L’ergastolo va a processo e ora per il carcere a vita può davvero essere la fine di Andrea Pugiotto Il Riformista, 20 marzo 2021 La Consulta deciderà sul divieto di accedere alla libertà condizionale per gli ergastolani ostativi, cioè per chi non si pente. Se lo giudicherà incostituzionale, cancellerà la pena fino alla morte. In sua difesa si è costituito il governo ma era il Conte 2, Cartabia non l’avrebbe fatto. 1. Il 23 marzo la Corte costituzionale deciderà la sorte dell’ergastolo ostativo alla concessione della liberazione condizionale. Sarà un’udienza pubblica, grazie all’intervento della parte privata opportunamente ammessa con decreto del Presidente della Consulta: la sua tardiva costituzione, infatti, era dipesa dalle restrizioni anti-Covid che avevano impedito al difensore di recarsi in carcere ad acquisire per tempo la procura speciale dell’assistito, Salvatore Pezzino. Sarà un’udienza partecipata anche dal Governo tramite l’Avvocatura dello Stato e - in forma esclusivamente cartolare - da Antigone, Garante Nazionale dei diritti dei detenuti, L’Altro Diritto, Macrocrimes, Nessuno Tocchi Caino: le loro memorie, infatti, sono state ammesse e acquisite al fascicolo di causa con decreto del Presidente Coraggio, su parere del giudice relatore Zanon. Ci sarà anche un convitato di pietra, la Corte di Strasburgo, che ha già accertato l’incompatibilità dell’ergastolo ostativo con l’art. 3 Cedu che vieta le pene crudeli, inumani e degradanti (sent. 13 giugno 2019, Viola c. Italia n. 2). 2. È una dialettica processuale significativa. Nel 1974, chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità dell’ergastolo comune, la Corte decise in totale assenza di contraddittorio. Allora, benché sollevata da una corte d’assise, su eccezione del pm, con l’adesione della parte civile e dei tre imputati, nessuno, nemmeno il Governo, si costituì davanti alla Consulta. Ne derivò, per questo, una stringatissima sentenza di rigetto (la n. 264/1974). Oggi accade t’opposto. Merito delle nuove norme integrative del processo costituzionale che hanno introdotto l’amicus curiae, la possibilità per formazioni sociali e soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla qua estio, di presentare opinioni scritte. Ma la novità va oltre il mero dato normativo. La partecipata udienza del 23 marzo, infatti, segnala la crucialità del tema all’esame della Corte, con tutte le sue domande di senso: se per Costituzione la pena mira al reinserimento del reo nella società, come può ammettersi il carcere a vita? Se è criterio costituzionalmente vincolante valorizzare i progressi del condannato durante l’esecuzione della pena, come può giustificarsi un regime ostativo che nega al giudice ogni valutazione individualizzata? Se il lungo trascorrere del tempo può comportare trasformazioni rilevanti nella personalità del detenuto e nel contesto esterno al carcere, su quali basi poggia una presunzione assoluta di pericolosità sociale che inchioda, per sempre, il reo al suo reato? Se il diritto al silenzio è espressione del diritto alla difesa e ad un equo processo, come può sanzionarsi il rifiuto di collaborare con la giustizia? Specialmente nella sua variante ostativa, si conferma così che “l’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere” (Papa Bergoglio). 3. È merito non di un eccentrico e periferico tribunale di sorveglianza ma della Sez. I penale di Cassazione aver investito del problema la Corte costituzionale, seguendo strategie argomentative robuste e persuasive, già illustrate su queste pagine (Il Riformista, 9 luglio 2020). È lo stesso giudice che, con analoga iniziativa, ha aperto una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria, provocando la sent. n. 253/2019. Con essa la Consulta ha riconosciuto anche agli ergastolani ostativi la facoltà di chiedere - e non il diritto di ottenere - un permesso premio, dopo almeno 10 anni di detenzione, comunque condizionato a un severo regime probatorio e al vaglio rigoroso dell’autorità giudiziaria. Ora in gioco è la liberazione condizionale, che della pena è causa estintiva dopo 26 anni di detenzione e qualora il reo abbia dato prova di “sicuro ravvedimento”. Secondo la Consulta, è proprio la sua possibile concessione a rendere costituzionalmente accettabile la pena perpetua, perché la liberazione condizionale “consente l’effettivo reinserimento anche dell’ergastolano nel consorzio civile” (sent. n. 264/1974). Questa acrobatica quadratura del cerchio - che salva l’ergastolo purché non sia un ergastolo - non vale però per la condanna a vita di chi ha commesso un reato associativo incluso nella blacklist dell’art. 4 bis, 1° comma, dell’ordinamento penitenziario: agli ergastolani ostativi non collaboranti, infatti, la liberazione condizionale è preclusa. Da qui la principale censura della Cassazione: se la liberazione condizionale è l’unico istituto che, in virtù della sua esistenza nell’ordinamento, salva la costituzionalità dell’ergastolo, “vale evidentemente la proposizione reciproca” (sent. n. 161/1997). 4. Come fa nel suo intervento la parte privata, anche gli amici curiae depositati a Corte argomentano l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. Tutti, nessuno escluso. Si tratti delle memorie presentate da associazioni militanti (Antigone, Nessuno Tocchi Caino), da centri studi universitari (L’Altro Diritto, Macrocrimes) o da un soggetto istituzionale (il Garante nazionale). E una convergenza significativa che la Consulta farà bene a non sottovalutare. I dati statistici ufficiali, forniti dal Garante nazionale, attestano poi la natura tutt’altro che marginale della quaestio sottoposta alla Corte costituzionale: dei 1.800 ergastolani in carcere, 1.271 (pari al 71%) sono ostativi e il loro numero, negli ultimi 15 anni, è in costante crescita. Dunque, oggi l’ergastolo è principalmente un ergastolo privo di liberazione condizionale. Cioè detenzione fino alla morte. Il che spazza via l’abusato luogo comune del fine effettivo del carcere a vita: quelli ostativi, infatti, sono ergastolani senza scampo e senza speranza. 5. La decisione di costituirsi in giudizio a difesa dell’ergastolo ostativo è del precedente Governo. Scelta non obbligata, dunque tutta politica, trattandosi giuridicamente di intervento facoltativo e libero nell’opzione pro o contro la legittimità della legge impugnata. C’è da aspettarsi che l’Avvocatura dello Stato giochi la carta disperata della political question, chiedendone l’inammissibilità: rimprovererà cioè alla Cassazione di aver contestato insindacabili scelte legislative di politica criminale, giustificate dalla necessità di contrasto alla criminalità organizzata. Sarà come calciare la palla fuori dal campo di gioco. Eppure l’Avvocatura non può ignorare il principio costituzionale “della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena” (sent. n. 148/2019). Né che il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità è assoluto e incondizionato, anche in caso di “pericolo pubblico che minacci la vita della nazione” (art. 15 Cedu). Né che la stessa Commissione anti mafia ha preso atto, alla luce della giurisprudenza più recente delle Corti dei diritti, che “la preclusione assoluta in mancanza di collaborazione non è più compatibile con la Costituzione e con la Cedu” (relazione del 20 maggio 2020). Sono cose che la nuova Guardasigilli Cartabia sa bene, avendo concorso come giudice costituzionale alla già citata sent. n. 253/2019: fosse dipeso da lei, immagino che l’Avvocatura dello Stato avrebbe seguito ben altro spartito. 6. Serpeggerà tra i giudici costituzionali la tentazione della c.d. incostituzionalità prospettata, tecnica inventata nel noto caso Cappato: accertata l’illegittimità, la Corte ne rinvia la formale dichiarazione ad altra lontana udienza, dando così tempo al legislatore di riformare l’ergastolo ostativo. Alle tentazioni è bene non cedere. Specie in materia di libertà personale, il sindacato costituzionale - di norma - deve assecondare la sua natura contro-maggioritaria. Infatti, il tempo concesso a un legislatore riluttante, che molto ne ha già sprecato, allungherebbe indebitamente la reclusione di Salvatore Pezzino e di tutti gli ergastolani in condizione di chiedere (e magari ottenere) la fine di una pena altrimenti senza fine. Una reclusione che dura già da decenni. Se posso, inviterei a non dimenticarlo. Ergastolo ostativo, il diritto al silenzio al vaglio della Consulta di Michele Passione* Il Dubbio, 20 marzo 2021 Martedì la corte si esprimerà sulla liberazione condizionale. Il 23 ottobre 2019 la Corte costituzionale (sent. 253) libera gli ergastolani ostativi (e tutti i condannati per i delitti di prima fascia) dalla preclusione che impediva la concessione del permesso premio ai non collaboranti, trasformando (nel solco di una risalente e consolidata giurisprudenza) la presunzione assoluta di pericolosità in relativa, anche perché “l’inammissibilità in limine della richiesta di permesso premio può arrestare sul nascere il percorso risocializzante, frustrando la stessa volontà del detenuto di progredire su quella strada ciò non è consentito dall’art. 27/ 3 Cost.”. Stante il perimetro del devoluto, la Corte precisa che “le questioni di legittimità costituzionale sollevate non riguardano la legittimità costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo, sulla cui compatibilità si è, di recente, soffermata la Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 13 giugno 2019, Viola contro Italia”. Adesso ci siamo; il 23 marzo (di nuovo questo numero) la Corte è chiamata a pronunciarsi definitivamente sul punto, misurandosi col precedente citato e con la pronuncia convenzionale, dovendo tener conto, anche in questo caso, del diritto al silenzio (cfr. ord. 117/ 2019 Corte cost.), “quale corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24 Cost.”, recentemente riconosciuto tal quale nell’ambito dei procedimenti amministrativi “punitivi” dalla Cgue, Grande Sezione, sent. 2.2.2021, D. B. c. Consob. Siccome nomina sunt consequentia rerum, è lecito attendersi una pronuncia in linea con l’apotropaico precedente di un anno e mezzo fa, che cancelli dall’ordine delle cose l’aggettivo ostativo, un ossimoro dell’umano. Del resto, nella recente pubblicazione con il professor Ceretti (Un’altra storia inizia qui), ritenuta pericolosa - e dunque vietata per la lettura di un ergastolano, l’attuale ministra Cartabia, citando Padre Turoldo, ha ricordato l’ammonimento nessuno uccida la speranza, neppure del più feroce assassino, perché ogni uomo è una infinita possibilità. Con Ricoeur, ognuno vale molto più delle sue (peggiori) azioni. La Speranza, dunque. Quella di cui parla la Corte Edu (Vinter c. Regno Unito), quella che “ci consente di aprirci al futuro, liberandoci dalla ostinata prigionia del passato e del presente”, con le parole di un grande psichiatra, Eugenio Borgna. Che senso avrebbe consentire a un ergastolano (ostativo - e speriamo di non dover usare mai più questa bestemmia) di andare in permesso, e impedire il compimento del suo diritto all’effettivo reinserimento sociale, verificato per facta concludentia, diversi dalla collaborazione? Se la liberazione condizionale è legata al sicuro ravvedimento del condannato, se essa partecipa della stessa finalità delle misure alternative, come ricordato dalla Corte nella storica sentenza n. 32/ 2020 (§ 4.3 Considerato in diritto), nessuno potrà più dire “parla, e (forse) ti sarà dato”. Ed ancora, se l’accredito di fiducia che merita chi si accosti a questo istituto, al termine di un percorso di progressione trattamentale lunghissimo, è sicuramente maggiore rispetto a chi sperimenti i primi momenti di libertà, come coloro che fruiscono dei permessi, è lecito attendersi una sentenza che apra alla vita vera, dopo una verifica dei presupposti appoggiata sull’Uomo nuovo, e non su informative stereotipate. Ferrara, Università degli Studi, 27.9.2019; davanti alla migliore dottrina si tenne un convegno dedicato al tema, alla vigilia dell’udienza di ottobre. Quel giorno ero lì, come poi in aula il mese dopo, e ricevetti il sostegno unanime dei relatori (“davanti alla Corte non sarà solo, ci saremo tutti”, le toccanti parole del professor Palazzo, che ancora mi scaldano il cuore). Martedì prossimo torna il divieto per il pubblico di partecipare in presenza alle udienze della Corte, a causa del perdurare della pandemia. Allora lo faccio da qui; tendo idealmente la mano alla collega che in aula darà voce ai Diritti e alla speranza, per mettere finalmente in sicurezza un risultato atteso da troppo tempo; “subito si cuce questo niente da dire ad una voce che batte... siamo questo traslare, cambiare posto e nome. Siamo” (Mariangela Gualtieri). *Avvocato Flick: “Benefici agli ergastolani non pentiti? Il diritto al silenzio vale persino per i mafiosi” di Errico Novi Il Dubbio, 20 marzo 2021 Intervista all’ex presidente della Corte costituzionale sulla sentenza, attesa per mercoledì prossimo dalla Consulta, che potrebbe concedere il diritto alla liberazione condizionale anche ai mafiosi condannati al “fine pena mai” che non collaborano con la giustizia. “Il diritto al silenzio è connesso al diritto di difesa, dunque è incomprimibile. Vale per tutti. Anche per il peggiore dei delinquenti” “Non è facile. Lo so. C’è fuori un clima sgradevole. Lo si è visto con il differimento pena causa Covid. Sgradevole reazione: deve prevalere sempre l’esigenza di sicurezza, dicono. Figurarsi quanto la polemica potrebbe salire di tono se mercoledì prossimo dalla camera di consiglio della Corte costituzionale venisse fuori una decisione favorevole alla liberazione condizionale degli ergastolani ostativi che non collaborano con la giustizia, anche se dimostrano di essersi sicuramente “ravveduti”! Visti i precedenti, immagino la stessa pesante risposta mediatica scatenata sia dopo la pronuncia della Consulta relativa ai permessi, sempre per gli ostativi, sia dopo la concessione dei domiciliari causa Covid ai detenuti di mafia, sempre che essi possano provare un “sicuro ravvedimento”. Giovanni Maria Flick, professore emerito, ex ministro della Giustizia ed ex presidente della Corte costituzionale, comprende meglio di altri la delicatezza della scelta in capo al giudice delle leggi a proposito dell’ormai famigerato articolo 4 bis, e della sua “potenza preclusiva” rispetto ai benefici penitenziari per chi è al “fine pena mai”. “Conosco sì la delicatezza del problema. So anche che una consolidata giurisprudenza costituzionale, radicata nell’ormai lontano 1974, consente la legittimità costituzionale dell’ergastolo solo perché è possibile concedere una liberazione condizionale se il condannato dimostra di essersi davvero ravveduto. Senza questo pilastro, crolla tutto. Crolla il principio di cui all’articolo 27, il fine rieducativo della pena. Se non c’è sbocco, che rieduchi?”. Sacrosanto, professor Flick. Allora la sentenza del 23 marzo è già acquisita: sarà favorevole alla liberazione condizionale per gli ergastolani ostativi che non collaborano, mafiosi compresi. O no? No, non è acquisita. Nella precedente sentenza sui permessi premio, la 253 del 2019, la stessa Corte ha affermato, è vero, che la collaborazione con la giustizia non può essere il solo spiraglio per superare la presunzione di persistente collegamento con l’organizzazione criminale. La pronuncia con cui è caduto il divieto di concedere permessi premio a mafiosi e altri detenuti cosiddetti ostativi dipende in effetti da quello snodo: dal fatto cioè che il pentimento o la conformità esteriore alla disciplina carceraria non può essere la sola prova dell’assenza di legame con la cosca. Non può essere così in assoluto, perché altrimenti si vìola il principio di uguaglianza, visto che si applica la medesima presunzione a individui, a fatti e a storie diversi. Benissimo. Oltretutto la Corte ha messo in gioco anche il principio per cui non può prevedersi un automatismo della decisione giudiziale: se è il giudice di sorveglianza a dover valutare l’istanza di permesso proposta da un ergastolano ostativo di mafia, non si può pretendere che agisca come un burocrate: “C’è la collaborazione? Discutiamo il merito. Non c’è? Niente permesso, la richiesta è inammissibile”. La Corte ha affermato tutto questo, è vero. Ma?… Sempre con la sentenza 2019, ha anche insistito nel dire che il discorso sopra evocato riguarda un beneficio: il particolare beneficio dei permessi. Puntualizzazione reiterata, nelle motivazioni. E cosa significa? Semplicemente vuol dire che su altri tipi di beneficio per loro natura più stabili, qual è la liberazione condizionale, si riserva di decidere volta per volta. Potrebbe averlo fatto anche considerata la risposta emotiva dell’opinione pubblica? Non lo so, naturalmente, e non lo credo. È noto che l’opinione pubblica reagisce male, lo si è detto, di fronte a provvedimenti simili, che li assuma la Consulta o un singolo giudice di sorveglianza. Reagisce male anche perché influenzata da inesattezze ed errori nella presentazione delle notizie o dalle invettive furenti di alcuni giornali e, lo dico con rammarico, anche di alcuni magistrati. Ma quindi non se la sente di fare un pronostico? No. Innanzitutto per motivi di rispetto verso la Corte. In astratto è chiaro che la puntualizzazione reiterata sullo specifico perimetro della sentenza 2019 potrebbe, e ripeto in astratto, anche preludere a una scelta diversa sulla liberazione condizionale. In tal caso, si potrebbe argomentare che l’insistenza sulla limitazione ai permessi voleva dire che oltre non ci si sarebbe potuti spingere. Sarebbe una decisione poco coraggiosa? Questo lo dice lei. Io confido che arrivi una decisione seria, forte nei suoi presupposti e, certo, coraggiosa intellettualmente. Il coraggio, sempre in astratto, può risiedere anche in una decisione in cui si dice che oltre non si può andare. L’importante è fare riferimento ai princìpi e difenderli. Certo: la collaborazione come unica via per far cadere la presunzione di collegamento persistente, o addirittura il suo “ripristino”, fra ergastolano ostativo e organizzazione criminale si infrange anche su un altro principio inviolabile. Quale? In latino si dice “nemo tenetur se detegere”. Nessuno può essere costretto ad accusarsi. Non è possibile, quando si interroga, pretendere l’ammissione di colpa, l’autoaccusa. Non è possibile pretenderla neppure da un ergastolano ostativo condannato per associazione mafiosa. E una collaborazione con la giustizia implica evidentemente l’autoaccusa. È un principio connesso all’altrettanto incomprimibile diritto di difesa. E allora come può reggersi la norma per cui il condannato al 4 bis vede cadere la preclusione ai benefici solo se si pente? È una norma introdotta dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, probabilmente anche per esigenze investigative. Norme proposte in virtù di uno stato di eccezione. Ma l’eccezione può farsi regola? Lo stato di eccezione è sempre un pericolo. Un po’ abbiamo dovuto rifletterci anche riguardo alle restrizioni legate alla pandemia. Nessuno può essere costretto ad accusare se stesso: perché? Perché esiste il diritto al silenzio. Che è collegato, appunto, al diritto costituzionale di difesa. La sentenza sui permessi lo evoca? Ne parla, ma in quanto elemento che non sembra essere considerato per la decisione, basata invece soprattutto sulla ricordata inosservanza di princìpi quali la ragionevolezza e l’uguaglianza. Scusi professore, ma se l’immagina la reazione dell’opinione pubblica a un’interpretazione costituzionale secondo cui persino il mafioso ha diritto al silenzio? Persino chi cioè fa dell’omertà un’arma distintiva dell’associazione criminale? Ma i princìpi e i diritti inviolabili non possono ammettere eccezioni, se esistono. Vanno riconosciuti a chiunque, anche al peggiore dei delinquenti. Altrimenti si dovrebbe affermare, per paradosso, che nei confronti del condannato per mafia è legittimo l’uso della tortura. Coi domiciliari Covid c’era in gioco il rischio morte da contagio dei detenuti mafiosi con salute fragile. Cosa avverrà con una sentenza che conceda la possibile liberazione condizionale agli ergastolani