La Costituzione e il carcere di Valter Vecellio lindro.it, 18 marzo 2021 Marta Cartabia presenta le linee programmatiche sulla Giustizia in commissione alla Camera. Una vera e propria lectio magistralis su diritto, legge, legalità. Di fatto le linee guida per una giustizia giusta: dal “superamento del carcere come unica risposta al reato” alla censura del “processo mediatico”. In una parola: l’orgoglioso rivendicare del primato della Costituzione: “L’idea di efficienza non rappresenta soltanto un obiettivo pragmatico, riflesso della stretta compenetrazione tra giustizia ed economia, ma si coniuga altresì con la componente valoriale del processo, con gli ideali tesi alla realizzazione di una tutela giurisdizionale effettiva per tutti”. E ancora: un lungo passaggio dedicato alla “centralità del Parlamento”, luogo di “confronto autentico schietto e tempestivo”. La convinzione che sia opportuna “una seria riflessione sul sistema sanzionatorio che ci orienti verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La certezza della pena”. La detenzione in cella, “per gli effetti desocializzanti che comporta, deve essere invocata quale extrema ratio. Occorre valorizzare piuttosto le alternative al carcere, già quali pene principali”. Meglio non si sarebbe potuto dire. Si potrà obiettare che sono, appunto, parole. Certo, si dovrà vedere se seguiranno fatti e interventi concreti; e quali. Ma intanto è importante che siano state dette. Il predecessore di Cartabia, Alfonso Bonafede da ben altra, opposta ‘filosofia’ era animato e ben altri i suoi peraltro maldestri interventi. Su tutto ciò sarebbe opportuno, necessario avviare un processo di riflessione, confronto, dibattito. Quello che non è accaduto, non accade; e deve invece accadere. La terza ondata di Covid-19 entra anche nelle carceri italiane. Colpisce indistintamente detenuti e agenti. Le vaccinazioni vanno a rilento. Nella prima decade di marzo il numero dei reclusi infettati dal Coronavirus è salito dai 410 segnalati l’1 marzo ai 468 dell’8 marzo, fino ai 470 dell’11 marzo. Aumentati in modo rilevante anche gli agenti della polizia penitenziaria risultati positivi: dai 562 dell’1 marzo ai 612 dell’8 marzo, fino ai 655 del’11 marzo. L’1 marzo si contavano 52.644 donne e uomini (più 27 bambini, figli di mamme detenute) stipati negli spazi ristretti di 189 penitenziari. L’8 marzo il totale era di poco inferiore, 52.599 alla conta, a fronte di quasi 40mila agenti e graduati in divisa e a circa 4mila tra dipendenti amministrativi e dirigenti (49 dei quali risultavano positivi l’1 marzo e l’11 marzo, passando per i 48 dell’8 marzo), cui aggiungere medici e infermieri, insegnanti, mediatori, cappellani e volontari (dove ammessi). L’associazione Ristretti Orizzonti (dossier Morire di carcere) dalla primavera 2020 a inizio marzo 2021 ha avuto notizia di 18 reclusi stroncati dal virus. Il Covid, stando a sindacati e colleghi, in contemporanea è costato la vita a 4 medici penitenziari (di Foggia, Massa, Brescia e Napoli Secondigliano) e ad almeno 10 poliziotti penitenziari, 3 dei quali in servizio a Carinola (in provincia di Caserta). Potrebbero essere ancora di più? Altre tragedie irrimediabili sono sfuggite al censimento informale? Sul sito del ministero di Giustizia il riepilogo dei decessi non c’è, non nella pagina web con i monitoraggi settimanali resi pubblici. All’8 marzo erano stati vaccinati 927 dei 52.599 detenuti presenti, meno del 2 per cento. L’11 marzo si è arrivati a 1.331 reclusi immunizzati (intorno al 2,5%). Il personale di polizia penitenziaria “avviato alla vaccinazione” l’8 marzo ammontava a 5.764 su un organico di 36.939; e l’11 marzo a 8.253. Più in generale, la situazione delle carceri italiane nel diciassettesimo rapporto curato dall’associazione ‘Antigone’, che da anni monitora quello che accade negli istituti di pena. Il sovraffollamento continua a essere la grande piaga del pianeta carcere: si oscilla tra il 106,2 e il 115 per cento. Se si registra un lieve miglioramento rispetto agli anni passati, si legge nel rapporto, il merito, è “più dell’attivismo della magistratura di sorveglianza che dei provvedimenti legislativi”. In sostanza: la gestione dell’ex Ministro Bonafede è stata semplicemente fallimentare. Si individuano realtà letteralmente indegne per un Paese civile. Il carcere di Taranto registra un sovraffollamento del 196,4 per cento: 603 detenuti per 307 posti; segue Brescia: 191,9 per cento, 357 detenuti per 186 posti; Lodi: 184,4 per cento, 83 detenuti per 45 posti. Nel 2020 si sono verificati 61 suicidi, tre dei quali solo a Como; 23,86 episodi di autolesionismo ogni cento detenuti. Per quel che riguarda l’organico, manca il 12,5 per cento degli agenti, il 18 per cento degli educatori e ben 31 direttori titolari. Su tutto ciò sarebbe opportuno, necessario avviare un processo di riflessione, confronto, dibattito. Quello che non è accaduto, non accade; e deve invece accadere. Il caso del regista Ambrogio Crespi: attualmente è detenuto nel carcere milanese di Opera, lo stesso carcere dove aveva scontato 200 giorni di carcerazione preventiva, 65 dei quali in isolamento. Una condanna passata in giudicato per concorso esterno in associazione di stampo mafioso e voto di scambio. Una vicenda di cui si è parlato poco, in modo frammentario. Pochissimi, finora, hanno levato la loro voce, mostrato attenzione a questo caso. Crespi viene tirato in ballo da alcune intercettazioni di persone che parlano di lui, a sua insaputa; una di queste persone, ascoltato in aula, sostiene di essersi inventato tutto, di essere un fanfarone che l’ha sparata grossa. Per qualche imperscrutabile ragione, viene creduto quando accusa; non gli si crede quando ritratta. Una storia piena di incongruenze e conti che non tornano, ben raccontate nel libro ‘Il caso Crespi’, di Marco Del Freo. Il Presidente onorario di Cassazione, Alfonso Giordano, Presidente del primo maxi-processo alla Cosa Nostra (quello istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino), nella prefazione al libro scrive che “anche per chi non abbia una approfondita conoscenza della personalità del Crespi, qualcosa stride nei due documenti giudiziari; e soprattutto poco convincenti appaiono certe credulità che hanno costituito i plinti dell’edificio usato per condannarlo in primo grado a dodici anni di reclusione, ridotti a sei in fase d’appello”. Già questo basterebbe per accendere sull’intera vicenda i riflettori. Invece nulla. Se si escludono i dirigenti del Partito Radicale e dell’associazione ‘Nessuno tocchi Caino’, un silenzio pressoché totale. Nessuno sembra darsi pena di conoscere e far conoscere. Sergio D’Elia, segretario di ‘Nessuno tocchi Caino’, osserva: “Di solito si dice che le sentenze non si commentano. Questa, per la gravità, va immediatamente e chiaramente commentata”. Quello che non è accaduto, non accade; e deve invece accadere. Direttori delle carceri: pochi e vicini alla pensione, ma il concorso non si sblocca di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 marzo 2021 Alcuni direttori delle carceri ne dirigono 3. Dopo 20 anni sono stati banditi 45 nuovi posti, la data per la prima prova scritta ha subito già cinque rinvii. Sono passati più di 20 anni dall’ultimo concorso pubblico per direttori delle carceri. Ad oggi, su 190 Istituti penitenziari per adulti, solo 147 hanno un direttore titolare. A maggio del 2020 il ministero della Giustizia ha finalmente bandito 45 nuovi posti per dirigenti penitenziari. Ma ad oggi, di rinvio in rinvio, ancora non è stata stabilita la data per la prima prova scritta. Il risultato è che abbiamo numerosi casi in cui un unico dirigente è a capo di più di un istituto. Molti direttori delle carceri svolgono doppie o triple funzioni - Per capire meglio la dimensione del problema, ci sono i dati reperibili dall’ultimo rapporto di Antigone. Si evince, infatti, che molti direttori svolgono infatti doppie se non triple funzioni come nel caso dei tre istituti sardi di Cagliari, Isili e Lanusei. Come ha sottolineato l’associazione, si tratta nella maggior parte dei casi di carceri di ridotte dimensioni in cui le funzioni di direzione sono attribuite al dirigente a capo di un istituto dello stesso complesso penitenziario o comunque del territorio limitrofo. Vi sono però anche esempi di doppi incarichi in istituti di dimensioni maggiori, come nel caso della casa circondariale di Cosenza e la casa di reclusione di Rossano, ospitanti più di 200 persone detenute a testa e gestite dallo stesso dirigente. In Sardegna su 10 istituti sono uno ha un direttore incaricato - Un caso emblematico di sovrapposizione di incarichi è rappresentato dalla Sardegna, dove su dieci istituti di pena soltanto uno ha un direttore incaricato solo per quella sede. Altro esempio, allarme lanciato qualche tempo fa dal garante regionale Bruno Mellano, è il Piemonte dove sono sette i direttori delle carceri per i quattordici istituti penitenziari della regione. Dati che sono destinati a peggiorare visto che non pochi direttori penitenziari sono prossimi alla pensione. Il concorso pubblico per dirigenti penitenziari, indetto il 5 maggio scorso, com’è detto ancora non si è sbloccato. Basterebbe leggere gli avvisi pubblicati sul ministero della Giustizia: nel corso del tempo, di Dpcm in Dpcm, ha avuto già 5 rinvii delle prove scritte. L’ultimo rinvio risale al 9 marzo scorso. Si legge, infatti, che “Visto il D.P.C.M. 2 marzo 2021 (…), si comunica che le date e la sede di svolgimento della prima prova scritta del concorso pubblico, per esami per l’accesso alla carriera dirigenziale penitenziaria per complessivi 45 posti, a tempo indeterminato, di Dirigenti di istituto penitenziario di livello dirigenziale non generale, indetto con P.D.G. 5 maggio 2020, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale - IV Serie speciale - n. 39 del 19 maggio 2020, saranno stabilite con successivo provvedimento che sarà pubblicato nella scheda di sintesi del concorso presente nel sito ufficiale del ministero della Giustizia www.giustizia.it, a far data dal 23 marzo 2021”. Il sindacato dei direttori penitenziari auspica lo sblocco dei concorsi - Quindi si parla dell’ennesimo rinvio, con l’augurio che in quella data venga finalmente sbloccato l’avvio della prima prova scritta. Resta però il dato oggettivo che l’attesa è destinata ad allungarsi ancora. A sollecitare l’avvio verso lo sblocco delle procedure dei concorsi per il personale della Carriera Dirigenziale Penitenziaria, è stato il sindacato dei direttori penitenziari (Si.Di.Pe.). “Vogliamo essere fiduciosi che questo sblocco dei concorsi apra una nuova stagione per la dirigenza penitenziaria - auspica Rosario Tortorella, il segretario del Si.Di.Pe. - e, più in generale, per il mondo dell’esecuzione penale, una stagione di doverosa attenzione e di riconoscimento a questa dirigenza, gravata da enormi responsabilità e che, tra le mille difficoltà acuite dalla pandemia e le scarse risorse, ha gestito, a garanzia del rispetto dei principi costituzionali sottesi all’esecuzione della pena, le carceri italiane. Anche per questo confidiamo nell’alto profilo, umano e professionale, della nuova ministra della Giustizia, professoressa Marta Cartabia”. “La giustizia non sia più strumentalizzata. È arrivato il momento di renderla più garantista” di Simona Musco Il Dubbio, 18 marzo 2021 Intervista all’eurodeputato Giuliano Pisapia. “Abolire la prescrizione? Un’assurdità giuridica”. “La Giustizia non deve essere strumentalizzata per finalità di consenso politico. E, chiaramente, anche la politica non deve essere strumentalizzata per finalità personali. Insomma, bisogna uscire dalle polemiche ideologiche e dall’idea di fare le riforme non perché necessarie, ma per finalità di consenso elettorale”. Giuliano Pisapia, avvocato, eurodeputato ed ex sindaco di Milano, ha le idee chiare. Come la ministra della Giustizia Marta Cartabia, che secondo il politico ha la possibilità di dare una svolta in senso garantista alla nostra giustizia civile e penale. “Non ha necessità di raccogliere consensi elettorali - spiega al Dubbio. E questo la rende più libera nelle decisioni che servono al Paese”. Il discorso della ministra Cartabia è innovativo e crea una rottura col recente passato. Quali sono i punti forti più forti di questo programma? In una situazione come quella in cui ci troviamo, con un Governo che ha, se va bene, massimo due anni di tempo, la Ministra della Giustizia ha fatto una scelta giusta: anziché fare un programma di carattere generale sui temi della Giustizia, ha indicato le priorità che potrà far diventare realtà nel limitato tempo a disposizione. I problemi della giustizia vengono da lontano e lei ha messo al primo posto i temi della ragionevole durata del processo, della riforma del Csm, delle condizioni spesso disumane delle nostre carceri e, quindi, del principio della “pena certa, ma non necessariamente carceraria”. Temi urgenti e su cui ha