“Serve meno carcere”: è partito il primo siluro di Cartabia di Tiziana Maiolo Il Riformista, 16 marzo 2021 “Certezza della pena non è certezza del carcere”. Bisogna risalire ai tempi di Filippo Mancuso, quello che fu sfiduciato dal Pds perché troppo garantista, per sentire un (una!) guardasigilli che non vuole costruire nuove prigioni ma anzi vorrebbe abbattere quelle esistenti. Qualche ceffone e tante carezze. La ministra Marta Cartabia ha presentato il suo programma alla Commissione giustizia della Camera. Con colpetto pare diretto su una guancia del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, e riguarda “la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo”, per “la tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del dettato costituzionale”. Se mettiamo insieme (in modo arbitrario) questo concetto con la proposta della guardasigilli di rafforzare all’interno del ministero l’ufficio dell’ispettorato, si può far ben sperare che, quanto meno da parte del ministro, ci sarà attenzione nei confronti di quei pm che depositano le carte processuali in edicola e delle conferenze stampa dopo ogni apertura di indagini e blitz delle forze dell’ordine. La casta dei magistrati in generale porta a casa qualche livido, dopo l’audizione di ieri, con quell’accento continuo che la ministra pone sul tema della formazione. Come se avesse detto che non basta aver vinto un concorso per indossare la toga, e soprattutto che non basta la raccomandazione di Palamara per accedere a un ufficio direttivo. Come hanno fatto carriera per esempio tanti che oggi sono procuratori capo? In teoria avrebbero dovuto avere già fatto un’esperienza dirigendo una procura più piccola. Nella realtà non è cosi, e Cartabia tira le orecchie a qualcuno: fatevi prima formare, poi andate a farvi le ossa per quattro anni in un centro piccolo, e solo in seguito andrete a Milano o a Roma. Chi deve intendere, intenda. Lo stesso per il Csm, dopo le “vicende non commendevoli” esplose con la storia di Luca Palamara, che ovviamente lei non cita per nome e cognome, ma il nome è lì, nell’aria. Nessuna legge cambierà mai le teste e le culture, dice la ministra. Ma intanto sta esaminando tutte le proposte di riforma sulla composizione e sul sistema elettorale del Consiglio Superiore, e butta lì una piccola bomba: ogni due anni mandare a casa metà Csm. Si attendono commenti. Certo, è impossibile poter piacere ai due estremi in tema di giustizia, cioè a Forza Italia e al Movimento cinque stelle, passando per tutti gli altri partiti che formano la maggioranza di questo governo, però alcuni punti sono fermi nella testa del ministro Cartabia, e sono prima di tutto gli articoli 111 e 27 della Costituzione. Cioè due pilastri della convivenza civile. Ogni cittadino ha diritto a un processo equo e veloce. Chiunque abbia rotto il patto della convivenza, va aiutato a ricucire, anche insieme alle vittime, con l’aiuto di un soggetto terzo. E questo è il piatto forte della giornata. Se dire che certezza della pena non è necessariamente certezza del carcere, non significa abolizione delle prigioni, che cosa è? Qualcosa che ci va molto vicino. Del resto Cartabia non sarebbe l’unico ministro a pensarla così. Ricordo ancora la presentazione, nella stessa aula della commissione giustizia della Camera, molti anni fa, del ministro Mancuso, che era stato scelto dal capo dello Stato Oscar Maria Scalfaro e la pensava in modo opposto al suo. Lo aveva detto chiaramente, senza foglietti in mano e parlando a braccio che il carcere dovrebbe essere uno strumento eccezionale. Che lui avrebbe proprio voluto trovare il modo di abolirlo. La neo-ministra si è anche detta molto favorevole all’ampliamento dell’istituto della sospensione della pena, cioè proprio quella disposta un anno fa dalle tante ordinanze dei giudici di sorveglianza, mentre la canea urlava contro “i boss scarcerati”. Giustizia riparativa, è la sua parola d’ordine, che è l’opposto della carcerazione a tutti i costi. Guardare a tutti gli abitanti delle prigioni, detenuti, agenti e personale amministrativo, pensando prima di tutto alla loro qualità di vita. Ma soprattutto dare prospettive, alternative alle manette, riportare nella comunità chi ne sia uscito, impedire che strappi di nuovo, nell’interesse di tutti. Se qualcuno aspettava che la ministra “dimenticasse” il tema che più di tutti fa venire l’orticaria agli avvocati (e non solo a loro) e cioè la prescrizione, non ha capito quanto sia di fibra forte la spina dorsale di Marta Cartabia. Non si è sottratta. Il suo discorso non ha suggellato la continuità, anzi, un cambiamento ci sarà, impossibile restare fermi alla contro-riforma Bonafede. Dall’elenco di possibilità sciorinate, si capisce che una riflessione seria è in corso. E che il suo gruppo costituto al ministero ci sta già lavorando. Il rigore e l’impegno mostrato in questa relazione, indicano che il cammino di una morbida rivoluzione è già avviato. Nelle celle italiane 8mila detenuti di “troppo” di Claudia Osmetti Libero, 16 marzo 2021 A Taranto il carcere più affollato. Al Nord il 50% dei reclusi è straniero, al Sud il 20%. 900 hanno oltre 70 anni. Quasi 54mila detenuti (53.697, per essere precisi) al 28 febbraio scorso, di cui 851 over70, 2.250 donne e ben 9.497 con meno di trent’anni. L’associazione Antigone (che da armi monitora quel che avviene nelle patrie galere) scatta la fotografia delle carceri nell’anno del Covid. Resta il sovraffollamento, prima grande piaga del sistema penitenziario italiano: oscilla tra il 106,2 e il 115%. La differenza la fanno circa 4mila posti non agibili nei reparti che sono stati temporaneamente chiusi e che, quindi, scostano i dati di qualche unità. Ma calano i numeri complessivi, mai così bassi dal 2015. Tutto merito, è scritto nero su bianco nel XVII rapporto sulle condizioni di detenzione, “più dell’attivismo della magistratura di sorveglianza che dei provvedimenti legislativi” adottati nell’ultimo periodo. Come a dire, se c’è qualche miglioramento generale non bisogna ringraziare l’ex ministro Bonafede. Certo, la capienza regolamentare è ancora un miraggio: per ottenerla, spazi alla mano, servirebbe avere 8mila carcerati in meno. Invece ci sono situazioni che permangono al limite della decenza, nonostante la pandemia. Sul podio degli istituti più affollati si registrano il carcere di Taranto (con un sovraffollamento al 196,4% pari a 603 detenuti per appena 307 posti), quello di Brescia (191,9%, 357 detenuti per 186 posti) e quello, molto più piccolo, di Lodi (184,4%, 83 detenuti per 45 posti). La parziale riduzione della popolazione carceraria dovuta al coronavirus, però, non ha modificato le proporzioni tra stranieri e italiani: i primi sono ancorati alla soglia del 32% riferita all’intero assetto carcerario, il 63,3% di loro è dietro le sbarre a seguito di una condanna definitiva e la fetta più consistente riguarda cittadini nordafricani, nigeriani e albanesi. Eppure, per gli stranieri, non tutte le carceri sono uguali: sono poco presenti nel Meridione (dove, tra Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, raggiungono a malapena il 20% degli ospiti dietro le sbarre) e raddoppiano negli istituti del Nord (Liguria, Veneto, Valle d’Aosta e Trentino hanno un tasso di detenuti stranieri tra il 49 e il 50%). Senza contare il caso Sardegna, dove in unicamente due case di reclusione, Arbus Is Arenas e Lodè-Mamone, la presenza di carcerati stranieri supera addirittura il 78% dei detenuti presenti. Le differenze territoriali pesano anche sul rapporto dei carcerati rispetto al numero degli abitanti: è dalle regioni più povere d’Italia, cioè, che previene la maggior parte dei detenuti. Qualche esempio: ogni 10mila residenti in Calabria si contano 19,2 detenuti nati nell’area, lo stesso rapporto dei campani è di 15,7 e dei siciliani di 13,98. Mentre se ci si sposta in Settentrione i dati calano: in Liguria è del 2,94, in Piemonte del 2,9 e nella popolatissima Lombardia del 2,58. Poi c’è il capitolo economico perché quando è difficile mettersi una mano sulla coscienza (in un anno, nelle nostre celle, si sono verificati 61 suicidi, tre dei quali solo a Como e 23,86 episodi di autolesionismo ogni cento detenuti: qualcosa vorrà pur dire), è più facile metterla al portafoglio. Ebbene: il bilancio annuale del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) è cresciuto del 18.2%, passando da 2,6 miliardi di euro a 3,1. Non avevamo mai speso così tanto per le carceri negli ultimi 14 anni, il dato rappresenta il 35% delle spese effettuate dal ministero della Giustizia. Con un organico ancora zoppo (mancano il 12,5% degli agenti, il 18% degli educatori e ben 31 direttori titolari) e un’abbondanza di volontari (circa 19.500), Antigone fa sapere: “Usiamo il Recovery fund per invertire il trend di spesa. Nel 2021 il budget per il Dipartimento della giustizia minorile e di comunità, che ha in carico le misure alternative, è stato appena di 283,8 milioni di euro, mentre al Dap sono stati assegnati 3,1 miliardi. Le misure alternative producono sicurezza. Investiamo lì”. Carcere e Covid: ecco qual è la situazione nei penitenziari italiani di Lorenza Pleuteri osservatoriodiritti.it, 16 marzo 2021 La terza ondata di Covid-19 entra nelle carceri italiane. Dove ad essere colpiti sono sia i detenuti, sia gli agenti. Mentre le vaccinazioni vanno a rilento. Ecco cosa sta succedendo e come evitare che esplodano queste "bombe epidemiologiche". Il carcere, ai tempi della pandemia. La marea montante dei contagi non sta risparmiando le patrie galere, dove un anno fa scoppiarono decine di rivolte e persero la vita 13 detenuti, una strage senza precedenti, attribuita a overdosi di metadone e psicofarmaci (leggi anche Carceri italiane in rivolta: morti, violenze ed evasioni). Il nuovo coronavirus in questi mesi ha ucciso altre persone, tra carcerati, agenti e personale medico. Gli infettati, in prevalenza asintomatici, si contano a centinaia. Le vaccinazioni sono partite, ma a singhiozzo e in modo non omogeneo, stando a quanto denunciano fonti sindacali e addetti ai lavori. Una situazione resa ancora più instabile dalla sospensione temporanea dell’utilizzo dei vaccini AstraZeneca decisa il 15 marzo. Gli ultimi dati sul Covid-19 dietro le sbarre - Nella prima decade di marzo, con una inversione di tendenza, il numero dei reclusi infettati dal Coronavirus è salito dai 410 segnalati l’1 marzo ai 468 dell’8 marzo (+14,1%) e poi ai 470 dell’11 marzo (+ 14,6% da inizio mese). Sono aumentati in modo rilevante anche gli agenti della polizia penitenziaria risultati positivi, passati dai 562 dell’1 marzo ai 612 dell’8 marzo (+8,2%) e ai 655 del’11 marzo (+ 16,5% rispetto a inizio mese). In parallelo è rimasta stabile la popolazione carceraria, svanito l’effetto dei provvedimenti di alleggerimento varati nelle prime fasi della pandemia, quando le presenze superavano quota 61.200. Il 1° marzo di quest’anno si contavano 52.644 donne e uomini (più 27 bambini, figli di mamme detenute) stipati negli spazi ristretti di 189 penitenziari. L’8 marzo il totale era di poco inferiore, 52.599 alla conta, a fronte di quasi 40mila agenti e graduati in divisa e a circa 4mila tra dipendenti amministrativi e dirigenti (49 dei quali risultavano positivi l’1 marzo e l’11 marzo, passando per i 48 dell’8 marzo), cui aggiungere medici e infermieri, insegnanti, mediatori, cappellani e volontari (dove ammessi). Carcere e Covid-19: la morte non risparmia detenuti, agenti, medici - L’associazione Ristretti Orizzonti (dossier Morire di carcere) dalla primavera 2020 a inizio marzo 2021 ha avuto notizia di 18 reclusi stroncati dal virus. Il Covid, stando a sindacati e colleghi, in contemporanea è costato la vita a 4 medici penitenziari (di Foggia, Massa, Brescia e Napoli Secondigliano) e ad almeno 10 poliziotti penitenziari, 3 dei quali in servizio a Carinola (in provincia di Caserta). Potrebbero essere ancora di più? Altre tragedie irrimediabili sono sfuggite al censimento informale? Sul sito del ministero di Giustizia il riepilogo dei decessi non c’è, non nella pagine web con i monitoraggi settimanali resi pubblici. La macchina delle vaccinazioni è partita, anche dietro i portoni blindati e i muraglioni, con situazioni differenziate da regione a regione e da istituto ai istituto. All’8 marzo erano stati vaccinati 927 dei 52.599 detenuti presenti, meno del 2 per cento. L’11 marzo si è arrivati a 1.331 reclusi immunizzati (intorno al 2,5%), sempre pochi rispetto al totale, però con un incremento relativamente marcato (+43,6% in 72 ore). Il personale di polizia penitenziaria “avviato alla vaccinazione” (formula ambigua, che sembra mettere insieme chi ha avuto l’antidoto e chi sta per averlo) l’8 marzo ammontava a 5.764 delle 36.939 “divise” in organico (il 15,6%,) e l’11 marzo a 8.253 (+43,2% da inizio mese). Però in alcune regioni, il Molise ad esempio, nel primo scorcio del mese per gli agenti della polpenitenziaria la somministrazione non era ancora stata avviata. I dipendenti amministrativi e i dirigenti destinatari della prima dose (o in lista per riceverla a breve) l’1 marzo erano 503 su 4.021 (pari al 12,5%), l’11 marzo 711 (+41,3%). Carcere e Covid: scarseggiano le dosi di vaccino - Gennarino De Fazio, segretario generale della UilPa, una delle sigle del personale in divisa, vede la situazione in chiaroscuro: «Sebbene la vaccinazione dei colleghi e dei detenuti sia iniziata e proceda complessivamente con una certa regolarità – anche se con maggiori difficoltà per i reclusi – nelle carceri si registrano difficoltà comuni al resto del Paese». «L’ancora insufficiente disponibilità di dosi – continua De Fazio – e la territorializzazione del servizio sanitario (e del piano vaccinale, sino ad ora) non garantiscono né uniformità né interventi mirati laddove maggiori sarebbero le esigenze. In Campania, per citare un tragico caso, sono morti 5 colleghi. Eppure questa regione è fra le ultime a vaccinare le forze di polizia». Solo il 12 marzo è stato dato il via alle immunizzazioni degli operatori in divisa, ai quali è stata data la priorità. Toscana, il coronavirus entra nella fortezza del Maschio di Volterra - In Toscana ad allarmare particolarmente è Volterra, dove la fortezza del Maschio per un anno non era stata toccata dalla pandemia. Ora, invece, il disastro. Nel giro di pochi giorni – riportano i giornali locali e i dati ufficiali del ministero confermano – il numero di detenuti positivi è lievitato da 22 a 50, per poi schizzare a 58 l’11 marzo, un terzo del totale. Pesante la situazione anche a Pescara (30 carcerati contagiati su 287 presenti all’11 marzo, con 36 agenti in malattia) e a Chieti. Di contro, in Calabria, a quella data i reclusi stavano tutti bene. Zero contagiati in cella (e 19 lavoratori malati). La progressione del Covid nelle carceri della Lombardia - In Lombardia l’8 marzo i detenuti positivi censiti nelle 18 strutture per adulti erano 82. Il 10 marzo sono diventati 92, saliti a 97 il giorno dopo. Chi si ammala o entra positivo nei penitenziari della regione, in altre località, viene portato a San Vittore o Bollate, i due istituti-hub con decine di posti letto riservati a persone con il virus. Non tutti i malati, viste le condizioni degli spazi e i tassi di affollamento, hanno la possibilità di stare da soli in cella. Anzi. A San Vittore, al rilevamento del 10 marzo, risultavano zero persone infettate alloggiate in “camere di pernottamento” singole e 117 asintomatici messi in isolamento precauzionale in stanze con 2 o più compagni. Carcere e Covid-19, parla il garante dei detenuti di Milano - Francesco Maisto, garante per le persone private della libertà a Milano, racconta a Osservatorio Diritti: «Anche la situazione delle carceri milanesi risente di oscillazioni spaziali e temporali, nel senso che non vigono necessariamente le stesse regole nello stesso giorno in tutti gli istituti. A inizio marzo a Bollate si è sviluppato un focolaio nel primo reparto, posto temporaneamente in isolamento. Le vaccinazioni del personale civile e di polizia sono terminate per tutti. Questa settimana dovrebbe essere il turno dei detenuti, con i quali sono stati organizzati incontri informativi per raccogliere i consensi alla somministrazione del vaccino». L’emergenza pandemia continua a condizionare pesantemente la vita quotidiana e l’esercizio dei diritti. «I colloqui in presenza – spiega sempre Maisto – subiscono variazione in relazione al colore delle zone esterne, quelli a distanza sono sempre garantiti. La possibilità di fruire dei permessi di uscita dipende dalle restrizioni generali, più pesanti quando si è in zona rossa. Le attività lavorative di Bollate e San Vittore funzionano. Nell’area industriale di Bollate è operativo il laboratorio di mascherine che rifornisce le carceri del Nord». Il problema maggiore è per l’istruzione. «Al terzo reparto di Bollate hanno dovuto adottare contromisure e chiudere i corsi perché un’insegnante, sebbene tamponata, ha fatto lezione da positiva. A Opera sabato 6 marzo il direttore ha sospeso tutto senza motivo, sebbene 48 ore prima avesse assicurato il funzionamento in presenza per il polo universitario». Sempre a Opera – rivela il garante – «ai pochi volontari ammessi il tampone è stato effettuato a pagamento, a spese loro». Covid e sovraffollamento, i timori alla Dozza di Bologna - A Bologna è la Cgil Funzione pubblica a rilanciare l’allerta, per voce di Salvatore Bianco: «Negli ultimi mesi alla Dozza si è fatto un buon lavoro per contenere i contagi. Ci sono alcuni casi, ad oggi, però la situazione per ora pare sotto controllo. I timori per il futuro prossimo derivano dalla combinazione tra Covid e sovraffollamento, un mix micidiale. A fronte di 492 posti regolari si contano quasi 750 presenze, oltre il tutto esaurito». Attività e nuovi ingressi sospesi per contrastare il Covid - Dall’8 marzo – e non solo a Bologna, entrata prima in zona rossa – sono state sospese tutte le attività scolastiche, culturali, ricreative, sportive e religiose, con l’ingresso vietato a insegnati, formatori, volontari (esclusi quelli che seguono i detenuti-lavoratori e lo Sportello informativo e di mediazione) e ministri di culto. I colloqui con i familiari restano possibili solo con videochiamate o con telefonate. «Si è arrivati alla saturazione, anche per via di alcuni reparti chiusi a causa dei casi positivi accertati. L’11 marzo – riferisce il garante bolognese dei detenuti, Antonio Iannello – il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria ha temporaneamente sospeso i nuovi ingressi, disponendo di portare arrestati e fermati a Modena». Covid preso in cella: nessun responsabile? - Il primo detenuto morto in Italia per Covid si chiamava Vicenzo Sucato, aveva 76 anni ed era finito dentro a Bologna per reati di mafia. Spirò in ospedale il 1° aprile 2020, ammesso alla detenzione domiciliare in corsia. La famiglia presentò un esposto, dando origine a un’indagine per omicidio colposo e ipotetiche omissioni. La procura ha chiesto una prima volta l’archiviazione, non accordata dal giudice, e l’ha richiesta il 30 gennaio. L’avvocato dei parenti, Domenico La Blasca, si sfoga al telefono da Palermo: «I parenti alla fine hanno rinunciato a presentare di nuovo opposizione. Vincenzo si è aggravato quando era sotto la custodia e la responsabilità dello Stato, che era tenuto a salvaguardare la sua vita, a proteggerlo. Aveva almeno cinque o sei patologie importanti, oltre all’infezione, ed è morto in ospedale. Ma allora perché non era stato scarcerato prima dell’allarme Covid, come chiedevamo da mesi?». L’analisi dell’associazione Antigone - Non a caso l’associazione Antigone ha intitolato Oltre il Covid l’ultimo rapporto sulle carceri italiane, presentato l’11 marzo: «La pandemia ha messo in risalto tutte le criticità che da tempo denunciavamo. Ha isolato ancora di più il carcere dal resto della società. Gli sforzi delle istituzioni si sono concentrati in questa fase sul contenimento dei contagi. Tuttavia bisogna guardare oltre il coronavirus. Con la sua scomparsa, che ci auguriamo avverrà presto, anche grazie alla somministrazione dei vaccini, però non spariranno i problemi del sistema penitenziario. La pandemia deve rappresentare l’occasione per non tornare indietro». Ergastolo ostativo, la Consulta darà l’ok alla libertà condizionale per chi non collabora? