Nelle carceri di Claudio Cerasa Il Foglio, 15 marzo 2021 Strutture stracolme, ben oltre le capacità previste, nonostante il calo dei detenuti. E polizia sotto organico, mentre un detenuto su sei non ha ancora ricevuto nessuna condanna. La fotografia, poco incoraggiante, arriva da Antigone, l’associazione che da 30 anni indaga il sistema carcerario italiano e con il XXVII rapporto pubblicato giovedì scorso, ne evidenzia le principali tendenze. E le criticità. Numeri di Ruggiero Montenegro. 3,1 miliardi - In euro, il costo del sistema penitenziario in Italia, che vale il 35 per cento del bilancio del ministero della Giustizia. Esso comprende 189 carceri, in grado di ospitare, secondo la capienza regolamentare, fino a 50.551 detenuti, e 17 istituti penali per minorenni. 106,2 per cento - Il tasso di affollamento delle carceri italiane, nelle quali al 28 febbraio erano recluse 53.697 persone: una diminuzione di 7.533 unità sull’anno precedente. La percentuale, si legge nel rapporto, potrebbe salire fino al 115 per cento in ragione del fatto che “il dato ufficiale sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie”, ovvero reparti temporaneamente chiusi, pari a circa 4 mila posti. 32.545 - Gli agenti di polizia penitenziaria effettivamente operativi, rispetto a un organico previsto di 37.181: uno scarto del 12,5 per cento, che assume però differenze estremamente significative in base alle regioni. In Sardegna e Calabria per esempio, si supera il 20 per cento, mentre aree come Campania, Puglia e Basilicata hanno un numero di personale superiore a quello previsto. 759 - I detenuti sottoposti al regime di 41bis, il cosiddetto carcere duro, che viene applicato in situazioni d’emergenza o nei confronti dei condannati per alcuni gravi reati, come quelli di stampo mafioso. Nel 2020 il numero degli omicidi ha raggiunto i minimi storici: 271, per la prima volta sotto quota 300. Nel 2019 erano stati 315. 2.250 - Le donne presenti negli istituti di detenzione al 31 gennaio: rappresentano il 4,2 percento della popolazione carceraria. Le carceri femminili in Italia sono solo quattro (a Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia), 46 le sezioni presenti all’interno dei penitenziari maschili. Ventisette i bambini in carcere con le madri. Nelle carceri italiane almeno 4.500 detenuti hanno problemi psichiatrici agenparl.eu, 15 marzo 2021 Negli istituti penitenziari della penisola ci sono 9 detenuti ogni 100 con problemi psichiatrici. La percentuale più alta soffre di disturbi nevrotici e di reazione alla detenzione. Il 30% di malattie psichiatriche collegate all’abuso di droghe e di alcool. Il 15% di psicosi. A sostenerlo è Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria S.PP.: “i detenuti con problemi psichiatrici certificati sono circa 1300, di cui 630 circa ospitati nelle 30 Rems (Residenze per le Misure di Sicurezza) disponibili e oltre 700 in attesa di entrarvi. Le regioni con più detenuti in attesa sono la Sicilia con circa 140 detenuti, la Calabria con 120 e la Campania con 100. Il problema psichiatrico nel carcere è da sempre sottovalutato e sottodimensionato. Le scene che abbiamo visto di Fabrizio Corona con le braccia tagliate sono quelle che quotidianamente vediamo e dobbiamo gestire nelle carceri italiane. Gli episodi di autolesioni di detenuti con difficoltà psichiatriche sono circa 10 ogni giorno, 4 sono le aggressioni che quotidianamente i poliziotti penitenziari subiscono da detenuti con problemi psichiatrici e 2 sono i tentativi di suicidio che la polizia penitenziaria riesce ad evitare. Le immagini di Fabrizio Corona ci evidenziano la difficoltà di gestione di detenuti in stato di alterazione psicologica e la difficoltà di contenere gli stessi per riportarli alla tranquillità. È condivisibile la raccolta di firme per evitare che le persone con problemi psichiatrici finiscano in carcere, ma che scontino la loro pena in centri di cura per la riabilitazione e la rieducazione. Questo principio però non può e non deve valere solo per le persone note come Fabrizio Corona. Appare evidente che il problema debba essere affrontato in modo più organico e generale con l’introduzione di norme specifiche che evitino che le persone con problemi psichiatrici riconosciuti entrino in carcere”. Conclude Di Giacomo: “in un sistema in cui la pena deve essere scontata da tutti, non si può o non si deve trattare meglio chi è più famoso”. Occorre potenziare la mediazione, per una giustizia più efficiente di Maren Marinaro Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2021 Con l’avvio delle attività del nuovo Governo e nel solco dell’invito del presidente Mario Draghi ad avere il “coraggio delle visioni”, ha ripreso la ribalta il tema della riforma della giustizia civile. Una riforma ritenuta da tutti necessaria essendo ampiamente diffusa la consapevolezza della grave quanto inaccettabile lentezza del percorso giurisdizionale: i ritardi registrati costantemente ormai da qualche lustro valgono quasi un punto di Pil all’anno, secondo quanto precisato da Draghi già nel 2011 quando era Governatore della Banca d’Italia e come oggi rilevato anche da uno studio comparativo condotto dall’Encj, la Rete europea dei Consigli della magistratura, tra Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Irlanda e Lituania. Peraltro, l’accesso alle risorse del Next Generation Eu è condizionato dal piano di riforme che include l’esigenza prioritaria di rendere efficiente la risposta di giustizia: occorre dunque individuare gli obiettivi e immaginare soluzioni innovative per un impatto positivo immediato e che nel medio-lungo periodo siano in grado di disegnare un sistema che, nella sua complessità, sia equilibrato e sostenibile. In questa prospettiva un particolare interesse assume un recente studio condotto da Leonardo D’Urso (esperto scientifico del Cepej) sui dati raccolti dal ministero della Giustizia al fine di valutare l’efficacia della mediazione. Il dato di partenza è il numero di cause iscritte nel 2019 nei tribunali (con riferimento alla macro-categoria del civile ordinario) che sono state poco più di mezzo milione. Ciò posto, le materie per le quali è prevista la partecipazione obbligatoria all’incontro di mediazione è pari al 15% delle iscrizioni, mentre sono quasi l’87% le mediazioni proseguite con il consenso delle parti raccolto durante il primo incontro, non senza considerare che il trend degli accordi negli ultimi cinque anni è cresciuto sino a sfiorare i150 per cento. Peraltro, diversi indicatori evidenziati nello studio confermano l’effetto deflattivo prodotto dal primo incontro di mediazione pari al 20% (dopo il primo anno) che nel tempo ha raggiunto la media di circa il 40% con punte fino al 50% in alcune materie quali i diritti reali e l’usucapione. In questo contesto, una vera best practice è il progetto “Giustizia semplice” che costituisce un laboratorio di ricerca avviato dall’Università di Firenze presso il Tribunale fiorentino (responsabile la professoressa Paola Lucarelli, presidente della Scuola di Giurisprudenza) che comprova l’efficacia della mediazione applicata anche alle liti pendenti. L’affiancamento di giovani esperti ai giudici per la selezione delle cause da avviare alla mediazione ha prodotto infatti risultati di notevole interesse: 5oo processi estinti dopo l’invio in mediazione nell’arco di tempo di n mesi; decremento del carico giudiziario nelle sezioni interessate dal progetto pari a oltre il 63% (dato del 2019 rispetto al 2017); durata media dei processi ridotta da 480 giorni (fine 2017) a 297 giorni (fine 2019). Questi risultati trovano autorevole sostegno nelle parole pronunciate per l’inaugurazione dell’anno giudiziario dal Primo presidente della Cassazione Pietro Curzio il quale, nell’affrontare il tema della riforma della giustizia civile, ha invocato l’intervento del legislatore “per prevenire la sopravvenienza di un numero patologico di ricorsi, mediante forme di risposta differenziate rispetto a quelle tradizionali in grado di giungere alla definizione del conflitto senza percorrere necessariamente i tre gradi di giurisdizione”. E in questa prospettiva il presidente Curzio ritiene che debba essere valorizzata la mediazione “nelle sue molteplici potenzialità”, segnalando a tal fine il lavoro del Tavolo tecnico per le procedure stragiudiziali istituito dal ministro della Giustizia nel dicembre 2019 e ponendosi in piena sintonia con le riflessioni svolte in quella sede. Il potenziamento dei sistemi riconciliativi - secondo la visione prospettata dall’allora presidente della Consulta Marta Cartabia, ora alla guida del dicastero di via Arenula - può costituire una scelta strategica: partendo da obiettivi comuni è possibile creare percorsi condivisi adottando soluzioni per la coesione sociale e per la competitività del sistema economico verso quella “nuova ricostruzione” del Paese indicata dal presidente Draghi. Penalisti in sciopero dal 29 al 31 marzo, contro l’inefficienza del processo telematico di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2021 I penalisti italiani proclamano l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale per i giorni 29, 30 e 31 marzo 2021, e fissano nel corso del primo giorno di sciopero una giornata di protesta nazionale, invitando tutte le Camere penali territoriali a partecipare, con modalità telematiche. La determinazione arriva dopo reiterate richieste, tutte andate a vuoto, che l’Unione camere penali ha rivolto alla politica ed al Ministero della Giustizia, e cioè di consentire, alla luce di un “evidente malfunzionamento dei portali”, cosa che determina una “grave lesione dei diritti dei cittadini sottoposti a procedimento penale e delle persone offese”, di accedere anche alle modalità tradizionali di deposito e accesso ai fascicoli. “La macchina del processo penale - scrive l’Ucpi in una nota - versa in una condizione drammatica, in un contesto e in un clima che sono ancora più preoccupanti”. “La Magistratura italiana - proseguono i legali - sta attraversando una grave crisi di autorevolezza. La politica è messa all’angolo, non pare avere al momento progetti di modifica della prescrizione, dei meccanismi capaci di incidere sui tempi del processo e dell’ordinamento giudiziario”. In questo clima, per i penalisti il portale penale telematico, definito il “portale delle Procure”, è nato “già obsoleto”, ed è oggetto di “continui guasti e inconvenienti tecnici che mettono a repentaglio il rispetto dei termini processuali e la tempestiva contezza delle iniziative della difesa”. In questo quadro, la soluzione proposta dai legali: la previsione di un regime transitorio, non è stata presa in considerazione. “Nessun impegno concreto - scrivono - è seguito da parte delle forze politiche che sostengono l’attuale Governo alle iniziative dell’Unione delle Camere Penali Italiane, che in queste settimane ha più volte denunciato le continue disfunzioni ed i malfunzionamenti dei portali”. Dunque, “preso atto della mancanza di una iniziativa diretta del Governo che consenta di realizzare da subito il doppio regime”, la Giunta ha proclamato, con esclusione dei processi contro imputati detenuti in custodia cautelare, l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale per i giorni 29, 30, 31 marzo 2021. E propria questa mattina la Ministra Cartabia, intervenendo alla prima edizione del Festival della Giustizia organizzato da Aiga, Associazione italiana giovani avvocati e Gruppo Sole 24Ore ha richiamato il tema della digitalizzazione, centrale nel Recovery plan, affermando: “Con il processo telematico e con più tecnologia anche per il sistema penitenziario, con più investimenti anche nel comparto digitale contiamo anche di migliorare le disfunzioni che persistono nel portale telematico di deposito degli atti. Per i giudici di pace in carica stabilizzazione più vicina di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2021 Per i magistrati onorari in carica sembra avvicinarsi la stabilizzazione. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, è consapevole che è urgente affrontare il dossier dei “non togati”, reduci da proteste e scioperi contro l’entrata in vigore, i115 agosto, del cuore della riforma Orlando (Dlgs u6/2o17), che introduce il tetto di due giorni di attività settimanale e riduce i compensi anche per i magistrati già in servizio. Prima di prendere decisioni, la ministra vuole però attendere che si pronunci la Corte costituzionale. L’inquadramento lavorativo Crescono intanto le chances di inquadramento come dipendenti. Una richiesta che i “non togati” avanzano da anni ma finora non accolta: anche il disegno di legge che rivede la riforma Orlando, presentato durante il Governo Conte i e ora all’esame del Senato, li considera lavoratori autonomi. A spingere in questa direzione è però la giurisprudenza: la Corte di giustizia Ue, nel luglio 2020 (sentenza Ux), ha affermato che i giudici di pace sono “lavoratori a tempo determinato” e nei mesi scorsi alcuni tribunali italiani hanno riconosciuto loro il diritto a ferie, maternità, Tfr e a un trattamento economico equivalente a quello dei lavoratori che svolgono funzioni analoghe. Posizioni sostenute in Parlamento dal presidente della Commissione giustizia del Senato, Andrea Ostellari (Lega): “È una situazione che va risolta nell’ottica di un inquadramento come lavoratori subordinati”. E la Lega aveva già presentato un emendamento in questo senso al Ddl all’esame del Senato, quando era all’opposizione. Ora l’attesa è concentrata sul deposito, previsto a giorni, della sentenza della Corte costituzionale sulle funzioni dei giudici ausiliari delle Corti d’appello. L’udienza si è tenuta il 13 gennaio e da più parti ci si aspetta che le motivazioni forniscano indicazioni anche sull’inquadramento degli attuali onorari in tribunale. Un tassello considerato fondamentale anche dalla ministra Cartabia. Anche perché continuano a confrontarsi posizioni divergenti. Nel parere del 24 febbraio scorso il Consiglio superiore della magistratura ha ribadito che il fatto che i non togati siano stati arruolati senza un concorso “costituirebbe un contro-limite, rispetto a un ipotetico obbligo comunitario che imponesse la stabilizzazione” e che la temporaneità dell’incarico, l’esercizio non esclusivo della funzione giurisdizionale, la diversa natura e il minor grado di complessità delle attività giustificano l’assenza di inquadramento come lavoratori dipendenti. Di fronte alla Consulta pende anche un’altra questione di costituzionalità relativa ai magistrati onorari sollevata dal giudice di pace di Lanciano. E la Corte di giustizia Ue a breve risponderà ai quesiti interpretativi sulla sentenza Ux posti del Tar dell’Emilia Romagna. “Non chiediamo certo di entrare nella carriera dei magistrati - spiega Mariaflora Di Giovanni, presidente di Unagipa -però la Corte Ue ci ha già riconosciuto come lavoratori dipendenti e di questo lo Stato deve tener conto. La questione va risolta in tempi brevi e senza ulteriori proroghe”. “Puntiamo alla stabilizzazione come subordinati - conferma Raimondo Orrù, presidente di Federmot - ma come opzione B valutiamo l’idea, condivisa nel 2018 con la magistratura ordinaria, di restare lavoratori autonomi, ma con la possibilità di avere fino a cinque impegni alla settimana, una retribuzione adeguata e la tutela previdenziale”. Il Recovery Plan Quel che è certo è che il ministero conta sull’apporto di (nuovi) magistrati onorari per sveltire la giustizia. La proposta di Piano nazionale di ripresa e resilienza - di cui oggi la ministra Cartabia parlerà alla Camera, nell’ambito dell’audizione sulle linee programmatiche del dicastero - prevede di arruolare gli onorari aggregati (con contratti di tre anni, prorogabili per altri tre) negli uffici del processo dei tribunali con più arretrato civile perché collaborino con gli ordinari nell’adozione delle decisioni e nella redazione delle sentenze. E punta ad assegnare onorari ausiliari in via straordinaria e temporanea alla Cassazione per abbattere l’arretrato tributario. I giudici chiedano l’abolizione delle leggi ingiuste di Iuri Maria Prado Il Riformista, 15 marzo 2021 Noi siamo sicuri che almeno ad alcuni magistrati ripugni di rovinare la vita delle persone. Siamo sicuri che almeno ad alcuni di loro faccia male sapere che per ogni detenuto c’è una moglie che vive senza il marito, un bambino che cresce senza il padre: e più terribilmente, quando in carcere è una donna, che a quel bambino sarà dato di vivere senza la madre oppure di condividerne la vita imprigionata. Il magistrato che firma un ordine di cattura o una sentenza che spedisce qualcuno in galera non è l’autore della legge che gli assegna questo potere. Non è dunque immediatamente responsabile della tremenda ingiustizia che la sua decisione mette in atto: ma indiscutibilmente vi partecipa, e c’è il suo contributo nella tristezza di una donna che prepara la borsa per il compagno che va in prigione, c’è il suo apporto nella disperazione di un bambino che guarda il padre portato via dagli agenti. Tutto questo può non essere sufficiente per cambiare mestiere, ma dovrebbe almeno bastare per pretendere che cambino le leggi che lo governano: dovrebbe bastare al magistrato per richiedere alla società di smetterla di incaricarlo di produrre tanta ingiustizia. E invece evidentemente non basta. I magistrati, che pure rivendicano il diritto di dire pubblicamente quello che gli pare su qualsiasi argomento, non hanno la forza di rivolgere alla società quel reclamo diverso: che essa revochi loro il potere di distruggere le persone, affinché il carcere sia l’estrema scelta nei pochissimi casi di effettiva e attuale pericolosità dell’accusato anziché la regola che tormenta inutilmente la vita di tanti. Quando dalla magistratura si levasse questa richiesta, allora ne avremmo rispetto. Quando la denuncia dell’ingiustizia del potere giudiziario venisse da chi lo esercita, allora avremmo speranza che esso non sia soltanto prepotenza e impunità corporativa. Quando i magistrati sentiranno anche su sé stessi la colpa dell’ingiustizia, allora potrà forse cominciare a esserci giustizia. Gratteri in Tv, i penalisti: “Espone i giudici a pressioni mediatiche” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 marzo 2021 “Il dottor Gratteri, padre dell’inchiesta, sarà ospite di Presa diretta, a quanto par di capire dai trailer, addirittura personalmente e probabilmente senza alcun contraddittore o, al più, col contributo registrato anzitempo di qualche difensore”. Il paradosso è servito: da un lato il Tribunale collegiale di Vibo Valentia ha autorizzato ieri le riprese audiovisive del maxiprocesso “Rinascita-Scott”, maxi-inchiesta del procuratore della Dda di Catanzaro, dottor Nicola Gratteri, vietando però di poterle trasmettere prima della lettura del dispositivo della sentenza del maxiprocesso per “garantire l’assoluta genuinità della prova”. Dall’altro lato c’è la decisione di “Presa diretta”, la trasmissione di Rai3 condotta da Riccardo Iacona, di dedicare la puntata del 15 marzo proprio alla maxi-inchiesta. Difficile spiegare questo corto circuito che comunque viene stigmatizzato da una nota dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali Italiane che critica la messa in onda, innanzitutto nello sbilanciamento tra accusa e difesa: “Il dottor Gratteri, appunto padre dell’inchiesta, sarà ospite della trasmissione, a quanto par di capire dai trailer, addirittura personalmente e probabilmente senza alcun contraddittore o, al più, col contributo registrato anzitempo di qualche Difensore”. E poi la risposta al tweet con cui il conduttore ha lanciato lo speciale: “Raccontarla - ha scritto Iacona - non è cronaca giudiziaria, ma una questione di libertà e democrazia che riguarda tutti”. Ma, dicono i penalisti, “di libertà e democrazia” si può parlare “solo evitando di esporre il processo penale alle indebite influenze di narrazioni giornalistiche, tanto più se unilaterali, ma comunque in grado di condizionare, non solo l’opinione pubblica, ma anche l’esercizio stesso della giurisdizione”. Proprio l’obiettivo che si è prefissato il Tribunale con la nota divulgata ieri, ma che sarà evidentemente eluso. Poi l’Osservatorio ricorda che a fronte dell’interesse mediatico suscitato dall’inchiesta, vi è stato “un numero elevatissimo di annullamenti delle misure cautelari irrogate nel procedimento” che “testimoniano indiscutibilmente quanto il clamore che ha accompagnato l’inchiesta e gli arresti di molte persone sia stato e sia del tutto ingiustificato”. Eppure vi ricordate che disse il dottor Gratteri a Sky Tg24? “I giornali nazionali hanno boicottato la notizia”. Scrivono i penalisti: “L’informazione è il sale della democrazia. Attenzione però: aprire i microfoni a una parte processuale (spesso la stessa e ancorché garantendo un contraddittorio solo apparente), ora per magnificarne l’importanza e l’impegno, ora per assicurarsi l’empatia del grande pubblico mentre il giudizio è in corso, offre una visione parziale e quindi potenzialmente distorta dei fatti oggetto dell’inchiesta medesima, non rappresentando affatto un esercizio democratico, men che mai liberale”. Per queste ragioni, fermo il sacrosanto diritto di cronaca, “non si può che stigmatizzare l’iniziativa del Giornalista nonché il fatto che il Procuratore della Repubblica abbia consentito a prender parte alla trasmissione nonostante il processo sia ancora in corso, con il conseguente rischio di compromettere il sereno esercizio della giurisdizione così esponendo tutte le parti processuali e gli stessi giudici a indebite pressioni mediatiche. Al tempo stesso si auspica che nel corso del programma televisivo venga in ogni caso massimamente preservata la neutralità nell’esposizione dei fatti ed evitato ogni potenziale pregiudizio per il sereno svolgimento del processo pendente avanti l’Autorità Giudiziaria di Catanzaro”. I processi si celebrano nelle aule giudiziarie, non in televisione con l’arbitro che tifa spudoratamente per una squadra. Il cugino nelle Br, il padre in polizia. L’eco del sangue a cura di Cristina Taglietti Corriere della Sera, 15 marzo 2021 Conversazione tra Giorgio Bazzega e Giuseppe Culicchia. Sesto San Giovanni, Milano, 1976: all’alba del 15 dicembre gli agenti irrompono nella casa dove il ventenne Walter Alasia, membro delle Brigate rosse, vive con i genitori. Lui viene ucciso dopo aver colpito a morte un vicequestore e un maresciallo. Il terrorista era l’amato cugino dello scrittore Giuseppe Culicchia, allora bambino, che gli ha appena dedicato un libro. E che qui dialoga con Giorgio Bazzega, figlio di una delle due vittime. È stato molti anni a macerarsi nell’odio. Ora quell’odio Giorgio Bazzega non lo prova più. Aveva 2 anni e mezzo, il 15 dicembre 