Salute mentale in carcere e l’alternativa: l’urgenza della riforma penitenziaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 marzo 2021 L’attuale regolamento prevede per la salute mentale la possibilità di assegnare detenuti affetti da patologie psichiatriche in sezioni speciali. Il tema dell’assistenza psichiatrica nelle carceri è stato del tutto omesso dalla semi-riforma dell’ordinamento penitenziario. Addirittura, nei primi decreti attuativi si è persino cancellato il riferimento allo psichiatra nell’art. 11 dell’Ordinamento Penitenziario, né sono state accolte le proposte avanzate dalla Commissione Pelissero sulle attività per la prevenzione dei suicidi e sulle funzioni delle Articolazioni per la tutela della Salute Mentale. Una linea che ha rimosso in modo del tutto ingiustificato il tema della salute mentale come segnalato da studiosi del diritto e purtroppo dai dati sui suicidi e il disagio di detenuti e polizia penitenziaria. I malati mentali imputabili devono scontare la pena in carcere - Per i malati mentali risultati imputabili, la pena deve essere scontata in carcere e al contempo però devono essere assicurate cure adeguate. Il vigente ordinamento penitenziario, nello specifico il regolamento di esecuzione D.P.R 230/2000 agli artt. 111 e 112, prevede la possibilità di assegnare detenuti affetti da patologie psichiatriche in sezioni speciali, oggi denominate “articolazioni per la salute mentale”, volte a garantire servizi di assistenza rafforzata per rendere il regime carcerario compatibile con i disturbi psichiatrici. In tali reparti si prevede che la permanenza nelle suddette sezioni non debba essere superiore a trenta giorni. Lo scopo formale è quello di garantire a questi soggetti un’attività di tipo terapeutico e riabilitativo in maniera continuativa e individualizzata. Tuttavia - come si legge nell’ultimo rapporto di Antigone - “le criticità che si riscontrano all’interno di queste sezioni, in molti casi del tutto sprovviste di adeguati percorsi trattamentali e risocializzanti, finiscono per rendere nulle le intenzioni di cura che il legislatore si era posto come fine ultimo, diventando terreno fertile per il peggioramento delle patologie dei soggetti che ne vengono ristretti”. Questo è un aspetto. Ma poi ne subentra un altro. La Corte costituzionale ha equiparato la salute fisica a quella mentale - Grazie alla sentenza della Corte costituzionale del 2019, equiparando la salute fisica con quella mentale, anche i detenuti con patologie psichiatriche sopraggiunte durante la detenzione, posso fare finalmente istanza per richiedere misure alternative. Infatti, si legge nella sentenza della Consulta - “la Corte ritiene in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 32 e 117, primo comma, Cost. l’assenza di ogni alternativa al carcere, che impedisce al giudice di disporre che la pena sia eseguita fuori dagli istituti di detenzione, anche qualora, a seguito di tutti i necessari accertamenti medici, sia stata riscontrata una malattia mentale che provochi una sofferenza talmente grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività del carcere, dia luogo a un supplemento di pena contrario al senso di umanità”. Ma per rendere operative le alternative alla detenzione occorrono soluzioni concrete. E le indicazioni provengono dalle proposte avanzate dal Tavolo 10 (presidente Francesco Maisto, ora garante di Milano) degli Stati Generali per l’Esecuzione della Pena e poi sostanzialmente riprese dalla Commissione Pelissero (art. 47 septies) le quali indicavano un percorso nel quale “l’interessato può chiedere in ogni momento di essere affida1to in prova ai sensi delle disposizioni di questo articolo per proseguire o intraprendere un programma terapeutico e di assistenza psichiatrica in libertà concordato con il dipartimento di salute mentale dell’azienda unità sanitaria locale o con una struttura privata accreditata”. Risulta quindi essenziale la presa in cura congiunta, ciascuno per le proprie competenze. Ma tutto questo, e non solo, non deve essere a spesa zero. Come ha detto recentemente il Garante nazionale Mauro Palma, durante la presentazione del rapporto di Antigone, bisogna proporre le misure alternative indicando strutture e soldi. Altrimenti sono solo parole. Dopo la strage in carcere, omissioni, depistaggi, segreti e bugie di Sergio Segio dirittiglobali.it, 17 marzo 2021 Tra il 7 e il 10 marzo 2020 numerose proteste - alcune violente, ma altre pacifiche - hanno scosso decine e decine di carceri italiane. Il bilancio è tragico e senza precedenti: 13 persone detenute hanno perso la vita. La sommossa è dilagata nel momento in cui veniva disposto il blocco dei colloqui con i parenti e mentre appariva crescente il rischio del contagio, in una informazione ancora caotica e approssimativa. Tanto più che le indicazioni date per ridurre il pericolo di contagio (distanziamento, lavaggio delle mani, mascherine e guanti) risultano impossibili da attuare nelle celle sovraffollate. I detenuti si sentono topi in trappola, trattati come tali. Anche la preoccupazione per i famigliari, non più raggiungibili, porta al panico incontrollato. La paura e la disperazione possono far degenerare le situazioni: accade nelle situazioni “normali”, figuriamoci in carcere, figuriamoci mentre esplode una pandemia altamente mortale e dai contorni ancora indefiniti. Come abbiamo richiamato nel nostro appello di un anno fa, dal quale è nato il Comitato per la verità e la giustizia, l’unica altra vicenda paragonabile per numerosità delle vittime è l’incendio nella sezione femminile del carcere torinese della Vallette del 3 giugno 1989, allorché perirono tra le fiamme, in preda al terrore e soffocate dal fumo tossico, nove recluse e le due vigilatrici che tentarono inutilmente di aprire le porte delle loro celle per impedire che le donne facessero appunto la fine dei topi in trappola. Nella inchiesta giornalistica sulla strage di marzo - approfondita e meritoria, pur pubblicata a molta distanza dai fatti - de “la Repubblica” del 17 gennaio 2021, il richiamo storico, forse capziosamente, va invece alla rivolta nel carcere di Trani del 28 dicembre 1980, organizzata dai detenuti politici della lotta armata, che si concluse senza alcuna vittima e con un lungo e violentissimo pestaggio dei reclusi da parte dei reparti speciali. Il carcere nelle situazioni di emergenza e di pericolo questo diventa: una trappola mortale, dove neppure si può tentare di salvarsi, dove la propria vita dipende totalmente da altri, dalla volontà o distrazione dei custodi, da regole spesso insensate e contradditorie, da misure impraticabili o trascurate, dalla prontezza o ritardo, compiacenza o arbitrio, sciatteria o senso di responsabilità di chi possiede le chiavi della gabbia. Si può (si dovrebbe) facilmente immaginare quanto ciò potesse - e ha potuto - determinare paura e anche rabbia tra i reclusi. Invece, sulle rivolte e sulla strage si sono immediatamente esercitate le peggiori strategie e smaccate di disinformazione e di speculazione politica e di scalate ai vertici della amministrazione penitenziaria. L’accreditamento della pista mafiosa - Solo il 17 marzo (all’interno del Decreto legge n. 18 2020, cosiddetto “Cura Italia”) viene varato un provvedimento teso a ridurre il sovraffollamento, che risulterà di scarsa efficacia, dati i numerosi paletti e gli attacchi politico-mediatici ai magistrati di sorveglianza. E solo il 21 marzo il DAP emana una circolare per consentire la possibilità di effettuare video-colloqui (e telefonate oltre i limiti di quelle normalmente consentite e di cui, in ogni caso, non beneficiano tutti i reclusi). Ma già il 9 marzo alcuni sindacati di polizia, a rivolte ancora in corso o addirittura non iniziate (il maggior numero di carceri comincia le proteste proprio il giorno 9), parlano di “fenomeno tutt’altro che spontaneo” e di “strategia” della criminalità organizzata per “approfittare delle difficoltà causate dell’emergenza Coronavirus”. Il decreto del 17 marzo scatena poi la dura reazione dei PM antimafia che tuonano: “Questi benefici sono stati concessi all’indomani del ricatto allo Stato rappresentato dalla rivolta nelle carceri, voluta e promossa da organizzazioni criminali” e che riusciranno infine a ottenere la testa del capo del DAP, Francesco Basentini, dopo una virulenta campagna stampa da loro stessi promossa contro le “scarcerazioni facili”, ovviamente e al solito inesistenti. Anche in questa circostanza si è dimostrata la verità di sempre: nell’amministrazione penitenziaria le carriere vengono compromesse non per malgoverno o inefficienza, violazioni di leggi e di regolamenti, ma per insufficiente rigidità nel trattamento dei reclusi o per conflitti con i sindacati autonomi di polizia penitenziaria. Banalmente, se un agente si dimentica di aprire una cella per l’ora d’aria non gli succede alcunché; se fa rientrare in ritardo un recluso dopo il passeggio rischia una sanzione disciplinare. Quella è la logica, quelle le consuetudini, quella la vera “formazione” degli agenti. La tesi della regia mafiosa delle rivolte viene poi sistematizzata, con pretese di scientificità, nel report Un contagio parallelo - Come la mafia sfrutta la pandemia. La pubblicazione è curata dal Global Initiative against Transnational Organized Crime e rilanciata dal ministero dell’Interno, che ha come ricercatori anche giornalisti e criminologi consulenti dell’antimafia italiana e dello stesso Viminale, i quali hanno intervistato numerosi magistrati e dirigenti delle polizie riguardo le vicende del marzo scorso. Vale la pena di leggerne alcune parti, per come abilmente sorrette da affermazioni apodittiche, in cui il giornalista riferisce di aver raccolto le interviste di due famosi magistrati il giorno dopo che sarebbero stati minacciati di morte per le loro posizioni sulle rivolte in carcere. O da altre, comodamente coperte dall’anonimato, come quelle di “un ufficiale della polizia penitenziaria”, secondo cui “i capi prendono il primo letto, sono quelli che hanno coordinato le rivolte, i secondi e terzi letti cosiddetti, sono stati la manodopera. Quelli che sono morti, non possono più parlare”. O quelle di “un investigatore di lungo corso, con specifica esperienza nel mondo delle carceri”, che, scrive sempre il ricercatore-giornalista, “delinea il quadro reale: “Le rivolte hanno disegnato anche una precisa mappa delle mafie italiane. […] Sono sicuro che le mafie hanno guidato la rivolta, su questo non ci sono dubbi. Tutto organizzato con precisione. Appena sono cominciate le rivolte, e stiamo parlando di 70 carceri su tutto il territorio nazionale, i parenti dei detenuti erano fuori, come se lo sapessero, anzi lo sapevano. Questo è sicuro. Si sono coordinati e hanno attaccato tutti insieme”. Non ci dilunghiamo qui a fare un’analisi del linguaggio [le sottolineature sono nostre], la cui capziosità risulta comunque evidente. Eppure, quella chiave di lettura, in assenza di qualsiasi elemento fattuale, né subito né in seguito, è diventata immediatamente una verità indiscutibile riguardo le rivolte, rilanciata dai maggiori quotidiani e programmi televisivi. Una verità a reti unificate. Estratti di quel report vengono riportati dall’ANSA significativamente nel canale Legalità & Scuola, a intossicare strategicamente sin dalle aule con il giustizialismo e i teoremi le giovani menti in formazione. Strategia cui collaborano attivamente anche testate come “il Fatto quotidiano” o come Radio Popolare, partner di scuole di formazione antimafia, con docenti universitari specializzati e procure. La lezione che inaugura il quinto ciclo di corsi l’11 gennaio 2021 (dopo una martellante campagna a colpi di spot sulla radio) ha un titolo più che esplicativo degli indirizzi e dell’impronta culturale sottesi: “Dalle rivolte del marzo 2020 alla scarcerazione dei boss: le contraddizioni della cultura progressista”. La cultura progressista, in verità, sembra essersi presto e in maggioranza allineata ai teoremi, ignorando ogni richiesta di verità e preferendo far calare sulla strage di detenuti una spessa coltre di silenzio e omissioni. Come ben ha ricordato, un anno dopo, una voce autorevole e competente come quella di Riccardo De Vito, presidente di Magistratura Democratica, nonché magistrato di sorveglianza, dichiarando che di quei giorni ricorderà “soprattutto il dramma della politica e dell’intellettualità italiane che, con poche eccezioni, hanno voltato la testa dall’altra parte”. Un anno dopo - A un anno di distanza si è infine arrivati a quanto era annunciato dall’inizio: per la locale procura l’inchiesta giudiziaria sui fatti di Modena si spegne in una richiesta di archiviazione. Come annunciavano già da subito, dalle prime ore, vale a dire prima di ogni indagine o autopsia, ministri, procure, giornali, i detenuti si sono suicidati imbottendosi di metadone e farmaci. Non c’è altra verità possibile. Come tante e troppe volte è avvenuto in Italia, la certificazione ufficiale di morti di persone avvenute mentre erano nelle mani dello Stato è la solita, la più tranquillizzante, la più autoassolutoria. Se proprio non è suicidio, allora sarà stato “malore attivo”. Anche in questo caso si conferma la regola ferrea. Nessun responsabile. Nessuna negligenza. L’unica colpa è quella dei detenuti, che si sono ribellati e che si sono ingozzati di farmaci. A sostegno di tale conclusione vi sono le autocertificazioni della polizia penitenziaria e dei medici che, pur dipendendo dal sistema sanitario pubblico, si sono dimostrati succubi delle logiche di sicurezza e degli apparati militari. Ogni commento è superfluo, ancorché amaro. Ma la battaglia per la verità e la giustizia continua, a maggior ragione. Alcune associazioni hanno già annunciato opposizione alla richiesta della procura di Modena. Vedremo cosa decideranno di fare i Garanti. Noi, naturalmente, continueremo a fare la nostra piccola parte. Consapevoli di come vi sia un dato che accomuna le carceri di ogni luogo e ogni tempo: ovvero che il carcere non solo produce ma è violenza, proprio mentre pretende di esserne risposta. Violenza più o meno legale, più o meno aperta e diffusa, più o meno irrimediabile. Quando essa viene agita da detenuti, fioccano presto i processi e le condanne: da ultimo, il 12 marzo 2021, con le prime condanne ai detenuti di Venezia, mentre è di fine febbraio la condanna sino a due anni e mezzo di prigione dei primi 17 imputati, detenuti nel carcere di Opera, ma sono molti altri i processi in corso contro decine e decine di altri reclusi accusati per le proteste del marzo scorso. Viceversa, non risulta sinora alcun imputato per i 13 reclusi morti. Se la violenza promana dalle istituzioni, storicamente, l’impunità è una costante. Una verità che quasi nessuno più dice. Uno dei motivi ce lo ha spiegato il criminologo Nils Christie, considerato padre nobile dell’abolizionismo penale: “Alcuni di noi lavorano così vicini al potere e alle istituzioni deputate alla punizione da trasformarsi in tecnici della “erogazione della pena”. D’altra parte, la contiguità può diventare un’opportunità per capire meglio come vanno le cose e per svelare la natura del sistema. Il contatto e alcune forme di cooperazione sono in certa misura inevitabili e funzionano in maniera biunivoca: col nostro lavoro, noi possiamo influenzare gli operatori del sistema penale, ma nel momento in cui questi assumono alcune delle nostre prospettive, noi assumiamo alcune delle loro. Ci avviciniamo reciprocamente. Loro sono persone che si occupano di erogare pene, cioè sofferenza, e noi lo rendiamo possibile. Dobbiamo avvicinarci, per vedere. Ma avvicinandoci troppo potremmo diventare ciechi”. A un anno di distanza, viene da pensare che, anche per quanto riguarda la strage del 9 marzo 2020, troppi siano divenuti ciechi e muti. Carcere, “rendiamo trasparenti quelle mura”. La raccolta fondi di Antigone redattoresociale.it, 17 marzo 2021 Una raccolta fondi per continuare a raccontare la vita nelle carceri italiane. Al progetto, promosso dall’associazione Antigone, si può contribuire tramite una donazione su Produzioni dal Basso Carcere, “rendiamo trasparenti quelle mura”. La raccolta fondi di Antigone. “Muri scrostati, sovraffollamento, violenza, ma anche opportunità di lavoro e riscatto sociale. Il carcere è tutto questo, ma la maggior parte della gente non lo sa. Celato dietro mura alte e impenetrabili, alieno anche quando è ubicato nel centro delle città, il mondo del carcere brulica di vita. Un’esistenza a tratti disperata, lacerata, ma in tanti casi anche ricca e stimolante”. Così l’Associazione Antigone descrive il carcere, e da trent’anni racconta chi lo popola, con i suoi chiaroscuri, i suoi accenti drammatici e quelli invece rischiarati dalla luce della rinascita, di chi ce l’ha fatta, raggiungendo l’obiettivo a cui mira l’esistenza stessa del penitenziario: il reinserimento sociale dopo la caduta e il pentimento. Gli osservatori di Antigone entrano nel carcere, anzi nelle carceri: sono più di 100, infatti, le strutture penitenziarie da nord a sud Italia dove opera l’associazione. Per rendere accessibile a tutti, in forma libera e gratuita, il materiale raccolto da Antigone durante l’ultimo trentennio è stata lanciata una campagna di raccolta fondi su Produzioni dal Basso, prima piattaforma italiana di crowdfunding e social innovation. Il sito per l’osservatorio raccoglie il materiale riguardante il carcere per adulti, mentre una particolare sezione è dedicata al carcere minorile. “Affinché tutto questo minuzioso lavoro di informazione possa essere effettivamente fruibile a tutti è necessario sostenere alcuni costi importanti, come il compenso per le risorse umane coinvolte nel progetto, i webmaster che si occuperanno della digitalizzazione del materiale o i rimborsi spese degli osservatori che effettuano le visite nelle carceri”, scrive l’associazione. Contribuendo alla campagna di raccolta fondi su Produzioni dal Basso sarà possibile aiutare Antigone a raggiungere un ambizioso obiettivo: rendere finalmente trasparenti le mura dei penitenziari, permettendo all’associazione di continuare nel proprio lavoro di monitoraggio delle condizioni di detenzione e nella condivisione del materiale raccolto. Cartabia e il carcere extrema ratio: il nuovo corso della Giustizia di David Allegranti La Nazione, 17 marzo 2021 Così la ministra cambia passo: “Detenzione ultima soluzione”. Superato il “manettarismo facile” del M5S. Ci eravamo ormai abituati al populismo giudiziario di Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, che non ci pare il vero adesso di ascoltare le parole della nuova ministra Marta Cartabia. La quale non solo, come primo atto appena entrata nel governo Draghi, è andata a trovare il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, ma ieri, in audizione, ha anche assestato un colpo al manettarismo facile del M5s sul carcere. Per la ministra Cartabia è necessario orientarsi, ha spiegato, “verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La certezza della pena non è la certezza del carcere, che per gli effetti desocializzanti che comporta deve essere invocato quale extrema ratio. Occorre valorizzare piuttosto le alternative al carcere, già quali pene principali”. Giova ricordare che già da presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia aveva organizzato le visite nelle carceri per gli altri membri della Corte. Tutta un’altra idea insomma rispetto a quella che il ministro Bonafede propugnava in diretta tv nel gennaio 2020: “Gli innocenti non finiscono in carcere”, disse. Forse Bonafede non aveva mai sentito parlare di Enzo Tortora, condannato ingiustamente nel 1985 dopo aver già trascorso sette mesi di reclusione, per poi essere assolto definitivamente nel 1986. Uno dei tanti casi di innocenti finiti in carcere e che contribuiscono peraltro al sovraffollamento delle prigioni. L’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti di Strasburgo per trattamento inumano e degradante. Le misure alternative al carcere servono proprio a questo: a far deflettere il tasso di sovraffollamento. In un anno c’è stato un calo di circa il 12 per cento del numero dei detenuti nelle carceri italiane, ma resta ancora superiore a quello dei posti regolamentari. E per rientrare nella “legalità” occorrerebbe “deflazionare il sistema” di 4-8mila persone. Cartabia e la lenta fine del giustizialismo grillino di Cataldo Intrieri linkiesta.it, 17 marzo 2021 Il nuovo Guardasigilli è una delle testimonianze della discontinuità con il governo Conte. L’approccio diplomatico, il nodo prescrizione affrontato