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 marzo 2021 Martedì 23 marzo si discuterà sull’illegittimità costituzionale sollevata dalla Cassazione per la libertà condizionale di Francesco Pezzino. Dopo il permesso premio per chi è in ergastolo ostativo, la Consulta dovrà valutare l’illegittimità costituzionale in merito alla preclusione dell’ammissione alla libertà condizionale in assenza della collaborazione con la giustizia. La data è fissata per martedì prossimo, 23 marzo. Se la Consulta dichiarerà incostituzionale l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui esclude tale beneficio ai non collaboranti con la giustizia, cadrà definitivamente l’ergastolo ostativo e si ritornerà all’origine: ovvero al primo decreto voluto da Giovanni Falcone, volto ad un discorso premiale della collaborazione, ma non precludendo in assoluto i benefici della pena. Infatti, prima del 1992, l’ergastolano del passato, pur sottoposto alla tortura dell’incertezza, ha sempre avuto una speranza di non morire in carcere. Il 4 bis di Falcone non precludeva l’accesso ai benefici - Vale la pena, visto l’orrida speculazione del nome di Falcone, ricordare esattamente cosa prevedeva la versione originaria del 1991 del 4 bis. C’era la previsione di due distinte categorie di condannati, a seconda della riconducibilità, più o meno diretta, dei titoli di reato a fatti di criminalità organizzata o eversiva. Per i reati di “prima fascia” - associazione di tipo mafioso, i relativi “delitti-satellite”, sequestro di persona a scopo di estorsione e associazione finalizzata al narcotraffico - l’accesso ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario era possibile solo qualora fossero stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva. Per i reati “di seconda fascia” - comprendenti quei delitti “per i quali - ricorda la sentenza numero 149/2018 della Corte costituzionale - le connessioni con la criminalità organizzata erano, nella valutazione del legislatore, meramente eventuali” - si richiedeva, invece, l’insussistenza di elementi tali da far ritenere attuali detti collegamenti. In aggiunta a tale distinzione, singole previsioni normative stabilivano, quale ulteriore requisito per l’ammissione a specifici benefici, che i condannati avessero espiato un periodo minimo di pena più elevato dell’ordinario, a meno che non si trattasse di persone che avevano collaborato con la giustizia. A seguito della strage di Capaci del 23 maggio 1992, il legislatore reagì introducendo una diversa disposizione ispirata a finalità di prevenzione generale e di tutela della sicurezza collettiva: l’attuale 4 bis, il quale prevede che, per tutti i reati inclusi nell’elenco di cui al primo comma (c.d. reati di prima fascia), l’assegnazione al lavoro all’esterno e le misure alternative alla detenzione - ad eccezione della liberazione anticipata - possono essere concessi solo nei casi di collaborazione con la giustizia. Il dubbio della Cassazione anche sulla libertà condizionale - Ebbene, dopo il permesso premio, la corte di Cassazione ha sollevato il discorso della preclusione assoluta della libertà condizionale nei confronti dell’ergastolano ostativo. Il caso specifico riguarda l’ergastolano Francesco Pezzino. Più volte gli è stata respinta l’istanza volta ad accertarne la collaborazione impossibile (art. 4 bis, comma 1-bis, ord. penit.), condannato all’ergastolo per un delitto incluso nella categoria di reati ostativi alla concessione di benefici penitenziari. La sua richiesta di accesso alla liberazione condizionale è stata dichiarata inammissibile dal Tribunale di sorveglianza de L’Aquila. Contro tale ordinanza ha proposto ricorso in Cassazione. Tra detenzione effettiva e riduzione di pena a titolo di liberazione anticipata, il ricorrente ha fin qui espiato oltre ventisette anni di carcere, superando così il termine minimo (ventisei anni) richiesto dall’art. 176 del codice penale perché il condannato a vita possa accedere alla liberazione condizionale. Il Tribunale di sorveglianza, però, a causa della preclusione all’esame del merito, non ha potuto valutare la sussistenza del sicuro ravvedimento. Eppure, ce ne sarebbero di elementi da valutare nei confronti di Pezzino: ha preso parte in maniera proficua all’opera di rieducazione, di cui si ha conferma dai provvedimenti di liberazione anticipata; si è avvalso con profitto delle possibilità di lavoro e studio offerte dai programmi di trattamento operativi nei vari istituti di detenzione, ha partecipato a concorsi letterari con riconoscimento di premi. Tutti elementi per valutare il suo ravvedimento. L’attuale 4 bis vieta la valutazione del magistrato - Ma l’attuale 4 bis vieta a prescindere la valutazione da parte del magistrato per concedere o meno la libertà condizionale. In particolare, come scrive la Cassazione che ha sollevato la questione, “il dubbio di costituzionalità trova causa nel convincimento che la collaborazione non può essere elevata ad indice esclusivo dell’assenza di ogni legame con l’ambiente criminale di appartenenza e che, di conseguenza, altri elementi possono in concreto essere validi e inequivoci indici dell’assenza di detti legami e quindi di pericolosità sociale”. Ribadiamo il concetto: qualora cadesse il paletto della collaborazione, non è detto che il giudice di merito riconoscerà poi - in base ad altri indici - l’assenza di legami del reo con il sodalizio criminale, quindi il venir meno della sua pericolosità sociale e, dunque, la concessione automatica della libertà condizionale. Stesso discorso vale per qualsiasi altra concessione. Concetto importante che va ribadito. Pensiamo al permesso premio. Nel 2019, la Consulta ha ritenuto che la rigida preclusione non fosse conforme alla Costituzione e alla finalità della pena che è rieducativa. L’effetto della decisione non è concedere a tutti il permesso premio ma permettere al giudice di sorveglianza di ponderare ogni situazione, rimanendo una presunzione di pericolosità per la natura del reato. Così eventualmente varrà per il discorso della liberazione condizionale. Ammessi dalla Consulta anche cinque amicus curiae - Martedì prossimo, quindi, davanti alla Consulta ci sarà l’avvocata Giovanna Araniti, difensore dell’ergastolano Pezzini, che discuterà sull’illegittimità costituzionale dell’ostatività alla libertà condizionale. Importante ricordare che la Corte costituzionale ha ammesso ben cinque amicus curiae, ovvero le parti terze che, nonostante non siano parte in causa, offrono un aiuto alla Consulta per decidere. Sono il Garante nazionale delle persone private della libertà, Antigone, l’Altro Diritto, Nessuno Tocchi Caino e il Centro studi giuridici europei sulla grande criminalità. In realtà, sulla liberazione condizionale, si è già espressa la sentenza Viola della Corte europea dei diritti umani, sottolineando che la mancanza di collaborazione potrebbe essere non sempre legata a una scelta libera e volontaria, né giustificata unicamente dalla persistenza dell’adesione ai “valori criminali” e dal mantenimento di legami con il gruppo di appartenenza. Ciò è stato peraltro riconosciuto, già nel passato, dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 306 dell’11 giugno 1993, quando ha affermato che l’assenza di collaborazione non indica necessariamente il mantenimento dei collegamenti con l’organizzazione mafiosa. La Cedu ha anche auspicato che la trasformazione della presunzione assoluta di pericolosità in presunzione relativa venga supportata da nuove soluzioni normative, affinché sia il Parlamento ad assumersi le proprie responsabilità politica. È al legislatore che spetta la delicata opera di bilanciare ragionevolmente le diverse finalità della pena, purché, non risulti del tutto sacrificata come accade attualmente. Ma ha preferito rimanere inerme. Quindi, ancora una volta, sarà compito della Consulta colmare il vuoto della politica. Forse, con il nuovo governo e soprattutto con una nuova ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che era giudice della Corte costituzionale ai tempi della decisione coraggiosa sul permesso premio, qualcosa potrebbe finalmente muoversi. Parliamo di una speranza in più per chi ha svolto un percorso trattamentale volto alla visione critica del passato e alla riabilitazione come prevede la costituzione italiana tutta centrata su una pena che sia proiettata verso la libertà. Il carcere ha preso il posto del vecchio manicomio di Rocco Schiavone L’Opinione, 16 marzo 2021 Fino a pochi anni orsono le persone anche solamente un po’ “strane”, o “strambe”, non parliamo poi se “devianti” o supposte come “pericolose”, o di cui le rispettive famiglie volevano disfarsi, anche per poco nobili motivi ereditari, avevano un posto dove la società li mandava spesso e volentieri - e con molta facilità - ed era il vecchio manicomio. Quello teoricamente abolito dalla legge Basaglia. Adesso quelle stesse persone, insieme a tante altre che appartengono alla fascia sociale dell’emarginazione, hanno da anni una nuova e unica casa a disposizione loro e della società che vuole liberarsene come se si trattasse di spazzatura: il carcere. Anche quello preventivo. E infatti - siccome è la funzione che determina l’organismo che la svolge - le carceri oggi si trovano in uno stato di fatto, edilizio, di igiene e di abbandono, praticamente identico a quello di quei manicomi, che nei documentari degli anni Sessanta e Settanta indignarono così tanto l’opinione pubblica da rendere possibile l’approvazione della legge “utopica” di Franco Basaglia. Oggi purtroppo i giornalisti non fanno più quel tipo di inchieste e di conseguenza l’opinione pubblica si è formata negli ultimi 30 anni secondo la vulgata di pensiero dei pubblici ministeri. Che sono il nuovo punto di riferimento delle persone che hanno scelto la vendetta sociale contro gli ultimi, come unica espressione del proprio malcontento e come sfogo quasi esorcizzante. Di conseguenza, la gente fa spallucce persino a storie drammatiche come quella narrata in uno degli ultimi “memento” dall’ospite passeggiatore davanti a via Arenula di turno insieme a Rita Bernardini. Un signore che non ha potuto fare nulla contro la morte annunciata del padre nel super-carcere di Voghera per Covid circa un anno orsono. Padre imprigionato, probabilmente innocente e in carcerazione preventiva, in seguito a una delle tante retate anti ‘ndrangheta che sono diventate una consuetudine a volte inquietante - e non sempre performante nei risultati processuali - dalle parti di Catanzaro. Al Sud anche l’accusa di mafia - ma adesso sta diventando così in mezza Italia - non si nega a nessuno, sia nella forma del concorso esterno sia in quella del concorso interno in qualsiasi inchiesta che coinvolga il mondo imprenditoriale e la Pubblica amministrazione locale. Anche i colletti bianchi o ex tali devono perciò temere di finire nel carcere-manicomio di questo scorcio di millennio. Perché quando si ritiene che la giustizia debba “lottare” e fare “pulizia” dei mali del mondo - invece di applicare la legge severamente e basta - è quasi inevitabile che gli oggetti passivi di questa “ripulitura” finiscano in discarica. Senza neanche una raccolta differenziata. Il pensiero del quisque de populo, per ora, non nega applausi alle strombazzate mediatiche di queste inchieste nei talk show. Alcuni magistrati della pubblica accusa usano accenti da Savonarola e nessuno nel Consiglio superiore della magistratura o nella politica osa contrastarne il protagonismo, anche quando l’esagerazione è sotto gli occhi di tutti e i risultati pratici non sono all’altezza delle premesse. Si sveglierà qualcuno prima che una buona parte degli italiani sarà finita in questi gulag voluti come tali dai fanatici predicatori della certezza della pena? Qualcuno capirà che questa cosa sarà sempre di più uno strumento di lotta politica senza esclusione di colpi come accade in Turchia, in Brasile, in Iran e in Russia, sempre con il pretesto della lotta a qualsivoglia forma di delinquenza vera o presunta? Anche le parole e gli scritti dell’ex pm Luca Palamara, oggi pentito di avere fatto parte di quel meccanismo infernale, scivoleranno come acqua sulle finestre? Difficile dirlo. Intanto passa il messaggio che persino “la morte per pena”, versione ipocrita della pena di morte, i carcerati “se la meritano”. Per il solo fatto di essere tali. Se li hanno arrestati “un motivo ci sarà”. È da tempo, questo, il nuovo slogan dei grillini e dei loro profeti in toga, o della carta stampata o delle tv di riferimento. A suo tempo, i loro ideali precursori dissero così anche di Enzo Tortora. Ma allora la gente si sollevò contro questo orrore. E oggi? Cartabia, una “rivoluzione costituzionale” di Errico Novi Il Dubbio, 16 marzo 2021 Marta Cartabia ha presentato ieri le linee programmatiche sulla Giustizia in commissione alla Camera. Impressionante lezione della ministra nel discorso in commissione Giustizia alla Camera. Dal “superamento del carcere come unica risposta al reato” alla censura del “processo mediatico”. Fino alla chiara sintonia con il “Recovery del Cnf” e al gruppo di lavoro sul penale affidato a Lattanzi. Marta Cartabia è una donna che non si limita semplicemente a pensare da costituzionalista: al primato della Carta crede con una profondità, una fiducia, un’adesione assoluta che forse le provengono dall’orizzonte culturale complessivo, ma che in ogni caso hanno un potere: disarmano. Ieri, dal suo primo intervento in un consesso parlamentare, l’esposizione delle linee programmatiche davanti alla commissione Giustizia di Montecitorio, sono venuti messaggi chiari, di una forza dirompente: dal “superamento dell’idea del carcere come unica risposta al reato” alla prescrizione, con un passaggio significativo sulla proposta di distinguere fra estinzione “del reato” e “prescrizione processuale”. Fino a una frase che dà in pieno il senso di una visione umanistica della giustizia: “L’idea di efficienza non rappresenta soltanto un obiettivo pragmatico, riflesso della stretta compenetrazione tra giustizia ed economia, ma si coniuga altresì con la componente valoriale del processo, con gli ideali tesi alla realizzazione di una tutela giurisdizionale effettiva per tutti”. E tutto l’intervento è un lungo omaggio alla migliore tradizione di studi che l’Italia è in grado di offrire. Si dirà: verrà travolta in poco tempo. E invece no. Perché questa signora sa farsi rispettare nell’agone politico attraverso la ragionevole proposta del metodo. Vi dedica un paragrafo, che consiste nel rispetto della “centralità del Parlamento” ma anche nella netta richiesta di “impegno da parte delle Camere, che debbono essere luogo di confronto autentico schietto” e “tempestivo”. Mediare sì, ma non all’infinito. “Superare il carcere come unica risposta” - Nel dibattito seguito alla relazione, garantisti come Lucia Annibali ed Enrico Costa si abbandonano a vigorosi sospiri di sollievo, ma nessuno dal fronte 5 stelle pronuncia anatemi. Sembra un miracolo. È il disarmo che viene dalla forza della Costituzione. E che strabilia soprattutto in quel passaggio sull’esecuzione penale, destinato a restare negli annali: “Penso sia opportuna una seria riflessione sul sistema sanzionatorio” che “ci orienti verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La certezza della pena”, scandisce la guardasigilli del governo di Mario Draghi, “non è la certezza del carcere”. La detenzione in cella, ricorda, “per gli effetti desocializzanti che comporta, deve essere invocata quale extrema ratio. Occorre valorizzare piuttosto le alternative al carcere, già quali pene principali”. Esemplare. Lattanzi guiderà la “commissione Cartabia” sul penale - D’altra parte Cartabia non si limita a parlare: fa. Un esempio? Mentre espone il suo programma a Montecitorio, ha già scelto i componenti dei gruppi di lavoro destinati a proporre modifiche alle riforme di Bonafede: ebbene, la “commissione” sul penale è presieduta dal suo predecessore al vertice della Consulta, quel Giorgio Lattanzi che ha guidato la Corte nel “Viaggio nelle carceri” e con il quale la ministra condivide la necessità della “speranza da offrire a qualsiasi condannato”. Nella commissione compare un altro nome che di per sé è una garanzia come Vittorio Manes, avvocato, costituzionalista dell’università di Bologna e figura di riferimento per l’Unione Camere penali. Ci sarà equilibrio fra avvocati, magistrati (ad esempio l’ex presidente Anm Rodolfo Sabelli) e accademici (tra gli altri Gian Luigi Gatta, scelto anche quale consigliere per le professioni). Dalla prescrizione ai riti alternativi, il ddl Bonafede cambierà - Difficile che possano venirne indicazioni ellittiche rispetto ai principi costituzionali. Richiamati da Cartabia anche a proposito dell’ordine del giorno sulla prescrizione condiviso con la maggioranza: quell’impegno a modificare il ddl penale nel rispetto degli articoli 27 e del 111 “deve essere onorato”. Più di un indizio suggerisce che la guardasigilli rinuncerà al lodo Conte bis e non escluderà affatto l’opzione della prescrizione processuale, già messa sul tavolo, peraltro, anche dall’alleato del Movimento 5 Stelle, il Pd. Che la riforma penale sia destinata a cambiare volto è segnalato da altri punti dell’esposizione: dall’enfasi accordata all’”irrinunciabile diritto di difesa” che il ddl Bonafede qua e là compromette, alla volontà di “valorizzare i riti alternativi”, ora assai timidamente trattati. Il no di Cartabia al processo mediatico - Ma un altro passaggio chiave, di rilevanza forse pari alle parole sul carcere, arriva - peraltro a braccio perché non previsto nel testo della relazione - a proposito della “sponda” che a volte gli inquirenti cercano sui media per amplificare la forza delle accuse: “A proposito della presunzione di innocenza, permettetemi di sottolineare la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per un’effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale”. E qui Costa, già pronto a depositare un autonomo ddl a riguardo, esclama, a nome di Azione: “È musica per le nostre orecchie”. Non manca il passaggio sulle “non commendevoli vicende del Csm”, che però non giustificano l’equazione fra “degenerazione del correntismo” e “pluralismo nella rappresentanza in Consiglio”. Cartabia non pare intenzionata a iscriversi al partito di chi vorrebbe trattare le correnti come la mafia. Sintonia fra la ministra e il “Recovery del Cnf” - Andrebbe dedicato un capitolo a parte al peso riservato alle “soluzioni alternative delle controversie”, evocate dalla ministra a proposito della riforma civile. C’è ad esempio un riferimento in particolare alla “mediazione demandata”: è solo il più chiaro fra i moltissimi punti di contatto che emergono fra l’impostazione di Cartabia e la proposta avanzata dal Cnf sul Recovery. Si avanzano perplessità sulla rinuncia al rito sommario di cognizione, ma soprattutto, sempre a proposito del ddl sulla procedura civile all’esame del Senato, la guardasigilli pronuncia una frase ancora in sintonia con l’avvocatura: “Occorrerà tenere presente che ogni riscrittura del rito comporta necessariamente, almeno