì sera è successo: la Turchia, primo firmatario della Convezione del Consiglio d’Europa e paese ospitante il debutto della principale carta internazionale contro la violenza sulle donne, non aderisce più al trattato. La Convenzione, entrata in vigore nel maggio 2011, firmata da 45 paesi (e dalle istituzioni Ue) e ratificata da 35, è la prima a introdurre strumenti legalmente vincolanti per combattere la violenza sulle donne, prevenire gli abusi domestici e perseguire i responsabili. All’articolo 3, definisce la violenza di genere come una forma di discriminazione e individua una serie di abusi come specifica violenza contro le donne: violenza psicologica e fisica, stupro, molestie, stalking, matrimonio forzato, mutilazione genitale femminile, aborto forzato e sterilizzazione forzata, delitti d’onore. Ankara dice di non averne bisogno e affida questa certezza a un tweet della ministra della famiglia, Zehra Zumrut: “A tutelare le donne ci sono già le leggi nazionali, a partire dalla nostra Costituzione. Il nostro sistema giudiziario è dinamico e abbastanza forte da implementare nuove leggi”. I numeri dicono il contrario: secondo l’Oms, il 38% delle turche ha subito violenza almeno una volta, mentre secondo un rapporto dello stesso governo turco risalente al 2014 quattro donne su 10 hanno subito abusi fisici o sessuali, tre su 10 si sposano ancora minorenni, al 33% delle ragazze non viene permesso di frequentare la scuola e all’11% delle donne di lavorare. E poi i femminicidi: 300 nel 2020 (più 170 casi “sospetti”, che la polizia ha frettolosamente bollato come suicidi tra le proteste delle associazioni delle donne), 477 nel 2019, 440 nel 2018. Grosso modo il doppio dei dati del 2012. Numeri che si accompagnano alla martellante campagna imbastita da numerosi esponenti di governo e personalità conservatrici che (a partire dallo stesso Erdogan) da anni dipingono un’immagine dei ruoli di genere che buona parte delle donne - e non solo - considera l’ennesimo esempio di patriarcato di Stato: prendersi cura della casa e dei figli, soprattutto farli i figli, almeno tre, per il bene della nazione, che rischia ogni giorno a causa dell’avanzata della propaganda Lgbtqi+, terroristi che puntano a distruggere la fabbrica sociale (lo ha ribadito ieri su Twitter il vice presidente Fuat Oktay). Questa la realtà agognata da una fetta importante di classe dirigente, se non altro quella al potere con la coalizione di governo Akp-Mhp. La Convenzione è divenuta il bersaglio migliore, con il suo richiamo all’uguaglianza che i conservatori ritengono il mezzo per promuovere i diritti Lgbtqi+. Immediata la reazione delle opposizioni del Chp e dell’Hdp, ma soprattutto quella delle associazioni delle donne e femministe che hanno chiamato subito alla piazza, mai lasciata in questi mesi: “Chiamiamo alla lotta totale contro chi ha rimosso la Convenzione di Istanbul”, il messaggio affidato ai social dalla piattaforma turca We Will Stop Femicide, annunciando proteste in tutto il paese, nel pomeriggio di ieri, da Hakkari a Erzurum, da Duzce a K?rsehir. Il quartiere di Kadikoy a Istanbul si è colorata di viola e riempita del grido di migliaia di donne: “Karar? geri çek, sözlesmeyi uygula” (ritira la decisione, rispetta la Convenzione). Con loro membri del Chp, le socialiste femministe dell’Ehp, il Partito comunista e tanti altri, che hanno preso la parola insieme ai gruppi femministi. Lo slogan comune “Non stiamo zitte, non obbediamo”. La polizia le ha caricate. E mentre i social network venivano inondati di messaggi di dissenso (l’hashtag: #istanbulsozlesmesiyasatir) venivano inondati di messaggi di dissenso, a reagire è anche il Consiglio d’Europa per bocca della sua segretaria generale Marija Pejcinovic Buric: “Questa mossa è un grave passo indietro e tra i più deplorevoli perché compromette la protezione delle donne in Turchia”. Etiopia. Abiy Ahmed prova a chiudere il conflitto nel Tigray con un’amnistia di Fabrizio Floris Il