senza soluzioni di forza, il rispetto della presunzione di non colpevolezza sono segni inequivocabili di separazione rispetto al populismo giudiziario del suo predecessore Bonafede. Secondo alcuni organi di stampa vedovi del passato governo, il governo Draghi sarebbe la prosecuzione del Conte bis con altre facce. Una vulgata già smentita altre volte, l’ultima delle quali è la pubblicazione del programma di riforme giudiziarie tracciato dal neo ministro di giustizia Marta Cartabia. L’ex presidente della Corte Costituzionale rappresenta senza ombra di dubbio una delle punte di lancia riformiste del governo e le sue linee guida lo dimostrano, marcando una netta discontinuità col metodo e le idee (parola grossa) del predecessore. Guardiamo ad esempio la giustizia penale, un terreno spinoso dove si era consumata l’esperienza del Conte bis costretto alle dimissioni pur di evitare un plateale voto di sfiducia al suo fedele Guardasigilli. L’approccio diplomatico di Cartabia non può celare il significato inconciliabile coi dettati giustizialisti di alcune delle direttive contenute nel suo manifesto. A cominciare dal carcere e dalla famosa formula della certezza della pena, cavallo di battaglia del giustizialismo dei Cinque Stelle, che il nuovo ministro corregge affermando che la necessità di una pena effettiva non coincide con quello della necessità del carcere. Dunque spazio alle misure alternative alla detenzione, alla giustizia riparativa e a un allargamento delle condizioni di improcedibilità dell’azione penale, insomma una rivoluzione gentile ma decisa. Se non bastasse questo, vi è anche un altro tema scottante che Cartabia intende affrontare sempre a modo suo: la prescrizione. Anche qui si nota un approccio morbido e molta moral suasion (del resto non è un mistero che il suo sia uno dei nomi papabili come successore di Sergio Mattarella al Quirinale e il banco di prova a via Arenula può essere un ottimo viatico). Niente soluzioni di forza e blocco coattivo della precedente riforma di Alfonso Bonafede, profittando del fatto che gli effetti di essa non si vedranno prima di un paio di anni. Il vero nodo per il Guardasigilli è la durata del processo penale in Italia del tutto incomparabile con gli standard europei: dunque bisogna ridurre il numero dei processi e degli appelli con l’ampliamento di riti alternativi come il patteggiamento e un maggior uso di sanzioni economiche effettive più che pene afflittive. Più facile a dirsi che a farsi, era un’idea professata anche da Bonafede, ma Cartabia ci mette la tenacia del riformismo vero, quello che va al cuore dei problemi senza trascurare la realtà politica e i rapporti di forza dentro il governo. Il nodo cruciale se si vuole superare il meccanismo della prescrizione è quello delle conseguenze sanzionatorie degli eccessivi ritardi. Qui si era incagliata la precedente riforma. Bonafede aveva immaginato delle vaghe iniziative disciplinari per i magistrati neghittosi che non avrebbero avuto alcun impatto deterrente, specie nel Consiglio superiore della magistratura pre-Palamara. Cartabia accenna sfumatamente a un istituto, la prescrizione del processo, con il quale lascia intendere che se non si vuole ripristinare la vecchia famigerata prescrizione del reato comunque si dovrà pensare a un meccanismo che eviti la condizione di imputato a vita a un cittadino inquisito: decorso un certo tempo accettabile, se non si cancellerà il reato allora si estinguerà il processo. E chi ha orecchie intenda ciò che di dirompente questa innovazione presenta a fronte del pensiero di Marco Travaglio e del giustizialismo populista. Non sarà certo facile una simile innovazione e, se è consentita una osservazione, l’assortimento della commissione di studio scelta dal ministro per il varo della riforma presenta un evidente scompenso: tanti magistrati e accademici, un solo avvocato: l’ibrido Vittorio Manes (eccellente sia come accademico sia come legale) designato dall’Unione Camere penali. Un po’ poco, la scarsa presenza degli avvocati nel cuore dei gangli vitali della giustizia è una vera e propria questione di parità di genere da risolvere prima o poi. Infine, e non da ultima, Cartabia tratta nel suo programma un’altra questione scabrosa: il problema del rispetto della presunzione di non colpevolezza porta fatalmente alla ribalta il rapporto assai controverso tra informazione e procure. Martedì su un canale pubblico abbiamo assistito a un impressionante spot pubblicitario di un’inchiesta penale. Ne abbiamo già viste cose così ma una certa informazione non perde il vizio. L’emozionato cronista, Riccardo Iacona, nella puntata di Presa Diretta interamente dedicata a un’indagine denominata “Rinascita-Scott”, ha parlato dell’arresto di 334 “mafiosi” (“lui sa” che sono già tali senza processo) omettendo il non trascurabile particolare di numerose scarcerazioni già decretate dal riesame e dalla Cassazione. Il punto è che la verifica processuale ancora non c’è stata mentre le cronache riferiscono di una anomalia raramente riscontrata in processi del genere: la preventiva ricusazione di alcuni giudici da parte non degli infidi avvocati ma a opera dei procuratori. Pare che in precedenza i giudicanti avessero assunto decisioni non in linea con le teorie dell’accusa. Nessuno sembra curioso di capire se questo risponda alle regole del giusto processo: la procura che cerca un giudice di suo gradimento. Può sembrare stucchevole ma esistono un articolo della Costituzione e una direttiva europea che vieterebbero cronache così schierate addirittura sul servizio informativo pubblico. Entrambi, guarda caso, tutelano il principio di non colpevolezza richiamato proprio dal ministro Cartabia e di esso il giornalista Iacona e il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri hanno fatto polpette, in nome della trasparenza democratica sia pure con il robusto quanto involontario concorso di qualche avvocato difensore (intervistato per qualche minuto) che ha favorito le peggiori e più sprezzanti intenzioni caricaturali verso le difese di alcuni imputati (i presunti consigliori mafiosi). Del resto perché stupirsi? Sulla stessa rete fu trasmessa una cronaca di un altro monumentale processo alla mafia (Mafia Capitale) in cui si celebrava l’inchiesta della procura trascurando che intanto una sentenza poi confermata in Cassazione avesse certificato la mancanza di un ingrediente non trascurabile: la mafiosità. Il punto cruciale lo ha chiarito il procuratore capo di Catanzaro Gratteri che va apprezzato per la sua brusca chiarezza: a suo dire lo stato di guerra in atto in Calabria richiede che si adottino prassi e strappi in deroga al regime legislativo ordinario. Un bivio che il magistrato pone di fronte al governo e al guardasigilli: in Calabria e non solo, l’ordinario processo penale è un lusso che lo Stato non può concedersi. Paradossalmente a capire la gravità del problema è stata l’Associazione nazionale magistrati che si è spaccata non su una nomina ma proprio sulle anomalie dei rapporti tra stampa e procure e le cronache riferiscono che l’oggetto del contendere tra Area e le correnti conservatrici fossero proprio le modalità informative adottate dal procuratore Gratteri. Fa piacere che qualcuno capisca che il problema di democrazia, al contrario di ciò che proclamava Iacona ieri sera, non sia solo la grande criminalità ma anche una narrazione faziosamente politica dell’azione giudiziaria strumentale a una visione sociale fortemente autoritaria. Se è sventurato il Paese che ha bisogno di eroi (Brecht), l’Italia oggi versa in una condizione grave ed è bene che le forze democratiche siano sensibili al tema. E che lo sia il ministro Cartabia. Ancora una volta: la variante giustizia. Occasione-Cartabia. Riforma giustizia, ora o mai più di Giuliano Pisapia Il Riformista, 17 marzo 2021 Mi occupo di giustizia da tutta la vita, ho visto troppe occasioni mancate e troppe promesse non mantenute per non temere che la storia si possa ripetere. Oggi però ci troviamo davanti a una situazione unica nella storia recente per poter vedere finalmente realizzati i passi avanti necessari all’adeguamento del nostro sistema giudiziario agli standard europei. Le parole della ministra Marta Cartabia alla Commissione Giustizia della Camera, il luogo in cui si dovranno fare riforme, sono certamente incoraggianti e la congiuntura politica può essere favorevole a differenza del passato. Il governo ‘di tutti’ può limitare l’uso strumentale e polemico delle vicende legate alla giustizia, in particolare quella penale, per concentrarsi sulla risoluzione dei problemi concreti. Il tema più spinoso è quello della prescrizione. Non ho condiviso l’impianto della riforma Bonafede, attuata nel governo M5S-Lega, che ha cancellato la riforma Orlando che rappresentava un positivo punto di equilibrio tra il dovere dello Stato di perseguire l’azione penale e la ragionevole durata del processo. La ministra della Giustizia si è impegnata a trovare una soluzione per “adottare le necessarie iniziative di modifica normativa e le opportune misure organizzative volte a migliorare l’efficienza della giustizia penale assicurando al procedimento una durata media in linea con quella europea”. Questa è la strada! Solo con la durata ragionevole dei processi la prescrizione può essere e deve diventare un evento eccezionale. Un problema che peraltro non riguarda solo la fase dibattimentale, ma anche, se non soprattutto, quella delle indagini preliminari visto che moltissimi procedimenti si prescrivono prima dell’inizio dei processi. È del tutto apprezzabile il riferimento della ministra al potenziamento dei riti alternativi e al “superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato”. “La certezza della pena - ha spiegato Cartabia - non è la za del carcere, che per gli effetti desocializzanti che comporta dev’essere invocato quale extrema ratio”. Si tratta di una svolta importante accompagnata dalla volontà di introdurre sempre più meccanismi di giustizia riparativa. Nulla di nuovo rispetto al pensiero di Marta Cartabia da Presidente della Consulta impegnata nelle visite nelle carceri italiane e espresso nel corso di un recente dibattito promosso dalla Fondazione intitolata a Carlo Maria Martini. Tutte le statistiche infatti confermano che i detenuti che hanno scontato la pena con misure alternative (ad esempio affidamento in prova e lavori socialmente utili) hanno una percentuale di recidiva molto inferiore a chi sconta tutto il periodo in carcere. In pratica chi ha la possibilità di un reinserimento sociale, familiare e lavorativo molto raramente commette nuovi reati con il risultato di rendere la società più sicura. Va poi sottolineato che Marta Cartabia, accogliendo anche un appello di Liliana Segre, appena insediata ha insistito perché il piano vaccinazioni comprendesse anche le carceri, dagli operatori penitenziari ai detenuti la cui salute è affidata allo Stato. Gli ultimi due temi toccati dalla ministra riguardano la riforma del Csm e la necessità del “massimo riserbo” nel corso delle indagini. Tema del tutto condivisibile anche perché legato al principio di non colpevolezza. È evidente che si crea una sorta di giudizio anticipato, una ‘condanna alla gogna’ prima del dibattimento, spesso con gravi conseguenze personali, lavorative, familiari da cui è difficile riprendersi anche se poi si viene assolti alla fine del processo. Questo si aggiunge al fatto che ovviamente le fughe di notizie danneggiano le indagini, permettendo a eventuali complici di darsi alla fuga o di inquinare le prove. C’è poi un tema molto rilevante, quello della riforma del Csm che è unanimemente considerata necessaria e urgente. Non può però essere sufficiente il cambio del sistema elettorale del Csm per risolvere tutti i problemi se le logiche interne alla magistratura, e anche alla politica, rimangono identiche. L’ex presidente della Corte Costituzionale non ha voluto quindi presentare un catalogo di promesse difficili da mantenere e attuare. Ha invece indicato una via stretta che può essere percorsa solo eliminando le punte polemiche e ideologiche. Non è un caso che al termine del suo intervento Cartabia abbia registrato un consenso molto vasto da parte delle forze parlamentari. Tutti i componenti della Commissione Giustizia hanno manifestato la loro approvazione. Questi applausi però dovranno trasformarsi in atti concreti. Abbiamo davanti un’occasione da non perdere non solo perché abbiamo bisogno di una giustizia più giusta e celere, ma anche perché, non va dimenticato, se non si produrranno riforme vere ed efficaci si mettono anche a rischio gli stessi fondi del Recovery Fund. La Giustizia adotta la Scuola: progetto del Ministero dell’Istruzione sugli “anni di piombo” di Pasquale Almirante tecnicadellascuola.it, 17 marzo 2021 Coinvolti 40 Istituti scolastici con l’adozione di una classe da parte di un magistrato che illustrerà agli alunni gli anni Settanta, quelli che furono contrassegnati da episodi gravissimi di terrorismo. Ogni scuola insieme col magistrato sceglierà una vicenda di quegli anni e su quella si aprirà lo studio, insieme dunque con la memoria di quel tempo. Gli studenti saranno seguiti anche da un gruppo di giovani storici, che potranno fornire loro materiale (grazie pure alla partecipazione delle Teche Rai) e supporto scientifico. Agli incontri dei magistrati tutor si affiancheranno anche incontri con testimonial. Il Ministro Bianchi, riferendosi all’iniziativa, ha spiegato che la storia degli anni Settanta “per molti di noi è una memoria dolorosa. Ma va raccontata come la storia di un Paese che è riuscito a reagire, è riuscito a trasformare il sacrificio di molti uomini dello Stato in una lezione di vita collettiva, in una straordinaria lezione di Educazione civica. Il rischio più grosso che noi abbiamo è che ci siano dei lutti, ma noi non siamo capaci di elaborarli e trasformarli in memoria viva. Questo è il lavoro grandissimo e difficilissimo che sta facendo la Fondazione”. Per il Procuratore Generale della Corte di Cassazione e Presidente del Comitato scientifico della Fondazione Vittorio Occorsio, “Si potrà in tal modo arrivare a una conoscenza più approfondita di quanto non sia consentito da un semplice incontro isolato. Una vera adozione nello studio di argomenti che sono stati sinora al di fuori dei programmi scolastici. Questa prima fase è sperimentale e auspico che dagli studenti arrivino spunti per migliorarci, dato che dall’anno prossimo il progetto sarà proposto a tutte le scuole italiane”. I processi, l’equivoco e un’amara verità di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 17 marzo 2021 Struttura della norma e stratificarsi della giurisprudenza hanno molto alzato l’asticella delle prove richieste. Siccome “dopo” saranno capaci tutti - di incensare le condanne ottenute dai pm o di saltare sul carro dei vincitori assolti - serietà vorrebbe che sui processi per corruzione internazionale si facessero invece i conti con una verità, e con un fraintendimento, “prima” dell’odierna sentenza del processo milanese Eni/Shell-Nigeria, riguardante quella che l’accusa asserisce essere la più grande tangente di sempre, 1 miliardo e 92 milioni pagati come prezzo al governo nigeriano nel 2011 per la licenza petrolifera Opl 245. Il fraintendimento è di chi manifesta insofferenza già solo per la celebrazione di processi tacciati di frenare l’export italiano in Paesi dove senza ungere i politici non ci si aggiudicherebbe le commesse, e quindi di penalizzare gli interessi nazionali a beneficio di concorrenti esteri più spregiudicati ma meno tarpati dalle rispettive magistrature. È un’insofferenza malriposta, perché è la Convenzione Ocse del dicembre 1997 - a tutela della concorrenza internazionale, e a contrasto dei cleptocrati affamatori di nazioni saccheggiate nelle proprie materie prime - che impone agli Stati aderenti di perseguire le tangenti a politici stranieri: se poi l’applicazione di questi trattati appare più “interventista” in Italia, ciò dipende dal fatto che la magistratura non è sottoposta all’esecutivo e agisce in regime di obbligatorietà dell’azione penale, mentre in altri Paesi (ad azione penale discrezionale e controllo più o meno diretto dell’esecutivo) sono le contingenti opportunità politiche a stoppare o aizzare i magistrati. E persino questi Paesi, quando ritengono, non lesinano mano pesante anche verso i propri campioni nazionali: l’anno scorso il colosso aerospaziale francese Airbus ha accettato di pagare 2,1 miliardi di euro alla Francia, 984 milioni alla Gran Bretagna e 526 milioni agli Stati Uniti che indagavano congiuntamente su 13 anni di commesse militari a Malesia, Russia, Cina e Ghana. Tuttavia il rosario di processi in Italia conclusi da ricorrenti assoluzioni di tutti i vertici imputati (come nei casi Saipem-Algeria e Agusta/Finmeccanica-India) contiene invece un nucleo di verità, pur al netto dell’amnesia su parziali risultati di segno contrario, quali il patteggiamento (7,5 milioni nel 2014) di Agusta Westland prima del processo ai poi assolti amministratori Finmeccanica, o il pagamento nel 2010 di 365 milioni da Eni agli Stati Uniti propiziato a cascata della prima indagine milanese in Nigeria, o l’intenzione adesso proprio di Eni di patteggiare (anche se non per corruzione ma per induzione indebita) un’altra indagine a Milano sul Congo. La pioggia di assoluzioni segnala che struttura della norma e stratificarsi della giurisprudenza hanno molto alzato l’asticella delle prove richieste. Non basta l’enormità magari delle commissioni pagate dalle aziende italiane al mediatore di turno, non potendo valere l’assunto (sensato storicamente ma non giudiziariamente) che pagare il mediatore intimo di un ministro equivalga di per sé a pagare il ministro; a volte neppure il passaggio di denaro dal mediatore al ministro è stato ritenuto prova sufficiente della destinazione al ministro proprio di “quelle” somme stanziate dall’azienda al mediatore; e indispensabile - in multinazionali i cui grandi capitani d’azienda si rimpiccioliscono di colpo fin quasi a semplici passanti tutte le volte che i controlli interni appaiono degni di una bocciofila - resta dare la prova dell’accordo corruttivo stretto dall’azienda con il mediatore nell’interesse del pubblico ufficiale straniero, nonché individuare lo specifico atto d’ufficio compravenduto. Tutte tessere di un puzzle che, già non semplici da ricostruire in Italia, spesso diventano ardue da recuperare con rogatorie in Paesi tutt’altro che collaborativi. È forse in questa frustrazione che va rintracciata la molla psicologica dei magistrati milanesi a ipervalutare taluni controversi testimoni (come nel processo odierno il coimputato ex manager Eni Vincenzo Armanna o l’ex avvocato esterno Eni Piero Amara), in apparenza in grado di colmare i tasselli mancanti a provare (non più solo per via logica o di indirette mail) un ruolo diretto dei vertici aziendali nella destinazione corruttiva dei soldi finiti ai potentati locali. Quando fuori piove, piove anche se lo dice Armanna, hanno argomentato in requisitoria i pm, convinti che sbagli chi, osservando questi tre anni di udienze, ha invece ricavato l’impressione di testimoni specializzati nel dire, su 10 cose, una riscontrata vera ma non importante, una riscontrata falsa ma non decisiva, e otto in teoria cruciali ma dette apposta in un modo che ne renda inverificabile la verità o falsità. Una scommessa ad alto azzardo, quindi. Che la Procura di Milano ha giocato confidando le valga da asso pigliatutto. Ma che può viceversa trasformarsi in un boomerang, finendo per indebolire anche lo sforzo investigativo profuso sulle anomalie dell’iter contrattuale e sui rivoli dei 500 milioni di dollari prelevati in contanti negli uffici di cambio nigeriani. Intercettazioni e ruolo dei pm. L’Ue contro la prassi italiana di Giulia Merlo Il Domani, 17 marzo 2021 Le intercettazioni devono essere utilizzate in caso di reati “gravi” e il pubblico ministero non può operare sui dati personali dei cittadini, perché rappresenta l’accusa e quindi non è imparziale rispetto all’imputato. Questi sono solo due dei profili più clamorosi di una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea depositata il 2 marzo, che rischia di terremotare la prassi italiana in materia di privacy e provocare conseguenze anche sul caso Palamara. La sentenza numero C-746/18 della Corte è vincolante per la decisione del giudice estone che ha sollevato la questione, ma anche per i casi in altri stati europei in cui si applicano le medesime norme. Dunque ha un peso giurisprudenziale determinante