idee e proposte chiare anche per la sua esperienza di Presidente della Corte Costituzionale e Professoressa ordinaria di diritto costituzionale. Il carcere deve essere l’extrema ratio e vanno create le condizioni per il reinserimento sociale, lavorativo, familiare dei detenuti. Reinserimento che significa anche una diminuzione dei reati e quindi maggiore garanzie per la sicurezza dei cittadini. I dati dimostrano che chi sconta l’intera pena in carcere ha un tasso di recidiva molto maggiore rispetto a chi ha usufruito di misure alternative. Secondo lei cosa serve dopo tutto quello che è successo negli ultimi tempi, dalla crisi della magistratura alla crisi politica legata ai temi della giustizia? Innanzitutto che la giustizia non sia strumentalizzata per fini politici. E chiaramente anche che la politica non sia strumentalizzata per finalità personali. Bisogna porre fine alle polemiche ideologiche e agli scontri preconcetti; bisogna fare le riforme perché utili e necessarie e non fare le controriforme per cercare consenso elettorale. In questa situazione difficile c’è il vantaggio di avere un esecutivo che, per la maggior parte, non ha bisogno, per il proprio futuro, di un consenso elettorale e quindi avrà la possibilità, che forse non si vedeva da tempo, di fare quello le riforme, indispensabili e urgenti, per una giustizia celere, efficiente e garantista. Uno dei temi principali è la prescrizione, da ricondurre - questo l’intento - nel perimetro della Costituzione, all’interno della riforma del processo penale. Qual è la soluzione? Di certo non quella di eliminare la prescrizione, come qualcuno ha fatto, ma accelerare i tempi del processo. La cancellazione della prescrizione è uno scempio dello Stato di diritto, anche perché si rischia che un ragazzo accusato di un reato quando aveva diciott’anni possa trovarsi con un procedimento aperto quando ne avrà 80. Un’assurdità giuridica in contrasto con la Costituzione, che prevede la ragionevole durata del processo. Il concetto di ragionevole implica anche il dovere di fare tutti gli interventi legislativi, regolamentari e organizzativi necessari per eliminare i “tempi morti” dei procedimenti sia civili che penali. La digitalizzazione e l’aumento degli organici sono fondamentali. Bisogna fare di tutto perché si possa veramente arrivare a definire i processi nel più breve tempo possibile. A tale proposito non si può ignorare che la gran parte dei processi si prescrivono nel periodo delle indagini preliminari. Secondo il M5S la riforma ha proprio lo scopo di correggere le distorsioni frutto dell’irragionevole durata del processo. Al Ministero di Grazia e Giustizia si possono trovare nei cassetti molte proposte di riforma del codice penale e civile, del codice di procedura penale e civile tese ad accelerare i tempi dei processi, ma non a scapito delle garanzie sostanziali e processuali. Commissioni ministeriali diverse, e nominate in differenti periodi e da Ministri di diverso orientamento politico, sono quasi sempre arrivate alle stesse conclusioni e alle stesse proposte di riforma. Da decenni si fanno proposte concrete e realizzabili ma, troppo spesso, queste proposte vengono modificate, e peggiorate, per il timore di perdere consensi e/o per strumentalizzazioni politiche. Altro tema è la riforma del Csm. C’è chi invoca il sorteggio come strumento più sicuro per evitare degenerazioni. Però l’Anm ha paventato il timore di una contrazione del diritto all’elettorato passivo e attivo dei magistrati. Qual è la strada giusta? In passato, chiunque facesse proposte di riforma del Csm veniva accusato di voler minare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Nulla di tutto questo. Bisogna creare le condizioni affinché il Csm possa svolgere il proprio ruolo senza limitazioni della propria autonomia e credo che questo non si possa ottenere con il sorteggio, che significa affidare a un organismo così importante, che ha rilievo costituzionale, un meccanismo di scelta casuale dei propri componenti. A me sembra molto interessante, e che non abbia controindicazioni, la proposta di una rotazione dei membri eletti sia togati che non togati. E credo che darebbe più garanzie di autonomia una sezione disciplinare esterna al Csm Come si sconfigge il populismo giudiziario? Si sconfigge mantenendo il segreto e la riservatezza delle indagini e creando le condizioni affinché l’attenzione dei media sia il dibattimento pubblico. La riservatezza è una garanzia anche per chi indaga, perché le informazioni che filtrano all’esterno rendono più facile l’inquinamento delle prove o la fuga dei colpevoli. La segretezza aiuta, da un lato, a svolgere indagini più celeri ed efficaci e, dall’altro, consente di rispettare il principio di presunzione di innocenza. Oggi la semplice iscrizione al registro degli indagati, che dovrebbe essere riservata, si trasforma in una gogna, inaccettabile per chiunque, ma in particolare per gli innocenti. Sono sempre più numerosi i processi che si caricano di attenzione mediatica, con tutto quello che consegue dal punto di vista personale, lavorativo e familiare e che poi si concludono con l’assoluzione. Questo è anche un problema culturale. Ricordo quando ero un giovane avvocato. Le indagini erano realmente segrete e riservate, l’attenzione dei giornali, delle televisioni era soprattutto concentrata nella fase dibattimentale dove, oltre all’accusa e alla difesa, vi erano giudici al di sopra delle parti che, con la sentenza, decidevano la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato. Adesso le indagini, le intercettazioni delle indagini preliminari vengono troppo spesso divulgate, creando così l’equiparazione, o quasi, tra indagato, imputato e colpevole. Il governo Draghi è stato visto come la via della salvezza. Lo è davvero? Il governo si trova in una situazione particolare e che non si ripeterà più. Spero proprio che si riescano a fare quelle riforme e quegli interventi indispensabile per una giustizia degna di questo nome. Questo è un Governo con un’ampia maggioranza, con Ministri e con il Presidente del Consiglio che hanno un livello di autonomia e di credibilità riconosciuto da tutti e che garantisce la possibilità di un cambiamento che sembrava impossibile. Se non ora, quando? “Quello di Presa diretta non è vero giornalismo” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 marzo 2021 L’Ucpi: “Sottocultura populista e giustizialista che relega il processo penale a un evento secondario e immeritevole di attenzione”. L’Unione delle Camere Penali Italiane “esprime lo sdegno dei penalisti italiani per questa pagina di desolante inciviltà scritta dal servizio pubblico radio-televisivo”. Sono parole durissime quelle espresse ieri in una nota in relazione alla puntata della trasmissione Presa Diretta, andata in onda lunedì sera su Rai Tre, e dedicata all’indagine “Rinascita Scott” condotta dalla Procura della Repubblica di Catanzaro. “È semplicemente inaudito - sostiene la giunta presieduta dall’avvocato Giandomenico Caiazza - che proprio dagli schermi del servizio pubblico dell’informazione milioni di cittadini abbiano dovuto assistere alla unilaterale ed arbitraria selezione di atti del fascicolo del Pubblico Ministero di Catanzaro il cui dibattimento ha cominciato solo da qualche settimana a muovere i suoi primi passi”. E questo a noi, come vi abbiamo raccontato due giorni fa, ci era sembrato un paradosso: da un lato infatti il Tribunale collegiale di Vibo Valentia ha autorizzato le riprese audiovisive del maxiprocesso, vietando però di poterle trasmettere prima della lettura del dispositivo della sentenza di primo grado per “garantire l’assoluta genuinità della prova”, dall’altro lato lunedì sera abbiamo visto l’intervista a una parte civile, video di persone private della libertà personale, collage di intercettazioni, riprese atte a esaltare il lavoro delle forze dell’ordine, e una ovazione al Procuratore Gratteri, in maniera “partigiana ed unilaterale, mostrando atti ed elementi di prova ancora ignoti al Collegio giudicante”, dice l’Ucpi. Come aveva ribadito proprio Caiazza ieri mattina in un dibattito a Radio Tre “larga parte del nostro giornalismo giudiziario è abituato a confondere una ipotesi accusatoria con la verità storica, una indagine della Procura con una sentenza definitiva, una ordinanza di custodia cautelare con la irrevocabile prova della responsabilità dell’imputato”. Riccardo Iacona, conduttore di Presa Diretta, ha replicato così al presidente dei penalisti italiani: “Caiazza vuole impedire ai giornalisti di raccontare le inchieste se non raggiungono il terzo grado di giudizio? Dove finiamo? Ma di cosa stiamo parlando? Con questo criterio, non si potrebbe raccontare la grande criminalità organizzata nel nostro Paese”. La risposta è arrivata nella nota di ieri dell’Ucpi: “Questa penosa attitudine ancillare del nostro sedicente giornalismo di inchiesta, che si riduce a sfogliare, comodamente seduti, faldoni di atti forniti da uffici di Procura o di Polizia Giudiziaria all’uopo assiduamente e speranzosamente frequentati, per poi farsene scrupolosi divulgatori, dà la misura di questo colossale equivoco. La narrazione elegiaca di una indagine non ha nulla a che fare con il giornalismo di inchiesta, se - solo per fare un esempio- non si ha nemmeno la curiosità e soprattutto il coraggio intellettuale almeno di interrogarsi (e magari di conoscere, leggere e poi spiegare alla pubblica opinione) gli oltre 140 provvedimenti giurisdizionali di annullamento e di revoca di misure cautelari adottate in quella stessa inchiesta”. Estremamente critica anche la presa di posizione del Coordinamento delle Camere Penali Calabresi: “Da avvocati penalisti abbiamo il dovere di resistere alle barbarie del processo virtuale, mediatico, anticipato, capace di condizionare non solo l’opinione pubblica, ma soprattutto i giudici che compongono il Tribunale del processo Rinascita Scott. Avevamo paventato - a ragione - che la spettacolarizzazione dell’inchiesta potesse nuocere alla dignità e alle sorti processuali dei soggetti coinvolti. Oggi si ha la certezza che la sovraesposizione degli atti d’indagine, interpretati come nelle migliori fiction dai loro stessi protagonisti, verranno valutate come prove della responsabilità penale dei singoli”. Ed è qui il secondo paradosso di questa storia: da una parte, come conclude l’Ucpi, siamo in presenza di una “sottocultura populista e giustizialista marchiata da un autentico analfabetismo costituzionale che relega il processo penale, cioè l’unico luogo che il nostro sistema penale riconosce come legittimato alla ricostruzione dei fatti e delle responsabilità, ad un evento secondario ed immeritevole di attenzione, cui affidare il compito solo di soddisfare le aspettative di condanna alimentate da una indagine che ha già adempiuto al compito di ricostruire la Verità”; dall’altra parte la ministra della Giustizia qualche giorno fa in Commissione Giustizia alla Camera ha pronunciato queste parole: “A proposito della presunzione di innocenza, permettetemi di sottolineare la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per un’effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale”. Il Csm smonta la riforma del Csm di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 18 marzo 2021 Primi consigli interessati alla nuova ministra, che martedì sarà con il capo dello stato proprio al Consiglio superiore. Intanto i consiglieri laici in quota Lega non approvano la messa fuori ruolo del capo di gabinetto scelto da Cartabia. Martedì prossimo Marta Cartabia accompagnerà il presidente della Repubblica nel plenum straordinario del Consiglio superiore della magistratura, dedicato alla procura europea. Ieri intanto il Csm ha cominciato a discutere un parere pesante, a tratti assai critico, su una delle riforme della giustizia che la ministra ha davanti a sé. Il parere lo ha chiesto il precedente ministro, il grillino Bonafede, che ha firmato il disegno di legge delega di riforma del Csm. Quel testo di legge è adesso alla camera, in attesa degli emendamenti che la nuova Guardasigilli ha affidato allo studio di un gruppo di lavoro. Passaggio delicatissimo per il governo, visto che dovrà conciliare le esigenze conservative della vecchia maggioranza con la spinta a cambiare tutto dei nuovi arrivati Lega e Forza Italia. Un piccolo segnale delle tensioni che sotto traccia agitano la giustizia è arrivato ieri sempre al Csm, quando i due consiglieri laici in quota Lega non hanno appoggiato (un voto contrario e un’astensione) la richiesta di mantenere fuori ruolo il capo di gabinetto della ministra, Raffaele Piccirillo. Il via libera per lasciare al ministero il principale collaboratore scelto da Cartabia è passato così di stretta misura (10 voti su 26). Nel lungo testo del parere che il Csm ha cominciato a discutere a proposito della sua stessa riforma, i giudizi negativi superano di molto quelli positivi. I punti approvati della