Il 41bis non è la nostra vendetta di Gaetano Sassanelli* Gazzetta del Mezzogiorno, 1 marzo 2021 Durante il primo lockdown, mi era capitato di subire lo sfottò, simpaticamente piccato di un cliente che diceva “Ha visto avvoca’ cosa si prova a stare ai domiciliari?”. Io sorridevo, ma non ero ancor ben conscio che un anno dopo, la vita “per sottrazione” avrebbe avuto un sapore amaro, frustrato e non sempre apprezzato. Ogni piccola concessione al tempo ritrovato è un pezzo di vita che si ricompone: ogni passeggiata, ogni chiacchierata con gli amici, una piccola tessera di cui sono diventato geloso e sempre più avido. E allora sono rimasto colpito dalla notizia che, a un detenuto in regime di 41bis, l’illuminato Tribunale di Sorveglianza di Sassari, nonostante ispezioni, attacchi estrali ministeriali, abbia concesso la possibilità di ascoltare la musica in cella. La notizia era duplice perché alcune delle testate online che la riportavano, lanciavano, al contempo, un sondaggio nel popolo della rete per chiedere se tale concessione fosse giusta o meno. Rispondendo il quesito alla pancia del paese, inutile dire come tutti i sondaggi terminassero. Non oso quindi immaginare i sondaggi odierni dopo la concessione, allo stesso detenuto, delle videochiamate con i propri familiari; decisione assolutamente indigesta ai più, che vorrebbero che lo status detentivo fosse uno status tout court privativo; privativo di qualsiasi cosa, anche della dignità umana. E allora, chi sono i veri barbari? Io mi affanno da sempre a spiegare che il 41bis è un regime border line, talmente duro da essere stato più e più volte sottoposto al vaglio della Corte Costituzionale e ella Cedu che hanno sempre ricordato che la pena deve essere rieducativa e giammai vendicativa. Introdotto nel nostro ordinamento dopo le efferate stragi mafiose del 1992, quale strumento di lotta alla criminalità organizzata, ha poi subito un’ipertrofia legislativa che l’ha portato a divenire elemento stabile nel nostro ordinamento, trasformandosi in sinonimo di carcere duro; quasi che ci possa essere un carcere leggero, uno accogliente e uno che, oltre ad essere compatibile con le direttive costituzionali, lo sia anche con le direttive “populistiche” delle emozioni degli italiani. Il carcere è un tema divisivo, ma non per questo si deve smettere di parlarne con onestà intellettuale ed anche politica, perché non è un problema solo di chi è dietro le sbarre; è un problema della collettività intera che anche nei momenti di crisi deve scegliere se essere liberale o scegliere il metodo “Barabba” della pubblica gogna, della compartecipazione della punizione, della vendetta in luogo della dignità. La pandemia ha offerto, impietosa, lo sguardo reale sulla realtà carceraria, sovraffollata, inadatta e disumana; eppure quando l’Unione delle Camere Penali lo ha denunciato, le è stato risposto che c’erano altre urgenze rispetto alla vita dei detenuti, quasi che le carceri fossero delle discariche umane. Ma cosa ci può essere di più urgente dell’Uomo? Dello stabilire la soglia di dignità al di sotto della quale non può più definirsi tale? È così difficile comprendere che concedere una videochiamata o un cd musicale (peraltro in un regime ultra-privativo) significa concedere una possibilità a noi stessi? Significa cioè concedere la possibilità di abbandonare i criteri meramente vendicativi del trattamento sanzionatorio e restituire una corretta prospettiva di rieducazione e di rifondazione di una società eticamente giusta e collaborativa e, visto che ci siamo, costituzionale. Smettiamola di considerare il carcere come il crogiuolo delle nostre frustrazioni sociali, delle inadeguatezze del sistema giudiziario, il buco nero dove scaricare i fallimenti sociali; iniziamo a considerarlo parte del sistema giustizia, come percorso di approdo di un processo equo che decide di ricorrere alla carcerazione umana, stabilendo che non è “buttando la chiave” e dimenticandoci del mostro, che il mostro per magia scomparirà. Non è come la polvere sotto il tappeto: dietro i detenuti ci sono anche storie, famiglie, uomini e donne che hanno sofferto; davvero pensiamo che la soluzione giusta sia un chiavistello sempre più grosso e rumoroso? Una cella 2x2? Un’ora d’aria ridotta’? Perché, invece, non implementiamo gli strumenti di giustizia riparativa, di detenzione alternativa (con potenziamento anche dei servizi accessori come i servizi sociali), consigliati dai numeri dei casi di recidiva di chi ne usufruisce? Perché non restituiamo l’amministrazione carceraria agli operatori del diritto piuttosto che ai sostenitori del metodo “Barabba”. È avvilente leggere le polemiche che si scatenano puntuali all’indomani di ogni concessione di un beneficio ad un detenuto, alle quali anche la politica, al posto di sostenerne il percorso, fa invece seguire urla ed ispezioni ministeriali, quasi a volere destituire un sistema che, saggiamente, ha tutti gli strumenti al suo interno per una prudente valutazione di questa o di quella concessione! Leggo la questione della musica e delle videochiamate e penso ad Anders Breivik, stragista che ha fatto causa allo Stato Norvegese, vedendo riconosciuto dalla Corte distrettuale di Oslo il diritto al risarcimento per trattamenti disumani cui lo stesso sarebbe stato sottoposto durante la sua carcerazione. Mi si dirà che la Norvegia è un altro Paese, evoluto, socialmente avanzato; e invece penso che noi siamo il paese, ieri, di Beccaria, Moro e Contento e, oggi, di Manes e Fiandaca; un paese che ha al suo interno gli anticorpi culturali per non cedere al richiamo del carnefice. Facciamo sì che quel chiavistello faccia “clack” anche per noi e che in quei cubi di cemento sporchi e sovraffollati ci siano esseri umani con la loro dignità, dove non possano trovare spazio le urla di vendetta che li lascino piano piano scivolare nel baratro più oscuro senza rendercene conto. *Avvocato penalista Alla Camera è stata incardinata una proposta Pd su carceri e case-famiglia Public Policy, 1 marzo 2021 Eliminare i profili problematici emersi in sede di applicazione della legge 62 del 2011, al fine di “impedire che i bambini varchino la soglia del carcere, valorizzando l’esperienza delle case famiglia”. È questo l’obiettivo di una proposta di legge a firma Paolo Siani (Pd), incardinata la settimana scorsa in commissione Giustizia a Montecitorio. Il relatore è Walter Verini (Pd). La proposta di legge Siani modifica il codice penale, il codice di procedura penale e la legge 62 del 2011, in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori. Tra le modifiche codicistiche si interviene sull’istituto del rinvio dell’esecuzione della pena, prevedendo un più ampio ricorso a tale beneficio, attraverso l’innalzamento dei limiti di età dei figli della donna condannata (rispettivamente da 1 a 3 e da 3 a 6), che legittimano il rinvio obbligatorio ed il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena. Carlo Nordio: “Non ci sono le condizioni per riformare la giustizia” di Fausto Carioti Libero, 1 marzo 2021 Da Carlo Nordio, ex pm e giurista di cultura anglosassone (una mosca bianca, in Italia), solo un avvertimento, quasi una preghiera a Marta Cartabia e Mario Draghi: niente “compromessi pasticciati” sulla giustizia. La maggioranza è quella che è, la componente “giacobina” al suo interno è molto forte ed è meglio fare poche cose, e farle nel modo corretto, piuttosto che puntare a grandi riforme delle quali, poi, ci si debba pentire. Bene, quindi, ridurre i tempi della giustizia civile. Ottima l’idea del premier di intervenire sulle norme che incutono nei pubblici amministratori la “paura della firma” sui contratti d’appalto. Doveroso riformare la “mostruosa” prescrizione di Alfonso Bonafede. Per tutto il resto, però, si possono anche attendere altri tempi e un altro parlamento. Dottor Nordio, il ministro su cui c’è più attenzione è Marta Cartabia. Del resto, il precedente governo è caduto proprio sulla giustizia. E la maggioranza è variopinta come sappiamo. Lei cosa si attende dal guardasigilli? Una grande riforma degna di questo nome o qualche semplice pezza messa qua e là, perché un intervento più impegnativo rischia di far saltare la coalizione? “Come ex magistrato dovrei ritenere la giustizia l’argomento più importante. Ma da cittadino credo che, in questo momento, la precedenza debba esser data alla sanità, con l’acquisizione e la distribuzione dei vaccini, e all’economia, su cui Mario Draghi non ha certo bisogno di consigli. Se poi c’è spazio per riformare come si deve la nostra sgangherata giustizia, tanto meglio”. Iniziando da dove? “La priorità va data alla riforma della giustizia civile, perché i suoi ritardi incidono gravemente sull’economia e gli investimenti. Riuscire a ridurre i tempi delle cause civili sarebbe già un gran risultato”. Niente riforma della giustizia penale? “Certo che mi piacerebbe una riforma radicale della giustizia penale. Almeno per ora, però, non credo ci siano le condizioni politiche. Troppo divisiva”. Sulla prescrizione bisognerà intervenire comunque. Il grillino Alfonso Bonafede l’ha cancellata dopo il primo grado, creando quella che lei chiama “una mostruosità”. La Cartabia non pare intenzionata a fare rivoluzioni ed è apparsa subito molto prudente sull’argomento. Troppo? “La riforma della prescrizione era e rimane un mostro giuridico da eliminare tout court. Ma farlo oggi costituirebbe un’umiliazione cocente per i grani e anche per il Pd. Insomma, capisco la prudenza del ministro. Rischierebbe di far saltare tutto il governo prima ancora di cominciare”. Maggioranza e ministro si sono dati tempo sino al 29 marzo per intervenire sulla riforma del processo penale e della prescrizione. Il Pd propone “un limite massimo di durata per ciascuna fase del processo, oltre il quale non si può andare”. Può essere questa la soluzione? “No, sarebbe l’ennesimo pasticcio. L’attuale codice Vassalli è stato così snaturato, demolito e imbastardito che ormai è un mostriciattolo da sopprimere, perché nessuno ci capisce più nulla. Va riscritto completamente, recuperando l’originale disegno di un rito accusatorio e liberale”. Missione impossibile, con questa maggioranza e con questi tempi… “L’idea che si possa farlo entro uno o due mesi è metafisica, non si concluderebbe nulla. Se poi si crede di abbreviare i processi per decreto, e non incidendo sulle strutture e le risorse della giustizia, siamo davvero nell’aspirazione virtuale”. Si attende una riforma della prescrizione e del processo scritta direttamente dal ministro, alla fine? “Non lo so. Ma conoscendo la sua grande competenza, spero e credo che non intenda scendere a compromessi pasticciati”. Draghi si è scelto un nemico: le regole “complesse, incomplete e contraddittorie” che scaricano “responsabilità sproporzionate” su dirigenti e amministratori pubblici, spingendoli a non sottoscrivere i contratti di appalto per le opere piccole e grandi, poiché il rischio di finire indagati è alto. È un tema su cui lei insiste da tempo, chiedendo di ridurre e semplificare le norme… “Mi rallegro che Draghi abbia indicato un simile rimedio, perché lo predico da oltre vent’anni: individuare le competenze, semplificare le procedure, eliminare le tante leggi inutili e contraddittorie che costituiscono l’arsenale dove il potenziale corrotto si sceglie le armi per vessare il cittadino o venire con lui a patti scellerati”. Abolire il reato di abuso d’ufficio può essere il primo tassello? “L’abolizione del reato di abuso d’ufficio, e magari di quello di traffico di influenze e della stessa legge Severino, dovrebbe essere il primo passo per ridare dignità e certezza alla pubblica amministrazione e alla stessa politica. Anche qui, però, vedo già le petulanti litanie di chi crede che la corruzione e la “mala gestio” pubblica vadano combattute con la forca e la galera, che in realtà sono assolutamente inefficaci”. Intanto 67 giudici e pm avvertono Sergio Mattarella che nei tribunali e nelle procure “lo scandalo continua a imperversare”. Un mese dopo l’uscita del