L’illusione ergastolo. Flick: “Pena costituzionalmente illegittima” di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 marzo 2021 Il 24 marzo la Corte costituzionale deciderà sul “fine pena mai” riservato agli ergastolani ostativi che non collaborano. Parla l’ex ministro di Giustizia e presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick. “L’ergastolo è una pena costituzionalmente illegittima; è legittima nella esecuzione solo attraverso la valvola di sicurezza della liberazione condizionale. Al contrario, la reclusione è una pena legittima nella proclamazione ma illegittima nella esecuzione soprattutto a causa del sovraffollamento in carcere. In questo periodo, al problema del mancato rispetto della personalità, la pandemia aggiunge quello della salute del detenuto e pubblica. Il sovraffollamento in carcere rischia di far prevalere il diritto alla sicurezza (illusoria) della collettività su quello della salute del singolo perché lo obbliga ad un contatto che favorisce il contagio, è vietato per chi vive fuori dal carcere ed è incostituzionale”. Giovanni Maria Flick, ex ministro di Giustizia (governo Prodi I) e presidente emerito della Corte costituzionale, spiega al manifesto quali sono i nodi da sciogliere da parte dei giudici costituzionali che la prossima settimana - il 23 e il 24 marzo - risponderanno alla questione di legittimità sollevata dalla Cassazione sul “fine pena mai” riservato a quei 1250 ergastolani ostativi (i due terzi circa dei 1.790 condannati a vita, secondo i dati di Nessuno tocchi Caino) che non hanno alcuna speranza di tornare alla vita libera perché hanno scelto di non collaborare con la giustizia. Professore, ad ottobre scorso la Consulta ha giudicato incostituzionale rifiutare a priori il permesso-premio agli ergastolani ostativi che non collaborano con la giustizia. Ha trasformato, in sostanza, la preclusione da assoluta a relativa, dando l’ultima parola al giudice di sorveglianza che dovrà valutare in concreto caso per caso se c’è stato ravvedimento da parte del condannato. Partendo da questa pronuncia, quali saranno gli ulteriori nodi da sciogliere da parte della Corte costituzionale? Nel caso deciso allora, la presunzione che continuino i legami del condannato con il suo contesto criminale, derivante dalla mancata collaborazione, è stata ritenuta accettabile purché sia possibile superarla con altri elementi. La prossima settimana, il problema sarà stabilire se quella conclusione possa valere anche per la liberazione condizionale. Nella motivazione della sentenza di ottobre la Corte ha ricordato che stava parlando specificamente soltanto del problema dei permessi premio. Dunque non c’è alcuna relazione tra i due quesiti? Le due questioni possono essere trattate allo stesso modo ritenendo che in entrambi i casi una presunzione assoluta e superabile solo attraverso la collaborazione sia in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione. Al contrario, la presunzione che allora è stata ritenuta vincibile per i permessi premio potrebbe non essere considerata più tale nel caso della liberazione condizionale. Ma potrebbero esserci molte altre soluzioni. Staremo a vedere; non è mio compito fare previsioni su cosa deciderà la Corte. L’art. 27 della Carta dispone che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Le chiedo allora se la collaborazione con la giustizia è la sola prova del “sicuro ravvedimento”, considerato a torto o a ragione condizione necessaria per avviare alla rieducazione il condannato... La collaborazione di giustizia, come la Corte ha già sottolineato con la precedente pronuncia, può significare tutto e il contrario di tutto. Si può decidere di non collaborare per paura, pur essendosi ravveduti; oppure al contrario di collaborare per conquistarsi la benevolenza dei giudici, pur non avendo interrotto i rapporti criminali. È un atteggiamento equivoco. Insomma, il sistema penitenziario costituzionale non consente l’introduzione di preclusioni assolute e vincibili soltanto attraverso un determinato comportamento. La stessa logica si potrebbe applicare anche al 41bis: se non collabori ti aspetta il carcere duro. Tutto questo è inoltre in rotta di collisione con il principio del nemo tenetur se detegere, “nessuno è obbligato ad autoaccusarsi”. Un principio fondamentale del nostro sistema penale. Professore, la Consulta però si è già espressa sull’ergastolo ostativo nel 1993 (sentenza n°306), nel 2001 (n°273) e nel 2003 (n°135) rigettando sempre l’incostituzionalità. Perché questa volta il verdetto potrebbe essere diverso? Perché pian piano si è arrivati ad evidenziare che la nostra Costituzione si fonda sulla dignità. Ad esempio la Corte è arrivata a riconoscere una serie di spazi - i cosiddetti residui di libertà - che devono essere compatibili con la restrizione della libertà personale. La Corte è andata via via aprendosi progressivamente sul tema carcerario, fino alle recenti visite dei giudici costituzionali in carcere e ad alcune decisioni importanti (ad es. quella sulla proporzionalità della pena). Molta strada è stata fatta anche grazie alle decisioni della Corte di Strasburgo? Direi di sì, perché l’orientamento dominante nella Cedu è quello di verificare periodicamente se c’è stato un progresso nel percorso di rientro in società del condannato attraverso la pena carceraria. L’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo proibisce la tortura e ogni trattamento inumano o degradante. La mancanza di speranza nel futuro rientra in questo tipo di trattamenti? Speranza e fiducia sono i due pilastri che devono guidare il percorso di chi è recluso in carcere. Il condannato deve non perdere la speranza - sapendo che il futuro dipende anche da lui - e deve avere fiducia nel significato e nel risultato della pena. Sembra un paradosso ma non lo è. E questo è sancito nella nostra Costituzione, perché l’articolo 3 garantisce pari dignità sociale a tutti, compresi i “diversi” come i detenuti. Ecco perché, come molti e come la stessa Ministra, inizio a chiedermi se il carcere non debba essere sostituito quando possibile con altre pene non meno efficaci e drasticamente confinato ai soli casi estremi di violenza e di aggressività non altrimenti controllabili. La stessa Corte negli anni, con una serie di sentenze che hanno ampliato il suo campo visuale, è passata dal considerare tutte le funzioni della pena sullo stesso piano al reputare come prevalente, in linea di massima, la tendenza alla rieducazione. Che non è una rieducazione morale, ma la ri-responsabilizzazione. Infatti la giustizia sta cercando di evolversi verso un sistema non di tipo vendicativo o retributivo, ma di tipo riparatorio, che fra l’altro permetta di riaprire un dialogo tra la vittima e l’autore del reato. Secondo alcuni pm antimafia, magistrati che da anni vivono sotto scorta, eliminare il 41 bis o l’ergastolo ostativo per gli associati alle cosche che non hanno mai collaborato con la giustizia è un modo per indebolire la lotta alle mafie. Cosa ne pensa? Dobbiamo decidere a cosa dare la prevalenza: alla tutela della dignità o a quella della sicurezza, nell’illusione che basti chiudere i “diversi” in carcere per assicurarsi la sicurezza? La risposta non è scontata, neppure in Paesi che si considerano civili. Finché l’ergastolo ostativo era una misura eccezionale per pochissime persone, decisa all’indomani delle stragi di mafia del ‘92; era comprensibile. Oggi però quella degli ergastolani ostativi è diventata una categoria. Ma è una libera scelta, quella del detenuto tra il carcere duro o a vita e la collaborazione con la giustizia? Questo argomento la Corte lo ha toccato ma non lo ha approfondito nella sentenza precedente. Si potrebbe dire che c’è bisogno di un approccio più scientifico anche nel sistema giustizia? Mah, io credo che la giustizia non abbia tanto bisogno di scienza o di tecnologia, che pure possono apportare grandi benefici all’organizzazione e all’amministrazione. La giustizia ha invece bisogno di cultura, di coscienza, di solidarietà e di eguaglianza: tutti valori costituzionalmente significativi. Da oltre un anno in isolamento in una cella liscia. Cartabia, aiutaci tu di Rita Bernardini Il Riformista, 19 marzo 2021 Solo il letto e un armadietto senza ante, gli avevano tolto pure la tv. Ha contatti soltanto con gli agenti. È questo il modo migliore di trattare un detenuto difficile? Una cella del carcere di Badu e Carros a Nuoro. Liscia, con unicamente un letto e un armadietto senza ante. Sta lì da più di un anno un uomo di quarant’anni in regime di sorveglianza particolare previsto dall’art. 14-bis dell’Ordinamento penitenziario nei confronti dei detenuti che hanno comportamenti tali da compromettere l’ordine e la sicurezza negli istituti penitenziari. Il tutto avviene su richiesta della polizia penitenziaria a cui segue una decisione/disposizione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La misura può essere disposta per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile anche più volte in misura non superiore ogni volta a tre mesi. Di proroga in proroga il detenuto in questione è sottoposto a questo tipo di sorveglianza dal gennaio del 2020. L’ultima è stata disposta il 2 febbraio di quest’anno e dunque terminerà all’inizio di maggio, ma non è detto che non sarà ulteriormente prorogata. Il detenuto si trova nei fatti in isolamento e le uniche persone che incontra sono gli agenti. Già perché non può fare nemmeno i colloqui con i familiari perché sua moglie e i suoi figli vivono in Campania e, oltre alle limitazioni dovute al Covid, non possono permettersi il viaggio per arrivare sull’isola. I difensori hanno chiesto al Dap almeno di trasferirlo sul continente per agevolare i rapporti con la famiglia tenuto conto che due dei suoi figli minori sono anche documentatamente invalidi. Niente. Diniego. Come se tutto ciò non bastasse, il carcere lo ha privato per tutto questo lungo periodo di isolamento anche del televisore. C’è voluto l’intervento del Tribunale di sorveglianza di Sassari che con un’ordinanza datata lo scorso 25 febbraio ha accolto il reclamo del detenuto. Il carcere ha fatto un po’ di resistenza ma alla fine, a nove giorni di distanza dall’ordine della magistratura, il televisore glielo ha dato. Interessante è leggere alcuni passaggi di questa ordinanza ragionata e motivata. Il Tribunale di sorveglianza per esempio è costretto a precisare che in regime di sorveglianza particolare “non sono consentite privazioni che non trovino alcuna giustificazione con il comportamento del detenuto oppure, ovviamente, che abbiano una mera finalità afflittiva” e che “nel caso in esame non è dato conoscere il motivo per il quale dalla cella sia stata asportata la televisione, solitamente ancorata con idonei supporti ad una parete, sicché sulla base degli atti deve ritenersi che questa sia una privazione del tutto immotivata e non funzionale alle esigenze di sicurezza”. Con la saggezza del buon padre di famiglia il Tribunale rileva inoltre che “la privazione dell’apparecchio TV e della possibilità che questo offre al detenuto di occupare del tempo in modo anche interessante e rasserenante, può contribuire a rafforzare nel detenuto, privo di sostanziali interessi, risentimenti e recriminazioni che ben possono, alla lunga, sfociare in ulteriori atteggiamenti irrispettosi e violenti nei confronti del personale della Polizia penitenziaria”. Siamo di fronte ad un detenuto molto difficile con un passato da dipendenza da cocaina I magistrati del Tribunale sembrano suggerire che forse quello non è il modo più efficace di trattarlo. Non so quante volte sia stato visitato da uno psicologo o dal Direttore dell’istituto anche se le regole penitenziarie lo prevedono. Se lo chiede e lo chiede al Ministro della Giustizia il deputato Roberto Giachetti che sulla vicenda ha presentato un’interrogazione parlamentare. Come un cane lo trattano, dice la moglie, che per ben tre volte ha sporto denuncia per pestaggi e maltrattamenti nei confronti del marito. Sarà la giustizia a verificare se le denunce siano fondate o meno, certo è che quest’uomo da più di un anno non ha contatti umani significativi se si escludono quelli con gli agenti. Aggiungo che è costretto a portare un pannolone per le perdite di sangue dovute alle emorroidi per le quali avrebbe dovuto essere operato già due anni fa. Immaginatelo in una cella liscia, in isolamento e con il disagio dovuto alla malattia. Della situazione ho personalmente interessato il Dap nella persona del Capo, il Dott. Bernardo Petralia. Nessuna risposta, nemmeno di attestazione di ricevuta dell’email inviata la mattina dell’il marzo. Per coincidenza, proprio due giorni prima la nostra Ministra della giustizia Marta Cartabia, intervenendo al XIV Congresso delle Nazioni Unite a Kyoto, aveva richiamato i “Mandela rules”, che stabiliscono regole chiarissime sul divieto di isolamenti prolungati. Chissà se sia conosciuta all’interno dell’Amministrazione penitenziaria la relazione che il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura ha redatto a seguito della visita fatta in Italia nel 2019 e dedicata ai vari tipi di isolamento che vengono messi in pratica in Italia, fra cui –ricordiamolo - quello del 41-bis. A proposito del regime di sorveglianza particolare (14-bis OP) scrive di “nutrire seri dubbi riguardo alla sua attuazione pratica, in particolare la mancanza di contatti sociali e le severe restrizioni imposte ai detenuti e la mancanza di un supporto psicologico proattivo e regolare. Inoltre, la durata potenzialmente indefinita di tale misura significa che questi detenuti sono soggetti a periodi prolungati di isolamento”. Marta Cartabia, aiutaci tu. Le carceri vanno svuotate, il resto è demagogia di Associazione Yairaiha Onlus lanuovacalabria.it, 19 marzo 2021 Il carcere dovrebbe essere uno strumento del tutto eccezionale considerando la sua comprovata inutilità e, per fortuna, la neo ministra della giustizia, Marta Cartabia, lo ha evidenziato chiaramente sottolineando la assoluta necessità di superare l’idea di carcere come unica risposta al reato. Appare pertanto quasi del tutto anacronistico evidenziare le criticità legate al sovraffollamento e alle condizioni disumane in cui versano i detenuti nelle nostre carceri e, contestualmente, proporre come soluzione salvifica una vaccinazione massiva dei detenuti mentre paesi che non brillano in generale per la tutela dei diritti umani (ad esempio l’Iran) già un anno fa, a inizio pandemia, adottavano provvedimenti deflattivi sostanziali. Questo aspetto non dovrebbe essere assolutamente motivo di discussione. Le misure alternative al carcere esistono e servono proprio a far deflettere il tasso di sovraffollamento. Allo stesso tempo sono presenti nel nostro ordinamento penitenziario delle disposizioni normative precise per tutelare la salute e la dignità dei detenuti. Quelle stesse disposizioni che avrebbero potuto evitare molte delle morti da Covid registrate in questi ultimi mesi negli istituti carcerari che oggi si trovano ad affrontare la fase 3 con numeri decisamente preoccupanti. Purtroppo, le numerose istanze di sospensione della pena per gravi patologie presentate sono state reiteratamente disattese anche grazie alle prese di posizione di ex magistrati che non potendo più indossare la toga (probabilmente non hanno ancora ben capito se si sentono più a loro agio come politici o come magistrati) discettano su tutto lo scibile umano. L’ampliamento dell’istituto della sospensione della pena, quella misura disposta un anno fa con la circolare del Dap del 21 marzo 2020, anticipata e sostanziata dalle tante ordinanze dei giudici di sorveglianza che hanno fatto fronte al dilettantismo politico del momento, è stata bloccata da quanti gridavano allo scandalo contro “i boss scarcerati” nonostante fossero ben consapevoli di prestare il fianco ad una operazione di bieca propaganda giustizialista e di andare contro ai principi e ai diritti espressi dalla nostra Costituzione. Il diritto alla salute vale per il sig. Rossi, incensurato, come per i signori Bonura, Zagaria (nel frattempo scarcerato dopo aver scontato anche più del dovuto), Iannazzo (che versa oggi in gravissime condizioni di salute), Terranova (morto dopo meno di un mese che era stato riportato in carcere per effetto della “legge Bonafede” ispirata da Travaglio - Giletti - Ingroia - De Magistris & Co.), e vale per i detenuti ignoti che quotidianamente si trovano a dover subire oltre alla detenzione, la violazione sistematica di diritti fondamentali qual è quello alla salute. Quand’è che inizieremo a capire che il carcere non è la soluzione ma parte del problema? “Più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale”, scriveva Altiero Spinelli all’incirca 70 anni fa in una lettera indirizzata a Calamandrei in cui rifletteva sull’inutilità del carcere sia per il “delinquente” sia per la vittima. Possiamo oggi, finalmente, iniziare a farlo? Delitti e pene: privilegiare uno sguardo che sia rivolto al futuro di Marco Bouchard riforma.it, 19 marzo 2021 La giustizia riparativa agisce con rapidità; ci invita a occuparci delle vittime e coinvolge la comunità, considerando la nostra fragilità. Ogni epoca e ogni cultura hanno avuto i loro crimini e le loro pene. Un tempo si poteva finire sul rogo per opinioni religiose eretiche mentre oggi quasi tutti gli Stati riconoscono il principio della libera espressione del proprio credo. Al contrario, molti delitti che oggi consideriamo gravi come le violenze sessuali o le rapine un tempo venivano trattati come questioni private. Oggi noi diamo un po’ per scontato che la punizione prevista per un reato sia il carcere, cioè la privazione della libertà, calcolata in giorni, mesi, anni. Ma questa pena è un tipo di punizione molto recente nella storia dell’umanità. È solo nel 1800 che abbiamo iniziato a concepire l’incarcerazione come punizione. Prima, il carcere era solo un passaggio in attesa di supplizi, pene corporali, lavori forzati, esilio. Il carcere - questa era la novità - non doveva solo difendere la società dalla libera circolazione dei trasgressori ma costituire un’occasione di cambiamento per il condannato. Ora, la pena detentiva continua a funzionare come strumento di esclusione della libertà di movimento ma ha