anche nei processi italiani che riguardano l’utilizzo di dati elettronici personali, come intercettazioni e chat. Il giudice estone ha posto due questioni con riferimento alla direttiva Ue del 2002 sul trattamento dei dati personali. La prima: se il trattamento di questi dati possa essere fatto dal pubblico ministero. La seconda: se questo utilizzo possa riguardare anche finalità estranee ai gravi reati di criminalità. A entrambe le domande la risposta è stata negativa. Secondo la Corte, infatti, le norme europee in materia di privacy devono essere interpretate nel senso che solo un’autorità terza e imparziale può autorizzare l’accesso ai dati elettronici e il limite del loro utilizzo è la prevenzione di gravi forme di criminalità o di gravi minacce alla sicurezza pubblica. Nel nostro paese, questa sentenza ha effetti dirompenti perché mette in discussione il ruolo del pm. La sentenza stabilisce che la direttiva Ue in materia di privacy, letta alla luce della Carta dei diritti fondamentali, “deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, la quale renda il pubblico ministero, il cui compito è di dirigere il procedimento istruttorio penale e di esercitare, eventualmente, l’azione penale in un successivo procedimento, competente ad autorizzare l’accesso di un’autorità pubblica ai dati relativi al traffico e all’ubicazione ai fini di un’istruttoria penale”. Questo per una ragione precisa: è necessario un bilanciamento tra i poteri di chi accusa e la tutela della privacy dei cittadini, dunque l’autorizzazione all’accesso ai dati personali deve essere disposta da un soggetto che sia imparziale. Tradotto: ai giudici europei non interessa che in Italia non ci sia separazione formale tra le carriere di pm e di giudice, ma stabiliscono che chi può incidere sulla privacy dei cittadini sia solo un soggetto che nel processo sia in posizione di terzietà. Il caso Palamara - Inoltre la pronuncia mette in discussione anche la legge Spazzacorrotti, che allarga l’utilizzo dei trojan ai reati contro la pubblica amministrazione e permette l’utilizzo delle intercettazioni anche per reati che non le prevedono, se questi reati vengono “scoperti” ascoltandole. I giudici europei invece stabiliscono che la privacy dei cittadini può essere violata solo per reati “particolarmente gravi” ed esemplifica quelli di “terrorismo”. Inoltre fissano un principio: prima il reato deve essere identificato e solo poi si può procedere ad acquisire i tabulati. Esattamente ciò che non accade con la norma sulle cosiddette intercettazioni “a strascico”. Questo rischia di riaprire il caso Palamara, perché i giudici europei scrivono che i dati elettronici personali possano venire acquisiti solo per reati gravi il che potrebbe escludere il loro utilizzo nel procedimento disciplinare dove sono state usate anche le chat che di per sé non avevano rilevanza penale. I presupposti per una rivoluzione dell’intera normativa sull’utilizzo delle intercettazioni in senso restrittivo ci sono tutte, come anche il rischio che questa sentenza europea diventi il grimaldello per sostenere l’inutilizzabilità delle captazioni informatiche in moltissimi procedimenti. Di fronte alla necessità di mettere ordine, l’ipotesi è quella che intervenga la Cassazione a sezioni unite, che in una prossima sentenza faccia propria la pronuncia europea e fissi nuovi paletti alla prassi italiana. Il prof che riforma i processi. “Ridurre i tempi è la priorità” di Tommaso Fregatti Il Secolo XIX, 17 marzo 2021 Dice di essere onorato di far parte della commissione per la riforma della giustizia penale voluta dal nuovo ministro della giustizia Marta Cartabia ma dimostra anche di avere le idee chiarissime su quelli che saranno gli obiettivi del gruppo di lavoro. “Abbiamo tempi stretti, cominciamo giovedì prossimo. Opereremo un po’ da remoto e un po’ in presenza”. Mitja Gialuz, triestino, 46 anni, professore ordinario di Diritto processuale penale della facoltà di giurisprudenza di Genova, è stato scelto dal neo Guardasigilli tra i dodici esperti che dovranno studiare un pacchetto di proposte per il ministero, in relazione al disegno di legge delega sul processo penale in discussione alla Camera. Per Gialuz l’obiettivo primario è proprio la “ragionevole durata del processo”. “Su questo tema - spiega il professore - siamo stati condannati più volte dalla Corte europea, senza dimenticare le ripetute raccomandazioni dell’Unione europea per la riduzione dei tempi. A oggi il processo penale non rende giustizia a nessuno. Alla vittima del reato, alla comunità ma anche allo stesso imputato che subisce una pendenza processuale infinita ed è sottoposto a tempi inaccettabili che stravolgono la vita delle persone. Servono tempi congrui”. Tra gli aspetti che la commissione intende valutare c’è senza dubbio anche la durata delle indagini: “Che non devono essere una duplicazione del processo ma devono essere svolte in un tempo efficace e tempestivo”, aggiunge il docente. Così come non si può pensare di chiamare a testimoniare persone in aula su fatti avvenuti cinque o sei anni prima. “Il dibattimento - dice Gialuz - è spesso troppo lontano nel tempo e questo comporta difficoltà anche per chi si deve presentare a testimoniare come persona informata sui fatti”. L’altro punto fondamentale del lavoro della commissione sarà la prescrizione. “Un nodo politicamente sensibile”, lo definisce il professore universitario, che da un anno è diventato ordinario nel capoluogo ligure e si dichiara legato profondamente a Genova. “Sulla prescrizione - aggiunge Gialuz - ci sono varie possibilità che vanno approfondite, bilanciando le garanzie individuali con quelle della collettività. Si deve raggiungere un ragionevole equilibrio secondo quando indicato dalla Costituzione e questo approfondimento può essere agevolato dalla presenza di un ministro come Marta Cartabia, che è stata presidente della Corte costituzionale, ma anche dal coinvolgimento di altri giuristi di fama come appunto Giorgio Lattanzi, Ernesto Lupo e Gian Luigi Gatta”. “Io, pm sotto attacco perché non passo le carte ai giornali” di Valentina Stella Il Dubbio, 17 marzo 2021 Parla Giancarlo Bramante, procuratore capo di Bolzano che si è occupato del caso di Benno Neumair. Il magistrato è stato condannato dai “soliti” media perché ha osato preservare il segreto istruttorio dal voyerismo della stampa. “Come spesso cerco di spiegare ai colleghi dell’ufficio, il pubblico ministero deve vivere nel costante dubbio, inteso come verifica continua dei fatti e delle circostanze su cui sta indagando, anche a favore della persona sottoposta ad indagine preliminare, come previsto dall’articolo 358 ccp”: a dirlo al Dubbio è il dottor Giancarlo Bramante, Procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Bolzano. Lo intervistiamo perché ha suscitato delle critiche in Alto Adige e in qualche salotto televisivo nazionale la scelta della Procura di secretare per un mese la confessione di Benno Neumair, reo confesso dell’omicidio dei genitori Peter Neumair e Laura Perselli, scomparsi a Bolzano il 4 gennaio di quest’anno. Il 29 gennaio il figlio era stato arrestato e il 6 febbraio il corpo della madre era stato trovato nell’Adige. La confessione sarebbe arrivata poco dopo, in due successivi interrogatori che la Procura ha secretato fino al lunedì della scorsa settimana, quando, tramite un comunicato stampa, ha reso noto che l’indagato aveva ammesso le sue responsabilità. Il fascicolo è stato desecretato contestualmente alla richiesta di incidente probatorio finalizzato ad accertare le condizioni mentali del ragazzo. La Procura, in base agli atti processuali, ha ritenuto doveroso stabilire se il ragazzo fosse capace di intendere e volere al momento dei tragici fatti e se sia dunque imputabile. Il presidente dell’Ordine dei giornalisti del Trentino Alto Adige, Mauro Keller, aveva criticato la decisione di mantenere il segreto istruttorio perché il fatto è di “evidente interesse pubblico e rilevanza sociale”. Anche la sorella dell’indagato si era detta dispiaciuta di aver appreso della confessione da parte della stampa. Su questo la giunta dell’Anm del Trentino-Alto Adige ha invece difeso la scelta della Procura pur “nel massimo rispetto per la sofferenza dei familiari della coppia Neumair”. Altresì “Quarto Grado” nella trasmissione di venerdì scorso ha stigmatizzato il silenzio della Procura insieme alla disposizione della perizia psichiatrica. Questo giornale difende la scelta della Procura: da tempo denunciamo le storture del processo mediatico parallelo ma potremmo sembrare di parte. Invece, proprio due giorni, fa è stata la Ministra Cartabia a dire: “A proposito della presunzione di innocenza, permettetemi di sottolineare la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per un’effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale”. Procuratore da dove nasce la scelta di secretare l’ammissione di responsabilità? Il primo interrogatorio dell’indagato ad un certo punto è stato sospeso per volontà dei difensori, che hanno fatto richiesta di ‘riserva di prosecuzione’. A quel punto è stato doveroso da parte dei colleghi sostituti, in accordo con i difensori, procedere alla secretazione. Si è trattato di una scelta dettata dal fatto che l’atto non era compiuto e le dichiarazioni non erano assolutamente complete. La scelta dei pubblici ministeri rientra tra le facoltà previste dal codice di procedura penale, sussistendone tutti i presupposti procedurali. Tenga presente poi un aspetto importante. Prego... L’interrogatorio, per come lo interpreto io, è un atto di difesa dell’indagato. Non è uno strumento di imposizione. Per esempio, l’indagato può chiedere di avvalersi della facoltà di non rispondere oppure decidere di non prendere posizione in merito ad una precisa questione. In astratto, il substrato probatorio può acquisire una tale valenza che si può giungere anche alla richiesta di archiviazione. Si tratta di concetti che dovrebbero essere conosciuti da chi vuole discutere di fatti di cronaca. Cosa ne pensa di quanto detto due giorni fa dalla ministra Cartabia in merito alla fase delle indagini? Nel rispondere al direttore dell’Adige, Alberto Faustini, esprimo proprio questo concetto: sono fermamente convinto che la prova si forma in dibattimento, nel contraddittorio con la difesa e le altre parti processuali, dinanzi ad un giudice terzo e super partes che valuta i fatti. Il concetto di verità è molto articolato soprattutto in un processo penale garantisticamente concepito sul concetto del ragionevole dubbio. Anche la vostra scelta di optare per la perizia psichiatrica dell’indagato ha suscitato polemiche. Eppure, come prevede il codice, il ruolo di un pm è anche questo... Come spesso cerco di spiegare ai colleghi dell’ufficio, il pubblico ministero deve vivere nel costante dubbio, inteso come verifica continua dei fatti e delle circostanze su cui sta indagando, anche a favore della persona sottoposta ad indagine preliminare, come previsto dall’articolo 358 ccp. Ogni dato acquisito nel corso delle indagini, ogni dichiarazione delle persone informate sui fatti e dell’indagato devono trovare un riscontro oggettivo per poi essere presentato al giudice che lo valuterà. La verità del pubblico ministero non esiste ontologicamente, esiste la conclusione delle indagini preliminari che ha la sua sintesi della richiesta di rinvio a giudizio con la formulazione del capo di imputazione in forma chiara e precisa. Si tratta quindi di una tesi su un fatto penale che deve passare al vaglio di più giudici, prima di poter divenire pronuncia definitiva che rappresenterà la verità processuale dei fatti, e che non necessariamente rappresenterà la verità assoluta. L’accertamento della verità trova quindi la propria sintesi nelle sentenze definitive, nel pieno rispetto del principio costituzionale di non colpevolezza di cui all’articolo 27 della Costituzione. Io credo profondamente in questo che le ho appena detto e cerco di trasmetterlo ai miei giovani procuratori. Come abbiamo scritto in un recente articolo i primi ad essere attaccati sono stati gli avvocati che difendono i “mostri da prima pagina”, poi i giudici che li assolvono, dopo i giornalisti che li intervistano e infine le Procure che rispettano semplicemente principi basilari. Come si affronta questa pericolosa deriva? Secondo me il problema è complesso e articolato: da un lato c’è l’aspettativa della società di una decisione rispetto ad un determinato caso e dall’altro lato ci sono poi le garanzie di quel concreto caso. Avviene purtroppo una sovrapposizione tra il caso concreto che si erge a caso generale. Si perde di vista che dietro ogni singolo caso ci sono delle forme processuali. È chiaro che se si eliminano i principi del giusto processo, il diritto alla difesa, e tutte le garanzie costituzionali la questione diviene prettamente culturale. Essa riguarda tutti i soggetti dello svolgimento del processo: magistratura, avvocatura, giornalisti, società civile. Ci deve essere sempre un controllo dell’opinione pubblica sulle notizie ma il controllo vero deve essere svolto nel rispetto dei principi processuali. Quel “processo sommario” di Presadiretta che non aiuta a sconfiggere i clan di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 17 marzo 2021 La trasmissione Presa diretta ha dedicato l’intera puntata di lunedì sera alla lotta alla ndrangheta per come declinata nell’inchiesta ‘ Rinascita Scott’. Chiariamo subito una cosa: la ndrangheta in Calabria c’è ed è una cosa drammaticamente seria dal momento che, come sempre ed ovunque, tende ad accompagnarsi con il traffico di droga, l’uso della violenza, la pratica dell’usura ed il costante tentativo di intimidire i cittadini e corrompere funzionari pubblici, politici e appartenenti alle forze dell’ordine. Focalizzare, così come hanno fatto le telecamere di Presa diretta, queste cose in terra di ndrangheta ci è sembrato persino banale. Farcele vedere di nuovo è come fare un servizio sull’acqua alta a Venezia o sulla nebbia in Val Padana pretendendo di rivelarci chissà quale novità. A meno che non si voglia ‘impressionare’ e portare fuori strada l’opinione pubblica e dare una lettura distorta sul perché, nonostante le centinaia di ‘ retate’, la ndrangheta sia riuscita a fare un salto di ‘qualità’ trasformandosi nel giro di qualche decennio, da una modesta e, a volte, pittoresca associazione di uomini di malavita, in una delle più terribili organizzazioni criminali dell’Europa occidentale. Se il dottor Iacona, conduttore di Presa Diretta, ci avesse aiutato a comprendere come tutto ciò è stato possibile, avrebbe dato un importante contributo alla verità. Invece ha puntato alla lettura della realtà calabrese utilizzando solo la ‘ filigrana’ di Rinascita Scott, pur essendo questo un processo alle prime battute. Per farlo è stato necessario presentare come credibili pentiti e collaboratori di giustizia che potrebbero non esser ritenuti tali dai giudici e come sicuri colpevoli imputati (anche incensurati) che potrebbero essere assolti da ogni accusa. Mortificando così la presunzione di innocenza ed il ruolo stesso degli avvocati impegnati nella difesa. Iacona, per esigenze estranee alla trasmissione, ha voluto presentare Rinascita Scott come la ‘madre’ di tutte le inchieste quando invece è in assoluta e perfetta continuità con le cento inchieste precedenti che hanno avuto tutte le stesse caratteristiche: l’altissimo numero di arrestati, un impiego massiccio di militari, le prime pagine sui giornali, l’inclusione di qualche personaggio noto, le luci della ribalta sul pm. Finora però quasi tutte le ‘grandi inchieste’ precedenti che hanno ritmato la storia della Calabria, da ‘Stilaro’ a ‘Marine’, a ‘Circolo formato’ (che si appena conclusa), a ‘ Lande desolate’ sono state dei grandi flop che hanno portato alla assoluzione di quasi tutti gli imputati e prodotto dubbi, scetticismo e rassegnazione nell’opinione pubblica calabrese, stretta tra una mafia aggressiva da un lato e la giustizia sommaria dall’altro. Oltre che ad un grande spreco di risorse pubbliche ed umane. Come abbiamo detto sabato scorso, la trasmissione Presa Diretta, nel febbraio del 2014, aveva usato la stessa tecnica, la stessa regia e lo stesso Pm come protagonisti nell’inchiesta ‘ New Bridge’. Senza però trarre le necessarie conseguenze sul fatto che, su decine di imputati per mafia coinvolti in quella inchiesta, uno solo (dico1) è stato condannato con il 416 bis. Nella trasmissione di lunedì sera, volendo far apparire il dottor Gratteri come l’alfa e l’omega della lotta alla ndrangheta, Iacona ha molto insistito sul fatto che, prima del suo arrivo, la procura di Catanzaro fosse una specie di porto di mare per tutti i mafiosi. Ma se così è, non si capisce proprio perché non abbiano fatto parlare il suo predecessore, un anziano procuratore della Repubblica, rispettato da tutti? Perché non si è fatto parlare l’ex procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini, trasferito ad altra sede perché ha osato avanzare qualche, pur correttissima, critica verso i metodi usati in Rinascita Scott? Così come è stata concepita la trasmissione Presa Diretta non aiuta a capire la realtà, anzi ci porta su un binario morto. Quello che è più inquietante è la sensazione (ma è qualcosa in più) che alcuni magistrati cerchino legittimazione e successo non ricercando la giustizia e la verità ma stabilendo rapporti forti con la stampa e soprattutto con giornalisti affermati e trasmissioni famose. Una cosa è certa: il successo così strappato (ma non meritato) può essere giocato nell’immediato su tutti i tavoli che contano. Ed infatti l’inchiesta ‘New Bridge’ è stata utilizzata come possibile lasciapassare per far transitare il dottor Gratteri da un ufficio della Procura di Reggio Calabria a quello di ministro della Giustizia. Non saprei dire oggi a cosa si tende! Se veramente lo volesse, il conduttore di Presa Diretta sarebbe ancora in tempo ed avrebbe mille modi, tutti onorevoli, per riparare gli errori fatti finora e contribuire a sconfiggere la ndrangheta con una sana informazione di cui si sente un gran bisogno. Perché tanto Iacona che Gratteri dovrebbero capire che proprio la verità è il necessario antidoto per sconfiggere la ndrangheta “La giustizia non è una serie tv”. Il J’accuse dei penalisti di Vicenza di Valentina Stella Il Dubbio, 17 marzo 2021 Sirene spiegate e arresti in presa diretta. La Camera penale di Vicenza segnala l’ennesima operazione a favore di telecamera da parte della Guardia di Finanza: un blitz antidroga filmato e ripreso sulla stampa locale. “La giustizia non è una serie tv”: si intitola così la nota del direttivo della Camera Penale di Vicenza che ha voluto censurare l’ennesima operazione a favore di telecamera da parte della Guardia di Finanza. Il copione è simile a quello di tanti altri video delle forze dell’ordine che vanno ad arrestare qualcuno: primo piano sulla caserma, poi sirene spiegate in strada, arrivo sul posto con dispiegamento di forze, e infine riprese degli arrestati. In particolare, nel caso in questione, si è trattato di una operazione antidroga, al termine della quale sono stati arrestati tre richiedenti asilo nigeriani e sequestrati ingenti dosi di droga pronte per lo spaccio. Immagini e video del blitz sono stati riportati sulla stampa locale. A tal proposito hanno scritto i penalisti vicentini: quelle immagini “ci hanno lasciato senza parole”. Immagini in “presa diretta” mentre gli operanti entrano nell’abitazione ed eseguono la perquisizione, all’interno di un’abitazione - come se si trattasse di uno di quei docu-film che vanno tanto di moda. La ripresa del momento in cui vengono (apparentemente!) scoperte somme di denaro in contante all’interno di alcuni cassetti - quasi a creare un elemento di sorpresa, come nelle migliori serie televisive; la meticolosa preparazione di quanto oggetto di sequestro in bella mostra e su un tavolo in cui esibire l’esito della perquisizione, come un trofeo, a favore di telecamera”. Gli avvocati, giustamente, si interrogano “sull’utilità - prim’ancora che sulla legittimità - di questo video: a chi e che cosa serve? Risponde a un pubblico interesse occupare personale di polizia e pubbliche risorse per realizzare queste immagini, che non hanno alcuna utilità processuale?”