legge firmata da Bonafede, e difesa adesso da 5 Stelle e Pd, sono praticamente solo due. L’anticipo del concorso per accedere alla magistratura che può ridurre i filtri per censo e ringiovanire la categoria - scelta che però è contraddetta da altre norme che tornano a far pesare di più l’anzianità di servizio - e lo stop alle cosiddette “porte girevoli” tra magistratura e politica (con qualche eccezione). Prevalgono le critiche. Innanzitutto perché la legge irrigidisce, dettandoli fino al dettaglio, i criteri ai quali deve attenersi il Csm nel valutare i candidati agli incarichi direttivi e semi direttivi e alla Cassazione. Una “burocratizzazione del procedimento”, secondo l’ex presidente della Corte costituzionale Gaetano Silvestri che è stato audito dalla camera, giudicata molto negativamente dal Consiglio. Almeno nel parere discusso ieri, dove si legge che il progetto del governo “ridimensiona le prerogative costituzionali” del Csm, retrocedendolo a organo amministrativo. È probabile però che questa formula, che corrisponde alle preoccupazioni della componente togata, sarà emendata dai laici. Le ragioni per cui il (precedente) governo ha pensato di togliere ogni margine di discrezionalità ai consiglieri - per esempio introducendo l’obbligo di audizione dei candidati e il rigoroso rispetto del criterio cronologico nella copertura degli incarichi, per evitare le nomine “a pacchetto” - è evidentemente quello di rispondere alle degenerazioni esplose con il “caso Palamara”. Ma lo ha fatto trasferendo in una legge ordinaria quelli che sono già oggi i criteri che il Consiglio si è già dato in autonomia nelle sue circolari. L’effetto è paradossale: diventano rigide le regole che non hanno evitato gli accordi dell’hotel Champagne. Cartabia dovrà riflettere su questo, così come sulla nuova legge elettorale del Csm immaginata da Bonafede che nel parere discusso ieri viene demolita (l’orientamento in questo caso appari quasi unanime). Il complesso sistema elettorale maggioritario a due turni al quale si immagina di affidare la selezione di venti consiglieri togati, infatti, viene giudicato “non idoneo allo scopo” che sarebbe quello di combattere il correntismo, e anzi “foriero di effetti distorsivi”. Ai deputati della commissione giustizia queste osservazioni non giungeranno nuove, perché sono le stesse che hanno ascoltato nelle audizioni dove alle critiche delle toghe, come l’ex procuratore di Milano Bruti Liberati, si sono aggiunte quelle dell’accademia. Meccanismi come il voto plurimo, ha spiegato per esempio il costituzionalista Massimo Luciani, favoriscono gli accordi tra correnti. E non è detto che servano a garantire la rappresentanza di genere. La critica di fondo è quella che avanza il consigliere di Area Ciccio Zaccaro, avvertendo che non è con interventi sul sistema di voto che si possono rivolvere i problemi di “moralità” della rappresentanza. “Non ha senso parlare di governabilità per il Csm - dice - visto non abbiamo bisogno di maggioranza stabili e minoranze inquadrate. A questo servono le leggi maggioritarie mentre al Csm è bene che accada l’opposto, che ci sia fluidità e che nascano intese nel merito delle questioni. Serve che sia garantita la rappresentanza e per questo non c’è che una legge proporzionale”. Giustizia, la Consulta: gli “ausiliari” incompatibili con la Costituzione di Francesco Grignetti La Stampa, 18 marzo 2021 Ma la decisione lascia spazio per l’utilizzo di questa figura professionale fino al 31 ottobre 2025, per consentire lo smaltimento degli arretrati. Sono incostituzionali le norme che hanno previsto, come magistrati onorari, i giudici ausiliari presso le Corti d’appello. Le quali, tuttavia, potranno continuare ad avvalersi legittimamente dei giudici ausiliari per ridurre l’arretrato fino a quando, entro la data del 31 ottobre 2025, si perverrà ad una riforma complessiva della magistratura onoraria, nel rispetto dei principi costituzionali. E quanto si legge nella sentenza n. 41 depositata oggi, redattore Giovanni Amoroso, con cui la Corte Costituzionale ha accolto la questione sollevata dalla terza sezione civile della Cassazione nell’ambito di due giudizi aventi ad oggetto altrettanti ricorsi contro sentenze di Corte d’appello emesse da un collegio composto anche da un giudice onorario ausiliario. Sono stati quindi dichiarate incostituzionali gli articoli da 62 a 72 del Dl n. 69/2013, convertito dalla legge n. 98 del 9 agosto. La Consulta ha affermato che l’articolo 106 della Costituzione, secondo cui è possibile la nomina di magistrati onorari “per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli”, permette solo eccezionalmente e temporaneamente che, in via di supplenza, i giudici onorari possano svolgere funzioni collegiali di primo grado. Quindi, nei Tribunali e non già nelle Corti (d’Appello o di Cassazione). Pertanto, l’istituzione dei giudici onorari ausiliari, destinati, in base alla legge, a svolgere stabilmente e soltanto funzioni collegiali presso le Corti d’appello, nelle controversie civili, deve ritenersi in aperto contrasto con l’articolo 106 della Costituzione. Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale delle norme che hanno istituto e disciplinato i giudici onorari ausiliari, la Corte ha però ritenuto necessario lasciare al legislatore un sufficiente lasso di tempo che “assicuri la necessaria gradualità nella completa attuazione della normativa costituzionale”. È stato così indicato il termine previsto dall’articolo 32, primo periodo, del d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116, di riforma generale della magistratura onoraria, ossia quello del 31 ottobre 2025. Fino ad allora, la “temporanea tollerabilità costituzionale” dell’attuale assetto è volta ad evitare l’annullamento delle decisioni pronunciate con la partecipazione dei giudici ausiliari e a non privare immediatamente le Corti d’appello dell’apporto di questi giudici onorari per la riduzione dell’arretrato nelle cause civili. Campania. Dramma carceri, 2mila detenuti in attesa di sentenza di Viviana Lanza Il Riformista, 18 marzo 2021 L’intervento della ministra della Giustizia Marta Cartabia dinanzi alle Commissioni di Camera e Senato è un chiaro messaggio per pm e giudici: basta con il carcere come unica effettiva risposta al reato. “La certezza della pena non è la certezza del carcere che per gli effetti desocializzanti che comporta deve essere invocato quale extrema ratio”, ha detto la guardasigilli. Che sia il cambio di passo che permetterà all’Italia di non essere più condannata a risarcire ingiuste detenzioni, che interromperà la deriva populista e giustizialista degli ultimi decenni, che eviterà a tanti innocenti in attesa di giudizio di vivere per mesi, o addirittura per anni, in celle sovraffollate e fatiscenti in cui sono mortificati i più fondamentali dei diritti? Perché in carcere non si trovano solo colpevoli, come credeva l’ex ministro Bonafede, e almeno la metà della popolazione carceraria è composta da detenuti in attesa di giudizio, cioè presunti innocenti. In Campania i numeri sono tra i più alti d’Italia e sono numeri che con la rivoluzione Cartabia potrebbero essere invertiti in nome di un carcere meno affollato e più umano e di una pena capace di volgere concretamente verso la sua funzione costituzionale riabilitativa. Secondo l’ultima relazione del garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, a fronte di una capienza regolamentare di 6.156 persone, nelle quindici carceri della Campania si registrano 6.329 reclusi, di cui 2.349 in attesa di giudizio. Rispetto al 2019, nel 2020 le presenze in carcere si sono ridotte di appena il 15% e su questo dato, più che una cultura del carcere come extrema ratio, ha prevalso la pandemia con l’esigenza di ridurre il sovraffollamento dietro le sbarre. Intanto, ancora oggi oltre 2mila persone attendono un processo rinchiuse in celle di pochi metri quadrati e senza la possibilità, adesso anche a causa degli stop imposti dalla pandemia, di impiegare le giornate con attività di formazione o di lavoro. Nel 22% dei casi vivono rinchiusi in celle che non hanno le docce, nel 37% senza bidet in cella, nel 16% addirittura senza l’acqua calda. Nel 69% dei casi gli istituti penitenziari hanno fatto ricorso alla cosiddetta “sorveglianza dinamica” che consente ai detenuti di trascorrere la maggior parte della giornata al di fuori degli stretti spazi della cella, ma non basta per rendere il carcere più vivibile. Nella casa circondariale di Poggioreale “le condizioni detentive appaiono critiche - si legge nel dossier del garante regionale - arrivando a ospitare in una singola camera detentiva anche 14 reclusi”. Poggioreale è anche il carcere con il maggior numero di detenuti (il 35% della popolazione campana), seguito da Secondigliano (19%) e da Santa Maria Capua Vetere (14%). “Questi istituti - conclude Ciambriello - rappresentano le realtà in cui il livello di sovraffollamento è una grande criticità e in cui l’insufficienza di attività trattamentali rende più difficile la realizzazione di una prospettiva di recupero e di reinserimento sociale”. Lazio. Vaccini nelle carceri, il Consiglio regionale approva un ordine del giorno ad hoc regione.lazio.it, 18 marzo 2021 L’Aula impegna la Giunta “ad adottare tutte le misure necessarie e gli opportuni provvedimenti di competenza”, per la somministrazione prioritaria alla popolazione carceraria del vaccino anti-Covid-19. Il Consiglio regionale del Lazio, nella seduta del 20 gennaio in modalità mista (parte dei consiglieri in presenza, parte in remoto) ha approvato un ordine del giorno che “impegna il presidente della Regione e la Giunta regionale ad adottare tutte le misure necessarie e gli opportuni provvedimenti di competenza, affinché la popolazione detenuta all’interno degli istituti penitenziari della Regione possa essere ricompresa tra le categorie di cittadini cui la somministrazione del vaccino contro il Covid-19 sarà effettuata in modo prioritario”. L’ordine del giorno presentato da Marta Bonafoni, Alessandro Capriccioli e Paolo Ciani rispettivamente capigruppo della Lista Civica Zingaretti, +Europa Radicali e Demos, ha ottenuto 25 voti a favore e cinque contrari. “Il sovraffollamento nei nostri istituti penitenziari - si legge in una nota dei proponenti - è un dato oggettivo (113 per cento a fronte di una media nazionale del 109 per cento), che non consente di adottare le giuste misure di distanziamento per far fronte alla pandemia. I molti contagi che si sono verificati nel carcere di Rebibbia, oltre al detenuto deceduto a Rieti dopo aver contratto il virus, sono un segnale chiaro del rischio che stiamo correndo se non provvediamo subito a mettere in sicurezza questi luoghi chiusi e pieni di persone, dove eventuali focolai potrebbero diventare incontrollabili: questo metterebbe a rischio, oltre ai detenuti, anche tutto il personale che lavora a stretto contatto con loro. Inoltre - concludono Bonafoni, Capriccioli e Ciani - la popolazione carceraria era vulnerabile dal punto di vista sanitario già prima della pandemia, ora la situazione non può che essere peggiorata a causa delle restrizioni, per cui occorrono soluzioni immediate e d’urgenza”. Abruzzo. Il Garante: “Vaccinati il 90% dei detenuti e l’85% del personale” chietitoday.it, 18 marzo 2021 “In Abruzzo sono stati vaccinati circa il 90% dei detenuti e per 85% il personale dell’amministrazione penitenziaria”. Il garante dei detenuti della Regione Abruzzo, Gianmarco Cifaldi, fa il punto della situazione sulla campagna vaccinale all’interno degli istituti penitenziari dove si sta procedendo celermente, con la collaborazione del personale sanitario penitenziario e con la disponibilità delle Asl. “Con l’assessore Verì abbiamo stabilito un crono programma delle sedute vaccinali da completare entro questo mese. Ad oggi possiamo ritenerci soddisfatti come Regione Abruzzo - spiega il professor Cifaldi - perché sono stati vaccinati circa il 90% dei detenuti e per 85% il personale dell’amministrazione penitenziaria escludendo coloro che si sono rifiutati di sottoporsi al vaccino, unitamente ai soggetti che hanno contratto il virus che devono attendere il tempo necessario per ricevere la vaccinazione”. Gli operatori penitenziari e i detenuti sono stati sottoposti al vaccino seguendo tutti protocolli stabiliti. “Qualora si riscontrassero particolari patologie - precisa il garante dei detenuti - e i soggetti sono definiti ‘vulnerabili’ vengono segnalati al centro di vaccinazione di riferimento”. Toscana. Nelle carceri un’emergenza psicologica. In aumento suicidi e autolesionismo di Cristiano Pellegrini agenziaimpress.it, 18 marzo 2021 Preoccupano le ripercussioni psicologiche dei detenuti nelle carceri toscane. Condizioni aggravate anche dallo scoppio della pandemia. Sono dati drammatici quelli rilasciati da Giuseppe Fanfani, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale regionale che è stato ascoltato in