fallito l’obiettivo di promuovere il positivo reinserimento in società del detenuto, se è vero che il tasso di recidiva di chi ha fatto esperienza carceraria continua a essere molto alto: negli ultimi anni in Italia si aggira intorno al 70%. Il carcere crea criminalità anziché ridurla. È stata dunque inevitabile la ricerca di nuove strade perché il fallimento delle misure penali nuoce innanzitutto al consorzio umano e, in particolare, alle nuove vittime. Qual è stata, allora, l’alternativa ricercata? Ci sono state due soluzioni principali. La prima strada è stata quella della sospensione del processo o della condanna a certe condizioni: assenza di precedenti, obbligo di attività socialmente utili, divieto di frequentare delinquenti. L’altra strada è stata quella dell’uso del lavoro come pena o come alternativa alla pena: non più lavori forzati ma servizi di comunità, previsti in Italia da pochi anni ma praticati da decenni soprattutto nei paesi anglosassoni, con alcuni eccessi negli Stati Uniti, dove il sistema delle carceri private permette alle multinazionali di sfruttare il lavoro dei detenuti a prezzi di manodopera stracciati. L’esercito dei condannati a queste misure alternative al carcere in Italia è raddoppiato in poco tempo e nel 2020 ha raggiunto la cifra considerevole di 57.000 persone. Sono misure sicuramente più efficaci perché il rischio di recidiva si riduce intorno al 25%. Certo: va detto che i candidati selezionati per scontare una pena senza mettere piede in galera sono molto meno pericolosi di quelli costretti a rimanere reclusi. Anzi: spesso non sono pericolosi affatto. Può capitare a chiunque tra i nostri lettori di essere accusato di lesioni stradali per una minima disattenzione a bordo della propria vettura. Per fortuna, a certe condizioni, possiamo “pagare” pene detentive severe con qualche mese o qualche anno di lavoro per la collettività anziché in una cella sovraffollata. Di recente, però, si è aperta una nuova prospettiva di cui ci ha parlato il pastore Sciotto nella sua intervista (n. 8, p. 1): ci ha introdotto alla giustizia riparativa che si propone, appunto, di riparare l’offesa anziché replicare al male fatto togliendo libertà e infliggendo sofferenza al colpevole. È una giustizia che, ovviamente, non è applicabile a tutti i crimini e a tutti gli autori. È una giustizia di cui noi protestanti dovremmo andare orgogliosi perché il suo seme è stato gettato da una comunità di mennoniti nella provincia dell’Ontario, in Canada, nella metà degli anni ‘70 del secolo scorso. Il concetto di restorative justice ha una stretta derivazione biblica ed è stato utilizzato da uno psicologo americano, Albert Eglash, in base alla lettura di un trattato sulla giustizia nella Bibbia di due autori tedeschi. La pianta della victim offender reconciliation si è diffusa rapidamente in tutto il mondo e comincia ad essere coltivata con profitto anche in Italia. La giustizia riparativa risponde a tre esigenze fondamentali. La prima. Ci sono offese - parole odiose, piccoli furti, infrazioni stradali, violazioni urbanistiche - che conviene riparare prontamente senza lungaggini processuali che portano a pene detentive destinate a rimanere sulla carta. La riparazione materiale è interesse del colpevole, della comunità e delle eventuali vittime. Riparare l’offesa significa, innanzitutto, riparare qualcosa con il dire parole giuste, dare l’equivalente di quanto è stato sottratto, fare opera di risanamento dei guasti provocati. La seconda. Ci sono offese, a volte terribili, commesse da criminali che non si pentiranno mai del male fatto. La giusta punizione, però, non sanerà mai il dolore o la perdita subita dalle vittime. La giustizia riparativa ci invita a occuparci, in primo luogo, delle vittime. La loro sofferenza non può aspettare il passaggio in giudicato delle sentenze di condanna. A volte i colpevoli non vengono neppure trovati. Qui riparare l’offesa significa dare riparo alle vittime, garantire loro servizi di assistenza e protezione, indennizzi da parte dello Stato, quanto meno per i delitti intenzionali violenti. Questo è un tipo di giustizia riparativa che in Italia manca totalmente. Infine. La filosofia del carcere guarda al passato e invita all’esclusione; quella della rieducazione parla soprattutto al colpevole; la giustizia riparativa guarda al futuro e si rivolge anche alle vittime e, attraverso di esse, coinvolge la comunità. Il significato del riparare supera i confini della giustizia penale e dovrebbe caratterizzare il modo di vivere nelle nostre città. Non a caso, in Gran Bretagna, a Hull e a Leeds, è stata lanciata l’idea della “città riparativa” per coinvolgere, soprattutto, i giovani. Non propone una visione idilliaca. Al contrario: mette al centro le nostre fragilità e la nostra vulnerabilità per cercare soluzioni accettabili al dolore del crimine nella consapevolezza che non verrà mai magicamente cancellato dal dolore della punizione. Il bisogno di vendicare il male fatto e di ripararlo si alternano nella società e, in fondo, appartengono al nostro Dna. Anzi: lo costituiscono come i suoi due filamenti che sono “antiparalleli”. L’uno, la giustizia retributiva, si preoccupa del passato. L’altro, la giustizia riparativa, lavora per il futuro. La saggezza sta nel trovare il punto di equilibrio. Cartabia: “Il Covid ci costringe a ripensare la giustizia, ma mettiamo da parte le divergenze” di Liana Milella La Repubblica, 19 marzo 2021 Audizione al Senato della Guardasigilli che promette un’accelerazione dei tempi dei processi e sulla prescrizione parla di “impegno che deve essere onorato”. Alle toghe onorarie promette interventi sulle tutele professionali, retributive e pensionistiche. “Non deve più accadere quello che è successo a Teramo, dove una madre che ha perso suo figlio in un incidente di lavoro mi scrive e chiede che si faccia il processo, bloccato invece per via di problemi legati all’edilizia giudiziaria”. Cita un episodio di cronaca la Guardasigilli Marta Cartabia per esporre, al Senato, le sue linee guida sulla giustizia. Lo ha già fatto alla Camera, e anche qui insiste su una parola - “hybris” - presa a prestito dalla tragedia greca per dire che, se non si superano le posizioni preconcette e gli irrigidimenti di parte consolidati in anni di scontri, non si va avanti. Per dirla con un’immagine, Cartabia pensa a una giustizia che “non può più essere soltanto la spada recata in mano dalla dea bendata, privilegiamo lo sguardo sulla bilancia che la stessa dea ha nelle mani e cerchiamo soluzioni bilanciate che trovino un adeguato contemperamento degli interessi e dei punti di vista di tutti”. Servono condivisione ma anche realismo, quello stare con i piedi per terra che fa dire a Cartabia: “Sarebbe sleale da parte mia presentare programmi inattuabili ben sapendo di non poterli realizzare. Faremo di tutto per affrontare i problemi urgenti e improcrastinabili e quei progetti su cui ci sarà la condivisione del Parlamento”. L’obiettivo è ovviamente quello di “ridurre i tempi della giustizia”, è quello di liberarsi dell’arretrato civile, due milioni di processi, e penale, altri tre milioni. Ma anche sperimentare nuove forme di giustizia - come quella riparativa - su cui Cartabia insiste, anche citando le esperienze di altri Paesi che lei, da giurista con esperienza internazionale, ben conosce e di cui l’Italia dovrebbe fare tesoro. E sulla quale cita i dati attuali, 18.900 persone oggi scontano in Italia la pena in esecuzione esterna e 9mila con lavori di pubblica utilità. “Pensate se tutte queste persone invece fossero in carcere...” chiosa Cartabia. Ma lo scenario internazionale e nazionale adesso è cambiato. Su tutto, e ovviamente anche sulle riforme, incombe la pandemia che, dice Cartabia, “continua a condizionare il nostro lavoro e ci impone di ripensare i programmi per la giustizia”. La ministra non nasconde di essere “molto preoccupata di quello che può accadere a breve su questo fronte” ed elenca le possibili conseguenze pratiche del Covid “dopo gli sfratti, i licenziamenti, l’esplodere del contenzioso bancario”. Una litigiosità legale nuova che ricade su una giustizia rallentata dal pesante arretrato. Inevitabilmente l’obiettivo è, da un lato, recuperare i ritardi, ma dall’altro ripensare la giustizia stessa, ricorrendo, sia nel processo civile che in quello penale, a forme di giustizia più rapida, dalla mediazione ai riti alternativi. La Costituzione, come dice Cartabia, “chiede processi giusti e brevi” e lei cita ovviamente l’articolo 111 sul giusto processo. Sono “obiettivi altissimi, sembrano irraggiungibili, ma serve guardare in alto, consapevoli di una meta che sarà da conquistare”. Il goal è “ridurre i tempi della giustizia, portare il processo italiano verso l’efficienza e la produttività, per ridare fiducia ai cittadini e far ripartire gli investimenti”. Inevitabilmente su tutto incombe politicamente il nodo della prescrizione. Cartabia lo definisce “un impegno che deve essere onorato”. Non anticipa una soluzione, ma ripete che “un processo dalla durata ragionevole relega la prescrizione a fatto eccezionale”. E ne vede una possibile soluzione “nell’ambito di un intervento riformatore in cui il nodo prescrizione viene liberato dal peso di essere l’unico rimedio per l’eccessiva durata del processo”. Quanto alla legge Bonafede - stop alla prescrizione dopo il primo grado - “i suoi effetti si vedranno dopo alcuni anni”, quindi non è indispensabile oggi sospenderla, come pure chiedono tuttora non la Meloni, mina anche partiti della maggioranza come Iv, Fi, Azione e Lega. Quanto alle riforme - del processo penale, civile, e del Csm - Cartabia parte da quelle dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede e “dal grande lavoro istruttorio” già fatto in Parlamento. Partirà una verifica “di quanto può essere salvato e quanto modificato perché il lavoro già svolto non va annullato, ma rivisto alla luce della nuova maggioranza di governo, senza trascurare le proposte dell’opposizione”. Cartabia traccia una road map in cui toccherà a lei proporre gli emendamenti a cui stanno lavorando i gruppi di lavoro di tecnici che lei stessa ha messo al lavoro in via Arenula. Ma sarà fondamentale il rapporto con il Parlamento che “resta il luogo di sintesi delle differenti visioni politiche”. “La mia storia e la mia formazione - dice Cartabia - mi rendono particolarmente sensibile a un corretto rapporto tra governo e Parlamento, troppo spesso piegato a necessità politiche”. Invece Cartabia chiede “un confronto schietto e tempestivo per raggiungere risultati condivisi nelle condizioni date”. Se è vero che il Recovery plan affida all’Italia 2,7 miliardi di euro da spendere per la giustizia, nel penale come nel civile, bisognerà puntare all’efficienza. Ecco allora, per la giustizia penale, il cosiddetto “ufficio del processo” al servizio del giudice in cui, come oggi avviene alla Corte costituzionale con gli assistenti e nel sistema inglese con i “clerk”, entreranno figure di collaboratori che lasceranno al magistrato solo la decisione giuridica sgravandolo dal lavoro preparatorio sul dossier per affrontare il caso stesso, a partire dalla precedente giurisprudenza. Per la giustizia civile invece Cartabia guarda agli strumenti alternativi per risolvere le controversie. “Hanno un grande potenziale sempre, ma soprattutto in questo ambito - dice Cartabia - alleggeriscono la giustizia. Vanno individuate forme di coesistenza, come aveva intuito un grande studioso come Mauro Cappelletti che aveva prodotto un studio mondiale su come ottenere una giustizia effettiva”. Cartabia disegna un quadro in cui accanto a forme arbitrali, si punta alla mediazione dopo una necessaria messa a punto. Ma la ministra parla anche di incentivi processuali, economici, fiscali, di misure premiali anche per i giudici e per chi accede alla mediazione. Per il Csm ripropone quanto ha detto alla Camera. Contro il correntismo lancia l’ipotesi di un Csm diverso, con un rinnovo parziale di laici e togati dopo un biennio, sul modello di una Corte costituzionale che “non si rinnova tutta insieme perché questo permette una maggiore continuità”. Riforma da verificare nella sua compatibilità con quanto stabilisce la Costituzione stessa sul Csm. Che vedrà una nuova legge elettorale, nell’ottica di garantire però il valore del pluralismo fermando le degenerazioni del correntismo. E proprio mentre il Csm, in queste ore, discute sulla legge di Bonafede, Cartabia ribadisce che un punto cardine sarà quello dei criteri di efficienza e trasparenza nelle nomine dei capi e vice degli uffici garantendo un “periodo minimo di permanenza perché non si può riorganizzare un ufficio se non c’è il tempo per farlo”. Infine il capitolo della magistratura onoraria dopo la sentenza 41 della Corte costituzionale che, appena ieri firmata dal giudice Giovanni Amoroso, ha dichiarato incostituzionale l’uso dei magistrati ausiliari nelle corti di appello, ma prorogandoli fino al 2025. Questa sentenza, secondo Cartabia, fissa “un perimetro invalicabile” e costringe il governo a “una revisione complessiva del ruolo della magistratura onoraria nell’ordinamento”. Cartabia sostiene che, a questo punto, il ruolo delle toghe onorarie, che “negli anni più recenti si è ampliato per lo smaltimento dell’arretrato che grava sul sistema giustizia del nostro Paese, potrà e dovrà in prospettiva essere circoscritto solo a determinati tipi di funzioni, secondo le indicazioni rigorosamente tracciate dalla Corte”. Ma ha aggiunto però che questi interventi “dovranno affiancarsi all’ormai ineludibile problema delle tutele professionali, retributive e pensionistiche dei magistrati onorari che da tempo sono stati portati all’attenzione del Parlamento e ormai formano oggetto di svariati pronunciamenti di giudici interni e della stessa Corte di giustizia dell’Unione europea”. Parole, queste di Cartabia, che potranno piacere ai giudici onorari che vedranno bene l’intervento sulle loro garanzie, ma certo non potranno che essere deluse da un loro oggettivo e futuro ridimensionamento. Mirabelli (Pd): “Bene Cartabia, importanti le parole su carceri e diritti” politicanews.it, 19 marzo 2021 “Abbiamo già avuto modo di condividere le scelte della Ministra Cartabia che sono contenute nel suo messaggio al Parlamento. Condividiamo l’agenda, l’elenco delle priorità, ma anche il metodo con cui la Ministra intende affrontare molte questioni. Penso che sia importante l’attenzione che la Ministra rivolge sempre alla centralità del Parlamento, al fine di conciliare l’urgenza, che abbiamo, di affrontare alcune questioni con la volontà del governo di non intervenire con decretazione d’urgenza. Serve un’assunzione piena di responsabilità da parte del Parlamento, perché il tema dell’urgenza è reale, in quanto riguarda la vita reale del Paese. Apprezzo molto la coscienza positiva dei limiti (soprattutto temporali) che può avere questa fase. Dobbiamo, però, mettere in campo obiettivi che oggi sono più perseguibili perché, in un Governo di larghe intese come questo, la discussione sarà segnata da meno conflittualità politica, meno necessità di distinguersi, meno contrapposizioni ideologiche. Si è parlato dell’impatto che ha avuto la pandemia sulla Giustizia. È evidente che la pandemia ha messo a dura prova e metterà a dura prova tutto il sistema della giustizia. Ma insisto sul fatto che alcune scelte che abbiamo fatto in emergenza vanno valutate per capire se hanno funzionato e se possono diventare norme a regime. Sono d’accordo sulla proposta dei cambiamenti nel sistema penale, sulle pene alternative, sulla messa in prova, sulla giustizia riparativa; penso anche alla depenalizzazione di alcuni reati bagattellari. Sulle questioni del carcere, concordo con le cose dette dalla Ministra, con lo spirito con cui le dice e con la necessità di rispettare la Costituzione, sapendo che bisogna recuperare la funzione educativa del carcere, che è anche la condizione per dare più sicurezza al Paese. Un carcere che riesce a rieducare e produce meno recidività di quella che viene prodotta oggi, rende più sicuri tutti. La qualità del carcere diventa, quindi, fondamentale. In questo senso, voglio sottolineare la questione dell’edilizia carceraria: su questo dobbiamo fare un lavoro serio, orientato, come ha detto la Ministra, non a fare più celle ma a costruire carceri migliori, con più spazi per il trattamento, per la scuola, per il lavoro, per l’aggregazione. Se decidiamo di puntare su questo, non bastano le strutture ma serve anche che chi fa vivere i trattamenti interni - i funzionari giuridico-pedagogici - vengano valorizzati nel loro ruolo educativo. Questo deve valere anche per chi fa i trattamenti esterni. Sono figure poco valorizzate. Parliamo sempre di dare una mano alla polizia penitenziaria ma ci sono anche queste figure che vivono situazioni di precarietà e difficoltà: sono spesso sottostimati gli organici e anche il modo in cui si trovano a lavorare non è ottimale. Il problema di questi funzionari e assistenti sociali deve essere affrontato. C’è poi un altro campo su cui ci dobbiamo misurare che è quello dei diritti dei cittadini. Alla Camera dei Deputati è stato già approvato il disegno di legge contro la transomofobia; penso che debba essere impegno anche del Governo quello di dare seguito, anche al Senato, a quel provvedimento”. Così Franco Mirabelli, vice presidente dei senatori del Pd, ha commentato l’audizione della Ministra Marta Cartabia in commissione Giustizia a Palazzo Madama. Nel Csm è resa dei conti sulla riforma Bonafede di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 19 marzo 2021 Togati contrari pure alle norme che “aprono” ad avvocati e accademia i Consigli giudiziari e l’ufficio Studi di Palazzo dei Marescialli. Lanzi: “Da noi laici un no compatto alle correnti”. Difficile sostenere che la riforma del Csm targata Bonafede violi l’indipendenza della magistratura: non prevede il sorteggio della componente togata, né sottrae particolari prerogative. a Palazzo dei Marescialli. Eppure le correnti intendono stroncare con un parere negativo quel ddl, ora all’attenzione di Marta Cartabia oltre che all’esame della Camera. Stavolta però i laici si coalizzano e ottengono il rinvio a dopo Pasqua del voto sul parere, come spiega uno