ostativi, inclusi quelli di mafia, anche se non “collaborano”? Sono due situazioni diverse, seppur collegate in qualche modo dal parametro comune della ricerca di sicurezza. Nel caso del differimento pena per ragioni umanitarie, da cui deriva la concessione dei domiciliari per ragioni di salute, era in gioco la dialettica fra il diritto alla salute del singolo e il diritto alla sicurezza della collettività. Nel caso dei benefici per i detenuti ostativi, e in particolare della liberazione condizionale finora riconosciuta solo a chi collabora, è in gioco un’altra dialettica: da una parte sempre il diritto alla sicurezza collettiva, dall’altro il diritto alla dignità. Che implica il diritto al silenzio, alla propria individuale differenza, alle specifiche e intime motivazioni che ciascuno può trovare insuperabili rispetto alla scelta di collaborare: in altre parole, a quelli che la Corte definisce i “residui di libertà” incomprimibili, che sono compatibili con la reclusione. Sicurezza contro salute. Sicurezza contro dignità. Ora mi chiedo: siamo davvero convinti che la sicurezza sia garantita dal buttare la chiave per certi detenuti? Dal lasciare che chiudano definitivamente gli occhi in carcere come pure è avvenuto di recente? O è l’illusione, della sicurezza? Dobbiamo chiedercelo. E se saremo intellettualmente onesti nel rispondere, forse potremmo arrivare a comprendere come concedere la liberazione condizionale anche al mafioso ergastolano che non ha mai collaborato con la giustizia, ma che dimostra di essersi “sicuramente ravveduto”, sia una scelta non lesiva dell’integrità dello Stato. Casomai riafferma il primato dei diritti che solo uno Stato può assicurare. Strage nel carcere di Modena, tanti i dubbi sull’archiviazione di Francesco Maisto* dirittiglobali.it, 20 marzo 2021 Ricordo bene quello che ho visto nelle carceri milanesi tra l’8 ed il 9 marzo dell’anno scorso e quello che ho potuto sapere dall’interno di altre carceri dislocate sul territorio nazionale. Spero che di tutto si tenga vivo il ricordo, ed in particolare di quella “strage”, avvenuta a Modena in un contesto nazionale estremamente critico. Una strage senza precedenti nella storia carceraria. I gravi fatti avvenuti il 9 marzo dell’anno scorso dentro e fuori del carcere di Modena e la vicenda più grave dei 13 morti sono descritti nella richiesta di archiviazione della locale Procura, e riguardano il decesso di 8 detenuti, mentre il procedimento per la morte di Salvatore Cono Piscitelli è pendente ad Ascoli Piceno all’esito di “rimbalzi” di competenze territoriali tra le Procure. La data della richiesta non sembra casuale: il 26 febbraio 2021, dopo che, per un anno, tante istanze istituzionali e della società civile sono state avanzate per conoscere ufficialmente i nomi e le circostanze dei decessi. Le conclusioni dell’inchiesta tra ritardi e omissis - La lettura dei paragrafi dedicati alla ricostruzione dei fatti, tra premesse generali e aspetti specifici per ciascun morto, induce a riflettere su alcune argomentazioni che meriterebbero approfondimenti da parte del Giudice. Innanzitutto, destano perplessità gli omissis, il deposito della relazione preliminare della Polizia Penitenziaria solo il 21 luglio, e l’indicazione generica dell’attivazione delle Forze dell’Ordine a fronte del chiaro disposto dell’art. 93 del DPR del 39 giugno 2020, n. 230 che prescrive: “Qualora si verifichino disordini collettivi con manifestazioni di violenza tali da far ritenere che possano degenerare in manifestazioni di violenza, il direttore dell’istituto, che non sia in grado di intervenire efficacemente con il personale a disposizione, richiede al prefetto l’intervento delle Forze di polizia e delle altre Forze eventualmente poste a sua disposizione ai sensi dell’art. 13 della legge 1 aprile 1981, n. 121, informandone immediatamente il magistrato di sorveglianza, il provveditore regionale, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. Stupiscono, poi, sia la mancata identificazione della “catena di comando”, a fronte di una rivolta di dimensioni tali (il trasferimento verso altre carceri ha riguardato ben 417 detenuti) da farne ritenere impossibile l’accentramento in capo al comandante di reparto e al suo vice, sia la mancata menzione dell’eventuale ruolo di un direttore, ovvero dell’eventuale presenza, obbligatoria per legge, del PM e del Magistrato di Sorveglianza. Eppure, per quanto difficoltosa, tale identificazione fu possibile nel procedimento per i fatti del G8 di Genova, come in quello per il famigerato “settembre nero di S. Vittore”, nel 1981, in cui, dopo l’intervento violento della “forza esterna”, furono trasferiti 130 detenuti senza alcun evento letale. Ed erano quelli tempi in cui non erano stati ancora costituiti nuclei speciali della Polizia penitenziaria. La documentazione medica mancante - Desta perplessità che lo scenario evocato - quello di “medicina da campo da guerra” - abbia impedito non solo ogni documentazione della visita sanitaria prima del trasferimento (visita prevista dalla legge penitenziaria), ma anche l’identificazione dei detenuti ai fini dello smistamento tra quelli da trattenere, quelli da ricoverare in ospedale e quelli da trasferire (penso alla posizione di Rouan Abdellah, deceduto ad Alessandria). Ciò, nonostante la chiara individuazione dei “fronti” di attacco finalizzati alle evasioni. Sarebbe dunque importante che il Giudice accertasse se, nella situazione rappresentata dal PM, sia stata data corretta applicazione all’art. 83 del DPR 30 giugno 2000, n. 230 in tema di trasferimenti dei detenuti - articolo che non prevede eccezioni - laddove dispone al comma 2: “Il detenuto o l’internato, prima di essere trasferito, è sottoposto a perquisizione personale ed è visitato dal medico, che ne certifica lo stato psico-fisico, con particolare riguardo alle condizioni che rendano possibile sopportare il viaggio o che lo consentano”. Stupisce, altresì, l’inadeguatezza del personale sanitario e di polizia delle carceri di destinazione dei trasferiti nella gestione degli stessi con il dovuto rigore e rispetto, evitando qualunque forma di rivalsa. E poi: con quale criterio e verso quali carceri furono effettuati i trasferimenti di competenza del DAP, individuali e verso altre Regioni (da Modena a Trento, ad Ascoli Piceno), a distanza di centinaia di chilometri e per tante ore di viaggio, nonostante le risorse penitenziarie e sanitarie in Emilia-Romagna? La richiesta del PM, sulla base delle autopsie, ricollega, sostanzialmente, il decesso degli otto detenuti, all’eccessiva assunzione di metadone e farmaci equivalenti a seguito dell’assalto all’infermeria, ma nulla dice su eventuali tentativi di somministrazione del Narcan in loco (pure disponibile nelle tende di soccorso apprestate fuori dal carcere), prima di avviarli verso carceri distanti centinaia di chilometri. Allora si pone la questione della custodia dei farmaci, sia per quanto riguarda la quantificazione di quelli sottratti, sia per quanto riguarda l’accesso alla cassaforte. Sulla quantificazione si dice che la rilevazione è stata fatta dalla Polizia Giudiziaria tra l’11 e il 12 marzo in base ai registri di carico e scarico, ma in altra parte della stessa richiesta del PM risulta che i cartacei non sono stati trovati e che invece è stata trovata nell’infermeria per terra la USB di registri dei farmaci. E poi, la cassaforte, secondo la ricostruzione, era chiusa a chiave, conteneva farmaci, e le due infermiere si erano barricate dentro l’infermeria, protetta da una porta a vetri e da una porta blindata. Si trattava di un “blindo”, e si dice che i rivoltosi sarebbero entrati dopo avere “tagliato” il supporto del finestrino del blindo stesso con un flessibile. Non si adduce, tuttavia, la prova di tale “taglio”. Anche le infermiere sarebbero riuscite a uscire dal finestrino del blindo. Penso in particolare, alla singolarità della posizione di Chouchene Afed, di anni 34, da scarcerare dopo tre mesi, che muore per eccesso di metadone perché avrebbe bevuto a canna una bottiglia di tale sostanza, ma che, all’atto del decesso, fuori, nella tenda per il soccorso, viene trovato in possesso di quantità notevoli di farmaci occultati negli indumenti; così come, il giorno dopo, nella sua cella vengono rinvenute altre notevoli quantità di farmaci portati dopo l’assalto alla farmacia. Una contraddizione. Spero che anche questi elementi vengano chiariti dal GIP per la ricerca della verità. Non bisogna dimenticare. I pestaggi a freddo e le sanzioni - Nella presentazione di questa giornata di memoria avete scritto di “Rappresaglie che si sono succedute, tante e violente, durante e dopo le lotte, sui pestaggi avvenuti dopo che “l’ordine” era già stato ristabilito”. Indipendentemente dalla qualificazione, ricordo che nella Casa di Reclusione di Milano Opera, dove il 9 marzo si sono verificati disordini e l’intervento della Polizia Penitenziaria in tenuta antisommossa, sono stati sanzionati disciplinarmente detenuti non individuati poi come responsabili dalla Procura milanese. In particolare, la notizia di reato del 16 marzo ha riguardato ben 82 persone, mentre Il PM ha chiesto il giudizio solo per 22 detenuti. Quindi ben 60 persone estranee hanno subito sanzioni disciplinari - in forza di ben 82 procedimenti svoltisi paradossalmente in qualche giorno - anche con privazioni alimentari e artificiose ostatività alla concessione dei benefici previsti dalla normativa anti-Covid di cui al DL del 16 marzo 2020. Infine, bisogna stigmatizzare le falsità sull’orchestrazione delle proteste da parte della criminalità organizzata e della tesi secondo la quale, in quella occasione, ci fu un secondo patto tra lo Stato e la criminalità organizzata. L’eterogeneità tanto delle modalità delle proteste, quanto delle richieste avanzate dai detenuti dalle diverse carceri sembrano escludere qualsiasi patto. Ma su questo spero che presto faccia chiarezza la Procura nazionale antimafia. *Garante delle persone private della libertà, Comune di Milano I penalisti vigilano sulla riforma della prescrizione e sull’accesso all’appello di Gian Domenico Caiazza Il Domani, 20 marzo 2021 Con le sue linee programmatiche sulla giustizia, la ministra Cartabia ha dato una evidente inversione di rotta rispetto al precedente governo, in particolare riportando al centro i principi di presunzione di non colpevolezza e la finalità rieducativa della pena. Le “linee programmatiche sulla giustizia” che la ministra Marta Cartabia ha esposto alla commissione Giustizia della Camera dei deputati rappresentano, con particolare riguardo a quelle relative alla giustizia penale, una evidente inversione di rotta, una cesura netta ed inequivocabile rispetto al precedente governo. Il recupero, nel ragionamento programmatico del ministro Guardasigilli, della centralità di principi costituzionali quali la presunzione di non colpevolezza e la finalità rieducativa della pena, in luogo delle parole d’ordine del populismo penale che abbiamo dovuto ascoltare per quasi un triennio in quelle stesse aule, merita perciò solo la più fragorosa standing ovation. Sentir ricordare dalla nuova inquilina di via Arenula che, secondo la nostra Costituzione, la certezza della pena non è necessariamente sinonimo di carcere lascia quasi increduli, talmente rumoroso ed incessante è stato, in questa prima parte della legislatura, il suono di quel becero slogan giustizialista. Ed ancor più confortante è il netto richiamo alla necessità che il principio di non colpevolezza debba valere anche in termini mediatici, il che impone -diversamente da quanto oggi accade- riserbo e sobrietà di inquirenti e cronisti nella fase delle indagini. Naturalmente, la cruciale importanza di questa messa a fuoco dei parametri costituzionali di una rinnovata politica della giustizia penale non basta a farci comprendere e valutare con esattezza quali saranno, e quanto condivisibili, le soluzioni che il governo si appresta a proporre rispetto ad alcune delle riforme cruciali oggi sul tavolo: ragionevole durata del processo penale, prescrizione, ed infine ordinamento giudiziario. L’esplicito richiamo alla legge-delega firmata dal Ministro Bonafede quale punto di partenza del percorso di riforma, sul quale innestare proposte nuove, è comprensibile dal punto di vista degli equilibri politici del nuovo governo, ma non è certamente di buon auspicio. Le deleghe sulla riforma dei tempi del processo penale hanno profondamente tradito gli approdi faticosamente condivisi tra magistratura ed avvocatura al tavolo ministeriale, sacrificando le proposte allora concordate sull’altare delle più viete parole d’ordine populiste. Il richiamo della ministra all’indispensabile, forte potenziamento dei riti alternativi ed al recupero della funzione di filtro della udienza preliminare fa ben sperare in termini del possibile recupero dei punti qualificanti di quell’accordo, ma si tratterà di vedere in concreto quali saranno le proposte della neonata Commissione Ministeriale, alla cui composizione -dobbiamo prenderne atto con amarezza e preoccupazione- la rappresentanza storica dei penalisti italiani è rimasta del tutto esclusa. Allarmante ci è invece parso il riferimento, inequivocabile, ad interventi “ragionevolmente selettivi dell’accesso al secondo grado di giudizio”, antica ossessione della magistratura italiana ma per fortuna solo di una assai ristretta e minoritaria parte dell’accademia. Anche sui tempi delle indagini, la Ministra è parsa apprezzare le soluzioni concepite nella legge delega, che tuttavia si limitano ad improbabili sanzioni disciplinari nei confronti del magistrato, palesemente inidonee ad incidere effettivamente sui tempi cruciali di quella fase procedimentale. Sulla prescrizione, la relazione si è limitata ad una ricognizione, anche comparatistica, delle varie soluzioni possibili per riscrivere la sciagurata riforma Bonafede: ma su questo tema, occorre dire con molta chiarezza che i margini di mediazione sono obiettivamente nulli. In un sistema giudiziario nel quale i tempi dei prescrizione dei reati (anche di media gravità) non è inferiore ai 15 anni, fino a raggiungere e superare anche i trenta nei casi più gravi; nel quale la riforma Orlando aveva già introdotto - censurabilmente, a nostro avviso - ben due sospensioni del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado e dopo quella di appello, ed in un contesto di pachidermica lentezza della macchina giudiziaria, ogni ulteriore cedimento alle pretese di chi deve piantare, per mere esigenze propagandistiche, la bandierina di un ulteriore aggravamento del “processo senza fine” appare del tutto ingiustificabile. Se invece si vuole cogliere l’occasione per un complessivo ripensamento dell’istituto, che apra anche a forme miste di prescrizione sostanziale e processuale, allora i penalisti italiani non mancheranno di dare, come sempre, il loro contributo. Infine, la riforma dell’ordinamento giudiziario avanzata dal precedente governo è ben lontana dal poter minimamente incidere sulla grave crisi della magistratura italiana. Due temi cruciali continuano ad essere elusi: l’automaticità della progressione delle carriere, che umiliando la qualità professionale apre la strada a criteri vicari (correntizi, politici etc) di scelta dei vertici degli uffici; l’indebita commistione tra potere giudiziario e potere esecutivo, mediante la pratica dei distacchi dei magistrati presso i ministeri, senza la cui secca eliminazione sarà illusoria ogni pretesa di indipendenza dalla politica. E invece ci si trastulla con il sistema elettorale del Csm, per il quale la legge delega prevede una soluzione che, addirittura, potrebbe mandare solo Pubblici Ministeri all’ organo di autogoverno! Per parte nostra, l’Unione delle Camere Penali darà fondo a tutte le proprie capacità di iniziativa politica e culturale per giungere infine a mettere a disposizione di tutte le forze parlamentari e politiche, nonché del Governo se esso lo riterrà utile, organiche proposte di riforma rigorosamente rispettose, esse sì certamente, dei principi costituzionali così provvidenzialmente e felicemente invocati dalla ministra Cartabia. Colleghi magistrati, i processi non fateli in TV come Gratteri di Emilio Sirianni Il Riformista, 20 marzo 2021 Emilio Sirianni è un giudice che da sempre vive e lavora in Calabria. Nei giorni scorsi, dopo la messa in onda di “Presa Diretta” (la trasmissione Tv della quale è stato protagonista il Procuratore Gratteri), ha scritto una lunga mail ai suoi colleghi. La mail è stata pubblicata ieri su “Questione Giustizia”, la rivista di Magistratura Democratica. Ne pubblichiamo amplissimi stralci. Ero indeciso se scrivere di nuovo sull’argomento. La sensazione di inutilità, di prendersela contro i mulini a vento è forte, come pure la voglia di dire “ma chi me lo fa fare”. Però, in questo Sud io ci sono nato e ci vivo, l’oppressione e pervasività di “quel” potere le conosco bene e conosco bene la rassegnazione alla sconfitta. E relativi volti. Quelli di chi, letteralmente, ti rappresenta la fine della vita tua e di chi ti è vicino, pur non facendolo in modo esplicito, ma sempre con ragionamenti ellittici, dal suono amichevole persino e proprio per questo più terrorizzanti. Quelli di quanti stanno dietro o a fianco ai primi, ma mai nei luoghi della gente normale e che indossano toghe, siedono in c.d.a., presiedono enti, casse, partiti, fondazioni, frequentano le stanze di compensazione degli interessi che contano e decidono le sorti di queste terre da generazioni. Infine quelli dagli occhi bassi e i pugni stretti, che mordono le labbra e cedono e cedono e pare non debbano mai smettere di farlo. Ma io sono in grado di comprendere e svelare, per il mestiere che faccio e, proprio perché conosco quei volti, sento di dover continuare a parlare. (…) Su Rai3, nella trasmissione Presa diretta, si è parlato del noto processo Rinascita-Scott, che proprio in questi giorni muove i primi passi nella nuovissima aula bunker costruita in tempo record a Lamezia Terme. (…) Sento il bisogno di dire quanto questa riflessione mi costa. Mi costa molto, per tante ragioni che prima ho solo accennato. Perché ho riconosciuto nei molti filmati dei ROS i volti di cui dicevo. Perché ho riconosciuto, nelle parole intercettate, parole che mi suonano in testa e mi pesano sul cuore da una vita. Di più, mi costa molto perché, da tecnico, ho ben percepito -come chiunque di voi abbia visto la trasmissione- il valore e l’importanza di quegli elementi di prova. Il loro peso dirompente laddove vanno a incidere l’empireo degli intoccabili, squarciando la pesante coltre dietro cui si nascondono. Mi costa moltissimo perché sento sulla mia pelle la rabbia e il dolore di quei genitori che hanno perso i figli per mano di un potere criminale, di tutte quelle donne e quegli uomini che manifestavano a sostegno dell’indagine sotto le finestre dei carabinieri all’indomani degli arresti, invocando finalmente giustizia. Ma al tempo stesso, proprio per questo, non posso tacere. La stampa - lo sappiamo bene - fa il suo mestiere. Cerca notizie d’interesse pubblico e le diffonde e il valore di un giornalista si misura sulla sua capacità di trovare le notizie e sulla capacità di esporle. Il giornalista di cronaca le scova muovendosi fra segreti istruttori e fasi di discovery, fra prove nascoste e prove esibite, fra indiscrezioni carpite e indiscrezioni fatte filtrare. Del resto anche la polizia giudiziaria e gli organi inquirenti fanno il loro di mestiere. Cercando prove, custodendole gelosamente, coltivandole affinché, al momento giusto, germoglino e diano frutti. Ma anche in questo caso, in un gioco di specchi e di parti che è antico quanto il processo stesso, praticando sovente l’arte dell’indiscrezione veicolata e del consenso. Spesso utili anche per le sorti delle ipotesi d’accusa, ma altrettanto spesso per quelle delle carriere personali. In America ci hanno costruito, da sempre, un genere letterario e cinematografico che non conosce crisi. Nella trasmissione di ieri, però, abbiamo assistito ad una sorta di smascheramento. Tutto si è svolto alla luce del sole anzi sotto la luce delle telecamere. Negli studi