commissione sanità. Secondo il quadro presentato dal garante nella primavera scorsa negli istituti toscani si sono registrati tre suicidi e una morte per cause non del tutto chiarite. A Sollicciano, il carcere fiorentino, lo scorso anno gli atti di autolesionismo sono stati 700, a Livorno 89, a Prato 95. Anche i più giovani sono stati colpiti: a Firenze, nell’istituto minorile, su 14 minori ospitati ci sono stati 12 atti di autolesionismo e 1 tentato suicidio; a Pontremoli, su 7 ospiti, 2 atti di autolesionismo, 1 tentativo di suicidio e 1 aggressione. Dati allarmanti in quelle che sono le strutture della Toscana (16 carceri, 2 Rems che hanno sostituito i vecchi manicomi giudiziari, 2 istituti per minori). Nelle prossime settimane è attesa la relazione annuale dell’attività del Garante dei detenuti. Il disagio nelle carceri in Toscana è aumentato ancor di più a causa della pandemia. Il Garante ha ricordato che, a seguito dell’epidemia, “hanno subito delle forti limitazioni le visite dall’esterno, la presenza del volontariato, i trasferimenti, le iniziative come i corsi di istruzione. Questo ha aumentato a dismisura la sofferenza in carcere, dove in 14 metri quadri devono convivere due o tre persone”. Per fronteggiare l’emergenza è stato stabilito che chi entra in carcere dall’esterno debba effettuare una quarantena e, ovviamente, anche chi è positivo debba stare da solo in una cella apposita. Questo ha ridotto ulteriormente gli spazi a disposizione per gli altri. In Toscana, il numero dei positivi al Covid-19 all’8 marzo scorso erano i seguenti: 63 su 3122 detenuti e 19 su 2267 addetti alla sorveglianza. In realtà, i numeri si sono mantenuti bassi per tutto il 2020, fino a quando poche settimane fa è scoppiato un focolaio a Volterra che ha fatto registrare 57 casi di contagio. “A parte questo episodio i casi contenuti dimostrano che c’è stata attenzione” ha detto il Garante. Trento. Dramma in carcere, morta una detenuta di 28 anni ildolomiti.it, 18 marzo 2021 È successo domenica sera e per capire cosa possa essere successo sono stati disposti degli accertamenti medico legali. Nelle scorse ore è stata informata la Garante dei detenuti Dramma al carcere di Trento. Una detenuta di 28 anni è morta domenica sera. Il personale medico che si è portato immediatamente sul posto, quando è stato lanciato l’allarme, non ha potuto far altro che constatare la morte. Non si conoscono al momento le cause della morte e proprio per questo la Procura ha disposto degli accertamenti medico legali per capire cosa possa essere successo. “Sono stata avvertita di quello che è successo - ha spiegato la Garante per i detenuti, la professoressa Antonia Menghini - e stiamo attendendo i risultati degli accertamenti. È morta una ragazza giovane, è una grande disgrazia e speriamo che arrivino quanto prima le risposte per capire cosa possa essere successo”. Al momento non si esclude nessuna strada, solamente gli accertamenti potranno fare chiarezza e capire se si è trattato di un malore fatale o altro. Melfi. Dopo la rivolta dimezzate le ore d’aria anche ai detenuti che non hanno partecipato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 marzo 2021 I familiari di molti detenuti a Melfi hanno denunciato gravi violenze, abusi e maltrattamenti subiti dai loro cari nella notte tra il 16 e il 17 marzo 2020. “I detenuti ristretti in Melfi i quali hanno partecipato attivamente alla rivolta sono stati colpiti da provvedimenti di trasferimento in altri Istituti adottati nella imminenza dei fatti e, quindi, in sostanza, la riduzione dell’orario viene ad operare indistintamente a danno dei ristretti rimasti che invece si sono dissociati dalla rivolta non prendendovi parte”. È un passaggio di una ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Potenza dove censura la repressione delle rivolte di marzo 2020. A renderlo noto è il Quotidiano del Sud, sottolineando che si tratta di una ordinanza a firma del giudice Michele Petrocelli, che nei giorni scorsi ha accolto il ricorso presentato da un detenuto calabrese, Rosario Calderazzo di Palmi, per il risarcimento del danno sofferto per violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Risarcimento riconosciuto nella riduzione della pena da scontare di “un giorno per ogni 10 durante il quale ha subito il pregiudizio”. Dimezzate da 8 a 4 delle ore in cui i detenuti, ogni giorno, possono restare all’esterno delle celle - Si parla, quindi, di un totale di 18 giorni complessivi. A portare la questione alla sua attenzione era stato il difensore di Calderazzo, l’avvocato Antonio Silvestro, evidenziando un aggravamento delle condizioni di vita all’interno dell’istituto da marzo dell’anno scorso in avanti. In particolare il dimezzamento da 8 a 4 delle ore in cui i detenuti, ogni giorno, possono restare all’esterno delle celle. “Trattasi - scrive il giudice nella sua ordinanza, secondo quanto riportato dal quotidiano - di una drastica riduzione (alla quale si aggiunge anche una riduzione dell’orario di fruizione delle docce rispetto a quanto previsto a partire dal settembre 2016) che, rapportata all’ampiezza della superficie netta fruibile nella cella, deve indurre a riconoscere il presupposto delle condizioni inumane e degradanti”. Tanto anche in considerazione di altro dato e cioè quello per il quale la possibilità di fare la doccia nei locali comuni è prevista in orario (dalle 08.30 alle 11.00 e dalle 13.00 alle 15.30 dal 27 marzo 2020 al 15 ottobre 2020) che “si sovrappone quasi completamente a quello stabilito per le ore all’aperto con la conseguenza di porre il detenuto dinanzi alla non ragionevole scelta tra il fare la doccia o usufruire delle ore d’aria”. Passaggi interessanti, quelli evidenziati da Quotidiano del Sud. Le denunce di presunti abusi e maltrattamenti - Anche perché dimostra il carattere punitivo che ha colpito indistintamente tutti. A questo punto va anche ricordato che nel periodo delle rivolte, Antigone è stata contattata dai familiari di molte persone detenute proprio a Melfi, le quali hanno denunciato gravi violenze, abusi e maltrattamenti subiti dai familiari nella notte tra il 16 e il 17 marzo 2020, verso le ore 03.30, come punizione alla protesta scoppiata il 9 marzo 2020 in seguito alle restrizioni conseguenti allo stato d’emergenza sanitaria. Le testimonianze parlano di detenuti denudati, picchiati, insultati e messi in isolamento. Molte delle vittime sarebbero poi state trasferite da Melfi. Durante le traduzioni non sarebbe stato consentito nemmeno di andare in bagno. Ad esse sarebbero state fatte firmare delle dichiarazioni in cui dichiaravano di essere cadute accidentalmente. Ad aprile 2020 Antigone ha presentato un esposto per violenze, abusi e torture. Pescara. Covid in carcere, proclamato uno stato di agitazione con sit-in Il Centro, 18 marzo 2021 Ventiquattro detenuti attualmente contagiati dal Covid e carenza di personale di sorveglianza: scatta ufficialmente la protesta degli agenti della polizia penitenziaria del carcere di San Donato. Lo stato di agitazione è stato proclamato dal Sinappe, sindacato di categoria, che ha organizzato per venerdì 19 marzo, dalle 11.30 alle 13.30, un sit-in davanti alla palazzina Ex Prap della casa circondariale. “Molteplici sono i motivi che hanno condotto a questa agitazione”, spiega Alessandro Luciani vice segretario regionale del Sinappe, “attualmente i detenuti contagiati sono 24, di cui 20 ristretti alla prima sezione giudiziaria e 4 alla penale, piano terra. Prioritaria, per noi, è la salvaguardia della salute dei colleghi, a rischio a causa della mala gestione dei vertici del carcere”. Annosa, la carenza di organico. Luciani: “Su 166 poliziotti previsti, sono solo 114 quelli effettivamente in forze, tra i quali 15 donne. Al ministero della Giustizia chiediamo l’invio di uomini, di investire in termini del rafforzamento del personale”. In ragione della carenza di agenti “vengono negati ai poliziotti penitenziari i diritti sanciti da accordi contrattuali, circolari ministeriali, leggi e decreti e il personale è costretto a permanere sul luogo di lavoro ben oltre l’orario ordinario”. Altra questione sono “le continue, pericolose e intollerabili aggressioni messe in atto dai detenuti, anche affetti da patologie psichiatriche, nei confronti degli agenti che vengono esposti a livelli altissimi di stress lavorativo”. Condizioni “precarie di sicurezza a cui il Sinappe dice basta ed esorta tutto il personale a scendere in piazza”, nella mattinata di venerdì, davanti al San Donato. Una protesta che arriva, dice il sindacalista, dopo “numerose denunce e ricorsi, ma le amministrazioni penitenziarie continuano a rimbalzarsi le responsabilità, l’una verso l’altra, creando una sorta di presa in giro nei confronti degli agenti di sicurezza”, chiude il vice segretario provinciale di Sinappe. Che annuncia, per oggi, “l’effettuazione di nuovi tamponi” da parte dei sanitari della Asl e dei medici del carcere, “mentre la prima dose vaccinale è già stata distribuita a 120 colleghi. Vaccinata per ora il 25% della popolazione reclusa”. Sono 287 i detenuti del San Donato, tra cui molti pescaresi, ma anche stranieri, maghrebini e sudafricani. I collaboratori di giustizia, una ventina, sono isolati in un padiglione di massima sicurezza. Catanzaro. Covid, focolaio nel carcere: positivi 3 detenuti e 4 agenti di Luana Costa lacnews24.it, 18 marzo 2021 I contagiati trasferiti nella sezione appositamente allestita all’inizio della pandemia. Il segretario regionale Uil polizia penitenziaria: “È tutto sotto controllo”. Il virus si è, infine, insinuato anche nelle carceri calabresi. In mattinata è arrivata la conferma della presenza di sette casi positivi tra la popolazione carceraria e gli agenti di polizia penitenziaria della casa circondariale di Catanzaro. In particolare, sono tre i detenuti di media sicurezza ad aver contratto il virus e quattro agenti. Difficile ricostruire allo stato la catena di contatti che ha consentito di estendere il contagio all’interno dell’istituto penitenziario catanzarese. Rispetto però alla prima fase pandemica erano ripresi i colloqui all’interno dell’istituto e la presenza di educatori provenienti dall’esterno. I tre detenuti sono stati al momento trasferiti nella sezione Covid, appositamente allestita all’inizio della pandemia. I quattro agenti risultati positivi si trovano invece in isolamento domiciliare. Alcuni hanno mostrato già sintomi febbrili ma rassicurazioni giungono sul contenimento del contagio. “È tutto sotto controllo - garantisce il segretario regionale della Uil Polizia Penitenziaria, Salvatore Paradiso. Siamo fiduciosi che grazie ad un particolare impegno da parte dell’Asp si potrà ridurre e azzerare il contagio all’interno dell’istituto penitenziario”. Palermo: È allarme droga: schiavi del crack a 12 anni di Salvo Palazzolo La Repubblica, 18 marzo 2021 Sotto pressione i tre Sert di Palermo, con organici ridotti a livelli di guardia. “Aumenta il rischio di overdose per l’utilizzo di miscele di sostanze”. Alle nove del mattino, c’è la fila davanti al Sert di via Antonello da Messina, una traversa di via dei Cantieri. Un giovane, una ragazza, una donna, un uomo di mezza età, un signore ben vestito, un altro in pantofole. I clienti del supermercato che si trova di fronte neanche ci fanno caso. “È un’intera città che si è ormai girata dall’altra parte rispetto al tema delle tossicodipendenze”, allarga le braccia il dottor Sergio Paderi, il responsabile della struttura che assiste circa 800 persone, di tutte le età. “Gli adolescenti sono in aumento - spiega - siamo di fronte a un fenomeno che sta diventando dilagante. Ma non se ne parla, e intanto continuiamo ad avere sempre meno risorse”. Il nuovo piano di riorganizzazione pensato dall’Asp, che prevede organici all’osso per i tre Servizi delle tossicodipendenze di Palermo e i sette della provincia, ha sollevato le attenzioni anche della Prefettura, che ha chiesto informazioni dopo la denuncia del sindacato Cimo. Risultato: al momento, il piano è fermo. Sembrano fortini assediati, i Sert di Palermo. “Il numero dei tossicodipendenti è in crescita - spiega il dottor Giuseppe Filippone, che guida la struttura di via Filiciuzza e l’Unità dipendenze patologiche dell’Asp - siamo passati dai 2.524 del 2019 ai 2.628 del 2020. Ed è il crack la grande emergenza. Ufficialmente, abbiamo registrato 824 consumatori nel 2020, 20 in più dell’anno precedente: 11 hanno un’età compresa fra 15 e 19 anni, 92 fra 20 e 24 anni, 137 fra 25 e 29 anni. Ma c’è un dato sommerso, il più preoccupante: sappiamo che iniziano ad assumere crack a 12 anni, e passano in media quattro anni prima che arrivino al Sert. Ci arrivano perché hanno un problema di legge, un problema familiare o di salute”. Dopo il crack, c’è l’eroina nell’inferno che dilaga a Palermo: “Sono 1.798 i consumatori registrati nel 2020, 1.818 nell’anno precedente”, dicono le tabelle di Filippone. “L’abbassamento dei dati non