di loro, il consigliere Alessio Lanzi: “Sono sbagliate anche le chiusure sulle norme del ddl che rafforzano il ruolo degli avvocati nei Consigli giudiziari e nell’ufficio Studi di Palazzo dei Marescialli”, spiega al Dubbio. Se ne parla dopo Pasqua. Il plenum di Palazzo dei Marescialli si è visto costretto a prendersi una lunga pausa di riflessione sul parere relativo alla riforma del Csm. Un ddl targato Bonafede, all’esame della Camera da diversi mesi, ma ormai nelle mani della nuova maggioranza e della nuova guardasigilli Marta Cartabia. I togati del Csm in carica sono favorevoli a un documento di sostanziale stroncatura della riforma: a loro giudizio limiterebbe troppo la discrezionalità sulle nomine. Ma non solo. Non è l’unico problema. Ce n’è uno sottovalutato: nell’articolato proposto dall’ex ministro della Giustizia, ci sono significative aperture al ruolo dei “laici”, cioè di avvocati e accademia, in due decisivi contesti. Innanzitutto i Consigli giudiziari, cioè i “mini Csm” istituiti in ogni distretto di Corte d’appello, nei quali la riforma consentirebbe ad avvocati e professori di partecipare anche alle sedute in cui si vota sulla carriera dei magistrati. Un principio di trasparenza, che però le correnti vorrebbero limitare. Come pure vorrebbero contestare l’apertura ad avvocati e accademia dell’ufficio studi di Palazzo dei Marescialli. Non un ingranaggio della burocrazia, ma l’ufficio in cui si redigono materialmente le pratiche sulle nomine, dove cioè si compilano fascicoli decisivi. Ora ci lavorano solo magistrati, scelti dalle correnti. che anche lì non sembrano gradire intrusi. Sulle paradossali (alla luce del caso Palamara) ritrosie che i togati dell’attuale Csm mostrano persino su questo, parliamo con chi si è opposto, due giorni fa in plenum, alla “reazione”: il consigliere Alessio Lanzi, professore di Diritto penale alla Bicocca, che insieme con gli altri laici del plenum ha costretto appunto le correnti a rinviare il voto sul documento- stroncatura. “Il Csm non è la fotocopia dell’Anm e tanto meno è equiparabile ai Consigli giudiziari”, dice Lanzi - eletto a piazza Indipendenza su indicazione di Forza Italia - che aveva tentato di frenare la censura al ddl già in commissione. “Il parere è molto articolato e complesso (oltre 190 pagine, ndr). La discussione si annuncia lunga, anche per il gran numero di emendamenti presentati. Noi laici, pur con differenti sfumature, abbiamo però già preso una posizione netta contro l’opinione di alcuni togati. anche sui Consigli giudiziari”. Lanzi ha fatto parte del “mini Csm” del distretto di Milano, dove il “diritto di tribuna”, reso obbligatorio da Bonafede ma non espressamente precluso dalle norme in vigore, era già previsto. “Da almeno 15 anni in alcuni Consigli giudiziari gli avvocati hanno questo diritto. Molto dipende dalla sensibilità del presidente della Corte d’appello, che è anche il presidente del Consiglio giudiziario. A Milano l’allora presidente Giovanni Canzio era particolarmente favorevole al fatto che gli avvocati fossero presenti nei Consigli giudiziari e che, anche senza partecipare al voto, fornissero giudizi a proposito delle valutazioni di professionalità dei magistrati”. Nel testo Bonafede si prevede, oltre al diritto di tribuna, la possibilità da parte degli avvocati, in caso di concreti elementi oggettivi a carico del magistrato, di portarli all’attenzione del Consiglio giudiziario. Si tratta di segnalazioni sul comportamento del magistrato, non sul suo operato. “Il parere, che è stato redatto dall’ufficio Studi del Csm, ipotizza criticità già per il semplice diritto di tribuna”, ricorda Lanzi. “Evidenzia preliminarmente che con il diritto di tribuna l’avvocato verrebbe a conoscenza di valutazioni nei confronti del magistrato che dovrebbero rimanere segrete. Quando si parla della valutazione di un certo magistrato, dunque, l’avvocato che ha un processo con lui dovrebbe andar via: per supportate questa tesi è stato fatto un parallelo con il Csm”, nota ancora il consigliere, “dicono che quando un avvocato va al Csm si deve cancellare dall’Ordine e non può esercitare la professione. Ma l’avvocato, nel Consiglio giudiziario, è un responsabile territoriale, come il magistrato. Entrambi continuano a fare il proprio lavoro. I magistrati del Consiglio giudiziario non sono messi fuori ruolo come i magistrati al Csm”. E ancora: “L’avvocato, al Csm, professionista di area culturale designato dal Parlamento, è un rappresentante della società civile. Il Csm gestisce la magistratura nell’interesse della cittadinanza, non dei magistrati”. L’ufficio Studi ha fatto “confusione”, insomma. “Mi sembra molto offensivo nei confronti del Csm. Su un punto bisogna essere chiari: il Csm tutela l’interesse dell’amministrazione della giustizia, a che la cittadinanza abbia una giustizia come si deve. L’organo non deve essere autoreferenziale, non è una corporazione. Inoltre: vi pare possibile che mentre agli avvocati sia vietato anche sentire cosa dicono sui giudici, i pm possano votare le loro valutazioni di professionalità? Il pm, come l’avvocato, è parte del processo: ricordiamoci dell’articolo 111 della Costituzione”. Riforma Cartabia della giustizia civile, 20 mila assunti con il Recovery di Federico Fubini Corriere della Sera, 19 marzo 2021 Per ricevere i bonifici di Next Generation EU, l’Italia deve dimostrare di avere progetti credibili per accelerare in due aree fondamentali: pubblica amministrazione e giustizia civile. La prima è affidata al ministro Renato Brunetta, che punta a rafforzare le strutture dello Stato assumendo migliaia di esperti e ad allargare le competenze ai vertici dei ministeri con centinaia di chiamate dirette. Nella seconda, tocca alla ministra della Giustizia Marta Cartabia delineare in poche settimane un piano che sia efficace, ma politicamente praticabile e tale da non aprire conflitti con gruppi e settori della società. Perché, almeno in questa fase di emergenza, l’approccio del governo di Mario Draghi ai mali del sistema Italia sembra avere esattamente questa priorità: ogni riforma nella cornice Recovery Plan va perseguita senza creare tensioni di gruppi sociali fra loro o verso l’esecutivo. Non adesso. Con decine di migliaia di nuovi contagi ogni giorno e la campagna vaccinale da rilanciare, questi sono i paletti che il premier sembra aver dato ai ministri: il massimo di efficacia raggiungibile senza generare strappi, che sarebbero deleteri alla tenuta del Paese. Nei suoi piani sulla giustizia civile, Cartabia applica esattamente questo approccio. “Sarebbe sleale impegnarsi nel contesto attuale a delineare programmi inattuabili”, ha detto la ministra in parlamento. Intanto però la parte del Recovery riservata alla giustizia prende corpo sulla base di un budget da poco più di tre miliardi di euro. Di questi, 2,3 miliardi saranno impegnati per assumere con contratti triennali ventiduemila nuovi dipendenti nel sistema giudiziario dal gennaio prossimo. Almeno 16.500 addetti, laureati in Legge o Economia, devono dare forma al nuovo istituto dell’Ufficio del processo: di fatto assistenti e collaboratori di giudici e magistrati, sul modello dei clerk anglosassoni, con compiti di ricerca e stesura delle bozze dei provvedimenti. Sono poi previsti 1.660 nuovi posti con funzioni tecniche e amministrative per laureati sulla base di contratti triennali, 750 per diplomati specializzati e tremila per non specializzati. Servono anche perché Cartabia punta a investire 350 milioni del Recovery nella digitalizzazione degli archivi dei casi pendenti, nella sicurezza per il lavoro da casa e di una banca dati su cui lavorare con sistemi di intelligenza artificiale. Per accelerare i tempi della giustizia civile e smaltire i milioni di casi pendenti, la ministra vuole anche rafforzare il ricorso alla mediazione e l’imitazione delle pratiche più efficaci di altri tribunali. Inoltre per chi si candida a incarichi direttivi è previsto l’obbligo di una formazione gestionale, mentre 426 milioni del Recovery vanno all’edilizia giudiziaria. È un piano provvisorio, se non altro perché lascia nell’incertezza il futuro degli Uffici del processo quando saranno esauriti i fondi europei. Ma forse è l’unico piano praticabile oggi. Per sciogliere altri nodi della giustizia lenta, quelli che si trascinano da decenni, non basteranno i prossimi mesi. La Consulta delude i giudici onorari. L’appello a Cartabia: “Ci aiuti a uscire dalla precarietà” di Liana Milella La Repubblica, 19 marzo 2021 La sentenza scritta da Giovanni Amoroso era attesa anche dalla Guardasigilli per affrontare il problema delle 5mila toghe che da anni invocano gli stessi diritti degli ordinari. Niente da fare. Questa volta, dalla Corte costituzionale, non arriva l’atout che i giudici onorari si aspettavano per superare lo stato di precarietà che affligge un mondo di oltre 5mila anime. Figure indiscutibilmente fondamentali per la giustizia certo - tant’è che proprio su di loro si appoggiano le previsioni del Recovery plan per recuperare lo spaventoso arretrato civile e penale - ma non abbastanza da raggiungere il loro “goal”, la stabilizzazione come categoria, lo stop a quei pagamenti a sentenza che umiliano la loro professionalità e riducono a una sorta di cottimo il loro lavoro. Ma le oltre venti pagine scritte dal giudice costituzionale Giovanni Amoroso, che peraltro riguardano la figura del giudice ausiliario impiegato nelle corti di appello, non solo non contengono, ne forse potevano visto il perimetro della decisione, parole in sintonia con l’idea di una possibile parificazione economica tra giudice ordinario e giudice onorario, ma rimarcano all’opposto la netta distinzione tra i due ruoli. Quello del magistrato ordinario che ha sostenuto un concorso per diventarlo. E quello del giudice onorario che svolge sì il lavoro di giudice, ma non ha fatto il concorso, e spesso ha anche un altro lavoro. Non solo. C’è un altro aspetto che, come vedremo “entrando” nella sentenza, lascia l’amaro in bocca ai giudici onorari e li preoccupa fortemente in vista delle decisioni che la stessa Marta Cartabia dovrà prendere sulla loro categoria e che, prima di farlo, attendeva, come ha dichiarato alla Camera, proprio l’esito di questa sentenza. Perché la Consulta, in ragione della crisi della giustizia, pur accogliendo il ricorso della Cassazione sull’uso dei giudici ausiliari utilizzati nei collegi di corte d’appello, e stabilendo che, nel rispetto dell’articolo 106 della Costituzione, essi vanno utilizzati singolarmente, tuttavia rinvia al 2025 l’effetto pratico e concreto della sua stessa decisione. Dai giudici onorari, che soffrono del loro stato di precarietà, soprattutto dopo la riforma dell’ex Guardasigilli Andrea Orlando del 2016, questa decisione viene letta come una sorta di “condanna” a vivere altri quattro anni di incertezza e, appunto, di lavoro precario. Ma cosa arriva, con la sentenza che porta il numero 41, dalla Consulta? Come scrive la stessa Corte nel comunicato stampa che l’annuncia, “i giudici hanno affermato che l’articolo 106 della Costituzione, secondo cui è possibile la nomina di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli, permette solo eccezionalmente e temporaneamente che, in via di supplenza, essi possano svolgere funzioni collegiali di primo grado”. Quindi, nei soli tribunali e non nelle corti d’appello o di Cassazione. Di conseguenza, “l’istituzione dei giudici onorari ausiliari, destinati, in base alla legge del 2013, a svolgere stabilmente e soltanto funzioni collegiali presso le corti d’appello, nelle controversie civili, deve ritenersi in aperto contrasto con l’articolo 106 della Carta”. A questo si aggiunge la moratoria fino al 31 ottobre 2025 per consentire “alle Corti di ridurre l’arretrato e finché non si perverrà a una riforma complessiva della magistratura onoraria nel rispetto dei principi costituzionali”. Ma è proprio la “temporanea tollerabilità costituzionale” che angoscia le toghe onorarie che hanno vissuto e vivono una vita di lavoro all’insegna della “precarietà” e oggi invece, dalla Cartabia, si aspettano di ottenere un’effettiva stabilità. Per questo, a sentenza pubblicata, Olga Rossella Barone, la presidente del Coordinamento magistratura giustizia di pace, che appena una settimana fa aveva anche scritto una lettera alla ministra Cartabia dai toni accorati, adesso dice: “La Consulta perde ancora una volta l’occasione di fare chiarezza, e soprattutto di operare una linea di demarcazione chiara e netta, tra l’attuale magistratura in regime transitorio, nei cui confronti lo Stato ha sbagliato, e i futuri magistrati onorari che rientrano nell’inquadramento normativo disposto dalla riforma Orlando, proprio al fine di evitare il reiterarsi di nuove sacche di precariato”. Rossella Barone parla di “una classica soluzione all’italiana”, di “una sentenza pilatesca che mentre afferma l’illegittimo utilizzo dei magistrati ausiliari nelle corti d’appello, sostanzialmente salva i tribunali e le stesse corti d’appello consentendo, quasi questo fosse costituzionalmente legittimo, di utilizzare in maniera precaria e senza alcuna tutela giuslavoristica, questi magistrati in virtù del grave pregiudizio che ne avrebbe, soprattutto nella situazione attuale, l’amministrazione della giustizia”. Se la Corte, in base all’articolo 106 della Costituzione - “La legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli” - conferma che, appunto, la Carta prevede il ruolo della magistratura onoraria senza limiti di tempo, allora una giudice di pace come la Barone, che lavora a Napoli da oltre 25 anni senza prospettiva di pensione, senza ferie pagate, senza assistenza sanitaria, si aspetta che l’ex presidente della Consulta Cartabia faccia un passo in avanti e “inquadri fino all’età pensionabile, con la loro dignità, i magistrati che hanno lavorato fino ad oggi”. Toghe che invece - ed è questo l’oggetto dello scontro - secondo la legge Orlando, che entrerà stabilmente in vigore nel 2025, dovrebbero ridurre il loro lavoro a due udienze a settimana, e dopo quattro anni anche andare a casa. Mentre prospettive differenti si aprirebbero per chi si affaccia da quell’anno in poi in questo stesso lavoro. Se una giudice di pace si esprime in questo modo, anche dal fronte dei Got, i giudici onorari di tribunale, la reazione non è diversa. Basta sentire le parole di Sandra Leo, giudice onoraria a Milano che aderisce all’Assogot e che dice: “Ho letto la sentenza ed esprimo la mia preoccupazione come avvocata e come cittadina, non come magistrato onorario. Purtroppo vedo che la realpolitik conquista la Consulta e ispira quella che potremmo chiamare una sorta di sanatoria di sentenze illegittime, passate, presenti e future. Quel riferimento al bilanciamento mi pare improprio perché accentua un relativismo giuridico che ritengo sia tra i mali del Paese, nonché tra le cause principali dello stato disastroso in cui versa la nostra giustizia”. E nel merito Sandra Leo aggiunge: “Dire che migliaia di sentenze sono state e saranno emesse almeno per i prossimi 4 anni e mezzo da giudici che palesemente non hanno alcuna legittimazione costituzionale, ma che in questo momento fanno comodo allo Stato, che altrimenti dovrebbe riorganizzarsi e pagare indennizzi sulla base della legge Pinto, mi pare non sia un bel vedere”. È un mondo in allarme quello delle toghe onorarie, soprattutto perché Marta Cartabia ha detto anche alla Camera, e certo ripeterà al Senato, che attendeva proprio questa sentenza della Consulta per muovere i suoi passi sulla magistratura onoraria. Sulla quale, a palazzo Madama, pende una riforma che l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, su richiesta del Pd, sarebbe stato disposto a trasformare in un decreto legge, mentre Cartabia è contraria. Progetto di legge che il Pd, con la relatrice Valeria Valente e con il capogruppo in commissione Giustizia Franco Mirabelli, considera un passo avanti accettabile. Mentre le toghe onorarie lo bocciano senza appello. Per le ragioni che stanno nella lettera che Olga Rossella Barone, protagonista con tante altre colleghe prima di Natale di scioperi della fame e flash mob davanti ai tribunali peraltro del tutto inascoltati dalla politica, ha inviato a Cartabia già il 25 febbraio: “Io sono una giudice di pace, una lavoratrice per l’Europa che da vent’anni pronuncia sentenze In nome del popolo italiano, ma al contempo un fantasma. Le chiedo solidarietà, le chiedo di intervenire concretamente con una decretazione d’urgenza che nel rispetto dei principi costituzionali e della raccomandazione del 17 novembre 2010 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, inquadri economicamente e normativamente la mia categoria nei cui confronti lo Stato, rappresentato dai governi che l’hanno preceduta, come afferma anche l’Europa, stella polare di questo esecutivo, ha sbagliato”. “Basta giustizia mediatica: se il pm commette abusi il processo si faccia altrove” di Errico Novi Il Dubbio, 19 marzo 2021 Intervista a Enrico Costa, deputato di Azione ed ex viceministro alla giustizia: “Non basta modificare la prescrizione, servono regole per riaffermare la presunzione d’innocenza”. “È il lato oscuro del processo penale. Se ne parla poco ma è tempo di farci i conti: nel nostro sistema la presunzione di innocenza è ignorata. Ne discende una lunga serie di abusi, e di vittime. Basti pensare alle centomila persone assolte in primo grado, e che però hanno patito arresti, discredito, gogna mediatica. È tempo di intervenire: e con una ministra dalla sensibilità di Marta Cartabia è possibile”. Enrico Costa ha un’altra riforma penale pronta. “Un contributo alla discussione”, lo definisce. Viceministro quando a via Arenula c’era Andrea Orlando, deputato e responsabile Giustizia di Forza Italia fino a pochi mesi fa, ora anche dalle file di Azione resta il punto di riferimento dei garantisti alla Camera. La guardasigilli si riferisce innanzitutto a lui, quando nel proprio discorso alle commissioni Giustizia, ringrazia coloro che hanno ritirato gli emendamenti sulla prescrizione, e favorito così un lavoro comune nella nuova maggioranza. “Adesso però non c’è solo la prescrizione. Si deve intervenire per evitare che, come Cartabia pure ha ricordato, l’uso mediatico e improprio delle indagini