. Come se non bastasse, conclude il direttivo, “vengono esibite le immagini degli arrestati mentre vengono raccolte le impronte digitali e addirittura con le manette ai polsi, in violazione di quella norma del codice di procedura penale che, sancendo un elementare principio di civiltà giuridica, vieta espressamente “la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica” (art. 114 c.p.p.). Né varrebbe rispondere che il volto della persona è stato “oscurato”, perché contestualmente - sulla base di una prassi tanto diffusa quanto da noi contestata - sono state diffuse le foto segnaletiche degli arrestati”. Si tratta del secondo episodio nel giro di poche settimane, in cui i penalisti italiani sono stati costretti a stigmatizzare pratiche (probabilmente) lesive della dignità degli indagati. Qualche giorno fa l’avvocato Giuseppe Belcastro dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Ucpi aveva scritto proprio su questo giornale un duro commento contro le video riprese degli arresti degli indagati per l’omicidio di Ilenia Fabbri, chiedendo un intervento della Ministra Cartabia per “porre fine a questo scempio; ché il paese di Beccaria non lo merita”. Meloni incontra Cartabia e dice “ho capito che sulla prescrizione non intende scappare” di Liana Milella La Repubblica, 17 marzo 2021 Novanta minuti di confronto in via Arenula. Il primo per la Guardasigilli con un leader di partito. Netta contrapposizione sul carcere. Convergenti sulla giustizia tributaria, ma divise sul Csm. L’una davanti all’altra, per più di un’ora e mezza. Nella grande stanza in via Arenula che fu di Togliatti, stavolta si confrontano due donne. Entrambe decisamente di successo. Anche se i percorsi sono del tutto diversi. La ministra della Giustizia Marta Cartabia, che fa della Costituzione il suo scudo, incontra la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, il cui vessillo è garantire a tutti i costi la sicurezza dei cittadini. Il suo è l’unico partito fuori dal governo. Di certo la pensano in modo diametralmente opposto sul carcere. Per la ministra vale il principio che “la certezza della pena non è la certezza del carcere”. Mentre il quasi 18% degli italiani che sta con Meloni vuole una politica della giustizia che “sia molto garantista sull’accertamento del reato, ma sia giustizialista sul carcere”. Potrebbero litigare queste due donne che s’incontrano a tu per tu per la prima volta. Ed è - per Cartabia - il primo faccia a faccia con una leader di partito, donna certo, ma avversaria del governo Draghi. Eppure il confronto parte ugualmente, “senza pregiudizi” come alla fine dicono entrambe, quel colloquio che il responsabile Giustizia di FdI Andrea Delmastro definisce “franco e cordiale, e soprattutto tenuto su un registro alto”. Un mood “istituzionale”, come ci tengono a sottolineare le fonti di via Arenula. Dove Cartabia, proprio per questa ragione, non chiosa l’incontro. Che pure ha seguito minuziosamente, prendendo appunti con carta e penna, interrompendo più volte Meloni per capire meglio il suo pensiero e le sue proposte. Alla fine, sono almeno cinque o sei le pagine riempite. Le serviranno mentre si prepara, giovedì, ad incontrare i senatori della commissione Giustizia di palazzo Madama. Meloni, appena uscita, affida a una conferenza stampa le sue impressioni. L’incontro le è piaciuto, si capisce dalle sue parole, ma certo lei non molla sulle sue idee perché “sulla giustizia servono discontinuità e coraggio, e c’è ben poco da salvare del lavoro di Bonafede”. Per chi non avesse capito ripete di nuovo che “serve una forte discontinuità”. Mentre Cartabia, da quando è diventata ministra, ha messo sul tavolo una linea ben diversa, partire dalle riforme del suo predecessore Bonafede, emendarle sì, ma non buttarle alle ortiche. Anche se è chiaro che proprio Cartabia probabilmente considera costituzionalmente a rischio una prescrizione che distingue tra condannati e assolti. E Meloni è certa, a sua volta, che Cartabia sulla prescrizione “non intende scappare”. Ma le strade di Meloni e Cartabia si dividono proprio sul metodo. Come emerge man mano che la Guardasigilli e la leader politica si confrontano. Due esempi fanno testo. La prescrizione appunto. E la galera (termine che Cartabia non userebbe mai). Perché sulla prescrizione Meloni è netta: “La legge immaginata da Bonafede introduce la possibilità del processo a vita: va abolita, o quantomeno vanno sospesi i suoi effetti. Vedremo come procederà il governo, ma così non si può andare avanti”. E ancora: “Mi è dispiaciuto che il governo non abbia votato con noi l’emendamento nel Milleproroghe presentato per sospendere la prescrizione, Renzi compreso”. È un punto nodale dell’incontro. Perché Meloni e i suoi non fanno sconti. Come spiega Delmastro sulla prescrizione di Bonafede “bisogna invertire l’ordine dei fattori, prima si ripristina la prescrizione originaria, poi si fa la riforma della giustizia penale”. Meloni e i suoi bocciano il ben noto lodo Conte-bis, il compromesso raggiunto da Bonafede con Renzi per salvare la sua legge con il diverso cursus della prescrizione per i condannati (cammina) e per gli assolti (si ferma), perché “va contro la Costituzione”. E qui, le fonti di Fdl dicono, dopo l’incontro, che anche Cartabia avrebbe storto il naso su questo doppio binario. Se la Costituzione è un faro sulla prescrizione, altrettanto lo è sul carcere. Ma qui le strade di Cartabia e Meloni si separano nettamente. Se la ministra, come ha appena fatto in commissione Giustizia, dice che “la certezza della pena non si risolve nella certezza del carcere”, e quindi ben vengano misure alternative e una detenzione umana, Meloni mostra la faccia feroce dell’impostazione securitaria. Eccola dire dentro e fuori via Arenula: “Può essere vero che la certezza della pena non significhi necessariamente certezza del carcere, ma la certezza che non c’è il carcere è la certezza di nuovi reati”. Per questo Meloni chiede “un investimento importante per l’edilizia carceraria e per chi lavora nelle carceri”. Vuole “l’aumento degli organici per la polizia penitenziaria”. Pronuncia un netto no per “nuovi decreti svuota carceri”. Cartabia prende appunti certo, ma la sua Bibbia è l’articolo 27 della Costituzione quando dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Queste due donne sul carcere sono divise, eppure si confrontano. È anche questo il “metodo” Cartabia. Tant’è che la Guardasigilli vuole capire bene, e chiede e domanda prendendo poi appunti, cosa propone Meloni sulla soluzione di far scontare la pena ai detenuti stranieri nei paesi di origine. Né, certo, si scontra con la leader di Fratelli d’Italia che pretende pene più severe ed efficaci, ed è pronta ad accettare anche un’alternativa al carcere, a patto però che si tratti comunque di una misura efficace. Sono consapevoli di essere su posizioni opposte, ma riescono a dialogare. E almeno su un punto, la giustizia tributaria, sono proprio d’accordo. Perché l’idea di Cartabia, visti i clamorosi annullamenti in Cassazione, di nominare giudici terzi e non scelti dal Mef, trova d’accordo Meloni. Mentre è sul Csm dopo il caso Palamara che le strade si dividono ancora. Netta la richiesta di scegliere i futuri componenti togati con il sorteggio, tant’è che Meloni lo considera “l’unico modo serio per eliminare la deriva correntizia”. Già scontata la bocciatura di Cartabia per gli inevitabili risvolti di costituzionalità. Mentre, sul filo della Costituzione, le posizioni sembrano riavvicinarsi sulla magistratura onoraria, che trova in FdI un pieno sponsor, e vede Cartabia convinta di poter risolvere la questione una volta per tutte rispettando la Carta, tant’è che è in attesa di una prossima sentenza della Consulta. Alla fine si salutano soddisfatte. Hanno dialogato civilmente. E Meloni può rendere pubblica una sua impressione, che sulla prescrizione Cartabia “non intende scappare”. E questo già le piace. Poi, certo, “vedremo come procederà”. Processo alla giustizia, donne e madri in campo di Daniela Dioguardi* Il Manifesto, 17 marzo 2021 L’evidente e smisurata sproporzione tra i reati commessi e le pene comminate attenta alla libertà del dissenso ed evidenzia il cattivo funzionamento della giustizia nel nostro paese. A Torino ogni giovedì pomeriggio “Mamme in piazza per la libertà di dissenso” organizza un presidio di fronte al carcere Lorusso Cotugno dove è rinchiusa Dana Lauriola. Dana, sebbene incensurata, è stata condannata con il massimo della pena prevista per il reato di violenza privata, due anni di reclusione, perché nel 2012 insieme a altre/i in una manifestazione No Tav ha bloccato per circa 15 minuti l’autostrada, facendo passare le macchine senza pagare il pedaggio e informando con il megafono del motivo della protesta. È stata inoltre respinta la richiesta di pene alternative, malgrado le condizioni favorevoli. Da poco ha finito di scontare la pena, per gli stessi motivi, a un anno di reclusione, Nicoletta Dosio, insegnante settantenne in pensione, anche lei incensurata. Gli arresti domiciliari per due anni sono stati dati a Stella Gentile che nella stessa manifestazione distribuiva volantini. L’evidente e smisurata sproporzione tra i reati commessi e le pene comminate attenta alla libertà del dissenso ed evidenzia il cattivo funzionamento della giustizia nel nostro paese. Inquieta inoltre l’uso strumentale delle donne per criminalizzare lo scontro sociale. Di fronte alla grave e ingiustificata limitazione della libertà e offesa alla dignità umana da parte di chi avrebbe il compito di preservarle, la madre di Dana e altre madri, alcune di giovani ancora in attesa di giudizio, hanno deciso di trasformare la comprensibile rabbia e l’ansia individuale per la sorte dei/lle figli/ie in una protesta collettiva. Dall’8 ottobre denunciano e si adoperano perché non passi sotto silenzio la deriva securitaria in atto e tessono reti di solidarietà. È anche un’accusa ai mass media che ne hanno parlato pochissimo per colpevole sottovalutazione o, più realisticamente, per non nuocere agli interessi forti che stanno dietro alle grandi opere. In Sardegna le madri di 45 giovani, attivisti del movimento contro la presenza di basi militari, rinviati a giudizio con l’accusa gravissima di associazione a delinquere con finalità terroristiche, si sono organizzate in “Madri contro l’operazione Lince. Contro la repressione”. Non le spinge solo l’amore per i/le figli/ie, rivendicano orgogliosamente il ruolo di madri-educatrici ai valori della libertà, solidarietà e giustizia sociale. In una lettera alle madri di Torino scrivono: “Siamo state noi a crescerli con le idee e i sogni di un mondo senza lo stupro delle guerre, di un mondo senza l’orrore delle armi. Noi abbiamo trasmesso l’amore e il rispetto della terra…Noi li abbiamo…nutriti di pane e pensiero libero e critico…”. Hanno messo al mondo cittadini e cittadine consapevoli, in grado di difendere i propri convincimenti e dire no al potere, se va in direzione opposta al bene del mondo. È ciò di cui un paese democratico dovrebbe andare fiero e favorire, invece di contrastare e reprimere. Le madri di Plaza de Mayo hanno fatto storia e l’autorità materna mostra in tanti modi la necessità di un altro ordine! A Napoli, “le forti guerriere” del rione Sanità chiedono giustizia dinanzi al tribunale per Fortuna Bellisario, uccisa selvaggiamente dal marito, che, condannato a dieci anni, è già agli arresti domiciliari. Un’altra evidente sproporzione tra reato commesso e pena comminata, con l’aggravante della concessione della pena alternativa dopo appena due anni di reclusione. Sopravvive nella mentalità di alcuni giudici il famigerato delitto d’onore, quando impunemente gli uomini potevano liberarsi di una moglie o di una donna scomoda della propria famiglia. Madri e guerriere di Napoli sono un forte campanello di allarme sul malessere sociale causato da un potere patriarcale e liberista, votato al profitto, che moltiplica vergognosamente ingiustizie e privilegi. Che non rimangano Cassandre inascoltate! *L’autrice fa parte di Udipalermo La giustizia telematica è in tilt di Michele Damiani Italia Oggi, 17 marzo 2021 Avvocatura in protesta contro i disservizi della giustizia telematica. Dall’Unione camere penali, che ha indetto uno sciopero per la fine di marzo all’Associazione italiana giovani avvocati (Aiga) che ha presentato una serie di interrogazioni sull’argomento. Avvocatura in protesta contro i disservizi della giustizia telematica. Dall’Unione camere penali, che ha indetto uno sciopero per la fine di marzo, all’Associazione italiana giovani avvocati (Aiga) che ha presentato una serie di interrogazioni sull’argomento, passando per l’Associazione nazionale forense e Movimento forense, sono molti gli organismi di rappresentanza dell’avvocatura che stanno protestando in merito ai continui ritardi e alle molte difficoltà che sta incontrando la categoria nel relazionarsi con la giustizia telematica e i suoi strumenti. Proteste, ma anche proposte, rivolte al neo-ministro della giustizia Marta Cartabia. Tutte con una parola d’ordine: agire in fretta. Aiga. I giovani avvocati avevano già manifestato il loro disappunto alla fine di febbraio, inviando una lettera alla ministra Cartabia, oltre ad aver presentato una interrogazione parlamentare per denunciare le lunghe attese e le complicazioni incontrate dagli avvocati in questi mesi. “Il problema non riguarda solo la piattaforma per il penale”, spiega ad Italia Oggi il presidente Aiga Antonio De Angelis, “è tutta la giustizia telematica che non funziona, una problematica che va avanti da mesi. Nel Recovery plan sono previsti interventi per digitalizzare la giustizia. Bene, ma non possiamo aspettare i fondi europei. Questa è un’emergenza che va sanata subito. Non è concepibile che gli avvocati debbano passare pomeriggi interi ad aspettare una Pec che attesti l’avvenuto perfezionamento del deposito. Spesso, peraltro, è capitato che questi disservizi abbiano provocato il rinvio delle udienze, a volte anche di mesi. È necessario quindi un intervento immediato, che vada a rafforzare la componente hardware della giustizia italiana in modo da rendere più rapido il portale, evitando che si blocchi ogni giorno. L’introduzione del processo penale telematico ha infatti rallentato e di molto la macchina, aumentando la mole di documenti e di atti da trattare. La situazione è veramente al limite. Anf. Preoccupazione, ma anche certezza dell’importanza della giustizia telematica, arrivano invece dal segretario generale dell’Associazione nazionale forense Luigi Pansini: “Il processo telematico è una conquista e non si torna indietro”, le parole ad Italia Oggi di Pansini. “Oggi per il processo penale come ieri per il processo civile: all’inizio è fisiologico incontrare difficoltà anche se l’attuale contesto pandemico generale non aiuta. Ma occorre uno sforzo eccezionale: eliminare le criticità del funzionale del portale telematico penale e poi procedere con la telematizzazione degli uffici dei giudici di pace e della corte di cassazione, estendere l’obbligatorietà del telematico a tutti i provvedimenti dei magistrati, completare i processi di gestione e conservazione digitale degli atti processuali più complessi, riformare la digitalizzazione nella giustizia con modalità omogenee - anche attraverso un’unica piattaforma per i processi telematici - che possano favorire l’applicazione al mondo della giustizia dei più avanzati esiti della ricerca nel campo dell’apprendimento automatico e dell’intelligenza artificiale”. Movimento forense. La celerità negli interventi è uno dei punti sottolineati anche dal Movimento forense “riteniamo che la questione vada posta come irrinunciabile priorità degli investimenti nella digitalizzazione della giustizia, senza alcuna conflittualità e chiedendo a tutte le forze in campo di impegnarsi senza campanilismi. Il ministro saprà dare i giusti impulsi per garantire la migliore efficienza ed imparzialità nella gestione delle risorse. Crediamo che la logica dell’astensione non vada letta come strada preferita, anche per l’ovvio pregiudizio economico che ne deriva ai colleghi, bensì come ultima ratio di fronte alla disfunzione operativa del sistema telematico”. Campania. Minori e giovani adulti a rischio, Oliviero chiede un Consiglio monotematico appiapolis.it, 17 marzo 2021 Il Presidente del Consiglio Regionale, Gennaro Oliviero, e la presidente della VI commissione permanente, Istruzione, Cultura, Ricerca scientifica e Politiche Sociali, Bruna Fiola, hanno in programma di indire un Consiglio regionale monotematico per affrontare il dilagante problema dei minori e giovani adulti a rischio. “Il report del Garante dei detenuti sui minori a rischio è drammatico - dichiara il presidente Oliviero - la Campania risulta essere una delle regioni maggiormente interessata dal fenomeno della criminalità giovanile. Nel 2020 solo tra Napoli e provincia si contano 593.036 minori a rischio con una percentuale che si avvicina al 18%. I servizi sociali ne hanno presi in carico solo 498. Bisogna esaminare soprattutto i fattori a rischio. Il primo in assoluto è la dispersione scolastica. Infatti, il 40% dei minori abbandona la scuola troppo presto, creando una povertà culturale che li spinge verso la devianza. Altro fattore è il contesto camorristico dove i minori, sia per legame di sangue o amicizie dei quartieri dove il fenomeno è diffuso, sono fortemente a rischio. Da non sottovalutare le cosiddette baby gang, che praticano la violenza senza motivo e questo fenomeno spesso è praticato anche e soprattutto in età preadolescenziale. Dobbiamo individuare le strategie necessarie per il recupero di questi minori. La politica deve soffermarsi su cosa spinge i nostri giovani verso questo disadattamento e intervenire per correggerlo, perché non dobbiamo mai dimenticare che essi sono il nostro futuro e vanno tutelati”. “È fondamentale affrontare seriamente una discussione sui minori a rischio e sulla devianza minorile - ha dichiarato la Presidente della VI Commissione Bruna Fiola - Il report del Garante dei detenuti fotografa la situazione che per i minori resta allarmante. Al 15 febbraio 2021 i minorenni in carico agli Uffici di Servizio Sociale per i minorenni sono in totale a Napoli 709, tra quelli presi in carico la prima volta (67) e quelli già precedentemente in carico (642). Nel 2020, si evince dal report, abbiamo avuto a Nisida 113 ingressi e ad Airola 40 per un totale di 153 ingressi in un anno. Dovremmo però agire su diversi livelli. Basti pensare al numero di assistenti sociali al Sud, dove quasi tutte le Regioni sono fortemente sotto organico e non raggiungono il rapporto di 1/6500, tantomeno quello di 1/5000. In questo sarà decisivo il supporto del Governo nazionale, affinché si possa ridurre questo gap. Il risultato è difatti nefasto, perché così si allontana la possibilità di poter creare una rete assistenziale che possa sostenere i minori, che crescono in contesti dove il rischio di devianza è altissimo. Ed è soprattutto in questi contesti che il supporto va recepito come presa in carico della famiglia. Bisogna poter essere in grado di fornire percorsi di sicurezza e creare una rete tra gli assistenti sociali e le strutture territoriali. Così come il fenomeno delle baby gang, che non a caso si prolifera in contesti familiari ed ambientali dove i ragazzi sono costretti a crescere senza sostegni affettivi adeguati e senza alcun orientamento socio-educativo. Una grande occasione dovrà essere il Recovery fund, dove sarà necessario investire fortemente sul Piano nazionale dell’infanzia. Investire in maniera decisiva in quartieri e in luoghi, dove i giovani sono abbandonati a loro stessi”. Melfi (Pz). Punizioni illegali nel carcere di Leo Amato Quotidiano del Sud, 17 marzo 2021 Il Tribunale di sorveglianza di Potenza censura la repressione delle rivolte di marzo 2020. Dimezzate le ore d’aria a tutti, anche se i responsabili sono stati trasferiti altrove. Dopo le rivolte degli inizi di marzo contro le restrizioni anti Covid 19, quella andata in scena nel carcere di massima sicurezza di Melfi è stata una repressione illegale, che si è tradotta nella detenzione “in condizioni inumane e degradanti” di persone che con quelle rivolte non c’entravano nulla. Anche perché i responsabili erano stati subito trasferiti altrove. È quanto stabilito dal giudice Michele Tiziana Petrocelli, del Tribunale di Sorveglianza di Potenza, che nei giorni scorsi ha accolto il ricorso presentato da un detenuto calabrese, Rosario Calderazzo di Palmi, per il risarcimento del danno sofferto per violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Risarcimento riconosciuto nella riduzione della pena da scontare di “un giorno per ogni 10 durante il quale ha subito il pregiudizio”. Per un totale di 18 giorni complessivi. A portare la questione alla sua attenzione era stato il difensore