deve affatto tranquillizzare - spiega - il lockdown ha inciso anche sulle visite al Sert”. L’ultima moda fra i giovanissimi è fumare le droghe. Anche l’eroina. La parola chiave per entrare nel dramma è soprattutto una: “Mix”, miscela. Probabilmente è un mix di droghe che ha ucciso Mouad Hamzaoui, il diciottenne trovato morto lunedì in un appartamento di corso Tukory. Spiega il dottor Giampaolo Spinnato, il responsabile del Sert di via Pindemonte: “Il crack, che ha costi bassi e un effetto superiore alla cocaina, lascia un senso di irrequietezza, che i giovani fronteggiano in vario modo: con il metadone, con l’eroina, con farmaci analgesici quali l’Ossicodone, o con alcuni ansiolitici come il Ritrovil. Una miscela che fa aumentare il rischio di overdose”. Ecco perché nell’inferno dei giovani di Palermo sta crescendo anche il mercato nero del metadone distribuito dai Sert: una boccetta costa 30-40 euro. Arrivano anche da Trapani, Agrigento o Caltanissetta per comprarlo. Perché l’Asp di Palermo è l’unica azienda sanitaria che utilizza il metadone con una concentrazione al 5 per cento, tutte le altre aziende usano quello all’1 per cento. “Occupa meno spazi ed è possibile distribuirlo in minor tempo - spiegano - Cinque minuti invece di 25, altrimenti avremmo file interminabili e ingestibili con un solo infermiere in servizio”. È un’altra fotografia che racconta il dramma della droga. “Ma i Sert non sono solo distributori di metadone, che resta una cura farmacologica importante - dice Paderi - sono strutture in cui operano psicologi, medici, infettivologi. Realtà nate dopo l’emergenza dell’Aids negli anni Novanta, hanno azzerato la mortalità e l’incidenza della malattia. Adesso ci attendono altre sfide, per questo non è possibile abbassare la guardia, come accade ormai da cinque anni: avevamo cinque Sert a Palermo, due sono stati chiusi, quelli di via Riolo e della Casa del Sole”. Da un anno non c’è più neanche il camper che girava per i luoghi della movida: “Un’esperienza importante - racconta Giampaolo Spinnato - con la collega Annamaria Maggio e un per un certo periodo con i volontari dell’Opera Don Calabria abbiamo trascorso tante sere a Ballarò e in altre piazze. Con la scusa di un prelievo di sangue per effettuare degli screening entravamo in relazione con i ragazzi. A Ballarò non è stato facile, ci hanno aiutato alcuni nostri pazienti del Sert, che sono diventati straordinari mediatori culturali”. Quell’esperienza non c’è più. “Continua invece a esserci una commistione fra i luoghi dello spaccio e quelli della movida, cosa che non accadeva in passato - dice ancora Spinnato - Non possiamo permetterci di lasciare sguarnito il territorio, ci vuole piuttosto una presenza costante”. Droga, un Sert per gli adolescenti Torna il tema delle risorse. Il sindacato Cimo ha denunciato pesanti tagli nel nuovo progetto di riorganizzazione dei Sert: “L’Asp di Palermo è l’azienda sanitaria che a livello nazionale dedica meno risorse a questa popolazione di pazienti”. È previsto, ad esempio, un solo infermiere per struttura, impensabile che da solo possa gestire una media di 500 trattamenti farmacologici e 200 esami ogni settimana. Il piano è in fase di rielaborazione. “Intanto, siamo pronti a un investimento straordinario di risorse per i giovani dai 13 ai 25 anni”, annuncia Giorgio Serio, il direttore del Dipartimento salute mentale e dipendenze patologiche: “Un milione di euro, proveniente dai fondi di progetto del piano sanitario, per creare un Sert dedicato agli adolescenti. Abbiamo un cantiere aperto col Comune, anche per implementare l’azione attraverso operatori di strada. Una progettualità mirata - dice Serio - se poi la sperimentazione funzionerà, i servizi verranno stabilizzati”. Con la speranza che il nuovo piano antidroga per aiutare i giovani di Palermo parta al più presto. Benevento. Detenuta “sine titulo” per 3 mesi, Loredana lascia il carcere di Enzo Spiezia ottopagine.it, 18 marzo 2021 Stavolta il carcere lo ha lasciato per davvero. Avrebbe dovuto farlo tre mesi fa, ma - meglio tardi che mai - la sua storia, emblematica di un incredibile groviglio burocratico, ha finalmente percorso il rettilineo finale. Quello che ha condotto in una struttura in provincia di Avellino, sottoposta ai domiciliari, Loredana Morelli, la 36enne di Campolattaro, sordomuta ed affetta da una forma psicopatologica, che il 15 settembre del 2019 aveva ucciso Diego, il figlio di quattro mesi. Fin qui era rimasta nella casa circondariale di contrada Capodimonte, detenuta “sine titulo”, nonostante fosse stata accertata l’incompatibilità tra il suo stato di salute e quel regime detentivo. Un caso del quale ci siamo occupati ripetutamente, ora l’epilogo atteso dai difensori della donna - gli avvocati Matteo De Longis e Michele Maselli - residente in Irpinia, per la quale l’Asl di Avellino, nel frattempo condannata dal giudice civile per non aver provveduto in precedenza, ha preparato il Piano di trattamento riabilitativo individuale. Si tratta di una vicenda assurda, scandita da errori del Riesame rispetto all’indicazione del centro che avrebbe dovuto inizialmente ospitarla, da ritardi e, infine, anche dall’indisponibilità ad accoglierla manifestata sia suoi congiunti, sia da una clinica di Avellino, per la particolare complessità della condizione di Loredana, per la quale la Corte di assise- nuova udienza il 22 marzo - ha disposto una perizia psichiatrica, per accertarne la capacità di intendere e di volere, e di stare in giudizio, e la pericolosità sociale. Una storia approdata oltre un mese fa anche alla Commissione giustizia della Camera, dove il presidente Mario Perantoni aveva chiesto al ministero della Salute come mai l’Asl competente non avesse ancora preparato il Piano per Loredana, e a quello della Giustizia, per sapere se in Italia la situazione di Loredana è comune anche ad altre persone. Busto Arsizio. Il cappellano del carcere: “Gli imprenditori sostengano progetti di rinascita” di Michela Scandroglio informazioneonline.it, 18 marzo 2021 Don David Maria Riboldi in diretta con il sindaco di Gorla Maggiore Pietro Zappamiglio: “Se ci sono 200 poliziotti e una sola educatrice, come si può rieducare?” Se in un carcere ci sono 200 poliziotti e una sola educatrice, come si può rieducare? Il quesito viene posto da don David Maria Riboldi durante la diretta con il sindaco di Gorla Maggiore Pietro Zappamiglio. Don David è cappellano del carcere di Busto Arsizio e fondatore dell’associazione della cooperativa “La Valle di Ezechiele”, che si occupa del recupero lavorativo dei carcerati della casa circondariale bustese. Durante l’incontro, don David ha esposto il suo pensiero sullo scopo che dovrebbe avere il carcere, cioè la rieducazione dei detenuti: “Uno studio recente sull’istituto di Bollate evidenzia che in esso, la recidiva si attesti sotto al 20%, mentre negli altri istituti d’Italia supera il 70%. Ciò significa che 7 detenuti su 10, escono dal carcere e ricominciano a fare quello che facevano prima”. E ha proseguito: “Le carceri ci costano, la collettività spende ogni anno 3.1 miliardi e non riesce realmente a fare in modo che le persone abbiano la possibilità per cambiare. Questo non dipende dai detenuti”. In seguito, ha parlato della cooperativa “La valle di Ezechiele”, diventata operativa lo scorso novembre, dando lavoro a quattro persone (ex detenuti o ai domiciliari). Al momento si occupa di selezione di componenti in gomma a Fagnano Olona, ma essendo il capannone molto grande, stanno valutando due possibilità di miglioramento e ampliamento dell’offerta lavorativa perché diventi anche più formativa. Questo per fare in modo che le persone potranno offrirsi ad altre realtà lavorative. Don David ha concluso lanciando un appello: “Ci vuole altro lavoro, tutti gli imprenditori che magari cercano terzisti o hanno piacere di partecipare a progetti di rinascita delle persone sono ben accolti”. Messina. Il Capo del Dap ospite del Progetto “Giustizia e Umanità Liberi di Scegliere” di Danilo Loria strettoweb.com, 18 marzo 2021 Il Progetto Biesse Giustizia e Umanità Liberi di Scegliere fa tappa all’istituto scolastico Jaci di Messina diretto dalla Dirigente Scolastica Maria Rosaria Sgro che ha voluto fortemente ospitare il progetto nel suo Istituto scolastico. La stessa Preside ha annunciato che ha adottato il libro “Liberi di Scegliere” scritto dal Giudice Roberto Di Bella Presidente del Tribunale per i Minorenni di Catania come strumento di educazione alla legalità. 500 studenti in videoconferenza coordinati dalla referente alla legalità dell’istituto scolastico Prof.ssa Gaia Gaudioso. All’incontro presente il Capo del Dap Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Dott. Bernardo Petralia che ha fatto una Lectio Magistralis agli studenti messinesi.il linguaggio è importante invito i giovani ad usare i verbi desiderate, amare e scegliere - la libertà di Scegliere è il bene primario della vita, la scuola ha un grande ruolo. Pertanto è importante che gli educatori portino i giovani studenti delle scuole, a visitare le carceri dove la pena che si sconta è proprio la privazione della libertà. Sarà sicuramente un’esperienza forte ma molto educativa. il mondo carcerario è una comunità in quanto tale non va lasciata sola. serve la vicinanza di tutti. Nel corso dell’incontro dedicato anche al ricordo delle vittime Innocenti delle mafie l’intervento del giornalista e scrittore Paolo Borrometi che ha ricordato le tante vittime delle mafie e di quanto siano importanti questi momenti di educazione alla legalità che devono scuotere le coscienze dei giovani. Le conclusioni del Presidente del Tribunale per i Minorenni di Catania Roberto Di Bella ideatore del percorso rivoluzionario Liberi di Scegliere che offre a tanti giovani che vivono in contesti malavitosi l’opportunità di cambiare vita. Il Giudice Di Bella si racconta ai ragazzi facendo breccia nei loro cuori, racconta varie aneddoti dei tanti ragazzi che sono riusciti ad allontanarsi da contesti familiari di criminalità. “Liberi di scegliere oggi è diventato un percorso internazionale, il grande lavoro del Presidente Di Bella ha creato un ponte tra nord e sud - conclude Bruna Siviglia Presidente di Biesse -una vera missione quella del Giudice Di Bella affinché sempre più giovani possano essere Liberi di Scegliere”. La Spezia. Un film dal carcere per raccontare la potenza del teatro cittadellaspezia.com, 18 marzo 2021 La pandemia non ha fermato il progetto teatrale Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”. Da Villa Andreini nasce il medio metraggio “Ciò che resta - appunti dalla polvere”. Cosa accadrebbe senza il teatro? Se lo sono chiesti i ragazzi coinvolti nel progetto “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” che in due anni, assieme agli Scarti hanno partecipato al percorso teatrale realizzato tra il 2019 e il 2020 con 25 detenuti della casa circondariale della Spezia. Questa mattina con una conferenza a distanza è stato presentato l’elaborato che si è letteralmente trasformato a causa della pandemia. L’idea principale era quella di portare uno spettacolo in teatro, al Civico, ma il Covid 19 ha imposto la chiusura di progetti e spazi. Ma sono le grandi capacità del gruppo attoriale, di chi li ha seguiti e sostenuti a cambiare, con un epilogo felice, le carte in tavola. Ad accogliere i ragazzi non è stato un palco ma l’occhio della cinepresa. Il progetto che resta legato al teatro è diventato un medio metraggio di 35 minuti dal titolo: “Ciò che resta - appunti dalla polvere”. Il progetto “Per Aspera ad Astra” è promosso da Acri e sostenuto da 11 Fondazioni di origine bancaria, tra le quali Fondazione Carispenzia, è nato dall’esperienza ultra trentennale della Compagnia della Fortezza di Volterra, guidata dal drammaturgo e regista Armando Punzo. Nel corso della presentazione il presidente della Fondazione Carispezia Andrea Corradino ha ricordato l’importanza dell’intero progetto: “Nonostante la pandemia non abbiamo voluto disperdere l’esperienza del carcere e il progetto si è sviluppato nel massimo rispetto degli obblighi sanitari. Ne è nato un corto metraggio che racconta questo percorso dal punto di vista teatrale e cinematografico. Il 26 marzo poi verrà rappresentato al Giornata mondiale del teatro alla presenza del ministro Dario Franceschini. Siamo orgogliosi di aver partecipato con Fondazione Carispezia. Questa esperienza è nata dal contatto con Acri e tra le fondazioni che si intreccia con quello che è il percorso della compagnia della Fortezza. “E’ un progetto importantissimo per far conoscere la realtà del carcere e dei detenuti - ha aggiunto -. Gli istituti penali e chi vi abita sono un mondo che per molti non fa parte della nostra società, ma non è così. La risposta in questo senso arriva dal carcere stesso. Questa esperienza è formativa, utile anche per la formazione professionale. Insegna a recitare e si fonda su altre esperienze: ne sono