libro-denuncia di Luca Palamara, infatti, nulla è cambiato. Chiedono una seria riforma del sistema di autogoverno dei magistrati, che il parlamento non è stato in grado di abbozzare in tre anni… “Nulla è cambiato né potrà cambiare se aspettiamo che siano i magistrati o il Csm a far luce su queste vicende, per ovvie ragioni di conflitto di interessi. Per questo, come suggerito dai Radicali, auspico una Commissione parlamentare, per la cui istituzione esiste già un disegno di legge in parlamento. Il governo da solo non potrà far molto, perché non ne ha i poteri e nemmeno la forza, visto che nel suo ambito la componente giacobina è forte, se non maggioritaria”. I suoi 67 colleghi propongono innanzitutto la selezione dei componenti del Consiglio superiore della magistratura tramite elezione di un numero predeterminato di candidati estratti a sorte. Può essere una soluzione? “Sono stato favorevolmente stupito da questa iniziativa. Poiché io auspico il sorteggio da sempre, e sono stato considerato a dir poco un eretico, mi rallegro che oggi anche molti colleghi, unitamente ad altri illustri giuristi, la pensino così. Il sorteggio tuttavia non è previsto dalla Costituzione, e associarlo a un’elezione di primo o secondo grado potrebbe superare il problema. Ma temo che anche qui le resistenze saranno enormi”. Un premier di statura internazionale, capace in passato di tenere testa ai vertici della Bundesbank, non ha la forza per passare sopra alle resistenze corporative delle toghe? “In tempi normali un governo con un capo così autorevole potrebbe anche farcela, ma occupato com’è per il Covid e l’economia, non so se se la senta di rischiare”. L’altra proposta dei 67 è la rotazione delle cariche direttive e semi-direttive, ritenuta “l’antidoto più efficace contro la degenerazione correntizia”. È una terapia giusta? “Forse è un elemento di correzione, ma non è quello essenziale. L’essenziale è rompere il vincolo di favori tra elettore ed eletto, e il sorteggio è l’unico modo”. Abbiamo parlato delle divisioni nella maggioranza. Forse, Draghi e i suoi ministri dovrebbe temere di più i metodi intimidatori con cui molte procure difendono lo status quo. Sinora, chi ha provato a riformare sul serio la giustizia l’ha pagata cara. È un rischio che corre anche Draghi? “Draghi in quanto tale non corre alcun rischio, perché è così al di sopra di ogni sospetto che un’iniziativa giudiziaria contro di lui sarebbe un boomerang, ne aumenterebbe addirittura la popolarità e accentuerebbe il già notevole discredito della magistratura. Il pericolo c’è, ma è un altro”. Quale? “Che una sapiente combinazione di notizie fatte filtrare da qualche procura, magari attraverso intercettazioni di terzi, ed enfatizzata da qualche giornale compiacente, possa iniziare un martellamento che infastidisca il primo ministro, non abituato a queste subdole aggressioni del circolo mediatico-giudiziario che hanno già fatto tante vittime”. Caso Palmara, si spacca anche l’Antimafia di Luca Fazzo Il Giornale, 1 marzo 2021 Si spacca pure l’Antimafia. Salta l’audizione di Palamara. Era stato convocato per domani ma manca il numero legale. I radicali insistono: “Sia ascoltato presto”. Non era mai accaduto che la Commissione parlamentare Antimafia si spaccasse in modo così netto e soprattutto anomalo. Né tantomeno che ciò accadesse intorno a una audizione fortemente voluta dal suo presidente. Sulla decisione dell’ex grillino Nicola Morra di convocare Luca Palamara a Palazzo San Macuto, la commissione si è divisa frontalmente. Risultato: per ora salta tutto, l’audizione di Palamara prevista per domani è rinviata a data da destinarsi. Se Morra, come pare, si impunta è probabile che alla fine l’interrogatorio si farà. Ma la spaccatura intorno al nome di Palamara la dice lunga su come il ciclone sollevato prima dalle chat e poi dalle dichiarazioni dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati abbia investito insieme al mondo della giustizia anche i palazzi della politica, dove il fronte che si oppone all’audizione la definisce una perdita di tempo e un regalo di visibilità a Palamara: mentre ieri arriva la replica del Partito radicale, cui l’ex pm ha aderito dopo l’espulsione dalla magistratura. “Comprendiamo la ritrosia di qualche forza politica a cavallo della magistratura a voler verbalizzare in Commissione Antimafia quanto Palamara ha messo nero su bianco e reso pubblico con il libro Il Sistema”, dichiarano Maurizio Turco e Irene Testa, annunciando di mettere “a disposizione dei commissari, a cominciare dal presidente Morra, le nostre modeste risorse perché ascoltino in tempi brevi e in seduta pubblica Palamara”. A fare saltare la convocazione di Palamara per domani è stata la mancanza del numero legale. La verifica delle presenze è stata chiesta da Pietro Grasso di Leu, ex procuratore a Palermo, accanto al quale si è schierato non solo il Partito democratico ma anche Forza Italia. Gli unici a muoversi compattamente per l’audizione immediata di Palamara sono stati i componenti leghisti della commissione, guidati dal vicepresidente Pasquale Pepe, che si sono presentati tutti in aula. Ma non è bastato. Gli argomenti che hanno spinto Forza Italia a non forzare per la convocazione di Palamara non sono dissimili a quelli del Pd, portati in commissione dal vicepresidente del Senato Franco Mirabelli. La tesi è che le uniche vicende toccate da Palamara di competenza della commissione sono le due che riguardano il pm palermitano Antonino Di Matteo e le sue estromissioni dal pool stragi e dalla direzione delle carceri, argomenti già ampiamente sviscerati dalla commissione; mentre su tutto il resto delle rivelazioni l’Antimafia potrebbe interrogare Palamara solo in modo consultivo, senza i poteri della commissione d’inchiesta, e senza l’obbligo di dire la verità. Morti gli ultimi due ergastolani nazisti condannati in Italia La Repubblica, 1 marzo 2021 Si tratta di Wilhelm Stark, accusato di vari eccidi commessi nel 1944 in varie località dell’Appennino tosco-emiliano, e di Alfred Stork (97 anni), ritenuto responsabile di una delle stragi avvenute sull’isola di Cefalonia nel settembre 1943 nei confronti dei militari della Divisione Acqui. Nessuno dei due ha mai fatto un giorno di carcere o di detenzione domiciliare. Gli ultimi due militari di guerra tedeschi superstiti condannati definitivamente all’ergastolo per l’uccisione indiscriminata di militari e civili italiani sono morti: si tratta, come conferma all’Ansa il procuratore generale militare Marco De Paolis, del centenario Karl Wilhelm Stark, accusato di vari eccidi commessi nel 1944 in varie località dell’Appennino tosco-emiliano e di Alfred Stork (97 anni), ritenuto responsabile di una delle stragi avvenute sull’isola di Cefalonia nel settembre 1943 nei confronti dei militari della Divisione Acqui. Nessuno dei due ha mai fatto un giorno di carcere o di detenzione domiciliare. Sono stati 60 gli ergastoli inflitti dalla magistratura militare italiana dopo la scoperta, nel ‘94, del cosiddetto Armadio della vergogna, dove centinaia di fascicoli di stragi nazi-fasciste erano stati occultati nel 1960. Ma di fatto nessuno è stato eseguito, perché le richieste di estradizione o di esecuzione della pena nei Paesi dei condannati sono sempre cadute nel vuoto. Gli unici a espiare le condanne inflitte in questa stagione processuale sono stati l’ex capitano delle SS Erich Priebke, faticosamente condannato all’ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine, e il caporale ‘Misha’ Seifert, il ‘boia di Bolzano’, estradato dal Canada e morto durante la detenzione a Santa Maria Capua Vetere. L’ex sergente Stark, inquadrato nella Divisione Corazzata ‘Hermann Goering’ della Wehrmacht, è morto il 14 dicembre scorso. È stato condannato all’ergastolo per alcuni degli eccidi compiuti sull’appennino tosco-emiliano nella primavera del 1944, in particolare quelli di Civago e Cervarolo, nel reggiano, due borghi dove il 20 marzo furono trucidate complessivamente circa 30 persone, tra cui il parroco, e quello di Vallucciole, nell’Aretino, dove oltre 100 tra uomini, donne e bambini vennero uccisi per rappresaglia. Nel 2018 una troupe del Tg1 lo scovò nella sua abitazione in un sobborgo di Monaco: l’anziano, scambiando qualche battuta sull’uscio, disse che non poteva pentirsi di “una cosa mai fatta” e che il processo era stato “una farsa”. Di Stork - la cui esecuzione penale risultava ancora pendente nel 2020, al pari di quella per Stark - solo di recente si è saputo che è morto il 28 ottobre 2018. L’ex caporale dei Cacciatori di montagna (Gebirsgjager), è stato condannato per l’uccisione di “almeno 117 ufficiali italiani” sull’isola di Cefalonia, nel settembre 1943. Stork aveva confessato in passato agli inquirenti tedeschi di aver fatto parte di uno dei plotoni di esecuzione attivi alla ‘Casetta rossa’, dove venne trucidato l’intero stato maggiore della divisione Acqui. “Ci hanno detto che dovevamo uccidere degli italiani, considerati traditori”, affermò. Una testimonianza, ricca di particolari agghiaccianti, che Stork si rifiuterà di ripetere in seguito ai magistrati italiani. Le fucilazioni andarono avanti dall’alba al tramonto: “I corpi sono stati ammassati in un enorme mucchio uno sopra l’altro... prima li abbiamo perquisiti togliendo gli orologi, nelle tasche abbiamo trovato delle fotografie di donne e bambini, bei bambini”. Stork ha sempre ignorato il processo italiano e non ha nemmeno impugnato la sentenza di primo grado: la condanna all’ergastolo è diventata così definitiva. La rivoluzione impossibile di Sante Notarnicola di Dario Basile Corriere della Sera, 1 marzo 2021 Operaio, comunista, rapinatore di banche, carcerato, scrittore, poeta. Si può riassumere così la storia di Sante Notarnicola, ricordato per essere stato uno dei componenti della banda Cavallero, il gruppo di operai che negli anni Sessanta sognava di fare la rivoluzione prendendo d’assalto le banche. La biografia di questo uomo, oggi ottantaduenne, si intreccia con alcune fasi cruciali della storia recente di Torino e del nostro Paese. Notarnicola ha vissuto la grande migrazione dal Meridione, le prime lotte operaie, le Brigate Rosse e le proteste nelle carceri. Ma è come se avesse attraversato questi eventi in modo laterale, non da protagonista ma da ribelle. La storia di Sante Notarnicola incomincia nel 1938 a Castellaneta, nell’entroterra pugliese, poi a tredici anni emigra a Torino dove vive con gli zii, in Barriera di Milano a pochi passi dalle fonderie Fiat. Siamo agli inizi degli anni Cinquanta. Introdotto dallo zio, Notarnicola comincia fin da subito a frequentare la sezione del Pci di zona, un ambiente ospitale per lui che arriva da tanto lontano e non conosce ancora nessuno in città. Grazie a quel circolo riesce anche a trovare i primi lavori da manovale. Inizia così la sua attività politica, la distribuzione dei volantini, le riunioni, le scritte sui muri e le botte con i giovani di destra. In sezione Notarnicola conosce quelli che sarebbero poi diventati i suoi compagni di banda: Pietro Cavallero, torinese e figlio di un falegname e Danilo Crepaldi, ex partigiano e operaio della Fiat. Un giorno Crepaldi invita Cavallero e Notarnicola a casa sua, in via S. Donato. Aperto l’armadio moni stra agli amici una pistola mitragliatrice Sten. Sante Notarnicola è il più giovane del gruppo e rimane un po’ spaesato. È allora che i suoi compagni gli parlano della necessità di distaccarsi dall’azione poco efficace del partito, bisogna prepararsi alla rivoluzione. Crepaldi illustra agli altri due la sua idea: recuperare le armi non più utilizzate dagli ex partigiani per preparare la battaglia di classe. Ma le armi costano e così decidono di reperire i soldi necessari dedicandosi alle rapine. La prima azione armata viene diretta ai danni della Fiat, un gesto anche simbolico contro i padroni della fabbrica. Il colpo viene effettuato con uno stile da guerriglia, l’obiettivo è il gabbiotto dei vigilanti per rubare le buste paga degli operai del turno di notte. Lo stile dell’assalto è