1976, quando il padre Sergio, 32 anni, venne colpito a morte insieme al vicequestore Giovanni Vittorio Padovani. A sparargli il brigatista Walter Alasia, 20 anni, a sua volta ucciso nella casa dei genitori a Sesto San Giovanni durante il blitz della polizia. Alasia era cugino dello scrittore Giuseppe Culicchia che allora aveva 11 anni e un’adorazione per quel ragazzo più grande, generoso e allegro. A quarant’anni di distanza, Culicchia ha scritto un libro, Il tempo di vivere con te, che è insieme memoria, ricostruzione storica, elaborazione del lutto, lontano da ogni forma di giustificazione o indulgenza verso i crimini delle Brigate rosse. Bazzega e Culicchia si sono incontrati per la prima volta al Parco Ravizza di Milano qualche settimana fa. Partiti dalla massima distanza possibile, ognuno con la sua memoria privata, si sono trovati incredibilmente vicini. Quel giorno hanno iniziato un dialogo che ha sorpreso entrambi, continuato con “la Lettura” in questa conversazione online. Il percorso di Bazzega per arrivare a quella che viene definita “riconciliazione”, come nelle commissioni del Sudafrica volute da Nelson Mandela al termine dell’apartheid, è stato lungo e tormentato ma ora è anche il suo lavoro. “Dopo anni passati in un’agenzia di pubblicità, faccio il mediatore penale. Si ricollega alla concezione di giustizia riparativa che coinvolge la vittima, il colpevole e la comunità”, spiega. Un percorso cominciato con l’Associazione vittime del terrorismo e poi proseguito al di fuori di questa, che per statuto non permette l’incontro con i rei. Anni fa Bazzega si è unito al “gruppo dell’incontro”, composto da responsabili della lotta armata e da vittime di quegli anni di sangue. “È stata l’unica cosa che ha funzionato su di me - spiega Bazzega - grazie a Manlio Milani, presidente del comitato delle vittime della strage di Piazza della Loggia a Brescia che è il mio eroe, il mio punto di riferimento. Con Franco Bonisoli, Adriana Faranda e altri ex terroristi che si sono messi a disposizione ho passato molto tempo. Ora posso dire che sono gli amici a cui mi rivolgo ogni volta che ho bisogno”. Com’è stato il vostro incontro? GIUSEPPE CULICCHIA - Ci siamo conosciuti grazie a un giornalista radiofonico che aveva intervistato Giorgio. Ho ascoltato quell’intervista e ho trovato parole di comprensione verso Walter che non mi aspettavo. Gli ho scritto e abbiamo deciso di vederci. È stato un momento molto doloroso e molto bello: eravamo lì noi due, con i nostri morti. Mi sembrava di conoscerlo da molto tempo. GIORGIO BAZZEGA - Quando mi hanno segnalato il libro di Giuseppe mi ci sono immerso. Ho capito subito che mi permetteva di aggiungere il pezzo che mi mancava di questa storia, quello che nessuno aveva potuto raccontarmi fino a quel momento: non Walter il terrorista ma Walter il ragazzo, nella sua umanità. Eppure una recensione apparsa online accusa Culicchia di aver fatto, con questo libro, apologia di reato. GIORGIO BAZZEGA - Giuseppe lo ha scritto come andava scritto, con una sensibilità e un’onestà intellettuale inattaccabili. Non c’erano altri modi. GIUSEPPE CULICCHIA - Non si trattava di farne un eroe ma di raccontare chi era, com’era. Ho profondo rispetto per il dolore delle famiglie Bazzega e Padovani, per quei ragazzi, gli altri poliziotti, anche loro giovani, che alle 5 di mattina vedono uccidere due colleghi. Non c’è niente di giusto in questa storia, però bisogna capirla. Finora erano usciti libri di memorialistica scritti da reduci di quell’epoca oppure dalle vittime. Il mio forse è il primo in cui si racconta il dolore dall’altra parte. Ho cercato di mostrare Walter nella sua complessità umana. Credo che in tanti, come lui, sia maturata quella scelta che io non cerco di giustificare ma di capire. Come può un ragazzo di vent’anni decidere di impugnare una pistola e uccidere? Io non andai al funerale perché avevo 11 anni ma mia sorella, che ne aveva 17, sì. Quando vide i calzini bianchi sporchi di sangue nella bara capì che era tutto vero. Fino a quel momento aveva pensato che potesse essere uno scherzo di Walter. Per anni è stato identificato con una fototessera, quasi una cupa foto segnaletica in cui noi non riconoscevamo il ragazzo affettuoso che amava scherzare e disegnare. Io non lo lasciavo in pace, gli ero sempre appiccicato e non mi sono mai sentito dire un no. Walter Alasia diventa ancora di più un simbolo quando gli viene intitolata la colonna milanese delle Br. GIUSEPPE CULICCHIA - Ogni volta che se ne parlava era un dolore tremendo. Mia zia, sua mamma, è morta a 52 anni di crepacuore. Tutto è successo davanti ai loro occhi, nella casa in cui è cresciuto e che lei non ha mai voluto lasciare. GIORGIO BAZZEGA - Letto il libro, Giuseppe, mi sono reso conto delle ragioni per cui sentivo di capirlo. Non posso dire di non averlo odiato ma certo non è mai stata la persona che ho più odiato. Chi è la persona che ha odiato di più? GIORGIO BAZZEGA - Renato Curcio. È lui che ha spinto Walter a entrare nella lotta armata. Non è come certi irriducibili, come Barbara Balzerani per esempio, che sembra la caricatura di sé stessa. Lui lo trovo più subdolo, il campione dell’armiamoci e partite. In quello che chiamo il mio “periodo blu”, quello della rabbia, io, che ho sempre odiato le armi, ho fatto molto pugilato e arti marziali. Fantasticavo di ucciderlo, mi preparavo per quello. Poi, un giorno, è venuto a fare un incontro al Barrios, il centro di aggregazione alla Barona, dove sono cresciuto. Mi sono presentato, con il mio cane, la cuffia sugli occhi, l’atteggiamento da guappo di periferia che avevo a quei tempi e gli ho detto: sono Giorgio Bazzega, ti dice niente questo nome? L’ho visto confuso, preoccupato. Indietreggiava. Da lì si vedeva la finestra di casa mia, dove abitava mio padre, gliel’ho mostrata, ho allungato la mano a toccargli la spalla e gli ho detto: adesso continua pure il tuo incontro. All’improvviso mi sono sentito liberato, come se papà mi avesse dato un coppino sul collo e mi avesse detto: non pensare più a questo, vai avanti. Ci ho messo una decina di passi per prendere coscienza di questa sensazione unica, di leggerezza. Era una vita che avvelenavo mamma e chi mi stava vicino con la rabbia. Culicchia invece scrive di non avere mai voluto incontrare Renato Curcio, anche se, per esempio, bastava avvicinarlo al Salone del Libro di Torino. GIUSEPPE CULICCHIA - Ho sempre avuto la curiosità di chiedergli di quel Walter fuori dalla famiglia che io non ho conosciuto. Però, al contrario di Giorgio, che è stato capace di perdonare, forse il mio percorso non è ancora finito perché penso che sia stato lui a mettergli quell’arma in mano e questo ha cambiato la vita di tre famiglie in maniera radicale. Che ricordi ha Giorgio di suo padre? GIORGIO BAZZEGA - Ho tre ricordi precisi, miei: una sculacciata, la prima e unica; io che gioco con il suo piede; noi allo zoo, davanti alla gabbia di un leone un po’ male in arnese. Io sono uguale a lui, dieci centimetri più alto. Una volta portavo i capelli lunghi, le basette come lui, una specie di feticcio per sentirlo vicino. Ho lo stesso modo di muovermi e un suo collega, vedendomi, si è messo a piangere. GIUSEPPE CULICCHIA - Io ho conosciuto Sergio Bazzega attraverso i racconti di Giorgio. Mi ha mostrato anche una lettera che suo padre aveva mandato all’”Unità”, in cui si capiva di come si fosse battuto per una democratizzazione della polizia. I colleghi che gli volevano bene, scherzosamente in questura lo chiamavano “il comunista”. Con Giorgio ho capito fino in fondo quanta assurdità c’era stata in quell’alba a Sesto San Giovanni, con Walter che uccideva un uomo molto diverso dallo stereotipo in voga del poliziotto. GIORGIO BAZZEGA - Leggendo questa lettera si capisce molto di mio padre. Tira due o tre bordate, parla della necessità di addestrare i ragazzi al non uso delle armi. Cose impensabili per un poliziotto dell’epoca. GIUSEPPE CULICCHIA - In fondo l’estrazione sociale delle due famiglie era simile. I miei zii erano operai nella Stalingrado d’Italia, Sesto San Giovanni, voi, Giorgio, vivevate alla Barona, un’altra periferia non facile. Di sicuro in Walter c’era una consapevolezza di classe, l’idea di un capitalismo che sfrutta gli operai e che aveva messo la madre in un reparto punitivo perché si era ribellata al cottimo. Da adolescente, vedere che lei faceva fatica a respirare per l’aria tossica della fabbrica, alimentava un senso di ingiustizia. Poi, erano gli anni dei processi per Piazza Fontana, della morte di Pinelli e anche i giornali più conservatori parlavano apertamente di depistaggi. GIORGIO BAZZEGA - Sai, Giuseppe, che quando leggevo della mamma di Walter, mi sono ricordato di una situazione simile che era capitata a mia madre in ufficio, dove era segretaria, con una superiora che la trattava in modo indegno e lei tornava a casa e piangeva. In quel periodo c’erano ingiustizie sociali tangibili. Com’è possibile una forma di riconciliazione se su molti fatti non è stata fatta chiarezza e non si è arrivati a una verità condivisa? GIUSEPPE CULICCHIA - Bisogna imparare ad accettare il dolore e la verità dell’altra parte, partendo dal fatto che gli anni di piombo contengono verità ancora indicibili. Ripenso a quell’articolo di Pasolini sul “Corriere”, quello famoso dell’”Io so” in cui chiamava in causa non soltanto la Dc, ma anche il Pci che stava all’opposizione. Lo scrive nel ‘74 e poi nel ‘78 il cadavere di Moro viene ritrovato in via Caetani, a metà strada tra la sede del Pci e quella della Dc. E Pasolini è l’unico intellettuale italiano a venire ucciso, una morte non legata direttamente agli anni di piombo, ma certo ancora non del tutto chiara. Tante mistificazioni, buchi neri, omissis, troppi pezzi di verità mancanti: Ustica, Bologna, Piazza della Loggia. Però l’innocenza il nostro Paese l’ha persa molto tempo prima, con la strage di Portella della Ginestra. GIORGIO BAZZEGA - La prima volta che ho letto il libro ho avuto un sussulto quando riporta l’ipotesi che fossero stati i colleghi a uccidere mio padre con una sventagliata di mitra. Però poi mi sono reso conto che era qualcosa di cui si parlava, dalle parti di Lotta continua. Non c’è nessun mistero sulla morte di suo padre? GIORGIO BAZZEGA - No, ho parlato con tutti quelli che erano in quella stanza, abbiamo i vestiti, mia madre li lavava tutti i giorni e li conosceva bene. Nel gruppo dell’incontro ho avuto la fortuna di avere a che fare con tutti i protagonisti di quegli anni e penso che sulla lotta armata di sinistra sappiamo quasi tutto. Non credo che i brigatisti fossero guidati ma, piuttosto, che siano stati sfruttati. Sullo stragismo, grazie anche a Manlio Milani, cominciano a esserci anche verità giudiziarie. Chi veramente deve fare i conti con quello che sa è lo Stato, l’unico che non ha detto la verità. Noi vittime del terrorismo siamo rimasti in silenzio fino a 15 anni fa, quando è uscito il libro di Mario Calabresi su suo padre. Eravamo la polvere sotto il tappeto, la prova vivente di tutte le malefatte. Io sono molto disincantato. Per una vita sono dovuto andare in giro a dire che ero fascista, stavo con la destra milanese. Non ero d’accordo su niente ma ero ignorante e mi sentivo obbligato: papà l’avevano ucciso le Brigate rosse e dovevo stare dall’altra parte. Però sono stato bravo a sfruttare le occasioni che ho avuto, la fortuna