nelle prime fasi, un ulteriore rallentamento della macchina giudiziaria”. E non se ne sente la mancanza, visto che con la fine dei regimi straordinari legati alla pandemia, come il blocco dei licenziamenti, si rischia una “esplosione ingestibile” del contenzioso. Alla fine c’è una citazione per i padri dell’Europa, De Gasperi, Adenauer e Schuman: “Ciò che ci unisce è più forte di ciò che ci divide”. Realistica e generosa nello stesso tempo. Perché il discorso di ieri non può lasciare tranquillo il Movimento 5 Stelle. Ma più che la ricerca della coesione, comunque indicata come irrinunciabile, colpisce un’altra frase ancora: “Non cerchiamo la perfezione, ma le migliori risposte possibili nelle condizioni date”. E qui non si è generosi, perché un intervento come quello di ieri alla perfezione sembra guardare con un certo interesse. Cartabia cancella la giustizia forcaiola di Bonafede di Fabio Calcagni Il Riformista, 16 marzo 2021 “Presunzione d’innocenza un diritto, carcere come extrema ratio”. Una nuova stagione per la giustizia italiana, in netta discontinuità rispetto alla gestione dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Marta Cartabia, neo ministro della Giustizia, nel corso di un’audizione di fronte alla commissione Giustizia della Camera sulle linee programmatiche del dicastero, ha annunciato il cambio di passo rispetto alla linea turbo-giustizialista tenuta dall’ex ministro pentastellato. Riforma impraticabile, si a emendamenti - L’ex presidente della Consulta, come era facile pronosticare vista la larga ed eterogenea maggioranza a sostegno del presidente del Consiglio Mario Draghi, ha chiarito che una riforma di sistema “non è praticabile” perché “nelle condizioni date la riforma dovrà puntare a interventi mirati”. La prossima settimana verranno dunque presentati “emendamenti ai testi già incardinati”, perché la titolare del dicastero di via Arenula almeno in parte salva l’operato dell’esecutivo Conte 2 sul tema della giustizia: “Bisogna verificare il lascito del precedente Governo, verificando quel che va salvato o modificato e implementato. Il lavoro svolto non va vanificato ma rimodulato e arricchito anche alla luce di questa maggioranza di governo così ampia”, ha chiarito in audizione la Cartabia. Presunzione di innocenza: un diritto - Ma sui temi di fondo è netto il cambio di passo con Alfonso Bonafede. La ministra ribadisce infatti che vanno messi in campo “tutti gli sforzi tesi ad assicurare una più compiuta attuazione della Direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. Sempre a proposito della presunzione di innocenza, un principio ormai cestinato in Italia da giornali e politici, Cartabia ha puntato l’indice anche sulla “necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per una effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale”. Valorizzare le alternative al carcere - Altro punto di discontinuità da parte della Guardasigilli riguarda l’uso, o per meglio dire l’abuso, che si fa in Italia dello strumento della carcerazione. Per Marta Cartabia infatti è “opportuna una seria riflessione sul sistema sanzionatorio penale che, assecondando una linea di pensiero che sempre più si sta facendo strada a livello internazionale, ci orienti verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato”. Con un parallelo il Guardasigilli ricorda in audizione al Senato che “la certezza della pena non è la certezza del carcere, che per gli effetti desocializzanti che comporta deve essere invocato quale extrema ratio. Occorre valorizzare piuttosto le alternative al carcere, già quali pene principali. Un impegno che intendo assumere è di intraprendere ogni azione utile per restituire effettività alle pene pecuniarie, che in larga parte oggi, quando vengono inflitte, non sono eseguite. In prospettiva di riforma sarà opportuno dedicare una riflessione anche alle misure sospensive e di probation, nonché alle pene sostitutive delle pene detentive brevi, che pure scontano ampi margini di ineffettività, con l’eccezione del lavoro di pubblica utilità”. Il caos al Csm - La ministra è quindi intervenuta, discutendo delle linee programmatiche del dicastero, sul caos interno al Csm dopo il divampare del Palamaragate. Una soluzione proposta dal Guardasigilli “potrebbe essere quella del rinnovo parziale del Consiglio Superiore della Magistratura come già avviene per altri organi costituzionali: ad esempio, ogni due anni potrebbero essere rinnovati la metà dei laici e la metà dei togati. Una tale previsione potrebbe rivelarsi utile sia ad assicurare una maggiore continuità dell’istituzione, sia a non disperdere le competenze acquisite dai consiglieri in carica, sia a scoraggiare logiche spartitorie che poco si addicono alla natura di organo di garanzia che la Costituzione attribuisce al Csm”. Resta il dubbio dal punto di vista costituzionale, ha aggiunto Cartabia, se tale obiettivo “obbiettivo sia alla portata di una legge ordinaria, cioè se sia possibile interpretare i “quattro anni” di cui al penultimo comma dell’art. 104 Cost. come riferiti ai membri singolarmente considerati e non all’organo nel suo complesso”. Le vicende “non commendevoli”, le definisce Cartabia, che hanno riguardato la magistratura col caso Palamara “rendono improcrastinabile un intervento di riforma di alcuni profili del Consiglio Superiore della Magistratura e dell’ordinamento giudiziario, anche per rispondere alle giuste attese dei cittadini verso un ordine giudiziario che recuperi prestigio e credibilità”. Il nodo prescrizione - Quanto al nodo sulla prescrizione, cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, per il Guardasigilli la soluzione sarebbe quella di ‘aggirarè il problema: “Un processo dalla durata ragionevole risolverebbe il nodo della prescrizione, relegandola a evento eccezionale”. Cartabia parte da Bonafede. Ma lo rovescia di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 16 marzo 2021 La ministra presenta il suo programma in parlamento. Giustizia riparativa, prescrizione da rivedere e carcere “extrema ratio”. Ma dice no ai partiti: a occuparsi delle correzioni ai testi di legge dei giallo-rossi saranno i suoi tecnici. Guidati da Lattanzi e Luiso. “Sarebbe sleale delineare programmi inattuabili. Cercheremo di affrontare i problemi più urgenti” dice in premessa la ministra Marta Cartabia. E poi tiene impegnata per quattro ore la commissione giustizia della camera tra relazione, domande e replica. Perché, anche restando sull’essenziale, le urgenze della giustizia sono tali - dal processo civile a quello penale, dalle carceri al Csm, dai concorsi agli impegni nel Recovery plan - da portare il tema comunque in cima all’agenda di governo. Ma pesa anche la personalità dell’ex presidente della Corte costituzionale, che si presenta in parlamento con parole di miele per i deputati - “la mia formazione e la mia storia mi rendono particolarmente sensibile ad una corretta impostazione dei rapporti tra governo e parlamento, troppo spesso piegata alle ragioni dell’urgenza e alle difficoltà politiche” - ma poi risponde sostanzialmente di no alla principale richiesta della sua vasta coalizione. Non ci sarà il coinvolgimento preventivo dei gruppi parlamentari di maggioranza nel lavoro dei tecnici incaricati di preparare gli emendamenti ai disegni di legge delega di riforma del processo civile (incardinato al senato) e di riforma del processo penale (alla camera). Eppure quello è il vero nodo politico che deve affrontare l’esecutivo, perché situato all’incrocio tra l’eredità giallo-rossa di Bonafede, autore dei testi in discussione, e la richiesta di discontinuità che soprattutto Lega, Forza Italia e renziani avanzano insistentemente. Sulla prescrizione, per esempio, Cartabia ha elogiato il passo indietro di Iv e centrodestra che hanno congelato i loro emendamenti al Mille proroghe. E subito dopo, offrendo indizi su come intende muoversi, ha indicato due modelli alternativi - quello della prescrizione processuale e quello degli sconti di pena nel caso di processi eccessivamente lunghi - che tutti e due smonterebbero il modello costruito da Bonafede, difeso adesso dai 5 Stelle e (meno) da Pd e Leu. Il gruppo di lavoro più delicato, quello sul processo penale, Cartabia lo ha affidato al (suo) ex presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi. Con lui, presidente, ci sono due vice, l’ex primo presidente della Cassazione Ernesto Lupo e il professore di diritto penale Gian Luigi Gatta appena entrato tra i consiglieri della ministra. Nella commissione anche avvocati (Manes, Luparia Donati, Arata), magistrati (Rossi, Sabelli, Citterio, D’Arcangelo) e accademici (Mannozzi, Quattrocolo, Gialuz, Simoncini). Nessun politico. Mentre il gruppo di lavoro sul civile è presieduto da Francesco Paolo Luiso. “Sono arrivata con venti pagine di intervento, me ne vado con più di venti pagine di appunti”, ha detto la ministra ai parlamentari. Risponderà più avanti. Qualcosa ha già detto. “Non si deve rinunciare al lavoro già svolto”, la premessa che rassicura un po’ i grillini: i testi di legge base restano quelli di Bonafede. Ma anche se, promette, “gli emendamenti del governo non arriveranno già confezionati”, a conoscerli potranno essere al più i presidenti delle commissioni. Il tempo è poco, “non avevo calcolato pasqua”, i nuovi testi devono arrivare entro fine aprile e la ministra non intende aprire un tira e molla tra le - assai distanti posizioni - della maggioranza. Ci penseranno i tecnici, che - viene assicurato - sentiranno avvocati e magistrati. Altri tecnici. Per il civile, intanto, la ministra si domanda se la soluzione scelta da Bonafede che rinuncia al “rito sommario di cognizione” - “un modello funzionante” - sia la più giusta. Sul penale fa pesare la sua impostazione garantista (opposta a quella del predecessore) avvertendo che c’è ancora una direttiva europea (2016/343) sulla presunzione di innocenza che in Italia non è pienamente applicata. Direttiva che si occupa anche del diritto a presenziare ai processi nei procedimenti penali. Tema quanto mai attuale in tempi di Covid e udienze online. “Sono convinta che ci siano momenti del processo che devono essere al più presto riportati in presenza”, chiarisce la Guardasigilli per la gioia degli avvocati penalisti. Per avvicinarsi all’obiettivo di una diminuzione dei processi, e dunque dei tempi dei processi, Cartabia indica la via della “deflazione sostanziale”. E spinge sulla “giustizia riparativa”. Soprattutto sull’esecuzione penale - “mia costante preoccupazione” - l’approccio è rivoluzionario rispetto a Bonafede: “La certezza della pena non è la certezza del carcere che per gli effetti desocializzanti che comporta deve essere invocato quale extrema ratio”. È il versante dal quale è lecito attendersi le migliori novità. Da verificare nel rapporto con la Lega, più ancora che con i 5 Stelle. Cartabia: “Tempo maturo per la giustizia riparativa” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2021 Linee programmatiche. L’idea del ministro di rivedere il lodo Conte 2 sulla prescrizione: “Altri strumenti per evitare tempi processuali eccessivi”. Sul civile “valorizzare la mediazione”. Si presenta puntuale alle 15 Marta Cartabia davanti alla commissione Giustizia della Camera. Se ne va dopo quattro ore in cui ha presentato le linee programmatiche della sua amministrazione della Giustizia. Nel merito della giustizia civile, la ministra valorizza il ricorso alla giustizia “alternativa”, con particolare riferimento alla mediazione, dove l’attenzione, a suo giudizio, va messa soprattutto sulla mediazione (che il suo predecessore Alfonso Bonafede voleva invece limitare, almeno in parte) e, in particolare su 3 aspetti, meritevoli, dice la ministra, di un intervento normativo: l’estensione degli ambiti di applicazione, il rafforzamento di incentivi sia economici sia processuali, la valorizzazione della mediazione delegata, facendo entrare il lavoro del giudice in questo contesto tra gli elementi di considerazione per le progressioni di professionalità. Sul processo, attenzione, ammonisce Cartabia, a disfarsi con leggerezza del rito sommario di cognizione, che ha dato buona prova, mentre va ripensata la disciplina dei “filtri” sulle impugnazioni, anche per consentire un recupero di efficienza della Cassazione, afflitta da un numero di ricorsi senza paragoni con i suoi equivalenti europei. Nel penale, la ministra dichiara la volontà di valorizzare i riti alternativi, senza svalutare il dibattimento e con una cura particolare per una più compiuta attuazione della Direttiva sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. “Resto peraltro convinta - ha poi sostenuto - che una riforma del processo penale deve pure poggiare su meditati interventi di deflazione sostanziale, cui può giungersi, tra l’altro, intervenendo sui meccanismi di procedibilità, incrementando il rilievo delle condotte riparatorie ed ampliando l’operatività di istituti che si sono rilevati nella prassi particolarmente effettivi, come la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato e la non punibilità per particolare tenuità del fatto”. Spazio alla giustizia riparativa poi, la cui introduzione in maniera strutturata, Cartabia considera ormai matura, mentre sul tema più divisivo nella maggioranza, la prescrizione, la ministra fa capire che il cosiddetto lodo “Conte bis”, con la sua distinzione tra condannati e assolti, contenuto nell’attuale disegno di legge in discussione alla camera, potrebbe essere rivisto “visto che da tempo nella riflessione accademica si ragiona intorno ad altri strumenti, quali la possibilità di munire l’ordinamento di un corredo di rimedi di tipo compensativo per le ipotesi in cui si registri una dilatazione eccessiva dei tempi processuali non ascrivibile a responsabilità dell’imputato. Si tratta di scelte cui sono già approdati alcuni ordinamenti europei (può citarsi l’esempio della Germania e della Spagna), caratterizzati da un assetto assimilabile a quello delineatosi nel nostro Paese e che non incontrano contrarietà in particolare nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo”. A forte carica innovativa, infine, la proposta, sull’elezione del Csm, di prendere in esame un rinnovo parziale dei componenti laici e togati ogni 2 anni. I nomi della Commissione per la riforma penale Poco tempo e ritmi stretti. Sono quelli che dovrà rispettare il gruppo di lavoro sulla riforma penale che la ministra Marta Cartabia ha istituito e che parte già nelle prossime ore. A guidarlo il presidente emerito della Corte costituzionale, predecessore di Cartabia, Giorgio Lattanzi, suoi vice il docente di Diritto penale alla Statale di Milano Gian Luigi Gatta ed Ernesto Lupo, già primo presidente della Cassazione. La squadra è poi completata da Vittorio Manes, storico esponente delle Camere penali e docente di Diritto penale, dagli avvocati Francesco Arata (anche professore di Diritto penale) e Luca Luparia, a sua volta docente di Procedura penale; dai magistrati Luigi Orsi, Carlo Citterio e Fabrizio D’Arcangelo e Rodolfo Sabelli; dai professori Mitja Gialus (Procedura penale), Grazia Mannozzi (Diritto penale) e Serena Quattrocollo (Procedura penale), dal costituzionalista Andrea Simoncini. Obiettivo immediato è quello di preparare, entro la fine di aprile, il pacchetto di proposte del ministero al disegno di legge delega sul processo penale in discussione alla Camera. Giustizia, la prossima settimana emendamenti alle riforme per ridurre i tempi dei processi di Nicola Barone Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2021 Alle forze politiche in Parlamento la ministra dice che “sarebbe sleale impegnarsi con programmi inattuabili”. Perciò, “cercheremo di affrontare i problemi più urgenti e improcrastinabili”. Riorganizzazione della macchina amministrativa, valorizzazione del personale, digitalizzazione, edilizia giudiziaria e architettura penitenziaria. Queste alcune delle priorità indicate dalla ministra Marta Cartabia, davanti alla Commissione Giustizia della Camera parlando degli interventi che dovranno trovare spazio nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. “La prossima settimana presenteremo emendamenti ai testi già incardinati” per le riforme, assicura la ministra. Sulla giustizia occorre “affrontare il lascito del precedente governo, verificare quanto può essere salvato e implementato. Il lavoro svolto non va vanificato ma arricchito senza trascurare le proposte dell’opposizione”. Ridurre i tempi dei processi è obiettivo primario - Uno degli obiettivi dell’azione che ha in mente, per il suo ministero, Cartabia sarà quello di “ridurre i tempi dei processi, che continuano a registrare medie del tutto inadeguate”. Ciò in primis guardando alla Costituzione che “esige un processo giusto e breve”. In questo, l’impegno assunto con l’ordine del giorno sulla prescrizione ad assicurare una durata media dei processi in linea con quella europea “deve essere onorato”. Sleale proporre programmi inattuabili - “Sento il dovere di affermare con chiarezza alle forze politiche e ai cittadini che sarebbe sleale impegnarsi con programmi inattuabili, che alimentino invano le già alte aspettative, sapendo di non poterle affrontare. Cercheremo di affrontare i problemi più urgenti e improcrastinabili” dice ancora la ministra. Incarichi direttivi a magistrati con capacità di gestione - La capacita gestionale dovrà entrare tra i requisiti per la nomina dei magistrati agli incarichi direttivi. È un ulteriore direttrice su cui si muoveranno le scelte della ministra secondo quanto riferito in Commissione alla Camera. Come contromisura si potrebbero “scoraggiare le logiche spartitorie che poco si addicono” alla natura di organo di rilevanza costituzionale del Csm, anche attraverso il “rinnovo parziale” dell’organo di governo autonomo della magistratura. “Ogni due anni potrebbero essere rinnovati la metà dei laici e dei togati”, spiega la ministra, aggiungendo che un intervento del genere servirebbe oltre che a combattere le logiche correntizie a dare “maggiore continuità” allo stesso Csm. Pm rispettino riserbo su avvio indagini - In linea più generale per Cartabia “c’è la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano da strumenti mediatici per l’effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza”. Nel penale tempo maturo per giustizia riparativa - Il tempo “è ormai maturo per sviluppare e mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa”. Infatti a giudizio di Cartabia “le più autorevoli fonti europee e internazionali ormai da tempo hanno stabilito principi di riferimento comuni e indicazioni concrete per sollecitare gli ordinamenti nazionali a elaborare paradigmi di giustizia riparativa che permettano alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se entrambi vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale”. La riforma del processo penale, secondo la ministra, “deve pure poggiare su meditati interventi di deflazione sostanziale”, tra l’altro “intervenendo sui meccanismi di procedibilità, incrementando il rilievo delle condotte riparatorie ed ampliando l’operatività di istituti che si sono rilevati nella prassi particolarmente effettivi, come la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato e la non punibilità per particolare tenuità del fatto”. Giustizia, l’allarme di Cartabia. Atteso un diluvio di contenziosi di Francesco Grignetti La Stampa, 16 marzo 2021 Attenti, la pandemia sta per travolgere la giustizia italiana. È allarmatissima, la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, alla sua prima uscita in Parlamento. Nulla di nuovo sotto il cielo. La giustizia italiana è sempre la grande malata d’Europa. “I tempi continuano a