televisivi ed in esterni, letteralmente sul luogo del reato. Niente segreti pazientemente carpiti o sapientemente filtrati nell’ombra del lavoro d’indagine giornalistica od investigativa, ma ufficiali dei carabinieri che illustrano il contenuto di intercettazioni telefoniche e video, indicano i luoghi in cui si sono appostati per eseguire le riprese, illustrano le storie criminali dei vari protagonisti e gli organigrammi delle rispettive cosche. E in alto su tutti, ovviamente, l’Inquirente. Tralasciamo gli aspetti personali che ognuno è libero di valutare come meglio crede. Penso ai reiterati riferimenti a concetti quali “codardia/vigliaccheria” o ai dialoghi interiori con compagna morte (intervista alla Gazzetta del Sud del 16 marzo). Quel che mi allarma, e che dovrebbe allarmare tutti, è che, proprio alla vigilia di un delicatissimo processo, si ritenga normale che il pubblico ministero partecipi, in veste di protagonista assoluto (pur se affiancato, come detto, da spalle di prim’ordine), al processo mediatico-televisivo che precede e affianca quello che s’avvia nell’aula bunker. Un processo nel quale tre giovanissime colleghe, che assieme non arrivano a sommare 10 anni di anzianità, dovranno affrontare, oltre all’ordinaria pressione che accompagna un processo di queste dimensioni e complessità anche la pressione mediatica, enorme, che una delle parti processuali oggettivamente contribuisce a determinare. So che sapranno farlo, che resistere a simili pressioni è la parte di bagaglio professionale che alle nostre latitudini si acquisisce più celermente, ma è giusto ed accettabile che ciò accada? Infine, noi, che siamo cresciuti alle lezioni di garantismo di Luigi Ferrajoli e di tanti altri maestri, abbiamo fermo in mente il loro insegnamento che ci ricorda come il soggetto da tutelare nel processo penale sia sempre l’imputato, a difesa dei cui fondamentali diritti sono predisposte tutte le regole e garanzie che ne scandiscono l’incedere. La prima delle quali è quella che stabilisce che la prova si forma nel processo. Non nelle indagini ed ancor meno nella rappresentazione mediatica delle stesse. Una regola, questa, che esprime anche un fondamentale principio epistemologico del processo penale accusatorio, che individua nel contraddittorio e nella dialettica paritaria tra le parti del processo il miglior criterio per giungere all’accertamento della verità. Ed a me, a noi tutti che in queste terre disgraziate ci troviamo o abbiamo scelto di vivere, quello che interessa, prima d’ogni altra cosa, è la verità. Per questo, principalmente, vorrei invitare chiunque indaghi sulla criminalità mafiosa, con toga sulle spalle o stellette sul petto, a non arruolarsi in quella guerra che il Procuratore Gratteri ha evocato in TV, continuando, molto più banalmente, a fare ciascuno la cosa più difficile: il proprio mestiere. La giustizia che confonde la questione morale con la questione penale di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 20 marzo 2021 Lunedì scorso nella trasmissione “Presa Diretta”, su Rai3, per oltre tre ore si è svolto un processo parallelo a quello che è appena iniziato a Catanzaro, nel quale sono imputate oltre 400 persone. Nella settimana nella quale il lungo processo all’Eni e in particolare a Scaroni e a De Scalzi, accusati della corruzione più scandalosa del secolo scorso, si conclude con l’assoluzione piena perché il fatto non sussiste, la Rai organizza una trasmissione in prima serata per anticipare il processo che è cominciato a Catanzaro da pochi giorni per oltre 400 imputati. Nella trasmissione televisiva tutti gli imputati sono stati dichiarati colpevoli a prescindere dalla conclusione del processo che avverrà fra molti mesi. Le notevoli sentenze che si sono concluse e si concludono con l’assoluzione dell’imputato non sono in grado di turbare la stampa e la Rai, che calunniano ed espongono al pubblico ludibrio persone in attesa di provare la propria innocenza. Aggiungo che quando la sentenza statuisce che il fatto non esiste, significa che il processo era pretestuoso, non doveva essere fatto: è il caso dell’ultima sentenza dell’Eni, ente prestigioso nel mondo che è stato sottoposto per lunghi anni a denigrazioni di ogni tipo. Come è possibile che un Paese che ha solide tradizioni giuridiche come l’Italia sia caduto così in basso e con l’indifferenza dei più, si calpesti diritti fondamentali, ma anche principi elementari di educazione, di rispetto per le persone?! Proviamo a dare una risposta. Assistiamo da anni allo scontro tra garantisti e giustizialisti con polemiche vivaci ma alla fine si scopre che ognuno è alternativamente garantista e giustizialista a seconda dei propri interessi personali. È la questione morale che viene invocata e al tempo stesso dimenticata. Negli anni 70 è stata posta in maniera forte e drammatica la “questione morale” come problema sociale e istituzionale: lo fece per primo Enrico Berlinguer in presenza della crisi del comunismo sovietico per dare una linea politica al suo partito e per riscattarlo dai soprusi e dai finanziamenti sovietici. Invocò questa scelta giusta senza denunziare i “peccati” del Pci, solo per contestare il potere dei partiti della maggioranza che in quel periodo governavano. E la “questione morale” divenne prontamente “questione penale” e la magistratura, con le modalità ormai note, si impegnò a processare il “sistema” più che a indagare sui singoli reati e sui diretti responsabili. Il giudice, nonostante le innumerevoli sentenze di assoluzione, che pur vi sono state, ha acquisito le caratteristiche del giudice etico che condanna il male per far vincere il bene! Siccome in Italia il giudice viene confuso con il pubblico ministero è quest’ultimo l’angelo vendicatore del malcostume: questo il messaggio che il servizio pubblico trasmette. Il confondere la “morale” con il “penale” costituisce l’equivoco più deleterio per la comunità e per le istituzioni perché permette di “consentire” ma al tempo stesso di “criminalizzare” qualunque comportamento non trasparente o non opportuno! La Rai trasgredisce la questione morale in tutti i suoi aspetti, riservatezza, obbligo di informazione corretta sostenuta da prove che valgono anche fuori dal processo. Nel vecchio processo penale italiano il pm istruiva il processo inquisitorio nel senso che raccoglieva le “prove” e portava il suo elaborato al giudice; nella concezione del “nuovo” (si fa per dire!) processo accusatorio il pm è dominus dell’accusa, ma gli indizi che raccoglie, debbono diventare “prove” nel contraddittorio, dinanzi al giudice. La dialettica processuale individua il pm come “parte” e dà rilevanza al giudice “terzo”, al di sopra delle parti. Nella pratica quotidiana avviene in maniera profondamente diversa da come il codice stabilisce. E la Rai servizio pubblico che dovrebbe rispondere alle leggi dello Stato e alla Costituzione, ma dovrebbe soprattutto rispondere alla legge morale che è il presupposto di qualunque ordinamento, tiene conto solo degli indizi ricercati dal pm e li fa diventare prove nella trasmissione. Dunque lunedì scorso nella trasmissione Presa Diretta per oltre tre ore si è svolto un processo parallelo a quello che è appena iniziato a Catanzaro e credo si sia superato qualunque limite. Il processo ha un suo valore sociale e questo dovrebbero saperlo paradossalmente più i pm che i giudici, perché il dibattito in tribunale deve essere finalizzato a far diventare prova gli indizi, i sospetti che hanno consentito l’indagine con i provvedimenti relativi. È il cittadino singolo e la società nel suo insieme che sono interessati e rendere giustizia e la democrazia si invera in questo rapporto istituzionale. D’altra parte questo accanimento a colpevolizzare le persone prima di un giudizio terzo non si comprende se non con il dilagare di un populismo penale irrazionale e pericoloso e soprattutto rancoroso. Nessuna democrazia al mondo può supportare una ferita così grave come questa, di fronte alla quale non si può assistere inerti. Il governo che negli anni scorsi ha voluto garantirsi una presenza consistente nella Rai, deve dare direttive per far applicare la Costituzione, e il Parlamento deve controllare che non ci sia una informazione distorta che allarmi il cittadino e renda un imputato colpevole prima del sacrosanto processo di cui ha diritto. Il signor Riccardo Iacona conduttore della trasmissione così come gli altri conduttori dovrebbero prendere atto di tutte le sentenze che scagionano i presunti colpevoli che in precedenza avevano abbandonatemene offeso. Aggiungo per ultimo che in particolare nella trasmissione di lunedì si è intervenuto in una problematica delicatissima costituita dal rapporto tra l’avvocato e il suo cliente che è l’anima del processo perché il diritto di difesa è sacrosanto e costituzionalmente garantito, e dunque l’onorevole avvocato Giancarlo Pittelli è stato offeso e calunniato. Ho ricordato tante volte una mia proposta di legge, mai approvata, volta a tenere segreto il nome del giudice e in particolare del pm, per tutelarli e metterli appunto al riparo da reazioni sconsiderate, ma anche da critiche ingiuste a cui a volte sono sottoposti. Se ci fosse questa legge il protagonismo dei pm, inevitabile per la umana debolezza, non alimenterebbe processi farlocchi in tv e il procuratore Gratteri, pm nel processo di Catanzaro, sarebbe maggiormente rispettato. Un appello al ministro della Giustizia che ha i poteri per evitare i processi in tv. Facciamo ripartire la giustizia con un “piano regolatore” di Paolo Itri Il Riformista, 20 marzo 2021 Stando ai dati del 2016, una causa civile in Italia dura in media 1120 giorni, più del doppio della media Ocse dei Paesi sviluppati (583 giorni). Per una sentenza di bancarotta si arriva fino a dodici anni e, prima che un istituto di credito possa recuperare le garanzie reali in caso di fallimento, passano in media sette anni. L’Italia ha poi il penoso record del più alto numero di condanne comminate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo. Nel 2015 gli stati più virtuosi erano la Norvegia e la Danimarca, mentre all’ultimo posto c’era il Venezuela. L’Italia si è piazzata al trentesimo posto, dopo Paesi come Repubblica Ceca, Polonia, Uruguay, Costa Rica, Slovenia e Georgia. Suddividendo gli Stati in quattro gruppi basati sulla ricchezza, il nostro si posiziona al ventottesimo posto della classifica dei trentuno a più alto reddito pro capite. Numerose e complesse sono le cause della perenne crisi in cui versa il sistema giudiziario italiano. In particolare, la questione riguardante la riforma della geografia giudiziaria è stata oggetto di attenzione da parte del legislatore che è intervenuto con il decreto legislativo 155 del 7 settembre 2012, attuativo della legge delega 148 del 14 settembre 2011. Tale provvedimento dispose la soppressione di 31 Tribunali e di altrettante procure della Repubblica, oltre a quella di 220 sezioni distaccate. Pur ritenuta da molti osservatori come una riforma timida (per esempio, per avere previsto il mantenimento di almeno tre Tribunali anche nei distretti di Corte di appello di piccole dimensioni e per aver soppresso in via definitiva “soltanto” 31 Tribunali), quella di cui al decreto legislativo 155 va segnalata quale svolta storica, sia per aver realizzato per la prima volta una modifica dell’assetto territoriale degli uffici giudiziari sia per avere istituito il Tribunale di Napoli Nord, composto dal territorio di alcune sezioni distaccate soppresse, già facenti parte del Tribunale di Napoli e del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Eppure, la coperta resta sempre troppo corta e anche tale riforma non è servita a risolvere i problemi atavici della giustizia italiana, primo tra tutti quello della ragionevole durata del processo. D’altra parte, che la durata dei processi costituisca una preoccupazione mondiale e non solo italiana, lo ha ricordato già qualche anno fa uno studioso brasiliano (P. Hoffman, Razoável duração do processo, São Paulo, 2006) il quale, nello studiare l’esperienza italiana alla ricerca delle cause che ostacolano la piena realizzazione del principio della ragionevole durata del processo nel nostro Paese, non ha esitato a indicare nella carenza degli organici dei magistrati e degli ausiliari e nella mancanza di un appropriato apparato tecnologico i difetti che impediscono al processo civile italiano di decollare e di diventare veramente moderno. Mancanza di risorse e cattivo utilizzo di quelle esistenti. Questi i mali atavici della giustizia italiana. Ma non solo. Nel corso della mia non breve esperienza di ispettore ministeriale, ho avuto modo di toccare con mano le disfunzioni della giustizia sia civile che penale. Disfunzioni che - al netto, ovviamente, delle responsabilità dei singoli magistrati e dei dirigenti degli uffici giudiziari - costituiscono il retaggio di un modello di distribuzione sul territorio della giurisdizione storicamente superato: è illusorio pensare di applicare la misura standard di un ufficio giudiziario (quindi né troppo piccolo né troppo grande) a un territorio, come quello della Repubblica, che presenta difformità notevolissime e che soprattutto esprime peculiarità diverse in ogni area del Paese (si pensi, per esempio, alla necessità di assicurare un presidio di legalità alle zone più infestate dalla criminalità organizzata). Ma soprattutto, la giustizia arranca perché è vittima, come gli altri comparti della pubblica amministrazione, del solito vizietto italico: la burocrazia. L’Italia ha il record mondiale della produzione legislativa. La bulimia del Parlamento si traduce in migliaia e migliaia di leggi spesso inutili e contraddittorie. A volte leggere un testo di legge è un’opera faticosissima. Non vi è comma o articolo che non rinvii a un diverso comma di un altro articolo di una ulteriore legge e così via, fino a quando, a forza di rinvii su rinvii, non finisci per dimenticare da dove hai iniziato e che cosa diamine stessi cercando. Il risultato è che spesso il significato di una norma è talmente involuto e criptico da risultare incomprensibile anche agli addetti ai lavori. Bizantinismi e incertezze interpretative finiscono per alimentare la libidine di burocrati e azzeccagarbugli di ogni genere, alla faccia della certezza del diritto e della prevedibilità delle decisioni dei giudici. Il risultato sono le valanghe di cause che vanno a intasare i Tribunali e le Corti di appello, cause spesso interminabili e dall’esito incerto. Beni confiscati alle mafie, la svolta in tre punti di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 20 marzo 2021 La legge funziona, ma le risorse messe a disposizione delle Regioni rimangono troppo spesso inutilizzate. Gentile professore Mario Draghi, presidente del Consiglio, prima che lei assumesse l’attuale incarico, più volte - trattando di mafia - mi sono “appoggiato” a una sua riflessione, che per me equivale a un assioma: “Più legalità=meno mafie; meno mafie=più sviluppo”. Una prospettiva che vale per ogni politica di buon governo. Quella giusta per fronteggiare la perversa continua espansione dell’economia mafiosa. Lei sa meglio di me che le mafie sono la negazione assoluta (oltre che di un’economia “pulita”) dei valori costituzionali di libertà e uguaglianza. Sono, per la qualità della nostra democrazia, un nemico esiziale, da contrastare senza soluzione di continuità, difendendo i risultati importanti della magistratura e delle forze dell’ordine. Proprio di questa “difesa” c’è assoluto bisogno in un settore nevralgico dell’antimafia, quello dei beni confiscati ai mafiosi. Non possiamo permetterci che qualcuno approfitti delle disfunzioni per sminuire la fiducia nello Stato, bestemmiando che “la mafia dà lavoro” o che “andava meglio prima”. Anzi, dei beni confiscati dobbiamo fare un volano per lo sviluppo. La legge 109/96 nei suoi 25 anni di vita ha funzionato bene. Una quantità imponente di beni confiscati, in ogni regione italiana, sono stati destinati ad attività socialmente o istituzionalmente utili: dalle scuole ai centri per disabili. Così da avviare - parafrasando il prefetto Dalla Chiesa - la trasformazione dei sudditi della mafia in alleati dello Stato. Ma insieme alle luci ci sono anche molte ombre. Per esempio, importanti risorse finanziarie europee e nazionali, messe a disposizione delle Regioni dalle politiche di coesione per la valorizzazione dei beni confiscati, rimangono troppo spesso inutilizzate. E solo alcune Regioni si sono date, a tutt’oggi, gli strumenti che consentirebbero di accelerare le procedure di impiego delle risorse, attraverso intese con i Comuni, le altre amministrazioni e gli uffici giudiziari. I fondi inutilizzati potrebbero essere impiegati anche per azioni di “tutoraggio” a favore di cooperative di giovani disponibili a svolgere nuove attività imprenditoriali su terreni confiscati. Sono obiettivi - questi - che potrebbero rientrare nelle competenze dei ministri Gelmini e Orlando. Ma le ombre si fanno decisamente più cupe se dal settore delle risorse inutilizzate si passa a quello in cui le risorse mancano. Fissiamo tre punti: 1) I beni, immobili e aziende, presi in carico dall’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati - non ancora destinati ai Comuni - sono tantissimi; inevitabilmente l’Agenzia, pur profondendo ogni impegno in condizioni a volte proibitive, fatica a gestire una tale massa di beni; ciò per mancanza di risorse adeguate e di esperienze specifiche. 2) Molti Comuni non ne vogliono sapere di prendere in carico un immobile confiscato, nonostante il loro territorio possa trarne vantaggi: per indifferenza verso il significato dell’antimafia sociale o dei diritti, ma anche per insufficienza di risorse. 