di avere un amico come Manlio Milani, di fare un percorso con Valerio Onida e Gherardo Colombo. Ora mi sento finalmente sulle orme di papà, mi sembra di proseguire il suo lavoro, con altri strumenti. Culicchia, scrivere questo libro è stata una liberazione? GIUSEPPE CULICCHIA - No, non ci si libera da un dolore. Però ho mantenuto la promessa che avevo fatto a Walter nel momento in cui lo avevano raccontato secondo stereotipi. Se ho cominciato a scrivere è stato per scrivere di lui. Già il protagonista di Tutti giù per terra si chiamava Walter. Ora ho avuto il coraggio di aprire quel file vuoto sul computer, con soltanto le iniziali, W. A., e di riempirlo. Ambrogio Crespi entra in carcere in nome (e nel silenzio) del popolo italiano di Camillo Maffia agenziaradicale.com, 15 marzo 2021 L’ingresso in carcere di Ambrogio Crespi è uno di quegli eventi simbolici dove il confine tra realtà e metafora sembra perdersi nel silenzio dell’immagine, dove un finale che nelle intenzioni degli autori dovrebbe mostrare al pubblico l’esito dell’implacabile ma imparziale corso della giustizia lascia invece gli spettatori inquieti e non convinti; essi tacciono, a loro volta, come nelle ultime indicazioni di scena del Boris Godunov di Alexsandr Puskin. Così il grande autore russo volle concludere il suo celebre dramma: con astanti che dovrebbero applaudire, ma non lo fanno; si racconta che il regime sovietico abbia lasciato intatto il copione teatrale, cambiando solo questa scena conclusiva per sostituirla con un popolo che batte invece obbedientemente, e stupidamente, le mani. Anche noi ci troviamo qui oggi a un bivio analogo: dobbiamo credere nella giustizia come fosse un dogma, in base al quale giunti all’ultimo grado di giudizio stringiamo tra le braccia una verità irrefutabile, e applaudire al finale, benché tragico, di questa discussa vicenda? O possiamo lasciarci contagiare dal silenzio dell’immagine, senza battere le mani, per non lasciar cadere il dubbio che, in virtù d’una insopportabile ironia della sorte, il regista del più efficace lavoro mai realizzato sul caso di Enzo Tortora stia ora subendo un destino non solo analogo, ma perfino peggiore? Perché qui il problema non è il fatto che Crespi sia innocente, bensì il principio: se bastano questi elementi per condannare un uomo a sei anni di carcere, come da poco confermato dalla Corte di Cassazione, allora la sola conclusione logica, per quanto ciò infranga ogni fiducia di stampo dogmatico nei riguardi della giustizia, è che chiunque di noi si potrebbe ritrovare nella situazione di quell’uomo, senza aver necessariamente fatto qualcosa per meritarlo. Ripercorriamo brevemente i fatti: Crespi viene accusato nel 2012, nell’ambito di una inchiesta che travolge la regione Lombardia, di aver procurato 2500 voti all’assessore Domenico Zambetti in ambienti ‘ndranghetisti. Come sottolineerà la difesa nel corso del dibattimento, se da un lato siamo certi che i due non si sono mai incontrati, dall’altro non vi è prova che effettivamente si conoscano: stiamo parlando di sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa, inflitti a un uomo che ha fatto del contrasto anzitutto culturale alla mafia il perno della sua attività professionale e creativa, “perché avrebbe prodotto dei voti per un politico che non ha mai conosciuto insieme a delle persone che non hanno mai frequentato la sua vita”, come ha sintetizzato suo fratello Luigi. Le accuse nascono infatti da intercettazioni che lo chiamerebbero in causa, nelle quali si afferma che Crespi si sarebbe servito di frequentazioni criminali nelle periferie di Milano per portare voti a Zambetti. Tale vicinanza del regista agli ambienti ‘ndranghetisti non trova alcuna conferma se non nelle dichiarazioni d’un pentito la cui attendibilità è quantomeno controversa. Per quanto riguarda i voti procacciati, non si riscontreranno picchi di preferenze a favore dell’assessore nelle zone “incriminate” della periferia di Milano, né sarà possibile per l’accusa dimostrare, neppure con prove indiziarie, che Crespi li abbia ottenuti con metodi coercitivi. Roberto D’Alimonte, il maggior esperto di flussi elettorali in Italia, mostrerà invece come nelle aree in cui il regista sarebbe intervenuto per influenzare l’esito delle urne non vi siano in realtà picchi significativi a favore di Zambetti. Con questi elementi un uomo specchiato, dalla vita caratterizzata da un forte impegno sociale al punto che la sensibilità nei riguardi degli ultimi è stata per lui fonte d’ispirazione nel realizzare i suoi lavori di maggior successo, viene condannato a sei anni. È questo l’esile canovaccio che ci conduce al finale della nostra allegoria della giustizia, il dramma che ci consegna il tragico finale in cui Crespi fa il suo ingresso nel carcere di Opera “in nome del popolo italiano”. Il quale, però, non può applaudire. Non stavolta. La storia di Pietro D’Ardes, da detenuto ad avvocato di Sonia Sabatino Quotidiano di Sicilia, 15 marzo 2021 Pietro D’Ardes racconta la sua personale esperienza con la giustizia e il suo percorso di reinserimento nella società: “come il carcere può essere uno strumento di riabilitazione”. “Solo umanizzando questi luoghi di solitudine e di sofferenza, si può aiutare chi è privato momentaneamente della libertà personale, verso un vero recupero della persona. Racconta Pietro D’Ardes, condannato a 11 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione aggravata, nell’ambito dell’operazione “Cent’anni di storia”, adesso ha un suo studio legale e lavora per diventare avvocato. Gli istituti di pena, che per molti vengono intesi solo come luoghi di emarginazione e per custodire la sicurezza della società, possono divenire una vera e propria provocazione, uno stimolo, una sfida a far nascere e ad interrogarci affinché il nostro mondo sia più misericordioso e più attento alle persone” questo ha affermato don Raffaele Grimaldi, Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, dopo il colloquio con l’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede. Ma le nostre carceri possono davvero essere uno strumento di riabilitazione? Con un intervento netto del legislatore potrebbe succedere, così almeno suggerisce Pietro D’Ardes. Di cosa si occupava prima dell’arresto? “Ho iniziato a muovere i primi passi come ispettore del lavoro per il Ministero, poi mi sono licenziato perché ho deciso di fondare e seguire la mia cooperativa “Lavoro”. Nel frattempo sono diventato consigliere nazionale dell’Unci che a quel tempo era una delle centrali cooperative più importati e poi sono diventato il segretario regionale del Lazio. Piano piano sono cresciuto e sono diventato una realtà importante, ho cominciato a lavorare con la grande distribuzione dall’Umbria alla Sicilia. Avevo 1.500 dipendenti tutti regolarmente inquadrati, ma poi mi sono imbattuto in questo incidente di percorso, in questa disavventura che mi ha portato a perdere tutto e a stare lontano dalla vita normale per quasi dieci anni”. Come è cambiata la sua vita in carcere... “Arrivato in carcere ho deciso di dare senso a questa esperienza e ho iniziato a fare lo scrivano aiutando gli altri detenuti con le istanze, quindi ho cominciato a studiare il diritto. Quando ero in carcere a Rossano Calabro ho partecipato ad un progetto con il cappellano e il vescovo Monsignor Santo Marcianò per la creazione di una Casa Famiglia per detenuti, è stata una cosa molto bella e importante. Poi ho lasciato la Calabria perché ho chiesto trasferimento a Roma per avvicinarmi alla famiglia. Arrivato a Rebibbia mi sono messo a studiare, mi sono iscritto alla magistrale di Torvergata in Giurisprudenza. Venivano i professori in carcere per gli esami e nello stesso tempo continuavo ad aiutare i detenuti. Mi sono laureato con una tesi sull’esecuzione penale e l’ordinamento penitenziario, riportando anche la mia esperienza, perché ho creato un permesso a dimensione del detenuto approvato dal Tribunale di Sorveglianza. Immergendomi in questa materia del diritto penitenziario ho visto tante falle che andrebbero risolte diversamente perché la nostra Costituzione all’art.27 comma 3 dice che la pena non deve essere finalizzata a trattamenti umani degradanti ma bensì al reinserimento nella coesistenza sociale, che può essere intrapreso soltanto con un percorso intramurario che prosegua anche fuori”. Secondo lei realmente in Italia, allo stato attuale, il carcere può essere uno strumento di riabilitazione? “Se in carcere venissero dati i giusti strumenti alle diverse aree educative potrebbe esserlo. Spesso all’interno delle carceri il personale è sottodimensionato, se per 200 detenuti ci sono 4 educatori è chiaro che non tutti possono essere seguiti adeguatamente. Per questo motivo è importante la creazione di un percorso serio, in cui la persona abbia la possibilità di prendere una certa direzione nella propria vita, che deve iniziare dentro il carcere e proseguire fuori con delle strutture che possono accogliere le persone condannate a scontare altre misure di sicurezza, perché la pena non finisce con il carcere, la reclusione è quella principale ma poi ci sono le interdizioni e le varie misure di sicurezza. Infine, bisogna anche combattere con la “teoria dell’etichettamento” da parte della società, per cui diventa difficile ricollocarsi a livello lavorativo. Per questo motivo molte persone sono a rischio di reiterazione del reato, cioè prese dallo sconforto, dalla paura e sopraffatte dalla difficoltà di reinserirsi in società, possono commettere nuovamente dei reati, entrano di nuovo in carcere perpetrando un circolo vizioso”. Dopo la laurea che ha fatto quindi? “Mi sono laureato e adesso sono quasi criminologo. Se Dio vuole nel 2022 farò l’esame e diventerò avvocato”. Quindi adesso è un praticante avvocato? “Non sono proprio un praticante perché per iscrivermi all’albo dei praticanti devo avere la riabilitazione, che può essere ottenuta dopo tre anni dall’aver scontato la condanna. Nel 2022 chiederò la riabilitazione e a quel punto potrò fare l’esame di Stato. In questo modo posso dare alla collettività un contributo in base alla mia esperienza per quanto riguarda il penale, infatti, sull’esecuzione e sulla sorveglianza rispetto ad un avvocato normale ho maggiori conoscenze. Per forza di cose conosco meglio quello che è il percorso intramurario, infatti, spesso vengo chiamato da molti studi legali per fare le istanze ai detenuti. Ho una mail che utilizzo solamente per i detenuti, in cui mi scrivono, io a volte faccio loro le istanze, gliele notifico in carcere e poi loro le presentano tramite l’ufficio matricole. Adesso sono consulente del mio studio legale che ho aperto con dei soldi che mi ha lasciato mia madre e mi appoggio agli avvocati. Il mio obiettivo futuro è quello di seguire prettamente l’esecuzione, la sorveglianza e alcuni aspetti in ambito civile. Non tornerò più a fare l’imprenditore perché non ne ho nessuna intenzione e andrò avanti con lo studio, con la cultura e con la mia nuova vita”. Com’è cambiata la sua vita da prima ad ora? “Prima ero una persona che inseguiva solamente i soldi e quindi vivevo la mia vita nell’opulenza. Oggi quando mi alzo la mattina mi faccio il segno della croce e ringrazio Dio per quello che ho, nonostante non abbia più nulla di quello che avevo prima. Il carcere mi ha cambiato, mi ha insegnato a fare la spesa e a spendere poco, a campare