nati tecnici, fonici e i detenuti hanno acquisito competenze necessarie. Sostenere questi progetti rientra nei compiti essenziali delle fondazioni. Questa idea è in linea con il pensiero del ministro della Giustizia Cartabia su una visione diversa del carcere e dell’esecuzione della pena. Le fondazioni sono state propositive dobbiamo ringraziare Villa Andreino, i detenuti che hanno partecipato con grande entusiasmo e gli Scarti che lo hanno reso possibile. Alla Spezia è stato fatto un grande lavoro. Con gli Scarti rapporto consolidato e non possiamo che ringraziarli per la loro competenza. La prosecuzione di questo progetto è importante e speriamo che per la prossima edizione sia possibile assistere allo spettacolo dal vivo”. Giorgio Righetti presidente dell’Acri è il motore e ideatore del progetto: “Il ministro Cartabia ci fa capire che c’è sempre una speranza. Sarebbe stato impensabile in passato, ora si apre orizzonte. Per me partecipare a questi momenti è motivo di grande piacere. Dimostra che questo progetto, che raccoglie 10 fondazioni e 12 compagnie teatrali negli istituti di pena, è valido e meritevole del nostro impegno. ‘Aspera ad Astra’ non è opportuno ma necessario progetti come questo servono ancora di più in un momento complesso. Il trailer potentissimo e straordinario, fa venire i brividi. Il progetto poi nasce nelle attività che Acri promuove per portare su scala nazionale attività che si fanno a livello locale. Tra i tanti progetti che Acri porta avanti a questo è uno di quelli a cui tengo di più. Acri porta avanti anche progetti da centinaia di milioni di euro, questo ha un budget più ridotto ma nel suo piccolo è grandissimo”. “Tra i suoi obiettivi non c’è soltanto il reinserimento del detenuto - ha aggiunto Righetti -. Il teatro è un mezzo, ma in questo progetto l’arte non è uno strumento: arte, cultura e teatro sono un diritto anche per coloro che sono privati della libertà. Per questo motivo riteniamo che portarlo negli istituti di pena produce come sottoprodotto anche la riabilitazione. Il diritto alla bellezza e all’arte sembrano un’utopia ma possono diventare realtà. Ne siamo profondamente convinti: non usiamo il teatro per rendere meno dura la detenzione ma anche per preparare il futuro. L’arte è una liberazione. Normalmente i progetti di Acri arrivano da grandi fondazioni anche di grande capacità. Qui parte dalla Fondazione di Volterra, piccola in un carcere periferico dove Punzo da 30 anni va avanti: noi la estendiamo a livello nazionale. E’ la dimostrazione che una piccola fondazione che può insegnare qualcosa e per noi è grande orgoglio. Quando è cominciata la pandemia alle fondazioni sono state fatte una serie di richieste per soddisfare delle esigenze economiche e sanitarie. Noi lo abbiamo fatto nei limiti delle nostre possibilità e ma dovevamo anche occuparci di cultura. Non credevo che fosse possibile ma sono felice nel dirvi che sono stato smentito: le fondazioni sono rimaste sempre sensibili sui temi della cultura. Lo facciamo anche a costo di scontrarci con elementi di natura diversa. Lavorare in carcere è difficile e la situazione attuale anche ma non volevamo rinunciarci quindi abbiamo fatto appello alla creatività. I detenuti e gli Scarti lo hanno fatto così è nato ‘Ciò che resta della polvere’“. Annarita Gentile la direttrice della casa circondariale spezzina ha spiegato: “ Il mio ringraziamento va a Fondazione e Acri, con la pandemia il sostegno è stato fondamentale e ringraziando gli Scarti è stato possibile rimodulare il progetto. Nonostante tutte le limitazioni del caso siamo riusciti ad andare avanti. L’esperienza dai detenuti è stata affrontata con entusiasmo e gioia, alcuni di loro sembrano nati per fare il teatro. Nonostante il momento vedere questa gioia ci ha spinti a continuare ed è stato possibile anche perché non abbiamo avuto casi positivi all’interno. Ci sono detenuti che da 3 anni seguono questo progetto hanno seguito e si sarebbero dovuti esibire al Civico, ora speriamo di vederci all’esterno”. Dall’area trattamentale ha parlato Licia Vanni: “I miei ringraziamenti non sfociano nella retorica. Dico soltanto che vedo quotidianamente gli effetti dell’attività teatrale in carcere, dove lavoro da 30 anni. Queasta attività ha migliorato il clima complessivo del carcere: una ricerca dimostra che ha un impatto enorme per tutti quelli che partecipano e che vogliono partecipare. Nonostante la pandemia riempisse di angoscia siamo arrivati ad un grande risultato. Da anni volevamo lavorare con gli Scarti e ho confermato che avevo ragione (ride, NdR) perché con loro si è venuto a creare un percorso straordinario, io mi incanto a guardare le prove. e ho imparato davvero molto. Il peso della rieducazione è grande per un carcere se la società ci viene incontro”. Per gli Scarti hanno parlato Renato Bandoli ed Enrico Casale. “Quando è arrivata la pandemia ci siamo chiesti come avremmo potuto proseguire - ha detto Bandoli - Abbiamo messo al centro il progetto. In una cella abbiamo costruito un set cinematografico, lavorandoci in estate, abbiamo passato li le nostre vacanze e ne siamo orgogliosi. Uno dei ragazzi nel corso della lavorazione ha finito la sua pena e gli abbiamo chiesto di restare con noi ed è accaduto. Speriamo di poter debuttare fuori dal carcere come è stato fatto per “Incendi”, nella speranza che in estate sia possibile. ‘Cio che resta della polvere’ non è nulla di miracolistico: solo lavoro e sudore. Capirete anche perché abbiamo sofferto. Abbiamo scommesso su questa esperienza. Il lavoro che facciamo con i detenuti è semplice: attiviamo l’immaginazione contro l’emarginazione. Vogliamo riattivare ciò che è peculiare dell’essere umano: avere conoscenza di ciò che si fa”. Enrico Casale ha aggiunto: “In questa esperienza c’è una sinergia incredibile tra la compagnia, il carcere e la Fondazione: tutto è in equilibrio perfetto. Vorrei anche ringraziare la Polizia penitenziaria per la disponibilità estrema e la grande umanità per tutta la realizzazione del film”. Casale ha poi voluto far parlare alcuni degli attori, detenuti, coinvolti nel progetto definendoli “i nostri Tom Cruise”. Il primo a parlare è Luca Colli: “Ho avuto la fortuna di partecipare già nel 2019. C’è stata una grande differenza tra le due esperienze alle quali ho partecipato. C’è sempre l’adrenalina del teatro. Quest’anno davanti alla cinepresa era diverso. Ho rivisto tutto ed è stata una grande soddisfazione. Nella mia scena: passo tra i compagni, io sono la loro ombra. Volevo ringraziare tutti, loro in particolare. Spero di tornare a fare teatro davanti a un pubblico”. Dopo di lui ha parlato Samir Khamassi: “È stata un’esperienza importante, il fatto che il progetto sia cambiato in corsa ha portato qualche difficoltà. In estate alcuni compagni hanno recitato con i cappotti, io stesso all’inizio ho avuto qualche difficoltà. Il mio ruolo mostra l’immagine di un uomo potente che poi si ritrova nudo. Mi ha dato forti emozioni: la nudità mi ha portato a sentirmi come se fossi nato una seconda volta. Non sono più l’uomo che ero prima, oggi sono profondamente cambiato, arricchito so cosa siano rispetto ed educazione. Il teatro ha fatto questo per me. Ora stiamo facendo un altro progetto: grazie a tutti voi”. A chiudere le testimonianze è Alessandro Joil: “Se mi avessero chiesto cosa fosse il teatro, in passato, non sarei stato in grado di rispondere. Oggi posso dire che è libertà. In questo lavoro non abbiamo mai recitato con un copione, io sono una statua che poi diventa un filino di ferro. È un messaggio: guardate sempre oltre, dietro a quello che vedete c’è sempre una persona. Speriamo davvero di poterci vedere in teatro”. Il medio metraggio “Ciò che resta - appunti dalla polvere” è visibile in versione integrale qui: https://www.progettocult.it/movie/cio-che-resta-appunti-dalla-polvere Velletri (Rm). Laboratorio di poesia con partita di calcio finale nel carcere regione.lazio.it, 18 marzo 2021 A conclusione del corso “Versi liberi”, la Nazionale italiana poeti incontrerà la neonata rappresentativa di detenuti poeti. La Nazionale italiana poeti, associazione culturale - sportiva non profit, sta curando “Versi liberi”, laboratorio di poesia nella casa circondariale di Velletri. Il laboratorio, iniziato il 16 dicembre 2020, terminerà il prossimo 21 aprile 2021 con la pubblicazione di un’antologia contenente i componimenti poetici dei detenuti partecipanti. Inoltre, per festeggiare l’uscita del volume, nel mese di giugno, in istituto (data ancora da stabilire per ragioni legate alla pandemia) si svolgerà una partita di calcio tra la Nazionale italiana poeti e la neonata rappresentativa di calcio poeti istituto Velletri. Durante la partita saranno lette le poesie dell’antologia. “L’obiettivo - spiega Michele Gentile, fondatore e segretario della Nazionale italiana poeti - è quello di coniugare cultura e sport, per promuovere e divulgare la poesia all’interno di eventi e manifestazioni sportive. La Nazionale italiana poeti è la prima e unica squadra di calcio al mondo a portare concretamente all’interno degli stadi libri di poesie e a creare spazi e momenti di lettura pubblica. Una vera rivoluzione culturale, perché, attraverso il gioco del calcio, si è arrivati a interessare vaste platee circa la poesia facendo allo stesso tempo beneficenza”. Presidente onorario del team è Gianni Maritati, scrittore, vicecapo redattore cultura e spettacolo del Tg1. Uno degli sponsor della Nazionale italiana poeti, il birrificio romano Contromano del mastro birraio Luca Speranza, provvederà a dotare del completino di gioco anche la squadra dei detenuti poeti della casa circondariale di Velletri. “Grazie al ministero della Giustizia - conclude Gentile - alla direzione e a tutti gli operatori penitenziari di Velletri, grazie alla partecipazione attiva ed empatica dei detenuti, si è dato vita ad un prezioso percorso culturale, sportivo e sociale che sta arricchendo umanamente tutte le parti attive di questa esperienza davvero speciale”. https://www.nazionaleitalianapoeti.it Ricchi e poveri nella pandemia di Danilo Taino Corriere della Sera, 18 marzo 2021 La Banca mondiale ha stimato che nel 2020 siano finiti in povertà tra i 119 e i 124 milioni di persone a causa della pandemia e prevede che pure quest’anno il numero dei poveri aumenti di altri 20-40 milioni. I più ricchi del mondo si sono presi uno spavento - probabilmente molto minore di quello del resto della popolazione - un anno fa, quando è scoppiata la pandemia da Covid-19. Tra marzo e giugno 2020, i patrimoni dei cosiddetti Uhnwi - gli individui con una ricchezza superiore ai 30 milioni di dollari - erano scesi tra il quattro e il 5%. I valori dei beni mobili e immobili sono poi risaliti, al punto che la popolazione di Uhnwi è cresciuta del 2,4% nel 2020, a un totale di 521.653 persone nel mondo - secondo il Wealth Report 2021 della società di consulenza Knight Frank. Il 36% dei miliardari in dollari vive in Asia, il 31% nell’America del Nord, il 18% in Europa. I milionari stanno invece per il 42% in Nordamerica, per il 29% in Europa e per il 22% in Asia. Il numero di coloro con più di 30 milioni di patrimonio è aumentato in gran parte del pianeta, con una punta del 12% in Asia; cali solo in Russia (-21%), America Latina (-14%) e Medio Oriente (-10%). Le cose sembrano andare poco bene (si fa per dire) per gli Uhnwi italiani, calati l’anno scorso del 3% a 10.441 persone (ma in Francia sono diminuiti del 9%, in Spagna del 14%, in Grecia del 33%). Al polo opposto, il numero di cinesi con più di 30 milioni di proprietà mobiliari e immobiliari è cresciuto del 16% (quello degli americani del 4% e dei tedeschi del 3%). Lo studio di Knight Frank indica anche quante sostanze occorre avere per entrare nel club dell’1% dei più ricchi. In Italia servono 1,4 milioni di dollari. A Montecarlo, 7,9; in Svizzera, 5,1; negli Stati Uniti, 4,4. In India bastano 60 mila dollari. Sin qui, la versione dei facoltosi. C’è naturalmente un versante opposto. La Banca mondiale ha stimato che nel 2020 siano finiti in povertà tra i 119 e i 124 milioni di persone a causa della pandemia. Tra l’aumento del numero dei molto ricchi e quello dei molto poveri non c’è una relazione diretta: non è che quello che guadagna uno venga sottratto all’altro. È però evidente che, dopo vent’anni in cui il numero dei ricchi aumentava e in parallelo quello dei poveri calava, in un anno in cui non si è creata ricchezza nuova a livello globale la pandemia ha avuto effetti divergenti. È probabile che i patrimoni dei più ricchi crescano anche nel 2021. La Banca mondiale prevede invece che pure quest’anno il numero dei poveri aumenti di altri 20-40 milioni. L’Europa parla di passaporto vaccinale ma arranca sui vaccini di Francesca De Benedetti Il Domani, 18 marzo 2021 Un certificato faciliterà gli spostamenti a chi è vaccinato o negativo ai test. Bruxelles lo promette entro giugno, con uno sprint sulle somministrazioni. Ora