di Calderazzo, l’avvocato Antonio Silvestro, evidenziando un aggravamento delle condizioni di vita all’interno dell’istituto da marzo dell’anno scorso in avanti. Dopo le rivolte esplose nelle carceri di mezza Italia per il divieto di ricevere le visite dei familiari. In particolare il dimezzamento da 8 a 4 delle ore in cui i detenuti, ogni giorno, possono restare all’esterno delle celle. Con la “socialità (…) è divenuta alternativa al passeggio con conseguente sua sostanziale elisione dovendo il detenuto rinunciare ad ore di passeggio per poterne fruire”. “Trattasi - scrive il giudice nella sua ordinanza - di una drastica riduzione (alla quale si aggiunge anche una riduzione dell’orario di fruizione delle docce rispetto a quanto previsto a partire dal settembre 2016) che, rapportata all’ampiezza della superficie netta fruibile nella cella, deve indurre a riconoscere il presupposto delle condizioni inumane e degradanti. Tanto anche in considerazione di altro dato e cioè quello per il quale la possibilità di fare la doccia nei locali comuni è prevista in orario (dalle 08.30 alle 11.00 e dalle 13.00 alle 15.30 dal 27 marzo 2020 al 15 ottobre 2020) che si sovrappone quasi completamente a quello stabilito per le ore all’aperto con la conseguenza di porre il detenuto dinanzi alla non ragionevole scelta tra il fare la doccia o usufruire delle ore d’aria”. Il magistrato di Sorveglianza ha anche esaminato i provvedimenti della direzione del carcere di Melfi che avevano disposto la riduzione delle ore di permanenza all’aperto dei detenuti e dei giorni di fruizione delle docce. E il suo giudizio è stato se possibile ancora peggiore. “Quanto alla riduzione delle ore di permanenza all’esterno - scrive Petrocelli - si rileva che dal tenore del provvedimento è evincibile come la predetta riduzione sia motivata con riferimento alla necessità di “stabilire l’ordine e sicurezza di istituto”. Eppure: “non risultano specificamente esplicitate le ragioni che hanno indotto ad una riduzione della metà delle ore di permanenza all’esterno, stante la genericità della dizione sopra richiamata”. Inoltre, “quand’anche volesse correlarsi la riduzione medesima alla notoria rivolta occorsa nell’istituto il 09 marzo 2020, tuttavia non potrebbe perciò solo concludersi che una soppressione così significativa tale da portare ad un dimezzamento del numero complessivo delle ore di permanenza all’esterno non determini un trattamento detentivo suscettibile di essere sussunto nell’alveo dell’articolo 35 ter dell’ordinamento penitenziario (risarcimento per violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ndr)”. Sono due, pertanto, le motivazioni individuate dal giudice di Sorveglianza per censurare l’operato della direzione carceraria. La prima fa riferimento al fatto che “i detenuti ristretti in Melfi i quali hanno partecipato attivamente alla rivolta sono stati colpiti da provvedimenti di trasferimento in altri Istituti adottati nella imminenza dei fatti e, quindi, in sostanza, la riduzione dell’orario viene ad operare indistintamente a danno dei ristretti rimasti che invece si sono dissociati dalla rivolta non prendendovi parte”. Mentre la seconda evidenzia che non si è trattato “di una limitazione dell’orario la cui durata è stata circoscritta ad un breve periodo, a ridosso dei gravi fatti avvenuti il 09 marzo 2020, desumendosi dagli atti che la stessa sia ancora vigente alla data della relazione dell’Istituto (13 novembre 2020)”. L’Aquila. Al 41bis senza colloqui Skype con minori, per i giudici è incostituzionale di Cristina D’Armi laquilablog.it, 17 marzo 2021 Sono 152 i detenuti al 41bis nel Carcere dell’Aquila. L’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19, oltre ad aver limitato la circolazione dei liberi cittadini, ha inasprito le restrizioni di coloro che sono reclusi nelle case circondariali. In un primo momenti i colloqui tra detenuti e familiari sono stati resi possibili tramite l’installazione di vetri in plexiglass. Con l’aumento dei contagi poi, gli incontri sono stati sospesi sostituendoli con l’aumento di chiamate e videochiamate tramite skype. Le ha previsti l’articolo 4 del decreto-legge 10 maggio 2020, n. 29. Lo stesso trattamento non è stato adottato per i detenuti al 41 bis che, come emergo nella relazione fornita alle Camere il 28 gennaio 2021 dal Ministro della Giustizia Bonafede, sono 759 in tutta Italia. Di questi, 152 sono ristretti a L’Aquila. Per i detenuti a rigido regime sono previste delle restrizioni specifiche per ridurre la possibilità di comunicare con il “mondo esterno” in modo da evitare che essi possano continuare a gestire affari delittuosi. Pen consentire il colloquio mensile con i familiari, quindi, sono state cocesse ai detenuti al 41 bis due telefonate ravvicinate da effettuarsi presso la caserma dei carabinieri o presso il carcere di residenza del familiare. Ad oggi, i figli minori di 12 anni si sono visti negare qualsiasi possibilità di contatto con il proprio genitore. Per i giudici tale prospettiva è in contrasto con una serie di norme della Costituzione perché il mantenimento dei rapporti familiari e soprattutto genitoriali è fondamentale per il recupero sociale del reo. La decisione starà alla Consulta. Torino. Tenta il suicidio in carcere, messo in isolamento e per bere usa l’acqua del water di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 marzo 2021 Una vicenda raccontata nel XVII Rapporto di Antigone dal quale risulta una media del 27,6% dei detenuti in terapia psichiatrica. Avrebbe tentato il suicidio in carcere a Torino, per questo sarebbe stato trasferito in una cella liscia, denudato, senza materasso né coperta e con l’acqua chiusa. Per quest’ultimo motivo, si sarebbe trovato nelle condizioni di bere dallo scarico del wc. La sua situazione peggiora, si agita, e la prassi sarebbe stata quella di frequenti iniezioni intramuscolari per cercare di sedarlo. Parliamo di M., un detenuto in espiazione presso un reparto di osservazione psichiatrica “Il Sestante” della Casa Circondariale di Torino. La vicenda viene narrata da un familiare che si rivolge al Difensore Civico di Antigone preoccupato della situazione particolarmente critica in cui versa il ragazzo che ha tentato il suicidio in carcere. Sottoposto a vari Tso senza test clinici adeguati - Una vicenda, terribile, ben raccontata nel XVII Rapporto di Antigone sulle condizioni detentive. M. subisce vari trattamenti sanitari obbligatori che da quanto raccontato ad Antigone non rispondono a nessuna perizia psichiatrica. Viene denunciata infatti l’assenza di test clinici adeguati che possano configurare una corrispondente terapia. M. trascorre nove mesi continuativi nella sezione dedicata a soggetti in acuzie del reparto di osservazione psichiatrica, in cui la permanenza massima prevista dalla legge è invece di trenta giorni. Quella di M. è solo una delle tante storie che arrivano all’ufficio dell’associazione Antigone e che danno l’idea di quanta strada ancora c’è da fare per garantire diritti e protezione a chi vive all’interno delle carceri italiane e per ridurre il numero dei suicidi in carcere. 98 istituti visitati dall’Osservatorio da Antigone nel 2019 - Infatti, come emerso dal rapporto annuale “Oltre il virus”, in 98 istituti visitati dall’Osservatorio da Antigone nel 2019, una media del 27,6% dei detenuti risulta in terapia psichiatrica e il 41 % delle patologie sono disturbi psichici. Secondo i dati del ministero della Giustizia, nel 2019 si sono verificati in totale 53 suicidi, con 8,7 suicidi ogni 10.000 detenuti mediamente presenti, 8,376 atti autolesionistici e 939 tentativi di suicidio. Il dossier di “Ristretti Orizzonti”: 61 suicidi fino nel 2020 - Secondo i dati raccolti dal Dossier “morire di carcere” di Ristretti Orizzonti, nel 2020 si sono verificati 61 episodi di suicidio in carcere, numero destinato ad aumentare anche come conseguenza del crescente isolamento rispetto al mondo esterno dei soggetti ristretti a seguito della pandemia. Per Antigone questi dati sono particolarmente preoccupanti soprattutto se paragonati alle stime riportate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo cui nel 2016 in Italia nella popolazione libera si è registrato un tasso di suicidi pari allo 0,82 ogni 10.000 abitanti. “Ancora una volta - si legge nel rapporto - il carcere è il luogo in cui si registra una maggiore incidenza del fenomeno suicidario. In tal senso, il momento dell’ingresso all’interno del sistema carcerario rappresenta un evento traumatico”. Dall’ingresso alla scarcerazione: tutti i momenti traumatici - Ma il momento dell’ingresso non l’unico momento di criticità che fa insorgere patologie psichiche. Insorgono anche durante tutta la fase detentiva e nella fase prossima alla scarcerazione. Altri disturbi psichici particolarmente frequenti tra la popolazione detenuta - si legge nel rapporto di Antigone - “sono il disturbo dell’adattamento, i disturbi legati all’uso di sostanze stupefacenti, il disturbo del controllo degli impulsi e i disturbi della personalità”. Ultimo momento definito critico per il soggetto è rappresentato dalla fase prossima alla scarcerazione, durante il quale insorgono una serie di preoccupazioni e ansie legate al reinserimento all’interno della società libera, che per molti può rappresentare un momento di forte difficoltà. “Il tema legato alla tutela della salute mentale in carcere sicuramente rappresenta uno dei nodi più difficili da sciogliere, per la necessità da una parte di garantire cure adeguate che rendano il contesto detentivo quanto meno possibile peggiorativo del disagio psichico, dall’altra per la necessità di assicurare la sicurezza della società libera e all’interno degli istituti stessi”, osserva Antigone. Catanzaro. Rems di Girifalco, interrogazione di Wanda Ferro per l’avvio delle attività catanzaroinforma.it, 17 marzo 2021 A seguito delle richieste del Garante dei detenuti della Regione Calabria. Le richieste del Garante dei detenuti della Regione Calabria relative alla vaccinazione della popolazione carceraria e per l’attivazione della Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza di Girifalco, sono state portate all’attenzione del Governo dal deputato di Fratelli d’Italia Wanda Ferro, che ha rivolto una interrogazione al ministro della Giustizia Cartabia e al ministro della Salute Speranza. Wanda Ferro ha chiesto ai rappresentanti del governo “quali iniziative di competenza intendano assumere per includere la popolazione carceraria tra le categorie da vaccinare prioritariamente, anche al fine di garantire l’efficienza e la sicurezza della macchina penitenziaria”. Già in una interrogazione dello scorso 14 gennaio Wanda Ferro aveva evidenziato che “se si ritiene vera la circostanza che nell’ambiente penitenziario sussista un maggiore pericolo di contagio, alimentato da un sovraffollamento cronico che ostacola qualsiasi forma di distanziamento e conclamato dai numeri, e una effettiva difficoltà di gestire l’emergenza sanitaria, logica vorrebbe che venissero vaccinati subito tutti i detenuti e gli operatori penitenziari che operano all’interno delle carceri, scongiurando così la temuta esplosione incontrollata dell’epidemia, che sinora si è dichiarato di voler prevenire favorendo il ricorso alle detenzioni domiciliari”. Wanda Ferro ha chiesto quindi al governo di dare seguito all’avvio dell’attività funzionale della Rems di Girifalco, della quale già a fine 2020 sono stati ultimati i lavori di ristrutturazione, grazie all’impegno dell’Asp e dell’Amministrazione comunale, e per la quale è necessario perfezionare celermente i successivi necessari adempimenti, dalla procedura ad evidenza pubblica per l’acquisto degli arredi e delle attrezzature, al procedimento di autorizzazione e accreditamento, alla definizione della forma di gestione (pubblica o privata) della struttura stessa. Secondo il Garante, infatti, sono più di 50 le persone in lista di attesa per l’ingresso in Rems, in quanto dichiarate giudizialmente incapaci di intendere e di volere, a cui si aggiungerebbero i soggetti raggiunti da una misura di sicurezza temporanea, come previsto per legge. Benevento. “Oltre le mura”: successo per il progetto di Garante e iCare ottopagine.it, 17 marzo 2021 Si è concluso oggi il progetto “Oltre le mura”, nato dalla collaborazione tra l’Ufficio campano del Garante delle persone private della libertà e la Cooperativa sociale di comunità iCare e dedicato ai detenuti Sex Offender, della sezione femminile e maschile, ristretti nel reparto protetto della Casa Circondariale “Capodimonte” di Benevento. Nonostante le difficoltà che si sono presentate con la situazione epidemiologica Covid-19 l’amministrazione penitenziaria si è adoperata nel continuare le attività e donare questi momenti importanti ai detenuti. Il progetto, iniziato il giorno 22 settembre 2020, ha visto coinvolte sei professioniste con competenze diverse, quali psicologhe, criminologhe, educatrici, giuriste e mediatrici. Insieme ai detenuti, l’equipe ha facilitato l’attivazione di un percorso introspettivo dei ristretti, lavorando sul tempo, passato, presente e futuro attraverso attività di gruppo e colloqui individuali. Un viaggio importante all’interno del proprio Sé e dei propri vissuti, un intenso lavoro sulle emozioni, sulle credenze e sulle aspettative, al fine di favorire una rivisitazione critica delle azioni delittuose, nonché spunti di riflessione sull’utilizzo del tempo in carcere, per arrivare progressivamente agli obiettivi futuri. Ci si è addentrati, senza giudizio, nei racconti personali, nelle vicende umane e processuali, offrendo punti di vista alternativi, riflettendo su se stessi, sul contesto e sul gruppo stesso. In carcere le giornate sono interminabili e tutte uguali, i giorni sembrano anni e si ha tanto tempo per riflettere sulla propria persona, ma spesso le riflessioni si riducono ad un soliloquio nella propria cella, senza poter beneficiare della condivisione dei pensieri in un gruppo e con dei professionisti che possa metterne in luce le criticità, i limiti, ma anche le potenzialità e i punti di forza. Alcuni incontri, infine, sono stati dedicati ad introdurre i concetti di riparazione, di attenzione alla vittima e alle conseguenze del reato. Durante tutto il percorso si è ascoltato il dolore, l’impotenza e la sofferenza della condizione di privazione della libertà, ma si è anche volto lo sguardo all’esterno, ai legami recisi a causa del reato e soprattutto alla volontà di riscattarsi e avere una vita diversa all’uscita dal carcere. “Siamo davvero entusiasti della collaborazione che abbiamo attivato con il Garante dei Detenuti Samuele Ciambriello - dichiara il Presidente della cooperativa Icare Don Giuseppe Campagnuolo - e di tutto l’Ufficio coordinato da quest’ultimo e lo ringraziamo per averci offerto questa grande occasione. Lavorare con i detenuti significa contribuire ad abbattere ogni giorno di più, il muro del pregiudizio e degli stereotipi. Progettazioni come queste meritano di essere attivate più spesso ed è fondamentale che il periodo di detenzione diventi un vero percorso rieducativo e di reinserimento sociale, affinchè nessuno venga mai lasciato indietro”. Genova. Dal carcere a Italia’s Got Talent: rieducare i detenuti con il teatro di Federica Gattillo ilpolopositivo.com, 17 marzo 2021 Teatro vuol dire arte, passione, convivialità. Ma, come ci spiega Carlo Imparato, Vicepresidente dell’Associazione Culturale Teatro Necessario Onlus, può voler dire anche rieducazione. “Ci chiamiamo Teatro Necessario perché riteniamo che il teatro sia necessario a tutti e forse un po’ di più per chi vive in una condizione di difficoltà come i detenuti” - dice Carlo, che da anni ormai lavora nella Casa Circondariale maschile di Genova Marassi e si prefigge, con la sua associazione, di promuovere la riabilitazione dei detenuti attraverso lo strumento creativo e terapeutico del teatro. “Nasciamo 15 anni fa per puro caso, da un’idea mia e di mia moglie Mirella. Abbiamo chiesto ad alcuni amici professionisti nel mondo dello spettacolo di aiutarci a organizzare un laboratorio teatrale che coinvolgesse i detenuti. E così è andato in scena per la prima volta lo spettacolo ‘Scatenati’, da cui viene anche il nome della nostra compagnia”. Subito dopo cominciano i lavori al secondo spettacolo, ispirato alla vera storia di un detenuto. “Da quel momento non ci siamo più fermati e abbiamo iniziato a portare i nostri spettacoli per i teatri di Genova. Nel 2012, ci è venuta un’idea totalmente folle: costruire un teatro all’interno del carcere, ma che fosse aperto alla città”. Nasce così, da un’area in disuso della Casa Circondariale Marassi, il teatro dell’Arca, primo teatro in Europa edificato all’interno di un carcere in gran parte dai detenuti stessi. “Ci siamo inventati un progetto economico educativo diretto ai detenuti, con dei corsi professionalizzanti alla mattina e dei laboratori teatrali nelle ore pomeridiane. Ogni aspetto degli spettacoli è curato dai detenuti, che non si limitano a recitare, ma si occupano anche delle luci, della scenografia, delle musiche”, continua Carlo. Per alcuni il teatro si è trasformato addirittura in un mestiere. È il caso di Luca che, dopo venti anni di pena, ha girato l’Italia in qualità di responsabile luci per i Negramaro. “Nel corso di questi anni siamo cresciuti moltissimo, tanto da approdare anche sul palco di Italia’s got Talent. Abbiamo girato i teatri italiani, esibendoci di fronte a migliaia di persone e portando sempre in scena una carica di umanità e passione incredibile: distinguere i detenuti dagli attori professionisti che recitano con loro è quasi impossibile”. Teatro Necessario, promuovendo e intensificando iniziative volte all’integrazione e alla riabilitazione dei detenuti, non solo fornisce loro gli strumenti per reinserirsi in società, ma è anche in grado di produrre manifestazioni di alto valore sociale e di indiscussa qualità artistica. Alla base di tutto, secondo Carlo, ci sarebbe la ‘magia del teatro’. “I primi mesi di laboratorio sono durissimi, perché buona parte dei detenuti non è realmente interessata al teatro. Dopodiché succede un fatto che io definisco magico, perché inspiegabilmente i detenuti iniziano ad appassionarsi, studiano il copione, seguono le indicazioni del regista e fanno loro stessi delle proposte. È la forza del teatro”. E la forza del teatro non si ferma neanche in pandemia: la compagnia sta preparando un nuovo spettacolo che andrà in onda - o sul palco, dpcm permettendo - dal 27 marzo, non perdetevelo. Trento. Scintille di preghiera si accendono in carcere di Diego Andreatta Avvenire, 17 marzo 2021 Numerosi i detenuti hanno aderito all’iniziativa di pregare per le intenzioni indicate dal cappellano don Angeli che arrivano da “fuori”. Un carcere non può essere percepito come un luogo oscuro e spento. È un ambiente di vita - seppure ristretta e inevitabilmente sofferta - dove possono accendersi nuove prospettive personali, piccoli focolai di fiducia, di cambiamento e anche di preghiera. È scaturita da questa consapevolezza, ben presente da chi offre un servizio pastorale in tanti istituti di pena, l’originale iniziativa lanciata dall’arcidiocesi di Trento sotto il titolo “Scintille di preghiera dal carcere”. Dove le scintille - l’immagine ben si presta a indicare qualcosa di vivace, che sa superare le barriere dello spazio nel salire in alto - non sono altro che le intenzioni di preghiera che la gente mette per iscritto e fa arrivare, attraverso il cappellano, dentro il carcere dove alcuni detenuti e operatori si impegnano ogni settimana a farle proprie e a rivolgere al cielo, appunto. Il focolaio è acceso, visto che a tutt’oggi sono quasi 35 i carcerati che si sono resi disponibili a dedicare un po’ del loro tempo alla preghiera per quest’intenzione “commissionata” dall’esterno. Ma accanto a loro ci sono anche cinque operatori carcerari, appartenenti al personale di servizio e alla polizia penitenziaria, che pure aderiscono a quest’impegno portato avanti durante il momento comune della Messa settimanale. Spiega don Mauro Angeli, il prete destinato alla “parrocchia” di Spini di Gardolo, oltre 300 detenuti: “Già da qualche mese la nostra équipe pastorale aveva trovato disponibilità attorno a questa proposta, assunta ora dalla diocesi. Si dà l’occasione a persone che si trovano in condizione di mancanza di libertà di fare qualcosa di utile per gli altri. E che cosa, per noi, non è utile come la preghiera?”