anche con 300 euro invece che con i milioni di euro al mese. Ho capito che molte cose nella vita non servono, l’importante è vivere. Se devi comprare un jeans va bene anche quello da 15 euro non serve spenderne per forza 150. Ho imparato a cucinare, sono una persona molto dinamica, gioviale, e sono una persona che quando si alza la mattina, anche se ci sono tanti problemi, ho sempre il sorriso sulle labbra, perché la vita si deve prendere così”. Lei continua a proclamarsi innocente? “Sì, il mio è un errore giudiziario anche se non spetta a me dirlo perché le sentenze non si possono contestare”. Non si era reso conto del fatto che stava facendo affari con i Casamonica? “Io facevo l’imprenditore come ho sempre fatto e mi sono comportato sempre correttamente con le persone. Se una persona ha un’impresa da mandare avanti non guarda molto queste cose, sono stato un po’ superficiale, perché mi rendo conto adesso con l’esperienza del carcere che anche un imprenditore deve stare attento a certe cose, perché comunque potrebbe essere coinvolto nelle vicende anche se non c’entra nulla. Io di fatto facevo seria imprenditoria e davo lavoro alla gente, levandola dalla strada, forse anche questo ha dato fastidio. La Calabria e la Sicilia sono bellissime regioni ma l’imprenditoria non è bene accetta. Quando la Cassazione mi ha condannato in via definitiva, io ho chiesto la ricusazione del giudice, perché un giudice non può giudicarmi due volte, ma la ricusazione è stata rigettata. Chissà forse un giorno quando diventerò avvocato chiederò la riapertura del processo, ma in ogni caso non voglio fare polemiche perché quando si finisce in carcere qualche errore è sempre stato fatto, anche quando un reato non è stato commesso nella maniera in cui è contestato, ma ci sono degli errori e delle imprudenze”. Come sta elaborando e utilizzando la sua vicenda carceraria a favore dei detenuti? “La mia vicenda processuale e carceraria è conclusa, appena potrò mi adopererò per ottenere le riabilitazioni. Poi continuo ad aiutare i carcerati, parlo loro di legalità e norme, infatti, in teoria ci sarebbe una carta che dovrebbe essere consegnata ad ogni detenuto quando ha accesso in carcere che riguarda i suoi diritti e i doveri. La mancata consegna della “carta del detenuto” determina il fatto che spesso i carcerati non sappiano cosa non devono fare e quali sono i propri diritti. Bisogna, inoltre, partecipare alle attività che si svolgono in carcere: la scuola, la musica, il teatro, la pittura, sono tutti laboratori utili per la progettualità del soggetto. Il problema è che questi servizi variano da istituto a istituto, invece questi processi andrebbero standardizzati, perché ci sono strutture in cui il detenuto sta sempre in cella, quindi come fa a iniziare questo percorso di cambiamento? In carcere è necessario essere forti, rimboccarsi le maniche, rimettersi in gioco e cercare di diventare una persona migliore per se stessi e per la società. Altrettanto importante è il reinserimento della persona in società, infatti, se una persona ha pagato il suo debito con la società non si capisce perché debba essere osteggiato o guardato in cagnesco. Quando ha finito la pena ha diritto di reinserirsi nella società, se poi sbaglia di nuovo pagherà nuovamente ma ci sono persone che non ne vogliono sapere più nulla e queste persone devono essere aiutate anche a livello psicologico, perché dentro il carcere vengono a mancare tante cose, si vengono a creare delle lesioni per cui una persona quando esce dal carcere si può trovare ad aver perso il lavoro, i soldi e anche gli affetti. Il permesso premio serve proprio a mantenere in piedi l’unione quindi l’aspetto genitoriale, quello con il coniuge. Sono aspetti importanti che vanno a ledere la psiche di un soggetto”. È contento del percorso che sta facendo? “Sì, anche perché ho molte soddisfazioni a livello lavorativo, quello che mi manca è non poter stare con la toga magari a patrocinare ma per quanto riguarda l’aspetto extragiudiziale e sullo studio sono molto contento”. Adesso di cosa si sta occupando? “Io adesso sto lavorando per alcune strutture del terzo settore per creare delle case famiglia per detenuti, sia che debbano finire di scontare la pena - parliamo di condannati non per gravi reati di allarme sociale - ma anche per persone che abbiano terminato la pena e hanno bisogno di un’accoglienza. Al contempo saranno erogati dei corsi di formazione e di specializzazione come pizzaiolo, cuoco, cucito e tutte quelle attività che possono essere motivo di occupazione per queste persone. Se un soggetto impara a fare il calzolaio, ad esempio, ha la possibilità di scegliere, può aprire una bottega e fare il calzolaio, poi se continua a fare il rapinatore o lo spacciatore è una scelta sua, però questa società, che ha l’interesse di recuperare un individuo, deve dargli la possibilità di farlo. Questo è il vero reinserimento”. Campania. Suicidi e affollamento, così le carceri sono tornate indietro di 20 anni di Viviana Lanza Il Riformista, 15 marzo 2021 I suicidi sono quasi raddoppiati (9 nel 2020 a fronte dei 5 del 2019), gli atti di autolesionismo aumentati (1.232 casi in un anno) così come gli scioperi della fame (1.072) e il rifiuto dell’assistenza sanitaria (398 casi) come forma di protesta, con conseguente aumento dei provvedimenti disciplinari che determinano la perdita di benefici e dunque il perdurare del sovraffollamento. I numeri della Relazione annuale del garante regionale Samuele Ciambriello descrivono i drammi della vita in carcere, le privazioni e le carenze che la pandemia in atto ha amplificato rendendo il bilancio del 2020 particolarmente doloroso. “Credo che forse venti anni fa i numeri erano così gravi come nel 2020”, ha evidenziato Ciambriello illustrando i dati del suo report durante un incontro con il presidente del Consiglio regionale Gennaro Oliviero e con il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. Il presidente Oliviero ha annunciato un’iniziativa per ampliare risorse e competenze del garante. E il garante Palma ha fatto appello al senso di unitarietà sociale per affrontare i problemi di detenuti e migranti. “Tutto il sistema penitenziario è in crisi a causa del Covid - ha affermato Ciambriello - E il mondo dei detenuti è un mondo spesso dimenticato, considerato marginale”. La pandemia ha solo messo più in evidenza le carenze che affliggevano il sistema, da quelle strutturali a quelle tecnologiche, a quelle che non consentono ancora alla pena di assolvere al compito rieducativo previsto dalla Costituzione. Sicché in Campania ci sono ancora carceri con celle senza acqua calda, senza bidet né docce, o con lo scandalo dei costi del sopravvitto. E tutto ciò si riversa nei drammi umani che si vivono dietro le sbarre. Oltre ai suicidi, nel 2020, sono aumentati anche i tentati suicidi sventati solo grazie all’intervento della polizia penitenziaria: 146 casi in un anno. E nel 2021 la situazione non sembra migliorare se si considera che nei primi mesi dell’anno si sono già registrati due suicidi: un sedicenne che si è tolto la vita in una comunità del Casertano e un detenuto del carcere di Santa Maria Capua Vetere che si è ucciso dopo appena tre giorni dal suo ingresso in cella). Le richieste di aiuto arrivate al garante negli ultimi dodici mesi sono state numerosissime: tra gennaio e dicembre 2020 sono stati effettuati 1.292 colloqui e si sono contate 1.252 richieste di intervento, 720 delle quali attraverso segnalazione delle direzioni degli istituti, 453 lettere spedite dai detenuti, e poi mail di familiari, avvocati, associazioni, volontari o cappellani. Insomma un grido disperato. E a leggere le motivazioni si scopre che tutte le richieste sono state espressione di forti disagi e sofferenze: la tutela della salute in carcere è stato il motivo più ricorrente, poi ci sono state le problematiche legate alle aree educative interne, alle informazioni sulle opportunità di studio, alla lentezza delle decisioni degli uffici di Sorveglianza, un altro nodo critico perché ha ripercussioni negative sulla possibilità dei detenuti che ne hanno diritto di richiedere benefici. Solo in casi limitati le richieste di aiuto hanno riguardato episodi di abusi e maltrattamenti che il garante ha segnalato alle Procure competenti. Le carenze di personale sono l’altra criticità parallela a quella dei drammi dei detenuti: “Sono necessari più agenti, più educatori, più psichiatri, psicologi e sociologi, fondamentali per il percorso di rieducazione dei detenuti”, ha evidenziato Ciambriello. A causa della pandemia, nell’ultimo anno, sono state drasticamente ridotte, se non addirittura interrotte, le attività dedicate al recupero dei detenuti. I volontari, per esempio, sono passati da 1.150 nel 2019 a 674 nel 2020 ed è grave “l’assenza, in tutti istituti, di mediatori culturali e linguistici per migliaia di detenuti extracomunitari”. Si parla di una popolazione carceraria che in Campania è composta da 6.570 detenuti, 149 dei quali in semilibertà e 2.349 ancora in attesa di giudizio. Gli ingressi in carcere sono stati ridotti, rispetto al 2019, solo di 1.132 reclusi. Venezia. Detenute e agenti con la febbre. Osapp: “Sono stati ignorati i protocolli previsti” Il Gazzettino, 15 marzo 2021 C’è preoccupazione nel carcere femminile della Giudecca per i numerosi casi di positività al Covid riscontrati in 17 agenti di polizia penitenziaria e 2 detenute. A sollevare il caso è il segretario provinciale dell’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp, Carmine Napolitano, il quale ha scritto alla direttrice, Immacolata Mannarella e al Provveditore regionale, Maria Milani, lamentando la mancata attivazione dei protocolli previsti: nonostante alcune delle agenti presenti forti stati febbrili, nessuna di loro sarebbe stata sottoposta a tampone né a visita medica. “Ancora più grave il fatto che non sia stato emesso alcun provvedimento formale riguardo lo stato di quarantena, anzi, pare sia stato riferito alle interessate che dovranno arrangiarsi con mezzi propri, in pratica abbandonate al proprio destino”. Le agenti in quarantena sarebbero state obbligate, tra l’altro, ad usufruire del congedo ordinario. “Cosa che riteniamo assolutamente incomprensibile”, prosegue Napolitano, il quale lamenta infine che il comandante di reparto avrebbe intimato alle poliziotte (residenti in altre regioni e accasermate all’interno del carcere) di nominare un medico di base temporaneo a Venezia, avvisandole di possibili conseguenze disciplinari: “Mi auguro si tratti solo di un equivoco - scrive il segretario Osapp. Non vi è alcuna norma che obblighi la scelta del medico di base in relazione a dove si lavora”. All’interno del carcere femminile della Giudecca sono otto i tamponi finora risultati positivi: 17 agenti e 2 detenute. Sono state avviate le procedure di vaccinazione, iniziando dalle detenute. Anche nel carcere maschile di Santa Maria Maggiore è iniziato l’iter per vaccinare tutto il personale e i detenuti in modo da garantire la massima sicurezza. Brescia. “Canton Mombello non ce la fa più, serve un nuovo carcere” quibrescia.it, 15 marzo 2021 Lettera aperta alle autorità nazionali e locali del sindacato della Polizia Penitenziaria che sottolinea i limiti della struttura carceraria. “È anche una battaglia di civiltà”. Dopo che quello di Brescia è stato definito il secondo carcere peggiore