completamente nuovo e lascia sbigottiti sia gli investigatori sia i giornali, che si domandano chi possano essere quei banditi. Siamo nel maggio del 1959. Poi i tre decidono di prendersi una pausa. Passano un po’ di anni e ciascuno torna alle proprie attività. Dopo quattro anni, la banda decide di riprendere in mano le armi per assaltare l’istituto San Paolo di via Onorato Vigliani. Fu quella la prima di una lunga serie di rapine a mano armata, che vanno avanti per quattro anni e mezzo. Gli investigatori faticano a individuare questo gruppo estraneo ai circuiti criminali. Poi il 25 settembre 1967 l’ultimo colpo. La banda, armata di mitra e pistole, assalta l’agenzia del banco di Napoli di largo Zandonai a Milano. Ma ad aspettarli questa volta c’è la polizia. Inizia l’inseguimento e segue una dura sparatoria per le vie della città. Negli scontri vengono colpiti a morte quattro passanti: un autista, un artigiano, una donna e uno studente. Il bilancio totale include il ferimento di sei agenti e di sedici passanti. Sante Notarnicola e Pietro Cavallero riescono a fuggire nelle campagne ma qualche giorno dopo vengono arrestati all’interno di un casello abbandonato. I due sono condannati all’ergastolo e durante la sentenza cantano “Figli dell’officina”, un inno del movimento anarchico. Nelle carceri incomincia la seconda vita di Notarnicola. L’ex bandito decide di dedicarsi alla lotta per i diritti dei detenuti, prendendo parte a diverse rivolte. Dietro le sbarre incomincia a scrivere, compone poesie e redige la sua biografia, che viene pubblicata nel 1972 da Feltrinelli. Seguiranno molte altre sue pubblicazioni. Nel novembre del 1976 Notarnicola tenta con altri detenuti un’evasione impossibile dal carcere di massima sicurezza di Favignana. Impresa che lui stesso racconta in una poesia: “Scavammo un tunnel, lungo più di otto metri, graffiando il tufo, con le unghie. Poi una notte, riuscimmo a vedere le stelle, il cielo aperto. Ma il tradimento covava, in alcuni uomini, paghi di rimanere schiavi”. Da dietro le sbarre Notarnicola riesce anche a tessere dei rapporti con le nascenti Brigate Rosse, che lo includono nell’elenco dei prigionieri di cui le Br chiedono lo scambio con la libertà di Aldo Moro. Oggi Sante Notarnicola è in libertà e vive a Bologna, dove ha gestito fino a qualche anno fa un locale, il pub Mutenye, che lui definisce un luogo dello spirito, divenuto anche ritrovo per artisti e scrittori come Erri De Luca. Questi pochi versi, scritti da Notarnicola, riassumono bene la sua vita da ribelle: “Mi inseguono gli anni ma, fin dall’inizio, il patto era chiaro e a nulla valgono scorie e tormenti”. Cella piccola: il recluso può chiedere risarcimento per detenzione inumana? di Simone Marani altalex.com, 1 marzo 2021 Nessun ristoro se la cella è molto stretta ma il detenuto ha comunque libertà di movimento all’esterno (Cass. Sezioni Unite, sentenza n. 6551/2021). Le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, con la sentenza del 19 febbraio 2021, n. 6551 (testo in calce), sono state chiamate a risolvere la questione di diritto “Se, in tema di conformità delle condizioni di detenzione all’art. 3 Cedu, come interpretato dalla Corte EDU, lo spazio minimo disponibile di tre metri quadrati per ogni detenuto debba essere computato considerando la superficie calpestabile della stanza ovvero quella che assicuri il normale movimento, conseguentemente detraendo gli arredi tutti senza distinzione ovvero solo quelli tendenzialmente fissi e, in particolare, se, tra questi ultimi, debba essere detratto il solo letto a castello ovvero anche quello singolo”. La condizione di detenzione non comporta per il soggetto ristretto la perdita delle garanzie dei diritti affermati dalla Cedu che, al contrario, assumono specifica rilevanza proprio a causa della situazione di particolare vulnerabilità in cui si trova la persona. Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte EDU, l’art. 3 della Convenzione, nel sancire uno dei valori fondamentali delle società democratiche, pone a carico degli Stati contraenti non solo obblighi negativi, ma anche più incisivi obblighi positivi per assicurare ad ogni individuo detenuto condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana. Di conseguenza, una pena, pur legalmente inflitta, può tradursi in una violazione della Convenzione qualora comporti una compressione dei diritti convenzionali non giustificata dalle condizioni di restrizione. Con la pronuncia della Grande Camera del 20 ottobre 2016, la corte ricomprende il complesso delle condizioni di detenzione, positive e negative, in una valutazione unitaria, rispettosa della dignità dell’essere umano detenuto, per il quale l’esperienza carceraria è unica, come è unitaria la valutazione del suo carattere inumano o degradante, e specifica, inoltre, la portata e le caratteristiche del tema dello spazio ridotto riservato ad ogni detenuto in conseguenza del sovraffollamento carcerario. La Corte EDU afferma che il calcolo della superficie disponibile nella cella deve includere lo spazio occupato dai mobili e che è importante determinare se i detenuti abbiano la possibilità di muoversi normalmente nella cella. Occorre, quindi, attribuire rilievo, ai fini della possibilità di movimento in una stanza chiusa, quale è la cella, ad un armadio fisso oppure ad un pesante letto a castello che equivalgono ad una parete; in tale ottica la superficie destinata al movimento nella cella è limitata dalle pareti, nonché dagli armadi che non si possono in alcun modo spostare e che, quindi, fungono da parete o costituiscono uno spazio inaccessibile. Quando la Corte afferma che il calcolo della superficie disponibile nella cella debba includere lo spazio occupato dai mobili, con tale ultimo sostantivo intende riferirsi soltanto agli arredi che si possono facilmente spostare da un punto all’altro della cella. E’ escluso dal calcolo lo spazio occupato dagli arredi fissi, tra cui rientra anche il letto a castello. In definitiva, gli ermellini enunciano il principio di diritto secondo il quale, nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello. Occorre poi accertare se nel caso di accertata violazione dello spazio minimo, possa comunque escludersi la violazione dell’art. 3 della Convenzione nel concorso di altre condizioni quali la sufficiente libertà di movimento all’esterno della cella o se, al contrario, quando lo spazio individuale nella cella collettiva sia inferiore a tre metri quadrati, la detenzione debba sempre essere considerata inumana e degradante, in quanto non conforme all’art. 3 Cedu. Sempre secondo la Corte EDU, la sussistenza di altri fattori negativi, quali la mancanza di accesso al cortile o all’aria e alla luce naturale, la cattiva aerazione, una temperatura insufficiente o troppo elevata nei locali, la assenza di riservatezza nelle toilette e le cattive condizioni sanitarie ed igieniche possono comportare la violazione dell’art. 3 della Convenzione. Principio che porta gli ermellini a sancire un altro principio di diritto secondo il quale “i fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 Cedu derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono alla valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all’istanza presentata ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen.”. Omicidio stradale, più spazio alla discrezionalità del giudice sulla revoca della patente di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2021 Più spazio alla valutazione del giudice nell’omicidio stradale. La revoca della patente infatti non deve essere l’automatica conseguenza del reato, ma deve scattare solo se la condotta è stata aggravata dall’assunzione di alcol o stupefacenti; in tutti gli altri casi l’autorità giudiziaria dovrà valutare la gravità della condotta, decidendo, eventualmente, di applicare la più lieve sanzione della sospensione. Lo ha stabilito la Corte costituzionale in una sentenza i cui contenuti sono stati anticipati ieri da un comunicato. A questo giudizio di parziale illegittimità dell’articolo 222 del Codice della strada, la Consulta ha però accompagnato una valutazione positiva del divieto per il giudice di bilanciare con l’attenuante le aggravanti della guida in stato di ebbrezza o sotto l’influsso di droghe. Le questioni erano state sollevate da una pluralità di uffici giudiziari che avevano messo in evidenza una serie di punti critici della normativa introdotta 3 anni fa. Il tribunale di Torino aveva ricordato che l’articolo 222 prevede che, nei casi di condanna o di applicazione della pena dopo patteggiamento, per i reati di omicidio stradale e di lesioni stradali gravi, anche dopo la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, deve essere sempre applicata la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente, con il divieto conseguente di ottenerne una nuova prima che siano passati 5 anni. L’ufficio piemontese aveva denunciato l’irragionevolezza della previsione quando, senza possibilità di graduazione, sottopone alla medesima sanzione accessoria situazioni, quali le lesioni stradali gravi o gravissime e l’omicidio stradale, la cui diversità è invece attestata dalla notevole differenziazione delle sanzioni penali, graduate in funzione di un diverso disvalore sociale. Se questo aspetto della pronuncia va nella direzione di un recupero di margini di valutazione da parte della magistratura, in direzione diversa va la decisione sull’altro punto affrontato che ha invece promosso la riforma. Il Gup di Roma aveva sollevato la questione di legittimità con riferimento in particolare alla circostanza attenuante prevista, per il reato di omicidio stradale, dal comma settimo dell’articolo 589-bis del Codice penale, per il quale “qualora l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole la pena è diminuita fino alla metà”. Attenuante che però il successivo articolo 590 quater del Codice penale vieta di considerare prevalente o equivalente rispetto alle aggravanti (come la guida dopo avare assunto droghe o alcol) nei reati di omicidio stradale e lesioni stradali. Un divieto, sosteneva il Gup, che impedisce al giudice la possibilità di valutare nel caso concreto la prevalenza della diminuente rispetto alle aggravanti, con conseguente aumento sproporzionato di pena anche nel caso di percentuale minima di colpa dell’imputato. Il trattamento sanzionatorio così delineato dalla riforma del 2016 contrasterebbe inoltre con il principio di necessaria finalizzazione rieducativa della pena. La mancanza di dotazione informatica non giustifica l’opposizione all’udienza da remoto Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2021 Lo ha chiarito il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana con il decreto n. 39 del 25 febbraio 2021. La carenza di dotazione informatica per partecipare all’udienza di discussione da remoto, in capo ad una parte, non costituisce giusto motivo per opporsi alla domanda di discussione da remoto tempestivamente proposta dalla controparte. Lo ha stabilito il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana con il decreto n. 39 del 25 febbraio 2021, respingendo l’opposizione del comune di Catania contro il ricorso per revocazione di una sentenza del 2017 presentato dalla capogruppo di un’Ati. Il Municipio aveva dichiarato di opporsi in quanto impossibilitato alla discussione telematica: “non essendo l’ufficio fornito né di webcam, né di casse acustiche o cuffie per l’ascolto né di microfono per poter interloquire”. La C.g.a. ha chiarito che la facoltà di discussione orale “sintetica”, prevista dall’articolo 73 comma 2, c.p.a., integra esplicazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.) ed invera il precetto di garanzia del contraddittorio di cui all’art. 111, comma 3, Cost.. Si tratta pertanto di “posizione di diritto potestativo, che rientra nella lata discrezionalità del difensore tecnico della parte, ed il cui esercizio non può essere aprioristicamente negato, fatte salve ipotesi del tutto residuali”. Al contrario, la “opposizione alla