. Non è solo la novità a stupire, ma anche l’effetto capovolgimento visto che si è sempre portati a considerare i detenuti come oggetto o destinatari della preghiera (“Ero carcerato e mi avete visitato”), non come protagonisti attivi, in grado di ricevere in consegna dall’esterno del penitenziario un compito che ha spesso anche un nome e un volto ben preciso da affidare al Signore. Ma nel metodo c’è un altro aspetto che estende la validità di quest’iniziativa. A coordinare e “filtrare” le richieste di preghiera - indirizzate a scintille@diocesitn.it - è la comunità monastica “Piccola Fraternità di Gesù” di Pian del Levro che ha condiviso con il cappellano quest’iniziativa. Con l’aiuto di due volontarie laiche, le sorelle della comunità raccolgono e custodiscono le intenzioni originarie e poi le formulano in sintesi su un foglietto personale che don Angeli porta alla Messa settimanale: all’offertorio vengono lette e poi affida ad uno ad uno ai detenuti disponibili a prendersi una… scintilla. “È significativo che dentro il carcere, che pure è luogo di reclusione, si possa instaurare così un legame spirituale con un ambiente di silenzio e di comunità come l’eremo di Pian del Levro”, osserva il cappellano. Dopo la pubblicità sui media locali e durante il programma diocesano mensile dal titolo “Vulnerabili”, l’iniziativa sta prendendo piede. “È interessante constatare che sono quasi sempre richieste di preghiera molto dirette, legate a singole situazioni o persone - spiegano le sorelle della Piccola Fraternità - più che a problematiche generali. Finora vengono quasi tutte dalla zona della città di Trento, vicina al carcere. Ci sembra di sentire un cuore molto aperto in chi le ha scritte e anche la fiducia di affidarle alla preghiera e alla condivisione di altri”. Perugia. Donati 900 pigiami ai detenuti del carcere di Capanne quotidianodellumbria.it, 17 marzo 2021 La donazione è stata effettuata dall’Ordine di Malta. I volontari della Delegazione di Perugia-Terni dell’Ordine di Malta hanno portato e consegnato 900 pigiami in pile di vari colori e per tutte le taglie (dalla XS alla XXL) alla Casa circondariale di Capanne a Perugia, pronti per essere donati ai detenuti e alle detenute. I volontari hanno recuperato e prelevato il vestiario, nuovo e in ottime condizioni, a Civitavecchia da un sequestro della Guardia di Finanza. “L’idea di portare i pigiami in carcere- ha affermato il Delegato Marco Giannoni - ci è venuta pensando al consistente numero dei capi che abbiamo prelevato, alla loro comodità e al freddo di fine inverno che potrebbe rendere ancora utili indumenti caldi. “La dottoressa Bernardina Di Mario, direttrice della casa circondariale di Capanne - ha spiegato Ettore Salvatori volontario della Delegazione- si è subito attivata perché la consegna degli indumenti potesse avvenire in tempi molto brevi”. L’assistenza ai detenuti e alle detenute in carcere fa parte da sempre del carisma degli Ospitalieri di San Giovanni che anche in Umbria cercano di portare il loro contributo a coloro che si trovano in difficoltà. “Con questa consegna vogliamo essere vicini anche a chi sta vivendo il proprio percorso in carcere - ha spiegato il Delegato Giannoni - per creare una rete di solidarietà e di aiuto che è particolarmente importante in questo periodo difficile per tutti”. Campobasso. Storia di Jack, il cane meticcio che vive felicemente in prigione di Carla Ferrante Libero, 17 marzo 2021 Si chiama Jack, è un meticcio e da circa un anno vive in uno delle carceri più sicure d’Italia, nella Casa circondariale e di reclusione di Campobasso, in Molise. Jack è stato adottato come ultima volontà di un detenuto, malato terminale. L’uomo, collaboratore di giustizia, in attesa di valutazione da parte del magistrato competente, aveva espresso il desiderio di poter avere, nella sua cella, un amico fidato con cui condividere le giornate. La direttrice, Rosa la Ginestra, concede l’autorizzazione e Jack fa il suo ingresso in Via Cavour con tanto di microchip e libretto sanitario, e diventa presto il protagonista del carcere molisano, dove hanno “soggiornato” i più pericolosi boss della criminalità organizzata - da Cutolo a Schiavone e qualcuno dice anche Toto Riina. Il meticcio di taglia media non ha faticato molto ad ambientarsi. Da un box ristretto, umido e condiviso con altri cani, in questa nuova vita ha una cuccia calda e non deve neppure ringhiare per farsi rispettare. Ad ogni minimo segno di insofferenza detenuti e personale gli assicurano coccole, cibo, acqua fresca e l’aria aperta. Chissà cosa avrà pensato Jack in quel breve tragitto tra il canile e il carcere? Immaginava forse un prato verde, i bambini con la palla, un guinzaglio per le lunghe passeggiate, ma soprattutto provava ad annusare dai finestrini l’odore di libertà, che il suo nuovo proprietario voleva regalargli. Le giornate nella casa circondariale di Campobasso sono sì tutte uguali, ma per Jack sono lontane da quel canile e questo gli basta. Nonostante il luogo fosse angusto, lui si diverte a giocare con le pezze, con le ciabatte. Con il suo compagno era felice e ricevere carezze rassicuranti senza dover fare la guardia o riportare la pallina erano per lui il massimo. La sua coda scodinzolava e i suoi occhi sorridevano. Jack amava ascoltare, accucciato ai piedi del suo amico, i racconti di come sarebbe stata per entrambi, la vita una volta fuori dal carcere. Il suo abbaio di felicità si sentiva lontano, nell’ala più lontana del braccio. Le giornate scandite da regole ferree per Jack erano diventate un gioco. Era una vita normale per un piccolo pelosetto abituato al nulla. Lì, nel carcere, non doveva più aspettare che qualcuno gli aprisse la gabbia per farlo correre felice. Potrebbe sembrare strano, ma nel penitenziario, a Campobasso, “Jack è davvero felice, sembra abbia trovato la sua dimensione. Semmai non dovesse più trovarsi bene, gli troveremo di sicuro una sistemazione migliore. Mai più si apriranno per lui le porte di un canile”. A raccontarlo è il segretario del Spp, il sindacato di polizia penitenziaria, Aldo di Giacomo. La malattia del detenuto, però, progredisce in fretta e così viene trasferito. Ora è recluso nel carcere di Belluno. Qui non può però portare con sé Jack, che resta a Campobasso. La separazione tra i due è un fiume di commozione, si erano abituati l’uno all’altro, si fidavano, non c’erano segreti tra loro. Da circa un mese Jack condivide quindi la cella con altri detenuti, che si sono subito affezionati a lui. La direttrice ha provato a chiedere alla famiglia del proprietario di adottarlo, ma non vogliono. Jack non sembra scomporsi di fronte al rifiuto. La sua nuova vita continua in Via Cavour, tra quelle mura che ormai sono diventate la sua casa. Al canile, Jack preferisce, non c’è dubbio, i ritmi scanditi dal carcere e nessuno vuole più separarsene. Di notte continua ad abbaiare se sente rumori sospetti e di giorno gironzola indisturbato tra i corridoi e i cortili dell’istituto. Per molto tempo il carcere è stato off-limits agli animali e anche oggi non sempre è possibile accogliere le richieste dei detenuti. Diversi sono stati gli episodi di abuso e questo ha bloccato le iniziative e vari progetti. Ora però sembra stia diventando una realtà consolidata la possibilità di far incontrare alle persone recluse i propri quattro-zampe. Sono sempre più gli istituti di pena che consentono di concedere appositi permessi ai carcerati e quella di Jack ne è una testimonianza. Giornata Mondiale del Teatro. Da Acri uno spettacolo sperimentale in carcere vita.it, 17 marzo 2021 L’iniziativa si chiama “Rigenerazione. Nuove sperimentazioni teatrali dentro e fuori il carcere” nell’ambito del progetto “Per Aspera ad Astra” che coinvolge dieci fondazioni, 250 detenuti e 12 carceri italiane. Sarà possibile seguire l’evento in streaming venerdì 26 febbraio. Venerdì 26 marzo, alla vigilia della Giornata Mondiale del Teatro, Acri organizza l’evento “Rigenerazione. Nuove sperimentazioni teatrali dentro e fuori il carcere”. L’iniziativa rientra in “Per Aspera ad Astra”, progetto promosso da Acri e sostenuto da 10 Fondazioni associate, che da 3 anni coinvolge circa 250 detenuti, di 12 carceri italiane, in percorsi di formazione artistica e professionale nei mestieri del teatro. All’evento, che si terrà in diretta streaming, dalle ore 10,30 alle ore 12,30, con la conduzione di Andrea Delogu, interverranno i testimoni dell’iniziativa: Enrico Casale, Associazione culturale Scarti; Ibrahima Kandji, attore Compagnia della Fortezza; Micaela Casalboni, Teatro dell’Argine. A seguire, Francesco Profumo, presidente di Acri; Bernardo Petralia, Capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria; Aniello Arena, attore; Giorgia Cardaci, attrice, vicepresidente Associazione Unita - Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo. Concluderà il Ministro della Cultura, Dario Franceschini. Per l’occasione verrà proiettato il video di azione collettiva “Uscite dal mondo”, diretto da Armando Punzo, Compagnia della Fortezza, con la drammaturgia musicale di Andrea Salvadori e la partecipazione di: Ivana Trettel - Opera Liquida, Enrico Casale - Compagnia Scarti, Daniela Mangiacavallo - Associazione Baccanica, Franco Carapelle ed Elisabetta Baro - Teatro e Società, Micaela Casalboni - Teatro dell’Argine, Vittoria Corallo - Teatro Stabile dell’Umbria, Alessandro Mascia - Cada Die Teatro, Sandro Baldacci - Teatro Necessario, Marco Mucaria e Grazia Isoardi - Voci Erranti Onlus, Alessia Gennari - FormAttArt, Leonardo Tosini e Marco Mattiazzo - Teatro Stabile del Veneto. “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” è un progetto che, dal 2018, sta realizzando in 12 carceri italiane innovativi e duraturi percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro, che riguardano non solo attori e drammaturghi, ma anche scenografi, costumisti, truccatori, fonici, addetti alle luci, ecc. Coinvolge circa 250 detenuti, che hanno partecipato a più di 300 ore di formazione ciascuno. Il progetto, promosso da Acri e sostenuto da 10 Fondazioni di origine bancaria, è nato dall’esperienza ultra trentennale della Compagnia della Fortezza di Volterra, guidata dal drammaturgo e regista Armando Punzo che, nel corso della sua lunga attività, ha costruito un patrimonio consolidato di buone pratiche, e che ora si estende in altre carceri d’Italia. Ad alimentare e rendere fattibile questo progetto c’è un’inedita comunità, composta da diversi soggetti, coinvolti ciascuno con ruoli diversi: Fondazioni di origine bancaria, compagnie teatrali che curano la formazione, direttori e personale degli istituti di pena, detenuti. Per Aspera ad Astra ha, infatti, dato vita a una rete nazionale di compagnie teatrali che operano nelle carceri e che condividono l’approccio e la metodologia di intervento. L’esperienza condivisa testimonia come sia possibile lavorare nelle carceri mettendo al centro l’arte e la cultura, lasciando che essa possa esprimersi a pieno e compiere una rigenerazione degli individui, che possa quindi favorire il riscatto personale e avviare percorsi per il pieno reinserimento del detenuto nel mondo esterno. Altro obiettivo di questo tipo di intervento è che esso possa contribuire alla riflessione sulla piena applicazione dell’art. 27 della Costituzione italiana, innescando un processo di ripensamento del carcere, delle sue funzioni e del rapporto tra il personale che vi opera e le persone detenute. Neanche la pandemia ha interrotto l’esperienza: le limitazioni alle attività imposte dalle misure di contenimento della diffusione del contagio hanno spronato le compagnie partecipanti ad attivare formule alternative per proseguire le attività. Le lezioni si sono trasferite in modalità telematica: i detenuti, in piccoli gruppi, si collegano in videochat, i docenti utilizzano diversi supporti multimediali per sopperire alla lontananza. Insieme alla formazione, i partecipanti stanno lavorando alla redazione di un testo drammaturgico, attraverso scambi epistolari che stanno innescando veri processi creativi condividendo testi, immagini bozzetti, ipotesi di scenografie. Per partecipare all’evento è richiesta la registrazione, entro il 23 marzo, a questo link: acri.it/peraspera21 (per informazioni 0668184.286/330 area.comunicazione@acri.it) La sfida rischio-sicurezza fa del caso vaccini un dilemma di Antonio Polito Corriere della Sera, 17 marzo 2021 Ogni volta che il pericolo è letale e imminente, una comunità sa che combattere comporta pericoli, che vanno ridotti al minimo ma devono essere accettati. “L’inglese ama immaginarsi sul mare, il tedesco in una foresta”, diceva Elias Canetti. Dunque il primo sa che il rischio è la sola via al successo, il secondo cerca innanzitutto la sicurezza, e le subordina tutto il resto. Le due polarità europee sono davanti ai nostri occhi in queste ore. La Gran Bretagna ha scelto un approccio utilitaristico al tema dei vaccini, fondato sul calcolo costi-benefici; la Germania ha sospeso la distribuzione di AstraZeneca, sulla base del principio di precauzione. Nel mondo anglosassone, di solito, un comportamento è consentito fino a che non sia stato provato che è dannoso; sul continente è vietato finché non sia stato provato che non fa danni. Sul piano dell’etica è estremamente difficile, se non impossibile, assegnare torti e ragioni, scegliere la cosa giusta, quando si tratta della vita umana, anche di una sola vita umana. Tra chi dice che bisogna agire contro la pandemia “a ogni costo” e chi pretende che l’intervento sia “a nessun costo” ci deve per forza essere una via di mezzo. Oggi parliamo del rischio (eventuale e non provato) che poche persone abbiano ricevuto un danno da un vaccino che evidentemente arreca un vantaggio a milioni di essere umani. Ma è un dilemma che in altri termini si propone quotidianamente nelle nostre società. Pensiamo agli incidenti stradali. Nessuno proporrebbe di fermare il traffico autostradale a causa delle vittime. Allo stesso tempo nessuno negherebbe la necessità di rivedere le condizioni di sicurezza di un tratto di strada dove si ripetano degli incidenti. Un mero calcolo costi-benefici può portare a conclusioni crudeli, come nei protocolli sanitari che all’inizio della pandemia stabilivano a chi fornire le cure ospedaliere in condizioni di emergenza, quando non c’erano abbastanza letti di rianimazione per tutti. Ma ogni volta che il pericolo è letale e imminente, e si agisce in stato di necessità, una comunità sa che combattere comporta rischi, che vanno ridotti al minimo, certo, ma accettati. Quando gli scienziati ci dicevano che la campagna vaccinale contro il coronavirus sarebbe stata una “prima volta” nella storia dell’umanità, non abbiamo prestato loro abbastanza attenzione. Stiamo facendo un esperimento su una scala e con modalità mai viste, grazie a vaccini scoperti e prodotti con una rapidità mai conosciuta. Siamo più fortunati degli esseri umani di tutte le epoche precedenti. Ma era perciò scontato che intoppi, ritardi e problemi sarebbero insorti. Guai a quei Paesi che sono partiti più tardi nel valutarli, noi tra loro. Nei confronti della scienza oscilliamo tra lo scetticismo e il fideismo. La ricerca è il progresso, soprattutto in medicina; ma non può produrre verità assolute, valide per sempre, bensì “solo” leggi probabilistiche, basate sul metodo sperimentale del “trial and error”, tentativi ed errori. Quello scientifico è un sapere fondato su un processo continuo e ininterrotto di verifica, mai accertato una volta per tutte. Che fare dunque, noi italiani, sospesi tra il mare e la foresta, tra il bisogno di rischiare e la voglia di sicurezza? Non credo che se ne esca impostando il problema su base etica. Personalmente invidio, e anche un po’ temo, i tanti che in queste ore mostrano di sapere con assoluta sicurezza, molto spesso senza presentare dati, quale sia la cosa giusta. Noto solo che proprio per risolvere questi dilemmi apparentemente irrisolvibili esiste la politica democratica, che decide nell’interesse comune, sulla base di un dibattito informato, e sotto il velo dell’imparzialità. È purtroppo evidente che questo sistema non sta funzionando bene nell’ambito europeo. Lo dimostra il fatto che la scelta di sospendere il vaccino AstraZeneca sia stata fatta dai governi, riportata dentro i confini nazionali; che i consessi tecnocratici, come la Commissione o l’Ente regolatore, cui in tempi normali si delega l’iniziativa e il controllo, siano stati smentiti e scavalcati dalle decisioni di Berlino e Parigi, cui inevitabilmente si sono uniformati gli altri Paesi. Ciò solleva dubbi anche sull’imparzialità delle decisioni, che potrebbero essere condizionate sia dal clima politico (in Germania siamo in piena stagione elettorale), sia da interessi commerciali (concorrenti di AstraZeneca sono in Germania in Francia). Allo stesso tempo sono mancate le condizioni per un dibattito informato, perché la trasparenza, la rapidità nel fornire i dati, anche quelli sulle reazioni avverse, la prontezza nello spiegare all’opinione pubblica con onestà che cosa sta accadendo, non si sono davvero dimostrate sufficienti a creare un clima di fiducia tra cittadini e autorità. Senza il quale, è bene dirlo, si danneggia proprio la campagna vaccinale. Ogni volta che lo Stato, come è nel caso dei trattamenti sanitari, non ha a disposizione il potere coercitivo, non può raggiungere i propri fini se non con gli strumenti della credibilità, della comunicazione e della persuasione. L’informazione né libera, né vaccinata, né rivoluzionaria di Vincenzo Vita Il Manifesto, 17 marzo 2021 Il virus sta mettendo a nudo i vecchi peccati della comunicazione, esacerbandoli e svelandone così le aporie. Vaccino sì, vaccino no: canterebbero Elio e le Storie Tese. Purtroppo, l’informazione italiana - con le debite, ma poche eccezioni - sembra piegata, china davanti al potere reale che cerca di destreggiarsi dentro la trama del Covid-19. Anzi. Proprio mentre emergono tutte le crepe nella gestione della vicenda, a partire dalla ritirata europea di fronte alle case farmaceutiche e ai loro brevetti, sarebbe indispensabile avere almeno la garanzia di sapere e di approfondire. Se facciamo eccezione per programmi coraggiosi come Report o Presa diretta, e non molto di più, siamo sommersi da un’ondata di news spesso subalterna alle ondivaghe e contraddittorie scelte dei decisori. Ottimisti e pessimisti ad ore alterne, in particolare i telegiornali si stanno segnalando per dosi di insopportabile piaggeria. Simile tendenza, sempre immanente nel sistema mediale, con l’avvento della presidenza del consiglio di Mario Draghi ha raggiunto la sua epifania. I dati forniti dall’osservatorio tg Eurispes-CoRiS Sapienza sulle edizioni dall’8 al 12 marzo scorsi ci dicono che la cronaca del contagio ha conquistato ben 32 aperture. Eppure, eravamo a ridosso dell’importante viaggio in Iraq del Papa di Roma e delle discussioni sul nuovo segretario del partito democratico. L’annuncio del ritiro di un lotto del vaccino AstraZeneca, ovviamente, ha cannibalizzato i titoli di Tg3, Tg4, Tg5, Tg La7, per diventare il leitmotiv delle ultime ore. Alla prevedibile quantità del minutaggio non corrisponde un’adeguata qualità. L’omologazione cresce sovrana e il doveroso atteggiamento di un avvertito watchdog journalism pare svanire. I numerosi invitati dei talk parlano in tanti casi senza un vero contraddittorio, rilasciando di volta in volta dichiarazioni rassicuranti o di cupo fatalismo. E, proprio a proposito della storia di AstraZeneca, non si può che concordare con l’analisi critica svolta da Franco Bechis, direttore di un quotidiano pur assai lontano politicamente come Il Tempo. La richiesta di precisione e di trasparenza nella divulgazione delle notizie è giusta e condivisibile. Un caso di scuola amaro, eccentrico persino nell’ambiente buonista e accomodante di Fabio Fazio, è quello della puntata di domenica 14 marzo di Che tempo che fa. Le interviste-chiacchierate con il generale-commissario straordinario Figliuolo e il virologo Burioni (ospite abituale) sembravano delle elegie, dei peana con il sottotesto del supereroe Draghi. Già. L’informazione è a sovranità limitata. Ci sono fili invisibili e taciturni che non si possono toccare. Basti pensare alla differenza abnorme con la critica costante e talvolta del tutto strumentale rispetto al governo Conte bis e alle sue azioni. In verità, al di là della propaganda da regime, che c’è di nuovo davvero nella gestione della pandemia o nel piano vaccinale? Insomma, il virus sta mettendo a nudo i vecchi peccati della comunicazione, esacerbandoli e svelandone così le aporie. Purtroppo, però, non se ne discute. Come se un passa parola capillare avesse