3) I tre gradi di giudizio necessari per la confisca definitiva vanno sommati alla durata delle successive procedure per l’assegnazione: ne risultano tempi terribilmente lunghi. E quanto acquisito spesso resta abbandonato e va in malora, con la necessità di risorse finanziarie ingenti per farlo ripartire, se non si vuole che la credibilità dello Stato sia umiliata. Dopo Gelmini e Orlando, a essere interessati - questa volta - potrebbero essere i ministri Franco, Cartabia (per lo snellimento delle procedure) e Lamorgese. Comunque sia, il problema è sempre il medesimo: risorse mancanti o insufficienti. Non possiamo arrenderci! Non possiamo perdere un’importante opportunità di sviluppo. Qualcosa del recovery plan dovrà pure essere destinato, nel Pnrr, alla migliore operatività di questo settore della legislazione anti-mafia. Ma oltre all’ammontare, conta che allo stanziamento si accompagni un progetto, basato su idee chiare e priorità precise. Sarebbe un gran bel segnale. Un modo efficace e concreto per comunicare che i problemi di mafia sono ben presenti nell’agenda del suo governo. E che si cerca di risolverli anche nell’ottica di un rilancio dell’economia. Tanto più che il problema dei beni confiscati alla mafia sta rimontando nell’opinione pubblica, come testimonia - tra l’altro - un recente convegno del Cnel e della Fondazione Polis, dove si è sottolineata (Borgomeo) la necessità di un cambio di passo e di una organizzazione degli interventi più attenta e specifica. Nessuna pretesa - come usa dire - di insegnare ai gatti ad arrampicarsi, ma è evidente che sotto la sua direzione i ministri interessati dovranno coordinarsi e integrarsi per massimizzare i risultati. Senza aspettare esperti stranieri che magari di mafia non sanno nulla. No Tav, trent’anni di lotte contro la distruzione dell’ambiente di Mauro Ravarino Il Manifesto, 20 marzo 2021 Un progetto, quello dell’Alta velocità Torino-Lione, che ha avuto un sostegno bipartisan ma sonore bocciature tecniche. In quegli 80 chilometri, incastonati tra le montagne, che dividono l’area metropolitana di Torino dalla Francia c’è una storia di resistenza che va avanti da 30 anni. Ed è quella contro il controverso progetto di alta velocità ferroviaria tra Torino e Lione in Val di Susa. Ad opporvisi vi è un movimento popolare, i No Tav, sopravvissuti a governi, cambi di linea (la vecchia Lisbona-Kiev, per dirne uno, è tramontata da tempo) e repressione giudiziaria. Nel mirino delle proteste, che si sono accese più volte dal 2005 in poi, vi è in particolare la sezione transfrontaliera, compresa tra le stazioni di Saint-Jean-de-Maurienne in Francia e di Susa-Bussoleno in Italia, con il tunnel di base del Moncenisio lungo 57,5 chilometri scavato in montagne amiantifere, nonostante, qui, ci sia già in funzione una linea ferroviaria internazionale sottoutilizzata. Quello del Tav è un progetto che ha avuto un sostegno bipartisan ma sonore bocciature tecniche, basti pensare al documento della Corte dei Conti Ue di meno di un anno fa che ha sottolineato i benefici sovrastimati, le previsioni di traffico gonfiate, i costi lievitati (da 5,2 miliardi di euro a 9,6 per il mega tunnel), nonché i ritardi infiniti. Senza dimenticare l’impatto ambientale, che difficilmente può essere considerato coerente al Green deal europeo che, promosso dalla commissione von der Leyen, ha posto nel 2050 l’obiettivo della neutralità carbonica: lo scavo del tunnel internazionale comporterebbe, secondo i proponenti, un’emissione complessiva di 10 milioni di tonnellate di Co2. Sono stati anni intensi, vissuti in prima linea, quelli dei No Tav. Un ostinato e tenace movimento che dopo lo sgombero delle forze dell’ordine riuscì a riprendersi, l’8 dicembre del 2005, il presidio di Venaus impendendo l’insediamento del cantiere del tunnel geognostico. Cinque anni e mezzo dopo ci furono i mesi della Libera Repubblica della Maddalena a Chiomonte nell’area dell’attuale cantiere Tav. Il presidio fu sgomberato il 27 giugno del 2011; ne seguirono scontri, soprattutto il 3 luglio dopo una partecipata manifestazione. Innumerevoli sono state le iniziative contro gli espropri, come nel 2012 o come le attuali contro l’allargamento del cantiere. Sono stati anni segnati anche da arresti e processi. Da quello che il movimento e non solo considera un vero e proprio “accanimento giudiziario”. Le storie di Nicoletta Dosio, già insegnante di liceo a Bussoleno nonché una delle fondatrici dei No Tav, e Dana Lauriola, tuttora in carcere, sono l’apice ma non le uniche. Dana deve scontare una pena di due anni di detenzione per un episodio avvenuto nel 2012 durante un’azione dimostrativa sulla A32, quando al megafono spiegava le ragioni della manifestazione. Una condanna sproporzionata come sottolineato anche da Amnesty International. Nove mesi di carcere per 30 euro, l’assurda storia di Francesca Cerrone di Frank Cimini Il Riformista, 20 marzo 2021 Ha fatto nove mesi di galera gratis tra Spagna e Italia, Francesca Cerrone, anarchica accusata di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo. Lunedì sera la corte di assise di Roma l’ha scarcerata dopo che la Cassazione, ribaltando le decisioni del gip e del Riesame, aveva spiegato che non c’era motivo di far scattare le manette perché non c’erano gravi indizi e perché l’imputazione faceva acqua da tutte le parti. La Cassazione rimandava indietro le carte al Riesame per una nuova udienza. Cerrone restava in cella per un cosiddetto reato fine, il furto di tre sacchi di cemento, valore complessivo trenta euro. A quel punto l’avvocato difensore Ettore Grenci si rivolgeva alla corte di assise ottenendo la liberazione senza nessun obbligo cautelare. Ma non è questa l’unica decisione che ridimensiona l’operazione Bystrock sfociata negli arresti del giugno dell’anno scorso. La Suprema Corte infatti ha rimandato al Riesame annullando con rinvio le ordinanze di custodia cautelare in carcere per altri quattro militanti che restano detenuti in attesa del giudizio bis. “L’atteggiamento antagonista e di esacerbata contrapposizione all’autorità costituita non è anche idoneo a concretare la finalità di terrorismo” scrivono i giudici citando la giurisprudenza della Corte Costituzionale secondo cui non basta l’astratta adesione a una ideologia per supportare l’accusa relativa all’articolo 270 bis. Del resto la Cassazione già in altre occasioni aveva messo dei paletti ben precisi per la contestazione dell’associazione sovversiva. Al punto da azzerare in pratica l’indagine del pm bolognese Stefano Dambruoso dando ragione al Riesame che aveva liberato tutti gli arrestati. Va ricordato che sia l’operazione romana sia quella bolognese sono state citate come “successi investigativi” dalla recente relazione annuale dei servizi di sicurezza nonostante i flop di cui però i giornaloni hanno scritto poco e niente. Le notizie sul caso Cerrone si fermano per esempio all’arresto e all’estradizione dalla Spagna evidentemente un altro “successo” degli inquirenti. La Cassazione rileva che gli indagati si sono resi protagonisti di episodi di assembramenti non autorizzati, porto di oggetti atti a offendere, travisamenti, imbrattamenti di muri con scritte che incitano alla violenza, incendi, danneggiamenti, diffusione di volantini. Insomma il terrorismo è altra cosa. “La rabbiosa conflittualità ambiguamente evocata nel documento “Dire e se dire” sembra essersi materializzata in comportamenti che pur illeciti hanno mantenuto una connotazione essenzialmente dimostrativa e solidaristica” aggiunge la motivazione che rispedisce al Riesame le carte ridicolizzando il passaggio in cui i giudici territoriali si aggrappavano persino alla “potenzialità sovversiva” della musica Hip-Hop. Le manifestazioni inquisite erano tutte incentrate sulla solidarietà con i reclusi alle prese con l’emergenza Covid. In occasione del sit in di Bologna i dimostranti avevano le mascherine e rispettavano la distanza di un metro. “Terroristi”. Condannato a 5 mesi, ma la detenzione domiciliare per il migrante non arriva di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 marzo 2021 Ai tempi della pandemia, quando l’urgenza di snellire la popolazione carceraria si fa ancor più preminente, c’è un migrante che si trova in carcere per scontare una pena di soli cinque mesi. Eppure, oltre che ha un suo diritto previsto dalla legge, ha tutti i requisiti per avere la detenzione domiciliare. Non solo. È recluso nel carcere di Siano, a Catanzaro, dove da pochi giorni sono risultati positivi al Covid 19 numerosi detenuti e agenti penitenziari. Lui è proprio in quel reparto ed è stato messo in isolamento precauzionale. Tutto qui? Oltre al danno, la beffa. Come se non bastasse, essendo recluso, la questura ha avviato nei suoi confronti l’iter per revocare il permesso di soggiorno. Parliamo di Seye Bathie, un senegalese che ha commesso un piccolissimo reato, tanto da essere stato condannato definitivamente a cinque mesi di reclusione, oltre la pena pecuniaria di soli 150 euro. Ad assisterlo è l’avvocata Chiara Penna del foro di Cosenza. Quando è arrivato l’ordine di esecuzione, è scaduto il termine per richiedere la misura alternativa a causa del ritardo del senegalese nel dare una procura speciale al difensore di fiducia. Il 17 gennaio, il giorno dopo l’ordine di esecuzione, ha varcato le soglie del carcere di Catanzaro. Fortunatamente è consentito richiedere una seconda sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva, qualora la pena medesima non sia superiore ai 18 mesi, anche nei confronti di quei soggetti per i quali sia già spirato infruttuosamente il termine di 30 giorni per proporre istanza per la concessione delle misure alternative alla detenzione. Ma iniziano i primi problemi. Alla prima istanza per chiedere la detenzione domiciliare, la magistratura di sorveglianza ha risposto che secondo le informazioni pervenute dalla polizia di Catanzaro non era idoneo il domicilio. E questo nonostante sia stato allegato il contratto di affitto. A quel punto, l’avvocata Penna si è messa in moto con il presidente dell’associazione senegalesi italiani di Bergamo e sono riusciti a trovare una sua parente che risiede a Napoli, la quale si è resa disponibile ad ospitare Seye. Tutto risolto quindi? No, perché nonostante l’istanza dove si è fatto presente di aver trovato un domicilio idoneo, non c’è stato alcun riscontro. Dopo l’ulteriore sollecito, visto che la risposta ha tardato ad arrivare, l’ufficio di sorveglianza ha comunicato che il fascicolo risulta essere tuttora in istruttoria in quanto la Questura di Catanzaro non ha trasmesso ancora alcuna informazione in merito alla pericolosità sociale di Seye. Ebbene, ribadiamo, parliamo di un uomo condannato per contraffazione, cinque mesi di pena e 150 euro di sanzione. Quanto tempo ci vuole per un uomo che ha il diritto a espiare la pena presso il domicilio documentato agli atti? Ancora oggi, dopo due mesi che è ancora in carcere, la risposta della magistratura di sorveglianza tarda ad arrivare. “È inconcepibile - spiega a Il Dubbio l’avvocata Chiara Penna che un essere umano che deve giustamente scontare una pena detentiva di soli cinque mesi, debba attendere altrettanti mesi in carcere per una decisione da parte dell’organo deputato ad applicare la legge”. E aggiunge: “Tra l’altro in un momento in cui vi è la forte esigenza di evitare il sovraffollamento carcerario ed in una ipotesi in cui al soggetto interessato possono essere applicate misure alternative alla detenzione medesima”. La Cedu: “Indagini preliminari troppo lunghe? Violato il diritto all’equo processo” di Simona Musco Il Dubbio, 20 marzo 2021 Una denuncia per diffamazione prescritta dopo essere rimasta ferma per cinque anni e mezzo. Per i giudici di Strasburgo si tratterebbe di una “condotta negligente” del pm. Indagini preliminari troppo lunghe? C’è violazione del diritto ad un processo equo. A stabilirlo è la Corte europea dei diritti dell’uomo, che nella causa Petrella contro Italia ha riconosciuto anche l’assenza di un ricorso finalizzato a denunciare la violazione di tale diritto. Il caso è quello di Vincenzo Petrella, avvocato ed ex patron della Casertana calcio, che nel 2001 aveva presentato una querela al Tribunale di Salerno contro il Corriere di Caserta, reo, a suo dire, di diffamazione aggravata. Tra il 22 e il 25 luglio 2001, infatti, il quotidiano aveva gettato ombre sulla sua attività, accusandolo di frode grave e corruzione. Petrella ha quindi presentato una denuncia il 28 luglio 2001, sottolineando che tali articoli avevano messo in dubbio il suo onore e la sua reputazione. Nella sua querela, l’avvocato Petrella ha chiarito la sua intenzione a partecipare al procedimento come parte civile e chiedere un risarcimento di dieci miliardi di lire italiane (circa cinque milioni di euro). Il 10 settembre 2001 il caso è arrivato alla Procura della Repubblica del Tribunale di Salerno, dove è rimasto fermo fino al 9 novembre 2006, quando il pubblico ministero ha infine deciso di ritirare le accuse in quanto prescritte. Il cerchio si è chiuso il 17 gennaio 2007, quando il giudice per le indagini preliminari di Salerno ha interrotto il procedimento. E ciò impedendogli, dunque, anche la possibilità di agire civilmente, in quanto ai sensi dell’articolo 79 del codice di procedura penale, “la costituzione di parte civile può avvenire per l’udienza preliminare”, fase del procedimento in cui il giudice è chiamato a decidere se rinviare a giudizio l’imputato. Insomma, per la Cedu i suoi diritti sono stati violati, anche perché l’uomo non aveva a disposizione nessun ricorso per far velocizzare la procedura. La prescrizione, dunque, è maturata proprio nel corso delle indagini preliminari, pur trattandosi di un caso semplicissimo, che non richiedeva sforzi eccessivi per arrivare alla chiusura delle stesse. Ma nonostante ciò sono durate comunque circa cinque anni e mezzo. Una durata eccessiva, secondo la Corte, che ha comportato la violazione del requisito della ragionevole durata. E solo a causa di questo ritardo da parte della procura Petrella non è stato in grado di presentare una richiesta di risarcimento. La vicenda, dunque, sembra dare ragione ai penalisti italiani, che poco prima della norma Bonafede, che di fatto cancella la prescrizione, hanno tentato di sfatare la leggenda secondo cui l’estinzione dei reati sarebbe da addebitare alle tecniche dilatorie degli avvocati. Una posizione - sostenuta ad esempio anche da Piercamillo Davigo - che l’Unione delle Camere penali ha fortemente contestato: “Secondo i dati di fonte ministeriale - si legge in una nota - la stragrande maggioranza dei casi di prescrizione matura nel corso delle indagini preliminari, laddove chi “manovra” è solo il pm, il che dimostra che la prescrizione viene utilizzata in maniera patologica di fronte ad un uso altrettanto patologico del principio di obbligatorietà dell’azione penale, e che comunque la difesa non c’entra nulla”. Un concetto ribadito anche a fine 2019, poco prima dell’approvazione della norma sulla prescrizione: “I processi che si concludono per prescrizione sono il 10% del totale - contestava Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Ucpi -. In questo 10%, quelli in cui la prescrizione matura prima della sentenza di primo grado sono il 70%”. Ma c’è un altro fatto evidenziato dalla Cedu: Petrella non ha potuto nemmeno fare ricorso alla “Legge Pinto”, che disciplina il diritto di richiedere un’equa riparazione per l’irragionevole durata di un processo, in quanto la stessa non si applica fuori dallo stesso, sottolineando come nel diritto interno non vi sia alcuno strumento che avrebbe consentito a Petrella di lamentarsi della durata del procedimento. Una condotta “negligente da parte delle autorità” che ha privato il ricorrente della possibilità di rivendicare i propri diritti. E ciò anche perché “a un attore non può essere richiesto di intentare una nuova azione in un tribunale civile, per gli stessi scopi della responsabilità civile, laddove il procedimento penale idoneo ad affrontare la domanda fosse scaduto per colpa delle autorità penali”. Ciò comporterebbe, probabilmente, la necessità di raccogliere nuovamente le prove, “e stabilire un’eventuale responsabilità potrebbe rivelarsi estremamente difficile a lunga distanza dall’evento”. Nel caso Petrella, dunque, sono stati violati l’articolo 6 (diritto ad un processo equo e all’accesso a un tribunale) e l’articolo 13 (diritto ad un ricorso effettivo). Per tale motivo, la Cedu ha condannato l’Italia a risarcire i danni morali, con una somma pari a 5.200 euro, ai quali si sommano 2mila euro di spese legali. Cibo scaduto o avariato, niente più denuncia per chi lo vende di Viola Giannoli La Repubblica, 20 marzo 2021 Abrogato l’articolo della legge 26 marzo del 1962. Il reato era punito anche con l’arresto. Ora scatterà una multa fino a 3mila euro. Locali sporchi che non rispettano le norme igieniche e vendono cibi avariati, scaduti, insudiciati o pieni di parassiti, alimenti alterati o in cattivo stato di conservazione, farciti di additivi chimici non autorizzati o residui di pesticidi tossici per l’uomo. Tutto questo fino a oggi era punito con la denuncia, l’arresto, una ammenda fino a 60 mila. la chiusura dello stabilimento per frodi tossiche, la revoca della licenza. Dal 26 marzo la legge del 1962 che tutelava gli alimenti e dunque clienti e consumatori cadrà. E così anche il divieto di importare alimenti non conformi alle attuali disposizioni. Niente più denuncia penale, ma solo una multa da massimo 3 mila euro. Un duro colpo alla sicurezza alimentare causato dall’entrata in vigore di un decreto legislativo, il numero 27 del 2 febbraio 2021, pubblicato in Gazzetta ufficiale l’11 marzo. Decreto che adegua la normativa nazionale a un regolamento dell’Unione europea che si occupano solo di disciplinare i controlli ufficiali lungo la filiera agroalimentare ma, nella sua formulazione originaria, non prevedeva l’abrogazione dell’articolo 5, quello contestato. A sollevare il caso sono stati alcuni magistrati come il procuratore aggiunto del pool per la tutela del consumatore Vincenzo Pacileo che da Torino ha spiegato: “Per sessant’anni quella legge ha fatto il suo onesto servizio. Svolgeva una funzione importante di tutela preventiva. Ora, invece, con una soluzione inopinata e sorprendente, viene cancellato. E non si vede come colmare questo vuoto, visto che non si tratta di una depenalizzazione e non è prevista una trasformazione della norma in illecito amministrativo”. La norma era applicata, per esempio, nei casi in cui le ispezioni nei negozi o nei ristoranti portavano alla luce prodotti con parassiti o in pessimo stato di conservazione. Solo a Torino il 70% dei procedimenti in materia di sicurezza alimentare si riferiva all’articolo 5 della legge del ‘62. L’intensificazione dei controlli da parte di Asl e forze dell’ordine aveva portato a un aumento dei fascicoli stimato del 30-40% all’anno. Come si sia arrivati a questa abrogazione, non è chiaro. Perché non era contenuta nella bozza di decreto trasmessa dal governo Conte al Parlamento per il parere prima dell’approvazione definitiva. Né era immaginabile dal discorso del neo ministro per le Politiche agricole, alimentari e forestali, Stefano Patuanelli, il quale, due giorni prima della pubblicazione del decreto, il 9 marzo, illustrando alla Commissione Agricoltura del Senato, le linee programmatiche del governo Draghi, si impegnava a rivedere “il quadro di regole sulle sanzioni in modo da renderle più efficaci, maggiormente proporzionate agli illeciti nonché più organiche a livello settoriale”, riformando “il quadro penale dei reati agroalimentari, oggi fermo alle norme del codice del 1930 e alla legge sull’igiene degli alimenti del 1962”. Non però a un colpo di spugna sulle tutele di quella legge. “Appare indispensabile rimediare prima che il paese ne paghi le conseguenze - ha scritto anche l’ex procuratore di Civitavecchia, Gianfranco Amendola - Lo si può fare con un decreto legge correttivo; da emanare, però, subito, prima che il nuovo provvedimento diverrà operativo”. Porto Azzurro. Vaccinati 260 detenuti e a Pianosa tutti hanno avuto il siero anti-Covid redattoresociale.it, 20 marzo 2021 Umberto Cignoni, è il direttore sanitario del carcere di Porto Azzurro. Dall’aprile 2018 è il responsabile della salute di 290 detenuti sull’Isola d’Elba più altri 11 che si trovano a Pianosa. Un ruolo delicato in tempo di pandemia da Covid 19. Perché se il virus entra in un istituto di pena le conseguenze possono essere serie. Gestire un focolaio che si dovesse sviluppare fra celle, mense e spazi comuni sarebbe un’operazione difficile e impegnativa. Quindi meglio prevenire che curare. Così quando finalmente nei giorni scorsi i medici e gli infermieri distaccati presso il carcere elbano hanno portato a termine la vaccinazione di 260 detenuti e 61 poliziotti penitenziari, il dottor Cignoni ha sentito la necessità di ringraziare uno per uno chi ha fattivamente contribuito a raggiungere questo obiettivo: i medici Ambra Giusti, Lorenzo Conticelli Serena, Michele Tararà e gli infermieri Lillia Malano, Loredana De Biasi, Lorella Anselmi, Paolo Roma, Lorenzo Frediani e Niccolò Balatti, con un ringraziamento particolare alla direzione e a tutta la Polizia penitenziaria, in particolare modo agli assistenti capo Marcello Olla e Mario Trovato. “Oggi tutti e 11 i detenuti che si trovano a Pianosa sono vaccinati - spiega Cignoni- e si potrebbe dire che l’isola è diventata Covid free. Mentre a Porto Azzurro ne abbiamo vaccinati 260 su 290, partendo dai più fragili. Alcuni hanno espresso la volontà di non fare il vaccino, ma possiamo dire che adesso al carcere di Porto Azzurro si sia quasi raggiunto l’effetto gregge, che sarà ulteriormente rafforzato dalla vaccinazione di tutto il personale impegnato in compiti di sorveglianza o amministrativi”. “Da quando è scoppiata la pandemia abbiamo avuto due casi di Covid tra i detenuti curati qui - aggiunge il direttore sanitario - esiste un protocollo da seguire e lo abbiamo fatto. Chi doveva isolarsi perché positivo è stato messo in una cella a parte. Lo stesso abbiamo fatto con i contatti del positivo, che hanno passato la quarantena in un reparto separato dagli altri detenuti. Tutto è andato bene e il contagio non ha preso piede. Merito anche delle altre misure che sono state prese: le visite sono state sospese, i detenuti sono controllati periodicamente ogni mese e chi rientra in carcere da permessi o licenze deve fare la quarantena”. Quello di Porto Azzurro è uno delle carceri più importanti della