discussione” pur prevista, in astratto, dall’art. 4, Dl n. 28 del 2020, integra “rimedio ad eventuali distorsioni che la richiesta di discussione dovesse arrecare alla dialettica processuale”, in ipotesi-limite “certamente non ricorrenti nel caso di specie”. In definitiva per il C.g.a. la asserita carenza di dotazioni informatiche che consentano la partecipazione alla discussione da remoto, in capo ad una delle parti processuali (e per esse alla difesa tecnica prescelta), “non può integrare giusta causa tale da limitare il diritto processuale di controparte, dovendosi in contrario osservare che ciò costituisce, per un verso, inconveniente facilmente rimediabile, e sotto altro profilo, lacuna/carenza che rientra nella sfera gestoria della parte processuale che accampa simile impedimento, cui la stessa, ove lo ritenga, può porre rimedi”. Campania. Covid-19, il Garante dei detenuti: “Subito vaccini nelle carceri” anteprima24.it, 1 marzo 2021 “Esprimo cordoglio e vicinanza alla famiglia dell’agente Angelo De Pari, 56 anni, sposato, morto oggi al Covid center dell’ospedale di Maddaloni. È il terzo operatore morto di Carinola che si è ammalato ad inizio mese. In diverse regioni è partita la vaccinazione per agenti di polizia penitenziaria in Campania no. Il 21 gennaio il commissario per l’emergenza Covid Domenico Arcuri aveva assicurato: “In un momento successivo a chi ha più di 80 anni è previsto che detenuti e personale carcerario possano ricevere la vaccinazione” Così non è stato. Non si sono completate le fasce di età più a rischio e si è iniziato con docenti, personale scolastico, psicologi”. Cosi Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti. “Ho chiesto all’amministratore dell’Asl Na 1 centro competente per le carceri di Poggioreale e Secondigliano di intervenire, pur comprendendo che non arriva in Campania un numero adeguato di vaccini. Chiedo la convocazione urgente dell’Osservatorio regionale della sanità penitenziaria. In Campania dall’inizio della pandemia siamo a cinque agenti morti, quattro detenuti e un medico del carcere di Secondigliano. Non si può continuare a morire di carcere e in carcere. Il carcere, come si sta vedendo, è tutt’altro che un luogo immune al virus, come invece dichiarato dalla politica e da improvvidi operatori dell’Amministrazione penitenziaria”. Sardegna. La Regione promuove “Uffici di prossimità” per i servizi della Giustizia di Giampaolo Cirronis sardegnaierioggidomani.com, 1 marzo 2021 La Regione promuove gli “Uffici di prossimità” per rendere i servizi della Giustizia più vicini ai cittadini sardi, che potranno compiere operazioni e avere informazioni direttamente nel proprio Comune, senza necessità di spostarsi. Lo ha deciso la Giunta regionale su proposta dell’assessore della Programmazione e del Bilancio Giuseppe Fasolino, con una delibera che definisce i criteri per l’individuazione degli uffici giudiziari di Primo livello. L’iniziativa - condivisa con i tribunali sardi, i rappresentanti del ministero della Giustizia, l’Anci e il Cal - è inserita in un progetto nazionale per un importo complessivo di 1.882.607 euro. “Tramite l’attivazione di nuovi punti di contatto e accessi nel territorio diamo vita, sosteniamo e alimentiamo nel tempo una Giustizia più vicina alle esigenze delle nostre Comunità, un modello virtuoso di cui la nostra Isola ha bisogno - spiega il presidente Christian Solinas. Facilitare l’accesso ai servizi giudiziari per chi ha difficoltà a usufruirne è un tassello che si aggiunge all’importante azione svolta dalla Regione nella lotta allo spopolamento e all’isolamento dei territori”. Con l’apertura degli Uffici di prossimità i cittadini potranno infatti ricevere informazioni e predisporre gli atti di volontaria giurisdizione per i quali attualmente occorre recarsi presso gli uffici giudiziari nelle sedi dei sei Tribunali Ordinari della Sardegna (Cagliari, Sassari, Oristano, Nuoro, Tempio, Lanusei). “Abbiamo promosso questo progetto con l’obiettivo di andare incontro alle fasce più deboli della popolazione come anziani e persone fragili, garantendo così libero accesso a servizi e informazioni di carattere giudiziario - spiega l’assessore Giuseppe Fasolino. La Sardegna, complice anche l’estensione geografica e la densità di popolazione conta su numerosi centri distanti dalle attività dei tribunali ordinari, a cui concorre negativamente la revisione delle circoscrizioni giurisdizionali avvenuta negli ultimi anni, che ha comportato un profondo ridimensionamento degli uffici giudiziari e la chiusura di otto sedi distaccate. Avvicinando gli uffici della giustizia alle Comunità introduciamo un ulteriore strumento di supporto al cittadino e contribuiamo a decongestionare l’attività dei tribunali” Evidenti le ripercussioni di carattere sociale, specie nei confronti delle fasce di popolazione più esposte agli effetti della crisi sanitaria ed economica. Grazie all’iniziativa sarà infatti possibile avviare la pratica per la nomina di un tutore e/o amministratore di sostegno, richiedere la modulistica adottata dagli uffici giudiziari di riferimento come i documenti necessari per recarsi in un Paese extraeuropeo e in generale richiedere informazioni sulle procedure giudiziarie di volontaria giurisdizione in cui è coinvolto il cittadino. Il progetto sarà attuato in più fasi: si partirà con l’individuazione delle sedi destinate ad accogliere gli Uffici di prossimità attraverso una manifestazione d’interesse rivolta agli enti territoriali; sarà compito della Regione allestire e informatizzare le sedi individuate, formare il personale coinvolto, digitalizzare e acquisire gli atti dei Tribunali, attivare a aprire gli uffici. I criteri definiti dalla Giunta regionale per l’individuazione degli Uffici di prossimità tengono conto della soppressione nel territorio di riferimento delle sedi giudiziarie distaccate, della distanza tra il Tribunale territorialmente competente e la sede del Comune (o del Comune più lontano nel caso di aggregazioni di Comuni), del numero dei residenti e della difficoltà di accesso agli uffici giudiziari determinata da altri indici di svantaggio. Carinola (Ce). Covid, strage di agenti nel carcere. I sindacati: “Ora si indaghi sulle cause” di Mary Liguori Il Mattino, 1 marzo 2021 Da isola felice a inferno. In pochi mesi, il carcere di Carinola è passato da zero casi Covid a 41 positività accertate, tra personale e detenuti, ma, quel che è peggiore, è il bilancio delle vittime. Con la morte dell’assistente capo coordinatore Angelo De Pari, avvenuta ieri in mattinata al Covid hospital di Maddaloni, sale a tre il numero di agenti di polizia penitenziaria in servizio a Carinola uccisi dal covid nelle ultime due settimane. Una strage. De Pari si era ammalato ai primi di febbraio. Il suo tampone risultò positivo nell’ambito dello screening disposto in seguito al contagio dell’agente Antonio Maiello, il 52enne deceduto poi due settimane fa. Da quel momento, i tamponi eseguiti nel penitenziario hanno rimandato numeri sempre più drammatici. Attualmente, i poliziotti positivi sono 30, di cui 5 ricoverati in terapia intensiva, 9 i detenuti contagiati, mentre nel personale sanitario si registrano due casi. La morte di De Pari è avvenuta ventiquattro ore dopo il decesso del 50enne Pino Matano e una settimana dopo la scomparsa di Adriano Cirella, poliziotto di 57 anni in servizio a Secondigliano. La strage di agenti getta benzina sul fuoco delle polemiche che infuriano ormai da giorni. Diverse regioni hanno avviato la campagna vaccinale sul personale di polizia delle carceri. La profilassi non è invece ancora iniziata in Campania. Fino al 31 gennaio sono stati somministrati 12.481 tamponi ai detenuti campani, più della metà tra Poggioreale e Secondigliano; 5312 quelli eseguiti sugli agenti. Al momento, sono positivi 52 agenti e 24 detenuti in tutta la regione (9 a Carinola, 16 a Poggioreale e uno a Salerno). Ieri, dopo il decesso dell’assistente capo De Pari, Samuele Ciambriello si è di nuovo rivolto alle autorità sanitarie. “Il 21 gennaio il commissario Arcuri aveva assicurato che, dopo gli ultraottantenni, sarebbe toccato ai detenuti e al personale carcerario, ma così non è stato. Ho chiesto all’Asl Na 1 centro, competente per le carceri di Poggioreale e Secondigliano, di intervenire, pur comprendendo che non arriva in Campania un numero adeguato di vaccini”. “Chiedo la convocazione urgente dell’Osservatorio regionale della sanità penitenziaria. - continua l garante dei detenuti - Nella nostra regione, dall’inizio della pandemia, sono morti 5 agenti, 4 detenuti e un medico in servizio a Secondigliano”. Sulla stessa linea i sindacati di polizia penitenziaria che da giorni hanno dichiarato lo stato di agitazione a Carinola. L’Ussp denuncia “ritardi nella gestione del rischio contagio e per i vaccini agli agenti che, sin dall’inizio, abbiamo chiesto di considerare al pari del personale delle Rsa”. Sos al primo ministro Draghi e al guardasigilli Cartabia “affinché si adoperino per la sicurezza della polizia penitenziaria”. Durissima anche la posizione del Sappe. “Potrebbero essere stati sottovalutati i primi segnali di positività, i tamponi al personale sono stati eseguiti a distanza di un congruo tempo dai primi accertamenti e molto precaria è stata anche la predisposizione di dispositivi di protezione individuali. Chiediamo che sia aperta una inchiesta amministrativa sui contagi nel carcere di Carinola”. Sos anche da Lorenza Sorrentino, segretario regionale Fns-Cisl: “Il rischio che la situazione epidemiologica degeneri ancora è concreto. - ha detto - Servono interventi urgenti, con i vaccini, integrazione di personale, strutture adeguate come più volte già rappresentato nelle sedi competenti dalla Fns-Cisl. Tutto ciò per Carinola, ma anche per le altre carceri della Campania”. Catania. Webinar: “La funzione rieducativa e il carcere: un ossimoro sostenibile?” unict.it, 1 marzo 2021 Venerdì 5 marzo alle 15:30, online su MS Teams, webinar organizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza nell’ambito del progetto EuRiPen. Venerdì 5 marzo alle 15:30, sulla piattaforma Microsoft Teams, si svolge il webinar “La funzione rieducativa e il carcere: un ossimoro sostenibile?”, organizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Catania nell’ambito del progetto EuRiPen (Europa Rieducazione Pena Persone Enti). Il tema dell’incontro è incentrato sulla riscoperta della funzione rieducativa come essenza riformatrice del sistema sanzionatorio per le persone e per gli enti. Presenta l’iniziativa Anna Maria Maugeri (docente di Diritto Penale e coordinatrice di EuRiPen), intervengono Giovanni Fiandaca (docente di Diritto Penale, Università di Palermo), Fabio Gianfilippi (magistrato di sorveglianza di Spoleto), Giorgia Gruttadauria (dirigente penitenziario), Riccardo Polidoro (avvocato, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane). Presiede Fabrizio Siracusano (docente di Diritto Processuale Penale, Università di Catania). Ogni giorno vale la pena di Alessandro D’Avenia Corriere della Sera, 1 marzo 2021 Il 6 marzo ricorre “La giornata dei Giusti dell’umanità”, dedicata a tutte le persone che hanno difeso la vita umana e la sua dignità in situazioni drammatiche. La ricorrenza invita le scuole a “organizzare, nell’orario scolastico, iniziative mirate a far conoscere ai giovani le storie di vita dei Giusti, a renderli consapevoli di come ogni persona debba ritenersi chiamata in causa, in ogni tempo e luogo, contro l’ingiustizia”. La concezione di Giusto contenuta in questa celebrazione viene dalla cultura ebraica che riteneva tale l’uomo capace di distinguere il bene dal male e di assumersene la responsabilità: chi si oppone - come può - al male e fa - come può - il bene. Per questo motivo amo le strane parole di Cristo nel sesto capitolo del racconto di Matteo: “Non preoccupatevi dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Il Padre vostro, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena”. Di che giustizia si parla e come può mai venir prima di