registrare medie del tutto inadeguate”. Annuncia perciò, la ministra, che nel giro di qualche settimana si deve chiudere il Recovery Plan ed entro la fine di aprile presenterà la versione definitiva delle grandi riforme: penale, civile, Consiglio superiore della magistratura, forse anche la tributaria. Ma è la valanga del nuovo contenzioso ciò che davvero la preoccupa. Bisogna fare presto, avverte, per prevenire il collasso della giustizia civile. Per questo motivo, immagina robusti investimenti grazie ai fondi europei, una riforma dei riti (ma lascia trapelare i dubbi sull’abolizione del rito sommario di cognizione “non soltanto funzionante, ma particolarmente apprezzato) e insieme un’accelerazione sulla mediazione e l’arbitrato con meccanismi di premialità. Tutto, pur di disinnescare una terribile bomba ad orologeria. Prefigura infatti un’esplosione del contenzioso “quando cesseranno gli effetti dei provvedimenti che bloccano gli sfratti, le esecuzioni, le procedure concorsuali, i licenziamenti, il contenzioso bancario. Occorre prepararsi per tempo”. Se sulla giustizia civile è facile immaginare una concordia tra le forze politiche, altro è il discorso sul penale. Cartabia se ne rende conto. “Sento il dovere di affermare con chiarezza, a tutte le forze politiche presenti in Parlamento e a tutti i cittadini, che sarebbe sleale, nel contesto attuale, delineare programmi inattuabili, che alimentino invano le già alte aspettative che animano il dibattito pubblico, ben sapendo di non poterle realizzare. Cercheremo di affrontare i problemi più urgenti e improcrastinabili”. Il primo dei problemi è l’accelerazione del processo penale. A riuscirci, si “sdrammatizzerebbe” il nodo della prescrizione. Valuterà la riforma Bonafede che impone tempi definiti alle indagini e all’udienza preliminare. Una altra strada sono i riti alternativi. Quanto alla prescrizione, lascia intravedere l’esperienza tedesca o spagnola, “rimedi di tipo compensativo per le ipotesi in cui si registri una dilatazione eccessiva dei tempi processuali non ascrivibile a responsabilità dell’imputato”. Sarebbe conforme alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. E comunque, per essere europei a testa alta, occorre rafforzare gli aspetti della presunzione di innocenza, del diritto di presenziare al processo, del segreto sul registro degli indagati. Un approccio garantista. E non potrebbe essere altrimenti per un’ex presidente della Corte costituzionale. Da notare, peraltro, che la presidente emerita ha parlato ai parlamentari in piedi, in segno di rispetto. Proprio l’esperienza della Corte costituzionale le ha suggerito un’ipotesi abbastanza rivoluzionaria per il Csm, in crisi verticale dopo lo scandalo Palamara: il rinnovo parziale. “Ogni due anni potrebbero essere rinnovati la metà dei laici e la metà dei togati”. In questo modo - ragiona - si assicura “una maggiore continuità dell’istituzione”, non si disperdono “le competenze acquisite”, e soprattutto si scoraggiano “le logiche spartitorie”. Senza illudersi, naturalmente, che un intervento sul sistema elettorale “possa di per sé offrire una definitiva soluzione alle criticità”. Già, perché le “criticità che stanno interessando la magistratura italiana attingono a un sostrato comportamentale e culturale che nessuna legge da sola può essere in grado di sovvertire”. La crisi della magistratura è figlia della Costituzione di Alberto Cisterna* Il Riformista, 16 marzo 2021 Il processo a Palamara sarà un bagno di sangue. Sarà messa in discussione non la credibilità delle singole toghe ma di tutto il sistema. Come ci si salva? Bisogna ripartire dai principi e mettere mano alla Carta. Un importante articolo del professor Ainis (“Le correnti senza ideali” su Repubblica del 12 marzo) solleva questioni di grande rilievo sulla crisi della magistratura italiana o, meglio, di quella sua specifica rappresentanza professionale che sono le cosiddette correnti. La trama fitta delle osservazioni che l’illustre studioso svolge a proposito dell’identità delle fibrillazioni che toccano, insieme, la magistratura associata e un importante formazione politica del Paese (il PD) trova un punto di convergenza nell’azione, a suo dire nefasta, che le correnti hanno svolto e svolgerebbero in seno a formazioni - la magistratura e i partiti - di primario rango costituzionale. Il punto di caduta del ragionamento è, in buona sostanza, che proprio attraverso la degenerazione torrentizia si siano tralignati gli scopi e le ragioni che avevano previsto l’inserimento nella Carta fondamentale di un Csm su base elettiva (articolo 104) e che avevano legittimato l’organizzazione spontanea della politica attraverso lo strumento dei partiti (articolo 49). L’analisi del professore Ainis non si sottrae certo a valutazioni estremamente severe circa l’associazionismo torrentizio definito come un insieme di “lobby, cricche, camarille. Al servizio dei propri affiliati, non di un ideale. Anche se contraffatte con nomi suadenti: la democrazia, le riforme, l’indipendenza, la giustizia. Ma in realtà impegnate in una guerra per bande, fra eserciti nemici che però indossano la medesima divisa. Il bottino? La prossima nomina in un ufficio giudiziario, se sei un magistrato”. Se così fosse, par chiaro che se ne imporrebbe l’immediato scioglimento d’autorità poiché organizzazioni tendenzialmente eversive dell’ordine costituzionale e capaci di minacciare il regolare svolgimento delle attività di organi di primario rilievo per la Repubblica. Nessuno, e neppure l’illustre costituzionalista, giunge ovviamente a questa conclusione, ben consapevole del fatto che non si possono criminalizzare correnti giudiziarie e correnti partitiche sulla base di deviazioni, pur massicce e significative, dalle ragioni ideali che ne giustificano l’esistenza. Però l’analisi pone in esergo un profilo importante, e totalmente sottostimato nel dibattito che si sta sviluppando sul sistema di potere venuto a galla dopo l’affaire Procura di Roma ovvero se per porre rimedio a quanto successo sia sufficiente un’azione di mera autorigenerazione morale dei gruppi associativi o se sia bastevole una riforma del sistema elettorale del Csm oppure se occorra metter mano alla Costituzione attraverso una più radicale riforma dell’ordinamento giudiziario e delle carriere. Non è necessario star qui a ricordare quali componenti del dibattito in corso si schierino sull’uno o sull’altro versante delle varie opzioni. Certo ai sostenitori della rivoluzione morale e ai fautori dei codici deontologici non si può fare a meno di ricordare che non è bastato il codice penale per infrenare comportamenti deviati e prassi devianti, per cui non guasterebbe un certo realismo al riguardo. La tesi del professore Ainis è che la palude correntizia sia una “malattia che non è figlia della Costituzione” e che “per rompere questo circolo vizioso, non serve una Costituzione tutta nuova, bensì nuove norme d’attuazione dei principi costituzionali. Quanto alle correnti giudiziarie, attraverso un sorteggio pilotato fra i magistrati più laboriosi, per designare i 16 togati del Csm”. Certamente l’idea del sorteggio, da sempre avversata dalla maggioranza delle correnti dell’Anm e per ragioni ideologiche non trascurabili, si pone come una soluzione d’emergenza resa, per giunta, impellente dalla scadenza del Csm in carica nel 2022. In mancanza di altre soluzioni che non siano origami elettorali tanto incomprensibili quanto discutibili (mini collegi, sminuzzamenti della base elettorale e via seguitando), il pre-sorteggio dei candidati al Csm da sottoporre, poi, al voto delle toghe offre una via d’uscita rapida e, tutto sommato, non particolarmente penalizzante per la corporazione. In fondo siamo in presenza di meno di 10.000 aventi diritto al voto e non si deve certo metter mano alle Tavole della legge come una sorta di ego ipertrofico della corporazione pretende che sia, ma solo di indicare la maggioranza dei componenti di un Organo prevalentemente dedito alla amministrazione dei magistrati italiani e che non rappresenta in alcun modo il vertice della giurisdizione. Resta il dubbio che questa soluzione possa rappresentare una reale svolta nell’assetto della magistratura italiana e possa, d’un colpo, sopire le acque agitate dai carrierismi e dai cacicchi elettorali. Le toghe italiane sono in ebollizione da molto tempo e un nuovo coperchio elettorale non impedirà al malessere e alle critiche di prendere forma in altro modo e attraverso altre vie. Occorre essere lungimiranti in proposito. È sempre più evidente, anche agli occhi dei meno intranei al sistema tratteggiato sommariamente dal dottor Palamara, che il processo a suo carico che andrà a svolgersi a Perugia sarà un gigantesco bagno di sangue per la magistratura italiana Vedremo se le telecamere saranno ammesse in aula e se gli epigoni del giornalismo giudiziario si stracceranno le vesti come ora sta accadendo per altre vicende giudiziarie che si assumono oscurate mediaticamente da divieti di ripresa. Una scelta, questa, non da poco perché terrebbe i riflettori permanentemente accesi su un susseguirsi di testimonianze e di racconti che minacciano di intaccare non la credibilità dei singoli (che poco importa invero se non sono stati probi), quanto l’autorevolezza dell’intera magistratura italiana agli occhi dei cittadini i quali vedrebbero crollare l’indispensabile fiducia verso la caratura morale dei propri giudici e senza che si possano fare troppe distinzioni o praticare curiali sottigliezze. Un lungo ed estenuante “Giorno in pretura” in cui gli imputati sarebbero, per la prima volta, i pretori; anzi i pretoriani di una casta, incistati in qualche caso nei vertici più alti della magistratura. Da questo punto di vista il processo, se come pare probabile ci sarà, andrà per forza documentato e studiato come si esamina un cadavere su un tavolo settorio. Una lunga, crudele autopsia per scoprire le cause del decesso e le tracce degli autori del delitto. Che questo accada dipende, comunque, da scelte insindacabili di quel tribunale e staremo a vedere. In questo probabile scenario una riforma costituzionale ad ampio compasso potrebbe rappresentare l’unico strumento adeguato per rassicurare la collettività e le istituzioni circa la reale tenuta democratica della giurisdizione che svolge un compito difficile per il quale il consenso e l’adesione dei consociali sono indispensabili. Una vera e propria rifondazione costituzionale del processo e della magistratura per immunizzarla per sempre da rischi del genere. Purtroppo le degenerazioni correntizie rischiano di portare a fondo tutte le toghe, anche le tantissime che spalano fascicoli e sudano ogni giorno per rendere giustizia e a cui sembra consegnato, se non si cambia radicalmente strada, un cupo monito: “lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Matteo 8,18-22). *Magistrato Limiti alla custodia cautelare. No alla misura per reati puniti entro 3 anni di carcere di Ilaria Li Vigni Italia Oggi, 16 marzo 2021 Per la Corte di cassazione la reclusione va sostituita con sanzioni meno afflittive. No alla custodia cautelare in carcere per i reati puniti entro tre anni di reclusione, in questi casi deve essere sostituita da misura meno afflittiva non solo in fase applicativa, ma anche nell’esecuzione. La Cassazione, sezione V penale, con la sentenza n. 4948/2021 in data 8 febbraio 2021, ha posto rimedio alle diverse interpretazioni dovute alla lacuna normativa che espressamente esclude, per le esigenze cautelari, l’applicazione della misura maggiormente afflittiva del carcere solo nella fase applicativa, cioè quando la prognosi del giudice sulla futura condanna si assesti entro i tre anni. La Corte, disponendo l’immediata scarcerazione di un detenuto immigrato accusato di piccoli reati, ha evidenziato che la custodia cautelare in carcere va sostituita da misura meno afflittiva, non solo in fase applicativa, quando il giudice preveda che la condanna sia infratriennale, ma anche quando, durante l’esecuzione, intervenga condanna - anche non definitiva - inferiore a tre anni. La pronuncia nasce da un ricorso del detenuto contro un’ordinanza del Tribunale del riesame de L’Aquila che confermava quella del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Chieti che aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere per più episodi di tentato furto aggravato di autovetture. La Cassazione ha posto rimedio alle diverse interpretazioni dovute alla lacuna normativa. L’esegesi della Cassazione si focalizza, principalmente, sul comma 2 bis dell’art. 275 cpp e, proprio sul punto, occorrono alcune brevi considerazioni. Il comma in esame, introdotto dalla legge 332/1995 e modificato, prima con il dl 92/2014 poi con la legge 69/2019, prevede il divieto della misura coercitiva inframuraria, qualora la pena irrogata in sede di condanna sia inferiore a tre anni. Ciò, a meno che questa non sia disposta quale aggravamento di una precedente misura meno restrittiva. Tuttavia manca una statuizione altrettanto chiara e puntuale circa la necessità di effettuare una valutazione della prognosi di condanna, inferiore ad anni tre, in sede di applicazione della misura. Tale vulnus normativo può essere colmato dall’art. 299 cpp con cui il giudice effettua una considerazione circa la proporzionalità del titolo emesso qualora vi sia un mutamento delle esigenze cautelari. Tutto ciò deve leggersi in riferimento alla celebre sentenza Torreggiani contro Italia della Corte Edu, sulla violazione dell’art. 3 della Convenzione Edu dovuta al sovraffollamento carcerario. Le modifiche imposte all’Italia sul punto si sono concretizzate mediante l’intervento di novella dell’art. 275, comma 2-bis cpp, ad opera del dl 92/2014, ponendolo in evidente raccordo con l’art. 656 cpp, circa la sospensione dell’esecuzione della pena qualora inferiore ad anni tre. La ratio del legislatore è chiara e si costituisce di una indubbia volontà di rendere organica la decompressione carceraria sia in fase cautelare che esecutiva. Da ultimo una precisazione circa i vizi successivi al momento genetico dell’ordinanza. Questi, alla luce del ragionamento della Corte, si differenziano in maniera significativa dalla sopravvenuta sentenza di condanna infratriennale. Infatti, pur coinvolgendo eventuali invalidità dell’atto vengono travolti dalla sentenza che si ripercuote direttamente su una valutazione che avrebbe dovuto essere fatta ora per allora dal giudice. Spiega, infatti, la Cassazione che se è vero che il comma 2 bis dell’articolo 275 cpp prescrive esplicitamente tale obbligo prognostico da parte del giudice solo al momento di decidere, ciò non azzera la previsione dell’articolo 299 dello stesso Codice, che impone al giudice di valutare adeguatezza e proporzionalità delle misure restrittive della libertà personale, anche nelle fasi successive all’irrogazione. Quindi anche nella seconda fase, cioè dopo l’applicazione, che la Cassazione definisce “dinamica, si impone appunto di provvedere a sostituire con misura meno afflittiva del carcere il rispetto delle esigenze cautelari, nel caso in cui sia intervenuta condanna inferiore a tre anni anche se non ancora definitiva. La pronuncia rafforza il principio che il carcere va sostituito con misure cautelari meno afflittive per condanne inferiori ai tre anni. Gommista uccise il ladro, il giudice: legittima difesa di Simone Innocenti Corriere Fiorentino, 16 marzo 2021 Sparò nel suo negozio di gomme nel 2018. Ora l’archiviazione. Il gip di Arezzo Fabio Lombardo, ha archiviato le accuse contestate a Fredy Pacini, il gommista 60enne di Monte San Savino (Arezzo) che il 28 novembre 2018 uccise Vitalie Tonjoc Mircea, 29 anni, moldavo, entrato nella sua rivendita con altre persone per commettere un furto. “È ragionevole ritenere che il Pacini si sia convinto di essere in pericolo dopo aver visto i ladri entrare nel capannone precludendogli l’unica via di fuga - scrive il giudice nel suo dispositivo di 8 pagine. (...) È ragionevole che il Pacini possa essere prefigurato che, di lì a poco, si sarebbe potuto trovare in serio pericolo di vita e che abbia temuto per la propria incolumità”. L’archiviazione per Fredy Pacini, che arriva dopo che due volte era stata negata, era stata chiesta per la terza volta dal procuratore di Arezzo Roberto Rossi che aveva ereditato l’inchiesta dal pm Andrea Claudiani, nel frattempo trasferito per altro incarico. “È la fine di un incubo”, ha detto Pacini al suo legale Alessandra Cheli. L’uomo, che in passato aveva subito trentotto furti nel suo negozio, quella notte si trovava all’interno del capannone quando fu svegliato da alcuni rumori: in quel momento il moldavo aveva rotto una vetrata per entrare nel negozio di gomme. Pacini sparò cinque colpi. Due andarono a segno: Mircea fu colpito a una coscia e a un ginocchio per poi cadere rovinosamente a terra, battendo violentemente la testa. “Ho mirato alla persona ma avendo come unica intenzione quello di impaurirlo per mandarlo via”, aveva detto a verbale Pacini. “Non può escludersi al di là di ogni ragionevole dubbio che il proiettile mortale (quello che colpì alla coscia) dal basso verso l’alto sia in realtà quello che rimbalzò sulla pavimentazione dell’officina”, ha scritto il giudice che ha analizzato le perizie balistiche e il lavoro investigativo dei carabinieri del Reparto operativo del Comando provinciale di Arezzo. Il gip ha applicato la nuova legge sulla legittima difesa che esclude la punibilità di chi commette gesti di questo tipo per salvaguardare la propria incolumità in uno “stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”. “Una bella notizia ogni tanto! Grazie alla nuova legge sulla legittima difesa voluta dalla Lega è stato archiviato il caso di Fredy Pacini che si difese nella sua azienda - bersagliata dai furti - sparando e purtroppo uccidendo un ladro”, ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini. “Dopo quasi tre anni finisce l’incubo giudiziario, sono davvero felice per Fredy e i suoi cari, spero di poter tornare presto a trovarli e abbracciarli: giustizia è fatta!”, ha concluso il segretario nazionale della Lega che all’epoca dei fatti era ministro dell’Interno. “Si conclude nel migliore dei modi l’odissea giudiziaria di Fredy Pacini. Per noi la difesa è sempre legittima!”, commenta anche l’europarlamentare Susanna Ceccardi (Lega). “Un anno fa lo incontrai per mostrargli tutta la mia solidarietà per quanto stava vivendo. La difesa è sempre legittima”, scrive su Facebook il presidente di FdI, Giorgia Meloni. Taranto. Morto in carcere il boss Riccardo Modeo: da 30 anni in cella Gazzetta del Mezzogiorno, 16 marzo 2021 Aveva 63 anni ed era affetto da un male incurabile. È morto oggi all’alba il boss tarantino Riccardo Modeo, di 63 anni, storico boss della mala tarantina, condannato a 4 ergastoli. Era affetto da un male incurabile e dopo aver trascorso 30 anni in carcere una decina di giorni fa era stato prima ricoverato nel reparto oncologico dell’ospedale Moscati e poi aveva ottenuto la possibilità di trascorrere la detenzione ai domiciliari, in casa di una sorella. Riccardo Modeo, insieme ai fratelli Claudio e Gianfranco, fece parte di uno dei clan protagonista della guerra di mala che insanguinò Taranto a cavallo tra gli anni 80 e 90. Il suo legale, l’avvocato Maria Letizia Serra, si era battuto affinché il suo assistito ottenesse gli arresti domiciliari in una struttura sanitaria. Modeo fu arrestato agli inizia degli anni Novanta nel blitz Ellesponto sfociato nel grande processo alla criminalità tarantina, che ha ricostruito la saga dei fratelli Modeo, il traffico di droga, il racket delle estorsioni, gli omicidi a catena soprattutto all’interno di formazioni prima alleate e poi