continui a rendere ingiusto il nostro processo”. Proporrà emendamenti al ddl Bonafede? Il primo emendamento è già depositato nella legge di delegazione europea. Riguarda la presunzione di non colpevolezza, di cui una direttiva dell’Unione reclama il rispetto: va applicata. Mi dicono che quella legge è urgente e che non va modificata: si deve evitare di riportarla in Senato. Spero non sia un pretesto. Posso accettare il discorso a condizione che mi si dica in quale vettore normativo va introdotta la norma che dovrà recepire il vincolo europeo sulla presunzione di innocenza. Ma in cosa può tradursi una norma simile? Deve consistere in una delega a intervenire su molti aspetti, ma io ho già pronte anche le proposte per i successivi decreti delegati. La prima? Vanno regolate le conferenze stampa delle Procure. Innanzitutto: per quale motivo si devono veicolare visioni assertive sulla colpevolezza dell’indagato? Avete mai sentito un procuratore usare formule del tipo “risulterebbe dalle indagini” o “secondo le nostre valutazioni…”? No. Dicono: “Sono colpevoli, abbiamo sgominato una rete, si sono resi responsabili dei seguenti reati…”. Il cittadino comune non ha la sottigliezza per distinguere fra magistrato requirente e giudice: capisce solo che per lo Stato quel cittadino è colpevole. E così al presunto innocente hai già distrutto la vita. Ma come si impedisce tutto questo? Mi faccia finire. Non vanno bene i video diffusi dalle Procure o dalle forze di polizia per illustrare le indagini, né i nomi suggestivi dati alle inchieste. Non è accettabile la divulgazione delle intercettazioni e trovo sbagliata la norma dell’ultimo decreto che consente di pubblicare le ordinanze cautelari, con dentro i brani captati. Parliamo di accuse brutalmente e pubblicamente scagliate su chi è solo indagato, accuse dalle quali non si è mai avuta possibilità di difendersi davanti a un giudice terzo. Oltretutto, ogni anno ci sono trentamila arrestati per esecuzione di ordinanze cautelari, almeno il 20 per cento delle quali contro legge. È assolto il 50 per cento di chi va a dibattimento, il 69 per cento di chi si oppone a un decreto penale di condanna. Servono misure serie. Lei quali ha in mente? In casi estremi dovrebbe intervenire la rimessione del processo. Il fascicolo passa ad altro ufficio, ad altra sede giudiziaria. Non si può assistere alla continua negazione del principio che impone la cosiddetta verginità cognitiva del giudice: mediatizzare le indagini crea un pregiudizio, un condizionamento in chi deve valutare tesi e richieste dell’accusa. Si deve intervenire anche su altro. Le misure cautelari in carcere vanno limitate ai casi in cui sono davvero motivate e necessarie. Ci sono 8mila persone in cella perché in attesa del giudizio: va introdotta la regola del contraddittorio anticipato. Cosa comporta? L’interrogatorio deve precedere l’arresto. Perché tenere in carcere per giorni una persona prima di sentirla, se l’interrogatorio può far emergere elementi che ne dimostrano l’estraneità? Salvo i casi in cui c’è reale pericolo di fuga o di inquinamento delle prove, come si fa a presumere che la persona può reiterare la condotta illecita, se si tratta di un incensurato? E ancora: il processo stesso è una pena. Il rinvio a giudizio ti cambia la vita. Va perciò modificata la regola dell’udienza preliminare: si deve mandare qualcuno a processo se esiste un’alta probabilità di pervenire a una condanna. Ora invece basta che il pm abbia carte sufficienti per sostenere un’accusa in giudizio: vuol dire che se lui stesso ha dei dubbi, usa il Tribunale per liberarsene. Risultato: 100mila assolti in primo grado. Ma sono 100mila assolti che sono stati a dibattimento per 3 o 4 anni, dopo altri 2 o 3 di indagini. Un tempo in cui la tua vita di innocente è stata comunque compromessa. Tanto più che la durata del procedimento vanifica l’effetto dell’assoluzione sulla tua credibilità, sulle tue relazioni private e sociali. È un’altra idea di processo penale: chi è disposto a condividere con Azione una riforma simile? Credo che la maggioranza sarebbe disponibile a seguirci. Ho ottenuto che in legge di Bilancio entrasse la norma sul ristoro delle spese legali per gli assolti: sembrava impossibile. Può passare anche una ristrutturazione della fase preliminare compatibile con la presunzione di non colpevolezza. Dietro la prescrizione di Bonafede c’è l’idea per cui, in ultima analisi, se la macchina processuale si rivela inefficiente se ne scarica il peso sull’imputato. Non bastano sanzioni come l’avocazione delle indagini dormienti da parte delle Procure generali, inserita nella riforma Orlando. Sa quante se no contano nell’ultimo anno? Su un milione e 300mila procedimenti penali iscritti, ci sono state 65 avocazioni. Ridicolo. Ha appena chiesto di cambiare le regole sull’acquisizione dei tabulati telefonici: perché è così urgente? Una sentenza della Corte di giustizia Ue ci ha ricordato che i tabulati contengono informazioni dettagliatissime, intrusive, sulla vita e le relazioni di una persona, e che non si può lasciare alle Procure la libertà di chiederle alle compagnie telefoniche: deve esserci invece, dice la Corte Ue, l’autorizzazione di un giudice terzo o di un’autorità indipendente. Serve un dettagliato elenco dei reati per i quali una misura pesante come l’acquisizione dei tabulati può essere concessa. È d’accordo con l’idea che a emendare i ddl sul processo siano gli esperti scelti da Cartabia? Gli esperti sono necessari, quando una proposta va tradotta in un articolato, ma la sensibilità del parlamentare non può essere surrogata. In ogni caso l’attenzione mostrata dalla ministra a un tema come il necessario riserbo nelle indagini supera di gran lunga la non sempre assoluta coerenza garantista di alcuni partiti dell’attuale maggioranza. E proprio la sensibilità della guardasigilli può favorire una svolta che riaffermi la presunzione d’innocenza reclamata dalla Costituzione. Per mettere il turbo ai tribunali va monitorato il lavoro dei magistrati di Eduardo Savarese Il Dubbio, 19 marzo 2021 Da tempo, e da ultimo in occasione dell’insediamento del governo Draghi, sentiamo ripetere uno dei mantra della lamentazione sul declino italico: la giustizia lenta è un macigno su pil e commercio estero; per trasformare la macchina arrancante in motore performante ci vuole il manager che assicura decisioni veloci e prevedibili. Dinanzi a questa tesi (piuttosto trita) constato tre reazioni. La prima, di parte della magistratura, vuole che si dimostri che, soprattutto nell’era post-Palamara, sia stato intrapreso un nuovo corso, più attento alle necessità della giustizia, a beneficio di magistrati e cittadini. La seconda reazione è insofferente al discorso del manager in tribunale. La terza, pur ritenendo inadeguato il richiamo salvifico al manager, non vuole neppure arroccarsi nella difesa d’ufficio delle inefficienze della giustizia. Ogni posizione ha un fondo di verità. Resta al centro della vicenda, tuttavia, una drammatica torre di Babele che non è però frutto della punizione divina. Non è questione di volere o meno l’efficienza, ma di che efficienza si vuole per la giustizia e dunque, a monte, di che giustizia vogliamo. Un obiettivo di mera quantità può fare a meno di un ordine giudiziario prescelto per concorso e attingere a strumenti burocratici, ivi compresa l’intelligenza artificiale. Non credo sia questa un’idea di giustizia condivisa. Tra i diritti umani fondamentali c’è il diritto al giudice: lo dice magistralmente nel 2012 uno dei giudici della Corte internazionale di giustizia, Cançado Trindade, quando, in minoranza, dà ragione ai giudici italiani che avevano negato l’immunità dello Stato tedesco, condannandolo a risarcire gli eredi delle vittime dell’occupazione nazista. Le comunità umane aspirano alla decisione giusta tra due contendenti e tra vittima e carnefice: le condizioni per attuarla sono la competenza di chi giudica e la sua imparzialità, che si traduce nell’ascolto delle parti, nella ponderazione, nella motivazione del risultato. Tutto questo non ha niente a che fare col manager, o con la logica d’impresa. Bellissimo, mi direte: ma l’inefficienza? Ne possiamo registrare (almeno) due tipi. Una minor, attinente a sciatterie organizzative tipiche della pubblica amministrazione: per questo, però, abbiamo già dirigenti amministrativi e presidenti di Tribunale e l’andamento della loro gestione può e deve essere adeguatamente valutato. Poi c’è l’inefficienza major: la durata del processo. Qui la ricetta è triplice: definire uno standard di rendimento dei magistrati; in base a questo, ridisegnare le piante organiche dei tribunali; su questi fondamenti (non esaustivi, ma rilevanti) rendere snella ed effettiva la valutazione di professionalità dei magistrati, oggi un simulacro burocratico. Un lavoro serio sui primi due punti darebbe risultati sorprendenti, in sé e se paragonati al resto d’Europa. È un caso che la triplice ricetta ingiallisca negletta da almeno venti anni, mentre primi ministri, ministri e vertici vari si scambiano sguardi d’intesa appassionatamente manageriali? Il problema di una mancanza di standard di rendimento del magistrato - che è previsto da una norma dell’ordinamento giudiziario inattuata dal Csm dal 2006 - e l’ulteriore, e connesso, problema di una geografia giudiziaria iniqua e totalmente inefficace, sono evidentissimi nei Tribunali campani. Tribunali “di frontiera”, essenziali alla vita sociale, centrali per la varietà e rilevanza di interessi economici, e criminali, coinvolti, punto di riferimento di realtà territoriali di altissima densità abitativa - e mi riferisco ai Tribunali di Nola, Napoli Nord, Santa Maria Capua Vetere e Torre Annunziata - sono endemicamente in affanno, perché sottodimensionati. Il caso più tragico è il più recente, con l’istituzione del Tribunale di Napoli Nord, già condannato alla nascita alla produzione di arretrato o comunque di affanno strutturale nell’affrontare le sfide enormi del territorio oggetto della sua giurisdizione. Ma quei Tribunali sono anche inondati di una quantità di processi civili e penali impressionante. Ruoli di udienza civili e penali con trenta, quaranta processi a udienza, semplicemente ingestibili, eppure fronteggiati, spesso eroicamente, silenziosamente e anche in una grande solitudine dei singoli magistrati. L’avvocatura tutto questo lo sa benissimo. Tutti gli attori e i protagonisti di buona volontà conoscono che il problema è monitorare il rendimento dei magistrati e l’afflusso della domanda di giustizia. E sanno che occorre fissare uno standard unitario e nazionale di rendimento del magistrato civile e penale: esso consentirebbe di evidenziare l’urgenza della riorganizzazione della pianta organica dei Tribunali italiani e, probabilmente, uno strutturale eccesso di domanda di giustizia. Inseguire l’efficienza di per sé, solo numerica, e senza soluzioni di sistema e d’insieme, è soltanto una mistificazione, offensiva per il cittadino, prima ancora che per l’avvocatura e per la magistratura. Scrive una lettera ad un altro detenuto chiedendogli consigli legali: errato vietarne l’inoltro quotidianogiuridico.it, 19 marzo 2021 Cassazione penale, sezione I, sentenza 8 marzo 2021, n. 9309. Pronunciandosi sul ricorso proposto avverso la ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza aveva rigettato il reclamo proposto da un detenuto avverso il decreto con cui il magistrato di sorveglianza aveva disposto il trattenimento di una missiva indirizzatagli da un altro detenuto, ristretto in diverso istituto penitenziario, con cui gli venivano chiesto consigli giuridici, la Corte di Cassazione (sentenza 8 marzo 2021, n. 9309) - nell’accogliere la tesi difensiva, secondo cui illegittima doveva ritenersi la decisione di vietare l’inoltro della corrispondenza non potendo essere sanzionata la richiesta di ausilio rivolta da un detenuto ad altro soggetto che, versando nella medesima condizione, abbia maggiore familiarità con la materia giuridica e processuale - ha affermato il principio che l’invio, da parte di un detenuto, di una singola missiva che contiene una istanza di ausilio rivolta a persona che, grazie allo studio, ha maturato competenze giuridiche, e? un elemento in se? non in grado di dimostrare le ravvisate potenzialità offensive dei beni giuridici tutelati dall’art. 18- ter, l. 26 luglio 1975, n. 354. Il pm non deposita tutti gli atti? Nulla la richiesta di rinvio a giudizio di Simona Musco Il Dubbio, 19 marzo 2021 A stabilirlo il tribunale di Ravenna: “Leso il diritto alla difesa”. Il mancato deposito di atti dell’indagine preliminare rappresenta un danno per la difesa, motivo per cui può essere necessario dichiarare la nullità della richiesta di rinvio a giudizio. A stabilirlo è un’ordinanza del Tribunale di Ravenna, che in disaccordo con l’indirizzo che stabilisce l’inutilizzabilità degli atti mancanti ha optato per un’interpretazione più stringente, affermando la necessità di integrare il fascicolo con quanto omesso e, dunque, spostare indietro le pedine del procedimento. Di fronte alla mancanza di elementi di prova che potrebbero risultare centrali nella fase processuale, il rischio, si legge nell’ordinanza, è che ciò si rifletta “direttamente in negativo sulle prerogative difensive. Difatti, l’impossibilità per le difese di accedere compiutamente e tempestivamente al materiale probatorio raccolto dal pm incide in modo sostanziale sulla stessa possibilità per gli imputati di organizzare la strategia difensiva, se del caso anche tramite la scelta di riti alternativi, sicuramente influenzata - tale scelta - anche dalla tipologia e qualità degli atti d’indagine compiuti dal pm”. Nel caso specifico le difese lamentavano l’assenza delle immagini delle telecamere piazzate sul luogo del presunto reato, ovvero quelle che ritrarrebbero l’allontanamento ingiustificato dal luogo di lavoro degli imputati. Immagini decisive e centrali, secondo la difesa, ma non depositate dal pm, “con conseguente lesione delle prerogative difensive, intaccate dalla indisponibilità di un atto d’indagine decisivo che potrebbe essere divenire - nella fase dibattimentale - altresì prova decisiva”. Il giudice ha accolto l’eccezione, evidenziando come l’orientamento prevalente, che si limita a considerare inutilizzabili gli atti stessi, è “tutt’altro che pacifico” e addirittura “non condivisibile”. Ciò sulla base di una recente pronuncia della Cassazione, che ha inquadrato il vizio “nella categoria della nullità generale a regime intermedio, siccome incidente sulle garanzie difensive dell’imputato”. Gli atti mancanti, infatti, potrebbero rappresentare prove decisive, così che l’unico risultato rischierebbe di essere “la violazione del diritto di difesa discendente dall’incisione delle prerogative difensive correlate ad una determinata fase processuale”. Inoltre, tutti gli atti, dunque, devono essere presenti nel fascicolo al momento dell’avviso di conclusione indagini, proprio per garantire “che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; [e] disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa”. Il giudice evidenzia come, da un lato, gli atti mancanti potrebbero risultare favorevoli all’imputato, “con serio pregiudizio nei suoi confronti”, e dall’altro come “potrebbero essere sottratti al giudizio ed alla cognizione del giudice elementi di prova - finanche decisivi -, così ostacolando quell’attività di ricerca della verità, che è considerato il fine primario ed ineludibile del processo penale”. Da qui la necessità di rinnovare la sequenza procedimentale, senza rischio di “seri effetti negativi sulla durata del processo”, consentendo al pm di “utilizzare tutto il materiale investigativo raccolto e agli imputati di calibrare in modo pieno le proprie strategie difensive”. Torturato in Gambia gli negano la protezione internazionale, il giudice accetta il ricorso di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 marzo 2021 Aveva subito torture nel carcere gambiano per farlo confessare, non è mai stato sottoposto a processo e non ha avuto assistenza legale. Nonostante ciò, la Commissione territoriale di Caserta aveva rigettato la richiesta di protezione internazionale nei suoi confronti. Ma il giudice del Tribunale di Napoli, anche alla luce di quanto emerge dalle fonti internazionali consultate di ufficio, ha ritenuto gli elementi forniti dal ricorrente credibili. Infatti, sostiene il giudice, contrariamente a quanto ritenuto dalla Commissione, in Gambia è frequente essere sottoposti a detenzione cautelare anche per anni in attesa di processo a causa dell’importante backlog e dell’inefficienza del sistema giudiziario. Per più di un anno in carcere senza essere sottoposto a processo - Parliamo di un cittadino gambiano difeso dall’avvocata Amarilda Lici. Facendo ricorso al tribunale, il ricorrente ha lamentato che la Commissione territoriale di Caserta non avrebbe adeguatamente valutato la situazione di sicurezza del Gambia e non avrebbe considerato il pericolo concreto di danno grave che correrebbe in caso di rimpatrio, omettendo di tenere in conto che è stato già vittima di tortura durante il periodo di detenzione nel Paese di origine. Ha chiesto, pertanto, l’annullamento del provvedimento di diniego e in ogni caso il riconoscimento di protezione sussidiaria o, in subordine, della protezione umanitaria. L’uomo, nel suo Paese di origine, svolse il ruolo di guardiano notturno presso un cantiere. Racconta che una notte dei ladri fecero irruzione nel luogo, e dopo averlo legato e picchiato, rubarono dei macchinari e altri materiali. Il mattino successivo il datore di lavoro giunse al cantiere e, dopo averlo accusato di essere complice dei ladri e che la sua fosse una messa in scena, chiamò la polizia che lo condusse presso la prigione. Ci rimase per più di un anno, senza essere sottoposto a processo. La polizia lo torturò al fine di estorcergli, senza successo, una confessione. Un giorno si ammalò e fu ricoverato in ospedale. Riuscì a fuggire. Il giudice ha vagliato la posizione tenendo presente i report sulle carceri gambesi - Dopo viaggi tortuosi, passando per il Senegal fino ad arrivare in Libia, riuscì a raggiungere l’Italia. Se dovesse essere rimpatriato, rischierebbe indicibili torture in carcere. Soprattutto