Toscana e ha la particolarità di avere a Pianosa una sezione distaccata: qui i detenuti non vivono in cella, ma contribuiscono fattivamente alla valorizzazione dell’isola grazie ad un progetto sperimentale che li vede impegnati nella manutenzione delle strutture murarie, nell’agricoltura e nei servizi ai turisti, come il ristorante. Asti. Detenuti positivi al carcere di Quarto: sospesi i colloqui con gli avvocati lanuovaprovincia.it, 20 marzo 2021 Lo comunica la Camera Penale di Asti. Non è più possibile incontrare i reclusi da ieri, data in cui è emerso l’alto numero di contagiati. La diffusione rapidissima del Covid al carcere di Quarto ha portato ad una prima conseguenza riferita dal segretario della Camera Penale di Asti, avvocato Alberto Avidano: sono stati sospesi da ieri i colloqui con i detenuti. “Questa mattina la Camera Penale di Asti ha immediatamente preso contatti con la direzione del carcere e con il Garante dei Detenuti del Piemonte, on. Bruno Mellano. Le notizie fornite dalla casa di reclusione sono giunte in tarda mattinata, e sono le seguenti: effettivamente, all’interno di una delle sezioni, sono risultate positive 28 persone, tutte al momento asintomatiche. A causa di ciò la direttrice ha disposto che tutti i presenti - detenuti e personale - fossero sottoposti a tampone molecolare e ha precauzionalmente adottato misure restrittive per i movimenti all’interno del carcere e i collegamenti con l’esterno. Al momento non sono noti i risultati della tamponatura generale di cui si è detto. La situazione, assicura la direttrice, è sotto controllo ed è costantemente seguita dal Responsabile del Presidio Sanitario interno in sinergia con i referenti ASL; precisa che sono state adottate tutte le misure previste a livello ministeriale e con le circolari del D.A.P. (Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria) dell’ottobre scorso”. Bari. Sportello dell’Anagrafe nel carcere, firmato il protocollo d’intesa con il Comune baritoday.it, 20 marzo 2021 Va avanti il progetto per l’apertura dello sportello per i servizi anagrafici nel carcere di Bari. In giornata la Giunta ha approvato lo schema di protocollo d’intesa tra Comune e la struttura in corso Alcide de Gasperi per l’avvio del servizio. Nello specifico il Comune, l’ufficio del Garante regionale e la Casa circondariale di Bari, nel corso dell’ultimo triennio, hanno intrapreso una serie di interlocuzioni finalizzate a favorire l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile delle persone private della libertà personale. Da una prima ricerca sulle esigenze della popolazione detenuta condotta nella struttura penitenziaria è emersa proprio la necessità di assicurare un’adeguata e tempestiva fruizione dei servizi comunali di anagrafe e di stato civile, con particolare riferimento ai servizi di emissione di certificati per i residenti, rilascio di autentiche e dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà, rilascio di carte di identità in formato cartaceo per i residenti, ricezione delle istanze di iscrizione e di cancellazione anfagrafica, oltre che alla celebrazione di riti civili e alla redazione di atti di riconoscimento di paternità. Per questo si è scelto di sottoscrivere un protocollo d’intesa che impegna i soggetti coinvolti nell’individuazione di un luogo fisico deputato ad accogliere lo sportello all’interno della struttura, in cui verranno resi tanto i servizi di stato civile quanto quelli di anagrafe. Lo sportello demografico sarà attivo con cadenza periodica grazie alla presenza di un ufficiale di anagrafe o di stato civile incaricato dalla direzione della ripartizione Servizi demografici, elettorali e statistici, che potrà accedere alla Casa circondariale munito di preventiva autorizzazione. Tutti gli aspetti relativi alle modalità di erogazione del servizio saranno regolati con provvedimento dirigenziale in cui si definiranno le incombenze e l’autorizzazione ad operare all’interno della struttura. Nell’ambito del protocollo, quindi, l’allestimento dello sportello sarà curato dal Comune di Bari che metterà a disposizione una postazione di lavoro completa (pc, sistema di connessione, stampante laser e stampante ad aghi) collegata alla rete comunale per l’accesso ai Sistema informativo settoriale della popolazione e alla banca dati anagrafica. La Casa circondariale, invece, metterà a disposizione del Comune un ufficio da destinare in via esclusiva allo svolgimento delle funzioni istituzionali di anagrafe e stato civile designato quale sede comunale, facendosi carico delle spese relative alle utenze. “Questo atto per noi è un passo importante nell’ambito di una politica che guarda ai diritti delle persone, tutte - spiega Eugenio Di Sciascio - Da tempo stiamo lavorando per avvicinare i servizi e le istituzioni ai cittadini cercando, ove possibile, di velocizzare e migliorare le procedure, pur tra molte difficoltà determinate dalla pandemia. questo ulteriore traguardo va ad aggiungersi a questo impegno. Crediamo che portare all’interno della Casa circondariale i servizi anagrafici, come pure i riti civili tra cui il matrimonio, sia un modo per agevolare la vita di tante famiglie che hanno un proprio congiunto in stato di detenzione e, così facendo, portare l’Istituzione in un luogo deputato, oltre che all’applicazione della pena, anche e soprattutto alla reintegrazione sociale dei detenuti”. “Sono molto contenta di questa opportunità, che rappresenta un’esperienza attualmente attiva solo in pochissimi altri istituti italiani - dichiara Valeria Pirè, direttrice della Casa circondariale -. Si tratta di un’iniziativa di grande valore anche a livello simbolico perché, riconoscendo la non extra-territorialità del carcere rispetto alla città, la comunità e le sue istituzioni si fanno carico dei detenuti e del loro diritto di cittadini. Spero questo segnale venga colto dagli stessi detenuti affinché possano intraprendere un percorso di consapevolezza”. “Penso che, nell’ottica esclusiva del benessere degli ospiti della casa circondariale, questa iniziativa sia davvero una buona notizia - osserva Piero Rossi, garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà -. Il fatto che l’amministrazione comunale abbia inteso dislocare nella struttura penitenziaria un importante servizio, quasi questa fosse una sorta di Municipio comunale, è un elemento di grande civiltà ma anche di dichiarata consapevolezza dell’amministrazione di voler prendersi cura, nell’ambito delle proprie competenze, delle persone detenute. Una scelta estremamente importante sia sul piano concreto che su quello simbolico. Da questo punto di vista, il garante non solo darà massimo risalto a questo progetto ma soprattutto si impegnerà affinché venga diffuso in altri luoghi di detenzione”. Bologna. Question Time, chiarimenti sul sovraffollamento del carcere Dozza di Roberto Di Biase emiliaromagnanews24.it, 20 marzo 2021 L’assessora Susanna Zaccaria ha risposto, in seduta di Question Time, alle domande d’attualità delle consigliere Mirka Cocconcelli (Lega nord) e Addolorata Palumbo (gruppo misto-Nessuno resti indietro), sul sovraffollamento del carcere Dozza. La domanda della consigliera Cocconcelli - “Dozza sovraffollata con 750 detenuti al posto di 492. Secondo i sindacati di Polizia Penitenziaria la situazione è al limite con una tensione che monta, con detenuti ubriachi che feriscono due agenti. Gli operatori sono preoccupati per i numerosi episodi di violenza all’interno della Casa Circondariale. Nicola D’amore del Sinappe chiede di predisporre una sezione per la gestione temporanea dei detenuti “difficili” garantendo percorsi adeguati rieducativi per i detenuti. Chiedo al Sindaco ed alla Giunta una valutazione politico-amministrativa nel merito e quali misure intendano adottare per contrastare questi episodi di violenza che quotidianamente colpiscono gli operatori che lavorano all’interno della Casa Circondariale”. La domanda della consigliera Palumbo - “Visti gli articoli di stampa apparsi in merito all’allarme lanciato dal Garante dei detenuti, Antonio Iannello, sul tasso di sovraffollamento del carcere Dozza che è nuovamente salito raggiungendo quota 750 presenze a fronte di una capienza regolamentare di 492 ospiti. Visto che durante la seduta di commissione consiliare del 27 gennaio u.s. sul sovraffollamento del carcere in relazione anche all’epidemia da Covid 19, la dott.ssa Claudia Clementi, Direttrice della Casa Circondariale di Bologna, ha dichiarato quanto segue: “Ad oggi non sussistono particolari criticità, e sono riprese alcune delle attività a carattere individuale per i detenuti, sempre nell’osservanza del triage all’ingresso e del monitoraggio”, oltre al problema di sovraffollamento continuano ad emergere episodi di violenza e di autolesionismo è stato emanato un provvedimento di sospensione di nuovi ingressi al carcere della Dozza e i nuovi arresti verranno dirottati al carcere di Modena. Pone la seguente domanda di attualità per conoscere il pensiero del Sindaco e della Giunta sull’argomento. Per sapere dall’Amministrazione: se ritiene sufficiente il provvedimento preso dalla competenti autorità di sospendere gli ingressi alla Dozza; se ritiene necessario adottare altre misure per far fronte all’emergenza del sovraffollamento che va avanti da anni”. La risposta dell’assessora Zaccaria - “Gentili consigliere, grazie della domanda che ci permette di riportare l’attenzione su un tema di cui ci occupiamo spesso, il carcere, per i motivi che avete evidenziato, in particolare la difficoltà in questo momento di rispettare il distanziamento. L’elemento di novità è che per limitare il sovraffollamento dell’istituto, lo scorso 11 marzo il provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria Emilia-Romagna e Marche ha adottato un provvedimento orientato a sospendere i nuovi ingressi - i nuovi arresti vengono dirottati a Modena - in ragione della saturazione degli spazi detentivi, anche dovuta alla contemporanea chiusura in via precauzionale di diverse sezioni detentive, per i casi di positività riscontrati all’interno. Il numero delle persone detenute positive è al momento limitato, sono sei, ma le condizioni interne richiedono molta attenzione, vista la contagiosità delle nuove varianti del virus. Il provvedimento è sicuramente efficace, è analogo a quello che era già stato assunto nel mese di dicembre, in quel caso a seguito di numerosi casi positivi presenti, in una situazione emergenziale, mentre in questo caso il provvedimento è stato assunto anticipatamente, in via precauzionale, anche a fronte di un limitato numero di casi. Non è sufficiente non fare entrare nuove persone, è evidente, l’ideale sarebbe poter applicare quei provvedimenti che consentono l’esecuzione della pena con misure alternative, che come sapete non hanno avuto molto successo quando sono stati introdotti lo scorso anno, per i requisiti formali stringenti che si dovevano avere per avere accesso alle misure. Questa è la strada che come Comune abbiamo sollecitato. Siamo a conoscenza anche degli episodi di violenza che aumentano molto la tensione e aggravano ulteriormente le condizioni del personale, perché noi quando parliamo di carcere teniamo sempre presente i detenuti e il personale che ci lavora. Per quanto riguarda il consumo di bevande alcoliche, che ovviamente è vietato dal regolamento, continuano a verificarsi episodi di produzione di distillati alcolici il cui consumo non responsabile ha comportato situazioni di tensione all’interno di questa sezione. Da tempo il nostro Garante comunale ha sollecitato l’Ausl ad attivare degli incontri sull’uso responsabile di sostanze alcoliche e un’attenzione specifica con percorsi dedicati a chi è in questa situazione che peggiora le condizioni per tutti. Rispetto alla condizione sanitaria generale, sottolineo una cosa importante: è operativo il protocollo di gestione e prevenzione del contagio, sottoscritto dall’Ausl di Bologna e dalla direzione del carcere, che ha definito l’individuazione degli spazi detentivi da destinare all’isolamento sanitario, anche prevedendo più netti percorsi differenziati per la gestione dei soggetti portatori di infezioni da Covid-19. Questo ha portato a un contenimento dei casi, che come dicevo sono sei, potenzialmente pericolosi, ma contenuti rispetto al numero di persone presenti. L’applicazione del protocollo, il provvedimento che blocca nuovi ingressi sono utili, l’unico ulteriore tema su cui puntare è proprio il ricorso alle misure alternative. Non è a mia conoscenza l’intenzione di modificare i requisiti di quei provvedimenti, ma sicuramente noi lo facciamo presente il più possibile. Il nostro Garante comunale, lo vedete anche dai giornali, monitora quotidianamente la situazione, mi tiene aggiornata per avere sempre la massima attenzione su ogni situazione potenzialmente pericolosa”. Palermo. Migranti e detenuti per gestire il B&B della speranza di Claudia Brunetto La Repubblica, 20 marzo 2021 A gestire la struttura alberghiera saranno quattro ragazzi migranti e otto fra detenuti ed ex detenuti. Gli occhi di Ousmane Kante raccontano che anche un’impresa impossibile si può realizzare. Lui che ha 22 anni ed è arrivato dal Mali fino alla Sicilia a bordo di un barcone è uno dei ragazzi coinvolti nel progetto “Aiutiamoli a casa San Francesco” che ha l’ambizione di realizzare 16 alloggi turistici fra stanze singole e mini appartamenti nel cuore dell’itinerario arabo- normanno a un passo dalla Cattedrale. In tutto, a gestire la struttura alberghiera, saranno quattro ragazzi migranti e otto fra detenuti ed ex detenuti. Un’impresa non impossibile, ma di certo ambiziosa in un periodo segnato dalla pandemia che ha dato un duro colpo al settore turistico. “Può sembrare difficile - dice Kante che lavora come aiuto cuoco - Ma io invece dico che si può fare. Voglio lavorare sodo per dare il mio contributo. E sono felice di fare parte di questa squadra che guarda al futuro”. “Cotti in fragranza”, impresa sociale della cooperativa Rigenerazioni, ha avviato il progetto grazie al supporto della fondazione San Zeno e fondazione con il Sud. Adesso si attende di potere cominciare i lavori a Casa San Francesco, edificio storico del 1600 che fu l’infermeria dei padri francescani, dove è già attivo il secondo nucleo operativo per la produzione di cibo fresco su commissione di “Cotti in fragranza” per i poli che accolgono i senza dimora in città e per il giardino bistrot “Al fresco”. Il primo traguardo possibile è provare ad aprire i battenti almeno per la fine dell’estate. “Sappiamo bene che il periodo è davvero difficile per avviare un progetto turistico - dice Nadia Lodato, una delle socie fondatrici di “ Cotti in Fragranza” insieme con Lucia Lauro - Ma non molliamo. Sarebbe bello riuscire già quest’estate ad accogliere persone in arrivo a Palermo dal resto della Sicilia “. Casa San Francesco ha tutte le carte in regola per diventare un polo di attrazione. È in pieno centro storico con una terrazza panoramica sulla città e anche un grande giardino dove saranno servite le colazioni, i brunch e gli aperitivi per i clienti. Le stanze, poi, saranno dotate di tutto: impianto di climatizzazione, tv e bagno privato. Ma la cosa più importante è che “Aiutiamoli a casa San Francesco”, come è nel Dna di “Cotti in fragranza”, mette in circolo sostenibilità e impegno sociale. Il benessere dei turisti che arriveranno incontrerà il benessere dei ragazzi migranti e detenuti che si sono rimessi in gioco dopo percorsi difficili fatti di emarginazione. “È una bella occasione - dice Jennifer, nigeriana di 32 anni che vive a Palermo da 3 anni che nella struttura si occuperà del settore delle pulizie insieme con un’altra ragazza nigeriana - Un modo per confrontarsi con il mondo del lavoro e costruire esperienze nel settore alberghiero e turistico “. L’associazione “Il pellegrino della terra” e “Clean Sicily” hanno collaborato al progetto per l’orientamento dei ragazzi da coinvolgere. “Abbiamo già avuto altre belle esperienza con le ragazze nigeriane del “Pellegrino della terra” - dice Giorgia Puleo di “Clean Sicily” - Il progetto di Casa San Francesco può permettere davvero di rimettersi in gioco”. Jennifer e un’altra ragazza sono già state assunte da Cotti in fragranza. “Lavorare nel settore turistico è un’opportunità molto importante - dice Graziella Scalzo, coordinatrice del “Pellegrino della terra” - Anche se adesso è tutto fermo, sono certa che il turismo ripartirà e le nostre ragazze potranno mettersi in gioco”. Padova. Voto al boss mafioso come Garante detenuti: nessun esposto, mancano i presupposti di Luca Preziusi Il Mattino di Padova, 20 marzo 2021 Il consigliere “colpevole” è salvo. Non ci sono i presupposti e gli estremi per configurare un reato. Questo l’esito del parere chiesto dall’amministrazione comunale all’avvocatura civica di Palazzo Moroni, che dopo aver valutato attentamente il caso, si è espressa così sulla vicenda del consigliere comunale che aveva scritto il nome del latitante Matteo Messina Denaro sulla propria scheda di voto durante lo scrutinio per nominare il garante dei detenuti. Sia il sindaco Sergio Giordani che l’assessore alla legalità Diego Bonavina avevano minacciato di rivolgersi alla Procura qualora ci fossero i termini per una denuncia, pur non nascondendo mai troppo i loro dubbi che si potesse arrivare a procedere contro l’autore. Un modo forse per provare a stanare il consigliere misterioso, che il 3 marzo scorso invece di votare uno dei 7 candidati a ricoprire il ruolo all’interno del carcere Due Palazzi per conto dell’amministrazione, aveva scritto sulla propria scheda il nome del superboss ricercato dal 1993. Una scelta non troppo opportuna (coperta dal segreto del voto) che ha scatenato le reazioni di mezzo consiglio comunale, e in pochi giorni è finito anche sui tavoli delle ministre di Giustizia e Interno, grazie ad una pioggia di interrogazioni portate a Roma dai parlamentari di Pd e Fratelli d’Italia. Lo stesso prefetto Renato Franceschelli aveva definito il gesto “indegno” prima del disprezzo espresso dal garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e della discesa in campo di Libera. L’associazione che da anni si occupa di lotta alla mafia aveva invocato le dimissioni del consigliere, così come aveva fatto il giorno prima anche il sindaco Giordani. “Nell’immediato abbiamo espresso la volontà politica di presentare un esposto per la gravità dei fatti, ma poi è ovvio che il caso andava studiato dal punto di vista giuridico” spiega l’assessore (e avvocato) Bonavina “e quindi mi sono confrontato con molti miei colleghi e ho chiesto anche un parere alla nostra avvocatura per capire come procedere. Purtroppo, come avevo previsto, è emerso in maniera netta come non ci sia un reato sottostante, e per quanto il gesto sia assolutamente deprecabile ci manca lo strumento per presentare un esposto”. Sergio Giordani quindi non potrà presentarsi in tribunale con queste premesse per denunciare il consigliere, ma in realtà in Procura c’è già un esposto e lo ha depositato la scorsa settimana il Pd, attraverso il segretario cittadino, Davide Tramarin: “Da parte nostra la condanna totale del gesto vile rimane assolutamente” evidenzia Bonavina “ma se in base all’esposto del Pd la Procura dovesse ritenere di aprire un’inchiesta, noi siamo prontissimi anche a costituirci parte civile in un eventuale procedimento. Credo però che a questo punto nella coscienza di chi si è macchiato di tutto questo, dovrebbe emergere anche il coraggio di chiedere scusa alla città”. Intanto domani è la giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Il diario di Andrea Soldi, morto per il Tso: “Io, una stella sopra Torino. Cado come una foglia” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 20 marzo 2021 I testi del ragazzo trovati dal padre e raccolti in un libro. Il 45enne morì nel 2015 durante il trattamento sanitario obbligatorio. C’è un ragazzo piegato su un foglio a scrivere di sé e del mondo. Ma il suo mondo non è lo stesso che vedono gli altri. Andrea Soldi è malato e quel che scrive segue quel che sente. La prima crisi catatonica, i momenti più duri, quelli buoni, i ricordi del suo tempo felice, i racconti dal limite della ragione. Andrea scrive cartoline dalla schizofrenia, dal 1991 al 2006. Un diario - incredibile per consapevolezza e chiarezza - con il quale racconta i momenti in cui diventa un altro. E poi scrive lettere: a suo padre Renato, a sua sorella Cristina, ai nipoti, alle persone care che ruotano attorno a lui. Ma tutti quei pensieri appuntati sulla carta restano in un cassetto della sua casa e della sua mente. Il diario mai letto da occhi diversi dai suoi, le lettere mai spedite. Poi arriva il 5 agosto del 2015, Andrea Soldi muore, a 45 anni, dopo un trattamento sanitario obbligatorio durante il quale - hanno stabilito le sentenze di condanna in primo e secondo grado - è stato sbagliato tutto quel che si poteva sbagliare. Suo padre Renato non potrà mai dimenticare quel pomeriggio drammatico, anche perché era lì, nella piazza torinese dove Andrea è stato raggiunto dallo psichiatra e dai vigili urbani per il Tso: “Ero a 200 metri da lui e l’accordo con il medico era di non farmi vedere, così mi sono detto: è in buone mani, e sono andato a casa. Se sapesse quante volte mi sono rimproverato... se mi fossi avvicinato anziché fidarmi del dottore...”