nemiche dell’organizzazione madre. L’inchiesta “Ellesponto” ha ricostruito il filo rosso-sangue della memoria. Almeno un centinaio di morti ammazzati, l’era criminale più cruenta che Taranto possa ricordare. Il processo è andato in archivio con 13 ergastoli ed altre 71 condanne per circa mille anni di carcere. Modena. Carcere, un anniversario che nessuno vuole ricordare di Giovanni Iozzoli napolimonitor.it, 16 marzo 2021 È passato un anno, ma la percezione di un tempo morto, cristallizzato, che non vuole passare, si avverte pesante nell’aria. È la sensazione abituale di chi trascorre in cella lunghi anni, ma oggi è comune a molti, nella operosa cittadina emiliana. Questo marzo 2021 somiglia parecchio a quello 2020: stessa zona rossa, stesso spettrale deja-vu, stessa onnipresenza di divise - senza attesa o tensione, però, come fu nel primo lockdown, solo stanchezza e scoramento. Come se tutta la città fosse rannicchiata sulla branda di una cella, a contemplare l’assenza di futuro. Eppure è passato già un anno. Era il pomeriggio dell’8 marzo 2020, quello in cui tutta la città vide il fumo di Sant’Anna arrampicarsi lento in cielo, come la corda di un fachiro; il pomeriggio maledetto che si lasciò dietro una scia di nove cadaveri. Un anno in cui l’istituzione carcere ha provato in ogni modo ad auto-assolversi: subito con le versioni di comodo (il primo decesso constatato era già ufficialmente “morto di overdose”, prima ancora che si capisse cosa diavolo stesse succedendo dietro quelle mura); poi con le farneticazioni di un ministro che urlava al “complotto mafioso” per giustificare l’inspiegabile; poi con il silenzio tombale; oggi, con la tronfia esibizione di muscoli e richieste di archiviazione. Un comitato, uno tra i diversi organismi sorti in Italia dopo il ciclo dell’8 marzo, si è costituito a Modena nei mesi scorsi per reclamare “verità e giustizia per la strage di Sant’Anna”. E l’anniversario - ricordato domenica 7, con un presidio davanti alla Casa Circondariale - doveva essere un passaggio forte del suo lavoro di controinformazione e controinchiesta. L’iniziativa c’è stata e ha fatto registrare molti elementi positivi, di ricchezza umana e politica - nonostante il momento non potesse essere più infausto. La zona rossa in città ha provocato molte diserzioni e ha svuotato le strade. Quindi, alla fine, quel che si è messo in piedi, è stato oggettivamente importante e in salutare controtendenza. Il comitato sta cercando di evitare che la ferita “si cicatrizzi”, sforzandosi di tenere aperta la questione, continuando a sollevare domande, raccogliendo testimonianze - e lo sta facendo egregiamente, con iniziative, con la pubblicazione di un dossier, la costruzione di relazioni con i familiari dei detenuti e con gli avvocati, in un grosso impegno di messa in rete di ciò che si sa davvero dell’8 marzo modenese. Quello che il comitato non è riuscito a innescare - oggettivamente - è il coinvolgimento della città, o almeno di un qualche suo segmento civile. Si badi bene, questa constatazione va misurata con tutte le attenuanti della fase maledetta che stiamo attraversando, che non è solo “il Covid”, ma l’accettazione passiva di ogni restrizione, l’affidamento “al governo”, qualunque esso sia; una specie di resa collettiva in cui la gente stremata e confusa si consegna mani e piedi a qualsiasi potere sia in grado di garantire un po’ di reddito o di vaccino. Ma, al di là di questa misera condizione, tutti i partecipanti al presidio - che pure avevano scelto un profilo aperto, non militante - hanno avuto l’impressione della loro estraneità al tessuto profondo della città. L’indifferenza per il carcere e l’odio per i suoi ospiti, sono ormai incancreniti sotto la pelle della normalità “democratica”. Anni e anni di ideologie securitarie hanno annichilito non solo la tenuta civile e costituzionale della coscienza popolare, ma l’hanno abbrutita sul piano umano, hanno portato il normale cittadino - della pacifica comunità padana - a costituire una ideale tribù degli onesti, dei giusti, dei regolari, dal cui perimetro fortificato scagliare odio verso quelli dell’altra tribù - i malviventi, gli attentatori della proprietà, gli usurpatori, i frequentatori di negozi etnici e celle italiche. Una postura clanistica, tribale, una specie di ritorno all’arcaico, dietro le vetrine del politicamente corretto e della buona cittadinanza. Come fare, nel prossimo futuro, a spostare un pezzo - anche un pezzettino - di questa comunità confusa e rancorosa, in direzione del suo carcere, sarà la scommessa del comitato nei prossimi mesi. Archiviazioni (come quelle richieste dalla procura di Modena per otto dei nove morti) o assoluzioni sommarie (vedi il discorso del procuratore generale della Cassazione all’aperura dell’anno giudiziario), non aiuteranno. Ma tanto la verità non verrà certo fuori dalle aule dei tribunali. Pier Paolo Pasolini non è alle toghe che si appellava, quando con il suo “io so”, spiegava il senso della distinzione tra verità storica e verità giudiziaria. Spesso la ricerca estenuante della “giusta sentenza”, ha sterilizzato il senso politico delle grandi tragedie italiane - la chiave di lettura generale, che non ha bisogno di indizi, referti o autopsie. Ma non è solo la città “perbene” a rifiutare ogni assunzione di responsabilità verso una realtà che sente estranea - come una discarica e molto più di un canile. Anche il micro-mondo sopravvissuto della sinistra assume un atteggiamento ostile, scettico, eccessivamente prudente. Come se il tema carcere fosse circoscritto da una barriera elettrificata. Molti hanno borbottato tra i denti: si va bene, il carcere, la Costituzione, i morti dell’8 marzo; ma come si fa a parlare di queste cose mentre la gente pensa solo al Covid? Già come si fa? E come si faceva prima? Un anno o due o tre o dieci anni fa, quando “la gente” non era distratta dai problemi sanitari, ma da quelli ordinari di ogni società complessa? Perché neanche allora se ne parlava? Perché c’è sempre qualche altra priorità che ci inibisce, ci devia? Qual è il male oscuro che ci fa rimuovere sempre dal nostro orizzonte il tema della reclusione? Un episodio rende il senso del ritardo con cui i movimenti stanno affrontando questa impresa. Nel corso del presidio modenese, alla lettura dei nomi dei nove morti, una donna ha chiesto il microfono urlando: avete dimenticato un nome, quello di mio figlio. Gli organizzatori, un po’ disorientati, l’hanno lasciata parlare, nessuno la conosceva. È la madre di un detenuto ufficialmente suicida - secondo lei assassinato dentro quel carcere - un anno prima delle rivolte di marzo. Nessuno dei presenti lo aveva sentito nominare. È una delle piccole insignificanti vite che ogni anno si spengono tra le mura dei penitenziari italiani - per disperazione, mancanza di cure, spesso per brutalità del sistema. Quella donna era venuta a ricordare ai presenti che di galera si moriva anche prima dell’8 marzo, e che se le nove vittime della rivolta avevano almeno visto il loro nome stampato su qualche giornale, delle altre centinaia di vite inghiottite dal moloch-carcere non si sa nulla. Forse le rivolte italiane di un anno fa possono rappresentare un’occasione. Per tutti noi. Verona. Un anno di Covid nel carcere di Montorio, contagiati 58 detenuti e 44 poliziotti veronasera.it, 16 marzo 2021 Solo due positivi hanno avuto necessità di essere ricoverati, un detenuto ed un agente. Nel frattempo, la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Forestan lascia il suo incarico con un anno di anticipo rispetto alla scadenza. Un anno di Covid all’interno del carcere. Nella seduta straordinaria del consiglio comunale di Verona di giovedì scorso, 11 marzo, la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Margherita Forestan ha presentato la relazione 2020, prima di lasciare ufficialmente il suo incarico con un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale. Una sintesi della condizione carceraria durante la pandemia e del lavoro fatto per attuare la funzione rieducativa, riabilitativa e di reinserimento sociale del carcere. “Un anno difficile - ha detto Forestan - Il Covid ha governato l’intera annata con radicali cambiamenti all’interno del carcere. Su sei sezioni, tre sono state paralizzate e convertite per ospitare contagiati, asintomatici e persone in quarantena. Ad inizio pandemia numerosi rivoltosi delle altre case circondariali d’Italia sono stati trasferiti a Montorio. Il nostro carcere, che ha 335 posti, è arrivato ad ospitare 520 persone. Scese poi a 380 durante l’anno grazie allo specifico decreto governativo. In tutto sono stati fatti 800 tamponi molecolari. Solo un detenuto ha avuto necessità di ricovero, sui 58 che si sono contagiati. Un ricovera anche tra i poliziotti, sui 44 casi che li hanno riguardati. Oggi siamo praticamente Covid free. Un anno che ha influito sugli episodi critici quindi, ma anche sulla formazione e la scuola dei detenuti, così come sulla possibilità di lavorare all’esterno del carcere, attività di cui il Comune di Verona è leader. Ringrazio tutti coloro che mi hanno accompagnata in questi anni di lavoro, lascio questo incarico portando con me le tante esperienze umane straordinarie. In vista della fine dell’incubo Covid è giusto che qualcuno inizi a pensare e avviare progetti nuovi per il prossimo triennio, lavorandoci fin d’ora” Nel 2020 sono stati 1.691 gli eventi critici all’interno del carcere, dei quali un suicidio e due decessi per cause naturali. Ben 8.874 le prestazioni sanitarie, di cui 2.933 visite specialistiche. Dopo la sospensione delle attività scolastiche in primavera, a settembre 90 studenti hanno ripreso a frequentare i corsi di alfabetizzazione. La direzione del carcere e il Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti (Cpia), durante la scorsa estate, si sono attivati per dotare il carcere di strumentazioni e connessioni finalizzate a garantire la fruizione delle lezioni a distanza e la continuità della relazione con i docenti. Sono ben 35 gli iscritti alla scuola secondaria superiore a cura dell’Istituto Alberghiero “Berti” e 11 quelli che frequentano il corso liceale in collaborazione con l’Istituto Livia Mondin. Tre gli studenti che stanno preparando gli esami per l’Università di Verona, a cura dell’associazione di volontariato La Franternità. Ben 24 le persone che partecipano ad attività lavorative fuori dal carcere. Pisa. “Saranno vaccinati i detenuti del Don Bosco” di Carlo Baroni La Nazione, 16 marzo 2021 Il garante, avvocato Marchesi: “La risposta della Regione Toscana alle nostre richiesta è stata rapida”. Riaperta la sezione femminile. Il carcere Don Bosco di Pisa è Covid free. E tra questa e la prossima settimana dovrebbero iniziare le vaccinazioni. Iniziando dal personale, agenti di polizia penitenziaria e funzionari che hanno i contatti con l’esterno e che potenzialmente, nonostante le misure attivate per il contenimento della pandemia, potrebbero portare dentro le mura della casa circondariale il virus. Peraltro il Don Bosco ha riaperto nelle settimane scorse la sezione femminile che era chiusa da circa due anni per lavori di ristrutturazione. Della situazione complessiva ne parliamo con l’avvocato Alberto Marchesi, garante dei detenuti. Avvocato la vaccinazione dovrebbe essere questione di giorni... “I garanti di tutti gli istituti hanno chiesto il vaccino e dobbiamo sottolineare che la risposta della Regione Toscana è stata immediatamente positiva inserendo la popolazione carceraria nella fascia di estrema fragilità. Ci è stato comunicato dal presidente del consiglio regionale Antonio Mazzeo che la vaccinazione, carcere per carcere, inizierà a breve compatibilmente con la disponibilità di dosi”. Quanto sta pesando la pandemia sulla vita dei detenuti? “Tantissimo. I colloqui sono sospesi, anche se sono state aumentate le video chiamate. Poi, appunto, il timore del contagio da Covid: siamo in un carcere senza celle singole, con spazi molto ridotti, poche aree all’aperto. Le restrizioni pesano molto: siamo nella zona che più rossa non si può”. C’è poi la questione del sovraffollamento... “Questione annosa. La capienza massima del carcere di Pisa è 198 detenuti. Oggi sono 257. Nessun positivo al Coronavirus. E non è così ovunque. Il carcere di Volterra insegna. In Toscana ad oggi ci sono 63 detenuti positivi di cui 57 a Volterra”. Il quadro è costantemente monitorato? “Certo, tutte le settimane abbiamo un report dettagliato. Il Covid, ricordiamo, è entrato solo nella prima fase della pandemia, nella scorsa primavera. Se il contagio entra in un carcere è un disastro. Qui a Pisa la struttura si è organizzata anche per isolare quei soggetti che dovessero risultare positivi. La vaccinazione, comunque, è il passo determinante”. Come verrà organizzata la vaccinazione? “Sarà l’Asl ad organizzarla. Ma diciamo che Don Bosco avendo un centro clinico può fare tutto internamente creando un percorso vaccinale efficiente e sicuro. Si comincerà appunto dal personale (219 unità). Per i nuovi ingressi inizialmente faranno l’isolamento fiduciario e tampone e nel proseguo, poi, saranno vaccinati anche loro”. La sezione femminile è già attiva? “Sì. Si tratta di una piccola sezione con 25 posti. Ma le prime detenuti che erano in altre strutture sono già rientrate. La sezione è stata completamente ristrutturata ed adeguata alle esigenze. Verteva in condizioni davvero precarie”. Brescia. Una casa per i detenuti con il sostegno “online” bresciaoggi.it, 16 marzo 2021 Il reinserimento sociale dei detenuti è l’obiettivo dell’associazione Vol.Ca. Visite, aiuto materiale, culturale e spirituale: essere vicino ai carcerati significa tutto questo ma anche di più, ovvero cercare spazi per il reinserimento sociale ed è quello che sta facendo l’associazione Volontariato Carcere (Vol.Ca.). In sinergia con la Congrega della Carità Apostolica di Brescia ha attivato una raccolta fondi per completare l’arredamento di un appartamento nel cuore della città, destinato ai detenuti che stanno usufruendo del regime di misura alternativa. “I mobili e la biancheria sono già stati trovati, occorrono fondi per l’acquisto degli elettrodomestici e di qualche arredo”, si leggeva nell’appello che - sul portale GoFundMe - ha riscosso una risposta andata ben oltre le attese. “Una casa per ritornare a vivere” è il motto dell’iniziativa, ma pure un concetto che riassume la visione di Vol.Ca, fondata nel 1987 per volontà dell’allora vescovo Bruno Foresti, per “visitare i carcerati”, un fine riletto e pensato con le attenzioni dell’oggi. Sestri Levante (Ge). Rinnovato il progetto per impiegare i detenuti di Sara Olivieri Il Secolo XIX, 16 marzo 2021 Saranno coinvolti in manutenzioni, interne ed esterne, ma anche nelle biblioteche, nel servizio mensa e nell’allestimento di eventi. Inaugurata nel 2016, la collaborazione tra il Comune di Sestri Levante e la casa di reclusione di Chiavari continua. Le modalità sono contenute nel protocollo - rinnovato nei giorni scorsi - che permette l’impiego di detenuti in attività lavorative per favorire la loro integrazione. Nel caso del Comune sestrese, il loro impiego non è solo nell’ambito delle manutenzioni, interne ed esterne, ma anche nelle biblioteche, nel servizio mensa e nell’allestimento di eventi a cura della società Mediterraneo Servizi. Al momento sono due i detenuti che partecipano al progetto, su diciassette in totale coinvolti negli ultimi cinque anni. Per l’ente locale si tratta di una buona prassi che offre opportunità rieducative e il miglioramento della qualità della vita dei soggetti coinvolti, grazie al riavvicinamento al mondo del lavoro e attraverso un percorso di consapevolezza e cambiamento, promuovendo la partecipazione alla vita civile. “Ringrazio la direzione della Casa circondariale di Chiavari per il supporto in questo percorso, che costituisce un ottimo modello di integrazione socio lavorativa, in grado di dare concretezza all’elemento rieducativo e di recupero sociale, che dovrebbe essere il fine più importante della pena detentiva - dichiara la sindaca Valentina Ghio - Dare l’opportunità di un riavvicinamento con il mondo del lavoro, seppure parziale e graduale, significa dare ai detenuti concrete possibilità di una vita normale una volta scontata la pena. È evidente il valore formativo di questo tipo di esperienza, che si unisce al beneficio indiretto di cui godono i cittadini”. Il programma è stato messo a punto partendo dalle professionalità di ciascun detenuto già all’interno del carcere, allo scopo di prevenire processi di emarginazione sociale una volta scontata la pena. “Il protocollo ha permesso in questi anni di realizzare diversi interventi sugli immobili affidati a Mediterraneo - spiega l’amministratore della società, Marcello Massucco - ma ancora più importante è stata senza dubbio la funzione di primo reinserimento sociale dei detenuti”. Vercelli. Nel carcere un solo infermiere per 370 detenuti primavercelli.it, 16 marzo 2021 Situazione intollerabile. Nursing Up “Anni di appelli a tutte le istituzioni caduti nel vuoto. L’Asl è totalmente assente. Come si può continuare così?”. Nessuna risposta da parte delle istituzioni coinvolte (Comune, Asl Vercelli o Regione), all’ultimo appello pubblico di Nursing Up, sindacato degli infermieri italiani, sulla insostenibile situazione che va avanti da anni nel carcere di Vercelli: solo uno per turno su 370 detenuti mediamente presenti. Come risaputo la capienza massima ufficiale del Carcere di Billiemme è di 230 detenuti mentre sono mediamente presenti ben 370 persone. È assurdo pensare che un solo infermiere in servizio, e quasi sempre è così, debba sopperire alle necessità di cura di tutte queste persone; considerando che l’80% circa sono extracomunitari tossicodipendenti e/o dipendenti da sostanze diverse. Circa un terzo ha problemi psichiatrici ed infettivologici. Si può solo immaginare la difficoltà di operare in tale contesto. Inoltre, manca un coordinatore dedicato che, sempre secondo il modello organizzativo della Regione Piemonte, dovrebbe fare riferimento al responsabile infermieristico del territorio, responsabile infermieristico che nell’unica Asl di Vercelli semplicemente non esiste! Il segretario regionale del Nursing Up Claudio Delli Carri sottolinea: “È evidente la totale assenza di governo sanitario in questa realtà. Un fatto gravissimo che nonostante tutte le segnalazioni e la possibilità che si verifichino emergenze, non ha mai generato una normale e concreta pianificazione del supporto necessario a ripristinare una condizione minima di vivibilità. Un esempio? Nonostante le promesse, il documento triennale di analisi del fabbisogno del personale non prevede le due unità in più che la DGR invece stabilisce come requisiti minimi. L’Asl è, di fatto, totalmente assente. Mai uno degli interventi paventati è stato mai realizzato. Eppure sono anni che gli stessi operatori denunciano le condizioni di gravi carenze strutturali e igienico-sanitarie, climatiche, organizzative del lavoro in carcere. Vengono invece scaricate sugli infermieri competenze amministrative e di supporto, per assenza di personale idoneo. Come si può andare avanti così?”