mangiare, bere, vestirsi? Idealismo da sognatore o sfida per una felicità per noi impensabile? C’è un essenziale che viene dal nostro essere animali e un essenziale che viene dal nostro essere umani? O l’uomo è davvero solo un lupo per l’altro uomo? Gli animali sono guidati dall’istinto verso ciò che serve loro per sopravvivere, l’uomo invece sembra sopra-vivere, vive oltre i bisogni primari: dà loro senso attraverso progetti, ricordi, desideri, simboli (nessun animale apparecchia la tavola o regala un fiore). Sembra esserci per noi una vita più essenziale di quei bisogni che sono dati “in aggiunta” non perché non siano primari, ma perché in realtà sono secondari rispetto a “cercare il regno di Dio e la sua giustizia”, e la giustizia è prendersi cura del mondo come il Padre si prende cura delle creature (il passo di Matteo parla della cura che Dio ha per i fiori più fragili): più corretto sarebbe dire “giustezza”, perché la giustizia ha come riferimento la legge, la giustezza il bene dell’altro. Questo libera dall’ansia tipica dell’egoismo, “il domani si preoccupa di se stesso”, non noi, perché “ogni giorno ha già la sua pena”. Non si tratta di una visione negativa ma di una presa di posizione che porta a rispondere all’incompiutezza della vita. Io interpreto infatti la frase così: “ogni giorno vale la pena”, ogni 24 ore ci sono cose e persone che hanno bisogno di me per fare un passo verso il loro compimento e nell’aiutarle a farlo io compio me stesso. Se facessi il mio lavoro solo per lo stipendio e la pensione mi angoscerei e perderei l’essenziale: la gioia di fare l’insegnante. Invece “vale la pena” fare una bella lezione, guardare con attenzione ogni studente, essere gentile con i colleghi... perché questo mi porta fuori dal “mio mondo” primario e mi apre “all’altro mondo” (l’aldilà è sempre aldiquà, all’inferno o in paradiso non si va, ma ci si è già): fare così, o almeno provarci, a poco a poco mi ha portato dove non mi sarei mai aspettato, perché scoprire ogni giorno un “nuovo mondo” è sì faticoso, ma rende la vita avventurosa e libera dall’ansia di ciò che non è sotto il nostro controllo. Ciò che è dato “in aggiunta”, pur essendo primario per l’animale, non è tale per noi perché è solo l’ambito entro il quale può accadere la “giustezza”. Tutte le volte che non la cerco come fine divento insoddisfatto e nervoso: le cose “in aggiunta” finiscono con il dominarmi, invece la giustezza libera e accresce. Borges lo dice così nella poesia I giusti: “Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire./ Chi è contento che sulla terra esista la musica./ Chi scopre con piacere un’etimologia./ Due impiegati che in un caffè giocano in silenzio agli scacchi./ Il ceramista che immagina un colore e una forma./ Il tipografo che compone bene una pagina che forse non gli piace./ Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto./ Chi accarezza un animale addormentato./ Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto./ Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson./ Chi preferisce che abbiano ragione gli altri./ Queste persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo”. La salvezza del mondo è alla nostra portata, il “regno di Dio” è un posto dove ci si prende cura del compimento delle cose incompiute: “ogni giorno vale la pena”. Il 6 marzo potremmo leggere questa poesia in classe e raccontare ai ragazzi un Giusto: chi è stato capace di dare e non solo di prendere, come facevano, senza che nessuno lo sapesse, Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci. E poi chiedere ai ragazzi come saranno Giusti, a partire da quelle 24 ore. E se a uccidere fossero le donne? di Giusi Fasano Corriere della Sera, 1 marzo 2021 Nel nostro Paese gli uomini violenti uccidono una donna ogni tre giorni e che cosa succede? C’è perfino chi nega che esista il problema. Non si sconfiggerà il fenomeno con i proclami ma con interventi concreti che richiedono molto più delle risorse messe in campo finora. Se una donna uccidesse un uomo ogni tre giorni? Oppure, diciamola senza implicazioni di genere: se la mafia uccidesse una persona ogni tre giorni? Cosa succederebbe? Avremmo - giustamente - una reazione immediata e visibile su più fronti. Militari per le strade, impegno massimo per indagini e caccia ai responsabili, indignazione generale, interventi dalla politica e dalla società civile... Ecco. Nel nostro Paese gli uomini violenti uccidono una donna ogni tre giorni e che cosa succede? Che abbiamo perfino chi nega che esista il problema. Che in molti - moltissimi - si sono abituati a quel dato fino a considerarlo quasi fisiologico. Che per le donne uccise non c’è quel senso dell’urgenza e della necessità d’azione che si fa strada davanti agli eventi gravi. Se le vittime sono tre-quattro (o più) in pochi giorni, capita che il fascio di luce dell’attenzione pubblica illumini l’argomento. Ma un giorno dopo, al massimo due, torna il buio di prima. E si va avanti così fino alle prossime tre-quattro o fino a un caso singolo che per qualche ragione riesce a imporsi sulle discussioni della giornata. La domanda è sempre la stessa: cosa fare? Non è una questione di leggi; le leggi ci sono e sono sufficienti, anche se va da sé che ogni provvedimento si può migliorare, modificare, aggiornare. Quello che si potrebbe e si dovrebbe fare è tutto già scritto: nelle norme sullo stalking del 2009, in quelle sul femminicidio del 2013, nel codice rosso del 2019 e, a ritroso, nella Convenzione di Istanbul e nei tanti protocolli firmati in questi anni per provare a contenere e a trattare la violenza domestica. Il problema però è il fare, cioè far seguire i proclami dai fatti. Nella vita di tutti i giorni, in quel divario evidente fra l’enunciazione e l’applicazione di leggi, convenzioni e protocolli, si perdono le esistenze di Rossella, Deborah, Clara, Lidia, Roberta... per citare soltanto alcune delle donne ammazzate dall’inizio dell’anno. Il professor Carlo Rimini qualche giorno fa su queste pagine ha centrato il punto. “Per proteggerle - ha scritto - occorrono risorse, competenze e formazione; per far sentire i loro persecutori braccati”. Ma più di ogni altra cosa è necessario capire, finalmente, il passaggio successivo del suo pensiero, e cioè che “tutto ciò non si fa con i proclami ma con il denaro, tanto denaro”. Molto più (aggiungiamo noi) delle risorse messe in campo finora. Quattro anni fa l’addio a Dj Fabo. Ma la politica non ha imparato nulla di Simona Musco Il Dubbio, 1 marzo 2021 Fabio Antoniani se n’è andato il 27 febbraio 2017, alle 11.40, in Svizzera, dove è volato per fare ricorso al suicidio assistito. Ma il Parlamento non ha ancora deciso sul fine vita. “Quattro anni fa andavo dai Carabinieri per raccontare come avevo aiutato Fabo a morire. Poi sono arrivate la legge sul biotestamento e la sentenza della Consulta. Andiamo avanti, verso la legalizzazione”. A ricordarlo, sul proprio profilo Facebook, è Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, che quattro anni fa ha annunciato all’Italia la morte del dj. Alla fine è morto così come aveva deciso. Fabio Antoniani, 39 anni, da tutti conosciuto come Dj Fabo, se n’è andato il 27 febbraio 2017, alle 11.40, in Svizzera, dove è volato per fare ricorso al suicidio assistito. Una possibilità che il suo Paese, l’Italia, non gli ha dato. Dj Fabo era cieco e tetraplegico dall’estate del 2014, a causa di un gravissimo incidente stradale. Alla clinica “Dignitas di Forck”, vicino a Zurigo, ci è arrivato accompagnato da Marco Cappato, che ha annunciato la morte del 39enne su Twitter. “Ha morso un pulsante per attivare l’immissione del farmaco letale - ha raccontato -, era molto in ansia perché temeva, non vedendo il pulsante essendo cieco, di non riuscirci. Poi però ha anche scherzato”. Oltre a Cappato insieme a lui c’erano la madre, la fidanzata e gli amici più stretti. Era stato lui stesso, con un video messaggio, a raccontare il suo arrivo in Svizzera. “Ci sono arrivato, purtroppo, con le mie forze e non con l’aiuto del mio Stato”, ha detto poco prima di iniziare il percorso verso la morte. Prima di andarsene ha descritto la sua situazione come “un inferno di dolore”, dal quale è sfuggito soltanto con l’aiuto di Cappato, che ha ringraziato. Ha scelto di andarsene “rispettando le regole di un Paese che non è il suo”, ha spiegato l’attivista. “L’attenzione e la possibilità di scelta che sognava in Italia, Fabo l’ha trovata in Svizzera. Al mio rientro in Italia - aveva aggiunto - andrò ad autodenunciarmi, dando conto dei miei atti e assumendomene tutte le responsabilità”. La sua storia ha rilanciato il dibattito in Italia sull’eutanasia, un dibattito già segnato dalle storie di Eluana Englaro e Piergiorgio Welby ma non ancora risolto per via polemiche suscitate dai cattolici sul tema. Nel periodo in cui dj Fabo è morto, il Parlamento stava esaminando la legge sul testamento biologico, depositata il 15 febbraio dello stesso anno alla Camera. Una proposta fortemente sostenuta dall’associazione “Luca Coscioni” a sostegno della libertà di scelta, una libertà, denunciavano le associazioni, fortemente compromessa. Dj Fabo ha dovuto affrontare un viaggio lungo e doloroso per porre fine alla propria sofferenza, aggiungendo fatica alla fatica già vissuta per vedersi riconosciuti certi diritti. “Fabo è libero, la politica ha perso - avevano sottolineato ancora Cappato e Filomena Gallo, anche lei dell’associazione Coscioni. L’esilio della morte è una condanna incivile. Compito dello Stato è assistere i cittadini, non costringerli a rifugiarsi in soluzioni illegali per affrontare una disperazione data dall’impossibilità di decidere della propria vita morte. Chiediamo che il Parlamento affronti la questione del fine vita per ridurre le conseguenze devastanti che questo vuoto normativo ha sulla pelle della gente”. Una questione che anche molti medici sostengono, per dare ai malati l’ultima parola sulla propria vita. La battaglia va avanti da quasi 30 anni, dalla nascita della Consulta di bioetica, nel 1992, quando fu preparata una carta di auto-derminazione dei malati. Il primo disegno di legge risale al 1996, ma quella legge, contrariamente ad altri Paesi, ancora non c’è. Dai Radicali, nel 2013, è arrivata una proposta di legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia e il riconoscimento del testamento biologico, ma il Parlamento continua a rinviare la discussione. Dj Fabo, dunque, “ha fatto del suo corpo e del suo dolore uno strumento di lotta democratica e di resistenza a un crudele proibizionismo”. A settembre del 2019 la pronuncia della Corte costituzionale: secondo i giudici delle leggi, non è punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Una decisione che, dunque, ridusse l’area di punibilità, stabilendo come paletti la presenza di una patologia irreversibile, la volontà del soggetto espressa in modo “chiaro e univoco”, indice di una capacità di prendere decisioni libere e consapevoli, e che al paziente venga “prospettata la possibilità di porre fine alla propria vita mediante la sedazione profonda e l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale”. Condizioni che nel caso di dj Fabo si sono tutte verificate. La decisione è arrivata dopo undici mesi dalla prima ordinanza, dell’ottobre 2018, in cui la Corte aveva definito “doveroso” consentire al Parlamento ogni “opportuna riflessione e iniziativa” sul fine vita. Immigrati e rifugiati, l’emergenza dimenticata di Andrea Bonanni La Repubblica, 1 marzo 2021 Dopo un anno di emergenza Covid, chi si ricorda più dell’emergenza migranti che aveva scatenato un’ondata di populismo in tutto il continente, mettendo a rischio la tenuta del sistema democratico? Oggi, in Italia, la Lega entra nel governo più europeista di sempre, e gli allarmi sull’imminente islamizzazione d’Europa sono rinviati a tempi più propizi per il suprematismo nazionalista. L’Ufficio europeo per l’asilo e l’immigrazione (Easo) è addirittura finito sotto inchiesta per una serie di respingimenti di migranti alle frontiere esterne della Ue, respingimenti