deve fare i conti con la crisi di fiducia. Ieri, dopo il collegio dei commissari, Ursula von der Leye nha presentato la proposta di passaporto Covid da realizzare entro giugno. L’Unione europea per quel che riguarda le vaccinazioni si confronta con un problema di fiducia. Trust, fiducia appunto, è una delle parole pronunciate più di frequente ieri da Ursula von der Leyen, la presidente dell’esecutivo Ue, da Thierry Breton, commissario al Mercato interno, che ha il compito di aumentare la produzione europea di dosi, e da Didier Reynders, che ha la delega alla Giustizia e ha dettagliato la proposta di “passaporto Covid”. La campagna di vaccinazioni europea “ha avuto un inizio difficile”, dice von der Leyen, che però parla di “buone notizie e progressi fatti”; punta su un aumento delle consegne nel secondo trimestre, anche grazie all’arrivo dei vaccini Johnson&Johnson (per i quali basta una dose) e conferma l’obiettivo del 70 per cento di adulti vaccinati entro fine estate. La presidente fa però alcuni distinguo: tra Pfizer, “che è affidabile, su cui sappiamo di poter contare” e con la quale c’è stata martedì la stretta di mano per nuove dosi in arrivo, e AstraZeneca che invece “ha consegnato ben al di sotto dei numeri concordati”. Nel primo trimestre dovevano arrivare 90 milioni di dosi e saranno un terzo; “ciò ha dolorosamente rallentato la nostra velocità nel vaccinare”. Stoccate ad AstraZeneca, e pure al Regno Unito: il controllo dell’export attivo da febbraio si è tradotto in un solo blocco effettivo delle esportazioni (quello italiano con una partita AstraZeneca diretta in Australia); ma “ha reso evidente, dati alla mano, quanto sia squilibrata la situazione: noi su 314 richieste di esportare ne abbiamo rifiutata solo una, e dall’Ue sono uscite 41 milioni di dosi, verso 33 paesi; gli altri paesi non sono altrettanto “aperti” con noi”; il riferimento è a Londra. La presidente della Commissione conclude comunque con un messaggio di fiducia: ripete che “ I trust AstraZeneca, ho fiducia in AstraZeneca e nei vaccini”. Si dice convinta che la dichiarazione attesa da Ema oggi “farà chiarezza” e dice che è giusto dare agli scienziati tempo per uno scrutinio scrupoloso visto che hanno sulle spalle grandi responsabilità. La Commissione lancia la sua proposta di “certificato verde digitale”; dice Reynders, “Bruxelles vuole arrivare a giugno con il progetto realizzato”. Di che si tratta? Di un codice QR che certifica che si è vaccinati, che si è guariti dal Covid-19 o negativi al test. Il codice è uno strumento digitale, ma può essere esibito anche stampato su carta, “sua madre anziana non si deve preoccupare”, ha risposto Reynders a un giornalista. Il certificato, che sarà gratuito e riconosciuto in tutti gli stati membri, servirà come strumento per favorire la libertà di circolazione di chi è vaccinato o può attestare di non avere Covid-19. Con l’inizio della campagna vaccinale, alcuni paesi mediterranei come Grecia, Portogallo e Spagna, pensando alla stagione turistica, hanno spinto perché l’Ue stabilisse criteri e strumenti condivisi per spostarsi. La questione ha rischiato di essere politicamente divisiva, per una serie di ragioni. In alcuni paesi in particolare, e in Ue in generale, le vaccinazioni sono iniziate con lentezza, e condizionare gli spostamenti al vaccino rischiava di introdurre un obbligo de facto a vaccinarsi; obbligo il cui esercizio le istituzioni non potevano garantire. Mentre in Spagna l’80 per cento è favorevole a vaccinarsi (la rilevazione è YouGov), in Francia solo il 50, in Germania il 64, e questi due paesi erano infatti reticenti. La questione è stata sciolta garantendo un’alternativa al vaccino: il test, appunto, o l’attestazione che si è guariti dal virus. Un altro punto sensibile è: quali vaccinazioni riconoscere? L’Ungheria ad esempio ha autorizzato i vaccini russo e cinese, sui quali Ema non si è espressa. Bruxelles riconoscerà, per il certificato, solo i vaccini approvati da Ema, ma consente agli stati di fare deroghe e accogliere anche chi ha ricevuto altri tipi di vaccini. In generale, il criterio utilizzato dalla Commissione è proprio quello di fornire strumenti comuni, interoperabili tra uno stato e l’altro, ma di lasciare ai governi il loro margine di autonomia - e quindi anche una larga fetta di responsabilità politica. Bruxelles si fa comunque garante di alcuni aspetti: che il passaporto, per come è concepito, non sia discriminatorio (anzitutto verso chi non è vaccinato); che tuteli i cittadini sul fronte della privacy e del trattamento dei dati. Il certificato conterrà solo le informazioni strettamente indispensabili, e i paesi nei quali i cittadini transitano non potranno conservare i dati. “In pratica - dice Roberto Reale, fondatore dell’osservatorio sull’innovazione Eutopian - l’Ue costruirà un hub, una infrastruttura tecnologica, con lo scopo di verificare la validità delle firme digitali che provengono da ogni stato”. Per firma digitale si intende il marchio dell’autorità nazionale che rilascia il certificato di vaccinazione, di test o di guarigione. L’Ue provvede alla interoperabilità del sistema; dopodiché, dice Reale, “spetterà ai governi declinare il progetto al loro interno”. Questo entro giugno. Intanto, sottolinea von der Leyen, “la situazione epidemiologica peggiora, i paesi fanno fronte a terza ondata e varianti”. In Italia ieri sono stati registrati 23.059 nuovi casi, 431 i decessi. A livello europeo, l’Ecdc dice che non siamo affatto a buon punto nel monitorare e nell’arginare le varianti. Gli effetti di Zoom, quattro problemi psicologici dovuti ad un anno di smart working di Elisabetta Panico Il Riformista, 18 marzo 2021 Da ormai un anno, la maggior parte dei lavoratori è costretto a riunirsi sulle piattaforme di conference call che hanno sostituito le sale riunioni degli uffici. Una delle app che è ‘cresciuta’ di più è Zoom. Infatti in 365 giorni ha avuto un boom di utilizzatori fiano al 470% in più di utenti. Infatti è ormai diventata quasi una cosa del tutto naturale vedere i colleghi sulla una griglia che appare sullo schermo del computer o del proprio smartphone. Ogni persona è visibile in un quadratino che si illumina una volta che si inizia a parlare. Uno studio condotto l’università americana di Stanford ha elencato quattro problemi psicologici che sono una conseguenza del passare la maggior parte del tempo a lavorare su Zoom. Il primo è stato definito “fight or flight survival” in italiano la sopravvivenza combatti o fuggi e il professore di comunicazione dell’università Jeremy Bailenson spiega: “nessuno si aspetta che gli istinti primordiali entrino in azione durante la tua riunione delle 9 del mattino. Ma è esattamente quello che succede. Quella griglia di facce simula un incontro in cui ci si trova di fronte a un confronto in uno spazio ridotto”. Per rendere più reale la sensazione, basti pensare all’atmosfera che si crea in ascensore dove le persone che non si conoscono di solito tendono ad abbassare lo sguardo ed evitare ogni tipo di contatto, su Zoom questo non è possibile. La piattaforma “soffoca tutti con lo sguardo”. Tutti pensano che stiano solo fissando una telecamera ma secondo il professore, al di fuori sembra una simulazione di un confronto e si innesca cosi l’istinto di lotta o di fuga. La seconda è il Non-verbal internet cues, ovvero spunti non verbali su internet. Secondo il professore, l’essere umano non è abituato a socializzare in un ambiente virtuale anche perché non è in grado di cogliere i segnali non verbali di chi si ha dall’altra parte dello schermo. Da casa c’è anche la sensazione di lontananza. Infatti è dimostrato che il 15% delle persone parlano a voce più alta su Zoom. Il terzo problema riguarda il Constant mirror and self-evaluation che significa specchio costante e autovalutazione. La maggior parte degli utenti tende a guardare sempre e solo il suo riquadro ed è una cosa normalissima. Per immaginare anche questa sensazione basta pensare ad un assistente che segue qualcuno con uno specchio in modo da poter permettergli di vedere costantemente la propria faccia. Su Zoom si fa una costante autovalutazione che può portare ad un aumento dello stress. Il Constant mirror and self-evaluation è un problema che riguarda maggiormente il lato femminile degli utenti di Zoom. A convalidare questa tesi è lo stesso professore Bailenson che cita uno studio separato concludendo che lunghi periodi di auto-focalizzazione possono “preparare le donne a sperimentare la depressione”. L’ultimo nella lista ma non il meno importante è il Stuck in the box ovvero la sensazione degli utenti di essere bloccati in una scatola. Questa percezione può limitare le capacità mentali di chi ad esempio fa un lavoro creativo. Il restare fermi davanti alla telecamera per non uscire dall’inquadratura significa limitare i movimenti naturali che sono diversi da persona a persona. Ad esempio c’è chi per pensare o esprimere un concetto ha bisogno di camminare o muoversi. Bailenson a tutti questi problemi ha anche elencato delle soluzioni che ognuno può mettere in atto. Infatti, consiglia a chi ancora oggi è costretto a riunioni di lavoro telematiche di nascondere dal proprio schermo il proprio quadrante della grigia dove si vede la propria faccia, oppure si può optare per le riunioni telefoniche o usare addirittura una telecamera esterna così da poter permettere di muoversi e non sentirsi giudicati ed uscire “fuori dalla scatola di Zoom”. Migranti. Accordo Ue-Turchia: cinque anni di politiche contro i rifugiati di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 marzo 2021 Ricorre domani il quinto anniversario della firma della Dichiarazione (conosciuta come “accordo”) tra Unione europea e Turchia. Sono stati cinque anni di politiche contrarie ai diritti umani, che hanno obbligato decine di migliaia di persone a vivere in condizioni disumane sulle isole greche e hanno messo in pericolo i rifugiati, costringendoli a stare in Turchia sotto la costante minaccia (più volte attuata) di rimpatrio in zone di guerra. Nell’ambito dell’accordo, la Turchia si è impegnata a evitare che le persone lasciassero il suo territorio per raggiungere l’Europa. In cambio, l’Ue ha dato alla Turchia sei miliardi di euro, di cui centinaia di milioni a settembre del 2020 a sostegno dei circa quattro milioni di rifugiati (di cui 3.600.000 siriani) che vivono nel paese. L’accordo prevede il rimpatrio di tutte le persone che giungono irregolarmente sulle isole egee in Turchia. Per questo, da cinque anni la Grecia obbliga le persone che entrano nel paese attraverso le isole a restare nei campi in attesa dell’esito delle domande di asilo. In questi campi attualmente si trovano circa 15.000 persone. La grande maggioranza proviene da classici paesi d’origine dei rifugiati (l’86 per cento viene da Afghanistan, Siria, Somalia, Repubblica democratica del Congo e Palestina), mentre una persona su quattro è minorenne. Migranti. I cittadini accolgono i rifugiati che la politica dimentica di Gaetano De Monte Il Domani, 18 marzo 2021 Diallo è un ragazzo di 20 anni che è fuggito dalla Guinea Conakry, paese dell’Africa occidentale dove negli ultimi cinque anni la diffusione delle epidemie di ebola, prima, e di morbillo, poi, hanno inferto un duro colpo al già fragile sistema sanitario locale, caratterizzato, peraltro, dalla penuria di vaccini. Diallo è uno dei 70mila minori stranieri non accompagnati che dal 2014 al 2018 hanno raggiunto le coste italiane attraversando il mar Mediterraneo, come ha stimato l’Unicef. E al giovane proveniente dalla Guinea Konacry è andata sicuramente meglio che ai tanti altri minori che si sono persi tra le maglie del sistema d’accoglienza italiano che, troppo spesso, li fa scivolare sulla strada dello sfruttamento lavorativo. Diallo è stato, inizialmente, ospite in un centro di seconda accoglienza e, dopo aver ottenuto lo status di rifugiato, è stato accolto temporaneamente da una famiglia italiana. “Sono figlio unico e ho perso entrambi i miei genitori, sentivo il bisogno di ritrovare un’atmosfera famigliare attorno a me. Così, quando mi è stato proposto dall’operatore del centro dove vivevo di essere ospitato da una famiglia, ho subito accettato”, racconta Diallo, che oggi fa l’operaio e vive in provincia di Mantova, in un nucleo famigliare che è composto da Marco e Annalisa e dai loro quattro figli: Elia, Giacomo, Linda e Francesco, che ha 18 anni e frequenta l’ultimo anno di un istituto superiore. “Nonostante entrambi abbiamo quasi la stessa età, la mia vita e quella di Diallo sono state profondamente diverse. Mentre io andavo a scuola, lui era detenuto in Libia. Ora, invece, facciamo più o meno le stesse cose: condividiamo la camera, prendiamo il bus insieme, giochiamo a calcio, guardiamo le partite in Tv. Avergli dato la possibilità di avere finalmente una vita normale, è la cosa più bella di questa esperienza”, dice il ragazzo. I primi incontri tra