caldamente invitato ad abbassare lo sguardo e a limitare ogni velleità critica. Eppure, l’urgenza di rendere consapevoli le persone dovrebbe prevalere sulla comoda tentazione di trasformare cittadine e cittadini in meri sudditi. Manipolabili a piacere. Perché le istituzioni preposte, dalla commissione parlamentare di vigilanza all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni non pensano ad uno specifico indirizzo sul racconto della pandemia, per riaffermare i punti essenziali della correttezza e dell’equilibrio nel fornire le informazioni? Il pluralismo non è solo la sua versione politica. Il tema assume, poi, un valore cruciale, che non attiene semplicemente alla correttezza deontologica. In verità, il corpo ancora prevalente dell’universo dei media avrebbe l’obbligo di fare fronte comune contro la dilagante patologia delle fake news, che sta invadendo le architetture a maglie larghissime dei social. La dialettica tra vero e falso diventa un obbligo civile, necessario per tutelare democrazia e civiltà. E non è neppure sufficiente ancorarsi al pressapochismo o al verosimile. La verità, per una volta, è assolutamente rivoluzionaria. Anche senza rivoluzione. Covid: le famiglie lasciate da sole nel vuoto con i figli di Silvia Avallone Corriere della Sera, 17 marzo 2021 Mentre lo mancavamo di una decina di centimetri, io mi promettevo in silenzio che non avrei più permesso a mia figlia di vivere un’esperienza simile: non poter giocare all’aperto, non poter vedere altri bambini, non poter andare a scuola. Non l’ho mantenuta. Sono tornata a svegliarmi all’alba per poter scrivere qualche pagina. Poi mia figlia si sveglia, e mio marito e io cominciamo a fronteggiare il lungo giorno. Non è affatto come l’anno scorso: anche in zona rossa si lavora. Il mondo non si è fermato di nuovo: si sono fermate le scuole, per l’ennesima volta. Cominciamo con il puzzle dei francobolli da 1.000 pezzi. Proseguiamo con il gioco dell’oca. Nel frattempo i telefoni squillano, le mail arrivano, mio marito deve uscire. Mia figlia scoppia a piangere: Perché papà va al lavoro e io non vado a scuola? Mi sento impotente, in una misura che mi sovrasta. Come posso riuscire, da sola, tra le mura di una casa deserta, senza mondo, a far crescere mia figlia? - L’Italia ha sempre dato un ruolo troppo vasto alla famiglia, come se questa potesse sostituirsi alla scuola, alle amicizie, alla cultura, alla società intera, come se contenesse un orizzonte a cui tendere. Ma è vero il contrario: una famiglia è solo l’inizio di una storia, e nessun figlio, nessun genitore, può vivere la propria e diventare se stesso senza allontanarsene. “Mamma, perché papà va al lavoro e io non vado a scuola? - La mattina trascorre rinunciando: faccio saltare impegni o li schivo. Se una telefonata è troppo urgente, accendo la televisione e dico a mia figlia di guardarla. Ieri, nella chat dei genitori, una madre ha scritto che, a causa di una serie di riunioni su Zoom, ha dovuto sistemare il bambino davanti ai cartoni animati per 5 ore e si è sentita uno schifo. “Che alternative avevo?” ha chiesto disperata. Qualche giorno prima il video di Davide Conte, assessore del Comune di Bologna interrotto più volte dal figlio durante una seduta comunale, è diventato virale. Qualcuno lo ha definito divertente. Altri hanno consigliato, di nuovo, di ricorrere alla tv per tenerlo buono. Ma i bambini non vanno sedati: vanno aiutati a fiorire. Tutto ciò che capita loro durante l’età evolutiva ha un impatto indelebile sulla geografia delle cognizioni, dell’emotività e dell’affetto. La pandemia dura da un anno e i bambini e gli adolescenti sono stati l’ultimo argomento. Non parlo solo di scuola e di istruzione, ma anche del loro diritto a essere quello che sono: non adulti, non autonomi. Con necessità specifiche: crescere sani nell’anima e nel corpo, con relazioni e stimoli, luce e spazio. Il rischio è che quando lo diventeranno sul serio, adulti, il vuoto di esperienza, di cultura, di affettività che si porteranno dentro sarà insormontabile. E non si tratta di un problema individuale, ma collettivo. “A casa finiscono per rimanere le madri. Vedere i propri bambini annichiliti genera un senso di colpa insostenibile” - L’ipoteca della pandemia sul futuro si decide oggi. Annientare bambini e adolescenti davanti agli schermi, chiusi tra quattro pareti, perché il mondo degli adulti deve riuscire a barcamenarsi in ufficio, in fabbrica, nelle riunioni su Zoom è un’ingiustizia senza senso. Il mondo degli adulti non sta affatto procedendo in avanti. Sta tornando indietro: lavorando senza preoccuparsi delle persone a cui lascerà il testimone, senza costruire un sistema alternativo che ci metta al riparo da nuove ondate, accrescendo a dismisura le diseguaglianze tra chi ha mezzi e wi-fi e chi non li ha. Non in ultimo, sta ribadendo che quella famiglia a cui riconosce un ruolo così vasto, che tanto magnifica a parole, in fondo coincide con un unico membro lasciato solo: a casa, a prendersi cura dei figli, devono rimanere le madri. Che possono “scegliere” se continuare a lavorare in presenza, senza sapere a chi lasciare i figli, o in smartworking al prezzo di riunioni interrotte di continuo, oppure abdicare a loro stesse. Perché vedere i propri bambini annichiliti genera un senso di colpa insostenibile. E perché, concretamente, non ci sono alternative. Però i figli non appartengono ai genitori. Sono cittadini, hanno nomi e cognomi: se non votano, non protestano, non producono ricchezza oggi, è perché devono imparare a farlo domani. Sono il motivo per cui una società progetta e cerca di migliorarsi. “È inutile arrabattarsi nell’economia del presente. È l’istruzione l’economia di domani. Serve un orizzonte” - Nel dramma totale di questa pandemia, è urgente un piano che riguardi i bambini e gli adolescenti. Dopo più di un anno, è inutile arrabattarsi nell’economia del presente come in un vicolo cieco: è la scuola l’economia del domani. Cosa siamo senza un orizzonte? Lo chiamano inverno demografico: la rinuncia a mettere al mondo dei figli. È diventato impossibile progettare un viaggio, un calendario che vada oltre la settimana, oltre la sopravvivenza. Pianificare e immaginare una nuova vita sarebbe una follia, no? In questa quasi primavera, insolitamente assolata come lo fu quella del 2020, vedo chiaramente nel deserto delle strade là fuori il perché di questo inverno: non si sentono le voci dei bambini. Non sono previste le loro corse, non è loro consentito abitare a cielo aperto. Osservo anziani che portano a spasso il cane, signori che fanno jogging. È come se i bambini fossero stati tutti ricacciati indietro, nelle placente delle loro stanze, nel ronzio monotono delle connessioni. È come se fosse stato loro precluso il venire al mondo. La vita si differenzia dalla sopravvivenza perché contiene un sogno. L’intelligenza di guardare oltre l’immediatezza e costruire un cammino in cui realizzarsi: non solo per se stessi, ma per continuare e cambiare negli altri. E, in questo modo, non morire mai. Il posto delle fragole di Silvia Nucini Vanity Fair, 17 marzo 2021 Da 30 anni Lucia Pompigna si batte per sottrarre il lavoro nei campi al giogo del caporalato. E ha capito che la soluzione non sta nelle leggi, ma nel coraggio. E nelle reti lunghissime che possono unire la gente perbene. C’è un’idea di giustizia che, come una corda tesa, attraversa la vita di Lucia Pompigna e che le tiene la testa alta e le gambe dritte. Lucia è una bracciante, da 30 anni “va in campagna”, come si dice dove vive lei, a San Marzano, in provincia di Taranto, dove è cresciuta anche sua madre: una contadina che la sognava sarta e invece si è ritrovata per casa una ragioniera piena di ambizioni. Il lavoro lo aveva trovato subito, proprio nella piccola azienda che vedeva ogni giorno andando a scuola, ma presto si era accorta che, di quel posto, lei conosceva bene soltanto la facciata. “Dentro assistevo a una quotidiana commistione tra intrigo, politica e malaffare. Quando ho visto il titolare vendere finte azioni a persone che gli consegnavano i risparmi di una vita di lavoro, mi sono licenziata”. Intanto Lucia si sposa, ha il primo figlio, Andrea, e si trasferisce a Taranto di cui non ricorda il mare ma solo i muri dei palazzi. Per ritrovare un po’ di natura compra così tante piante che suo marito ha paura che i balconi possano crollare sotto il peso di quella nostalgia. “Gli dissi: voglio fare qualcosa, contribuire alla nostra vita, fosse anche andare a giornata nei campi. Sapevo che quel lavoro era gestito dai caporali, ma avevo anche già frequentato l’ambiente sindacale. Non avevo paura, non l’ho mai avuta”. Che cosa ha raccolto la prima volta? “Albicocche. C’erano alberi alti, scale di ferro pesantissime. Mi svegliavo prima delle 4: viaggiavo per chilometri sui pullman del caporale. Ogni giorno finivo in un’azienda diversa: albicocche, fragole, acinellatura dell’uva da tavola, per dare ai grappoli un aspetto più armonioso. Cinquantacinque giorni così. Nemmeno la paga minima sindacale. Quella, che adesso è 45 euro per 6 ore e mezzo di lavoro, l’ho presa solo l’anno scorso: ci ho messo 30 anni ad averla”. Ha avuto problemi per il fatto di essere istruita, sindacalizzata? “All’inizio ero l’unica che non parlava in dialetto, faceva delle domande, aveva un diploma. Negli anni, poi, sono venuti a fare la raccolta anche i laureati. Ho saputo sempre farmi rispettare e non ho avuto problemi. L’unica volta che ho avuto paura è stata quando un caporale ha fatto in modo di rimanere in macchina con me e ha imboccato una viuzza di campagna. “Dove vai?”, ho chiesto gelida. Lui ha detto di avere sbagliato strada: non è successo niente, ma ci ho messo anni a raccontarlo”. Non le pesava lavorare sotto il caporalato? “Quando ho visto che anche in campagna non si rispettavano i diritti e c’erano situazioni strane, mi sono detta: stavolta non vado via. Rimango, ma non subisco. Infatti l’anno dopo, grazie al sindacato, abbiamo organizzato noi le squadre, garantito le assunzioni, preso i pullman: la gente saliva e sapeva a quali aziende era destinata. Tante donne che prima non potevano lavorare coi caporali perché padri e mariti vedevano male la cosa, con la nostra autogestione hanno cominciato a farlo e ad avere una loro piccola indipendenza economica. Avevamo costruito una realtà pulita e luminosa che è durata 9 anni, fino al 2000”. Sono tante le donne braccianti? “Più degli uomini e sono molto deboli perché per lo più sono separate, ragazze madri, vedove o donne i cui mariti hanno perso il lavoro, i cui figli studiano lontano e hanno bisogno di essere aiutati. Su di loro ricade il peso di mantenere loro stesse, o la famiglia. Accettare e subire è quasi automatico. A me dicono: ti permetti di fare e dire perché tanto tuo marito lavora. Può darsi che abbiano ragione, io ho le spalle coperte e posso mandare a quel paese. Anche se io credo che, per carattere, sarei così lo stesso”. Dopo la fine dell’esperienza di autogestione è tornata a lavorare sotto i caporali? “Sì, e per me è stata una grande sconfitta. Perché quel ritorno significava che loro erano forti e io debole. Ma intanto ho continuato a lottare e denunciare, e la situazione dei braccianti della zona è comunque migliorata. Adesso, per esempio, si può scegliere di essere destinati in squadre che non fanno gli straordinari. Quando esci di casa alle 3.30 del mattino, lavori le 7 ore regolari e in più ti toccano gli straordinari torni a casa che non riesci nemmeno a parlare. Figuriamoci occuparti della famiglia e dei figli. Finisce che vivi per lavorare. Io non voglio essere un attrezzo di lavoro che viene preso, usato e riposto. Io sono una persona”. Che impatto ha avuto questo tipo di lavoro sulla sua vita? “Ho lasciato il mio secondo figlio con mia madre quando aveva 5 mesi. Uscivo nel cuore della notte e mi sentivo male. Quando tornavo a casa mi facevo una doccia e mi sdraiavo nel letto con lui, cercando di riposarmi e di allattarlo. In quei mesi raccoglievo fragole e se ci ripenso sento il loro odore. Non mi sono ancora perdonata di non esserci stata quando ha fatto i primi passi o ha tolto le rotelline alla bici”. Nel 2016 è stata approvata la legge 199 per contrastare il caporalato. Che cosa è cambiato? “Aspettavo quella legge come una manna, perché introduce per la prima volta la responsabilità dell’azienda che si avvale dei caporali, ma la verità è che non è cambiato nulla. Pochissimi braccianti hanno sporto denuncia e l’hanno fatta applicare, soprattutto immigrati, va detto. Se non c’è consapevolezza in chi lavora, anche le migliori leggi del mondo sono lettera morta”. Continua ad andare nei campi? “Quattro anni fa avevo smesso perché mi sembrava di portare avanti una lotta solitaria e controcorrente. E che la vita di noi braccianti non avesse nessun valore. Poi ho ricevuto la chiamata di Yvan Sagnet che mi ha parlato dell’associazione internazionale NoCap che mira a costruire filiere etiche dall’azienda ortofrutticola alla grande e piccola distribuzione. Ho aderito subito: adesso con la mia squadra stiamo lavorando in una piccola azienda che produce arance bio, siamo lavoratori italiani e stranieri; il lavoro può anche essere un meraviglioso strumento di integrazione”. Migranti. Dopo 4 anni si torna a parlare di riforma della cittadinanza openmigration.org, 17 marzo 2021 L’intervento del nuovo segretario del Pd Letta, con cui si è dichiarato pronto a rilanciare la discussione sullo ius soli, ha fatto sì che dopo anni di stallo politico si sia tornato a discutere di riforma della cittadinanza. 1. Cittadinanza, si torna a parlare di ius soli. “Io sarei molto felice se il governo di Mario Draghi, tutti insieme, senza polemiche, fosse quello in cui dar vita alla normativa dello Ius Soli che voglio qui rilanciare”, sono bastate queste parole del nuovo segretario del PD, Enrico Letta, all’Assemblea nazionale del suo partito, per far tornare il tema al centro del dibattito politico. Le reazioni delle forze politiche di centrodestra che sostiene il governo Draghi - come racconta Giuseppe Manzo per il giornale radio sociale - sono state veementi. Per Salvini “solo un marziano, solo uno che arriva da Parigi o da Marte, si occupa di regalare cittadinanza agli immigrati”. “Non so se è più ridicolo o più offensivo per milioni di cittadini italiani in difficoltà sentir parlare di Ius soli, in questo momento ci sono ben altre difficoltà”, ha detto il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida. “Un’uscita infelice e irresponsabile”. Per il presidente del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga “lo ius soli non è un tema all’ordine del giorno, io sono profondamente contrario”. Ma è davvero un tema trascurabile? Come raccontavamo in questo articolo di Serena Chiodo, per oltre 1 milione di persone nate nel nostro paese, o arrivate da piccole, aver frequentato in Italia dall’asilo fino all’università non basta e sono considerate dallo Stato straniere. L’assenza di una legge sullo ius soli “è una ferita che non riguarda soltanto le seconde generazioni, ma è un vulnus di civiltà che rende più debole e povero il Paese”, scrivono gli autori di una pubblicazione sul tema uscita in questi giorni e edita da Cild: “I profili di illegittimità costituzionale della legge sulla cittadinanza”. La totale assenza di una normativa su ius soli e ius culturae - continuano gli autori - è prettamente italiana, così come l’abnormità e l’irragionevolezza di tempistiche così lunghe. In attesa di capire se sul tema deciderà il Parlamento o se per l’ennesima volta la discussione resterà sulle pagine dei giornali, la cittadinanza resta un tema di diritti negati. Un tema in cui anche i dati giocano un ruolo fondamentale: se infatti è vero che l’Italia è la seconda in Ue per numero di cittadinanze concesse, ciò è dovuto al fatto che fino a pochi anni fa l’Italia non l’ha concessa quasi a nessuno, mentre uno straniero residente in Italia prima di poter chiedere la cittadinanza italiana deve attendere anche 20 anni. 2. I porti sono ancora chiusi? Il Ministro degli Interni Lamorgese ha fermato più navi delle Ong con migranti a bordo rispetto al suo predecessore Salvini. “Stando ai dati del ricercatore Matteo Villa dell’Ispi, durante la permanenza al Viminale della ministra nel governo Conte 2, si è arrivati al blocco contemporaneo di sette battelli delle Organizzazioni non governative tra il 9 ottobre e il 21 dicembre 2020 (Jugend Rettet, Sea Watch3, Sea Watch4, Eleonore, Alan Kurdi, Ocean Viking e Louise Michel); mentre nell’estate 2019, periodo di massimo attivismo in materia del leader leghista all’Interno, non si è mai andati oltre le quattro navi Ong ferme.” racconta Goffredo Buccini sul Corriere della Sera, utilizzando i dati del ricercatore Ispi Matteo Villa. La ministra ha però preferito il fermo amministrativo al sequestro: meno mediatico, più efficace. Come spiega il Corriere, “fino a settembre 2019 (data di nascita del Conte 2 con l’avvicendamento tra Salvini e Lamorgese) contro le navi umanitarie si usava il sequestro penale, derivante dall’imputazione di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (vigente il decreto Sicurezza 2). Dalla primavera 2020 in poi questa misura viene sostituita dal fermo amministrativo della nave”. “È come se si passasse da una repressione politico-giudiziaria con Salvini a una dissuasione burocratica più serrata con Lamorgese”. 3. Le Ong sono ancora sotto attacco (ma continuano a salvare vite) - “A Sascha Girke la notizia arriva sul ponte della Sea-Watch 3, poco dopo la fine dei soccorsi di 363 migranti: le indagini su di lui e altre 20 persone impegnate nel Mediterraneo tra il 2016 e il 2017 con le Ong Jugend Rettet, Medici Senza Frontiere e Save The Children si sono chiuse il 3 marzo. È accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in concorso e rischia fino a 20 anni di carcere. Probabile il rinvio a giudizio. Girke è un paramedico, nato in Germania 42 anni fa. Negli ultimi cinque ha partecipato a molte missioni umanitarie. “Vogliono farci fuori, ma non ci faremo intimidire”, racconta a Giansandro Merli che lo intervista per il Manifesto. Se la lotta al soccorso ha vissuto il suo apice mediatico durante il primo governo Conte, per Michela Murgia il governo Draghi ci sta offrendo indizi di nuova spietatezza politica: “l segnale della valanga imminente non è però caduto in mare, ma a terra, e precisamente sulla testa di un uomo anziano di Trieste, Gian Andrea Franchi, e di sua moglie Lorena Fornasir. I due, 84 anni lui e 67 lei, sono noti da anni nel mondo del soccorso umanitario per essere i samaritani che prestano aiuto ai migranti che arrivano dal confine sloveno dopo essere sopravvissuti alla via gelida della rotta di terra. I due vecchi avrebbero la colpa di aver ospitato “a scopo di lucro” per una notte una famiglia iraniana con due bambini. Come è già accaduto ogni volta che la loro associazione negli anni si è vista rivolgere dalla procura la stessa accusa, è facile prevedere che anche stavolta non ci sarà niente da rimandare a giudizio, ma non è questo il punto. C’è una nuova spietatezza politica nell’aria e qualcuno spera forse che l’emergenza pandemica ci distragga dal vederla”. 4. 10 anni fa iniziava la guerra in Siria - A 10 anni dall’inizio della crisi in Siria, milioni di rifugiati affrontano difficoltà senza precedenti a causa della crescente povertà, della mancanza di opportunità e dell’impatto del Covid-19. Tra loro una intera generazione di bambini il cui futuro, come scrive Andrea Iacomini sull’Huffington Post, è appeso a un filo: “Secondo dati verificati - tra il 2011 e il 2020 - circa 12.000 bambini sono stati uccisi o feriti. In 10 anni di conflitto più di 5.700 bambini - alcuni anche di 7 anni - sono stati reclutati nei combattimenti e oltre 1.300 strutture sanitarie e scolastiche e relativo personale sono stati attaccati. Oggi, 6 milioni di bambini in Siria e 2,5 milioni di bambini che vivono come rifugiati nei paesi vicini hanno bisogno di assistenza umanitaria. Questi bambini sono segnati da stress psicofisico perché esposti continuamente a violenza, shock e traumi”. 