Manifesto, 21 marzo 2021 Ultimo appello del governo di Addis Abeba ai leader politici e militari del Tplf: “Salvacondotto per chi si arrende”. Il governo etiope cerca di chiudere la situazione militare del Tigray con un’amnistia. In un documento il primo ministro Abiy Ahmed ha rivendicato la necessità della reazione militare all’attacco del Tigray Peoplès Liberation Front (Tplf) contro l’esercito federale: “Un atto di tradimento”. Il Tplf, prosegue, “ha considerato la pazienza del governo federale e il tentativo di risolvere pacificamente le questioni come debolezza”. Il governo quindi crede fermamente nella necessità di trattare con pazienza e con particolare attenzione verso i cittadini tigrini, che sono invitati “a tornare nei loro villaggi e nelle loro case entro una settimana e unirsi alla comunità”. Di conseguenza, “con l’eccezione di alti dirigenti militari e politici del Tplf che sono sospettati di essere coinvolti in attacchi illegali e crimini correlati e contro i quali sono stati emessi mandati di arresto, i cittadini che decidono di staccarsi dal gruppo distruttivo e di astenersi dall’intraprendere attività distruttive possono riprendere la loro vita e vivere in pace senza alcuna responsabilità legale”. Viene chiesto ai leader politici e militari di alto livello del Tplf di arrendersi pacificamente. Chi accetta - fanno capire da Addis Abeba - avrà un salvacondotto (non ben specificato). Ma “i leader e dirigenti del Tplf che non rispondono a quest’ultimo appello andranno incontro alle azioni previste dalla legge”. Argentina. Marco Bechis, il sopravvissuto in lotta per la memoria dei desaparecidos di Gigi Riva L’Espresso, 21 marzo 2021 Arrestato. Torturato. Liberato grazie alle amicizie del padre. Verso una vita di sensi di colpa. E di testimonianze per far condannare gli aguzzini. Dopo averne seminato corposi brandelli nei suoi film, giunto all’età di 65 anni il regista Marco Bechis si è deciso a raccontare per intero in un libro la sua vita da desaparecido-sopravvissuto. Dove l’accento cade piuttosto sul secondo vocabolo, quello che lo ha accompagnato nei 44 anni successivi al sequestro per arrivare ai giorni nostri, alla scrittura come catarsi, persino come espiazione per un destino evitato che gli ha lasciato, sempre, la sensazione di un debito verso chi non c’è più. Una sindrome sull’onda di quanto già sappiamo da Primo Levi sui sommersi e i salvati, aggiornato a un genocidio più recente, quello della dittatura argentina a cavallo tra gli anni 70 e 80. Nei suoi taccuini, nella sua testa, Bechis ha accumulato, e soprattutto custodito come in uno scrigno, una mole impressionante di dati perché gli servissero, in un giorno indefinito, ad avere giustizia. La necessità della memoria buona. E accanto ha analizzato, come un entomologo, tutti i suoi pensieri, le reazioni, anche i sogni, analista di se stesso e della condizione particolare, perché assai minoritaria, del reduce da un campo di sterminio. Dunque obbligato ad essere perennemente un testimone. Il libro ha per titolo “La solitudine del sovversivo” (Guanda) e muove dalla data fatale, 19 aprile 1977. Il protagonista aveva 21 anni e, come succedeva all’epoca, aveva già accumulato esperienze, nell’urgenza che si avvertiva di bruciare le tappe, superare di slancio l’adolescenza, entrare velocemente nell’età adulta e autonoma. Lo aveva aiutato una famiglia particolare, nomade e dell’alta borghesia. Nato in Cile perché lì lavorava il padre Riccardo, manager di alto profilo, che in quel Paese alla fine del mondo si era sposato con Huguette, hostess di terra di origini svizzere. La tappa successiva, San Paolo del Brasile, era stata funestata dalla morte del fratello minore, Robertino, caduto per un incidente nella tromba dell’ascensore. Una perdita che si sarebbe riverberata successivamente in quelle dei compagni di avventura politica. Pur nelle differenze, sollecitava la stessa domanda: perché lui sì, loro sì, e io no? Naturalmente