per vendetta. Il giudice ha vagliato attentamente la posizione, tanto che nella decisione vengono riportati diversi report sulle carceri ufficiali e non e sulle loro condizioni. Dal report Coi Easo sul Gambia emerge che “le carceri erano sovraffollate e c’erano persone in carcere da molti anni senza processo per reati minori. I servizi igienici e l’assistenza medica erano inadeguati, il vitto era insufficiente e di scarsa qualità. I familiari potevano portare cibo ai detenuti in custodia preventiva (in attesa di giudizio), ma non ai detenuti condannati. Per i prigionieri politici o i condannati a lunghe pene detentive non era prevista la possibilità di lavorare. Fondato pericolo di subire gravi ed inumani trattamenti in carcere - L’isolamento inflitto nella prigione di Mile Two ai detenuti condannati a morte e agli ergastolani rinchiusi nel braccio di sicurezza è stato considerato una forma di tortura dal relatore speciale delle Nazioni Unite. Secondo varie relazioni, molti detenuti nelle prigioni gambiane erano in carcere per reati di droga. Molti non erano gambiani ma cittadini di altri paesi”.Per il giudice, alla luce delle dichiarazioni rese, ritenute internamente ed esternamente attendibili per i motivi esposti, si ritiene che il ricorrente in caso di rimpatrio correrebbe il fondato pericolo di subire gravi ed inumani trattamenti in carcere, come già avvenuto subito dopo l’arresto, il che accresce il rischio che le violenze possano ripetersi e pertanto ne consegue il parziale accoglimento del ricorso sotto il profilo della domanda di protezione sussidiaria. Reggio Calabria. Muore di Covid Emilio Campolo, educatore del carcere “G. Panzera” ilreggino.it, 19 marzo 2021 Il cordoglio della Garante dei detenuti Giovanna Russo. “La scomparsa del dottor Emilio Campolo, funzionario ed educatore presso la Casa circondariale “Panzera” di Reggio Calabria, provoca sincera emozione in quanti abbiamo avuto la fortuna di conoscerne l’umanità”. “Ho apprezzato il valore del dottore Emilio Campolo nel corso della mia esperienza istituzionale ed avverto sincero turbamento per la sua scomparsa dal profondo dell’animo. Nei lunghi anni della sua preziosa e delicata opera - sottolinea Giovanna Russo - Emilio Campolo ha lasciato grande impronta di sé, dedicandosi con grande sensibilità e onorabilità agli ultimi. “Avvocato Russo le faccio i migliori auguri per questo incarico - così mi salutò al nostro primo incontro - l’ha preceduta una grande persona e mio amico, l’avv. Agostino Siviglia, e sono certo che lei saprà fare bene, e noi saremo qui a suo supporto”. Ascolto e senso di equilibrio - prosegue la Garante Russo - trasparivano sempre dalle sue parole, convinto com’era della necessità della funzione risocializzante del reo, che aveva inverato nonostante il pericolo del Covid, continuando insieme ad un altro collega a garantire la possibilità ai detenuti di proseguire i programmi di studio. Era fatto così Emilio Campolo, uomo di Fede, che viveva il suo lavoro come un grande dono di Dio al servizio del prossimo. Ecco perché sbigottisce la sua perdita e siamo certi che anche da lassù continuerà ad ispirare le nostre azioni umanitarie rendendo più ricche le nostre esperienze al servizio delle funzioni istituzionali affidateci”. Lecce. “Detenuti che scoprono di avere il Covid in isolamento senza acqua né cibo” di Francesco Casula Il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2021 La denuncia di un parente. Un familiare ha scritto al direttore del carcere, al procuratore capo di Lecce e al ministro della Giustizia per denunciare la situazione in cui si trova il proprio congiunto e un’altra decina di detenuti. Contattata da ilfattoquotidiano.it, la responsabile del penitenziario salentino ha preferito non fornire chiarimenti. La procura sta seguendo la vicenda: non ci sarebbero ancora fascicoli aperti, ma fonti giudiziarie fanno sapere che se dovessero emergere notizie di reato sarà chiaramente avviata un’azione penale “Nemmeno l’acqua ci hanno fatto prendere. Io non mangio da 4 giorni”. È il racconto di uno dei detenuti del carcere di Lecce che da giorni, secondo quanto svelato al Fatto dai familiari, sarebbe stato trasferito in isolamento dopo aver scoperto di essere positivo al Covid. Non un caso isolato, però: il trasferimento avrebbe infatti riguardato complessivamente una decina di carcerati in particolare della sezione “C2” e sarebbe avvenuto nel corso della notte soprattutto senza che né i parenti né gli avvocati difensori dei detenuti fossero stati informati. E quando la notizia è arrivata ai familiari è scoppiata la rabbia. I parenti lamentano condizioni in cui da giorni si trovano i loro congiunti: “Letteralmente deportati, privi di effetti personali, cibo e acqua, in isolamento” scrive Francesca, sorella di un ospite dell’istituto penitenziario salentino. In una pec inviata alla direttrice del carcere Rita Monica Russo, al procuratore della Repubblica di Lecce Leonardo Leone De Castris e al ministro della Giustizia Marta Cartabia, la donna ha denunciato che di aver ricevuto “la disperata telefonata” del fratello con la quale oltre a informarla di aver contratto il Covid come altri detenuti della sua sezione, ha raccontato che “ai detenuti risultati positivi al Covid e spostati in isolamento non sarebbe stata fornita nemmeno una bottiglietta d’acqua e per questo sarebbero costretti a bere da rubinetti acqua sporca e maleodorante, decisamente non potabile”. Da alcuni audio in possesso de ilfattoquotidiano.it è emerso inoltre che nelle scorse ore i detenuti avrebbero dato vita a uno sciopero: si sarebbero rifiutati di sottoporsi al rilevamento della temperatura svolta da un infermiere richiedendo la presenza di un medico che sostengono di non aver mai incontrato dal momento del loro collocamento in zona isolata. Contattata per fornire una chiarimento sulla vicenda, la direttrice della Casa circondariale leccese ha preferito non rispondere alle domande. E in risposta alla sorella del detenuto ha replicato che l’amministrazione “ha attivato il protocollo sanitario condiviso con il medico competente della Asl di Lecce ed il dirigente Sanitario” e “ha adottato tutte le cure prescritte per i casi di positività asintomatica”. La direttrice ha fatto sapere anche che “i detenuti positivi da Covid-19 sono rutti monitorati e assistititi presso il reparto Covid-19 allestito dalla Asl di Lecce e non presentano sintomi”, per poi aggiungere che rispetto “alle ulteriori doglianze” della donna, “fornirà ogni informazione alla Sig.ra Ministra della Giustizia Marta Cartabia e al Sig. Procuratore della Repubblica di Lecce Leonardo Leone Dc Castris”. E la procura, intanto, sta seguendo la vicenda: non ci sarebbero ancora fascicoli aperti, ma fonti giudiziarie fanno sapere che se dovessero emergere notizie di reato sarà chiaramente avviata un’azione penale. Intanto tra i parenti serpeggiano timori: ai detenuti positivi, infatti, sarebbe stato vietato di presentare le “domandine”, cioè le richieste da sottoporre alla direzione. Anche le video chiamate che in questo periodo hanno sostituito le visite familiari sono state vietate. Il telefono è l’unico mezzo con il quale i carcerati possono comunicare con i familiari. Ed è da queste telefonate, alcune delle quali registrate dai familiari, sarebbero emerse le notizie che stanno preoccupando le famiglie. “In questo momento di grande fragilità” si legge ancora nella lettera inviata alle istituzioni “si stanno calpestando non uno ma due diritti fondamentali degli esseri umani: quello all’acqua e alla salute. Mi chiedo se si stiano monitorando le condizioni di salute dei detenuti dal momento che non verrebbe fornita loro nemmeno l’acqua. E poi - chiede ancora la sorella di un detenuto - perché nessun legale è stato tempestivamente avvisato delle condizioni di salute dei rispettivi clienti? Si sarà ritenuto forse trascurabile il non comunicare ai famigliari che i propri cari hanno contratto il virus? È evidente come non esistano cittadini di serie A e serie B e anche se questi hanno commesso dei reati per i quali stanno pagando (altrimenti non sarebbero detenuti) non deve essere negato loro - ha aggiunto la donna - il diritto alla dignità”. La richiesta, quindi, è quella di fare luce sulla situazione che per i familiari non è degna “di un Paese civile quale si presume sia l’Italia”. Torino. Si accende una sigaretta prima del processo, detenuto malmenato da un agente di Federica Cravero La Repubblica, 19 marzo 2021 La procura apre un’inchiesta, l’episodio nella camera di sicurezza del palagiustizia. La procura di Torino ha aperto un fascicolo d’inchiesta su quanto accaduto nelle scorse settimane in una camera di sicurezza del tribunale di Torino, dove un giovane detenuto in attesa dell’udienza ha raccontato di essere stato malmenato da un agente della polizia penitenziaria dopo aver acceso una sigaretta. L’udienza era alle 11. Il trentenne, che è in carcere al Lorusso e Cutugno per altre vicende da ottobre 2019 e nel processo che doveva affrontare era accusato di truffa, era assieme ad altri detenuti nella cella di sicurezza. “Qui non si fuma”, gli avrebbe detto l’agente togliendogli la sigaretta dalle labbra e di fronte al rifiuto del detenuto di consegnare l’accendino lo avrebbe colpito violentemente al volto, facendogli sbattere la testa contro il muro e facendogli cadere gli occhiali a terra. E sarebbero stati gli altri agenti a intervenire separando i due. Una scena che aveva impressionato molto sia gli altri detenuti, che avevano iniziato a urlare e a inveire, sia un paio di operatori sanitari che accompagnavano la scorta del gruppo di detenuti. Stordito dal colpo e dolorante, con un filo di sangue che usciva da una ferita al naso, sarebbe stato richiamato dall’agente, che ha una lunga esperienza alle spalle, che assieme alle scuse e all’offerta di ripagare gli occhiali rotti gli avrebbe chiesto, con velate minacce, di non riferire nulla dell’accaduto all’udienza. E in effetti l’imputato era riuscito a mascherare la ferita e il dolore sia davanti al pm Paolo Scafi che al giudice Giorgia De Palma e nulla aveva detto nemmeno al suo difensore, l’avvocato Andrea Stocco. Anche perché - ha raccontato in seguito il giovane - gli agenti erano in aula, a pochi passi da lui. Solo nel pomeriggio, quando il detenuto ha avuto un malore e un fortissimo mal di testa, ha raccontato dell’aggressione subita. Inizialmente aveva detto di essere caduto dalle scale la mattina in tribunale, avendo perso l’equilibrio a causa delle manette. Poi però, portato in ospedale, ha cambiato versione. Del caso si è subito interessata la direttrice della casa circondariale, Rosalia Marino, che ha avviato un’indagine interna. “Da quel momento ho paura di essere punito, vivo nel terrore”, ha detto al suo avvocato, che ha raccolto la sua testimonianza e ha presentato in procura una denuncia per lesioni. Il fascicolo è stato assegnato al pm Giovanni Caspani. Napoli. Covid, tamponi al carcere di Poggioreale in attesa della campagna vaccinale di Antonio Sabbatino comunicareilsociale.com, 19 marzo 2021 Screening con test naso-faringeo per gli agenti di Polizia penitenziaria questa mattina nel parcheggio esterno del carcere Giuseppe Salvia di Poggioreale. In accordo tra la Direzione sanitaria dell’Asl Napoli 1 Centro e la direzione sanitaria e amministrativa dell’istituto penitenziario, oltre 300 addetti alla sorveglianza si sono prenotati per essere sottoposti a tampone in attesa dell’intensificazione della campagna vaccinale, sospesa da alcuni giorni dopo le note vicende del ritiro dei lotti di AstraZeneca e il successivo stop alle somministrazioni a livello italiano ed europeo. La campagna di tamponi, agli agenti proseguirà sarà poi ripetuta. La situazione a Poggioreale - Nel corso del tempo, a Poggioreale come altrove sono state allestite delle celle nei padiglioni Venezia e Firenze per accogliere sino a 60-70 detenuti eventualmente positivi o in isolamento precauzionale. Nel frattempo, in questo periodo, afferma con soddisfazione il dottore Vincenzo Irollo, direttore sanitario del Giuseppe Salvia, “tra detenuti, personale del carcere e agenti di Polizia penitenziaria di Poggioreale siamo al di sotto dell’1% di casi di positività. È un dato accettabile visto che siamo in un ambiente di comunità”. Sono soltanto 3 i detenuti positivi al Covid in questo momento; poche unità anche tra gli agenti di Polizia penitenziaria e comunque in isolamento domiciliare. Se nella prima ondata il Covid sembra soltanto aver sfiorato la platea carceraria, nella seconda ondata tra lo scorso inverno e lo scorso autunno i numeri sono stati ben superiori con decine e decine di contestuali casi, alcuni anche gravi che hanno costretto a ricoveri e che, come nel caso del responsabile sanitario del carcere di Secondigliano Raffaele De Iaso, ha portato alla morte (proprio a Secondigliano, lo scorso novembre, si registravano oltre 70 positivi). “Noi - aggiunge Irollo - come operatori sanitari e agenti penitenziari possiamo essere veicolo di contagio e ovviamente anche i colloqui e i contatti con i familiari sono stati veicoli di contagio Ora con la zona rossa per decisione ragionali e questo ci ha consentito di tornare in numeri accettabili”. Proprio per precauzione, da alcuni mesi i colloqui dal vivo tra detenuti e parenti sono sostanzialmente fermi, sostituiti da videochiamate a distanza. In attesa della campagna vaccinale - Ma il vero ago della bilancia per detenuti e agenti penitenziari, come per tutti quelli all’esterno delle carceri, è rappresentato dalla prospettiva di immunizzazione grazie alla somministrazione delle dosi di vaccino. In proposito, il dottor Lorenzo Acampora, direttore dell’Unità Operativa Complessa-Tutela della salute competente per gli istituti penitenziari rientranti nel territorio di competenza dell’Asl Napoli 1 Centro e cioè Poggioreale, Secondigliano e il carcere minorile di Nisida, afferma: “Il 50% dei nostri operatori oggi sono immunizzati nell’ordine del 93-94% perché vaccinati nei tempi previsti. Si aspettava che andasse avanti la campagna vaccinale anche per gli agenti di Polizia penitenziaria, iniziata lunedì ma purtroppo interrotta dopo lo stop ad Astrazeneca. Aspettiamo con ansia l’apertura della campagna vaccinale anche negli istituti penitenziari. Ma nel frattempo, nonostante a Poggioreale i detenuti siano oltre 2000 rispetto al numero congruo di 1600-1700, il tasso di positività è ben inferiore a quello del 12-13% della città fuori. È un grosso successo, raggiunto per l’elevato numero di tamponi effettuato”. Rivedere i parametri - L’emergenza Covid e la necessità di ripensare ritmi e abitudini di vita, non può lasciare indifferente anche chi si occupa dell’organizzazione carceraria. Su scala regionale il ruolo di provveditore dell’amministrazione penitenziaria Campania è attualmente di Antonio Fullone il quale si esprime così sull’opportunità di ripensare gli spazi all’interno degli istituti penitenziari. “Le carceri sono luoghi della società in tutti i sensi e le ansie che si vivono fuori a causa della pandemia si vivono anche dentro. Anzi, a volte vivere dentro certe preoccupazioni amplifica perché ci possono essere delle comunicazioni con differimento di tempo perché le condizioni di restrizioni della libertà sono una cassa di risonanze delle paure”. Dunque la strada giusta è costruire nuove strutture dove ospitare i detenuti come in tanti chiedono? Il provveditore preferisce concentrarsi su un’altra prospettiva. “In questo momento dobbiamo soprattutto ripensare le carceri che abbiamo. Stiamo facendo i conti con un significato diverso dello spazio, delle distanze e questo potrebbe essere utile per rivedere i parametri non sono a livello nazionale ma anche della Corte Europea”. Fullone spiega: “Non c’è per la Campania una tipologia di carcere o di struttura o di camera detentiva. Ci sono quelle adattate a carcere tipo Eboli oppure costruite più recentemente come Secondigliano o che risale ai primi del ‘900 come Poggioreale. I nostri parametri europei parlano di 3 metri quadrati per ogni persona detenuta. Se si va sotto quel limite, si considera degradante e non dignitosa la detenzione. Però è un limite che non può essere calato in questa realtà, puoi avere anche una stanza con 10 o 12 persone ospitate nei limiti del parametro della dignità stabilita dalla Comunità Europea che è un limite aritmetico, ma rispetto a quanto sta succedendo oggi con questa situazione di emergenza il quadro va rivisto”. Soluzioni? “Stiamo cercando di ridurre, di trasformare le stanze più grandi in stanze di socialità in modo che questi picchi di presenza, in intesa con il Dipartimento, possano essere aggiornati. Le stanze di Poggioreale, sono spesso dei cameroni. È questo è lo stimolo di questa situazione. Ripensiamo i ritmi di vita di tutta la società esterna, che pensa sia giusto fare lo stesso all’interno” conclude il provveditore Antonio Fullone. Catanzaro. Covid, focolaio nel carcere: sale a 17 il numero dei contagiati di Luana Costa lacnews24.it, 19 marzo 2021 Si registrano nuovi casi tra il personale della polizia penitenziaria e i detenuti. Ma il virus circola anche negli altri istituti penitenziari della Calabria. Si estende il focolaio epidemico accertato nella giornata di ieri all’interno della casa circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro. All’esito degli screening effettuato sul personale della polizia penitenziaria e tra i detenuti, è stata registrata la presenza totale di 17 persone affette da Covid 19. Il contagio - Nella giornata di ieri era stato accertato il contagio di quattro agenti della polizia penitenziaria e di tre detenuti di media sicurezza non reclusi, tuttavia, nelle stesse camere detentive. Da qui la necessità di effettuare una campagna di screening su tutta la popolazione carceraria che ha accertato la presenza di ulteriori 7 detenuti contagiati. Nella tarda serata di ieri si è avuto anche l’esito dei tamponi somministrati al personale della polizia penitenziaria che ha confermato la presenza di ulteriori tre agenti infettati. Isolamento - Già nella giornata di ieri si era proceduto ad isolare i detenuti contagiati trasferendoli all’interno della sezione Covid, appositamente allestita fin dall’inizio della pandemia