. Conclude il segretario Delli Carri: “Non è più tollerabile che nessuno si prenda la responsabilità di agire. A meno che, ed è un dubbio che è sorto, il disagio cui sono stati costretti da anni gli operatori del carcere di Vercelli non sia utile per giungere ad una esternalizzazione dell’assistenza. Se così fosse sarebbe un atteggiamento grave che sposterebbe solo il problema su altri operatori, con ancora meno tutele e garanzie. E, poi, saremmo davvero curiosi di sapere, se così sarà, in quale modo l’Asl di Vercelli saprà garantire le dovute azioni di controllo sulle attività eventualmente affidate al privato, visto che in tutti questi anni non ha mai saputo minimamente governare direttamente il problema”. Nicola Lagioia: “Solo la letteratura riesce a illuminare l’umanità del male” di Federica Graziani Il Dubbio, 16 marzo 2021 Il libro sull’omicidio di Luca Varani. “Che Foffo e Prato siano colpevoli non c’è proprio nessun dubbio. Detto questo, non sono sicuramente dei mostri. La letteratura è interessante perché riesce a mettere insieme due cose che di solito sono inconciliabili: si può essere colpevoli e umani”. Nicola Lagioia, scrittore, è l’autore de “La città dei vivi” il libro che ricostruisce l’omicidio di Luca Varani da parte di Manuel Foffo e Marco Prato. Di che parli in “La città dei vivi”? Dell’omicidio di Luca Varani, occasione per parlare della città di Roma. Siamo uno dei paesi più sicuri al mondo, i dati del Ministero della Giustizia non fanno che ripeterlo anno dopo anno, eppure abbiamo una sorta di ossessione per la cronaca nera: è una passione contemporanea? E tu perché hai scelto questo tema? C’è un ragionamento logico tra quel che hai detto e la risposta a questa domanda. Ci si interessa a ciò che è l’eccezione, non a ciò che è la regola e questo è il motivo per cui, non soltanto in Italia, ma nel mondo intero ci si appassiona alla cronaca nera. Pensa a Simenon in Francia, a Hitchcock in Gran Bretagna o pensa alle tragedie greche, solo per fare i casi classici. Lo scatenamento della violenza è spesso grimaldello per provare a gettare luce nelle profondità dell’animo umano quindi letteratura, cinema e teatro inseguono i conflitti. Se Montecchi e Capuleti non avessero litigato fra loro, Romeo e Giulietta finirebbe a pagina 3 o se Don Rodrigo non si opponesse al matrimonio fra Renzo e Lucia, i Promessi Sposi terminerebbero con la descrizione del lago di Como. Per millenni la violenza è stata garanzia per la sopravvivenza della specie e anche oggi che non è più così, perché la civiltà dovrebbe essere emancipazione da quel tipo di aggressività originaria, la parete che ci separa da quella violenza è molto più fragile di quello che pensiamo. È molto più facile ricaderci se non ci si educa abbastanza da evitarlo e quindi a maggior ragione in una società infinitamente meno violenta rispetto a quella dei secoli scorsi gli episodi di brutalità, più rari rispetto al passato, suscitano tanto interesse perché noi, appunto, siamo colpiti dalle cose eccezionali. Hai già citato tanti classici e leggendoti si può pensare a “L’avversario” di Carrère, ad “A sangue freddo” di Capote, a tanti libri di scrittori che hanno deciso di seguire l’impressione provata per l’efferatezza di un delitto e restituirla in libro. Ma io, leggendoti, ho pensato spesso a I giustizieri della rete di Jon Ronson, come se la violenza cieca e anonima di chi in rete danna qualcuno che neanche conosce avesse la stessa aria di famiglia, se così si può dire, dei sentimenti che paiono provare Foffo e Prato. Una solitudine che compie dei gesti che conducono a conseguenze tragiche e brutali ma che non è del tutto responsabile, non almeno nel modo in cui ci figuriamo una assunzione piena di responsabilità, di quel che pure ha commesso. Che colpa hanno allora i tuoi personaggi? Che Foffo e Prato siano colpevoli non c’è proprio nessun dubbio. Il fatto poi che abbiano difficoltà nel ricondurre ciò che hanno fatto a un atto di libera volontà non riduce minimamente la loro colpa, a mio parere. Detto questo, non sono sicuramente dei mostri. La letteratura è interessante perché riesce a mettere insieme due cose che di solito, nel linguaggio e nel discorso pubblico, sono inconciliabili: si può essere colpevoli e umani. Perché nel discorso pubblico chi commette determinati atti è un mostro? Perché se quel qualcuno che commette il male non ha una testa, due braccia e due gambe come noi è di una razza completamente diversa dalla nostra e di conseguenza noi non potremmo mai fare del male a nessuno. Questo è l’istintivo, comprensibile e abbastanza superficiale ragionamento che si fa. La vocazione vittimaria è più facile. A volte siamo vittime, e quando lo siamo è giusto che invochiamo e chiediamo giustizia, altre volte invece avanziamo lo status di vittime senza esserlo per incassare un credito morale che non sempre ci corrisponde, mentre è molto più difficile che ci autorappresentiamo come carnefici. Questo non vuol dire che dobbiamo pensare di essere tutti quanti tendenzialmente degli assassini, ma la società di oggi è talmente polarizzata che paiono esistere solo i buoni e i cattivi, e ovviamente noi siamo sempre dalla parte dei buoni. Quanto più non ci si rappresenta come persona che può far del male agli altri tanto più è probabile che lo si faccia senza neanche rendersene conto. Marco Prato e Manuel Foffo si descrivono come degli spossessati, come persone che non sono state in grado di fermare la catena di eventi che avevano messo in atto. Ma anche se quasi chiedono loro stessi ai propri accusatori cosa hanno fatto poiché non se ne capacitano, questo non riduce le loro colpe, a mio parere. È come se io, pur non volendomi schiantare contro una montagna, salissi su un aereo con 200 persone a bordo, prendessi la guida e decollassi senza avere neanche il brevetto di volo. La mia colpa è chiarissima: io ho già messo a repentaglio e virtualmente assassinato 200 persone quando, libero di intendere e volere, mi sono messo alla guida di quell’aereo sapendo di non avere il brevetto. A mio parere, Prato e Foffo hanno un’enorme difficoltà a distogliersi da se stessi e questa è una delle loro colpe maggiori. Citi Amelia Rosselli “Se dall’amore della disciplina nascesse il passo del soldato che non vince ma si ritira senza colpo ferire”. Foffo e Prato è come se non avessero un’identità pienamente matura e d’altronde anche altri che incontri nel libro portano con sé queste fratture nell’io, eppure la strada che a me sembri indicare per crescere è quella della rinuncia all’identità. È così? Più che rinuncia, il problema è che sapere chi siamo è un esercizio complicato e non tutti siamo disposti a fare questa fatica. Non ci conosciamo attraverso noi stessi ma attraverso gli altri, attraverso un processo di differenziazione che passa dal fatto che io riconosco nell’altro una parte di me, gli riconosco cioè una patente di umanità senza la quale potrei essere tentato di ridurlo a oggetto, come fanno Foffo e Prato con Luca Varani. E poi vedo che ci sono delle differenze sulla base delle quali capisco chi sono io. Loro questo esercizio di riconoscere se stessi e scoprire chi si è attraverso gli altri non lo fanno perché si guardano in continuazione allo specchio. Il narcisismo è una malattia sociale e ne siamo affetti tutti, chi più, chi meno, ma loro in maniera veramente esagerata. Tanto è vero che quando vengono arrestati Luca Varani compare pochissimo nelle loro dichiarazioni e nei loro interrogatori, compaiono invece spesso i loro problemi personali. Foffo è più preoccupato che la gente pensi che sia gay che non un assassino, per esempio. E Prato, quando il papà lo va a trovare in galera, gli chiede tra le altre cose come stiano commentando sulla sua pagina Facebook quello che è successo. Ripeto, ho l’impressione che loro si siano educati pochissimo a conoscere se stessi. Avendo quindi un’identità così fragile, nel momento in cui succede quello che succede, loro non sono capaci di - come dire - governare il processo che hanno instaurato. Ora, attenzione! Nel loro caso c’è una colpevolezza della debolezza, mentre invece in Luca Varani c’è l’innocenza totale della fragilità. E ancora, non è che il contrario di un’identità debole sia un’identità rigida, anzi, l’identità quanto più è rigida tanto più crea ulteriori problemi. Pensa a David Bowie, eroe della mia adolescenza, che riesce a essere uomo, donna, marziano, duca bianco. Bowie aveva un’identità mutevole, ma il manuale di istruzioni lo riusciva ben a padroneggiare. Loro no! Non ci riescono, si incasinano, si smarriscono perché non hanno un contatto profondo con la propria identità. Tanto è vero che ora che Foffo è in galera io non so se e quanto il carcere lo stia aiutando a fare una cosa. Per espiare la pena non è sufficiente scontare gli anni dovuti in prigione e automaticamente questo garantisce di uscirne recuperati alla società. Per essere recuperati alla società è necessario affrontare un lungo e molto doloroso processo di consapevolezza rispetto a ciò che si è commesso. Ma se non si hanno in sé gli strumenti per intraprendere tale percorso, non è affatto detto che il carcere provveda a darli e non mi sembra che, per esempio, a Foffo la detenzione li stia offrendo. Nel suo caso si tratta di prendere coscienza non di essersi rovinato la vita, ma di aver ammazzato senza nessun motivo una persona che non conosceva neanche. E sì che era strafatto di cocaina, ma se bastasse strafarsi di cocaina per ammazzare una persona avremmo diecimila omicidi al giorno solo nella città di Roma! Quindi Foffo dovrebbe prendere coscienza di questo, eppure non ha gli strumenti per farlo. Qui nascono due domande. La prima: chi lo aiuterà a farlo? E la seconda domanda riguarda Marco Prato, a proposito delle carceri. Prato si è suicidato mentre era detenuto. Pochi giorni prima il referto dello psicologo attestava che non c’erano pericoli che compisse atti anticonservativi. E poi s’è ammazzato. Ecco, io ho l’impressione che nel caso di Foffo e Prato, il carcere non abbia fatto in modo che si riuscisse a iniziare a dare un senso a quello che era successo. Foffo ha ucciso non sapendo neanche il nome della sua vittima e anche Ledo Prato non menziona mai suo figlio ed è qui che, così scrivi, hai provato compassione per Marco Prato. Penso a tante vicende della cronaca degli ultimi anni in cui il richiamo al nome e al cognome ha saputo aggregare una mobilitazione intorno a temi come quello delle carceri che altrimenti si preferisce evitare di affrontare e penso però anche che a volte rischiamo di beatificare in qualche modo le vite di alcuni per riuscire a preoccuparci di quello che succede nel mondo. Come se l’impegno fosse destinato a dirimersi o tra l’oblio o tra un cerimonioso ossequio ai santi deputati. Come se ne esce? Le lotte civili si compongono di due elementi che corrono paralleli. Uno è quello che dici tu, cioè lottare perché per tutti quanti sia possibile, ad esempio, ottenere condizioni umane di detenzione o perché a tutti sia garantita l’incolumità dell’imputato e queste lotte possono anche non avere nome e cognome. In Italia c’è una questione di sovraffollamento delle carceri e questa è una battaglia che va fatta a tutela di chiunque e indipendentemente dal nome e dal cognome di chi sta in carcere. Però semplicemente perché la società opera anche per funzioni simboliche, e indipendentemente dal fatto che questo sia giusto o meno, si ha bisogno anche dell’elemento mitico. Per fare un esempio, da una parte c’è la lotta per l’emancipazione degli afroamericani, dall’altra c’è Bob Dylan che a un certo punto scrive Hurricane su Rubin Carter. Carter poteva diventare campione dei pesi massimi, viene incarcerato per una questione razziale e Hurricane ha contribuito a fare qualcosa per la lotta degli afroamericani, parallelamente a tutto ciò che facevano le associazioni, gli attivisti, la politica. C’è insomma bisogno di entrambe le cose perché l’attenzione della gente non si concentra tutti i giorni sul Codice civile, su quello penale o sulla Costituzione per verificare la legittimità di ciò che accade. La notizia, per esempio, che dà il rapporto annuale sul sovraffollamento delle carceri a me colpisce molto, ma c’è chi non ne è colpito affatto perché ha difficoltà a collegare quella che sembra una fredda statistica all’elemento empatico e allora ha bisogno dell’esplosione del simbolo. Verso la fine del tuo libro fai riferimento a quella grande opera che è “Il libro dell’incontro”. Un esperimento durato anni che illustra come in ognuno di noi ci siano dei nodi che soltanto l’altro, e un altro difficile, può sciogliere. Come immagini la giustizia del futuro? Per esempio la giustizia riparativa, per come è stata stimolata da “Il libro dell’incontro”, mi piacerebbe immaginare che divenga parte della giustizia del futuro, anche se so che esistono degli esperimenti in tal senso, seppur rari. In quel libro ex terroristi e vittime del terrorismo, grazie all’opera meritoria di alcuni mediatori, si radunano periodicamente. Da una parte i terroristi che si sono più o meno resi conto di aver distrutto delle vite incolpevoli e dall’altra le vittime del terrorismo che però accettano di incontrare i loro carnefici o coloro che hanno ucciso i propri cari. La cosa più notevole è che ne Il libro dell’incontro non mi pare ci sia la pretesa di una riconciliazione fra le due parti, ma il fatto che ognuna sia costretta ad ammettere che l’altra esiste, che esista cioè un altro punto di vista dal proprio perché, come dicevi tu, ci sono alcuni nodi che soltanto l’altro difficile - cioè non un fratello dissimile, ma l’avversario - può riuscire a sciogliere. Ora, un processo del genere se per il terrorismo, che è stata una questione nazionale, più facilmente si può immaginare, come si fa in quei casi che sono più privati? Io sono stato dispiaciuto per la cortina di silenzio impenetrabile tra le famiglie Foffo, Prato e Varani. Il papà di Varani ha lamentato apertamente e in più occasioni di non aver ricevuto neanche una telefonata da parte dei genitori di Foffo e Prato. Sì, il papà di Varani più di una volta si è dimostrato deluso o arrabbiato per quelle telefonate mancate. Ognuna di quelle tre famiglie, una volta che la giustizia ordinaria - diciamo così - ha compiuto il suo ruolo, è stata lasciata da sola. Tutte e tre hanno subito una disgrazia enorme, a una hanno ammazzato un figlio, all’altra il figlio si è suicidato dopo essere stato coinvolto da carnefice in questa situazione, e l’altra si è ritrovata con un figlio in galera dalla mattina alla sera che ora sta scontando trent’anni di carcere: tanto basta perché un nucleo familiare si distrugga. Le tragedie sono irreparabili e l’irreparabile è ciò che più rimuoviamo. Ma come si fa a contenere qualcosa di altrimenti non contenibile? Attraverso un rituale e la giustizia riparativa è un rituale ulteriore rispetto alla giustizia ordinaria. Gli stessi autori de Il libro dell’incontro precisano che non sono assolutamente contrari a che la giustizia faccia il suo corso, ma scontare la pena non è sufficiente. La violenza di genere non si fermerà se non rendiamo le città a misura di donna di Elisa Messina Corriere della Sera, 16 marzo 2021 Quello di Sarah Everard la 33enne, rapita e uccisa poco dopo le 21 nella periferia sud di Londra mentre tornava a casa dopo una cena con amici, ha moltiplicato rabbia e indignazione tra le donne inglesi. Per il fatto che l’accusato è un poliziotto. E per come è stata repressa la veglia di protesta contro la violenza sulle donne nel parco di Clapham, quello che Sarah stava attraversando a piedi. Il caso ha riaperto in modo drammatico il tema della sicurezza delle donne nelle città. Ma quel non sentirsi al sicuro, sui mezzi pubblici, o a piedi, in certi orari, non è solo una “percezione” diffusa destinata ad aumentare ogni volta che ci sono delitti così. È la conseguenza di organizzazioni urbane che non tengono conto delle donne. Sì, non stiamo parlando di ordine pubblico, ma di urbanistica, di gestione dei trasporti e degli spazi pubblici: ambiti in cui avvengono, da sempre, discriminazioni di genere. Con conseguenze anche di ordine pubblico. Come spiega, offrendo un’infinità di studi e di argomenti, Caroline Criado Perez nel suo saggio best seller “Invisibili”. Sottotitolo: come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo, dati alla mano (Einaudi). “Una progettazione urbana che non mette al sicuro le donne dal rischio di subire un’aggressione sessuale equivale a una chiara violazione del nostro diritto di vivere gli spazi pubblici” (C. Criado Perez, Invisibili). La paura degli spazi pubblici, osserva Criado Perez, è una sensazione che le donne a tutte le latitudini conoscono bene: dagli slum di Mumbai, alle periferie di Londra, dalle stazioni della metro di New York a quelle di Milano di Roma o di Parigi. La stessa Sarah Everard, la sera in cui è stata rapita, aveva optato per un percorso più lungo per tornare a casa perché meglio illuminato - ha raccontato Kate McCann di Sky News - e aveva telefonato al suo ragazzo per dirgli che gli avrebbe mandato un messaggio una volta arrivata a casa. Non è bastato. Questo sentimento d’insicurezza incide sulle scelte di mobilità costringendo le donne a rinunciare a dei diritti semplici. Di qui la scelta a non viaggiare con i mezzi pubblici in determinati orari, a non uscire di notte o quella di preferite l’auto o il taxi a bus e metropolitana. Lo dimostrano decine di ricerche effettuate in molti paesi del mondo. Non c’era bisogno di un coprifuoco dettato dall’emergenza sanitaria Covid, insomma, perché per le donne questo coprifuoco esiste da sempre. Per scelta. E tutte quelle che non hanno l’auto oppure non si possono permettere il taxi? Rischiano, restando “ostaggio” dei trasporti pubblici. Da sempre luogo privilegiato di sexual harassment, molestie sessuali di ogni tipo, verbali o fisiche. Che restano però per la stragrande maggioranza non denunciate. Persino a New York l’86 per cento delle molestie nella metropolitana non vengono notificate dalle autorità. Studi analoghi a Londra rivelano che il 90 per cento delle donne che subiscono comportamenti sessuali indesiderati non sporge denuncia. Quindi la Polizia, di qua e di là dell’Oceano, in Asia, o in Australia non ha un quadro preciso della situazione perché i casi di violenza sono molti di più di quelli che vengono denunciati. “Nel 2016 un articolo del “Guardian” auspicava la progettazione di città “a misura non solo di uomo, ma anche di donna” e lamentava la scarsa disponibilità di banche dati urbane “capaci di individuare fenomeni e tendenze sulla base di informazioni disaggregate per genere”, cosa che ostacolava “lo sviluppo di programmi infrastrutturali sensibili alle esigenze delle donne” (C. Criado Perez, Invisibili) Raccogliere dati, informazioni disaggregati per genere dovrebbe essere il presupposto di ogni piano urbanistico, di ogni pianificazione di trasporto pubblico. Quando questo non avviene il pregiudizio maschile salta fuori, spesso involontario, anche perché si tratta di decisioni prese nella maggior parte dei casi da maschi. Gli orari e le tappe dei mezzi pubblici dovrebbero tenere conto degli spostamenti delle donne, che sono diversi e meno lineari di quelli degli uomini per via delle incombenze di cura (il 75% del lavoro di cura non retribuito è svolto dalle donne). Che dire poi del mondo delle addette alle pulizie e delle assistenti socio-sanitarie con il loro orari notturni? O delle fermate di sosta dei bus spesso poco illuminate e troppo distanziate tra loro? Anche la modalità in cui sono disegnati i parchi pubblici può favorire o sfavorire il fatto che questi siano frequentato da bambine e ragazze adolescenti: dipende da come sono divisi gli spazi di gioco o le aree di ingresso, per esempio. I parchi di Vienna sono stati tutti ripensati dopo aver fatto ricerche disaggregate per genere. Idem in Svezia: dovendo riqualificare degli ex parcheggi per spazi giovanili l’amministrazione di Göteborg ha invitato le ragazze a fare proposte concrete, prima di destinarle solo a skater e street art. Come sono i camminamenti nel parco di Clapham, quello percorso da Sarah? E l’illuminazione? “Quando i responsabili dei progetti non tengono conto della diversità