5. E cinque anni dall’accordo tra UE e Turchia - Il 18 marzo sarà anche il quinto anniversario dell’accordo Ue-Turchia in materia d’immigrazione. Cinque anni di politiche fallimentari che hanno costretto decine di migliaia di persone a vivere in condizioni disumane sulle isole greche (ve lo raccontiamo qui) e hanno messo in pericolo i rifugiati, costringendoli a stare in Turchia. Mentre ministri dell’Interno e degli Esteri dell’Ue si preparano a discutere sull’ulteriore ampliamento della cooperazione in tema di migrazioni con paesi esterni all’Unione è dura la presa di posizione di Amnesty International. Eve Geddie, direttrice dell’Ufficio di Amnesty International presso le Istituzioni europee ha dichiarato: “L’accordo Ue-Turchia è stato un misero fallimento. L’Ue e gli stati membri non sono riusciti a farsi carico delle persone in cerca di salvezza in Europa. Non sono riusciti a rispettare i diritti di rifugiati e migranti e non sono riusciti a offrire alle persone in cerca di protezione un percorso alternativo sicuro per raggiungere l’Europa. I ministri devono dare priorità a soluzioni fattibili che potrebbero salvare vite umane. Le scandalose politiche come l’accordo Ue-Turchia e la sciagurata cooperazione dell’Ue con la Libia non può rappresentare un modello da seguire per accordi futuri con altri paesi in materia d’immigrazione”. 6. Carceri: l’aggravante di essere straniero - “A dare un’occhiata dentro le carceri italiane si ha l’impressione che sia passata un’intera era geologica da quando “l’identità nazionale rumena veniva considerata un’aggravante”, per usare le parole di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. […] “Mentre la popolazione carceraria è aumentata - ha spiegato ieri Gonnella - negli ultimi anni la componente rumena è diminuita di un terzo, passando da quasi 3 mila del 2009 a circa 2 mila del febbraio 2021”. L’integrazione ha viaggiato più velocemente del populismo penale”. Su il Manifesto Eleonora Martini analizza i dati del XVII rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione dal titolo “Oltre il virus”. Dati interessanti per fugare dubbi relativi alla sicurezza, ma anche per proteggere i diritti di tutti: “Se nell’ultimo anno la popolazione carceraria è diminuita del 12,3% (53.697 detenuti attuali) - continua l’articolo - il numero di stranieri detenuti rimane invece stabile al 32,5%. Succede però che “il 16,1% degli stranieri si trova in carcere con una condanna non ancora definitiva”, mentre “gli italiani nella stessa condizione sono il 14,7%”. E che i detenuti stranieri, “confinati” in massa in Sardegna, finiscano per scontare l’intera pena in carcere, usufruendo delle pene alternative molto meno degli italiani. Senza parlare del fatto che dei 67 mediatori culturali previsti in pianta organica, in servizio in tutta Italia ce ne sono solo 3 (tre)”. 7. Accoglienza: ecco i “danni” prodotti dal Decreto Salvini - “Ora c’è la controprova. I cosiddetti Decreti sicurezza del primo governo Conte hanno penalizzato l’integrazione, colpito i modelli di accoglienza virtuosi, scaraventato nell’irregolarità decine di migliaia di richiedenti asilo. Nel 2019 infatti sono stati oltre 46 mila i posti cancellati nel circuito dell’accoglienza. Di questi, 15 mila nelle strutture piccole diffuse sul territorio. Se nel 2018 più di un terzo dei comuni ospitava centri, l’anno dopo la percentuale era calata a meno di un quarto. Il taglio della quota per ospite, poi, da 35 a 27 euro, ha ridotto l’investimento sull’integrazione, a partire dalla lingua. È il quadro che emerge dal rapporto Una mappa dell’accoglienza - Centri d’Italia 2021, realizzato da Openpolis e ActionAid”. Grecia. La denuncia: “Botte e torture nel carcere di Atene” di Dimitri Deliolanes Il Manifesto, 17 marzo 2021 All’ora di pranzo un laconico comunicato della polizia smentiva la testimonianza ma la sua credibilità inciampava sul fatto che sbagliava perfino il nome del denunciante. “Stupreremo anche il tuo cucciolo, mi gridavano mentre mi pestavano a manganellate, calci e pugni nel seminterrato della questura di Atene”. Un pestaggio senza fine, interrotto solo per trasferire la vittima, legata con le mani dietro la schiena e incappucciata, in un piano alto per mostrargli la finestra: “Se vuoi dare fine al tuo calvario, nessuno ti fermerà. Tanto tra pochi giorni andrai in galera per tentato omicidio”. E poi subito altre botte, chiedendo nomi e informazioni, con la vittima stesa sul pavimento, sempre legata e incappucciata. Il pestaggio è stato interrotto solo a tarda notte per rinchiudere la vittima in cella dove ha incontrato un amico e compagno, anche lui pesto. I due detenuti sono rimasti là due giorni in pieno isolamento senza toilette e senza acqua. Per fortuna qualche bottiglietta sono riusciti a passargliela altri manifestanti detenuti nelle celle vicine. La prima del giornale Efimerida ton Syntakton - Nessuna comunicazione permessa, né con la famiglia né con l’avvocato. La madre del torturato aveva telefonato in questura, ma i poliziotti mentirono, dicendo che non ne sapevano nulla. È il racconto fatto al quotidiano ateniese Efimerida ton Syntakton da Aris Papazacharoudakis, 21 anni, militante del collettivo anarchico Masowka di Nea Smyrni. Proprio nei pressi della sede del collettivo la settimana scorsa Aris è stato rapito dai poliziotti. Era il giorno dopo la grandiosa manifestazione con cui Nea Smyrini ha protestato con forza contro la brutalità poliziesca. Un rapimento in pieno stile sudamericano: incappucciato per strada, ammanettato e gettato dentro una macchina senza targa. L’imputazione sarà comunicata solo alla fine del suo martirio in questura, quando, pesto in ogni parte del corpo, comparve di fronte al pubblico ministero. La quale lo ha lasciato libero senza mostrare particolare interesse per le sue condizioni. Il suo compagno invece è stato condotto in carcere, in base a “indizi” derivanti dalle registrazioni delle telefonate. Registrazioni effettuate senza mandato, così come nessun magistrato ha mai autorizzato la schedatura dell’attività politica dei due giovani. Ieri Efimerida ton Syntakton ha pubblicato la sconvolgente testimonianza di Aris in prima pagina. All’ora di pranzo un laconico comunicato della polizia smentiva la testimonianza ma la sua credibilità inciampava sul fatto che sbagliava perfino il nome del denunciante. Aris non è il primo a denunciare torture e maltrattamenti nelle mani della polizia. Il 7 marzo, la sera stessa della manifestazione a Nea Smyrni, la diciottenne Efi è caduta nelle mani dei poliziotti che non hanno mai smesso di picchiarla, di palpeggiarla e di minacciarla di stupro. Il pestaggio e le minacce sono continuate fino a domenica, quando è stata liberata con obbligo di dimora e con pesantissime accuse. Anche nel suo caso nessuna comunicazione permessa e totale disinteresse da parte del pubblico ministero. Ma la giovane ha avuto il coraggio di non limitarsi alle denunce nei mezzi di informazione ma ha coinvolto anche l’autorità giudiziaria. Noi sopravvissuti alle prigioni di Assad ricostruiremo la Siria di Omar Alshogre* Internazionale, 17 marzo 2021 Sono passati dieci anni da quando ho assaporato per la prima volta la libertà. Il 18 marzo 2011 ricevetti una telefonata da mio cugino Bashir, allora ventenne. Con voce tremante mi chiedeva di raggiungerlo nel centro di Baniyas, una città a dieci minuti dal mio villaggio, Al Bayda. “Gli uccelli si stanno radunando, devi venire”, mi disse. Avevo quindici anni ma compresi il significato delle parole in codice. Avevo visto in tv le proteste scoppiate in Tunisia ed Egitto. Il 6 marzo erano arrivate in Siria, dove gli abitanti di Daraa avevano protestato contro l’arresto e la tortura di quindici studenti che avevano realizzato dei graffiti contro il governo. Il 15 marzo c’erano stati altri disordini a Damasco. Avevo capito che era arrivato il turno della mia città. Mio padre, un militare in pensione, aveva intercettato la nostra conversazione. “Resta a casa”, mi disse, “sta’ al sicuro”. Conosceva fin troppo bene la corruzione e la violenza del regime visto che, alcuni decenni prima, i suoi cugini erano stati imprigionati per dodici anni. In quel momento cercava di proteggere me e i miei fratelli. Ma io volevo disperatamente partecipare a qualcosa di così importante. Non tanto per la corruzione del regime - ormai talmente normalizzata che quasi non la si notava più - ma perché tutti i miei compagni di classe e amici partecipavano, e io volevo unirmi a loro. Mio padre credeva nella necessità di una rivoluzione, ma aveva paura per me. Tutta l’eccitazione che provavo in quel momento la incanalai nello sforzo di convincerlo a lasciarmi andare. Forse fu la speranza che vide nei miei occhi a fargli cambiare idea. Alla fine accettò di accompagnarmi in moto. Per strada pensavo che si sarebbe unito a noi ma, una volta arrivati, si limitò a farmi scendere dicendo: “Nasconditi il viso, potrebbe morire un milione di persone”. Lo guardai allontanarsi in moto. Una rosa bianca e il sentimento di libertà - Mentre mi avvicinavo ai manifestanti, qualcuno mi mise in mano una rosa bianca. Ne ricordo nitidamente l’odore, che si confondeva con la brezza del mare. Mi sembrava che aggiungesse bellezza alla protesta e alle nostre richieste di libertà. Quando intonavo la parola “libertà” in arabo e in inglese, sentivo in me una forza incrollabile. Ma nella folla serpeggiava anche la paura. Mi rendevo conto che i manifestanti si guardavano nervosamente intorno, da un lato all’altro, come se stessero aspettando qualcosa. Poi quel qualcosa è arrivato: migliaia di soldati dell’esercito e agenti dei servizi segreti, tutti armati. Ero confuso. Nonostante tutte le storie che avevo sentito, non avevo mai assistito in prima persona alla violenza del regime. I manifestanti mantennero un atteggiamento pacifico, scandendo lo slogan: “L’esercito e il popolo sono fratelli”. Ma quel giorno i “fratelli” aprirono il fuoco, uccidendo alcune persone e ferendone molte di più. Tra le vittime c’era il mio amico di scuola, Alaa, 16 anni. I manifestanti furono dispersi. Alcune donne ci aprirono le porte per farci nascondere nelle loro case. Ricordo la sensazione di gratitudine provata nel trovare rifugio a casa di estranei. Dopo, quando i soldati se ne andarono, tornammo in centro per continuare la nostra manifestazione. A maggio Baniyas fu assediata per sette giorni dai soldati, che uccisero altre persone. Il regime disse che erano dei “terroristi” ma l’opposizione sapeva che erano manifestanti per la democrazia. Ma prima che succedesse tutto ciò, fui arrestato la prima volta. Il 12 aprile la mia famiglia, non sapendo che le forze governative erano arrivate nel nostro villaggio, mi mandò a comprare il pane. I soldati mi legarono le mani dietro la schiena e fui gettato per terra insieme a più di cinquecento uomini, catturati nella stessa circostanza. Alcuni soldati mi sferravano calci sul capo e saltavano sulla mia testa e sul mio corpo, obbligandomi a gridare la mia “lealtà” al presidente: “Dio, Siria e Bashar!”. Avevo scandito quelle parole nei precedenti cinque anni, all’inizio di ogni giorno di scuola. Solo quella volta capii la profonda brutalità che nascondevano. Fui rinchiuso in un centro di detenzione e torturato per due giorni. Fui liberato solo dopo aver rilasciato una confessione falsa. Nel corso dell’anno successivo fui arrestato altre cinque volte e trattenuto per giorni o settimane, finché i miei genitori riuscivano a corrompere alcuni ex colleghi di mio padre, che mi lasciavano andare. Fui obbligato a firmare delle carte in cui dicevo che non avrei più manifestato. Ma non smisi di farlo. Nel braccio della morte lenta - Nel novembre del 2012 fui arrestato per l’ultima volta, insieme ai miei cugini Bashir, 22 anni, Rashad, 19, e Noor, 17. Fummo trasferiti da un carcere all’altro, fermandoci alla fine nel famigerato braccio 215 di Damasco, che avevamo soprannominato il “braccio della morte lenta”. Vidi Rashad e Bashir morire in prigione, e ho sentito che anche Noor è stato ucciso. Mentre ero in carcere, il regime uccise mio padre e i miei due fratelli, il quindicenne Osman e il diciannovenne Mohammed, e diede fuoco alla nostra abitazione. Bombardò la mia scuola, arrestò i miei amici d’infanzia e massacrò la gente nel mio villaggio. Mia madre e le mie sorelle riuscirono a fuggire in Turchia. In prigione ho imparato più cose sulla realtà della dittatura di quante ne avrei potute imparare da fuori. Le guardie avevano creato un ambiente nel quale dovevi accanirti sugli altri se volevi sopravvivere. I miei cugini e i miei compagni di cella erano costretti a colpirmi più forte che potevano. Chi voleva mangiare doveva rubare il pasto a qualcun altro. Lo stesso valeva per bere. Da bambino avevo imparato che i padri erano disposti a sacrificare la vita per i figli. Ma in prigione ho visto un padre uccidere suo figlio per sopravvivere. Ho visto un ragazzo battersi con il gemello per uno spazio dove sedersi, perché le celle erano troppo piccole per accogliere tutti i prigionieri. In quelle carceri si muore nel dolore o si vive con il dolore e il senso di colpa. Nel buio e nella sporcizia della mia cella feci molti incubi: guardie che mi mandavano a morte o mi costringevano a uccidere amici e familiari. Ma feci anche altri sogni. Certe notti vedevo il dittatore sotto processo, lo affrontavo in tribunale, e veniva condannato alla prigione. L’11 giugno 2015, dopo tre anni di reclusione, fui liberato da alcune guardie che erano state corrotte da mia madre. Per farmi uscire misero in scena una falsa esecuzione. Dieci giorni dopo arrivai in Turchia, dove ritrovai mia madre. Ma per ricevere le cure mediche per la tubercolosi che avevo contratto in prigione dovetti raggiungere la Svezia, attraversando il Mediterraneo su un gommone. In Europa mi sono costruito una nuova casa e una nuova vita. Ma quello che ho vissuto in prigione continua a ossessionarmi: negli incubi notturni senza fine e nella consapevolezza che devo sempre guardarmi le spalle. Uno dei miei ex carcerieri mi ha trovato sui social network. Mi ha chiamato, dicendomi di non aprire bocca e minacciandomi. In quel momento tutto il dolore è riaffiorato, ma in qualche modo ho avuto la lucidità di registrare la chiamata, sperando di usarla in futuro in tribunale. Secondo la propaganda del regime, i siriani che hanno lasciato il loro paese l’hanno dimenticato, ma non è così. Lo ricordiamo ancora e lavoriamo duro per diventare le persone che ricostruiranno la Siria al momento dovuto. Negli ultimi anni io e altri sopravvissuti abbiamo offerto varie testimonianze - alla polizia svedese, ai magistrati tedeschi e ai funzionari europei che indagano sui crimini di guerra - sulla brutalità del regime, affinché si possano aprire dei processi. Ne sono derivate una serie d’incriminazioni per crimini di guerra contro alcuni siriani residenti in Europa, come Eyad al Gharib, un ex agente dell’intelligence arrestato in Germania. A febbraio Al Gharib è stato condannato da un tribunale tedesco a quattro anni e mezzo di carcere. Io e gli altri siriani abbiamo usato il trauma per farci forza. Ci siamo adattati ai nostri incubi trasformandoli in nuovi sogni. Abbiamo fatto in modo che la nostra paura ci spronasse. Ho visto mia madre che, nonostante i lutti, era riuscita a cominciare una nuova vita in due paesi diversi, la Turchia e la Svezia. È stata lei a farmi sentire al sicuro; era lei che potevo chiamare quando facevo gli incubi; è lei che mi ha detto: “Quello che hai vissuto, e quello che io ho vissuto, vale la pena ricordarlo”. *Traduzione di Federico Ferrone Paul Rusesabagina, l’eroe di Hotel Rwanda detenuto e accusato di terrorismo di Giusy Baioni Il Fatto Quotidiano, 17 marzo 2021 “Mio padre vivo solo grazie alle pressioni internazionali”. È noto in tutto il mondo per il film di Terry George, che narra il coraggio con cui lui, direttore dell’Hotel des mille collines, aveva salvato 1.268 di persone dalla furia cieca dell’odio. Ventisette anni dopo, Paul Rusesabagina è in prigione e sotto processo. Ecco cosa dice la figlia. Nel 1994, Carine Kanimba aveva un anno. I suoi genitori furono massacrati con altri 800mila tutsi e hutu moderati. Lei e sua sorella furono adottate dagli zii: Paul e Taciana Rusesabagina (insieme a Carine nella foto). Carine si batte ora per la liberazione dell’uomo, attualmente detenuto e sotto processo in Rwanda con l’accusa di terrorismo, che l’ha cresciuta insegnandole che che l’odio non porta a nulla, che tutti gli esseri umani sono uguali e che la parola è l’arma più efficace. Dal Belgio, racconta al fattoquotidiano.it: “Mio padre si è sempre opposto alle ingiustizie. Ne è prova che lui, hutu, ha sposato una donna tutsi e ha adottato me e mia sorella, tutsi”. Dopo il genocidio, sotto il tutsi Paul Kagame, la vita era diventata difficile: “Miravano soprattutto agli hutu influenti. Mio padre subì due tentativi d’omicidio”. Così, nel ‘96, cercarono rifugio in Belgio, dove Paul ottenne la cittadinanza belga, perdendo automaticamente quella rwandese. Nel 2004 la svolta: il regista Terry George realizzò il film che rese famosa la storia dell’Hotel des mille collines. Paul Rusesabagina - che era direttore di quell’albergo e aveva salvato 1268 di persone dalla furia cieca dell’odio - iniziò a girare il mondo. Venne diverse volte anche in Italia. Non si limitò mai, però, alla narrazione “celebrativa” dei terribili cento giorni del ‘94. “I morti sono stati tantissimi da entrambe le parti. Non si può costruire una pace duratura se non si dice la verità” sottolinea Carine. Suo padre denunciava anche le storture del nuovo regime. E così nel 2005, mentre George Bush lo insigniva della Medaglia della Libertà, il Rwanda lo accusava di negazionismo: “Non ha senso, mio padre parla sempre del genocidio! Volevano farlo tacere. Ma non ha funzionato - racconta Carine -. Allora hanno cominciato a dire che la sua storia era una menzogna. Ma nemmeno questo ha funzionato. E poi il fatto di aver adottato me e mia sorella, tutsi, smentiva coi fatti tutte le illazioni”. Insieme al discredito, le minacce. “Eravamo sotto pressione: ce li ritrovavamo sempre davanti, li vedevamo passare, ci guardavano dalla finestra. Un giorno abbiamo trovato la casa a soqquadro. Preoccupato, nel 2007 papà ci mandò a studiare negli Usa. Nel 2009 ci raggiunse, ottenendo poi la green card”. Fino all’accusa di finanziare un gruppo armato. “Come prova, hanno esibito un versamento Western Union a favore delle Fdlr (lo stesso gruppo accusato all’inizio di aver ucciso Attanasio, Iacovacci e Milambo, ndr). Ma il documento era falso. Ed è dimostrabile perché in quei giorni mio padre era in Irlanda per delle conferenze”. Paul non si ferma: deposita una denuncia alla Corte Penale Internazionale chiedendo un’inchiesta sui crimini commessi da Kagame per i conflict minerals nell’est della Repubblica Democratica del Congo. “Ciò costò a mio padre altri tentativi di assassinio e un ulteriore aumento delle misure di sicurezza”. L’attività di lobbying non basta: Rusesabagina fonda il Pdr, Partito per la Democrazia in Rwanda. “Il partito di papà nel 2018 entrò in una coalizione in cui si trovava anche un piccolo partito legato a una milizia: fu il pretesto per accusare mio padre”. Lo scorso agosto, Paul è invitato in Burundi da un reverendo: “Era una spia. Papà ha fatto scalo a Dubai e da lì è salito su un volo che doveva portarlo in Burundi. In aereo è stato drogato e bendato e si è svegliato a Kigali. Abbiamo perso i contatti dal 27 al 31 agosto. Una sparizione forzata, contraria al diritto internazionale”. Davanti alle affermazioni del governo rwandese, Belgio, Usa e Dubai hanno ufficialmente smentito ogni appoggio. Non esiste mandato internazionale, né collaborazione dell’Interpol. Il pool internazionale di avvocati che difende Paul non può vederlo. “Gli è stato imposto un avvocato d’ufficio. Mio padre probabilmente è in vita solo grazie alle pressioni internazionali. È stato ricoverato tre volte da quando è detenuto, ma rifiutano di dirci perché. Avevamo inviato le sue medicine per l’ipertensione, ma si rifiutano di dargliele. E senza, rischia un infarto o un ictus”. “Per la prima volta l’Unione Europea ha votato una risoluzione di condanna del Rwanda per violazione dei diritti umani e ha chiesto il rilascio immediato di mio padre”. Lo stesso hanno fatto gli Usa. “La più forte condanna di sempre per Kagame”. Carine è convinta che la pressione diplomatica non basti: “Il Rwanda dipende dagli aiuti internazionali. Serve pressione economica, magari anche sanzioni mirate e blocco dei visti. Papà è un cittadino europeo ed è sotto processo in un paese in cui i diritti suoi e di molti altri non sono rispettati, dove gli oppositori spariscono. Nell’est del Congo la presenza delle forze armate rwandesi è documentata da tempo”. E conclude: “Non è accettabile chiudere gli occhi, tutto ciò ha causato la morte di milioni di persone. Nel ‘94 la comunità internazionale ha perso tempo per decidere se chiamarlo genocidio. Ora succede lo stesso in Congo”.