d’Italia, il coordinatore regionale del sindacato di Polizia Penitenziaria della Funzione Pubblica Cgil, Calogero Lo Presti, ha indirizzato una lettera aperta alla ministra della Giustizia, al Prefetto e al sindaco di Brescia, nonché ai vertici dell’Amministrazione penitenziaria, regionale e nazionale. “Il XVII Rapporto dell’Associazione Antigone, riportato dai mass media nazionali e locali, che si occupa dei diritti e delle garanzie nel sistema penale italiano”, scrive il sindacato, “ha evidenziato una situazione preoccupante in essere nel carcere bresciano di “Canton Mombello” definendolo il secondo peggiore d’Italia. Le condizioni detentive nella Casa Circondariale di Brescia, più volte denunciate da questa organizzazione sindacale, sono risapute sia dalla politica nazionale che locale e dall’Amministrazione Penitenziaria e sono comuni a tante altre realtà della nazione”. “Il problema del sovraffollamento detentivo, la vetustà della struttura risalente all’800, come la mancanza di spazi comuni idonei alla socialità”, si legge nel documento, “costituiscono, a nostro avviso, una pena supplementare nei confronti delle persone che si trovano nello stato di privazione della libertà. I limiti della struttura carceraria non permettono di organizzare attività ricreative, di studio e lavoro maggiori di quelle in essere, tutti elementi del trattamento che mirano e tendono alla rieducazione dei detenuti al fine del loro reinserimento nel tessuto sociale. Purtroppo le predette condizioni detentive si riverberano, anche, negativamente sul lavoro della Polizia Penitenziaria costretta ad assolvere al proprio mandato istituzionale gestendo situazioni di grave criticità come atti di autolesionismo, tentativi di auto soppressione oltre a gestire situazioni di altro stress derivate dalla convivenza forzata di persone provenienti da paesi diversi, con religione e culture diverse, oltre alla gestione e alla prevenzione dei contagi derivati dalla pandemia in atto”. “Quest’ultimo aspetto”, prosegue la nota, “è stato gestito egregiamente sia dalla direzione che dal personale di Polizia mettendo in campo ogni sforzo e sensibilità al fine di garantire a tutta la popolazione detenuta non solo i diritti spettanti ma anche telefonate supplementari, video colloqui con i propri familiari ma principalmente assicurare che il Covid non entrasse all’interno di quella comunità carceraria. A questo proposito accogliamo favorevolmente la notizia di un accordo tra l’Amministrazione Penitenziaria regionale e la Direzione Generale del Welfare della Regione Lombardia, nella persona del dott. Marco Salmoiraghi, che prevede nelle prossime settimane la vaccinazione della popolazione detenuta”. “Com’è noto la Casa circondariale di Brescia, nonostante i numeri preoccupanti derivati dal sovraffollamento, è rimasta avulsa dalle rivolte dello scorso anno scoppiate in diversi Istituti penitenziari d’Italia, questo grazie al grande e minuzioso lavoro della direzione che, unitamente alla Polizia Penitenziaria, ha saputo interloquire e rapportarsi con la popolazione detenuta al fine di prevenire particolari momenti di tensione che potessero scaturire in rivolte. La Fp Cgil da decenni sta portando avanti una battaglia di civiltà nel migliorare le condizioni detentive dei detenuti e di riflesso le condizioni lavorative della Polizia penitenziaria sensibilizzando i ministri della Giustizia, che si sono succeduti nelle varie legislature, ma anche i politici nazionali e locali affinché la questione carcere a Brescia sia definitivamente risolta con la costruzione di una nuova struttura penitenziaria”. “A metà del 2019 sembrava che il progetto, con lo stanziamento di quasi 17 milioni di euro da parte del ministero delle Infrastrutture, stesse per avere esecutività, invece si è arenato unitamente ai sogni della popolazione detenuta ma anche della Polizia penitenziaria e del Comparto Funzioni Centrali ma anche di tutti quei “attori” che a qualsiasi titolo orbitano attorno al mondo carcerario bresciano. Un nuovo carcere a Brescia, ad avviso della Cgil, significherebbe una detenzione più umana e risocializzante restituendo alla società persone reinserite nel tessuto sociale abbassando la percentuale della recidiva garantendo, quindi, una maggiore sicurezza per i cittadini”. “Egregio sig. ministro”, conclude la lettera, “riteniamo che le condizioni detentive all’interno di tutte le carceri italiane meritino un focus particolare per ciò che riguarda la depenalizzazione dei reati minori, un maggior ricorso alle misure alternative alla detenzione, un maggior stanziamento di fondi economici per manutenzione ordinaria e straordinaria delle strutture. Riteniamo che sia necessaria, a questo punto, una sostanziale riforma della giustizia quindi del sistema penale del nostro Ordinamento Giuridico, come riteniamo, ormai, improcrastinabile ulteriormente la realizzazione del nuovo carcere nella città di Brescia. In ultimo, chiediamo alle Autorità in indirizzo, ognuno per la propria competenza, di profondere ogni sforzo ed iniziativa affinché il progetto per la realizzazione del carcere a Brescia trovi attuazione ed esecutività senza ulteriore indugio”. Mantova. Sul carcere mai finito a Revere qualche interesse subito svanito di Giorgio Pinotti Gazzetta di Mantova, 15 marzo 2021 Il vicesindaco Faioni: “Un ordine francescano voleva farne una casa per l’accoglienza di donne maltrattate. Una persona che voleva realizzare un centro addestramento per cani da ricerca su macerie. Ma nulla si è realizzato”. Il carcere di Revere resta abbandonato, diverse le proposte per riutilizzarlo, ma i problemi e i costi per un ripristino bloccano ogni iniziativa. Il destino del penitenziario, diventato ex senza essere mai stato aperto, sembra segnato. Negli anni sono stati diversi i momenti in cui i riflettori si sono accesi sulla struttura, costata 5 miliardi delle vecchie lire, che è andata a ingrossare le fila delle cattedrali nel deserto realizzate con soldi pubblici, tanti, e mai utilizzate. Ma la struttura resta in stato di abbandono e le sue condizioni continuano a peggiorare. “Ci sono state richieste di utilizzo - racconta il vicesindaco di Borgo Mantovano Sergio Faioni - ma nulla è mai andato in porto, di fronte a quelli che sarebbero i problemi da affrontare per rendere utilizzabile il complesso. Un ordine francescano voleva farne una casa per l’accoglienza di donne maltrattate. Prima ancora si era interessata una coop per insediare una residenza sanitaria assistenziale, poi una parafarmacia. Era interessata anche una persona che voleva realizzare un centro addestramento per cani da ricerca su macerie”. Tutte iniziative che si sono scontrate con un muro. In questo caso non solo metaforico: è il muro di cinta del carcere in cemento armato, un’opera la cui demolizione, secondo una stima fatta da esperti, costerebbe tanto quanto era costata la realizzazione del complesso. Un ostacolo notevole, e non è l’unico. Infatti l’edificio è ormai compromesso dal lungo abbandono e manca un accesso alla strada. Collegare il sito alla statale 12 appare complicato, entrerebbe in gioco Anas, e da queste parti sanno che così i tempi si allungano e le cose si complicano. L’esempio è a pochi chilometri di distanza, con ponte Marino, da 4 anni a senso unico alternato. Il carcere di Revere fu iniziato nel 1988, doveva ospitare detenuti per reati non gravi, poi per lo più depenalizzati. Dopo ripetute interruzioni i lavori si sono fermati definitivamente nel 2000. Nel 2011 il ministero della Giustizia ha ceduto la struttura all’allora Comune di Revere, ora Borgo Mantovano. “Siamo pronti a cederlo in comodato d’uso gratuito a chi lo volesse - dice Faioni - il problema e che nessuna proposta regge di fronte ai problemi che si presentano”. Bari. Giustizia: tre palazzi... e una tendopoli di Carmela Formicola Gazzetta del Mezzogiorno, 15 marzo 2021 Vent’anni di tormentata storia dei tribunali pericolanti. Primo lotto alle ex Casermette? Pronto non prima del 2028. Dobbiamo affondare le mani nella memoria e tornare almeno al 1998. Ecco, da qui possiamo ripartire per riscrivere la tormentata storia dell’edilizia giudiziaria barese. Nel 1998 il vecchio palazzo di giustizia di piazza De Nicola nel popolare quartiere Libertà è pronto ad implodere: si decide di trasferire altrove almeno il polo penale. Dopo un paio di anni il trasferimento si completa all’interno di un immobile di proprietà Inail in via Nazariantz, all’ingresso della città. Edificio che si dimostra da subito inadeguato perché non pensato per accogliere le attività giudiziarie. Si decide di dar vita ex novo a una Cittadella della Giustizia. L’ipotesi è l’edificazione di un secondo palazzo di giustizia nello stesso quartiere Libertà, per la precisione in corso della Carboneria. Il Comune di Bari paga regolarmente il progetto ma l’iter si blocca (per qualcuno “inspiegabilmente”) nel 2001. Nel 2003 l’allora sindaco Simeone Di Cagno Abbrescia bandisce una ricerca di mercato e l’impresa Pizzarotti di Parma si impone con il suo progetto di Cittadella della Giustizia da realizzare in project financing nell’area dello stadio San Nicola. Certo, quelli sono suoli agricoli ma il Comune di Bari è pronto ad approvare una variante al Prg. Nel 2004 l’immobile di via Nazariantz viene sottoposto a sequestro dalla stessa Procura con facoltà d’uso (per evitare la paralisi della funzione giudiziaria). Dal 2004, con l’elezione a sindaco di Michele Emiliano, si blocca l’iter Pizzarotti: per un’opera del genere non basta una ricerca di mercato che viceversa viola le norme sui pubblici appalti. Torniamo in via Nazariantz: la situazione precipita anno dopo anno: infiltrazioni d’acqua, stanze inagibili, invasione di topi, bagni rotti, ascensori bloccati. Nel 2016 vengono fatte le prime opere urgenti. Il 24 maggio 2018 viene revocata l’agibilità dell’immobile ritenuto dai periti “a rischio crollo”. Le udienze vengono sospese, si rende necessario il trasloco. A giugno la Protezione Civile allestisce una tendopoli sul piazzale di via Nazariantz. Torna dunque prepotente l’ipotesi di una sede unica degli uffici giudiziari. Il sindaco Antonio Decaro ricorda che fin dal 2014 l’amministrazione intende realizzare un nuovo Polo giudiziario nell’area delle ex Casermette nel quartiere Carrassi. Nel frattempo si cerca una sede provvisoria dove spostare il polo penale la cui attività viene smembrata in varie sedi fino all’individuazione della ex Torre Telecom di via Dioguardi, nel rione Poggiofranco. Il trasferimento si compie nel settembre 2019. Nel luglio 2019, invece con i fondi a disposizione (97 milioni di euro) Decaro firma a Roma un protocollo per avviare i lavori nell’area delle ex Casermette. In via Dioguardi, invece, appare subito evidente l’inadeguatezza degli ambienti, troppo piccoli per ospitare il popolo quotidiano di magistrati, avvocati, personale amministrativo, forze di polizia, cittadini. Dal marzo 2020, l’emergenza sanitaria aggrava perfino la situazione. Non a caso Decaro alla fine del 2020 torna a scrivere alle più alte cariche dello Stato per sollecitare l’avvio delle procedure per il Parco della Giustizia alle ex Casermette. Nei giorni scorsi, in sede di Commissione Manutenzione, viene infine illustrato il cronoprogramma per la realizzazione del Parco: il primo lotto sarà pronto nel 2028. La doccia fredda è datata 9 marzo quando, in sede