dei sessi, gli spazi pubblici diventano maschili per default. Solo che metà della popolazione mondiale ha un corpo femminile. Metà della popolazione mondiale deve ogni giorno fare i conti con la minaccia sessualizzata ai danni di quel corpo”. (C. Criado Perez, Invisibili) Prestarvi più attenzione significa risparmiare domani in costi di sorveglianza, sicurezza, ordine pubblico, salute pubblica. È notizia di oggi che il governo britannico ha annunciato un investimento da 3 miliardi di sterline (oltre 3,5 miliardi di euro) per modernizzare le reti di autobus e incoraggiare più persone a usarle: prezzi più bassi, corse più frequenti, maggiori collegamenti verso Londra dalla periferia, più corse serali. Sarebbe interessante scoprire se dietro questo enorme piano di rilancio c’è uno studio sulle esigenze di genere. Sarebbe già una prima risposta al grido di aiuto delle donne di Londra dopo la morte di Sarah Everard: “Vogliamo uscire in sicurezza” Educazione civica. La Giustizia adotta la scuola: il progetto sul terrorismo Corriere della Sera, 16 marzo 2021 La Fondazione Vittorio Occorsio lancia un programma per le scuole superiori con un gruppo di magistrati guidati da Giovanni Salvi. Un percorso di educazione civica vero e proprio, un cammino insieme attraverso la storia recente e dolorosa degli Anni Settanta per studiare il fenomeno del terrorismo. A fare da guida un gruppo di magistrati selezionati dalla Fondazione che porta il nome di uno di loro, caduto per mano dei terroristi di estrema destra nel 1976, Vittorio Occorsio. Il progetto - Per questo primo anno scolastico, il progetto che si chiama “La Giustizia adotta la scuola” coinvolgerà 40 Istituti scolastici e prevede l’adozione di una classe da parte di un magistrato che condurrà studentesse e studenti in un percorso di conoscenza e conservazione della memoria degli anni Settanta. L’iniziativa consiste in una serie di incontri su una particolare vicenda legata al terrorismo, che viene scelta dal magistrato “tutor” insieme ai docenti. Gli studenti saranno seguiti anche da un gruppo di giovani storici, che potranno fornire loro materiale (grazie alla partecipazione delle Teche Rai) e supporto scientifico. Agli incontri dei magistrati tutor si affiancheranno anche incontri con testimonial. “Ringrazio moltissimo la Fondazione e la famiglia Occorsio per questa iniziativa. “La memoria dolorosa” - “Le nostre scuole hanno bisogno di essere accompagnate, in particolare sui terreni così impervi come quello della memoria”, così il Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, che è intervenuto con un videomessaggio all’inaugurazione del progetto. Con riferimento all’iniziativa, il Ministro ha spiegato che la storia degli anni Settanta “per molti di noi è una memoria dolorosa. Ma va raccontata come la storia di un Paese che è riuscito a reagire, è riuscito a trasformare il sacrificio di molti uomini dello Stato in una lezione di vita collettiva, in una straordinaria lezione di Educazione civica”. Il Presidente della Fondazione Vittorio Occorsio, Eugenio Occorsio, ha detto: “Traiamo esempio dal passato per affrontare le sfide di oggi e di domani. I magistrati, che insieme alle altre forze del Paese custodirono negli anni Settanta la tenuta dello Stato democratico, consentiranno ora di guidare le classi in un percorso di conoscenza e approfondimento”. Giovanni Salvi, Procuratore Generale della Corte di Cassazione e Presidente del Comitato scientifico della Fondazione Vittorio Occorsio, ha aggiunto: “Si potrà con questo progetto arrivare a una conoscenza più approfondita di quanto non sia consentito da un semplice incontro isolato. Una vera adozione nello studio di argomenti che sono stati sinora al di fuori dei programmi scolastici. Questa prima fase è sperimentale e auspico che dagli studenti arrivino spunti per migliorarci, dato che dall’anno prossimo il progetto sarà proposto a tutte le scuole italiane”. Migranti. Ong sotto attacco: “Non vogliono testimoni scomodi. Ma resisteremo” di Giansandro Merli Il Manifesto, 16 marzo 2021 Sascha Girke, paramedico tedesco di 42 anni, è accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Rischia fino a 20 anni di carcere per i soccorsi della nave Iuventa. Ribadisce: “Non ci faremo intimidire”. A Sascha Girke la notizia arriva sul ponte della Sea-Watch 3, poco dopo la fine dei soccorsi di 363 migranti: le indagini su di lui e altre 20 persone impegnate nel Mediterraneo tra il 2016 e il 2017 con le Ong Jugend Rettet, Medici Senza Frontiere e Save The Children si sono chiuse il 3 marzo. È accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in concorso e rischia fino a 20 anni di carcere. Probabile il rinvio a giudizio. Girke è un paramedico, nato in Germania 42 anni fa. Negli ultimi cinque ha partecipato a molte missioni umanitarie. “Vogliono farci fuori, ma non ci faremo intimidire”, afferma. Su quali fatti è basata l’accusa? Sugli stessi per cui ad agosto 2017 sequestrarono la nave Iuventa, di Jugend Rettet: un episodio di settembre 2016 e uno di giugno 2017. Nel primo il testimone chiave è l’agente di sicurezza Pietro Gallo [ex poliziotto imbarcato sulla Vos Hestia di Save The Children che passò informazioni a Salvini, ma poi se ne pentì dicendo di sentirsi in colpa per le vittime dei naufragi, ndr]. Sostiene di aver visto una barca in legno che ha affiancato la Iuventa durante un soccorso e dopo è ripartita verso la Libia con due persone a bordo. Questo proverebbe una consegna di migranti. Il secondo fatto è la misteriosa accusa di aver restituito delle barche ai trafficanti: sarebbero state riutilizzate giorni dopo un nostro intervento. Quanti soccorsi ha effettuato la nave Iuventa? Nell’intervallo tra i due episodi circa 50, in totale 160: più di 14mila persone prese a bordo; 23mila assistite in collaborazione con la Guardia costiera italiana, la missione europea Eunavfor Med e le altre Ong. Ma le indagini riguardano solo due operazioni… Per quello che sappiamo finora sì. Qual era il clima politico in quel periodo? Nel 2016 avevamo un buon rapporto con il centro italiano di coordinamento del soccorso marittimo (Mrcc). Ci invitavano a Roma nel quartier generale e discutevamo di come migliorare la cooperazione. Ci chiesero anche di trovare navi più grandi per portare le persone sulla terraferma. In quel periodo in genere lo facevano loro, dopo che noi le avevamo soccorse. Ma la Guardia costiera era in difficoltà per l’alto numero di migranti e chiedeva il nostro aiuto. Ci sembravano consapevoli della necessità delle operazioni di salvataggio: si confrontavano con noi a terra e coordinavano le nostre operazioni in mare. Soltanto dopo abbiamo capito che i semi del sospetto erano già stati piantati e stavano crescendo rapidamente. Alla fine dell’anno il direttore di Frontex Fabrice Leggeri e il pm Carmelo Zuccaro dichiararono che nelle nostre missioni c’era qualcosa di oscuro. E nel 2017? A giugno 2017 la collaborazione operativa era molto peggiorata. Per tre volte ci avevano detto di rientrare a Lampedusa per un numero ridicolo di persone. Per esempio: ne avevamo soccorse 200, arrivava la Guardia costiera e ne trasbordava 180 o 195, poi ci diceva di andare sull’isola a portare le altre. Non capivamo perché ci costringessero a lasciare l’area dei soccorsi per delle persone che avrebbero potuto imbarcare loro. Intanto iniziava ad apparire la cosiddetta “guardia costiera libica”. All’inizio erano piccole barche guidate da miliziani, poi dalla primavera 2017 navi più grandi. Compresa una motovedetta donata dall’Italia. È in quei mesi che per la prima volta i libici intercettano i migranti e li riportano a Tripoli con la forza. C’è poi il “codice di condotta” che l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti (Pd) voleva far firmare alle Ong. Sì, e ha effetti diversi. A livello operativo iniziamo a vedere che la Guardia costiera italiana esita sempre più ad avere un atteggiamento proattivo. Ci indirizza verso le imbarcazioni in difficoltà, ma poi non organizza i passaggi successivi. Quando la Iuventa si riempie chiediamo cosa fare, ma non rispondono, ci fanno aspettare uno/due giorni. Le modalità di comunicazione cambiano di segno: in pochi mesi la Guardia costiera italiana smette di rivolgersi a noi come fossimo dei colleghi e comincia a urlarci contro. Intanto Eunavfor Med si ritira verso nord e ci lascia soli a soccorrere le persone. Prima siete stati lasciati soli e poi accusati di reati gravissimi. Perché? Succede a tutti coloro che si impegnano lungo le frontiere, dalla rotta balcanica ai confini interni dell’Ue. L’obiettivo politico della nostra criminalizzazione è ripulire la scena dagli attori civili: nessun testimone oculare, nessun intervento che disturbi la costruzione di questo grande muro intorno all’Europa. Vogliono semplicemente farci fuori. Però lei è ancora qui. Perché? L’ultima missione della Sea-Watch 3 ha mostrato che 363 esseri umani avevano bisogno di aiuto. Il problema non è risolto, anche se sappiamo che le navi umanitarie non sono la soluzione. Mi trovo ancora qui per le persone soccorse: senza il nostro intervento alcune di loro sarebbero affogate, viste le condizioni in cui viaggiavano, oppure adesso, mentre parliamo, sarebbero rinchiuse in un centro di detenzione libico. C’è anche un altro motivo: non ci faremo intimidire, non faremo nessun passo indietro. Perché la Nato dieci anni fa demolì la Libia di Manlio Dinucci Il Manifesto, 16 marzo 2021 Dieci anni fa, il 19 marzo 2011, le forze Usa/Nato iniziano il bombardamento aeronavale della Libia. La guerra viene diretta dagli Stati Uniti, prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa. In sette mesi, l’aviazione Usa/Nato effettua 30 mila missioni, di cui 10 mila di attacco, con oltre 40 mila bombe e missili. L’Italia - con il consenso multipartisan del Parlamento (Pd in prima fila) - partecipa alla guerra con 7 basi aeree (Trapani, Gioia del Colle, Sigonella, Decimomannu, Aviano, Amendola e Pantelleria); con cacciabombardieri Tornado, Eurofighter e altri, con la portaerei Garibaldi e altre navi da guerra. Già prima dell’offensiva aeronavale, erano stati finanziati e armati in Libia settori tribali e gruppi islamici ostili al governo, e infiltrate forze speciali in particolare qatariane, per far divampare gli scontri armati all’interno del Paese. Viene demolito in tal modo quello Stato africano che, come documentava nel 2010 la Banca Mondiale, manteneva “alti livelli di crescita economica”, con un aumento del pil del 7,5% annuo, e registrava “alti indicatori di sviluppo umano” tra cui l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e, per oltre il 40%, a quella universitaria. Nonostante le disparità, il tenore medio di vita era in Libia più alto che negli altri paesi africani. Vi trovavano lavoro circa due milioni di immigrati, per lo più africani. Lo Stato libico, che possedeva le maggiori riserve petrolifere dell’Africa più altre di gas naturale, lasciava limitati margini di profitto alle compagnie straniere. Grazie all’export energetico, la bilancia commerciale libica era in attivo di 27 miliardi di dollari annui. Con tali risorse lo Stato libico aveva investito all’estero circa 150 miliardi di dollari. Gli investimenti libici in Africa erano determinanti per il progetto dell’Unione Africana di creare tre organismi finanziari: il Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria); la Banca africana di investimento, con sede a Tripoli. Tali organismi sarebbero serviti a creare un mercato comune e una moneta unica dell’Africa. Non è un caso che la guerra Nato per la demolizione dello Stato libico inizi nemmeno due mesi dopo il vertice dell’Unione Africana che, il 31 gennaio 2011, aveva dato il via alla creazione entro l’anno del Fondo monetario africano. Lo provano le email della segretaria di Stato dell’Amministrazione Obama, Hillary Clinton, portate alla luce successivamente da WikiLeaks: Stati uniti e Francia volevano eliminare Gheddafi prima che usasse le riserve auree della Libia per creare una moneta pan-africana alternativa al dollaro e al franco Cfa (moneta imposta dalla Francia a 14 ex colonie). Lo prova il fatto che, prima che nel 2011 entrino in azione i bombardieri, entrano in azione le banche: esse sequestrano i 150 miliardi di dollari investiti all’estero dallo Stato libico, di cui sparisce la maggior parte. Nella grande rapina si distingue la Goldman Sachs, la più potente banca d’affari statunitense, di cui Mario Draghi è stato vicepresidente. Oggi in Libia gli introiti dell’export energetico vengono accaparrati da gruppi di potere e multinazionali, in una caotica situazione di scontri armati. Il tenore di vita della maggioranza della popolazione è crollato. Gli immigrati africani, accusati di essere “mercenari di Gheddafi”, sono stati imprigionati perfino in gabbie di zoo, torturati e assassinati. La Libia è divenuta la principale via di transito, in mano a trafficanti di esseri umani, di un caotico flusso migratorio verso l’Europa che ha provocato molte più vittime della guerra del 2011. A Tawergha le milizie islamiche di Misurata sostenute dalla Nato (quelle che hanno assassinato Gheddafi nell’ottobre 2011) hanno compiuto una vera e propria pulizia etnica, costringendo quasi 50 mila cittadini libici a fuggire senza potervi fare ritorno. Di tutto questo è responsabile anche il Parlamento italiano che, il 18 marzo 2011, impegnava il Governo ad “adottare ogni iniziativa (ossia l’entrata in guerra dell’Italia contro la Libia) per assicurare la protezione delle popolazioni della regione”. Siria. Asma al Assad accusata di crimini di guerra di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 16 marzo 2021 Iniziativa della giustizia di Londra contro la moglie del raìs siriano Cittadina britannica, rischia l’estradizione se rinviata a giudizio. Anima nera del regime oppure semplice vittima dell’ingranaggio di un potere sanguinario che la relega ad interpretare la first lady del presidente Bashar al- Assad. È questo il punto su cui si dovrebbe apprestare ad indagare la Metropolitan police inglese che, già il 31 luglio dello scorso anno, ha ricevuto un rapporto particolareggiato corredato di documenti confidenziali sulle responsabilità nel genocidio siriano che avrebbe Asma al-Assad. La documentazione è stata presentata dal gruppo di legali del Guernica 37 International Justice Chambers, specializzato in contenziosi transnazionali e diritti umani. Secondo gli avvocati dell’organizzazione Asma al- Assad, avrebbe incoraggiato la campagna terroristica attuata dal regime che ha scatenato il bagno di sangue in Siria Per Toby Cadman, fondatore di Guernica 37, la donna “è sospettata di aver incitato atti che hanno provocato la morte dei cittadini”. In particolar modo per aver “incontrato le truppe, aver pronunciato dichiarazioni pubbliche, aver glorificato la condotta dell’esercito che ha provocato mezzo milione di morti e impiegato armi chimiche così come altre armi vietate (dalle convenzioni internazionali ndr.). Secondo gli avvocati per i diritti umani dunque Asma al- Assad “non è solo la moglie del presidente, ma ha esplicitamente condotto una campagna e ha partecipato attivamente ai crimini e quindi deve affrontare la giustizia”. Ma perché le accuse provengono proprio dalla Gran Bretagna? Asma al- Assad, oggi 45enne, è nata a Londra da genitori siriani e detiene dunque la doppia cittadinanza. Nel 2000, quando era ancora una funzionaria rampante per banche d’investimenti della City, ha sposato Bashar trasferendosi in Siria diventando madre di tre figli. Da allora è rimasta sempre al suo fianco espandendo rapidamente le sue strutture di di beneficenza e di affari, mostrandosi vicina agli ambienti militari ai quali non ha mai lesinato il suo sostegno, una posizione mantenuta anche nei momenti nei quali, durante la guerra civile, il regime sembrava sul punto di perdere completamente il controllo del paese. Se verrà dato seguito alle accuse la first lady potrebbe perdere la cittadinanza inglese o, nel peggiore dei casi per lei, essere estradata anche se sembra difficile vista la situazione di guerra e la difficoltà di un arresto. Per Guernica 37 però il suo deferimento alle autorità di polizia britannica “è un passo importante per ritenere gli alti funzionari politici responsabili delle loro azioni e garantire che uno stato, attraverso un processo legale indipendente e imparziale, si assuma la responsabilità degli atti dei propri cittadini”. In quanto cittadina britannica, scrivono gli avvocati sul sito web dell’organizzazione “è fondamentale che sia perseguita se le prove supporteranno l’accusa e non semplicemente privata della sua cittadinanza. Questo è un processo importante ed è giusto che la giustizia sia celebrata davanti a un tribunale inglese”. Per il momento la Metropolitan police non ha confermato l’inizio eventuale di un’istruttoria dichiarando solo che tutta la documentazione relativa è stata presa in carico dall’Unità sui crimini di guerra. In realtà le accuse contro Asma al Assad fanno parte di un ben più vasto atto d’incriminazione contro il regime siriano. Proprio in questi giorni si celebra i tristi dieci anni dall’inizio del conflitto civile datato marzo 2011. Da allora la guerra scatenata ha provocato almeno 500mila morti, oltre un milione di persone sono state gravemente ferite e oltre dodici milioni sono attualmente sfollate, internamente o in altri paesi. Il dato più agghiacciante è che più della metà della popolazione prebellica (23 milioni) è stata uccisa, scomparsa o è stata costretta a lasciare le proprie case. Un massacro pianificato deliberatamente dal regime di Bashar con atti di violenza organizzati per prendere di mira e reprimere, fin dall’inizio delle proteste antigovernative, i manifestanti e mettere a tacere eventuali critici all’interno della Siria. Guernica 37 ha spiegato che “gli attacchi sono di natura sistematica in modo da soddisfare gli elementi contestuali dei crimini contro l’umanità, così come i crimini di guerra, la tortura e altri atti disumani ai sensi del diritto internazionale”. Asma al - Assad sarebbe stata parte integrante del gruppo di potere che ha messo in piedi una tale strategia concretizzatasi in decine di migliaia di arresti arbitrari, detenzioni illegali, sparizioni forzate, maltrattamenti e torture utilizzando un’ampia rete di strutture di detenzione in tutta la Siria. Tra gli arrestati manifestanti pacifici e attivisti che hanno documentato le proteste, nonché giornalisti, operatori umanitari, avvocati e medici. Anche ora un gran numero di persone si trova detenuto mentre altre sono stati processate, anche davanti a tribunali militari e antiterrorismo, solo per aver esercitato i propri diritti. Siria. Azione legale in Russia contro 6 mercenari della Wagner di Marta Serafini Corriere della Sera, 16 marzo 2021 La famiglia di un siriano deceduto per torture e percosse nel 2017 ha presentato querela contro i contractor dell’agenzia che il Cremlino ha impiegato per supportare l’alleato Bashar Assad. Mentre il mondo ricorda i dieci anni trascorsi dall’inizio del conflitto in Siria, non si fermano le battaglie legali per portare i responsabili dei crimini di guerra. Dopo la Gran Bretagna dove la first lady siriana Asma Assad è sotto indagine e dopo la Germania dove è stato condannato un gerarca dell’intelligence e un altro è in attesa di processo, questa volta tocca alla Russia. Un membro della famiglia di un cittadino siriano che è stato torturato, ucciso e mutilato da sei individui nel giugno 2017, nel governatorato di Homs, ha presentato una denuncia a Mosca chiedendo l’avvio di un procedimento penale contro presunti membri della Wagner, agenzia di contractor che fa capo a un oligarca vicinissimo