che secondo le accuse sarebbero stati irregolari. Il Parlamento europeo ha deciso di creare una commissione permanente per sorvegliarne l’operato. Ma il calo dell’emergenza migratoria non è solo un effetto mediatico dovuto al prevalere dell’allarme Covid. Lo stesso Easo ha pubblicato recentemente una serie di dati che illustrano come il flusso migratorio verso l’Europa si è effettivamente ridotto nel 2020 rispetto all’anno precedente. Secondo i dati forniti dall’Ufficio, l’anno scorso si sono registrate in tutti i Paesi dell’Unione europea 461.300 richieste di asilo, contro 671.200 del 2019. Il calo del 31 per cento è da attribuirsi, scrivono i funzionari europei, “all’impatto della pandemia di Covid e alle conseguenti misure di emergenza, come le restrizioni alla libertà di movimento”. Una spiegazione che appare quantomeno incompleta. Difficile che profughi in fuga da guerre e carestie, disposti a rischiare la vita e affrontare disagi indicibili, si lascino frenare dalle restrizioni tra zone rosse e zone gialle. Più verosimilmente, il gelo dell’economia seguito ai lockdown ha contribuito a scoraggiare molti migranti economici dal cercare un futuro in un continente che al momento non ha nulla da offrire. Il tasso di approvazione delle richieste di asilo, avverte Easo, non è cambiato rispetto agli anni passati e resta attestato intorno al 32 per cento. Siriani, eritrei e yemeniti, provenienti da Paesi devastati dalla guerra, hanno invece percentuali di accettazione tra 1’85 e il 75 per cento. Le richieste di asilo esaminate hanno superato le domande: 521 mila, permettendo di smaltire almeno un po’ la lista di attesa che conta comunque ancora 420 mila casi. Anche se più contenuta, dunque, l’emergenza continua. Ma in tempi di Covid, pochi se ne accorgono. Sentenze opposte, prove nascoste e omertà: Andy Rocchelli, un’ingiustizia lunga sette anni di Luigi Manconi La Stampa, 1 marzo 2021 La morte del fotoreporter italiano, avvenuta il 24 maggio 2014, rimane ancora senza colpevoli. Fu ucciso nella regione del Donbass, in Ucraina orientale: aveva trent’anni. Il 24 maggio del 2014, il fotoreporter italiano Andrea Rocchelli, detto Andy, viene ucciso, mentre si trovava nella regione del Donbass, nell’Ucraina orientale. Era impegnato a documentare le condizioni dei civili, prime vittime dello scontro che opponeva i militari fedeli allo Stato ucraino e i ribelli filorussi. Insieme a lui, c’erano l’interprete e attivista per i diritti umani, il russo Andrej Mironov, anche lui ucciso, il fotoreporter francese William Roguelon, rimasto gravemente ferito, e un autista locale. Il 12 luglio del 2019 la Corte di Assise di Pavia condanna a 24 anni l’italo-ucraino Vitaly Markiv per concorso di colpa nell’omicidio di Andy Rocchelli. Il 3 novembre 2020, la Corte di Appello di Milano assolve Markiv per non aver commesso il fatto. Il 15 febbraio scorso si apprende che la Procura Generale di Milano presenterà ricorso in Cassazione contro la sentenza di secondo grado. Attualmente, dunque, la morte di Rocchelli resta priva di un colpevole, individuato con nome e cognome e condannato a espiare una pena. Di conseguenza, si sente dire, senza esecutori e mandanti, e senza una ricostruzione attendibile dei fatti. Ma le cose non stanno così. Succede, infatti, che la sentenza di primo grado, che condanna il militare ucraino, e quella di secondo, che lo assolve, poggiano sulla medesima interpretazione della vicenda. In effetti, nelle motivazioni della sentenza di appello, si afferma che “la ricostruzione dei fatti, così come emerge dalle prove processualmente utilizzabili e dalle considerazioni svolte porta questa Corte a concordare con le conclusioni della Corte d’Assise di Pavia, in merito alla provenienza dei colpi che hanno ucciso Rocchelli e ferito Roguelon e cioè dei colpi di mortaio sparati dalla collina Karachun ad opera dei militari dell’armata ucraina, dove erano nascosti i fotoreporter, il tassista e il civile”. Si legge ancora nelle motivazioni della sentenza che “essi erano quindi lì per svolgere la loro attività di fotoreporter. L’attacco ha avuto luogo senza alcuna provocazione e offensiva, né da parte loro né dei filorussi”. In particolare, la Corte di secondo grado ritiene che esistesse “l’intenzione di eliminare” il gruppo di giornalisti, perché per difendere quella postazione si faceva sì che “nella zona circostante nel raggio di uno o due chilometri nessuno potesse avvicinarsi”. La postazione in questione era costituita dalla collina dove si trovava installata un’antenna televisiva, considerata un bene prezioso dalla guardia nazionale ucraina. Perciò, se da un lato i giudici dicono che i fotoreporter si trovavano in una zona calda “sulla linea di tiro tra uno schieramento e l’altro”, allo stesso tempo precisano che “i giornalisti di guerra raggiungono proprio le linee del fronte per constatare e poi raccontare e informare l’opinione pubblica su ciò che avviene durante i conflitti bellici”. In conclusione, quindi, l’ordine di sparare fu “illegittimamente dato dai comandanti, perché in violazione delle norme che mirano alla protezione dei civili, ed eseguito dai militari della guardia nazionale e dall’esercito appostati sulla collina”. Tuttavia, l’aver accertato la dinamica della tragedia e l’aver raccolto prove sulle responsabilità di Vitaly Markiv, non sono fatti sufficienti a determinarne la condanna: i superiori e i commilitoni dell’imputato avrebbero dovuto essere ascoltati in procedimento connesso e, dunque, con l’assistenza di un legale. In assenza di questo, quelle dichiarazioni non sono state considerate utilizzabili. E non si è potuto provare “al di là di ogni ragionevole dubbio” che Markiv si trovasse in quel posto e a quell’ora, e che indirizzasse l’attività del mortaio contro il gruppo di reporter. Quindi, dalla combinazione delle due sentenze, quella di primo e quella di secondo grado, emerge un dato davvero frustrante. Lo dico come cittadino che ha seguito la vicenda con la massima attenzione possibile, e che trova doloroso immaginare come un simile sentimento possa tradursi nella condizione emotiva dei familiari di Rocchelli. La sua storia ha evidenziato, ancora una volta, quale possa essere il ruolo dei parenti di una vittima, qualora decidano di rendere questione pubblica la propria sofferenza e farne motivo di un’azione civile, oltre che giudiziaria, per raggiungere verità e giustizia. Una storia, quella del fotoreporter pavese, che sarebbe stata consegnata all’oblio e al silenzio, senza l’impegno di quella madre e di quel padre, che si sono fatti amorosi detective e tenaci investigatori, che si sono recati nei luoghi della morte del figlio, che hanno parlato con testimoni riluttanti, che hanno raccolto atti e documenti, che hanno interloquito con inquirenti e procuratori, e che mai si sono rassegnati a una verità di Stato (e di quello Stato ucraino). E accanto a loro, gli avvocati Alessandra Ballerini, Emanuele Tambuscio, Giuliano Pisapia, Margherita Pisapia, Pierluigi Tizzoni e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana e le associazioni dei fotoreporter, che hanno promosso la mobilitazione di tanti cittadini. D’altra parte, si deve all’attività di alcuni magistrati particolarmente competenti e al ROS dei carabinieri di Milano, se è stato possibile documentare lo scenario in cui si è consumato il dramma di Rocchelli, Mironov e Roguelon. Ora, quei genitori, quella moglie, quella sorella di Andy, sanno, sulla base di acquisizioni giudiziarie confermate da due sentenze, come si sono svolti i fatti. Conoscono il contesto, i protagonisti e le comparse, il clima e l’atmosfera, le fasi precedenti e quelle successive. Ma non sanno il nome del colpevole. Ne hanno individuato la divisa, il reparto di appartenenza, l’ideologia, i camerati e i protettori. Ma una sentenza di un tribunale di uno Stato di diritto ha assolto colui che veniva ritenuto l’assassino. Le regole di quello stesso stato di diritto impongono di rispettare la sentenza. E così hanno fatto, esemplarmente, i familiari di Andy Rocchelli. Resta l’amarezza, la terribile amarezza, per quella che non può non suonare come una ingiustizia. Il nostro Stato democratico riconosce l’innocenza di colui di cui non si è potuta provare la colpevolezza. Lo Stato ucraino, segnato da tentazioni autoritarie e pulsioni populiste, attraverso i suoi apparati e i suoi rappresentanti politico-istituzionali, ha fatto di tutto per occultare le prove che potessero portare all’individuazione del responsabile della morte di un fotografo inerme. Si parla molto di Europa in questi giorni - anzi, se ne parla sempre più spesso - e tutti rischiamo di oscillare tra disillusione e retorica. Per sottrarci all’una e all’altra, la politica dovrebbe operare affinché l’Europa sia davvero lo spazio comune delle libertà e dei diritti. Ma la politica, in questa vicenda, è stata completamente assente. E l’Europa non è stata in grado di ottenere dallo Stato ucraino, considerato un interlocutore speciale, il rispetto dei diritti fondamentali della persona e di quelle garanzie, previste dalle convenzioni internazionali, a tutela dei civili e, tra essi, giornalisti e fotografi, in occasione di scontri a fuoco. Da qui si dovrebbe ripartire, ricordando alcuni nomi e alcune età: Valeria Solesin, 28 anni, vittima dell’attentato al Bataclan di Parigi del 14 novembre 2015, Giulio Regeni, 28 anni, ucciso al Cairo nel febbraio del 2016, Antonio Megalizzi, 29 anni, morto a seguito dell’attentato a Strasburgo dell’11 dicembre 2018. E tanti altri, coetanei di Andy e di una magnifica generazione di giovani europei, che non volevano morire, ma che a tutti costi volevano vivere, assumendone il rischio. Il tesoro del Congo e le risposte da dare al sacrificio di Attanasio di Francesco Grillo Il Mattino, 1 marzo 2021 Non molti lo ricordano ma “Apocalypse Now”, uno dei film che, maggiormente, hanno segnato gli anni ottanta, è ispirato a “Cuore di Tenebra”, il racconto della risalita del fiume Congo che fece Joseph Conrad alla fine dell’Ottocento. In quel libro, il narratore cerca il commerciante di avorio Kurtz e tratteggia un parallelismo improbabile e geniale tra il centro dell’Occidente - Londra - e il cuore dell’Africa. Oggi come allora, il Congo riesce ad essere, contemporaneamente, il luogo nel quale più da vicino si toccano un passato ancestrale ed una strana porta sul futuro. Il cobalto è, infatti, il minerale più importante per realizzare quella transizione ecologica e digitale che il mondo sta cercando e per più della metà le sue riserve sono nella terra della Repubblica Democratica del Congo. Forse, questo contesto può aiutare a capire meglio la straordinaria avventura di Luca Attanasio conclusasi qualche giorno fa nella giungla, al centro del continente più antico. Duecento miliardi di dollari: questo è il valore ai prezzi attuali delle riserve di cobalto che il Congo - un Paese di cento milioni di abitanti e con una superficie superiore alla metà dell’intera Unione Europea- conserva nelle proprie miniere. In realtà, tuttavia, il patrimonio sul quale il popolo più povero della terra vive, potrebbe essere molto superiore. Il cobalto è, infatti, nonostante i tentativi della Tesla di ridurne la dipendenza, un materiale assolutamente indispensabile per le batterie ricaricabili di oggetti elettrici come i telefoni intelligenti, dei pacemaker cardiaci e delle automobili elettriche che, ormai, sembrano destinate a dover progressivamente soppiantare quelle alimentate da combustibili fossili. Il cobalto -proprio come le quotazioni della Tesla o delle Bitcoin - è, infatti, uno dei grandi trend finanziari che - al di là delle bolle speculative - possono cambiare il mondo: in soli due mesi dall’inizio dell’anno le sue quotazioni sono quasi raddoppiate alla borsa di Londra dove si scambiano metalli (Lme). È il cobalto - dice qualcuno - il petrolio del XXI secolo e, tuttavia, sopra il petrolio del futuro si continua a morire di fame e a sgozzarsi con il machete. Nel cuore dell’Africa si trovano più facilmente proiettili