dell’istituto penitenziario. Gli agenti si trovano in isolamento domiciliare. Ma la presenza del virus nelle carceri calabresi non è così infrequente. Seppur in numeri decisamente ridotti si registrano casi di contagio anche all’interno degli altri istituti penitenziari. La situazione in Calabria - Secondo un report aggiornato lo scorso 15 marzo un caso positivo tra gli agenti della polizia penitenziaria era stato registrato nella casa circondariale di Castrovillari, due a Crotone, uno a Palmi, due a Paola, due nell’istituto penitenziario di Arghillà a Reggio Calabria, uno nel carcere San Pietro, sempre a Reggio Calabria, uno a Rossano e uno a Vibo Valentia. Catanzaro. Nel prossimo Consiglio comunale l’istituzione del Garante dei detenuti catanzaroinforma.it, 19 marzo 2021 Lo ha annunciato il presidente Marco Polimeni. “Garantire ai detenuti uno strumento che ne tuteli i diritti è uno dei termometri più affidabili per misurare l’umanità di uno Stato, delle sue istituzioni, della sua società civile”. Lo ha detto il presidente Marco Polimeni annunciando che è stato messo a punto il regolamento che istituisce il Garante comunale sui diritti dei detenuti. “È il prodotto della sinergia instaurata dall’amministrazione Abramo con il Consiglio dell’Ordine degli avvocati della provincia di Catanzaro”. Il testo verrà inserito all’ordine del giorno del prossimo Consiglio comunale. “L’istituzione del Garante - ha aggiunto Polimeni - è un segno tangibile di attenzione nei confronti dei detenuti, minori e non, anche in tempi di pandemia, che sono ristretti nelle due strutture catanzaresi: la casa circondariale Ugo Caridi e l’Istituto penale per minorenni. Carceri in cui le persone vengono private della propria libertà, ma non possono per questo essere private dei propri diritti o della possibilità di avviare percorsi di reinserimento sociale”. Il regolamento disciplina le modalità di elezione, la durata del mandato (quattro anni) e le attività di questa autorità di garanzia, le cui funzioni principali saranno la ricezione di segnalazioni sul mancato rispetto delle normative di polizia penitenziaria e su eventuali violazioni dei diritti dei detenuti, ma anche la promozione di iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani e dell’umanizzazione delle pene di quanti sono limitati nella propria libertà personale. “Sono sicuro che l’aula approverà all’unanimità il testo di un documento che non è un vuoto adeguamento a norme di legge - ha concluso Polimeni - ma rappresenta un grande atto di civiltà pensato per difendere l’umanità delle persone e i loro diritti garantiti a livello nazionale e internazionale”. Massa Carrara. La scuola cresce dietro le sbarre, in carcere arriva la tecnologia di Maria Nudi La Nazione, 19 marzo 2021 Diligenti e appassionati, con il loro profitto alzano il morale dei docenti nel momento degli scrutini. Sono i detenuti-studenti della casa di reclusione di via Pellegrini a lodarli con tono commosso e con grande soddisfazione è stata la dirigente scolastica dell’istituto “Barsanti” Addolorata Langella. Il progetto scuola-carcere ha fatto un altro passo avanti e grazie al Pon Fesr Smartclass promosso dal ministero della istruzione, nell’ambito del progetto Classe Connessa, cinquemila euro sono stati investiti per dotare la scuola carceraria di via Pellegrini di mezzi informatici all’avanguardia. Sono stati acquistati cinque computer portatili di nuova generazione, cinque proiettori Acer, un carrello stazione di ricarica per custodia ed una grande lavagna interattiva. L’informatica all’avanguardia ha fatto ingresso nella scuola carceraria e ancora una volta grazie alla attività di didattica che da sempre fa parte della tradizione dello istituto penitenziario le barriere della casa di reclusione sono state idealmente abbattute. La società civile, in questo caso, la scuola è entrata nella quotidianità dei detenuti, circa un centinaio, che frequentano la scuola. “La scuola è il vostro futuro. Le competenze che acquisterete studiando vi permetteranno di tornare in pista quando uscirete da questa pausa dalla società civile. Lo studio vi permetterà di trovare un lavoro. E in questo periodo di pandemia voi avete la possibilità di studiare in presenza. L’abbandono scolastico è spesso causa di delinquenza”, ha spiegato la direttrice Maria Cristina Bigi nell’incontro tra il personale didattico, le dirigenti Addolorata Langella, Mariarita Mattarolo del CPA Massa Carrara, il personale didattico e una rappresentanza di detenuti studenti. Un momento significativo per i detenuti studenti. “Abbiamo acquistato con i fondi del ministero e grazie all’impegno del personale delle segreterie strumenti informatici all’avanguardia che vi permetteranno di studiare in modo migliore grazie alle caratteristiche dei programmi operativi”, ha spiegato Addolorata Langella visibilmente emozionata che ha lodato gli studenti della casa di reclusione di via Pellegrini perché in occasione degli scrutini hanno buone valutazioni. “L’acquisto di mezzi informatici all’avanguardia significa che l’apparato scuola, dal ministero della istruzione, ai dirigenti, ai docenti credono in voi. Ricordate sempre che noi tutti oltre ad essere chi siamo anche cosa sappiamo fare. La scuola, lo studio sono importanti: vi permetteranno quando riprenderete le vostre vite di farlo in modo migliore. Lo studio produce un profondo cambiamento, sarete diversi in modo positivo rispetto a prima. Potrete avere delle occasioni migliori, studiare cambia la prospettiva di vita. Credete in voi”, ha concluso Maria Cristina Bigi. Un momento di confronto e di dialogo terminato con il grazie dei detenuti studenti ai dirigenti e docenti e naturalmente alla loro direttrice che chiamano di nome: oltre le barriere anche del linguaggio. Padova. L’incredibile storia del prete più anticonformista d’Italia: Don Marco Pozza di Silvia Bombino vanityfair.it, 19 marzo 2021 Aprile 2020, Venerdì Santo, Città del Vaticano. Nelle immagini di piazza San Pietro deserta, che hanno fatto il giro del mondo, Papa Francesco celebra la via Crucis. Davanti a lui ci sono: un detenuto che porta la croce, un magistrato, un poliziotto, medici e infermieri in camice bianco, un prete. A lato, un uomo con le sneakers bianche. “C’è un attimo che non dimenticherò mai. Prima di iniziare, eravamo appoggiati al portone, chiuso, della basilica. Guardavamo la piazza davanti a noi, avvolta in un silenzio surreale. A un certo punto lui mi dice: “chi lo avrebbe mai detto, un anno fa…”. Chi ascolta l’umana incredulità di Bergoglio è Don Marco Pozza, ed è quel signore con le sneakers bianche. È lì perché è il cappellano del carcere di massima sicurezza Due Palazzi di Padova, colui che ha raccolto le meditazioni di detenuti, agenti, magistrati e familiari di vittime legati al penitenziario e che verranno lette in mondovisione. Ma è lì soprattutto perché è legato da qualche anno al Santo Padre, con cui ha fatto ben tre programmi trasmessi da TV2000, dedicati rispettivamente al Padre Nostro, all’Ave Maria e al Credo, e altrettanti libri editi da Rizzoli. E ora andrà in onda sul Nove la serie Vizi e Virtù - Conversazione con Francesco dal 20 marzo alle 21:25. Eppure la sua faccia è sconosciuta ai più. Chi è Marco Pozza, e come è diventato prete? “La mia è la storia semplice di un ragazzo del Nordest, nato sull’altopiano di Asiago, in un paese piccolo, che era rimasto affascinato dal parroco del posto, Don Beppe. Era un prete senza tonaca, ma con un gran sorriso e tanta voglia di fare del bene. Il mio sogno era diventare come lui, avere la mia chiesa, il mio oratorio. Se mi avessero detto scegli un posto dove non lo vuoi fare avrei detto senz’altro: il carcere”. Perché? “Sono pur nato in Veneto, terra leghista, dove chi sbaglia deve marcire dentro le galere”. Dopo Don Beppe, che cosa è successo? “Alla fine della quinta elementare, a 10 anni e mezzo, ho chiesto ai miei genitori di poter entrare in seminario. Ero un bambino vivace e che difficilmente seguiva le regole, se non fossi diventato prete probabilmente sarei comunque finito in galera, ma dall’altra parte, quindi per loro era una proposta allettante. Mi hanno lasciato la libertà di provare, al massimo ne sarei uscito”. Che cosa ricorda del seminario? “Ho avuto dei problemi, sono stato anche espulso, il mio carattere, dicono in Veneto, “non è farina da fare ostie”. Però in quei 14 anni tanti piccoli dettagli mi hanno fatto capire che da prete sarei stato più felice. La chiamata insomma non è arrivata vedendo la Madonna o Gesù. E non so se morirò prete”. In che senso? “Mi dispiacerebbe tantissimo essere certo di morire prete, perché vorrebbe dire che mi sono abituato a questa vita. Invece i motivi per cui questa mattina sono un sacerdote a mezzanotte scadono e domattina ne devo trovare altri, come in tutte le storie d’amore. Ho scelto di essere prete senza snaturare la mia persona: sono disposto a pagare tutto quel che c’è da pagare ma non voglio stravolgere il mio modo di ragionare, di vestire, di vivere le mie giornate. Se devo morire prete significa che nella vita, al primo tentativo, ho fatto gol, ma mi basta morire intellettualmente e spiritualmente onesto”. In seminario l’hanno riammessa. “Hanno accettato i miei spigoli. Ho fatto la vita di un ragazzo semplice, normale, che si è innamorato, che ha pensato anche lui di mettere su famiglia, che aveva 7 in condotta, che ha fatto l’università, e a cui la vita ha sorriso finora. Sono andato avanti e ho studiato al liceo classico, poi mi sono laureato in Teologia. A 25 anni sono stato ordinato prete”. Dove ha iniziato a praticare? “Io, uno di montagna, sono stato mandato in centro a Padova, a fare l’aiuto di un prete di 73 anni. Era un quartiere di gente benestante dove la formalità era importante: ricordo che mi presentai in canonica con i pantaloni corti, una maglietta e il cappellino girato all’indietro. Avevo voglia di fare, spaccare tutto. Quando chiesi che cosa dovevo fare, il parroco mi disse che avrei aiutato alla messa della domenica. E poi? Incalzai. “Vai a vendere le liquirizie al bar”, mi disse. Ho capito subito che non avrebbe funzionato”. Come ha reagito? “Ho fatto un calcolo: non veniva nessun giovane in chiesa, mentre c’erano 5 mila ragazzi in piazza a bere spritz. Quindi sono andato lì a evangelizzare all’ora dell’aperitivo. Io sono astemio, tra l’altro. Alla fine circa 400 ragazzi in chiesa sono riuscito a portarli. Gli adulti però me l’hanno fatta pagare, e dopo tre anni sono stato “invitato” a studiare a Roma, per il dottorato in Teologia”. Deluso? “Sono un appassionato ciclista, per cui so che puoi perdere una tappa ma per vincere il Giro d’Italia è la classifica finale che conta”. Come è entrato al Due Palazzi di Padova? “Mentre studiavo per il dottorato, una domenica mattina un mio caro amico mi ha chiesto di sostituirlo a una messa. Quando gli ho chiesto dove dovevo andare, mi ha detto: Regina Coeli. Lì è successo che celebrando la messa, quelle centinaia di volti che mi ascoltavano da dietro le sbarre mi hanno chiamato. Era come se mi dicessero: ci hai sempre giudicato, siamo dei pezzi di merda, siamo falliti, dobbiamo morire, ma ci hai mai incontrato veramente? A me, che sono uno che si incazza tremendamente quando la gente mi giudica senza conoscermi. Me lo ricordo come se fosse ieri: camminavo sul ponte di Castel Sant’Angelo e ho capito che dovevo accettare la sfida di amare quello che avevo sempre odiato. Così sono andato dal vescovo per chiedergli di mandarmi al carcere di Padova dove sapevo che mancava il prete. All’inizio era sorpreso, ma gli toglievo anche un problema”. Che cosa le ha insegnato il carcere? “Tre cose, finora: primo, che in carcere non esistono le persone cattive, ma persone che nella vita hanno sbagliato. Secondo, niente panico, devo avere misericordia nei miei confronti, io che tutto sommato riesco a perdonare gli altri, ma quasi mai me stesso. Terzo, che la vita reale ha molta fantasia: al netto delle responsabilità che hanno per le azioni atroci che hanno commesso, non pensavo ci fosse tanta vita in un luogo che ho sempre collegato alla morte. Nessuno è perduto se trova qualcuno che gli si siede vicino e scommette su di lui”. Partecipa a conferenze in tutt’Italia, in particolar modo presso scuole. Va sempre in borghese? “Mai avuta la divisa da prete, un po’ perché il famoso Don Beppe che mi affascinava da piccolo non ce l’aveva. Un po’ perché ho sempre avuto problemi con l’autorità e le divise, che segnalano l’importanza di un ruolo ma anche allontanano: a me piace giocarmela alla pari”. Come ha conosciuto Papa Francesco? “Il 6 novembre 2016 era la domenica del Giubileo dei carcerati, perciò avevo portato a Roma una cinquantina di detenuti. A un certo punto, per strada, mi suona il cellulare. Rispondo e sento una voce che dice: “Ciao, sono Papa Francesco”. Ovviamente ho pensato subito che fosse lo scherzo di qualche mio amico e ho buttato giù”. Ha buttato giù il telefono al Papa? “Esatto, dopo poco però per fortuna ha richiamato: “Deve essere caduta la linea”, ha detto. Mi ha chiesto di incontrare i detenuti a Casa Santa Marta. Questo mi ha fatto capire che mentre sono molto preparato al tragico della vita, non sono pronto alla bellezza. Quel giorno il Papa mi ha dato una grande lezione: il modo più bello che Dio ha, per farti capire che ti ama, è farsi trovare sotto casa. Gesù non aveva il cellulare, ma trovava le persone per strada. Lì è nata la nostra storia, che mi ha fatto sapere che dentro la Chiesa c’è qualcuno che mi vuole bene. Mi ha salutato mettendomi una mano sulla spalla: “Ricordati che non sei più solo, hai trovato un papà”“. Avete iniziato a collaborare subito? “No. Io dovevo fare dei programmi sulla preghiera su TV2000 e avrei voluto chiedere al Papa di cosa sentiva quando recitava il Padre Nostro, ma non sapevo come avvicinarlo. Così gli ho scritto una lettera e l’ho spedita per posta, pensando: se mi risponde significa che deve succedere. Imbuco la lettera la domenica, martedì mentre ero in strada, ancora, mi chiama Papa Francesco. Mi dice che gli piaceva l’idea, io pensavo mi benedisse - che già era tantissimo - e basta. Invece mi ha detto che voleva fare l’intero programma con me. Incredibile”. Come è salvato il suo numero sul cellulare? “È memorizzato in modo preciso, perché io non cada in scherzi. Ma non con il suo vero nome, ovviamente. Non dirò mai come”. Può raccontare qualcosa del set del nuovo programma? “Eravamo in Vaticano, Papa Francesco è un atleta da combattimento: era a suo agio. Io ero sicuramente più emozionato”. Il dialogo con lui, nel programma, parte da come Giotto illustra i vizi e le virtù nella Cappella degli Scrovegni di Padova. Che cosa le ha detto il Papa che l’ha sorpresa, da teologo? “Mi stupisce la sua freschezza, atteggiamento tipico delle persone intelligenti. È capace di parlarti in modo semplicissimo di cose difficilissime. Quando lui spiega la prudenza, che è la virtù che mi manca di più perché per me è sempre stata un freno che tarpava le ali, dice che in realtà la prudenza è saper capire che per essere creativi è necessario sbagliare. Non è il freno, ma le marce”. La cosa più sconvolgente che le ha detto? “Gli ho confidato un problema: a volte, quando vado in chiesa a pregare la sera, e sono molto stanco, capita di addormentarmi. Lui mi ha sorriso: “Anche io, ogni tanto, prendo sonno mentre prego. Ma il problema”, mi ha spiegato, “non è che tu prenda sonno, il problema è quando ti addormenti e sei fuori dallo sguardo di Dio”. L’umanità della sua teologia è disarmante”. Per girare si è presentato sempre in jeans e sneakers. “Non volevo mancare di rispetto, perciò ho detto al Papa: un conto è il rapporto tra me e te, un conto è davanti alle telecamere. Avevo portato la tonaca, gliela ho mostrata, se voleva me la sarei messa. Lui mi ha detto subito di no, che la gente mi conosceva così com’ero. Ho anche chiesto se dovevo dargli del “lei”, così lui ha detto di esordire con “Santità”, e poi passare al tu, come facciamo di solito”. Lei che è un prete anticonformista, viene criticato per il piumino o il cellulare? “C’è un contributo che ogni sacerdote prende che gli permette di vivere, si tratta di circa mille euro al mese. A casa mi hanno insegnato a risparmiare”. Come vive gli impulsi sessuali? “Da ragazzo ho avuto una fidanzata, ma poi ho scelto la strada che pensavo più felice. Come dicevo prima, può essere che mi innamori ancora, al cuore non si comanda. Credo che il Signore voglia la felicità delle persone, e, come dice Papa Francesco, prima delle regole, che ci devono essere, c’è la persona. L’ho capito stando in carcere, anche: avendo a che fare ogni giorno con il male, e il bene, che a volte si sovrappongono, ho perso ogni moralismo, non so sempre che cosa è giusto e che cosa è sbagliato”. Che cosa pensa dell’omosessualità nella Chiesa? “Che cosa penso dell’omosessualità in generale, piuttosto. La comunità del carcere è laica, ci sono persone che seguono varie religioni, induisti, buddisti, atei. Poi è variopinta: alcuni soffrono per la loro omosessualità, altri se ne vantano, altri hanno una sessualità confusa. Penso che la risposta più bella è sempre quella di Papa Francesco: chi sono io per giudicare? Bisogna amarsi per come si è, a prescindere dalle sue scelte, dalle tendenze sessuali e dalle passioni. Nel carcere c’è molta più libertà che nel mondo fuori, la gente non si vergogna di raccontarsi per quello che è”. Nel programma c’è anche Carlo Verdone che racconta il suo rapporto tormentato con la fede e di come monsignor Tonini gli abbia spiegato come “telefonare a Dio”. A lei Dio come parla? “Non mi telefona. E ho un rapporto conflittuale con Lui: tante sere dormiamo separati. Quello che so è che tutte le volte che ho chiesto qualcosa non mi ha mai accontentato, tutto è arrivato per caso da posti impensabili e quando meno me lo aspettavo. Quindi Dio ha deluso tutte le mie aspettative, ma ha sorpreso il mio cuore. Se si fossero realizzati i miei sogni di bambino sarei tristissimo. Ormai chiedo solo che mi tenga una mano sulla testa, come diceva mia nonna. E prego Dio che non renda mai tranquilla la mia vita, amo il tormento”. Volterra (Pi). Dentro e fuori il carcere, il teatro nella giornata mondiale Corriere Fiorentino, 19 marzo 2021 Il 27 marzo un evento in diretta streaming con il ministro Franceschini. Volterra sarà protagonista di una delle tappe del progetto pilota nazionale “Per Aspera ad Astra”, che nasce dall’esperienza della Compagnia della Fortezza guidata da Armando Punzo e che vede in rete 12 esperienze teatrali al lavoro in altrettante carceri italiane sostenute da 10 fondazioni bancarie tra cui la Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra. Coinvolti circa 250 detenuti in percorsi di formazione professionale ai mestieri del teatro. L’appuntamento si terrà in streaming il 26 marzo dalle 10.30 alle 12.30, con la conduzione dell’attrice Andrea Delogu. Si intitola “Rigenerazione. Nuove sperimentazioni teatrali dentro e fuori il carcere” ed è stato scelto per celebrare la Giornata mondiale del teatro alla presenza del ministro della Cultura, Dario Franceschini. La giustizia digitale tra rischi, pericoli e opportunità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 marzo 2021 Il saggio del giudice Antoine Garapon e del filosofo Jean Lassèguek. Aule chiuse, monitor accesi. Così, durante la pandemia, ha preso forma il processo penale telematico, un grande contenitore, tenuto nel cassetto per anni, in cui coesistono sia necessarie e importanti innovazioni nel segno della semplificazione, sia novità preoccupanti in termini di garanzie. In effetti, se da un lato è stato finalmente implementato, con non poche difficoltà e inefficienze, l’accesso al fascicolo digitale, dall’altro si è imposta l’udienza da remoto, modalità difficilmente compatibile con i principi cardine del processo penale. Proprio del travolgente impatto del digitale sull’essenza stessa del rito e, più in generale, del difficile rapporto tra innovazione tecnologica e giustizia, si sono occupati Antoine Garapon e Jean Lassègue ne “La giustizia digitale. Determinismo tecnologico e libertà”, edito in Italia da Il Mulino. In questo saggio gli autori riflettono su rischi, pericoli e opportunità della digitalizzazione della giustizia, tenendosi distanti tanto da un approccio di tipo negazionista - di negazione cioè dell’esistenza del digitale e dei suoi possibili usi applicati alla giustizia -, quanto da un ingenuo entusiasmo tecnofilo, figlio, al contrario, di una cieca e acritica fiducia nei confronti della tecnica, fondata sull’errata convinzione che quest’ultima possa dare vita a entità infallibili e dalle proprietà divinatorie. “Ogni società non consacra forse le proprie risorse a ciò che ha valore ai suoi occhi?”, si chiedono il giudice e il filosofo francesi. Domanda che, meno elegantemente, si potrebbe riformulare in questo modo: “è giusto sacrificare diritti e garanzie processuali sull’altare dell’efficientismo?”