non c’è risposta capace di placare l’ansia per un senso di colpa che è poi il senso di colpa della vittima. Abbandonata la casa maledetta di San Paolo, il successivo destino era stato Buenos Aires, finalmente la patria più riconosciuta per un’identità che si era fatta naturalmente plurale. Gli amici, la scoperta del sesso, anche la politica, prima di un trasloco mal digerito in Italia e causa di uno scontro con i genitori per il suo desiderio di tornare laggiù dove era maturato il bocciolo del suo essere uomo. Allora, negli Anni Settanta, era anche possibile che un minorenne strappasse alfine il consenso per rivalicare, da solo, l’Atlantico, per ultimare il liceo. Marco Bechis aveva già sommato tanti voli da fargli dire, in seguito, che gli aeroporti sono il posto dove si sente più a suo agio. Altro che non-luoghi. L’aria del tempo favoriva l’impegno politico, ancor più nel Sudamerica dei colpi di Stato e dell’oppressione. E il fanciullo di buona famiglia, cresciuto con le collaboratrici domestiche, si era schierato senz’altro a sinistra. Anche se, pur nel clima dell’urgenza e delle scelte nette, non aveva mai compiutamente aderito, con la sua anima tormentata, alla lotta armata dei Montoneros che riteneva perdente visto lo squilibrio nel rapporto di forza con il regime militare. E si era ritagliato per sé un futuro da maestro elementare dei bambini indigeni delle comunità del Nord. Così si era iscritto a una scuola serale per prendere il diploma. Ma negli anni del terrore argentino gli squadroni della morte e i loro mandanti non erano interessati ai distinguo sempiternamente cari alla sinistra, se stavano perpetrando un genocidio generazionale. Il loro scopo era estirpare alla radice un’ideologia di sinistra e dunque massacrare chiunque anche solo parzialmente ne fosse stato contaminato. La sera del 19 aprile 1977 Marco Bechis era uscito dalla scuola abbracciato con la fidanzata Dayin. Ad aspettarlo, i sequestratori, soprattutto il “Turco” Juliàn dai folti baffi e dal gran naso, l’unico che vedrà in faccia e sarà in grado di riconoscere prima di sprofondare nel buio perenne a cui è costretto da una spessa benda. Gli mettono una 38 tra le costole, lo infilano in un Ford Falcon beige, l’auto più usata per le operazioni sporche. Dayin non l’hanno presa, è l’esile filo che lo lega ai vivi perché lo stanno portando, gli è evidente, nelle catacombe anticamera della morte. Nel sotterraneo definito “Club Atlético” diventa il detenuto A01, numero dei lucchetti alle caviglie 190 e 191, cella singola 16. Un cieco capace di schedare solo voci, suoni, rumori. Le catene e il passo strascicato degli altri prigionieri, le urla dei torturati, la pallina da ping-pong che rimbalza sul tavolo dove si rilassano i carcerieri, il transistor acceso per gli incontri di calcio e i “goool” urlati dai radiocronisti, la voce dell’interrogatore “buono” e di quello “cattivo”. Conosce una sessione di “picana”, il pungolo elettrico usato sui corpi per indurre a parlare. Nelle lunghissime ore del sequestrato in attesa di sentenza, riflette su cosa può dire, cioè quanto per deduzioni logiche gli aguzzini già sanno, e cosa deve tacere per non compromettere compagni ancora liberi. Risponde ai questionari imbecilli che gli sottopongono cercando di non cadere anche solo in una contraddizione che sarebbe esiziale. Riesce a staccare “un pezzetto di cemento duro lungo mezzo dito, da uno dei lati molto tagliente, la sua forma è simile alla punta di una lancia preistorica” che diventa la via di fuga nel caso non dovesse farcela a resistere, un taglio alle vene e niente più Marco Bechis. Si convince, e subito la assolve, che a fare il suo nome sia stata la bellissima compagna Muñeca e ne ha la riprova quando la ritrova in quel lager. Una volta sola ha il coraggio di scostare la benda spessa per guardare dove si trova, ne ricaverà un disegno che sarà la base per la costruzione del set del suo fortunato film “Garage Olimpo”. Non sa quanto