che acqua potabile. La Repubblica Democratica del Congo è praticamente nelle tenebre da quando il re Leopoldo se ne proclamò proprietario e l’unico periodo di relativa pace, come spesso avviene da queste parti, fu assicurato per 30 anni da un dittatore. Mobutu riuscì, persino, a portare a Kinshasa il più famoso incontro della storia del pugilato, quello tra George Foreman e Muhammad Alì. Ma dalla sua morte, il Paese è ininterrottamente in uno stato di guerra (qualche anno fa fu invaso dagli eserciti di ben sei nazioni confinanti) e di guerra civile tra etnie diverse: una specie di tutti contro tutti alla ricerca del Santo Graal del cobalto, ma anche del coltan, del rame e dei diamanti. Un po’ come succede nella lontana Libia dove avrebbero sufficiente petrolio per poter vivere bene e dove, invece, nessuno controlla ormai più niente. Nel Congo, però, come nel resto dell’Africa, il ritiro dell’Europa (e degli Stati Uniti) ha funzionato come quando sparisce un gas; il suo posto, da tempo, è stato occupato dalla nuova superpotenza. La Cina, del resto, aveva già il vantaggio di controllare il 90% dell’offerta dei minerali rari che fanno girare l’economia verde e digitale ed è anche grazie ad un vantaggio di esperienza, che una multinazionale controlla da Zhejiang le miniere nel sud del Paese. Miserabili sono le condizioni di vita dei congolesi (il reddito medio non arriva a due dollari al giorno), ma ancora peggiori sono quelli dei lavoratori nelle miniere che chiamano scavatori (creuseurs nella lingua dei primi colonizzatori): gli scavatori umani sono quasi tutti bambini e i loro corpi - nella narrazione che ne fanno gli avvocati che hanno lanciato azioni legali nelle corti federali degli Stati Uniti contro i giganti che usano il minerale nei processori-raccontano di indicibili sofferenze. Rimane, tuttavia, la domanda che si poneva ieri, da queste colonne, Romano Prodi e che certamente si sarà posto Luca Ananas io mille volte. Cosa fare? Cosa possiamo fare per consolidare processi di sviluppo che ci sono anche se non stabili, e di democratizzazione che sono sempre fragili? Una strada è quella dell’aiuto cercato, del resto, dei programmi del World Food Program che Attanasio accompagnava nel cuore della giungla: su questo fronte, tuttavia, sarebbe efficiente valorizzare, ancora di più, le organizzazioni non governative di medici e volontari che in Africa ci vanno anche a prescindere dalla protezione dei caschi blu. Certamente c’è anche l’assistenza tecnica, nessuno ne fa tanta come la Commissione Europea, a governi che cercano di costruire infrastrutture minime. E, tuttavia, ritengo che il vero banco di prova per l’Europa del futuro sia quello di trovare leve per una “messa in sicurezza” senza la quale l’energia di tanti può finire ingoiata dalle tenebre. Nessuno può pensare di ripetere il tentativo di esportare la democrazia finito male qualche anno fa nei deserti del Medio Oriente. Ma l’Europa deve poter affiancare i governi più coraggiosi anche con i propri apparati di polizia e di intelligence; e dobbiamo, invece, isolare commercialmente quelli che, invece, si rendono responsabili di abusi su larga scala. Il futuro delle nostre sicurezze e delle carte dei diritti umani non si costruisce solo con le retoriche e le conferenze più o meno inutili. Difendere valori e noi stessi significa prendersi rischi ed assumere decisioni. Credo che solo così si possa onorare il coraggio di chi rischia la vita nei luoghi, dove la vita è nata. In fondo, è nelle ore più buie che si riescono a immaginare prospettive nuove. Guterres: “Porterò davanti alla giustizia gli assassini di Attanasio e Iacovacci” di Paolo Mastrolilli La Stampa, 1 marzo 2021 Il segretario generale dell’Onu: “Serve una riforma dell’organizzazione, entro il 2021 un’alleanza globale per raggiungere la neutralità climatica”. Antonio Guterres prende questo impegno: “Condurremo un’analisi approfondita della sicurezza”, sulla missione in cui sono stati uccisi Attanasio, Iacovacci e Milambo. Quindi il segretario generale dell’Onu promette: “Lavoreremo fianco a fianco con le autorità congolesi e italiane, mentre conducono le indagini penali per garantire che i responsabili di questo crimine siano assicurati alla giustizia”. Cosa sa l’Onu dell’attacco e cosa intende fare? “Ho condannato in modo inequivocabile il brutale attentato nella Repubblica democratica del Congo alla missione congiunta, che ha visto la brutale uccisione dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci, e del nostro collega, Mustapha Milambo, autista di lunga data per il Programma alimentare mondiale. Le mie condoglianze vanno alle loro famiglie, amici e colleghi in tutto il mondo. Condurremo un’analisi approfondita della sicurezza di questo incidente, e lavoreremo fianco a fianco con le autorità congolesi e italiane, mentre conducono le indagini penali per garantire che i responsabili di questo crimine siano assicurati alla giustizia”. Nella sua ultima enciclica “Fratelli Tutti”, papa Francesco discute la riforma dell’Onu. Dice che “è necessario impedire che questa Organizzazione venga delegittimata, poiché i suoi problemi e le sue carenze possono essere affrontati e risolti congiuntamente”. Qual è la sua visione del futuro e della riforma dell’Onu? “Sono convinto che le Nazioni Unite siano l’unica organizzazione che può aiutare a riunire i Paesi del mondo per affrontare insieme le principali minacce che fronteggiamo, dal Covid-19 al cambiamento climatico, al sostegno finanziario verso le nazioni che soffrono. Ma anche la nostra organizzazione ha bisogno di una riforma. Abbiamo bisogno del multilateralismo in cui si sentano voci diverse. Multilateralismo che produca risultati, e una riforma delle strutture di governance basata sulle realtà del presente, e orientata verso il futuro, non bloccata nel mondo di 75 anni fa. Gli Stati membri devono concentrarsi sulla riforma del Consiglio di sicurezza, che va al cuore della credibilità dell’Onu. Ho avvertito che stiamo affrontando una crescente ondata di nazionalismo, in un momento in cui dovremmo concentrarci sulle soluzioni multilaterali ai problemi che fronteggiamo. Insieme a papa Francesco, voglio che i governi e i popoli del mondo lavorino in armonia tra loro come una famiglia di nazioni; questo è l’unico modo in cui saremo in grado di affrontare i problemi che abbiamo davanti e risolverli”. Il presidente Biden è tornato nell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, ma molto tempo è stato perso. Lei ha affermato che “ogni Paese dovrebbe migliorare i propri contributi determinati a livello nazionale, con largo anticipo rispetto alla Cop26 del prossimo novembre a Glasgow”. Cosa dovrebbero fare gli Stati membri allo scopo di intensificare gli sforzi per affrontare l’emergenza del cambiamento climatico, e porre fine a quella che lei ha definito “la guerra suicida con il nostro pianeta”? “Quest’anno sarà decisivo per affrontare l’emergenza climatica globale. Il nostro obiettivo centrale nel 2021 è costruire una coalizione globale per la neutralità delle emissioni di carbonio entro il 2050. Ogni Paese, città, istituto finanziario e azienda deve adottare piani credibili e ambiziosi, per la transizione a zero emissioni nette entro il 2050, e intraprendere azioni decisive ora per mettersi sulla retta via. I Paesi devono rivedere i loro contributi determinati a livello nazionale prima della Cop26 di Glasgow, per ridurre le emissioni globali di gas serra del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2010. E dobbiamo accrescere le ambizioni su tutta la linea: nella mitigazione, ma anche nell’adattamento e nella finanza. Questi sono i passi che esorto tutte le nazioni a compiere, mentre ci muoviamo lungo la strada per Glasgow. Devo rendere onore alla leadership costante e vitale del Santo Padre, in particolare attraverso la sua fondamentale enciclica “Laudato Sì”, nella lotta al cambiamento climatico e alle ingiustizie che esso comporta”. Cosa dovrebbero fare gli Stati membri per assicurare che i vaccini contro il virus Covid-19 siano, come lei ha detto, “un bene pubblico globale disponibile per tutti, ovunque” e per affrontare “gli aspetti devastanti socio-economici, umanitari e dei diritti umani di questa crisi”? “La cosa che dobbiamo fare più di tutto è trattare i vaccini come un bene pubblico globale, piuttosto che abbracciare il nazionalismo dei vaccini, come abbiamo visto fare da parte di troppi governi negli ultimi tempi. Come ho avvertito gli Stati membri, un divario immunitario globale mette tutti a rischio. Se il virus continuerà a circolare nel Sud del mondo, inevitabilmente muterà e metterà a rischio più persone, e diventando pronto a tornare a perseguitare il Nord del mondo. Trattare il vaccino come un bene pubblico globale non è solo la cosa giusta da fare moralmente, ma è anche nell’interesse personale di tutti. E il nazionalismo del vaccino è anche un fallimento economico, oltre che morale. L’ultima ricerca della Camera di Commercio Internazionale mostra che, senza il sostegno al mondo in via di sviluppo, questa crisi potrebbe costare all’economia globale fino a 9,2 trilioni di dollari. Ma la pandemia è più di un semplice problema di salute. Come ho detto, è chiaro che questa crisi si è rapidamente trasformata in una crisi economica e sociale, e anche in una crisi dei diritti umani. La pandemia ha rivelato ciò che abbiamo sempre saputo, ma ora è molto chiaro: l’interconnessione della nostra famiglia umana”. La questione delle migrazioni è stata al centro della sua azione sin da quando era Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, tuttavia rimane un’emergenza, in particolare nel mar Mediterraneo. Cosa pensa del “Pact on Migration and Asylum”, il Patto sulla migrazione e l’asilo approvato di recente dalla Commissione europea? “È fondamentale che tutti gli Stati, che siano Paesi di accoglienza e di transito, o Paesi d’origine, adottino misure per garantire che i rifugiati e i migranti siano trattati nel rispetto della loro sicurezza e dignità. Loro sono noi; sono la nostra comunità, e chiunque di noi potrebbe diventare un rifugiato o un migrante, se le nostre circostanze cambiassero. È anche chiaro che migranti e rifugiati sono stati particolarmente colpiti dall’impatto del virus. Nel complesso, la migrazione deve essere vista e gestita come un saldo netto positivo per le economie e le società, sia in termini di Paesi di origine che di Paesi di destinazione”. Cosa si dovrebbe fare per stabilizzare la Libia, epicentro di pericolose rotte migratorie irregolari dall’Africa all’Europa, anche alla luce dei recenti progressi nel dialogo politico? “Per quanto riguarda la Libia, abbiamo avuto una svolta recente nel nostro lavoro per ripristinare la stabilità in quel Paese. Ho recentemente parlato con il primo ministro e il presidente del Consiglio di presidenza designati, e ho augurato loro ogni successo nel mandato di guidare il Paese per il resto della fase preparatoria, che porta alle elezioni nazionali del 24 dicembre 2021. Per consolidare questi risultati, anche il cessate il fuoco a livello nazionale deve essere rispettato e tutti i combattenti stranieri devono lasciare la Libia. Accolgo con favore gli impegni assunti dalla nuova autorità esecutiva di formare un governo che rifletta il pluralismo politico, la rappresentanza geografica, e il suo impegno a includere non meno del 30% di donne in posizioni dirigenziali, nonché garantire la partecipazione dei giovani. Dopo anni di conflitto, il popolo libico merita un’opportunità per ricostruire le proprie vite e il proprio futuro. I suoi leader, e tutti gli Stati membri, devono mettere al primo posto l’interesse delle donne, dei bambini e degli uomini libici” Le toghe contro Renzi sull’Arabia, Bonetti: “Ma Riad sta aprendo sui diritti” di Giuseppe Alberto Falci Corriere della Sera, 1 marzo 2021 Magistratura democratica: svende l’Italia. Anche Meloni all’attacco. La ministra lo difende. Non solo la politica, adesso le critiche arrivano anche dalla magistratura. La rivista