. Infatti, se è vero che il processo da remoto comporta meno costi per l’amministrazione rispetto a quello celebrato in tribunale, è altrettanto vero che “le interazioni sullo schermo sono ridotte a uno scambio di informazioni a metà strada fra lo scambio fisico e la comunicazione via mail”. Questo perché “il video priva la relazione giudiziaria del linguaggio del corpo e di tutto quello che suscita la compresenza”. In un processo, invece, bisognerebbe poter “accompagnare la propria parola a una postura fisica e a una concentrazione adeguate. La parola acquisisce forza di persuasione grazie a una particolare gestualità”. Il rito senza questi elementi si smaterializza, dà vita ad una “aleaturgia digitale” nel segno della discontinuità: fra rituale e procedura, tra comunicazione e informazione, fra gesto e parola. L’impressione è quella di assistere ad una simulazione malriuscita dell’udienza in presenza: “ritroviamo in questo la stessa differenza che corre tra leggere un testo religioso sul proprio e- reader sulla metro o salmodiarlo in una sinagoga. L’effetto prodotto non è lo stesso poiché il formalismo del linguaggio informatico non gode della stessa capacità trasformativa del formalismo rituale”. La forma, d’altronde, è sostanza, come dimostra una recentissima ricerca condotta dalla University of Surrey da cui emerge un dato preoccupante: nei procedimenti da remoto, oltre al numero delle sentenze di condanna, aumenta anche la severità delle pene concretamente irrogate. Al di là del processo telematico, gli autori affrontano, tra i tanti aspetti, anche quello della giustizia predittiva. La rarefazione dei giudizi, l’atrofizzazione delle conoscenze giuridiche rispetto a quelle informatiche e la proliferazione del conformismo giudiziario sono solo alcuni dei possibili effetti della predictive justice. Essa, infatti, sarebbe in grado, secondo Garapon e Lassègue, non tanto di far scomparire il campo giuridico, quanto di annetterlo, degradando la “conoscenza del diritto ad una qualità quasi secondaria per il giurista”. In definitiva, “La giustizia digitale” si presenta non solo come un’utile bussola per affrontare il tema del difficile equilibrio tra innovazione e garanzie individuali, ma anche come una lettura indispensabile per decifrare l’enigma dell’informatica applicata al diritto. Le pericolose conseguenze dell’altra epidemia di Daniele Manca e Gianmario Verona Corriere della Sera, 19 marzo 2021 L’infodemia opera come una qualsiasi malattia nel corpo umano: insinua il virus, il contagio virale ed esponenziale di una informazione bacata che infetta il sistema. “Covid non è la storia di un’epidemia, ma di due”. David J. Rothkopf nel 2003 sul Washington Post, attaccava così il suo articolo. Al posto di Covid c’era un’altra parola: “Sars”. Quel pezzo fece storia. Era intitolato “When the Buzz Bites Back”, traducibile più o meno con: “Quando le dicerie (le voci, i pettegolezzi) ti si rivoltano contro”. In quell’inchiesta il politologo e giornalista coniava un termine che oggi usiamo correntemente: infodemia. La contrazione tra informazione ed epidemia. La spinta a scrivere l’articolo in questione veniva dal fatto che le informazioni sulla Sars si erano diffuse molto più velocemente dell’epidemia stessa. Informazioni basate su false voci e notizie non affidabili che avevano portato a sopravvalutare gli effetti della sindrome acuta respiratoria grave. Quanto oggi il Covid sia invece pericoloso ce lo ricordano drammaticamente le centinaia di morti che nel nostro Paese siamo costretti a registrare quotidianamente. E che ieri nella giornata a loro dedicata abbiamo celebrato solennemente nella città martire di Bergamo alla presenza del premier, Mario Draghi. Ma Rothkopf riconoscerebbe nella vicenda europea sulla sospensione del vaccino AstraZeneca quanto accadde negli anni della Sars. Solo che questa volta ci sono di mezzo i governi, i decisori. Nemmeno loro esenti dall’infodemia che, diffusa prima tra i cittadini, è arrivata a spingere buona parte dei leader europei a sospendere per alcuni giorni l’immunizzazione della popolazione attraverso il preparato della società anglo-svedese. Ieri l’agenzia europea sui farmaci, l’Ema, ci ha detto che il vaccino è “sicuro ed efficace”. E oggi in Italia si riparte. L’accaduto ci dà la misura di quanto sia insufficiente la consapevolezza, a qualsiasi livello, della profonda trasformazione operata da quel protocollo di comunicazione che chiamiamo Internet. L’infodemia opera come una qualsiasi malattia nel corpo umano: insinua il virus, il contagio virale ed esponenziale di una informazione bacata che infetta il sistema e lo rende succube di una notizia imperfetta, che il telefono senza fili del web trasforma in poco tempo in verità assoluta. Perché, a differenza del telefono normale, che nella vita analogica ha almeno sei gradi di separazione con relativi ritardi, quello senza fili della Rete è immediato e senza soluzione di continuità. L’infodemia è figlia di Internet, la tecnologia che con tutti i suoi pregi e difetti ci lega ogni giorno per ore al cellulare sui meme che ci fanno ridere, sui commenti degli hater che ci fanno disperare, e che non è ancora riuscita a trovare un antidoto ai problemi endemici che la caratterizzano. Si può palesare soprattutto quando succede qualcosa di importante a livello globale. La abbiamo vista alla prova durante Brexit e le elezioni americane del 2016. La forza di cui si nutre è il creare inutili contrapposizioni, per poi arrivare a sentenze assolutistiche. C’è il Covid, è giusto stare chiusi o rimanere aperti? L’infodemia dà una risposta precisa a una sollecitazione che di risposte non ne ha, se non a livello ideologico. “È inutile chiudere, anche se le terapie intensive stanno tracimando e i dati sul contagio dimostrano che siamo vicini al collasso?”. O viceversa: “Chiudersi tutti in casa evitando qualsiasi contatto?”. L’infodemia favorisce l’approccio al mondo fatto di bianchi e neri, senza grigi, ha sempre una risposta semplice a qualsiasi problema complesso. Peccato che quella risposta sia sbagliata direbbe George Bernard Shaw. Vax o No vax? Vaccino sì, vaccino no, canterebbe Elio reinterpretando “La Terra dei Cachi” di questi tempi sanremesi 25 anni dopo. Fino ad arrivare a conclusioni catastrofiche come: lo sai che se ti vaccini alimenti solo il fatturato delle multinazionali farmaceutiche e ti inietti qualcosa che rende il tuo organismo nel tempo soggetto a patologie croniche? E quando si parte con la vaccinazione ecco arrivare alle domande che di scientifico non hanno niente ma alimentano il dubbio che ha insita la (semplice) risposta: vaccino di serie A o vaccino di serie B? Alcuni vaccini sono meglio di altri? Scientificamente impossibile stabilirlo a pochi mesi dal lancio sul mercato. E, come in questo caso, certamente sono diversi i meccanismi di funzionamento (alcuni impiegano la tecnica innovativa dell’mRNA, altri si basano sulla metodologia più tradizionale dell’inoculazione della molecola non infetta per creare anticorpi) e possono essere diversi gli effetti collaterali a breve (alcuni producono febbre, altri no). Ma, diceva ancora Rothkopf, se la malattia è l’infodemia, la conoscenza è la cura. Capire come si diffonde, quali ne sono i meccanismi profondi. Non sappiamo se si riuscirà a neutralizzarla. Di sicuro è una partita che non possiamo non giocare. Tutti noi, cittadini semplici, politici e governanti, abbiamo difficoltà a distinguere tra percezione e realtà. Ma, come ci ha raccontato il medico Hans Rosling nel suo Factfullness, peccato che la percezione con la realtà abbia poco a che fare. Abbiamo bisogno di vaccinarci con dosi di razionalità informativa. Nutrendoci di scienza che parla di fatti e che illustra i dati a fronte delle opinioni. E quando si basa sulle sole opinioni che queste siano basate sulla logica e non solo sul buon senso o peggio sulla superstizione. Non sarà facile. Perché tra le vittime dell’infodemia c’è la sua principale nemica, e nostra alleata, la scuola. Spagna. Il parlamento approva il diritto all’eutanasia di Luca Tancredi Barone Il Manifesto, 19 marzo 2021 La Spagna è diventata il settimo paese al mondo (il quarto in Europa) a garantire il diritto all’eutanasia. Con la legge approvata in via definitiva dal Congresso dei deputati, l’ordinamento giuridico accoglie un nuovo diritto, quello alla morte degna. La sanità pubblica dovrà inserirla fra i servizi offerti su tutto il territorio nazionale. A favore di questa legge, proposta da socialisti e Unidas podemos, tutti i partiti, con l’eccezione di Vox e Partito popolare. La società spagnola dibatte sul tema ormai da più di 20 anni. Nel 2004 il regista Alejandro Amenabar, in Mare dentro, raccontava la vicenda di Ramón Sampedro, un tetraplegico che riuscì finalmente a porre fine alla sua vita nel 1998 dopo anni di lotta per ottenere il diritto al suicidio assistito. Il caso ebbe un’enorme eco mediatica e Izquierda Unida fu il primo partito a presentare la prima proposta di legge in tal senso. Allora ottenne solo 25 voti: più di 20 anni dopo, i voti a favore nel Congresso sono diventati 202 (su 350). Numerose in questi anni le drammatiche storie di persone che hanno lottato per questo diritto, tutte ricordate ieri durante l’ultimo dibattito: da Maria José Carrasco, la donna affetta da sclerosi multipla avanzata che aveva pregato il marito di aiutarla a morire (il marito è sotto processo per averle somministrato il farmaco letale), a Maribel Tellaetxe, che aveva chiesto a figli e marito di aiutarla a morire quando l’Alzheimer le avesse cancellato il loro nome dalla memoria, fino a Antoni Monguilod, malato di Parkinson che per anni aveva chiesto alla moglie di aiutarlo a morire, ma non voleva finisse nei guai come il marito di Carrasco. Secondo sondaggi come quello di Metroscopia, l’appoggio della società a questa norma è oggi intorno al 90% (era solo del 50% negli anni 90). La nuova norma, che allinea la Spagna a paesi come Belgio, Lussemburgo, Olanda, Canada e Colombia, prevede che i residenti in Spagna da almeno un anno, maggiorenni che soffrano di “una malattia grave e incurabile” o di “una patologia cronica, grave e impossibilitante”, che provochi “una sofferenza fisica e psichica intollerabile”, capaci di intendere e volere, in “maniera autonoma, cosciente e informata” possano avvalersi di questo nuovo diritto. Ne dovranno fare richiesta scritta (a meno di esserne impossibilitati), dopo essere stati informati correttamente e per iscritto sul loro stato di salute e sulle alternative di cure palliative disponibili. La decisione potrà essere inserita nel testamento biologico o documento equivalente e potrà essere revocata o ritardata in qualsiasi momento. La richiesta dovrà essere ripetuta dopo 15 giorni: a quel punto verrà consultato un secondo medico, che dovrà stilare un rapporto. Poi interviene una commissione di garanzia multidisciplinare regionale, che in due giorni deve nominare un medico e un giurista. In una settimana dovranno stabilire se vengono rispettati tutti i requisiti. Contro una eventuale decisione negativa il paziente potrà fare ricorso. Tutto il processo dura circa un mese. La modalità potrà essere quella dell’eutanasia attiva (con l’intervento dei medici), o quella del suicidio assistito (il paziente si potrà somministrare un farmaco), e potrà avvenire in ospedale, clinica o nel proprio domicilio. I medici potranno fare obiezione di coscienza. L’approvazione della legge è stata salutata da un lungo applauso dei parlamentari presenti in aula (gli altri partecipavano telematicamente), mentre i deputati di Vox esibivano cartelli minacciando di fare ricorso al Tribunale costituzionale (ne hanno facoltà, avendo più di 50 deputati). La legge entrerà in vigore dopo tre mesi dalla pubblicazione in Gazzetta, ma già dal giorno dopo le comunità autonome potranno iniziare il procedimento per nominare le commissioni: è stato l’unico emendamento approvato al Senato, assieme alla possibilità che nelle commissioni entrino anche infermieri. Dovranno esserci almeno sette persone, ma i criteri sono lasciati ai governi locali. Cooperazione internazionale, chi è Coopi oggi nel mondo? di Marco Palombi La Repubblica, 19 marzo 2021 Da più di 55 anni è nelle aree più povere del pianeta, tra guerre e calamità. A fianco di chi è colpito più duramente, con l’ambizione di rompere il ciclo delle povertà l’Ong è presente in 31 paesi di Africa, Medio Oriente, America Latina e Caraibi, con 225 progetti umanitari Rompere il ciclo delle povertà. È questa la missione e l’ambizione che ispira da oltre 55 anni l’Ong Coopi, oggi presente in 31 paesi di Africa, Medio Oriente, America Latina e Caraibi, con 225 progetti umanitari che raggiungono 5.233.639 persone. Dal 1965 ad oggi ha aiutato più di 100 milioni di persone, con 2.300 progetti in 71 Paesi, impiegando 4.700 operatori espatriati e 60.000 operatori locali. L’obiettivo, peraltro comune a tutte le Ong italiane, è quello di contribuire a costruire un mondo senza povertà e realizzare nei fatti gli ideali di eguaglianza e giustizia, di sviluppo sostenibile e coesione sociale, nell’incontro fra i popoli. La storia dell’Ong e la conversione laica. Tutto cominciò il 15 aprile 1965, quando padre Vincenzo Barbieri fondò Coopi. Prese così il via un lungo cammino durante il quale la Cooperazione Internazionale italiana, con tutte le sue molteplici voci, cresceranno e si trasformeranno assieme. Ma tutta la storia cominciò prima del 1965, già nel 1961, quando il giovane gesuita Vincenzo Barbieri venne inviato dai superiori a studiare a Lione alla Facoltà di Teologia, in vista di una futura partenza per il Ciad come missionario. In Francia incontra un ambiente culturale molto più vivace ed aperto rispetto a quello che permeava la provincia italiana negli anni precedenti al Concilio Vaticano Secondo ed entra in contatto con movimenti laici internazionali impegnati da anni nel volontariato nei Paesi in via di sviluppo. Nel 1962 Barbieri rinuncia a partire come missionario e rientra a Milano, con l’intenzione di formare volontari pronti a partire per il Sud del mondo. È a lui, forse, che deve essere attribuito il merito di aver introdotto la componente laica nelle missioni. “Ho solo seguito il vento”. È probabilmente nelle pagine del libro con questo titolo (Editrice Missionaria Italiana, pp. 240, euro 14,00, prefazione di Andrea Riccardi) che per la prima volta viene ricostruita la storia di Coopi e del suo fondatore, dotato di straordinario carisma. Scritto da due dei protagonisti e amici di padre Barbieri, Luciano Scalettari, per anni inviato in Africa, e il medico Claudio Ceravolo, oggi presidente della Ong. Il volume prende spunto da una delle frasi più celebri di padre Barbieri: “Ho incontrato questa realtà di laici che partivano, e anch’io sono andato dove soffiava il vento”. Gran Bretagna. Pugno duro contro i migranti: “Deportati oltremare” di Alessandra rizzo La Stampa, 19 marzo 2021 Il piano della ministra Patel per allontanarli dal territorio nazionale. “I richiedenti asilo saranno trasferiti a Gibilterra o sull’Isola di Man”. Dopo un anno record per numero di migranti che hanno attraversato il Canale della Manica, il Regno Unito di Boris Johnson si prepara a dare una stretta, e lo fa con una proposta che scatena polemiche prima ancora di essere annunciata: potrebbe deportare i migranti che facciano richiesta di asilo politico all’estero così da allontanarli dal territorio nazionale. Le associazioni umanitarie insorgono, gli esperti di diritto prevedono una battaglia giudiziaria e