di Commissione manutenzione, si scoprono i tempi del crono-progamma per la realizzazione del Parco della Giustizia di Bari nell’area delle ex Casermette. Data di consegna del primo lotto: anno 2028. Tutti saltano sulla sedia. L’Associazione nazionale magistrati invoca subito “l’immediata convocazione di un tavolo urgente di confronto, discussione e programmazione dei futuri interventi, al quale possano partecipare i rappresentanti dell’avvocatura, della magistratura associata, degli enti territoriali e del Ministero insieme ai sottosegretari alla Giustizia e ai capi degli uffici giudiziari baresi”. Al momento, tuttavia, del “tavolo urgente” non c’è alcuna traccia. Anche gli avvocati hanno fatto sentire la propria voce allarmata. Il presidente dell’Ordine forense Giovanni Stefanì: “Perché rassegnarsi alla burocrazia e alle lungaggini quando in Italia abbiamo esempi di procedure straordinarie in grado di risolvere emergenze gravi come il ponte di Genova e come effettivamente è, oggi, l’edilizia giudiziaria barese? In quel caso lo Stato è riuscito a dare risposta a una situazione di sofferenza di quella comunità che, in due anni, si è vista restituire una grande opera infrastrutturale fondamentale, molto più complessa e difficile per la sua progettazione e realizzazione rispetto a una cittadella giudiziaria”. Genova sì, Bari no? Qualcuno al Governo sta ignorando volutamente il disastro barese dell’edilizia giudiziaria, o non si è compresa la gravità nella sua pienezza. Eppure basterebbe rileggere le parole del presidente della Corte d’Appello di Bari Franco Cassano che, inaugurando l’anno giudiziario il 30 gennaio scorso, ha detto tra l’altro: “il palazzo di via Dioguardi s’è rivelato angusto, al punto che è impossibile svolgere l’ordinaria attività, nel rispetto delle regole sul distanziamento sociale. Non ci sono luoghi dove celebrare i processi con molti imputati. Il palazzo di p.zza De Nicola è vecchio di 60 anni ed interessato da più cantieri. I lavori di rifacimento della facciata sono fermi dal 2017, quelli di rifacimento del piazzale antistante procedono stancamente. L’impianto di riscaldamento di un’intera ala del palazzo non funziona. I lavori di esecuzione dell’impianto antincendio, che interesseranno tutti gli ambienti del palazzo, non sono neppure ipotizzabili, se prima non si chiudono gli altri tre cantieri. Non ci si può illudere di proseguire così”. La richiesta del presidente Cassano: “Procedure semplificate per accelerare la realizzazione del Parco della Giustizia, un Commissario straordinario per attuarle”. Covid. I Paesi poveri non cedono: “Vaccini da condividere, i brevetti siano liberi” di Lucia Capuzzi Avvenire, 15 marzo 2021 Sotto accusa Big Pharma che ha ottenuto alla Wto il “no” dei Grandi: restano i diritti sui farmaci. Fra tre mesi però si riparte. Il sud del mondo boccia l’idea delle licenze. La battaglia non è finita: il consiglio dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) si riunirà l’8 giugno. E di nuovo troverà sul tavolo la proposta di India e Sudafrica di sospendere i brevetti su cure e vaccini fino alla sconfitta del Covid. È lo stesso trattato di Marrekech - con cui è stata istituita la Wto - a consentire deroghe al cosiddetto accordo Trips sulla proprietà intellettuale. In circostanze di “particolare gravità”. Come quelle attuali. “Se non ora, quando?”, ha scritto su The Guardian il segretario dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus, in vista dell’ultimo summit di Ginevra, mercoledì scorso. Il suo appello, però, s’è infranto contro lo sbarramento preventivo dei Paesi del Nord del mondo, patria delle grandi case farmaceutiche: Usa, Ue e Giappone in testa. La bozza, sulla base dell’istanza di Pretoria e New Delhi, non è nemmeno stata scritta, nonostante fosse sostenuta da oltre cento nazioni del Sud del pianeta. E, così, la discussione è naufragata. Con grande soddisfazione di Big Pharma per cui il vaccino anti-Covid rappresenta un affare da 40 miliardi solo per il 2021. “Congelare i brevetti minerebbe la capacità di risposta globale di fronte alla pandemia”, ha scritto la potente Pharmaceutical research and manifactures of America (Phrma) al presidente Usa, Joe Biden, il 5 marzo. Proprio l’emergenza sanitaria dà alle lobby del farmaco un potere contrattuale elevato: sono loro ad avere in mano l’arma decisiva contro il coronavirus. Anche se per “fabbricarla” hanno avuto ingenti fondi pubblici: 93 miliardi, secondo la Fondazione Kenup. La mancata condivisione si configura come un serio ostacolo alla diffusione dei farmaci anti-Covid. Con il rischio, in primo luogo, di creare un’apartheid vaccinale tra il “Club dei Grandi” - dieci Stati ricchi si sono accaparrati il 76 per cento delle scorte - e la metà povera del pianeta. A febbraio, secondo l’Oms, 130 nazioni non avevano ricevuto una sola dose. Da allora, Covax, l’alleanza solidale per l’accesso universale al vaccino, ne ha raggiunte 38 (per quanto alcune in modo simbolico). Una novantina ne restano totalmente prive. Difficilmente, in queste condizioni, il mondo potrà raggiungere quell’immunità di popolazione globale indispensabile per eliminare il virus. Mai come in tempi di pandemia, siamo tutti su una stessa barca, come ha più volte ribadito papa Francesco. Per questo, Caritas Internationalis e il dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale del Vaticano hanno chiesto una riunione al Consiglio di sicurezza Onu sulla questione. Mentre il 23 febbraio, l’arcivescovo Ivan Jurkovic, osservatore permanente della Santa Sede alla Wto, si è pronunciato sospensione dei brevetti. La concentrazione produttiva, inoltre, pregiudica anche molti Paesi del Nord, Italia inclusa, che fanno fatica a trovare le dosi necessarie. L’Ue, però, insiste. “I problemi produttivi non si risolvono sospendendo i brevetti”, ha detto la portavoce della Commissione per il commercio, Miriam García Ferrer. In seno al fronte del Nord, invece, prende corpo l’ipotesi di una “terza via”, sostenuta dalla stessa direttrice nigeriana della Wto, Ngozi Okonjo Iweala. Sono le “licenze volontarie”: la possibilità per le aziende titolari di trasferite il brevetto ad altre imprese locali - sulla base di accordi - le conoscenze necessarie alla produzione. “La nostra esperienza ci insegna che non funziona. Il potere decisionale resta in mano ai titolari. Sono loro a scegliere a chi, come, quando, in cambio di quanto”, spiega Silvia Mancini, di Medici senza frontiere, in prima linea per la sospensione. “I governi dei Paesi più ricchi del pianeta si sono assunti una grave responsabilità, che provocherà purtroppo moltissimi altri lutti”, ha detto Vittorio Agnoletto di Diritto alla cura, la campagna europea a cui aderiscono 74 organizzazioni e che ha già raccolto 100mila firme per il congelamento delle licenze. Una maratona di sottoscrizioni sarà proposta il 7 aprile, Giornata mondiale per il diritto alla salute. La strada è lunga e in salita. “Ma la società civile - conclude l’esperta di sanità Nicoletta Dentico - non si arrende”. Gran Bretagna. Se chi difende Sarah finisce n manette di Elena Stancanelli La Stampa, 15 marzo 2021 Ci stiamo facendo prendere la mano dall’idea di emergenza? Se sì, facciamo attenzione. Perché manifestare è un diritto. E manifestare in maniera pacifica non può essere messo in discussione da nessuna condizione. La veglia per la morte di Sarah Everard, dalle immagini che abbiamo, era una manifestazione pacifica. Il video del poliziotto che ammanetta la giovane donna, inerte e silenziosa, non ha nessuna spiegazione plausibile se non l’abuso di potere. Insieme alla totale e intollerabile mancanza di coscienza di quello che stava accadendo, del dolore e dell’opportunità, della necessità, di sottolinearlo, di gridarlo, di portarlo in piazza. Che risulta ancora più detestabile dal momento che, almeno per adesso, la persona accusata del delitto è un poliziotto. Sarah Everard tornava a casa di sera, camminando in una zona tranquilla, ed è stata uccisa. Molte persone sono andate a testimoniare la loro solidarietà per un crimine spaventoso e ci saremmo aspettati la stessa solidarietà, un composto e solidale rispetto da parte dei poliziotti incaricati di essere presenti a quella manifestazione. Sarebbe stato un bel gesto, di più, un gesto dovuto, che le forze dell’ordine si fossero messe dalla stessa parte di chi manifestava. E invece si sono fatti notare per un atto di forza sproporzionato e inutile. Siamo tutti quanti chiamati, da più di un anno, a reagire con razionalità a un tempo irrazionale e violento. Che ci costringe a comportamenti innaturali, a uscire dal nostro egoismo e vincolare la nostra libertà a quella del nostro prossimo. Ci siamo dovuto prendere cura della salute dei più deboli, diminuendo i nostri spazi, chiudendoci in casa. È uno sforzo che stiamo facendo tutti, più o meno facilmente. Le immagini che abbiamo visto ieri ci fanno infuriare, più di quanto accadrebbe in una condizione normale. Le donne, lo abbiamo detto molte volte, hanno patito più degli uomini gli effetti della pandemia. Hanno perso il lavoro in percentuale quasi doppia rispetto ai colleghi maschi e subìto un incremento della violenza domestica e familiare. Il numero delle donne uccise dagli uomini cresce, e il caso di Sarah Everard è un esempio. Dovremmo tutti quanti, uomini e donne, manifestare contro questa situazione. Dovremmo sapere, essere certi, che se manifestiamo i poliziotti sono dalla nostra parte. È molto pericoloso che in una condizione come questa, in cui le democrazie sono stressate economicamente e psicologicamente da un evento tanto eccezionale, si crei una spaccatura, una mancanza di fiducia tra i cittadini e chi lavora per garantire la loro sicurezza. Di fronte a un delitto come quello di Londra dovremmo rabbrividire, vergognarci per aver creato società nelle quali una donna non può tornare a casa da sola, camminare al buio senza rischiare di essere aggredita. E la polizia ha un compito preciso: garantire che la nostra legittima rabbia abbia lo spazio che le serve per essere espressa. Perché il pericolo non è manifestarla, ma nasconderla, e trasformarla in rancore. Siria. Una generazione ormai perduta dentro la guerra di Luca Geronico Avvenire, 15 marzo 2021 Che fine hanno fatto i tanti Omran fotografati sulle ambulanze, tra le macerie, nelle pozzanghere? E le madri in lacrime che lasciano Aleppo? Sono anche queste le vittime non conteggiate. Omran Daqneesh oggi dovrebbe avere dieci anni, o poco più. Nessuno sa più, esattamente, dove sia finito il piccolo di 5 anni che il 17 agosto 2016 venne immortalato da uno scatto su una ambulanza ad Aleppo, lo sguardo vitreo, immobile, incapace di spendere altre lacrime dopo aver visto, sotto il boato di una bomba, morire la sua famiglia. Pochi, 5 anni dopo l’assedio di Aleppo, ricordano chi abbia compiuti il raid aereo, e chi sia stato colpito sotto le bombe. Poco importa. Lo sguardo innocente, e paralizzato dal terrore di Omran non domanda questo. Nemmeno le lacrime e la rabbia di quei padri in corsa fra le macerie di Aleppo, come della Gouta e di Idlib, come sull’altro fronte - a Damasco e a Latakia - non ci domandano questo. Come le lacrime di madri che, abbandonando Aleppo, Damasco o Latakia o Homs, in questi dieci anni si sono trovate a concepire in grembo, a generare per il loro popolo, il dolore inesprimibile e lacerante della