al Cremlino, Evgenij Prigozhin. L’accusa è dunque contro mercenari russi, impiegati da Mosca per dare sostegno all’alleato Bashar Assad. La denuncia è stata supportata dal Centro siriano per i media e la libertà di espressione (Scm), la Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh) e il centro per i diritti umani Memorial. Gli avvocati di Scm, Fidh e Memorial, Ilya Novikov e Petr Zaikin, rappresentano il fratello della vittima, Mohamad A. Si tratta del primo tentativo in assoluto da parte della famiglia di una vittima siriana di ritenere i sospetti russi responsabili di gravi crimini commessi in Siria. Una faccenda politica, oltre che giudiziaria, soprattutto a fronte delle numerose accuse (e polemiche) sull’impiego di armi chimiche da parte dei russi in Siria che hanno portato a indagini internazionali senza però veder mai nessuno accusato di niente. Ora, se è pur vero che è molto difficile vedere dei mercenari alla sbarra (il Cremlino ne nega addirittura l’esistenza o quantomeno la presenza sul campo), la denuncia richiede l’avvio di un procedimento penale sulla base dell’omicidio commesso con estrema crudeltà, al fine di stabilire la responsabilità dei presunti responsabili per questo e altri crimini, compresi i crimini di guerra. Ilya Novikov, uno degli avvocati del querelante, ha spiegato: “La legge russa prevede l’obbligo per lo Stato di indagare sui crimini commessi da cittadini russi all’estero. Il Comitato Investigativo non ha finora avviato alcuna indagine sul crimine in questione, anche se tutte le informazioni necessarie sono state comunicate ufficialmente alle autorità russe più di un anno fa.” “La denuncia presentata dal quotidiano Novaya Gazeta un anno fa è stata ignorata”, ha detto Alexander Cherkasov, presidente di Memorial Human Rights Center. “Questo ha costretto noi, difensori dei diritti umani, a rivolgerci alle autorità investigative russe. In effetti, questo è una ripetizione di quello che è successo 20 anni fa, quando le sparizioni forzate, la tortura e le esecuzioni extragiudiziali commesse durante il conflitto armato nel Caucaso del Nord non sono state indagate. Oggi, vediamo un altro anello di questa catena di impunità”. E chissà che questa volta la storia non vada in modo diverso. Russia. Navalny scrive dal carcere: “Mi trovo in un campo di concentramento” rainews.it, 16 marzo 2021 L’oppositore di Putin si fa un selfie su Instagram e scrive: “Zero violenze ma disumanizzazione, alla Orwell” Tweet Caso Navalny, gli Usa impongono sanzioni a 7 funzionari russi Usa: Mosca dietro avvelenamento Navalny sanzioni Navalny, Mosca conferma: trasferito in una colonia penale 15 marzo 2021 L’espressione appesantita e i capelli rasati quasi a zero. Appare così Alexei Navalny in un post su Instagram attraverso il quale lancia una denuncia dalla sua detenzione, considerandola simile a quella di un campo di concentramento. “Devo ammettere - scrive con un pizzico di ironia - che il sistema carcerario russo è riuscito a sorprendermi. Non potevo immaginare che fosse possibile organizzare un vero campo di concentramento a 100 chilometri da Mosca”. L’oppositore non ha denunciato maltrattamenti e anzi, dice che tutti sono “amichevoli e cordiali”. “La routine, il quotidiano, l’osservanza letterale di regole infinite. Telecamere ovunque, tutti sono monitorati e alla minima infrazione viene fatta una denuncia”. Una cosa alla “1984 di Orwell, l’educazione attraverso la disumanizzazione”, dice ancora. “Ci sono anche momenti colorati nel bianco e nero della vita quotidiana. Per esempio, ho una targhetta e una foto sul petto, ed è sottolineata da una bella striscia rossa. Dopo tutto, sono incline alla fuga, ricordate? Di notte mi sveglio ogni ora per trovare un uomo accanto al mio letto. “Sono le 2 e 30, il detenuto Navalny è al suo posto”, dice. Dopo mi addormento di nuovo con il pensiero che ci sono delle persone che si ricordano di me e non mi perderanno mai. È bello, vero?”. Il post di conclude con un “abbracci a tutti”. Myanmar, massacri e legge marziale di Emanuele Giordana Il Manifesto, 16 marzo 2021 Nella domenica di sangue almeno 40 vittime. Appello del segretario di Stato Pietro Parolin: “Processo di pace”. Mentre anche oggi il Myanmar è segnato da una protesta diffusa, il bilancio dell’ennesima domenica di sangue con almeno una quarantina di vittime (40 a Yangon e 20 nel Paese secondo fonti raccolte da Il Manifesto) hanno fatto balzare il bilancio delle vittime a oltre 180. Secondo Myanmar Now, uno dei tanti giornali birmani che continua a dare notizie, nell’ex capitale i morti di domenica sarebbero stati addirittura 59. Un bilancio pesantissimo - cui oggi si sarebbero aggiunte un’altra quindicina di vittime - mentre la giunta ha deciso la legge marziale su due township di Yangon (Hlaing Thayar e Shwepyithar) cui ieri ne sono state aggiunte altre 4 sempre nell’ex capitale (North Dagon, North Okkalapa, South Dagon e Dagon Seikkan) e altre 5 a Mandalay (Aung Myay Tharzan, Chan Aye Tharzan, Chan Mya Thazi, Mahar Aung Myay e Pyi Gyi Takhoon). “Cosa si significhi non si capisce - dice al telefono la fonte che le enumera - poiché non sono state annunciate misure particolari e già i militari fanno quel che vogliono… Forse farà differenza per arresti e processi”. Si tratta magari anche di un modo per rispondere agli atti violenti - incendi e vandalismi - che hanno colpito fabbriche tessili e proprietà cinesi a Yangon, cosa che ha fatto reagire rabbiosamente Pechino che ha chiesto alla giunta di proteggere i suoi beni. Ma la vicenda, a sua volta, ha rimesso la Rpc nel mirino del Movimento di disobbedienza che le rimprovera di pensare alle fabbriche anziché ai morti. Uno dei grovigli che si attorcigliano attorno alle speranze diplomatiche: su tutte quella che l’Asean, l’associazione del Sudest asiatico, potrebbe mettere in campo cercando una mediazione che “salvi la faccia” ai generali. Soluzione che viene indicata con forza anche dal Vaticano, con un messaggio del segretario di Stato Pietro Parolin affidato al capo della Conferenza episcopale birmana e asiatica cardinal Bo: “Questa crisi non sarà risolta dal sangue - scrivono i presuli - Smettete di uccidere. Abbandonate il sentiero delle atrocità… che tutti gli innocenti siano rilasciati”. Ma l’invito di Parolin sembra andar oltre perché, scriveva ieri l’agenzia Fides, “il messaggio giunto dalla Santa Sede incoraggia la Chiesa a impegnarsi nel processo di pace, dicono i Vescovi birmani”. Se una vera mediazione vaticana appare improbabile è vero però che i cattolici sono schierati: così tanto che la Banca centrale birmana ha aperto un’inchiesta sui flussi di denaro della Cartitas. Non è sola: sotto tiro i conti di Oxfam, Ifes e, soprattutto, di Open Society per cui sarebbero stati spiccati anche mandati di cattura. Il paradosso del golpe birmano ritorna dunque al tentativo di fare le cose “secondo la legge”, come se un governo che si regge sulle cannonate potesse avere una base legale. Così non è chiaro se sia vero che i giudici che indagano su Aung San Suu Kyi abbiamo rinviato l’udienza in agenda ieri per via dei blackout della Rete, come hanno detto, o perché ogni volta che la Lady riappare il Movimento prende nuova linfa. Una linfa che scorre anche nelle periferie dove i gruppi armati Kachin, Karen, Shan non intendono cedere al governo del generalissimo Min Aung Hlaing. Se già la giunta non riesce a creare amministrazioni fantoccio nelle aree sotto il suo controllo, nelle zone dove ci sono eserciti “ostili” la cosa è ancora più difficile. Un fronte aperto su quel lato (già ci sono stati scontri armati con vittime tra eserciti regionali e Tatmadaw) brucia. Ci sono intanto anche novità sul fronte delle cartucce italiane ritrovate in due località birmane e prodotte dalle Cheddite di Livorno che ha smentito di averle mai vendute al Myanmar. Un gruppo che riunisce Rete Disarmo, Amnesty Italia e l’associazione Italia-Birmania sta collaborando per scambiarsi informazioni per far luce sul caso mentre sulla vicenda un’interrogazione di Erasmo Palazzotto (Leu) chiede al ministro degli Esteri - considerato che “la pur importante legge 185/90 non è bastata a regolamentare e limitare la diffusione incontrollata delle armi o quella ancor più incontrollabile delle munizioni” - se “non intenda avviare una verifica completa e approfondita al fine di chiarire la base normativa e le procedure con le quali siano stati autorizzati all’esportazione i lotti relativi alle cartucce ritrovate in Myanmar” e che “iniziative intenda assumere affinché tutte le esportazioni di armi e munizioni siano sottoposte alle procedure previste dalla legge senza distinzioni tra armi comuni e militari”. Un’iniziativa che trova probabilmente d’accordo i 5stelle, che per primi avevano sollevato il problema in Senato. Le cartucce insanguinate del Myanmar (se armate a pallettoni potrebbero anche essere le responsabili degli omicidi mirati che spaccano la testa ai dimostranti) avrebbero almeno il merito di far ripensare la legge sul traffico d’armi - anche in sede Ue - tra le cui maglie si può infilare senza difficoltà il pesciolino delle cartucce da caccia. Colombia, crimini di Stato: nel 2020 uccisi più di 300 leader sociali di Claudia Fanti Il Manifesto, 16 marzo 2021 Per il tribunale permanente dei popoli si tratta di “genocidio politico”. Un bagno di sangue che non è cessato in questi primi mesi del 2021, durante i quali i dirigenti sociali uccisi risultano già 29 e i massacri 16. Prosegue ininterrottamente il genocidio politico in Colombia, a cui non a caso è dedicata la 48.ma sessione del Tribunale permanente dei popoli che avrà luogo tra il 25 e il 27 marzo. Assassinii selettivi e massacri si succedono a un ritmo quasi quotidiano dinanzi allo sguardo imperturbabile del governo Duque, incapace di applicare l’Accordo di pace firmato nel 2016 dallo Stato e dalle Farc, di esercitare un controllo reale su tutto il territorio e di combattere in maniera efficace i gruppi armati illegali. Con il risultato che, secondo Indepaz (Instituto de Estudios para el Desarrollo y la Paz), nel 2020 si sono registrati 91 massacri, per un totale di 381 vittime, e sono stati assassinati 310 leader sociali e 64 ex combattenti. Un bagno di sangue che non è cessato in questi primi mesi del 2021, durante i quali i dirigenti sociali uccisi risultano già 29 e i massacri 16, l’ultimo dei quali commesso il 6 marzo nel dipartimento del Norte de Santander, con un bilancio di almeno cinque morti e sei feriti. Ma alla lista va aggiunta anche la strage operata il 2 marzo, nelle foreste del dipartimento di Guaviare, dallo stesso esercito colombiano, attraverso un potente bombardamento contro un accampamento guerrigliero a causa del quale sono morte 15 persone, tra cui almeno dieci minorenni che erano impegnati in lavori agricoli. Una brutale operazione realizzata dalla task force congiunta Omega, una delle espressioni più violente, come denuncia il leader comunitario Nepomuceno Marín, di quel modello di contro-insurrezione introdotto dal Comando Sur degli Stati uniti “per proteggere gli interessi delle multinazionali petrolifere, minerarie e dell’agribusiness in Colombia”. Con l’aggravante che i vertici dell’esercito, per loro stessa ammissione, sapevano della possibilità che vi fossero minorenni nell’accampamento. “Se i morti avessero avuto un’aviazione per rispondere all’attacco o missili anti-aerei per difendersi, capiremmo il giubilo del governo, ma così non ha senso”, ha dichiarato Iván Márquez, l’ex numero due delle Farc tornato alla lotta armata, sottolineando la necessità di “frenare l’uso sproporzionato della forza da parti di alcuni generali impazziti spronati da un presidente assetato di sangue”. Ma era ciò che ci si poteva attendere da un esercito che, nel corso del conflitto armato interno - e in particolare dal 2002 al 2008, sotto l’amministrazione di Álvaro Uribe - assassinava persone innocenti facendole passare per guerriglieri delle Farc, in maniera da ottenere riconoscimenti dai superiori e ricompense dal governo. È il fenomeno dei falsos positivos, di cui il rapporto della Giurisdizione Speciale per la Pace del 18 febbraio scorso sulle “morti presentate illegalmente come vittime in combattimento” ha mostrato tutta la sua tragica portata: 6.402 i civili uccisi, uno ogni due giorni per 6 anni di governo Uribe, e sotto quattro ministri della Difesa, tra cui l’ex presidente, nonché Nobel per la Pace, Juan Manuel Santos. “È giunto il momento di riconoscere le vittime dei crimini di Stato. Il minimo che dovrebbe fare è chiedere scusa”, ha scritto al presidente Duque il senatore Iván Cepeda. Ma a lanciare l’allarme sulla situazione del paese è anche un gruppo di organizzazioni sociali statunitensi, tra cui il Center for Justice and International Law e il Colombia Human Rights Committee, le quali hanno chiesto a Biden non solo di intervenire presso il governo colombiano per una rapida ed efficace applicazione dell’Accordo di pace del 2016 ma anche di muovere un preciso passo in tal senso: “Escludere le Farc smobilitate - l’attuale Partido Comunes - dalla lista di organizzazioni terroriste sarebbe un segnale importante e lungamente atteso di sostegno alla pace”. La giustizia boliviana mette in carcere l’ex presidente di Claudio Madricardo huffingtonpost.it, 16 marzo 2021 Con le accuse di terrorismo, sedizione e cospirazione è stata arrestata in un’operazione alla periferia della città di Trinidad, capoluogo del dipartimento del Beni in Bolivia, Jeanine Áñez Chávez, ex presidente ad interim del Paese andino, che aveva sostituito Evo Morales al Palacio Quemado di La Paz dopo la sua rinuncia e la fuga a Città del Messico. Nel quadro della stessa inchiesta e con le stesse imputazioni sono parimenti finiti agli arresti l’ex ministro dell’Energia Álvaro Rodrigo Guzmán, quello della Giustizia Álvaro Coimbra, Arturo Murillo, ex ministro degli Interni già rifugiato negli Usa, e quello della Difesa Luis Fernando López. Allo stesso tempo non sono stati risparmiati i vertici militari e della polizia al comando al tempo dei disordini che si scatenarono in tutto il Paese al seguito delle elezioni presidenziali del 20 ottobre 2019 che avevano dato vincitore Evo Morales con il suo Movimiento al Socialismo (Mas), accusati di aver truccato il risultato che avrebbe invece consentito a Carlos Mesa, suo avversario, di andare al ballottaggio con più di qualche possibilità di spuntarla sull’ex sindacalista cocalero. La reazione della popolazione fu allora decisa, con migliaia di persone in piazza a protestare contro i brogli elettorali che avrebbero consentito a Morales, in carica dal gennaio 2006, di riperpetuarsi alla presidenza della Bolivia nonostante gli fosse impedito dall’esito del referendum costituzionale indetto il 21 febbraio 2016, con il quale i boliviani, pur di stretta misura, gli avevano negato la possibilità di correre nuovamente. Una decisione in seguito bypassata grazie a una sentenza del Tribunale Costituzionale Plurinazionale (Tcp) con la quale venivano riconosciuti i diritti politici di Evo di ripresentarsi alle elezioni, a scapito degli articoli della Costituzione che limitavano a due la quantità di volte che una persona può essere eletta alla presidenza della Bolivia. La decisione del Tcp aveva successivamente fatto nascere in tutto il Paese un forte movimento che chiedeva il rispetto del risultato del referendum del 2016, accusando il Tcp di essere un docile strumento in mano a Morales. La controversa vicenda delle elezioni del 2019, con il blocco per ore del flusso dei risultati quando già si prefigurava il ballottaggio e la successiva assegnazione della vittoria al primo turno di Evo, aveva scatenato la rivolta popolare, a tal punto che i vertici della polizia e dell’esercito si erano sentiti in dovere di consigliare a Morales di farsi da parte al fine di evitare un bagno di sangue. Sentita anche l’Organizzazione degli Stati Americani, Morales decise allora di dimettersi, seguito da un’ondata di dimissioni di militanti del Mas che hanno lasciato scoperte le più alte cariche dello Stato, ivi compresa quella della vice presidenza della repubblica. Il seguito è conosciuto. Spinto dai consigli dei vertici militari e dal diffondersi a macchia d’olio della protesta, Morales decide di lasciare il Paese, trasferendosi prima in Messico, poi a Buenos Aires dove ottiene lo status di rifugiato politico. Nel frattempo, il vuoto politico lasciato dalle dimissioni delle alte cariche del Mas spiana la strada a Jeanine Áñez, seconda vice presidente del parlamento, personaggio di secondo piano e un po’ scolorito della politica boliviana, messa lì dal suo partito nella consapevolezza che la carica era priva di reale potere, che in virtù della Costituzione boliviana prende l’interim della presidenza della repubblica. Questi in breve i fatti, anche se dopo qualche tempo Morales comincerà ad abbracciare una narrazione che lo avrebbe visto vittima di un colpo di stato, come sempre architettato dalle forze dell’impero, tesi ripetuta anche in Volveremos, il libro in cui ricostruisce dal suo punto di vista quanto successo in Bolivia. Ora però la tesi del colpo di stato che avrebbe disarcionato Morales riprende vigore in seguito agli arresti operati da quella stessa magistratura che, nel periodo in cui Evo era caduto in disgrazia ed era esule dal suo Paese, lo aveva messo sotto accusa per sedizione e perfino per stupro, per i suoi rapporti con una minorenne. Tutte accuse che sembrano cadute nell’oblio dopo la vittoria di Luis Arce e del MAS alle ultime elezioni presidenziali e da quando Evo ha potuto far ritorno in patria dove dirige le campagne politiche del suo partito. Vicende, l’una e l’altra, che difficilmente depongono a favore dell’autonomia del potere giudiziario da quello politico in un Paese dalla fragile democrazia, come la Bolivia. Dove gli arresti sono stati letti come volontà di persecuzione nei confronti di esponenti del precedente governo, con condanne e denunce precise da parte di esponenti dell’opposizione, ma anche da parte di organismi internazionali come Human Right Watch, che ha giudicato l’accusa a Jeanine Áñez priva di ogni evidenza che abbia commesso il delitto di terrorismo, concludendo che si sarebbe in presenza di “un processo basato su motivi politici”. Una vicenda che comunque andrebbe anche valutata nel complesso di quanto sta accadendo nelle ultime settimane in Bolivia, dove le elezioni tenutesi lo scorso 7 marzo nelle principali città del Paese hanno segnato una sonora sconfitta del Mas, che ha perso importanti realtà e dove in altre è impegnato in un difficile ballottaggio. Più che un campanello di allarme che all’interno del Mas ha acuito le tensioni e le critiche nei confronti delle scelte di Evo Morales, e che ha provocato la crisi più importante da quando è tornato al potere, e rivelato un Movimiento che ha perso il voto cittadino e dove la componente campesina si sta rivelando, con tutte le conseguenze del caso, predominante. Considerato poi che all’ex presidente, attualmente sempre più oggetto di critiche, la situazione potrebbe essere perfino utile a far distogliere l’attenzione della base dalle difficoltà vissute in questi giorni, facendo sperabilmente dimenticare i colpi avversi ricevuti da ex esponenti del Mas, scartati da Evo come propri candidati. Da Eva Copa eletta a El Alto, a Christian Càmara a Trinidad, a Ana Lucia Reis a Cobija, tutta gente che era nata col Mas e che da esso si è allontanata portandosi appresso quel voto cittadino che sembra aver abbandonato il partito di provenienza, mettendo in serio pericolo la sua prospettiva di riperpetuarsi al potere e soprattutto la leadership indiscussa esercitata fino a poco fa da Evo.