tempo, mesi, anni, dovrà restare recluso, ammesso che campi. Ma ecco, dopo una manciata di giorni, la svolta. “Se ne va dal papà”, dice con sarcasmo un secondino. Già, papà. Dayin ha avvertito gli amici della scomparsa di Marco e questi i genitori. Riccardo, nel frattempo diventato alto manager Fiat, e Huguette si precipitano a Buenos Aires, muovono amicizie influenti tra gli imprenditori che arrivano a perorare la sua causa presso il generale Suàrez Mason, l’uomo che controlla ogni sotterraneo nella capitale. Il quale, come un imperatore romano al Colosseo, gira il pollice verso l’alto. Non sono emerse particolari colpe e vuole evitare un incidente economico-diplomatico a un anno di distanza dai Mondiali di calcio in Argentina. È il privilegio che tormenterà Bechis per tutta la vita, quello che alimenta la domanda ossessiva: perché io sono sopravvissuto? Non è finita. Dal carcere illegale passa al carcere legale, dove ricompare nell’anagrafe dei vivi. Dividerà una cella con il pacifista e futuro premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquivel. Alcuni mesi di detenzione ordinaria ed eccolo scortato fin sotto la carlinga di un aereo Alitalia, gli viene restituito il passaporto che gli presero il 19 aprile, prova evidente della connessione tra il circuito sotterraneo e quello sopra il suolo, sempre negata dalla junta. Gli uomini di scorta avvertono il pilota, “attenzione avete a bordo un terrorista”. L’Italia è l’altra patria. Dove spendere ogni spicciolo di energia per denunciare i crimini della dittatura, dedicare a quei fatti il suo talento di regista, senza però mai vincere l’inquietudine profonda che lo interroga giorno e notte. Vivere, amare, lavorare sempre con la stessa sensazione di essere inadeguato su questa terra. Essere ritenuto un eroe per i pochi giorni da sequestrato e considerarsi talvolta un traditore per non aver fatto la stessa fine degli altri. In un dualismo assurdo se applicato al clima della costrizione. Talvolta riaffiora l’istinto al suicidio come quando dal portellone aperto di un aereo in volo sta girando una scena di “Garage Olimpo”, salvo ritrarsi impaurito quando è sull’orlo dell’abisso. Prosegue la sua spola sull’asse Italia-Argentina e a Buenos Aires casualmente incrocia in un bar lo sguardo beffardo del “Turco” Juliàn fiero della sua impunità nell’epoca in cui due leggi (poi cassate) avevano di fatto sancito una moratoria per i delitti anche più efferati. Si pentirà di non avergli dato almeno un pugno sul muso. Lo rivedrà in tribunale, “Turco,” nel 2010 assieme ad altri 15 imputati per le nefandezze perpetrate nel Club Atlético, nel Banco e nell’Olimpo, e con un colpo di teatro chiede alla Corte che i suoi aguzzini gli siano indicati a uno a uno per nome, per stabilire una sorta di parità, dato che lui fu sempre bendato al loro cospetto. Ammette, Bechis, che nemmeno il processo e le condanne, dunque la chiusura circolare di una vicenda iniziata oltre tre decenni prima, sono serviti a riconciliarsi con se stesso. Ci voleva questo libro, confida. Sono suo buon amico da tanto tempo. Eppure non conoscevo una miriade di dettagli, i più intimi. Nel volume c’è una frase emblematica pronunciata da una sopravvissuta: “Di certe cose parlo soltanto con le mie piante”. Ecco spiegato il titolo. È quella la solitudine del sovversivo. India. Il Covid ha svuotato gli slum: i disoccupati in fuga verso la carestia di Luca Geronico Avvenire, 21 marzo 2021 Sempre meno lavoratori a giornata sul ponte dell’Howrah. L’allarme Caritas: dopo il lockdown è crollata l’economia informale. Sono 140 milioni gli sfollati di ritorno nei villaggi. Si chiamano Ajar, Hari, Chandra e Naresh. Ma il nome, purtroppo, rischia di scomparire in fredde statistiche. Come le loro esistenze. Le enormi baraccopoli di Calcutta da alcuni mesi sembrano più vuote e il ponte sul fiume Howrah, alla mattina, è meno affollato di operai a giornata. Se si vuole capire quanto il Covid abbia “picchiato