. Renato, 85 anni, è stato sopraffatto dai sensi di colpa e già prima che succedesse il peggio torturava se stesso perché non sapeva se e quanto del suo bene arrivasse ad Andrea. Adesso lo sa. Sa che quel ragazzo tranquillo - che tutti nel quartiere chiamavano “gigante buono” e che passava ore seduto sulla sua panchina - provava per lui un amore sconfinato. Sa che Andrea ha sempre capito e saputo di essere amato. La casa - Lo ha scoperto quando ha svuotato la sua casa per affittarla. Ha aperto un cassetto e ci ha trovato il mondo di suo figlio: tanti fogli scritti a mano - con pochissime correzioni - che erano un viaggio nella sua mente. Parole dure, commoventi, poetiche, allegre, preoccupate, mai folli. Pagine che alcuni psichiatri hanno letto e considerano “un documento straordinario” per entrare nei territori più remoti della schizofrenia. Tutto questo è diventato un libro che la casa editrice indipendente add pubblicherà il 14 aprile. Autore: Matteo Spicuglia. Titolo: “Noi due siamo uno”, che poi è anche il titolo di una canzone degli Eurythmics che Andrea ha scritto su uno dei suoi fogli, accanto al suo nome e cognome annotato tutt’attorno. Non è casuale, quella canzone e per la verità niente è casuale in quello che Andrea scriveva. Ci sono date, ricordi precisi, sensazioni ripescate dai tempi felici dell’infanzia. Ma, soprattutto, ci sono descrizioni dell’altro, il cobra. Quando stava male lui diventava cobra, sua sorella Cristina era una mangusta, suo padre uno scimmione, sua madre a volte un serpente altre volte un leone. “In questo libro c’è mio fratello ma c’è anche la nostra famiglia, ci sono le persone che lo hanno aiutato” dice Cristina. Nei fogli di Andrea sua madre Enza (malata di Sla e morta da molti anni) c’è sempre ma è un’immagine in sottofondo, come fosse un paesaggio della sua vita. In un passaggio dice: “Da quando si è ammalata, provo una sensazione di impoverimento, l’impossibilità a guardare le situazioni dal verso giusto”. Una stella - A volte lui si credeva una stella, si vedeva “mandato su Torino, sceso dall’alto del cielo come un vento”, altre volte scriveva di suo padre in terza persona: “Sta piangendo! Non sa di essere amato ma ama”. Altre ancora era “foglia attaccata a un ramo che insegue il suo destino”. Il suo destino è cadere “ma le amiche foglie muoiono insieme a lei” e cadendo tutte assieme diventano “un evento che non ha più fine...”. In fondo è quello che è successo a lui. È caduto e cadendo è diventato “evento”: ha fatto rumore, si è fatto sentire dal mondo. Un trauma salutare per un cambiamento vero di Massimo Franco Corriere della Sera, 20 marzo 2021 Il premier, che è insieme il sintomo e la conseguenza del nuovo equilibrio, ha dato la sensazione di una persona sicura di sé e quindi in grado di trasmettere fiducia. Non si può dire che sia stato un esordio timido. La prima conferenza stampa di Mario Draghi, dopo settimane di silenzio apprezzato o criticato, ha mostrato un presidente del Consiglio sicuro, rassicurante e a tratti ironico. Molto più a suo agio di fronte alle domande, a tutte le domande, di quanto si potesse immaginare. Pronto a vaccinarsi con AstraZeneca, dopo che lo ha già fatto il figlio a Londra. Consapevole delle difficoltà e della parzialità nella distribuzione degli aiuti. E molto sintetico. Anche se le oltre tre ore di ritardo con le quali si è presentato hanno rischiato di proiettare sul suo esordio le ombre del passato: quelle di una coalizione litigiosa e patologicamente protesa a frenare l’azione del governo. Il rinvio ripetuto dell’orario è dipeso da una lunga trattativa, soprattutto con la Lega, che voleva sottolineare la sua insistenza sul condono fiscale: un’impuntatura che alla fine si è rivelata un modo per marcare un fazzoletto di territorio elettorale; ma ha fatto pensare anche ad una certa incomprensione della fase nuova apertasi nel Paese. Nel lungo negoziato che ha preceduto la riunione del Consiglio dei ministri qualcuno ha visto la volontà dei partiti di non apparire irrilevanti. Da giorni, il mantra dello scontento contro Palazzo Chigi e alcuni ministri di Draghi è che farebbero tutto da soli. Se era davvero questo l’obiettivo, in apparenza può avere avuto successo. Ma solo in apparenza. In realtà ha mostrato quanto sia miope la voglia di alcune forze di riproporre dinamiche che hanno umiliato la politica, invece di cogliere le opportunità di una stagione nuova: un’occasione per ricostruirsi e rilegittimarsi. Il premier ha liquidato le rivendicazioni della Lega concedendo la mole di “annunci passati” e di “bandiere identitarie” che “tutti i partiti” si portano dietro. Il problema, ha aggiunto, è chiedersi quali siano di buonsenso e quali dannosi. Insomma, li ha trattati come riflessi automatici di un’epoca finita, e che tuttavia tende a riaffiorare in alcuni comportamenti. La conferenza stampa poteva finire per accreditare l’idea di continuità con un passato caotico. Le liti tra alleati prima del Consiglio dei ministri; il rinvio dell’inizio dell’incontro; le voci di un negoziato teso e forse inconcludente; e il primo impatto con i giornalisti. Ma questa immagine distorta è stata corretta in un’ora di risposte su tutto, dalle vaccinazioni al Quirinale, ai rapporti con le Regioni e con la Commissione europea. Risposte rapide, nette, a domande tutt’altro che addomesticate. E in qualche caso, repliche volutamente ipersintetiche: come quando è stato chiesto a Draghi se voglia succedere a Sergio Mattarella come capo dello Stato e quanto durerà il suo governo. Dipende dal Parlamento, si è limitato a dire. La sensazione complessiva è stata quella di una persona molto sicura di sé e di quello che deve fare; e anche per questo in grado di trasmettere fiducia a un’Italia che la miscela di crisi economica e pandemia rende spaventata e disorientata. Le spiegazioni che ha dato sulla sospensione del vaccino di AstraZeneca; le proiezioni sulla campagna dei prossimi mesi; gli aiuti che il governo darà ai poveri; la tranquillità con cui ha spiegato l’esigenza di “dare soldi e non chiedere soldi” finché c’è la pandemia: sono tutti pezzi di una strategia che non contempla né annunci enfatici né allarmismi. Lascia intuire un percorso già tracciato, che prevede non scontri tra Stato e Regioni ma correzioni graduali e condivise dei comportamenti. Draghi si è limitato a dire un “non va bene” quando a livello locale ci si muove “in ordine sparso”. E in parallelo ha descritto un intero Paese pronto a mobilitarsi per fare meglio. È riuscito a inquadrare in una cornice di puro pragmatismo, senza veleni ideologici, anche un argomento divisivo come il prestito europeo del Mes sulla sanità. Quando ci sarà un piano ben definito, ha spiegato, deciderà il Parlamento se prendere o meno quei soldi. Il cambiamento di stile e di linguaggio è oggettivo. Ma va detto che Draghi è aiutato da una situazione così compromessa per il sistema politico, da consegnargli le chiavi del futuro del Paese. Sa di avere creato molte, troppe aspettative. E sembra consapevole anche che possono trasformarsi in delusioni. Ma ormai governa, e vuole andare avanti facendo presto e nel modo migliore. Gli equilibri del passato sono già saltati, e il premier probabilmente è insieme il sintomo e la causa di questo cambiamento radicale. Ma l’accelerazione non è figlia della subdola volontà di qualche potere sovranazionale; semmai, dell’inadeguatezza di chi ha mostrato limiti di competenza e di strategia. Le resistenze riemerse ieri dall’interno della coalizione confermano che alcune logiche sono dure a morire. Gli stessi canoni del sovranismo populista sembrano arretrare tatticamente, ma sopravvivono, pronti a riaffacciarsi alla prima occasione; e la principale sarebbe un fallimento del tentativo di Draghi. Forse sarebbe bene che il “fronte conservatore” disseminato lungo l’intero arco parlamentare si rendesse conto della profondità dei cambiamenti in atto. E invece di vivere questo laboratorio unitario e inedito come una minaccia, si rivelerebbe lungimirante accettandolo non come una parentesi da chiudere presto, ma come un trauma salutare per reinventarsi e rimettersi in piedi. Attenti alla tecnologia del sospetto di Luigi Manconi e Federica Resta La Repubblica, 20 marzo 2021 Dagli algoritmi che identificano i colpevoli al rischio di profilazione etnica Anche l’intelligenza artificiale ha bisogno di limiti. In gioco c’è la libertà. È difficile pensare a una scelta più autenticamente umana-e così intensamente percorsa dall’empatia - di quella dell’adozione. Da essa discende, infatti, la scommessa di una complessa genitorialità. Ovvero, la volontà di ricreare quanto di più inimitabile esista: il rapporto tra genitori e figli. Ecco, quindi, l’esigenza di un vaglio quanto mai attento della personalità dei potenziali genitori, capace di rapportarne ogni parola, ogni gesto, persino ogni silenzio al ruolo di padre e madre che si candidano a svolgere. Ebbene, apprendere che in Florida persino quella scelta (sia pur nelle sole fasi preliminari) sia stata affidata da alcune associazioni agli algoritmi, rende meglio di ogni altro esempio l’idea della pervasività dell’intelligenza artificiale nelle nostre esistenze quotidiane e nelle nostre relazioni interpersonali. In proposito, molte sono le letture possibili: suggeriamo in particolare “Intelligenza artificiale. L’impatto sulle nostre vite, diritti e libertà”, di Alessandro Longo e Guido Scorza, pubblicato da Mondadori nel 2020. Se, infatti, è da promuovere il ricorso “benefico” all’intelligenza artificiale in ogni campo (ad esempio per migliorare la diagnosi o la terapia di determinate patologie) è essenziale, però, avere chiaro il limite oltre il quale non si può (e non si deve) “fare tutto ciò che si può fare”. Un caso su cui riflettere è quello dell’uso dell’intelligenza artificiale a fini investigativi. Gli autori dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio scorso verrebbero identificati, a quanto è dato sapere, grazie ai software di riconoscimento facciale forniti da Clear-view, società specializzata del settore, a partire da un database di 3 miliardi di immagini “rastrellate” tra le tracce disseminate in rete. E questo, nonostante le carenze di tali tecniche riscontrate già nel 2019 dal National Institute of Standards and Technologies, secondo cui il tasso di errore nell’identificazione biometrica è molto più elevato - da 10 a 100 volte - nel caso degli afroamericani e degli asiatici. In Italia, nel novembre scorso, è stato adottato un bando di gara per individuare il miglior sistema di riconoscimento facciale da utilizzare in tempo reale nell’identificazione di persone straniere. Il Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, in risposta a un’interrogazione parlamentare del deputato Filippo Sensi, ne ha escluso l’utilizzo nei confronti dei migranti. Per altro, le stesse tecniche erano state già utilizzate dalla Polizia di Stato nel 2018, in occasione dell’arresto di due cittadini georgiani, accusati di furto in appartamento. E sarebbe interessante capire se il successivo giudizio abbia confermato o meno il “sospetto” del software. Le dichiarazioni, ormai così frequenti, sull’opportunità dell’estensione del riconoscimento facciale ad altri ambiti (dagli stadi agli aeroporti) ci proiettano in una dimensione dalla quale è facile precipitare, senza colpo ferire, in una società “biosorvegliata”. Qualcosa di simile, potenzialmente, a quanto accade in Cina, dove telecamere installate ovunque registrano ogni più minuto movimento. Ne consegue una domanda: ci si può fidare degli algoritmi? Perché il pericolo connesso a questo tipo di tecniche è, innanzitutto, quello dei falsi positivi: e, quindi, dell’individuazione e stigmatizzazione di soggetti del tutto innocenti. Come a Detroit, la scorsa estate, quando, per un furto di cinque orologi, venne arrestato un afroamericano del tutto estraneo ai fatti a causa di un errore dell’algoritmo di riconoscimento facciale utilizzato dalla polizia. “Spero che non siate convinti che tutti i neri si somiglino” è stato il commento dell’uomo. Commento che, per la verità, andrebbe rivolto, prima che alla polizia, a chi ha progettato quell’algoritmo maldestro. Insomma, il pericolo della profilazione etnica, sia pur solo preterintenzionale, è assai elevato: tanto più se tali tecniche sono correlate al potere coercitivo e alle diverse forme di privazione o limitazione della libertà. Più in generale, si avverte il rischio di cristallizzare negli algoritmi, persino amplificandoli, i pregiudizi che già ci condizionano, alimentando una vera e propria “tecnologia del sospetto”, e del sospetto fisiognomico. La tendenza oggi prevalente è quella a ritenere gli algoritmi come neutri, e per ciò virtualmente infallibili, imparziali e, in una parola, “giusti”, molto più di quanto lo possa essere l’umana, troppo umana, razionalità “naturale”. Accade così che, dagli stessi algoritmi, si facciano dipendere decisioni sempre più significative per la vita individuale e collettiva, smarrendo il senso del limite che invece va posto con risolutezza di fronte all’inarrestabile volontà di potenza della tecnica. E il primo limite che l’intelligenza artificiale deve rispettare è quello della non discriminazione, per evitare di rendere talmente regressivo da apparire distopico ciò che invece può e deve rappresentare uno strumento di progresso sociale e persino, se ben utilizzato, di riduzione delle diseguaglianze. Si pensi alla condanna a sei anni inflitta in Wisconsin a un afroamericano per effetto, tra l’altro, della prognosi di recidiva, stilata da un algoritmo incline ad assegnare ai neri un tasso di pericolosità maggiore di quello attribuito ai bianchi. Presumibilmente, il giudizio umano sarebbe stato, in quel caso, assai meno “lombrosiano” di quanto sia stata, invece, la fredda razionalità artificiale. Il problema, allora, non è tanto e non è solo se il diritto sia - come scriveva Francesco Carnelutti – “materia ribelle ai numeri”, ma è che forse dobbiamo insegnare all’algoritmo a “pensare”, liberando noi, assieme a lui, di tutte quelle forme di intolleranza che una democrazia matura non può tollerare. Dietro tutto ciò, emerge la domanda - tenace e molesta come un rovello - che accompagna le peripezie e i dilemmi delle democrazie mature: come conciliare l’innovazione e le sue mirabolanti potenzialità con la tutela rigorosa delle garanzie individuali e dei diritti sociali? È un interrogativo a cui è arduo rispondere, ma che è impossibile eludere. I ragazzi di Scampia “persi” dalla Dad. Per loro senza scuola non c’è salvezza di Vincenzo Rosati* Corriere della Sera, 20 marzo 2021 La proposta di un insegnante del progetto IoValgo che aiuta i “dispersi” a prendere il diploma: “Le scuole permettano a questi ragazzi di tornare in classe”. Ci si è interrogati spesso su come rendere al meglio le lezioni da remoto o quali strumenti di valutazione adoperare. Ma una domanda, a mio avviso, non è stata posta: possono usufruire tutti della Dad? Il diritto allo studio (per ora a distanza) è stato tutelato e garantito per le fasce più povere e deboli della popolazione? La risposta è negativa. Guardiamo nelle periferie, dove vive la maggior parte di questa popolazione che di anno in anno cresce considerevolmente. Se durante il periodo ante-Covid la situazione socio-culturale nelle periferie, dove vivono (o giacciono) i dimenticati, era grave, adesso è una tragedia in atto. A mo’ d’esempio, nelle prossime righe racconterò di alcune esperienze raccolte in una delle tante borgate italiane: Napoli, quartiere Scampia. Attualmente vivo lì. E come educatore e insegnante faccio lezione di storia, italiano e musica per il progetto IoValgo presso la scuola CasArcobaleno. Nella sua missione il progetto IoValgo si propone, anzitutto, di combattere la profonda ferita del Sud: la dispersione scolastica; in secondo luogo, si prefigge di dare una seconda possibilità per una propria realizzazione agli adolescenti della periferia di Napoli che, essenzialmente, non hanno alcuna considerazione di sé(da qua il nome del progetto Io valgo). Nella pratica di tutti i giorni, la scuola offre ogni anno un percorso di studio ponderato per quei ragazzi e ragazze che, dopo esser stati bocciati ripetutamente, per motivazioni spesso legate anche a disagi familiari e sociali, vogliono prepararsi all’esame di terza media e, in alcuni casi, continuare un progetto di studio al liceo. Nei soli 4 kmq di estensione del quartiere ci sono quasi 100.000 abitanti. La Dad non fa che amplificare i profondi disagi familiari con cui si è costretti a vivere come in un carcere. Seguire le lezioni da casa non è facile quando non si ha alcuno strumento elettronico né connessione alla rete né tantomeno una stanza propria per poter seguire le lezioni, ma solo uno smartphone e un divano letto o un tavolo della cucina da condividere con altri fratelli o sorelle, con la mamma o il papà, magari agli arresti domiciliari, o la compagna o il compagno di questi che non accetta i figli e in alcuni casi li maltratta. E’ un fatto grave che le periferie vengano ancora una volta lasciate per ultime, ma è ancora più grave che la risposta educativa alla situazione emergenziale creata dal Covid-19 non sia partita anzitutto dalle fasce più deboli. C’è ancora spazio, a mio parere, perché qualcosa venga fatto e almeno le sorti di quest’anno scolastico vengano tratte in salvo. Il ministero dell’Istruzione potrebbe provvedere al rilancio dell’educazione dei bambini e adolescenti più poveri attraverso una forma di Dad solidale. Ogni istituto scolastico avrà l’incarico di rintracciare gli alunni e le alunne che sono impossibilitati a poter proseguire la didattica a distanza e invitarli a venire nella struttura. Successivamente bisognerà distribuire, secondo i protocolli di sicurezza, i vari studenti nelle classi dove potranno seguire da banchi singoli. Preferibilmente i ragazzi seguiranno le lezioni direttamente in presenza con gli insegnanti, mentre gli altri studenti della classe saranno collegati in remoto. Nel caso in cui non si riuscisse ad ottenere una compresenza di alunni e professori, gli studenti saranno comunque invitati a seguire le lezioni a distanza usufruendo degli spazi e strumenti della scuola. Fornire strumentazioni, spesso peraltro non adeguate (ad esempio i tablet, ma non le sim necessarie alla connessione), non è assolutamente una soluzione per queste situazioni perché è proprio la famiglia spesso l’ambiente invalidante da cui i ragazzi dovrebbero affrancarsi, almeno durante la scuola. Il progetto di Dad solidale porterà non solo a disincentivare l’assenteismo ma trasmetterà un chiaro messaggio di solidarietà a quei ragazzi e ragazze che da sempre sentono di essere emarginati e del tutto inutili alla società. E concorrerà a un aumento del capitale umano, partendo proprio dagli ultimi, che da sempre hanno fame di riscatto, di un raggiungimento concreto, di un miglioramento della loro condizione e di quella