della corrente di sinistra delle toghe, Magistratura democratica, si chiama Questione Giustizia e ha appena pubblicato un articolo intitolato “Legittimare un despota per un piatto di lenticchie”: si parla dei rapporti tra Matteo Renzi e il regime di Riad. “Si è assistito a una svendita a prezzi di saldo non dell’immagine di Matteo Renzi ma di quella del nostro Paese - si legge nel trimestrale - messo in evidente imbarazzo dalla sconcertante performance televisiva di un suo esponente politico di primo piano”. La difesa dell’ex premier è affidata a Elena Bonetti, ministra renziana alla Famiglia: negli studi di SkyTg24 prende le parti del senatore di Rignano, finito sotto accusa per i suoi rapporti con il regime di Riad. “Renzi - per la ministra - ha chiarito con puntualità le questioni poste, non si è sottratto alle responsabilità”. E ancora, sempre secondo Bonetti, “siamo consapevoli di come l’Arabia Saudita, Paese del G20, sia un baluardo sul fronte della lotta al terrorismo e abbia iniziato un allargamento dei diritti”. L’ex premier e le sue truppe non intendono retrocedere, quindi, anzi rivendicano i rapporti con il principe Mohammad bin Salman, indicato in un report della Cia come il mandante dell’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi. Solo un mese fa Renzi aveva promesso che una volta conclusa la crisi di governo si sarebbe materializzato davanti alla telecamera e avrebbe risposto alle domande dei giornalisti. Ma non c’è stata alcuna conferenza stampa: resta agli atti una e-news nella quale Renzi di fatto si auto-intervista. Non a caso impazzano le ironie sui social, l’hastag #cinerenzi è nei trend topic. E il diretto interessato come si difende? Pubblica sui social una foto di sé in bicicletta e non sembra intenzionato né a un passo indietro né tantomeno a un mea culpa: “Oggi è una giornata bellissima, con un sole che scalda il cuore. Non è il giorno giusto per fare polemica o per arrabbiarsi”. Va da sé che la discussione non si placa. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, attacca: “L’intelligence Usa collega direttamente l’atroce omicidio di Khashoggi in Turchia alla famiglia reale saudita e in particolare al principe ereditario Mohammad bin Salman, che avrebbe dato l’ordine di sequestrarlo e farlo a pezzi per le critiche che muoveva al regime saudita. Si tratta dello stesso principe elogiato servilmente da Matteo Renzi come fautore di un nuovo Rinascimento”. Pd, Leu e M5S invitano il leader di Italia viva a fare chiarezza, non ritenendo sufficienti le risposte che lo stesso Renzi ha fornito, sabato sera, con la e-news. Dalle parti del Nazareno interviene Andrea Romano, portavoce di Base riformista, la corrente guidata da Lorenzo Guerini e Luca Lotti: “Ho atteso la risposta per commentare le sue recenti dichiarazioni sul regime saudita. Una risposta che è venuta sabato e che rende ancora più grave, se possibile, l’irresponsabilità politica dell’aver definito “rinascimentale” un regime ferocemente oppressivo e l’irresponsabilità morale e istituzionale del ricevere un compenso economico da una dittatura straniera mentre si svolgono le funzioni di senatore della Repubblica italiana”. Prende di mira l’ex premier anche Nicola Fratoianni, leader di Sinistra italiana: “Caro Renzi, le domande cui devi rispondere hanno a che fare certo con una questione morale importante ma anche con una questione di sicurezza nazionale”. Stati Uniti. Software difettoso sta tenendo in prigione ingiustamente centinaia di detenuti di Alessandro Vinci Corriere della Sera, 1 marzo 2021 Lo hanno rivelato a una radio di Phoenix alcuni insider dell’agenzia governativa che gestisce le carceri dello Stato (che però respinge le accuse). Nel mirino il programma Acis. Delegare alla tecnologia mansioni di grande responsabilità è un’arma a doppio taglio: finché tutto funziona alla perfezione gli errori si azzerano, in caso contrario le conseguenze possono essere molto pesanti. Loro malgrado, ne sanno qualcosa centinaia, forse migliaia di detenuti nelle carceri dell’Arizona, negli Stati Uniti, che negli ultimi mesi sarebbero rimasti ostaggio di un software per il calcolo delle pene difettoso. La denuncia arriva dalla stazione radio di Phoenix Kjzz, alla quale alcuni insider dell’Arizona Department of Corrections (Adc), l’agenzia governativa che gestisce le dieci case circondariali presenti nello Stato, hanno rivelato lunedì che numerosi impiegati sono attualmente al lavoro, armati di carta e penna, per risolvere il problema effettuando i calcoli in prima persona. Nessuno ha mai mosso un dito - Tutto nasce da una legge promulgata due anni fa dal Senato dell’Arizona in base alla quale alcune tipologie di carcerati per droga, in caso di completamento di determinati programmi di formazione, scolarizzazione o di recupero, possono riacquisire la libertà dopo aver scontato il 70% della pena originaria. Ebbene: il software utilizzato dall’Adc, denominato Acis, secondo gli informatori non solo non sarebbe in grado di identificare i soggetti idonei a partecipare ai programmi, ma non riuscirebbe neppure a quantificare il corretto numero di crediti accumulato dai partecipanti, finendo così per negare loro il diritto a usufruire dello sconto previsto dalla norma. “Lo sapevamo dal primo giorno”, hanno raccontato le fonti. Ma nessuno ha mai mosso un dito per risolvere il problema: “Ci venne detto: “Ormai siamo andati troppo avanti, troppi soldi sono stati investiti, non possiamo tornare indietro adesso”. Un modo per nascondere le costose inefficienze del sistema, insomma. Così, stando sempre a quanto dichiarato, dalla sua implementazione (novembre 2019) ad oggi il sistema avrebbe fatto registrare ben 14 mila errori: qualcosa di inaccettabile, a fronte degli oltre 24 milioni di dollari fin qui spesi per il suo mantenimento. Accuse respinte - La reazione dell’Adc non si è fatta attendere: prima ha oscurato su tutti i suoi computer il sito di Kjzz, poi ha dichiarato alla stampa che sì, effettivamente Acis non è in grado di completare i calcoli “incriminati”, ma che tutti i dati necessari vengono inseriti nel software “a mano” dai dipendenti. In questo modo l’agenzia sarebbe stata capace di iscrivere ai programmi di recupero 733 detenuti inizialmente non conteggiati. A giudizio gli insider, tuttavia, una simile quantità “non scalfisce nemmeno la superficie del numero totale dei soggetti potenzialmente idonei”. Quanto invece alle scarcerazioni anticipate, che secondo l’Arizona Mirror dal 2019 ad oggi avrebbero dovuto riguardare circa 7 mila individui, l’Adc sostiene di “non aver ritardato il rilascio di nessun detenuto”. In mancanza di un’approfondita indagine della magistratura, impossibile al momento stabilire da che parte stia la ragione. Intanto ci si augura che tali sospette criticità non finiscano per riguardare altri Stati. L’infrastruttura di Acis, infatti, è utilizzata anche nelle prigioni del Maryland e dell’Indiana. Urge fare chiarezza. Il giorno più nero della Birmania. La polizia uccide 18 manifestanti di Sara Perri La Stampa, 1 marzo 2021 Drammatica escalation della repressione: granate, spari e bastonate sulla folla inerme. Scomparsa Aung San Suu Kyi. Dal colpo di Stato a oggi sono già trenta le vittime tra i civili, oltre mille gli arresti. “Qualcuno di noi morirà, ma alla fine vinceremo”. La domenica di Soe S. è iniziata così in Birmania ed è finita con una luna rossa sul cielo di Yangon e una lista di almeno diciotto morti confermati dall’Ufficio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. Il giro di vite era partito nelle zone etniche, suggerendo che la capitale commerciale Yangon potesse rimanere la vetrina delle manifestazioni ironiche e variopinte iniziate il primo febbraio contro il colpo di Stato. Ieri anche la capitale commerciale è stata scenario di scene di violenza catturate da foto e filmati estremamente crudi e diffusi in tempo reale. In serata, l’Associazione per l’Assistenza dei Prigionieri in Birmania ha aggiornato la cifra degli arresti a oltre 1100, e il totale dei morti dall’inizio delle proteste a più di 30. Eppure vittime e feriti non hanno fermato nessuno, né nelle grandi città, né nei cristallini arcipelaghi a Sud, e tantomeno nelle regioni al confine cinese già afflitte da decennali conflitti, come il Kachin. Qui, una suora cattolica si è messa davanti ai poliziotti antisommossa per farli desistere, unendo le mani; altrettanto hanno fatto monaci buddisti in altri angoli del Paese, sedendosi a gambe incrociate davanti agli scudi della polizia. Piena solidarietà ai manifestanti è stata espressa anche dalla comunità musulmana, inclusa la minoranza Rohingya espulsa in Bangladesh. Le preghiere non sono bastate. Lacrimogeni, granate, spari, bastonate: non è mancato nulla nella drammatica escalation della repressione dell’esercito birmano contro manifestanti perlopiù pacifici che chiedono il ripristino del governo civile di Aung San Suu Kyi e la fine della dittatura del generale Min Aung Hlaing. Quella di ieri è stata la giornata più violenta, con almeno cinque volte più morti che nelle settimane precedenti. Ci sono anche giovanissimi come il 23enne Nyi Nyi Aung Htet Naing, che lavorava come ingegnere informatico e la cui morte ha lasciato senza parole i colleghi. L’intera scena del suo corpo riverso a terra incapace di muoversi e infine trasportato da un gruppo di coraggiosi amici è stata immortalata da Myanmar Now, un media locale, ed è circolato su Twitter e Facebook per tutta la giornata. Un giornalista di Myanmar Now è stato poi arrestato. “La nostra anima sarà intrisa del sangue dei nostri compagni. Rosso come non mai. Uniti”, scrive la 22enne Yin Moe Aye per ricordare i suoi amici caduti nella capitale commerciale Yangon. Qui le manifestazioni sono state animate soprattutto dalle risorse digitali della generazione Z, ma dietro c’è tutta l’intensa eredità delle lotte dei padri e dei nonni. “Sono sceso in piazza per voi”, ha detto un signore di 65 anni ai giovani che lo salutavano fuori dal camioncino della polizia su cui veniva portato via: “Non voglio che anche la vostra generazione viva sotto una dittatura”, avrebbe detto secondo quanto postato su Facebook da un testimone. E fra chi non scende per strada c’è chi si occupa di far conoscere le proteste sui social: “Io distribuisco snack e acqua ai manifestanti e se la situazione si fa pericolosa cerco di dar loro riparo”, ci dice ancora Yin Moe Aye su Whatsapp. I cittadini hanno formato un fronte solidale ma senza leadership contro i militari che ha bruscamente interrotto l’assaggio di democrazia iniziato nel 2015 con le prime elezioni libere dopo cinquant’anni di governo militare. Intanto la ex leader Aung San Suu Kyi, secondo quanto riportato sabato da Myanmar Now, è stata portata via dalla residenza nella capitale Naypyitaw dove si trovava agli arresti domiciliari e nemmeno i suoi colleghi di partito sanno dove si trovi. Mentre emergono nuovi eroi della resistenza, dalla prima vittima 20enne, Mya Thwe Thwe Kaing, all’ambasciatore all’Onu Kyaw Moe Tun, tutti sembrano determinati a subire le conseguenze delle proteste, anche quelle economiche. Piuttosto fredda è stata anche la reazione nei confronti del colpo di Stato dei vicini dell’area Asean, Associazione di Stati del Sudest asiatico. Fioccano invece condanne da Unione Europea, Stati Uniti e Onu. “Condanniamo con forza la crescente violenza contro i manifestanti in Myanmar e chiediamo ai militari di interrompere immediatamente l’uso della forza contro i manifestanti pacifici”, ha detto ieri Ravina Shamdasani, portavoce dell’Ufficio Diritti Umani Onu in un comunicato. L’ambasciata americana a Yangon ha fatto sapere di avere “il cuore spezzato” alla notizia del gran numero di vittime. L’Unione Europea annuncia che prenderà presto “misure in risposta a questi sviluppi”. Fra i birmani cresce però la preoccupazione che alle parole, o alle sanzioni, non segua alcun intervento più consistente. “Per favore, aiutateci”, in molti scrivono sui social appellandosi direttamente alla comunità internazionale.