le opposizioni parlano di idea “inumana”. La ministra dell’Interno Priti Patel, falco del Partito Conservatore che ha da sempre una linea dura sull’immigrazione sebbene sia lei stessa figlia di immigrati, presenterà la settimana prossima un pacchetto di misure per una riforma del sistema post-Brexit. Tra le proposte ci sarebbe quella di creare all’estero dei centri in cui far alloggiare i migranti mentre le loro richieste di asilo politico vengono esaminate. Secondo il Times, che insieme ad altri quotidiani inglesi ha dato la notizia, tra le possibili destinazioni ci sono Gibilterra, territorio britannico, e l’isola di Man, al largo delle coste britanniche, una dipendenza del Regno Unito. Peccato che entrambi i governi abbiamo immediatamente protestato. Il Primo Ministro di Gibilterra, Fabian Picardo, ha fatto sapere di non avere avuto nessun colloquio con Londra, ma ha detto di nutrire “serie preoccupazioni” di fronte a un’ipotesi “completamente impraticabile”. Dall’isola di Man, il primo Ministro Howard Quayle paragona l’ipotesi ad un pesce d’aprile. La Turchia sarebbe un’altra opzione. L’idea, una politica già adottata dall’Australia, non è del tutto nuova nemmeno per il Regno Unito. Nei mesi scorsi si era paventata la possibilità di mandare i richiedenti asilo politico in territori d’oltremare nell’Oceano Atlantico, o a bordo di navi da crociera per creare centri di smistamento galleggianti. Ipotesi poi giudicate irrealistiche dal governo. Ma gli ultimi dati sul numero di sbarchi avranno rinforzato la determinazione di Patel. Nel 2020, circa 8.500 migranti sono arrivati sulle coste del Kent a bordo di gommoni o altre imbarcazioni di fortuna. Dall’inizio di quest’anno, secondo alcune stime di associazioni umanitarie, il numero sarebbe già di 800. A destare preoccupazione sono anche le squallide condizioni di alcuni dei centri in cui sono attualmente detenuti gli immigrati: in un’ex caserma dell’esercito in cui centinaia di rifugiati hanno contratto il Covid si sono verificate nelle settimane scorse proteste violente, e un incendio che la polizia sospetta sia stato doloso. Downing Street non ha confermato, ma nemmeno smentito la notizia. “Stiamo cercando di capire cosa possano fare gli altri Paesi”, ha detto un portavoce. “Dobbiamo aggiustare un sistema che è rotto, per renderlo severo ma giusto”. Patel ritiene che la misura non solo possa ridurre sensibilmente il numero di sbarchi, ma incontri anche il sostegno dell’opinione pubblica. Altre misure incluse nel pacchetto prevedono l’ergastolo per i trafficanti di esseri umani e controlli più severi sull’età dei richiedenti asilo, dopo casi in cui persone adulte si sono spacciate per minori. Il governo spera di presentare un disegno di legge entro la fine dell’anno. Ma secondo alcuni esperti, l’idea di deportare chi arriva sul territorio britannico in attesa di una decisione sull’asilo politico rappresenterebbe una violazione della convenzione delle Nazioni Unite per i diritti dei rifugiati, esponendo il governo a potenziali azioni legali di fronte alle corti per i diritti umani. “Questa misura non fa nulla per affrontare il motivo che spinge le persone ad intraprendere un viaggio tanto pericoloso”, ha detto la Croce Rossa Britannica. Per i laburisti si tratta di un’idea “assurda”, che dimostra come il governo “abbia perso il controllo e la compassione”, mentre per il liberal democratici è una proposta “impraticabile e inumana”. Iran. “Djalali in condizioni critiche e potrebbe presto morire in prigione” di Barbara Cottavoz La Stampa, 19 marzo 2021 l’appello degli esperti dell’Onu all’Iran per liberare il ricercatore. Il medico con un passato all’Università di Novara è in carcere dal 2016 con l’accusa di spionaggio. Appello di otto esperti dell’Onu sui diritti umani lanciato all’Iran per liberare “al più presto” Ahmad Reza Djalali, il medico irano-svedese con un passato da ricercatore per tre anni al Crimedim (Medicina dei disastri) dell’Università del Piemonte orientale a Novara, che è detenuto dopo una condanna a morte per presunto spionaggio a favore di Israele. Secondo gli esperti dei diritti umani il ricercatore è “in condizioni critiche” e potrebbe “presto morire in prigione”, dopo mesi di “isolamento” in cella con “il rischio costante di un’imminente esecuzione”, dopo il rinvio dello scorso dicembre. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, il medico sarebbe costretto a subire privazioni del sonno e avrebbe avuto una “tremenda perdita di peso” per la mancanza di un’alimentazione adeguata. “C’è una sola parola per descrivere il grave maltrattamento fisico e psicologico di Djalali, ed è tortura”, dichiarano gli esperti, tra cui la relatrice speciale sulle esecuzioni extragiudiziali, Agnes Callamard, e il relatore speciale sulle torture, Niels Melzer. Il ricercatore era stato arrestato nell’aprile 2016 durante una visita nel Paese d’origine. Amnesty International ha definito il processo a suo carico “clamorosamente iniquo”. Myanmar. I militari attaccano un ospedale. La guerriglia etnica in campo contro i golpisti di Raimondo Bultrini La Repubblica, 19 marzo 2021 Ecco come si sta ridisegnando la mappa delle alleanze e il ruolo degli interessi cinesi. I miliziani delle minoranze attaccano le guarnigioni e sollevano le tre dita della mano a sostegno dei giovani disobbedienti anti-esercito. I Karen accolgono soldati e poliziotti che fanno defezione. La speranza di una Costituzione federale. Con l’attenzione rivolta ai 200 morti e alle quotidiane sfide al regime militare nelle strade di tante città del Myanmar, poche informazioni soprattutto dai siti locali emergono su ciò che sta avvenendo nelle regioni a maggioranza etnica. Le cronache locali dei giorni scorsi dallo Stato Kachin, in guerra decennale per l’indipendenza, registrano il primo atto di guerra esplicitamente compiuto a favore del movimento per la disobbedienza civile iniziato dai giovani birmani dopo il golpe del primo febbraio. Lo ha compiuto l’esercito indipendentista di questa etnia a maggioranza cristiana e cattolica, in sigla Kia. È un gruppo ben armato e addestrato da decenni di guerriglia a combattere i tadmadaw, i soldati di quasi esclusiva etnia birmana-bamar che stazionano in molte aree dello Stato per controllare e sfruttare le ricche risorse dei Kachin. L’11 di marzo, poche ore dopo che l’esercito aveva sparato contro i manifestanti del movimento di disobbedienza civile nella capitale Myitkyina, una formazione di militanti del Kia ha assaltato il quartier generale di una delle brigate dell’esercito birmano più addestrate contro ogni sommossa, la numero 333 (le altre si chiamano scaramanticamente 777 e 999). È la stessa che commise le stragi contro i Rohingya del 2017 e che nei giorni scorsi è stata impiegata a Yangon nelle aree dove si è verificato il maggior numero di vittime. Il gesto non è passato inosservato tra i giovani e attivisti che stanno rischiando ogni giorno le loro vite senza poter contare su troppe alleanze, e nemmeno sul celebre R2P, il programma di intervento delle Nazioni Unite in caso di violazioni gravi dei diritti umani. Testimoni rivelano che dopo aver completamente distrutto l’avamposto birmano, i guerriglieri hanno alzato le tre dita in segno di solidarietà con i giovani delle piazze birmane. Nel raid avrebbero anche ucciso alcuni soldati della “333” dislocati vicino ai villaggi di Gawshi e Nant Haing non distanti da Hpakant, dove la popolazione è scappata nelle boscaglie per sfuggire al fuoco incrociato. A rivendicare la distruzione della caserma è stata una speciale brigata Kachin col numero 444, altra concessione alla cabala. Questo evento segna il legame diretto, finora solo a parole e intendimenti, tra il pacifista CDM (della disobbedienza civile) e uno dei principali membri delle “Organizzazioni armate etniche” come il KIA, oltre che con la sua alla politica KIO. Ma il giorno dopo i guerriglieri sono andati oltre, e in uno degli attacchi armati che continuano tuttora in diverse aree dello Stato, hanno neutralizzato un’altra postazione militare a Gwi Htaw, poche miglia a nord del più controversa opera pubblica cinese, la diga di Myitsone. Pechino s’infuriò quando il generale-presidente Thein Sein, che fondò il sodalizio Esercito-Aung San Suu Kyi nel 2011, come segno di buoni propositi annullò il progetto della grande diga osteggiato dall’intera popolazione. Quando la Lady si recò a consigliarli di “seguire la via dello sviluppo” fu investita da un lancio di pomodori, un episodio unico nella sua carriera di eroina dei diritti umani e ex leader del governo civile. La diga è ancora ferma ma circondata da filo spinato e truppe militari. Una situazione che ricorda l’ultimo grave incidente che ha coinvolto gli interessi cinesi nella ex capitale dl Myanmar Yangon, gli incendi appiccati domenica alle super-controllate fabbriche della Repubblica popolare nel sobborgo di Hlaing Tharyar (fu colpito anche lo stabilimento di una compagnia di Taiwan probabilmente per ignoranza delle differenze). Comincia a sorgere più di un dubbio sulla versione ufficiale dei militari che accusano i giovani del movimento ribelle di esserne responsabili e di aver usato anche violenza contro gli impiegati cinesi. Un episodio in particolare mostra però quantomeno la resistenza dei militari a salvare le strutture attaccate. Diversi camion di pompieri pronti a estinguere le fiamme sono stati infatti bloccati e rimandati indietro. Se l’origine del tumulto è ancora incerta, secondo il network informativo alternativo a iniziare il raid sono stati militari in abiti civili per ottenere a seguito dell’episodio il via libera cinese per misure ancora più repressive. Ma altri attribuiscono la protesta alla spontanea decisione degli abitanti di manifestare la propria rabbia contro il sostegno di Pechino ai generali. Subito dopo i primi incidenti di domenica la giunta militare ha colto l’occasione per applicare la legge marziale in numerose “township” o borghi di Yangon. Molti abitanti dello slum vicino alle fabbriche incendiate lavoravano in vari stabilimenti dell’area gestiti da cinesi in condizioni malsane e con salari miseri. Stamane un gruppo di loro si era recato a chiedere la propria paga al titolare della fabbrica cinese di scarpe Xing Jia e per tutta risposta l’uomo ha chiamato la polizia. Nella stessa area dove domenica scorsa erano morte più di 20 persone perlopiù uccise dai militari, stamattina c’è stato un altro massacro. La prima a morire è stata un’operaia che si rifiutava di interrompere la sua protesta per la mancata paga, poi gli agenti hanno sparato contro la folla che fuggiva uccidendo altre cinque persone. Ma l’episodio più sconcertante di ieri è avvenuto in un ospedale privato di Yangon, il Grand Hantha, dove truppe della giunta hanno sparato danneggiando l’Unità di terapia intensiva accusando i dirigenti di aver curato i manifestanti feriti. Un gesto in piena violazione di ogni norma umanitaria internazionale. In questo clima che somiglia sempre più a una guerra civile, l’ingresso in campo con le armi degli etnici Kachin è particolarmente dirompente perché per lungo tempo i guerriglieri avevano accettato il cessate il fuoco proposto dal precedente governo. Ma l’effetto del golpe sulle relazioni tra questa grossa minoranza e lo Stato dei birmani è stato devastante. La stessa capitale è scesa quasi ogni giorno in strada per dare il suo sostegno al movimento nazionale, superando incomprensioni e perfino razzismi del passato tra le varie etnie. L’organizzazione armata e quella politica sostengono che, per loro, si tratta solo di continuare una guerra che risale al lontano 1961 per la separazione di Kachinland dall’Unione del Myanmar. A rendere più complesso di quello che sembri il ruolo dei gruppi etnici, la Cina ha spesso finanziato e armato vari gruppi separatisti, soprattutto quelli di lingua cinese come gli stessi Kachin. Voleva avere alleati territoriali ovunque anche se parallelamente Pechino manteneva strette relazioni con la giunta e l’ex governo civile. Ma la svolta è ora evidente, e un dirigente del Partito Kachin è giunto a invitare i giovani disobbedienti di tutto il paese di “non aver paura dei soldati”. Oltre ai Kachin, già divenuti sostenitori “operativi” del movimento nazionale, sarebbero già pronti alla reazione armata anche i Karen del “National Liberation Army (KNLA). Nella loro “Area liberata” hanno ospitato già una decina di poliziotti disertori oggi uniti al movimento della disobbedienza, ed erano comunque determinati già prima del golpe a reagire contro i continui bombardamenti di interi villaggi Karen con vittime, distruzioni e sfollati. L’interesse dei militari nello Stato è legato - non è nemmeno questo un caso - alla rete di difesa dell’area che sta per ospitare una città ancora in costruzione gestita da compagnie cinesi sospettate di rapporti con la mafia delle Triadi. Si chiama Shwe Kokko city, e ruota attorno a un casinò per finanziare l’impresa. Ad osservare attentamente cosa avviene nella costellazione delle minoranze e le loro reazioni al golpe c’è un altro protagonista importante di questa fase caotica e disperata, un Comitato che opera virtualmente dagli Stati Uniti col nome di CRPH (dal nome del dissolto parlamento del Myanmar). È la vera guida politica del movimento di disobbedienza e il suo inviato speciale alle Nazioni Unite, il dottor Sasa o Salai Maung Taing, si è mostrato molto interessato a dialogare con i partiti politici etnici, comprese le loro organizzazioni armate per formare insieme un Governo di Unità nazionale dopo la sconfitta - per ora utopica - delle forze militari di Min Aung Hlaing. Il dottor Sasa, che era un medico cristiano dello Stato Chin prima di entrare in politica e diventare deputato dell’LND, è sfuggito - fingendosi un tassista - allo stesso raid notturno dei golpisti che il primo febbraio portò in carcere Suu Kyi, il presidente e molti altri. Raggiunta l’India e da qui l’America, Sasa è stato eletto all’Onu come rappresentante del Comitato birmano della resistenza. All’inizio di marzo ha presentato una lettera al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite chiedendogli di “onorare i propri impegni nell’attuare la norma di Responsibility to Protect”, la Responsabilità di offrire protezione, in sigla R2P. Si tratta di un vero e proprio piano di intervento esterno in caso di “minaccia o atti di genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica”. Vista la situazione del Myanmar la richiesta dovrà inevitabilmente essere presa in considerazione anche se la Cina e la Russia porranno come immaginabile il loro veto ad ogni “interferenza” con gli affari interni di un paese membro. La stessa India sembra riluttante a schierarsi apertamente visti i grandi interessi di scambi e la necessità di contrastare Pechino con le sue mire sull’oceano indiano. Nel frattempo il dottor Sasa è stato accusato di “alto tradimento” da un tribunale militare, ma continua la sua ricerca di alleanze dentro all’Unione. Tra gli altri gruppi armati simpatizzanti del CDM il suo incontro online ha avuto luogo con l’ala politica di un’efficiente organizzazione del popolo Shan chiamata RCSS, Consiglio per il restauro dello stato (autonomo). Non è un caso se subito dopo il webcast via Zoom una postazione della sua ala armata, lo Shan Army, è stata attaccata dall’artiglieria nel sud dello Stato. Ma a contrastare l’asse dei gruppi etnici che sostengono i ribelli birmani c’è un altro insieme di formazioni etniche come la potente Northern Alliance che sembra schierata apertamente con la giunta militare. L’alleanza include anche l’Arakan army, fino a pochi mesi fa in aperta guerra coi tadmadaw. Ne fanno parte anche altri gruppi separatisti Shan come i Ta’ang e i Kokang, tenendo presente che diverse di queste formazioni - compreso il potentissimo esercito dei signori della droga Wa - sono state sospettate in passato di aver ricevuto cospicui aiuti dalla Cina per non intralciare i loro progetti “di cooperazione”, come miniere, giacimenti di gas e dighe. La sorte delle perlustrazioni politiche via Internet condotte dal dottor Sasa con gli altri gruppi politici e armati non allineati con la giunta è vista comunque con ottimismo, dopo che anche i leader del Chin National Front (Cnf) hanno confermato a Sasa il proprio interesse al progetto di una battaglia comune. La richiesta dei gruppi etnici nell’eventualità di giungere a un governo di unità nazionale è quella di evitare un nuovo patto che faccia solo gli interessi della maggioranza birmana-bamar. Per questo sono particolarmente significative le conversazioni tra Sasa e le controparti delle minoranze, con un grosso ostacolo da superare a proposito della vecchia costituzione militare del 2008. L’Associazione dei partiti etnici ha detto di accogliere con favore le aperture della Lega, perché segue la reciproca visione politica di superamento del regime militare. Ma chiede che il Parlamento in esilio del Crph respinga la costituzione militare tout court, e dica come intende crearne una nuova. Per loro è d’obbligo che sia basata sul reale federalismo. “Prima delle elezioni - spiega una esperta di diritti umani che preferisce l’anonimato - non era chiaro se i leader dell’Lnd volessero abolire tutta la Costituzione o solo i passaggi che interessavano la presidenza di Aung San Suu Kyi. Per 5 anni, tranne in campagna elettorale finale, la Lega non ha mai sfidato apertamente la Costituzione e nemmeno spinto al decentramento, nominando spesso capi ministri locali del partito, anche negli stati dove la maggioranza ha votato per gli etnici”. Il risultato è che le trattative del governo ombra Lnd devono superare le vecchie diffidenze. E, forse più importante, decidere se accettare la guerriglia armata all’interno di un movimento come il Cdm che ha tentato di rimanere pacifico sotto i colpi letali dei soldati. Nel frattempo i Kachin del Kia continuano ad attaccare sempre nuove postazioni militari del comune nemico. L’ultima è stata fatta saltare in aria ieri mattina nel distretto di Tanai, con almeno otto persone locali ferite locali. Sono gesti che avranno ripercussioni inevitabili nel prossimo futuro e decine di villaggi sono già stati evacuati. Nell’intero Stato le proteste continuano con flash mob e scontri con polizia e esercito.