nostalgia. Omran e i suoi fratelli, Omran e le sue sorelle, Omran e i suoi padri, Omran e le sue madri - prima ancora di una verità su questo conflitto, prima ancora di una soluzione politica a questa carneficina consumata nel silenzio, allo scempio dei diritti umani nei campi profughi, nelle vendette delle milizie, nelle carceri del regime, negli assedi medievali con la popolazione taglieggiata da mafiosi signori della guerra capaci di chiedere e aprire a comando acquedotti e check point - Omran e i suoi fratelli ci chiedono di avere il coraggio di incrociare il loro sguardo. È il dolore di una, forse ormai due generazioni, che si sono perdute, come inghiottite nella “foiba granda” di questa guerra civile siriana. Un dolore che reclama di essere ascoltato, di avere almeno la giustizia della memoria. Un dolore innocente che - al di là e al di sopra di ogni convinzione politica o religiosa di chi lo ascolta - chiede di essere curato come una ferita profonda dell’umanità. Nessuno sa se Omran ha ritrovato luce in quello sguardo, e se un sorriso possa celare il dolore di quella notte di bombe e sangue sulla sua vita, sulla sua generazione, sulla Siria. Ed è questo non sapere che inchioda la comunità internazionale e la Chiesa della Fratelli tutti, alle sue responsabilità. E troppo poco sperare che in un campo profughi sia giunto un pacco alimentare, o in un prefabbricato qualcuno insegni a leggere e scrivere a Omran e ai suoi fratelli. È troppo poco dover sperare che qualcuno, la sera, si prenda cura di questi figli della guerra con un piatto di minestra calda in un Paese dove la disoccupazione è al 40%, una medicina è un lusso, una laurea carta straccia. Omran e i suoi fratelli, dopo 10 anni di guerra civile, ci chiedono un futuro possibile. Algeria. Il movimento Hirak resta in piazza: “Smantelliamo lo Stato” di Stefano Mauro Il Manifesto, 15 marzo 2021 Respinta la mossa conciliante del presidente Tebboune in vista del voto di giugno. Violenze e nedia intimiditi al corteo della capitale. E tornano gli arresti. Migliaia di algerini hanno sfilato ad Algeri per il terzo venerdì consecutivo (dall’inizio delle proteste nel 2019 il 108°) dalla grande manifestazione del 22 febbraio, in occasione del secondo anniversario dall’inizio del movimento di protesta Hirak, che portò alla caduta dell’ex presidente Abdelaziz Bouteflika. Nonostante il divieto di raduni imposto dal governo per contrastare la pandemia, in diverse grandi città del paese come Orano, Bejaia, Tizi Ouzou, Bouira e Annaba sono partiti cortei per chiedere “uno stato civile e non militare” e una “nuova Algeria democratica”, principali richieste e slogan dell’Hirak. Un chiaro messaggio di risposta all’annuncio di questo giovedì del presidente Abdelmajid Tebboune che, dopo aver sciolto il Parlamento lo scorso 21 febbraio, ha fissato le elezioni legislative per il prossimo 12 giugno, auspicando una “forte partecipazione popolare” per poter portare in parlamento “il vento di cambiamento dell’Hirak, attraverso la sua gioventù, il suo attivismo e la sua protesta pacifica”. Un gesto di pacificazione e un tentativo di riprendere il controllo della ripresa del movimento di protesta che, nonostante la grazia per oltre una sessantina tra attivisti e giornalisti, non ha di fatto ottenuto i risultati previsti. Migliaia di manifestanti continuano a chiedere lo “smantellamento del sistema politico”, sinonimo ai loro occhi di corruzione e autoritarismo. “Non abbiamo votato il 12 dicembre alle presidenziali) e non voteremo finché questo potere resta in carica e le persone sono vittime di ingiustizie e arresti”, dicevano i partecipanti al corteo di venerdì, denunciando il ritorno in prima linea di partiti come il Fronte di liberazione nazionale (Fln) o il Raggruppamento nazionale democratico (Rnd), in crisi per aver sostenuto in questi anni il regime di Bouteflika. Secondo quanto riporta il Comitato nazionale per la liberazione dei detenuti (Cnld), la manifestazione di venerdì ad Algeri è stata contrassegnata da violenze nei confronti dei numerosi giornalisti da parte di “imprecisati teppisti”, forse infiltrati delle forze di sicurezza “per reprimere una corretta informazione delle proteste senza censura”. “Sono stati effettuati centinaia di arresti tra i manifestanti a Tizi-Ouzou, Khenchela, Oued Souf, Tlemcen, M’sila, Tiaret e Amara dove un bambino di 7anni è stato fermato insieme al padre dalle forze di polizia - continua il comunicato del Cnld - anche se poi la maggioranza dei fermati è stata rilasciata”. Turchia. 13 donne indagate per aver gridato slogan l’8 marzo di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 15 marzo 2021 “Chi non salta è Tayyip”, “Corri Erdogan, corri, stanno arrivando le donne”. Per aver urlato questi banalissimi slogan alla marcia femminista di Istanbul lo scorso 8 marzo, tredici donne sono state arrestate e messe sotto inchiesta con l’accusa di aver insultato il presidente della repubblica turca, un crimine che nel Paese della mezzaluna viene punito con il carcere fino a 4 anni. Tra loro c’è anche una minorenne. A dare la notizia è Human Rights Watch che invita la Turchia a rispettare la libertà di espressione. “Aprire un’indagine criminale contro delle attiviste del movimento delle donne per aver gridato slogan non violenti dimostra il profondo disprezzo delle autorità turche per il diritto di riunione e di parola - ha detto Hillary Margolis, ricercatrice di Human Rights Watch. Invece di proteggere i diritti delle cittadine, le autorità turche prendono di mira quelle che sono scese in piazza per celebrare le donne e promuovere l’uguaglianza”. La giornalista Burcu Karaka? ha postato su Twitter un documento della polizia in cui erano elencate alcune delle domande che erano state poste alle attiviste durante l’interrogatorio. All’inizio di marzo Erdogan aveva annunciato “un piano d’azione per i diritti umani” della Turchia. “Continueremo a sostenere i cittadini contro tutti i tipi di minacce alla dignità, al credo, ai valori e alla vita delle persone” aveva detto. Egitto. Zaky in carcere da 400 giorni. Letta: “Patrick cittadino italiano ed europeo” La Repubblica, 15 marzo 2021 L’attivista egiziano dell’università di Bologna è in cella al Cairo. Gli attivisti lo ricordano su Facebook e ne chiedono il rilascio. Di lui si è parlato anche all’assemblea del Pd. “Oggi, 14 marzo 2021, segna il 400esimo giorno di detenzione per Patrick Zaky, arrestato dopo il suo arrivo all’aeroporto internazionale del Cairo il 7 febbraio 2020. In questa occasione vorremmo sottolineare una cosa: Questo è il prezzo che Patrick paga per essere un difensore dei diritti umani”. Lo scrivono su Facebook gli attivisti della pagina ‘Patrick Libero’ che chiedono il rilascio dello studente egiziano dell’Università di Bologna. “Per 400 giorni abbiamo ripetuto sempre la stessa cosa: Patrick è stato punito per aver dato voce ai suoi pensieri e per essersi battuto per i diritti delle minoranze religiose e di genere in Egitto - proseguono gli attivisti - Il primo giorno Patrick è stato sottoposto a torture fisiche, ma da 399 giorni è sottoposto a torture mentali, ogni singolo giorno”. “È bloccato in una cella, lontano dai suoi cari, non può finire i suoi studi mentre le sue compagne e compagni di corso si stanno laureando, e soprattutto non ha idea di quanto durerà questa situazione. Patrick merita di essere libero, è un suo diritto, e noi non smetteremo di chiedere il suo rilascio!”, concludono. “Noi vogliamo che Patrick Zaky diventi cittadino italiano ed europeo. È una battaglia che il Pd farà. Perché è importante. Riteniamo che questo sia un segnale importante a un Paese, l’Egitto che ha violato insopportabilmente i diritti e ha portato alla morte una persona alla quale vogliamo bene, Giulio Regeni. Noi su questo faremo una battaglia e la faremo fino in fondo”. Sono le parole di Enrico Letta, parlando all’assemblea del Pd. Stati Uniti. Morte George Floyd: risarcimento da 27 milioni di dollari alla famiglia di Viviana Mazza Corriere della Sera, 15 marzo 2021 L’accordo raggiunto tra la Città di Minneapolis (dove avvenne il fatto) e i legali della vittima. Al via anche il processo contro l’agente Derek Chauvin, che uccise l’afroamericano tenendogli un ginocchio premuto sul collo. La città di Minneapolis pagherà 27 milioni di dollari di danni e interessi alla famiglia di George Floyd, il 46enne afroamericano morto lo scorso maggio sotto il ginocchio di un poliziotto bianco, che glielo aveva pressato sul collo per 8 minuti e 46 secondi. Le sue ultime parole - I can’t breathe, “Non riesco a respirare” - sono diventate lo slogan delle manifestazioni di Black Lives Matter, alle quali la scorsa estate hanno partecipato un numero enorme - tra i 15 e i 26 milioni - di americani di ogni etnia e colore. Il Consiglio comunale di Minneapolis ha approvato ieri all’unanimità il patteggiamento nella causa civile intentata dalla famiglia contro la città e i quattro poliziotti coinvolti. Il risarcimento, che include 500mila dollari per la comunità in cui Floyd fu ucciso mentre veniva arrestato col sospetto che avesse usato una banconota falsa da 20 dollari, è il più alto mai pagato dalla città. Il precedente: 20 milioni di dollari nel 2019 alla famiglia di Justine Damond, una donna bianca uccisa dal poliziotto Mohamed Noor. Il processo al via - La decisione di Minneapolis è arrivata prima dell’inizio del processo penale che vede l’ex poliziotto Derek Chauvin imputato di tre reati legati all’accusa di omicidio, per cui rischia fino a 40 anni di carcere. Il risarcimento potrebbe avere implicazioni per il processo: l’avvocato difensore di Chauvin aveva cercato di bloccare ogni menzione, per evitare che influenzasse la giuria, che potrebbe leggerlo come una ammissione di responsabilità e colpa. La selezione della giuria è iniziata lunedì scorso: al momento i giurati scelti sono sei, secondo indiscrezioni (cinque uomini e una donna, tre dei quali bianchi). Ora alcuni esperti legali, citati dal Washington Post, credono che l’annuncio dei 27 milioni alla famiglia di Floyd sia “un potenziale disastro” per Chauvin, e osservano che la difesa potrebbe tentare di chiedere l’annullamento del processo, il cui inizio è previsto per il 29 marzo. La presidente del Consiglio comunale Lisa Bender ha offerto le sue condoglianze: “Nessuna somma di denaro potrà mai compensare l’intensità del dolore o il trauma provocato da questa morte per la famiglia di George Floyd e gli abitanti di questa città. Minneapolis è stata profondamente cambiata dalle questioni razziali e il nostro intero Consiglio comunale vuole lavorare insieme alla comunità e alla famiglia per rendere Minneapolis una città più equa”. Processo e manifestazioni - In seguito all’uccisione di Floyd, oltre a diffuse manifestazioni pacifiche, ci furono anche episodi notturni di guerriglia urbana in diverse città americane. A Minneapolis vennero danneggiati 1.500 edifici, il Terzo distretto di polizia fu dato alle fiamme. Ora in vista del processo il centro della città, intorno agli edifici giudiziari, è stato blindato dal sindaco democratico Jacob Frey, che la scorsa estate fu criticato da Donald Trump per non aver preso misure più severe. Frey ha chiesto l’aiuto di agenti di altre zone del Minnesota e della Guardia Nazionale, anche perché dopo la morte di Floyd ha perso un quarto dell’organico tra dimissioni e pensionamenti.