dei loro cari. *Educatore e insegnante per il progetto IoValgo Migranti. Sanatoria fallita, così i lavoratori stranieri restano invisibili di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 20 marzo 2021 Manca personale negli uffici, assunzioni a rilento. Solo il 5% delle domande sono arrivate in fondo. In Italia sono tra i 600 e i 650 mila gli irregolari, privi di diritti e di attenzione sanitaria. Più che un flop, è una sconfitta per tutti. Più che motivo di ironia d’una fazione contro l’altra, dovrebbe essere ragione di preoccupazione collettiva, specie nell’Italia di oggi, attesa da stress test importanti per la macchina della sua pubblica amministrazione dopo la pandemia. Com’era prevedibile sin dall’inizio assai faticoso, ha suscitato scherno tra gli avversari politici, e soprattutto in quella destra sovranista che più l’aveva osteggiata, il fallimento della sanatoria per i lavoratori stranieri irregolari. Il provvedimento era stato fortemente voluto tra la primavera e l’estate 2020 dall’allora titolare dell’Agricoltura, la renziana Teresa Bellanova. Alcuni hanno esultato come di fronte a una significativa vittoria della propria parte. Altri si sono spinti a dileggiare le lacrime di commozione sfuggite alla ministra, con un passato da bracciante, nel dare l’annuncio del “suo” provvedimento lo scorso maggio: “Da oggi gli invisibili saranno meno invisibili”. Non è andata come sperava la Bellanova. Nato da una logica di compromesso in una coalizione assai contraddittoria sul tema delle migrazioni, e dunque con l’avvertenza di non definirlo per ciò che era (una sanatoria), il provvedimento conteneva limiti troppo stretti ed escludeva categorie assai importanti, come gli edili. Pensato in buona parte per i lavoratori dei campi (e giustificato proprio dalla carenza di braccia causata dal Covid-19) ha finito per rivolgersi soprattutto a colf e badanti. E, anche in questo caso, non ha centrato l’obiettivo. I dati sono impietosi. Fa testo un’interrogazione parlamentare del deputato Riccardo Magi del 9 marzo, sulla base della campagna “Ero straniero”, secondo cui il numero delle domande finalizzate a sei mesi dalla chiusura dei termini era inferiore all’1% di quelle presentate. Al 31 dicembre 2020, a fronte di 207 mila domande inoltrate dal datore di lavoro per fare emergere un rapporto irregolare o istaurarne uno nuovo con un cittadino straniero, erano stati rilasciati appena 1.480 permessi di soggiorno dalle questure in tutta Italia. Al 16 febbraio, il 5% delle domande era nella fase conclusiva della procedura e il 6% in quella precedente (convocazione in prefettura di datore di lavoro e lavoratore per la firma del contratto): in 40 prefetture le convocazioni non erano nemmeno iniziate. Non che mancasse, per carità, una previsione normativa di supporto: conoscendo le voragini di organico in questure e prefetture, e valutando il nuovo carico di lavoro, l’articolo 103 del decreto-legge 34 del 2020, indicava i fondi per assumere personale e adeguare gli strumenti informatici (fino a 30 milioni per il 2021). All’interrogazione di Magi, che si concludeva con la canonica domanda “che fare?”, il ministero dell’Interno ha dato una risposta su cui sarà opportuno meditare. In sintesi: si spiega che “rallentamenti nella trattazione delle istanze” sono dovuti “ad adempimenti procedurali, che investono le competenze intrecciate di più amministrazioni (prefettura, questura, ispettorato del lavoro, Inps), articolandosi in complesse fasi sub-procedimentali...” (sic) e, alla pandemia che tutto frena; per uscire dall’incastro, si è pensato di far ricorso a “lavoro a termine” tramite un’agenzia di somministrazione, sin dal 29 maggio 2020; naturalmente sono occorse un’indagine di mercato e una procedura negoziata via Consip; si aggiungano tre mesi (!) tra gara aggiudicata e firma del contratto, la selezione di 800 addetti su ventimila candidati, la necessità di stipularne i contratti individuali e di indirizzarli infine, quali assistenti amministrativi, agli Sportelli unici per l’Immigrazione, “in misura proporzionale alle istanze di emersione pervenute”. Quindi, “si confida” che entro questo mese gli 800 assistenti comincino a dare una mano: in soldoni, si arriva ad aprile e sarà passato quasi un anno tra il decreto e l’inizio della sua attuazione. Questa storia si può leggere in due modi. Dal punto di vista di chi si occupa di migrazioni, è una sconfitta perché in Italia sono tra i 600 e i 650 mila gli invisibili, privi di diritti e soprattutto di attenzione sanitaria in tempi di pandemia; è una consolazione parziale, perché comunque 207 mila invisibili sono emersi da questa platea e la ricevuta della domanda di emersione fa titolo per l’assunzione; ed è un suggerimento (magari anche al neosegretario del Pd) per superare la deriva delle sanatorie: tenere aperta su base individuale una procedura sempre accessibile di regolarizzazione per gli stranieri già radicati, senza precedenti penali e con lavoro disponibile sul nostro territorio. Ma, da un punto di vista più generale, la vicenda ci rivela che non le (pur vistose) contraddizioni a monte hanno affossato il provvedimento, ma una malattia che corrode la cinghia di trasmissione di qualsiasi provvedimento all’interno della nostra vita pubblica. Negli uffici il personale o è mancante o è pletorico, chi va in pensione (anche a causa di quota 100) non viene sostituito (la filiera di regolarizzazioni dei migranti in una cittadina in provincia di Latina, ad esempio, è andata in tilt per il pensionamento dell’unico ispettore e da agosto tutto s’è fermato). La pubblica amministrazione è in ginocchio e il lavoro agile s’è tradotto in qualcosa di troppo vago per essere funzionale alle istanze del cittadino. Qualsiasi provvedimento del decisore politico sconta una distanza assai importante con la sua concreta attuazione: perché, a fronte di una società sempre più complessa e di palizzate corporative sempre più alte, si è inceppata la macchina che deve calarlo nella realtà, renderlo pulsante nel nostro quotidiano. Andare dritti al punto con i sindacati per un patto sul lavoro pubblico è stata una prima buona mossa del premier Draghi e del ministro Brunetta. Ma la strada dell’inferno è lastricata di protocolli sul pubblico impiego: e la campana non suona per la sanatoria della Bellanova, ma per tutti noi. Droghe. Cannabis, l’appello delle Sardine: “Approvare la legge per la coltivazione domestica” di Valeria Forgnone La Repubblica, 20 marzo 2021 Per la prima volta il movimento guidato da Mattia Santori prende posizione sull’argomento dibattuto per “consentire ai consumatori di non rivolgersi più alla criminalità”. Il senatore del Carroccio, Pillon: “Prima di parlare, fatevi un giro in una comunità di recupero”. Per Magi, primo firmatario della proposta di legge: “Il proibizionismo uccide, la legalità mai”. Perantoni: “Non sia più un crimine”. Approvare la proposta di legge che decriminalizza la coltivazione domestica di cannabis. È l’appello lanciato dalle Sardine al presidente Mario Perantoni e ai membri della commissione Giustizia a Montecitorio e che per la prima volta prendono posizione su un argomento così dibattuto. Secondo il movimento di opposizione al sovranismo, la coltivazione in casa della cannabis “consentirebbe ai consumatori di non rivolgersi alla criminalità, libererebbe le forze dell’ordine e tribunali da inutili procedimenti, potrebbe separare il mercato della cannabis dalla altre sostanze stupefacenti e permetterebbe anche a chi non riesce a ottenere la terapeutica di potersi curare”. L’appello delle Sardine - “Si tratta dell’unica occasione concreta che abbiamo in questa legislatura per fare un passo in avanti”, spiegano le Sardine che invitano a firmare “l’appello al presidente e a tutti i membri della commissione giustizia della Camera dei Deputati, su iocoltivo.eu. Ormai - si legge nel testo delle Sardine - è passato oltre un anno dalla sentenza delle Sezioni unite della Corte di Cassazione che ha stabilito che la coltivazione domestica di cannabis per solo uso personale non costituisce reato. Per tutelare pienamente i diritti dei consumatori, però, non basta una sentenza, infatti ancora oggi si rischiano processi che durano anni. Il Procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho ha dichiarato che la libertà per i consumatori di autocoltivare cannabis, toglierebbe alla criminalità organizzata una fetta importante di mercato”. Secondo le stime infatti, “i consumatori di cannabis che ogni anno decidono di coltivare sono oltre 100mila. I motivi che spingono le persone ad autocoltivare sono tantissimi, dal risparmio alla garanzia di consumare una cannabis di qualità. In questo lunghissimo anno però il Parlamento non ha saputo cogliere queste indicazioni”, ricordano dal movimento guidato da Mattia Santori. Magi: “Il proibizionismo uccide, la legalità mai” - Ringrazia le Sardine, Riccardo Magi, deputato del gruppo Misto, primo firmatario della proposta di legge C.2307. “Il proibizionismo uccide, la legalità mai”, osserva Magi riferendosi all’appello dell’associazione ‘Meglio Legale’ a cui stanno aderendo “migliaia di cittadini affinché si arrivi all’approvazione della proposta di legge, a firma mia e di tanti altri colleghi, per una completa decriminalizzazione della coltivazione domestica di cannabis per uso personale. Al governo e alla ministra Dadone chiedo solo di avere un approccio laico rispetto ai risultati oggettivamente disastrosi delle politiche proibizioniste degli ultimi decenni sul piano sociale, economico e della giustizia. E chiedo quindi che, come previsto dalla legge, sia convocata la Conferenza nazionale sui problemi connessi con la diffusione delle sostanze stupefacenti”, dice ancora Magi. La proposta di legge per la coltivazione domestica della cannabis - Dopo un breve stop in Commissione Giustizia alla Camera per quasi un anno, ora sono riprese le audizione per la proposta di legge che decriminalizza la coltivazione domestica di cannabis (C.2307), che ha come primo firmatario Riccardo Magi. Nel 2019, una sentenza delle Sezioni unite della Corte di Cassazione ha considerato “non penalmente rilevante la coltivazione in casa per uso personale della cannabis. Ma i tribunali continuano in tutta Italia a comportarsi in maniera diversa, spesso intervenendo con il sequestro della pianta e con una sanzione amministrativa - spiega Magi - Con la legge invece la coltivazione diventerebbe decriminalizzata e il cittadino non correrebbe più rischi. Un altro punto è la depenalizzazione dei fatti di lieve. In sette casi su dieci, infatti, si finisce in carcere per fatti non gravissimi - precisa ancora Riccardo Magi - E la coltivazione domestica della cannabis rappresenterebbe il primo passo per una vera legalizzazione”. La reazione di Perantoni: “Non sia più un crimine” - All’appello è arrivata già una prima reazione, quella di Mario Perantoni, presidente della Commissione Giustizia della Camera di Deputati, a cui le sardine hanno indirizzato l’appello per approvare la proposta di legge C.2307 (Magi e altri) che decriminalizza la coltivazione domestica di cannabis, depositata presso l’organismo da lui guidato. Quello di cui si fanno portavoce le sardine, sul tema della cannabis, è “l’ennesimo, condivisibile appello proveniente dalla società civile che chiede al parlamento un passo verso una legislazione più avanzata e moderna su questo e su altri temi, come il suicidio assistito. Mi auguro - spiega Perantoni - di poter ridare impulso ai lavori in commissione quanto prima su entrambe le questioni e quindi anche sulle proposte di depenalizzazione della coltivazione domestica per uso personale della cannabis. A quel punto e nel merito ciascun gruppo politico dovrà assumersi le proprie responsabilità e scegliere se andare incontro alle istanze della società oppure ignorarle”. La Lega attacca - La Lega, con il senatore Simone Pillon va subito all’attacco. “Personalmente credo che le Sardine e i loro amici dovrebbero farsi un giro in una comunità di recupero prima di parlare, facciano tutti i proclami che vogliono, ma la droga è morte. Qualcuno vorrebbe chiudere i nostri ragazzi nei cessi a fumare canne per non disturbare il manovratore - accusa il vicepresidente della Commissione Infanzia e adolescenza del Senato - Io preferisco che possano studiare, partecipare alla vita del nostro Paese, e divertirsi in modo sano senza assumere porcherie”. Gli risponde ancora Magi: “Al senatore Pillon chiedo di liberarsi dalla sua gabbia ideologica che non lo abbandona neanche quando visita le comunità di cui parla”. E intervengono anche le Sardine: “In moltissimi Stati, anche europei, la regolamentazione della cannabis è al centro delle agende politiche e di governo. E mentre gli Stati legalizzano la cannabis, Pillon non perde occasione per palesare la sua visione retrograda di società. Ma gli ricordiamo che di cannabis, ad oggi, non è mai morto nessuno in millenni di utilizzo. Siamo pronti a sfidarlo, su questo. E siamo anche pronti ad accompagnarlo nelle comunità di recupero: scoprirebbe che le persone in trattamento per dipendenza da cannabis sono una minoranza e che il vero allarme è quello delle droghe pesanti e sintetiche”, aggiungono. L’argomento cannabis, dalla coltivazione in casa alla legalizzazione, da sempre scatena dibattito e polemiche. Con il centrodestra irremovibile sulla posizione del ‘no’ e con i Radicali schierati a favore e per primi portavoce di questa battaglia che ora sta raccogliendo sempre più consensi. Tra questi c’è anche quello della ministra del M5S per le politiche giovanili nel governo Draghi, Fabiana Dadone, che in passato aveva espresso delle posizioni precise sul tema e, per questo, finita nel mirino della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. Dadone, inoltre, potrebbe ricevere la delega governativa alle politiche antidroga. Decisione che ha scatenato ancora di più l’ira di Meloni. Droghe. La Norvegia depenalizza cannabis, cocaina ed eroina, ma in piccole dosi Italia Oggi, 20 marzo 2021 Il governo di centro-destra della Norvegia ha deciso di depenalizzare il possesso e il consumo di piccole dosi di una decina di droghe, fra leggere e pesanti, tra le quali la cannabis, la cocaina e l’eroina. Architetto di questa contestata riforma sugli stupefacenti è Guri Melby, ministro liberale della conoscenza e dell’integrazione, capo del partito liberale Venstre. Il limite fissato per la modica quantità è di 2 grammi per l’eroina, la cocaina e le anfetamine; una dose per Lsd; 0,5 grammi per l’ecstasy e 20 grammi per la cannabis. I norvegesi potranno essere arrestati se trovati in possesso di tre sostanze differenti, ma senza rischiare sanzioni. L’obiettivo del progetto di legge è quello di passare dalla punizione all’aiuto nei confronti dei tossicodipendenti. È un cambio di paradigma: privilegiare il dialogo alla sanzione. Ammende e condanne saranno rimpiazzate da una convocazione obbligatoria davanti ad un consigliere specialista delle dipendenze senza che questo porti all’iscrizione nel casellario giudiziario. Chi non si presenta, però, dovrà pagare un’ammenda di 2.400 corone (236 euro). Il ministro è convinto che così per i giovani sarà più facile cercare aiuto. Del resto, ritiene che le sanzioni non abbiano dato prova di efficacia e essere arrestati non offre una soluzione, ha detto citando l’esempio del Portogallo, primo paese ad aver depenalizzato l’uso degli stupefacenti nel 2001 con il risultato che in vent’anni Fuso e le overdose sono diminuite. Intanto, il ministro conservatore della salute, Bent Noie, ha precisato che il suo governo intende depenalizzare, senza legalizzare, l’acquisto e il consumo di piccole quantità di droga. La polizia dunque, continuerà a ricercare i sospetti, confiscare e sequestrare e dovrà contattare i parenti dei minori trovati in possesso di dosi. Il partito centrista ha proposto un progetto differente che depenalizza l’uso soltanto per le persone che soffrono di dipendenza. Oltre 11 milioni di detenuti nel mondo, “dimenticati” in pandemia redattoresociale.it, 20 marzo 2021 Amnesty International lancia il rapporto “Dimenticati dietro le sbarre” sulle condizioni di detenzione nell’emergenza sanitaria e chiede che siano inseriti nei piani vaccinali nazionali. “Provvedimenti per contrastarla producono violazioni dei diritti umani”. Sono oltre 11 milioni i detenuti nel mondo: Amnesty International, nel rapporto “Dimenticati dietro le sbarre”, lancia l’allarme sulle condizioni di detenzione in pandemia e chiede che i reclusi siano inseriti nei piani vaccinali nazionali. “Mentre la pandemia da Covid-19 continua a diffondersi nelle prigioni di tutto il mondo, - sottolinea Netsanet Belay, direttore delle ricerche di Amnesty International - i provvedimenti adottati dai governi per contrastarla producono violazioni dei diritti umani: ad esempio, per mantenere la distanza fisica si ricorre eccessivamente all’isolamento, senza adottare misure per mitigarne le conseguenze”, L’impatto effettivo dei contagi da Covid-19 e delle relative morti in carcere è difficile da misurare, sottolinea l’organizzazione, poiché i governi non rendono pubbliche informazioni attendibili e aggiornate. Ma quelle disponibili “mostrano preoccupanti modelli di diffusione del contagio e, mentre i piani vaccinali prendono forma, molti governi non dicono se intenderanno vaccinare i detenuti ad alto rischio di contrarre il virus”. Negli Stati Uniti, a metà febbraio 2021, sono state oltre 612 mila le infezioni denunciate nelle prigioni, negli istituti penitenziari o nei centri detentivi e almeno 2.700 decessi fra detenuti e guardie carcerarie, sottolineano gli osservatori. In India erano segnalati contagi in un quarto (351 su 1350) delle prigioni presenti nei 25 stati e territori del paese alla data del 31 agosto 2020; in Pakistan, almeno 2313 carcerati sono stati trovati positivi al Covid-19 ad agosto 202. Sovraffollamento pericoloso - È uno dei principali problemi odierni che affliggono le strutture detentive: 102 stati hanno riferito di tassi di occupazione delle carceri di oltre il 110 per cento, con una percentuale notevole di detenuti in attesa di giudizio o condannati per reati di natura non violenta. Sebbene siano state prese misure per individuare prigionieri da rilasciare, Amnesty International ha verificato che gli “attuali tassi di scarcerazione non bastano per contrastare gli elevati rischi posti dal virus”. “Molti stati con livelli pericolosamente alti di sovraffollamento carcerario come Bulgaria, Egitto, Nepal e Repubblica Democratica del Congo non hanno preso misure adeguate per fronteggiare la diffusione della pandemia. In altri stati, come Iran e Turchia, centinaia di prigionieri che mai avrebbero dovuto entrare in carcere, compresi i difensori dei diritti umani, sono stati esclusi dalle misure di decongestionamento”, ha commentato Belay. La crisi sanitaria - La pandemia da Covid-19 ha fatto emergere anni di riduzione degli investimenti e di vero e proprio diniego dei servizi sanitari nelle carceri. Le direzioni delle prigioni non sono state in grado o non hanno voluto fare fronte al crescente bisogno di misure sanitarie di prevenzione e di servizi di medicina per i detenuti. All’inizio della pandemia, Amnesty International ha verificato che in molti stati i prigionieri non hanno potuto essere sottoposti al test di positività a causa dell’enorme carenza di tamponi mentre in stati come Iran e Turchia ai detenuti sono state arbitrariamente negate le cure mediche. Stati quali Cambogia, Francia, Pakistan, Sri Lanka, Stati Uniti d’America e Togo non hanno posto in essere misure preventive e protettive per contrastare la diffusione della pandemia da Covid-19 nelle strutture detentive. “Non importa chi sei o dove sei: ogni persona deve avere a disposizione mascherine, prodotti igienico-sanitari e acqua pulita a disposizione. Soprattutto nelle prigioni, i dispositivi di protezione personale devono essere forniti gratuitamente e i governi devono accelerare l’accesso ai testi e i trattamenti necessari per prevenire e gestire potenziali diffusioni del virus”, ha sottolineato Belay. Misure di controllo che hanno causato