duro” nel subcontinente indiano, più che alle statistiche sanitarie bisogna guardare le sponde semideserte dell’Howrah. Infatti i quasi 11 milioni di contagiati e gli oltre 154mila morti fanno dell’India il secondo stato più colpito al mondo, ma con percentuali che si stemperano nel totale di un miliardo e 300 milioni di abitanti. Cifre ritenute abbastanza attendibili, anche se le capacità diagnostiche, specialmente fuori dalle metropoli, sono assolutamente limitate data la mancanza di una sanità pubblica. A colpire duro, più dell’assenza di terapie intensive, e in attesa che la campagna vaccinale iniziata a gennaio riesca con sforzo titanico a raggiungere i più remoti villaggi, è quel senso di vuoto che si respira dove, fino a pochi mesi fa, era un pullulare di “braccianti di giornata” assoldati da ambigui mediatori. È la parabola che porta dall’indigenza al baratro e che corre lungo la strada che porta da Calcutta ai villaggi dell’India settentrionale nel vicino Stato del Bihar. Quando, il 23 marzo, il premier Narendra Modi decretò un lockdown totale - peraltro impossibile da rispettare nella società indiana - in poche settimane milioni di “braccianti metropolitani” si trovarono senza quelle 200 rupie (circa 2 euro) indispensabili per sopravvivere nella grande Calcutta. E spedire a casa tutto il resto: “Si sono trasformati, in pochi giorni, da “bread winner” ad affamati”, spiega Beppe Pedron, responsabile di Caritas Italiana per l’Asia meridionale. Cinquecento chilometri e più, dal Bengala occidentale al Bihar, percorsi la scorsa primavera da giovani uomini stipati su bus sgangherati presi d’assalto, su vagoni di treni strabordanti, in bicicletta o semplicemente a piedi per lasciare una baraccopoli divenuta, nel giro di poche settimane, terra ostile. Da marzo in poi migliaia e migliaia di lavoratori, legati in gran parte all’industria tecnologica o delle comunicazioni, sono tornati a fare i pastori di pecore o i contadini. Difficile avere cifre esatte della migrazione interna alla penisola indiana. Un “viaggio di ritorno” che ha diffuso il contagio e ha riportato altre bocche da sfamare nei villaggi d’origine. Il lockdown ha causato la più grande migrazione interna che l’India ricordi in tempi recenti: secondo uno studio dell’Indian Journal of Labour Economics, “nel 2020 in base al reddito, sono stati 600 milioni i migranti interni dell’India, di cui 200 milioni tra stato e stato e, si stima, 140 milioni legati a necessità lavorative”, spiega sempre Pedron. Una lotta per il pane quotidiano che già - prima della pandemia - esponeva questo popolo di “bread winner” allo sfruttamento sessuale se non addirittura al traffico di organi. Quale sia il costo sociale di questa “inversione a U” nella povertà lo testimonia il tasso di suicidi, in forte aumento, come l’aumento delle ma-lattie psichiatriche. Un frutto amaro del crollo di ogni possibilità di crescita economica, mentre a causa del lockdown grandi quantità di raccolti agricoli e di cibo semi-lavorato sono andati perduti: una tragedia per un Paese già agli ultimi posti (102esimo su 117) nell’Indice globale della fame. Così il “Mahatma Gandhi national rural employment” che doveva essere un piano governativo in no per assicurare 100 giorni di lavoro garantito ai disoccupati agricoli, “nell’emergenza si è trasformata in un piano assistenziale allo stato puro”, aggiunge sempre Pedron di Caritas Italiana. Un calcio alle politiche di sviluppo programmate, ma almeno un aiuto concreto per sopravvivere. Anche perché l’esodo di massa, gli assembramenti, la chiusura temporanea delle frontiere interne agli stati, la quarantena di due settimane imposta a chi rientrava nella terra d’origine ha costretto il governo tra primavera ed estate ad allestire 38mila campi profughi: scuole, caserme, strutture pubbliche che hanno dato riparo a chi compiva l’esodo garantendo a circa 16 milioni di persone due pasti al giorno. Per tornare a casa e sprofondare nella fame.