loro sono avvenuti in un posto pubblico e, spiega Diallo: “Sono stato colpito dalla loro allegria, trattandosi di una famiglia dove regna l’armonia e in cui ci si sostiene a vicenda. E per me la cosa importante era sapere che tutti i figli fossero d’accordo col mio arrivo in casa”. Le loro vite, però, non si sono incontrate per caso. Il loro incontro, infatti, è stato il frutto di un progetto portato avanti da qualche anno a questa parte da una onlus, Refugees Welcome Italia, che fa parte del network europeo Refugees Welcome International. L’associazione è nata nel 2015 grazie all’impegno di un gruppo di professionisti con una solida esperienza nel campo delle politiche dell’accoglienza e dell’inclusione sociale. Da Refugees Welcome spiegano: “Siamo presenti in diverse regioni italiane, dove lavoriamo con il supporto di gruppi territoriali multidisciplinari, aiutando le famiglie e i rifugiati a incontrarsi, conoscersi e avviare la convivenza, sostenendoli e seguendoli durante tutto il percorso”. Secondo una filosofia chiara: “Chi ospita in casa un rifugiato ha l’opportunità di conoscere una nuova cultura, aiutare una persona a costruire un progetto di vita nel nostro paese e di diventare un cittadino più consapevole e attivo creando nuovi legami”. Attualmente, sono già trecento le convivenze attivate attraverso un metodo di accoglienza portato avanti in trenta città italiane che ha coinvolto, finora, duecento attivisti in diciassette regioni italiane. Chiunque ha una camera libera ed è interessato a ospitare, può iscriversi sul sito dell’associazione. Diabo, che ha 22 anni e viene dal Burkina Faso e racconta gli ultimi mesi vissuti con Raniero, Alessandra e la figlia Serena, la famiglia che lo accolto in provincia di Torino, così: “C’eravamo conosciuti poco prima della pandemia e, quando è stato possibile, ci siamo incontrati durante i week-end per passare del tempo insieme. A settembre dello scorso anno, dopo aver terminato il periodo di accoglienza nel centro dove vivevo, mi sono trasferito a casa Tomei, dove la convivenza procede a gonfie vele”. E la convivenza gli ha anche portato nuove occasioni: “Grazie alla rete di conoscenze della famiglia Tomei, ora, ho trovato anche un lavoro come apprendista elettricista”. Un’esperienza apprezzata anche dalla famiglia: “Questa è una esperienza che consigliamo a tutti, uno scambio reciproco di modi di vivere, di culture, di esperienze che troviamo molto stimolante, che aiuta a eliminare i pregiudizi”, dicono. Ma non ci sono solo le famiglie cosiddette tradizionali ad accogliere i rifugiati nelle proprie abitazioni. Anche Enzo, che ha 82 anni, è un ex geometra ora in pensione nella sua casa di Roma ospita Ebou, un giovane rifugiato di 22 anni, che ha alle spalle un lungo viaggio migratorio che lo ha portato dal Gambia all’Italia attraversando il Senegal, il Mali, la Libia. “Non ricordo dove sono sbarcato, perché in quei momenti ho pensato solo che mi ero salvato”, dice oggi Ebou, anche lui giunto in Italia da minore straniero non accompagnato. Enzo, da parte sua, racconta: “Ospitare un rifugiato è per me un modo di tradurre in gesti concreti le cose in cui credo. Così desideravo offrire a Ebou la possibilità di trovare la sua strada e costruirsi un futuro. Ed è anche un modo di restituire ciò che ho ricevuto nella vita. Dopo il diploma sono venuto a Roma dalla Puglia per trovare un lavoro e sono stato accolto da alcuni parenti finché non l’ho trovato, un impiego. E poi, anche mio padre è stato un immigrato, andò in America con un bastimento carico di italiani in cerca di fortuna”. “L’arrivo di Tsering è stata all’inizio una sorpresa”, raccontano Fabio e Samuele, “perché gli operatori di Refugees Welcome ci avevano anticipato che probabilmente avremmo ospitato un ragazzo più giovane di noi, proveniente dall’Africa Subsahariana o dal medio oriente”. E invece, proseguono i due uomini che hanno aperto le porte della propria abitazione a Tsering, giovane donna fuggita dal Tibet e arrivata a Milano quattro anni fa in seguito a un viaggio difficile e pericoloso lungo l’Himalaya. “Alla fine, ci hanno presentato una giovane donna della nostra stessa età che viene dall’Asia”, ricordano sorridendo i due ragazzi, “volevamo rendere una testimonianza, stare, concretamente, dalla parte dei rifugiati. In un paese in cui le persone straniere sempre più spesso sono circondate da un clima di ostilità, ospitare qualcuno di loro a casa nostra, per noi, è stato un modo per mostrare che esiste un’altra Italia”. Quell’Italia dei cittadini che accolgono nelle proprie case, mentre una grossa parte del mondo politico italiano vorrebbe “aiutarli a casa loro”, gli stessi posti da cui fuggono, da guerre, povertà e persecuzioni. Egitto. 18 mesi di carcere a un’attivista dei diritti umani Il Domani, 18 marzo 2021 Sanaa Seif è stata condannata dal tribunale del Cairo dopo essere stata arrestata a giugno 2019, mentre si trovava insieme ai suoi familiari fuori dal carcere di Tora in attesa di ricevere una lettera del fratello, già dietro le sbarre da oltre un anno. La giovane ha rifiutato ogni accusa. Ancora una condanna in Egitto. L’attivista per i diritti umani Sanaa Seif dovrà trascorrere 18 mesi dietro le sbarre, con l’accusa di aver diffuso fake news sulle condizioni di salute del paese e sulla diffusione del Covid-19 nelle carceri, oltre ad aver insultato un agente di polizia su Facebook. La giovane, in custodia da giugno 2020, ha negato ogni accusa, riferiscono i familiari e il suo avvocato, Hesham Ramada, il quale ha aggiunto che presenterà ricorso contro la sentenza del tribunale penale del Cairo. Seif è stata arrestata mesi fa mentre lei e altri membri della sua famiglia si trovavano presso l’ufficio del pubblico ministero per presentare una denuncia per un attacco nei loro confronti, avvenuto ieri fuori dal carcere di Tora, al Cairo. A riferirlo, la sorella di Sanaa, Mona, anche lei attivista. La famiglia Seif, infatti, si recava lì ogni giorno in attesa di ricevere una lettera del figlio, Alaa Abdel-Fattah, già in carcere da un anno e mezzo, promessa loro dai funzionari della prigione. Dopo il verdetto, si attendono proteste da parte dei gruppi internazionali per i diritti umani, che accusano le autorità egiziane di avere intrapreso un’ampia repressione del dissenso, imprigionando migliaia di attivisti, principalmente islamisti, ma anche laici. Una famiglia di attivisti - Il padre di Seif, Ahmed Seif al-Islam, morto nel 2014, era un rinomato avvocato per i diritti umani. Sua madre, Leila Soueif, una matematica, è un’importante sostenitrice dell’indipendenza accademica, mentre la zia è la pluripremiata scrittrice Ahdaf Soueif. Il fratello, Alaa Abdel-Fattah, è salito alla ribalta delle cronache con la rivolta egiziana del 2011 ed è stato arrestato a seguito di una protesta antigovernativa il 29 settembre del 2019. Australia. In carcere da 17 anni per l’assassinio dei figli, ma l’Italia riapre il caso di Federico Mereta La Repubblica, 18 marzo 2021 Una rara anomalia genetica che provoca una tempesta elettrica del cuore e la morte. Così, secondo il cardiogenetista Peter Schwartz, sarebbero morti i due figli più piccoli di Kathleen Folbigg, reclusa da 17 anni. E si pensa ad un riesame. Kathleen Folbigg è una donna australiana, condannata a trent’anni di carcere - ne ha già scontati 17 - con l’accusa di aver soffocato i suoi quattro figli. Condannata e additata come la peggiore serial killer del paese down under. Ma una dottoressa australiana ha un dubbio sulle strane coincidenze dei particolari delle morti raccontate dalla madre e chiede un parere al cardiogenetista Peter Schwartz, direttore del Centro per lo Studio e la Cura delle Aritmie Cardiache di Origine Genetica e del Laboratorio di Genetica Cardiovascolare dell’Istituto Auxologico Italiano IRCCS di Milano. Uno dei maggiori esperti al mondo. Studiando i casi di due dei bimbi uccisi (negli altri due bambini si parla di una mutazione associata, in studi sperimentali, a forme mortali di epilessia già in tenera età ma le ricerche sono in corso) si è individuata una mutazione sul gene della Calmodulina. Quando sono presenti queste alterazioni del DNA, è pratica corrente considerarle causa del decesso. Schwartz rimette quindi i due casi sotto la lente d’ingrandimento della giustizia: insieme ad altri ha visto che nel corredo genetico di due bambini era infatti presente una mutazione particolare, rarissima, sul gene della Calmodulina. Da questa osservazione almeno per due casi di decesso si “riparte” anche sul fronte giuridico nella valutazione di quanto avvenuto, dopo che la Folbigg è stata definita una delle più efferate serial killer della storia. Proprio questa alterazione genetica, presente su uno dei tre geni che regolano appunto la Calmodulina, si associa ad aritmie cardiache estremamente gravi, capaci di scatenare una “tempesta” elettrica nel cuore e portare a morte improvvisa chi ne soffre già in età infantile o pediatrica. “Le nostre conclusioni - racconta Schwartz a Salute dal Sudafrica - sono state che la presenza in due dei quattro bambini morti (entrambi deceduti nel sonno) di una mutazione ereditata dalla madre sul gene della Calmodulina, fa ragionevolmente pensare che questa sia stata la causa della loro morte improvvisa: quando si trova una mutazione sul gene della Calmodulina è pratica corrente considerare questa la causa della morte. Insomma: un “Cold Case” diventa lo strumento per ragionare nuovamente su una sindrome rarissima, che entra in gioco come possibile fattore causale delle Sids, la morte in culla. A volte questi fenomeni drammatici possono infatti trarre origine proprio da invisibili modificazioni nel DNA. La scoperta del ruolo delle mutazioni su uno dei tre geni della Calmodulina nella genesi della morte improvvisa del neonato è recentissima. Nel 2013 lo stesso Schwartz insieme a Lia Crotti ha scoperto la correlazione di queste mutazioni, rare. “La loro prevalenza è ignota - spiega Schwartz - e nel Registro Internazionale di queste mutazioni, coordinato da noi, sono stati arruolati 104 pazienti di tutto il mondo”. Fondamentale, pur se è davvero difficile pensare di “svelare” i segreti nascosti nel DNA di ogni neonato, sarebbe riconoscere queste modificazioni genetiche precocemente. “L’importanza del riconoscimento precoce dipende dal fatto che con adeguate terapie molti di questi pazienti possono avere una vita essenzialmente normale - segnala l’esperto - nella maggior parte dei casi queste forme possono essere identificate con un elettrocardiogramma nelle prime settimane di vita. A volte le aritmie avvengono già nel periodo fetale e possono mettere sull’avviso anche prima del parto”. Va detto che, a sorpresa, le prime ricerche sulla presenza di queste mutazioni in vittime di SIDS hanno dato esito negativo. Ma il consiglio dell’esperto è chiaro. “Se vi sono casi noti nelle famiglie, lo screening neonatale è imperativo così come l’attento monitoraggio delle gravidanze; più spesso però questi casi, proprio per la loro gravità, sono delle mutazioni de novo, cioè comparse durante la gravidanza e quindi assenti in entrambi i genitori”, ricorda Schwartz, che da 50 anni si occupa di SIDS e da quasi 20 anni con altri ricercatori ha dimostrato che circa il 10% di questi casi è dovuto alla sindrome del QT lungo. In questi casi, va detto, un semplice elettrocardiogramma può rivelare questa anomalia del tracciato e quindi consentire un monitoraggio più attento della situazione La sindrome da morte improvvisa del neonato o SIDS rappresenta un evento drammatico, anche perché non è preceduta da alcun segnale d’allarme, può colpire sia di giorno che di notte, in culla o nel passeggino o ancora nel seggiolino dell’auto. Colpisce il bambino nel primo anno di vita con particolare incidenza fra i 2 e i 4 mesi di vita e rappresenta circa il 40 per cento delle morti del periodo post-natale. A rendere ancor più drammatica la situazione concorrono anche le scarse conoscenze sull’origine del quadro. Alcuni studiosi sostengono che la causa principale della morte in culla sarebbe da ricercare in specifiche anomalie del cervello, con mancato controllo dei ritmi del sonno e della veglia. Più probabilmente, tuttavia, a determinare il decesso dei piccoli sarebbe una combinazione di eventi e in alcuni casi potrebbe essere coinvolto il cuore. A questo punto entra in gioco come possibile causa di una percentuale di casi di “morte in culla” l’allungamento patologico di un intervallo elettrico del cuore, chiamato tratto QT. Se questo spazio sul tracciato elettrocardiografico è allungato oltre i valori di normalità è aumentato il rischio di un’aritmia grave. Infine sono stati chiamati in causa anche modificazioni dei sistemi di controllo della pressione e della respirazione, oltre che situazioni ambientali come la posizione assunta nel sonno, le ripetute infezioni delle vie respiratorie o anche meccanismi ormonali ancora da definire con precisione.