violazioni dei diritti umani - Per contrastare la diffusione della pandemia, in molti stati le direzioni delle carceri hanno adottato provvedimenti pericolosi, come il ricorso eccessivo e arbitrario all’isolamento e alla quarantena, che hanno causato gravi violazioni dei diritti umani, in alcuni casi equivalenti a trattamenti crudeli, inumani e degradanti. In alcuni stati come l’Argentina e il Regno Unito i detenuti sono stati posti in isolamento per 23 ore al giorno, spesso per settimane o per mesi. “Occorrono misure di protezione umane per proteggere i prigionieri”, ha ribadito Belay. Misure di lockdown prese nelle prigioni hanno avuto un impatto sulle visite familiari, mettendo a rischio la salute psicofisica dei detenuti. In alcuni casi questi provvedimenti hanno scatenato proteste e rivolte, spesso sedate ricorrendo all’uso eccessivo della forza. “Se in alcuni casi le visite familiari sono state mantenute adattando le condizioni alla realtà della pandemia, in altri queste sono state vietate del tutto privando i detenuti di una relazione col mondo esterno e compromettendo la loro salute fisica e psicologica”, ha aggiunto Belay. Priorità alla vaccinazione delle persone in carcere - Almeno 71 stati hanno adottato piani vaccinali per almeno un gruppo vulnerabile dal punto di vista della salute, ricorda il rapporto. Alcuni di essi hanno incluso i detenuti e il personale delle carceri tra le categorie prioritarie per la somministrazione dei vaccini ma molti altri stati - tra cui quelli ad alto reddito - tacciono o non hanno chiarito i dettagli dei piani. “Le prigioni sono tra i luoghi più a rischio per la diffusione della pandemia da Covid-19 e non è possibile negare per altro tempo il diritto alla salute ai detenuti. La mancanza di chiarezza sui piani vaccinali e sul trattamento delle persone in carcere sta diventando un problema globale e urgente. - spiega Belay - Se non verrà data priorità alla loro salute, le conseguenze saranno catastrofiche per i detenuti, per le loro famiglie e per i sistemi sanitari pubblici”, Amnesty International chiede agli stati di “non discriminare le persone in carcere nei piani e nelle politiche di vaccinazione, di fare il massimo sforzo perché sia data priorità ai detenuti nel contesto dei piani vaccinali, considerando che la loro condizione non rende possibile il distanziamento fisico, e di assicurare che i detenuti che rischiano particolarmente il contagio (come quelli anziani e coloro che hanno problemi cronici di salute) abbiano la priorità tanto quanto gruppi analoghi di persone presenti tra la popolazione generale”. Colombia. Dopo l’intervista al manifesto, la risposta dell’Onu ai genitori di Paciolla di Simone Scaffidi e Gianpaolo Contestabile Il Manifesto, 20 marzo 2021 Morto otto mesi fa mentre lavorava per le Nazioni unite. Il portavoce di Guterres: “Ci dispiace per Mario, ma abbiamo collaborato alle indagini”. E Palazzotto (Si) scrive al segretario generale: “Dite quello che sapete per rispetto del lavoro straordinario fatto in Colombia”. “Prima di tutto, i nostri cuori, ancora una volta, sono con la famiglia Paciolla per la terribile perdita che hanno subito. Abbiamo lavorato il più duramente possibile per collaborare alle indagini in corso. Siamo molto dispiaciuti se si sentono in questo modo, e non spetta a me metterlo in discussione. Ma posso dire che abbiamo collaborato il più possibile con le indagini penali pertinenti”. Lo ha dichiarato durante il Daily Briefing del 16 marzo il portavoce del segretario generale delle Nazioni unite, Stéphane Dujarric, sollecitato ancora una volta dal giornale La Voce di New York che ha riportato le parole dei genitori di Mario Paciolla contenute nell’intervista rilasciata a il manifesto. Anna Motta e Giuseppe Paciolla si lamentavano di non essersi sentiti accompagnati dall’Onu in questo grave lutto e che fin qui hanno potuto percepire mancanza di umanità da parte di una delle organizzazioni più autorevoli riguardo la tutela dei diritti umani nel mondo. Le autorità e le istituzioni italiane non si sono ancora pronunciate pubblicamente sul caso, se non nei giorni immediatamente successivi alla morte di Mario Paciolla, assicurando impegno e azione per la ricerca di verità e giustizia. Nei giorni scorsi Erasmo Palazzotto, deputato di Sinistra italiana e presidente della Commissione d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, dopo aver letto e rilanciato le parole dei genitori di Mario Paciolla si è espresso nuovamente e pubblicamente sul caso: “È molto grave che, a otto mesi dalla sua tragica morte, l’Onu abbia scelto di non collaborare proattivamente con i legali della famiglia di Mario Paciolla, non condividendo tutte le informazioni preziose di cui l’agenzia dispone”. Il deputato si è poi rivolto direttamente al segretario generale delle Nazioni unite, António Guterres: “Sulla morte di Mario Paciolla l’Onu deve dire tutto quello che sa, e lo deve fare per rispetto del lavoro straordinario dall’organizzazione in Colombia e per dimostrare la totale estraneità dell’agenzia a chi invece sta colpevolmente depistando le indagini”. Palazzotto inoltre invita la Farnesina ad esercitare “le pressioni diplomatiche necessarie affinché si accelerino le indagini, per fare luce su quanto accaduto e per trovare la verità sulla morte di Mario”. Al di là delle dichiarazioni e delle intenzioni espresse dal rappresentante delle Nazioni unite, rimane il silenzio sullo stato attuale delle indagini interne avviate dall’Onu, una procedura che era stata menzionata da Mariangela Zappia, rappresentante permanente d’Italia presso la sede delle Nazioni unite a New York e ambasciatrice italiana negli Stati uniti. Fare chiarezza sul lavoro svolto da Mario Paciolla nei giorni antecedenti alla sua morte e sulle dinamiche che hanno preceduto il suo tentativo di ritornare in Italia può essere un tassello fondamentale per ricostruire la vicenda e comprendere perché il lavoratore dell’Onu abbia deciso di abbandonare la Missione. La ricerca della verità e giustizia, dopo otto mesi dalla morte violenta di Mario Paciolla, non gode ancora di una spiegazione pubblica al riguardo. Egitto. La condanna di Sanaa Seif, denunciò i depistaggi sui detenuti morti di Covid di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 20 marzo 2021 A dieci anni dalla rivolta che defenestrò il rais Moubarak, portò al potere i Fratelli Musulmani, a loro volta privati del governo dal golpe del generale al. Sisi, l’Egitto è piombato in una spirale repressiva sempre più stretta. L” omicidio Regeni o l’incarcerazione senza fine di Patrick Zaki sono quelle che riguardano più da vicino l’Italia ma non passa giorno senza che attivisti per i diritti umani, avvocati, blogger giornalisti o semplici cittadini non incappino nella stretta sorveglianza del regime. Che nega costantemente qualsiasi critica affermando che le detenzioni sono in linea con la legge e che i tribunali operano in modo indipendente. Questa volta però nelle mani del sistema giudiziario egiziano è finita una figura molto rappresentativa. La nota attivista per i diritti umani, la 27enne Sanaa Seif, è stata condannata da un tribunale del Cairo a 18 mesi di reclusione. Il reato contestato dai pubblici ministeri è quello di “trasmettere notizie e voci false” sulla diffusione del coronavirus nelle carceri. La donna ha negato qualsiasi accusa mentre il suo avvocato, Hesham Ramada, hspiega che condanna è stata aggravata per un supposto insulto ad un agente di polizia. La vicenda giudiziaria al momento si è chiusa in attesa che venga presentato ricorso contro la sentenza presso un tribunale di grado superiore. Saana è stata arrestata nel giugno scorso in circostanze che lasciano intendere come il processo sia viziato da un intento politico a partire dal fatto che non le è stato consentito di presenziare in aula. È finita in manette mentre si trovava, con altri membri della famiglia, davanti l’ufficio di un Procuratore per presentare una denuncia a seguito di un attacco contro di loro avvenuto, il giorno precedente, fuori dal complesso carcerario di Tora del Cairo Nel tumulto un agente avrebbe spinto la madre di Saana provocando la sua reazione. Il motivo per cui il gruppo si trovava presso il penitenziario è significativo: aspettavano di ricevere una lettera dal fratello di Saana, Alaa Abdel- Fattah, anche lui attivista finito in carcere. Abdel è un blogger molto seguito in Egitto, nel settembre 2019 è finito in cella per una manifestazione antigovernativa, arresto arrivato in seguito al rilascio nel marzo dello stesso anno dopo cinque anni di carcere per aver contestato i processi dei civili eseguiti da tribunali militari. Per Amna Guellali, vicedirettore di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africana, la condanna di Saana rappresenta “un altro duro colpo per il diritto alla libertà di espressione in Egitto. Le autorità hanno dimostrato la loro inesorabile intenzione di punire qualsiasi critica al loro triste passato in materia di diritti umani”. Amnesty ha anche ha denunciato come il processo sia stato basato su false accuse. L’ong Human Rights Watch ha documentato vari focolai sospetti nelle carceri e e nelle stazioni di polizia tra lo scorso marzo e luglio, periodo durante il quale si ritiene che almeno 14 prigionieri siano morti per complicazioni dovute al Covid- 19. La vicenda di Saana Saif è intrecciata a quella familiare, non solo per la persecuzione ai danni del fratello, ma soprattutto per la storia del padre, l’avvocato Ahmed Seif El- Islam, morto nel 2014 in seguito a un intervento chirurgico al cuore. Il legale rimane tuttora una delle figure più conosciute tra i difensori dei diritti umani. Anche lui ha conosciuto le carceri e le torture. Fu arrestato quattro volte, sia durante l’era Sadat che sotto Mubarak. Tra gli anni 70 e 80 come leader del movimento studentesco e per la sua militanza nelle organizzazioni della sinistra egiziana è stato sequestrato, picchiato e seviziato con l’elettricità, fino a quando non gli è stata procurata la rottura di un braccio e di una gamba. Nel 1989 mentre era ancora in carcere si laureò in Giurisprudenza (seconda laurea dopo quella di Scienze politiche), divenuto avvocato difensore partecipò ad alcuni dei maggiori processi contro esponenti politici dell’opposizione come i Socialisti rivoluzionari e il Partito di Liberazione islamica nel 2003 e 2004. Un’attività intensa e appassionata per far rispettare i diritti umani, segnata proprio dalla sua esperienza personale di perseguitato e culminata nel 2011 con l’ennesimo arresto avvenuto quando le forze di sicurezza presero d’assalto il Centro legale Hisham Mubarak in quella che è ricordata come la “Battaglia del cammello”. In occasione della sua morte, all’età di 63 anni, proprio i suoi figli, Abdel Fattah e Sanaa Seif, non poterono visitarlo in ospedale perché erano stati già incarcerati. Afghanistan. Ondata di attacchi contro i difensori dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 marzo 2021 Circa tre mesi fa, un decreto della presidenza dell’Afghanistan ha istituito la Commissione congiunta per la protezione dei difensori dei diritti umani, col mandato di “rafforzare la cultura dei diritti umani e venire incontro alle preoccupazioni nazionali e internazionali sulla situazione dei diritti umani nel nostro paese”. Quell’iniziativa si è rivelata vuota, priva di una strategia di attuazione, di condivisione delle informazioni, di attivazione di meccanismi di denuncia e di misure concrete di protezione (scorte, trasferimenti in altre città ecc.) In Afghanistan, le donne e gli uomini che difendono i diritti umani continuano a morire. Come prima, più di prima. Dal 12 settembre 2020, quando sono iniziati i negoziati di pace, al 31 gennaio 2021 sono morti almeno 21 difensori dei diritti umani: come Mohammad Yousuf Rasheed, direttore del Forum per elezioni libere e regolari in Afghanistan, assassinato il 23 dicembre nel centro di Kabul insieme al suo autista; o come l’attivista per i diritti delle donne Freshta Kohistani, uccisa insieme a suo fratello a Kapisa. L’anno scorso sono stati assassinati almeno 20 giornalisti, tra cui molte donne: come la nota giornalista televisiva Malalai Maiwand (nella foto), uccisa col suo autista a Jalalabad praticamente in concomitanza con l’istituzione della Commissione congiunta. Il 2021 rischia di terminare persino peggio. Secondo l’Unama, la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan, dal 1° gennaio 2018 al 31 dicembre 2021 sono stati uccisi 32 difensori dei diritti umani. Dal Myanmar alla Tailandia, da Hong Kong al Nepal, c’è Asia di rivolta di Carlo Pizzati La Repubblica, 20 marzo 2021 Nel continente i cittadini chiedono più democrazia e più giustizia. Ma sarà dura vincere contro gli “autoritarismi sofisticati”. Negli ultimi due anni una lunga ondata di proteste in difesa della democrazia sta attraversando il continente asiatico. Sono contadini, studenti, operai, femministe e impiegati che scendono in piazza, occupano luoghi simbolici nelle metropoli e si organizzano in file ordinate di fronte ai cordoni di polizia. Ciò che li unisce non sono soltanto le tattiche fluide e digitali, ma una richiesta di giustizia e libertà che cresce speculare al fenomeno dell’autoritarismo sofisticato, come lo ha battezzato il politologo Lee Morgenbesser con il suo saggio The Rise of Sophisticated Authoritarianism in Southeast Asia (2020, Cambridge University Press). In India, democrazia solo “parzialmente libera” secondo l’indice 2021 di Freedom House, le proteste coinvolgono la minoranza musulmana, la casta dei Dalit, le femministe e gli universitari e ora si esprimono con lo sciopero dei contadini che dal settembre scorso si oppongono a tre leggi di riforma dell’agricoltura di stampo neoliberista. Lo scorso ottobre, in Indonesia, operai e liceali lanciavano pietre verso il palazzo presidenziale per protestare contro una riforma del lavoro che riduce la buonuscita e impone un salario a ore invece che mensile. Il mese scorso, in Nepal, centinaia di femministe sono scese in piazza contro una legge che impone alle donne sotto i 40 anni di chiedere il permesso a familiari e funzionari pubblici prima di poter viaggiare all’estero. Ovunque la rabbia nasce dal basso, radicata in ceti consapevoli dell’erosione dei propri diritti. Gli esempi più clamorosi si sono visti a Hong Kong, in Thailandia e ora in Myanmar, dove i militanti si sono uniti in una Alleanza del Tè al Latte, in contrapposizione al tè liscio cinese, con il sostegno anche di Taiwan. Che sia il bubble tea di Taipei, il tè al latte di Hong Kong, il dolce tè thailandese o il lahpet birmano, ovunque nel Sudest asiatico la bevanda tradizionale è diventata una bandiera contro Pechino, simbolo di repressione delle minoranze e di limitazione delle libertà. “I militanti si osservano gli uni con gli altri e cercano di trovare nuove idee gli uni dagli altri, ma anche i governi autoritari si stanno osservando e prendendo in prestito stratagemmi”, osserva Jeffrey Wasserstrom, storico e autore di Vigil: Hong Kong on the Brink (2020, Columbia Global Reports). Uno dei simboli che accomuna l’Alleanza del Tè al Latte è il saluto a tre dita (indice, medio e anulare uniti e dritti, punta del pollice e del mignolo che si toccano), copiato dal film Hunger Games: spunta per la prima volta a Bangkok nel 2014, poi a Hong Kong e ora a Yangon: “Le tre dita rappresentano i tre valori della Rivoluzione francese: libertà, eguaglianza e fratellanza” ha spiegato il militante thailandese Rittipong Mahapetch. “È un gesto universale” gli fa eco Sombat Boonnagamong, “che non appartiene a una sola nazione ma a tutti coloro che chiedono più libertà”. Quanto alle tecniche di resistenza, quelle già inaugurate a Hong Kong, ispirate allo slogan “Sii acqua” della leggenda del kung-fu Bruce Lee, sono state replicate sia a Bangkok che a Yangon. Non avere mai un leader identificabile. Non rivelare dove si terranno le proteste fino al tardo pomeriggio. Radunare i militanti in diverse stazioni della metro e all’ultimo minuto annunciare nei social due punti di ritrovo, non uno, così da costringere la polizia a dividere le forze. Niente cortei piccoli e facilmente intercettabili ma flash mob improvvisi, dove allinearsi ben ordinati di fronte al cordone di polizia. “Sii acqua”, appunto, ma resisti all’acqua degli idranti, ai gas e agli spray urticanti aprendo gli ombrelli e indossando gli impermeabili, oppure, come in Tailandia, usando gigantesche papere gialle gonfiabili come scudi. Se ti arrestano, non opporre resistenza violenta, solo passiva. “Non abbiamo alcuna paura di mettere in discussione le autorità e di fare domande difficili” ha detto la sedicenne Akkarasor Opilan, una dei leader del movimento che in Tailandia chiede la depenalizzazione della legge contro la lesa maestà (fino a 15 anni di prigione), la diminuzione dei poteri della monarchia e la trasparenza in merito alle spese sostenute per il re: “Le mie tasse! Le mie tasse!” gridavano i manifestanti mentre re Maha Vajiralongkorn sfilava in auto con la consorte. Critica impensabile, fino a pochi anni fa. Ma anche questa è la nuova Asia in cui, come a Myanmar, si affrontano le fucilate dei militari per chiedere venga liberata la leader Aung San Suu Kyi. Vinceranno? Non sarà facile. Anzi. I regimi autoritari sofisticati non sono in crisi ma in crescita. Hong Kong è già scivolata, e prima del previsto, nell’abbraccio soffocante di Pechino; la monarchia thailandese si avvinghia alla giunta militare golpista; l’esercito Tatmadaw birmano affronta le nuove sanzioni a muso duro, mentre a Delhi non si ferma la tracotanza del fondamentalismo indù. Nel suo saggio, Morgenbesser spiega come alcuni regimi si siano evoluti dallo stato di autocrazie retrograde, come ad esempio il Brunei. Un Paese come l’India, invece, sta scivolando verso l’autoritarismo sofisticato partendo da uno stato di democrazia in crisi. Più o meno tutti si passano informazioni su come reprimere la richiesta di diritti civili mantenendo una facciata democratica. Spesso si legittimano tenendo elezioni, ma manovrandone il risultato. In Thailandia, Hong Kong e Myanmar ai leader dell’opposizione è stata negata la candidatura con arresti pretestuosi o con cause legali spinte da motivazioni politiche. In India, giovani militanti ecologiste come Disha Ravi vengono arrestate per “sedizione” solo perché ree di aver suggerito hashtag pro contadini. Ogni critica ai governi è vissuta da questi ultimi come un attentato alla sacralità dello Stato. Si persegue chi non è d’accordo con l’accusa di “diffamazione” o di “assembramento non autorizzato”. Oppure, si creano finti partiti di opposizione e si imbriglia Internet con leggi censorie (come in India, Myanmar, Cina) facendo pressioni perché Big Tech diffonda solo notizie positive sui governi. In questo modo “i regimi dell’autoritarismo sofisticato” sostiene Morgenbesser “incrociano la logica interna dell’autocrazia con l’apparenza esterna della democrazia”. In Tailandia, l’ex generale Prayut Chan-o-cha si toglie la divisa e riemerge come leader in abiti civili. In Birmania, il generale Min Aung Hlaing ordina nuove elezioni perché frustrato dai risultati di quelle di novembre. Gli autoritarismi sofisticati sono assai più longevi e molto più difficili da combattere proprio perché si nascondono sotto un mantello di apparente democraticità. Per questo le piazze dell’Asia ribollono di rabbia da due anni in quella che è anche una battaglia generazionale. Gli zoomer della Generazione Z, nati tra fine anni 90 e fine anni 10, sono meno strutturati dal punto di vista ideologico e ciò consente loro di fare causa comune. La loro, da Yangon a Taipei, da Bangkok a Katmandu, è una generazione nata con il telefonino in mano, che nuota nei social network e che sa cos’è un messaggio criptato. Più che destra e sinistra, a loro importa cos’è giusto e cos’è sbagliato. Una grande forza. Per tutti. Ma non basterà “essere acqua” e alzare tre dita di fronte ai fucili e alla censura dell’autoritarismo sofisticato. Inseguendo il modello cinese, al momento è proprio lui quello che sta vincendo la battaglia per il futuro dell’Asia.