Lettera alla Ministra della Giustizia, Marta Cartabia di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 14 marzo 2021 Gentile Ministra della Giustizia, le scrivo in qualità di presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti, una rivista realizzata da una redazione di persone detenute e volontari in carcere. Sottolineo questi due ruoli differenti, perché a mio parere rappresentano due aspetti determinanti della questione CARCERE in questo momento: da una parte, la necessità di rafforzare e dare autonomia al Volontariato e al Terzo Settore, che contribuiscono a ricucire e a mantener vivo il legame tra carcere e comunità esterna, brutalmente reciso dal carcere; dall’altra, il tema dell’informazione, che rischia di scavare un solco sempre più profondo tra “i buoni e i cattivi”, fino a creare la categoria dei sicuramente irrecuperabili, come è successo in questi tempi di pandemia, in cui abbiamo letto sui giornali di persone detenute gravemente malate, inchiodate alla loro condizione di “mafiosi per sempre”. Lei è senz’altro consapevole delle speranze che sono nate nella stragrande maggioranza delle persone detenute, quando è stata annunciata la sua nomina a Ministra della Giustizia: in tanti avevano ancora negli occhi il ricordo del Viaggio della Corte Costituzionale nelle carceri, le sue parole a San Vittore, ma poi anche la sentenza della Corte sull’ergastolo ostativo, che pure ha aperto le porte alla speranza anche per quelli, per i quali forse solo Papa Francesco aveva invocato il diritto a essere trattati come persone e a ricominciare a sperare. Tradurre queste speranze in concrete opportunità non sarà facile, perché la condizione delle carceri è davvero, come dire?, frantumata, e la pandemia ha spietatamente messo in luce una realtà che, se si tengono fuori dai cancelli il Volontariato e il Terzo Settore, si trasforma rapidamente in un deserto. Ma questo ci dovrebbe rendere tutti consapevoli della necessità, espressa in modo chiaro dal Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, che la fondamentale cooperazione tra chi amministra e istituzionalmente opera in un Istituto e chi in esso svolge attività volte a saldare proficuamente il rapporto con la realtà esterna, si basi “da una parte, sul rispetto della responsabilità di chi esercita la propria azione in virtù di un mandato pubblico e, dall’altra, sul riconoscimento di quella complementarità essenziale che l’azione di organizzazioni, cooperative, enti esterni costituisce. Non un apporto subalterno, quest’ultimo, né di minore rilevanza”. Gentile Ministra, le rivolte e i morti di marzo 2020 ci ricordano che è urgente avviare dei cambiamenti significativi e farlo tempestivamente. Se a inizio lockdown fossero state messe in atto le misure per ampliare il numero delle telefonate e introdurre le videochiamate, forse la paura e la rabbia sarebbero state più contenute, ma quello che non si può più cambiare ci deve però insegnare per il futuro, e il primo insegnamento è che, quando finirà l’emergenza, non vengano tagliate le uniche cose buone che la pandemia ha portato, il rafforzamento di tutte le forme di contatto della persona detenuta con la famiglia e l’uso delle tecnologie per sviluppare più relazioni possibile tra il carcere e la comunità esterna. Per farle un esempio molto concreto, la mia redazione ha potuto intervistare dal carcere in videoconferenza Fiammetta Bosellino, occasioni come queste permettono davvero una crescita culturale di tutti i soggetti coinvolti. L’urgenza di non bruciare il buono che questa emergenza ha prodotto ci spinge a chiederLe di incontrare al più presto la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, che io rappresento, per aprire un dialogo con quel Volontariato, che può portare un enorme bagaglio di esperienze e conoscenza della realtà dell’esecuzione delle pene, grazie al fatto che anima gran parte delle attività rieducative nelle carceri e di reinserimento sul territorio. Nella speranza che la nostra richiesta sia accolta, la ringrazio comunque dell’attenzione. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Lettera alla Ministra Cartabia di Enrico Sbriglia* partitoradicale.it, 14 marzo 2021 Sig.ra Ministra Cartabia, mi consenta, sommessamente, di porgerLe un consiglio: scompagini l’ordinaria ipocrisia che regna, indisturbata da oltre un trentennio, nella gestione del sistema penitenziario italiano e imponga una visone per davvero costituzionalmente orientata, valorizzando la possibilità concessaLe dal mandato governativo, per ricomporre un ragionevole contesto di regole che serva a migliorare le condizioni delle carceri, offrendo alla generalità delle persone detenute una reale e diffusa possibilità di riscatto che meriti di essere colta, anzitutto rendendo quel mondo più umano e già solo per questo più sicuro. Segua il Suo intuito femminile, la Sua intelligenza, la Sua sensibilità e, soprattutto, accerti sempre la veridicità delle versioni che Le provengono dagli apparati, in particolare quelli di vertice. Se poi Le permangono dei dubbi, si rivolga innanzitutto a chi operi in prima linea nelle carceri ed esiga che si riferisca con onestà, con lealtà, con chiarezza, con il cuore. Non si fidi delle carte, fatte per essere scritte, dove tutto sembra funzionare al meglio, al punto che ancora oggi, e talvolta anche dalle stesse istituzioni, ivi comprese quelle proprio della giustizia, vi sono quanti, riferendosi al nostro real estate delle carceri, affermano temerariamente che vi sono istituti finanche a quattro, forse oggi a cinque, stelle, perché, mi creda, non è così. Nella mia vita da operatore penitenziario, ora in quiescenza, ho visto moltissimi istituti e posso dirLe, certo di non poter essere smentito, che abbiamo delle realtà di cui dovremmo solo vergognarcene. Sono stato educatore, direttore, provveditore, operando in tante realtà territoriali, e mi sono sempre imposto di vederle senza filtri: delle carceri volevo percepirne gli odori ed i rumori, coglierne le mille architetture, gli spazi, scorgere i visi delle persone detenute e detenenti, percorrere i loro stessi corridoi, entrare nelle celle (oggi, eufemisticamente, per il potere simulatorio delle parole, indicate “stanze di pernottamento”), all’interno delle “Case”, circondariali e di reclusione. Beh, dopotutto, anche in Bolivia il termine di casa è utilizzato, in particolare nella città di Bonaventura, per indicare quelle de “pique”! Vedrà che, come da rito, Le ostenteranno le “eccellenze”: Bollate, i Due Palazzi, la Casa di Reclusione femminile di Venezia delle Giudecca e qualche altro istituto. Quanti ne saranno? dieci, venti…e gli altri, invece, cosa sono, di chi sono, non sono forse espressione della Repubblica Italiana? Ho visto, e non nel secolo scorso, carceri dove il personale ed i detenuti raccoglievano con i secchi l’acqua piovana che cadeva dai soffitti, ho visto istituti in cui le docce collettive erano ambienti tappezzati da muffe verdi e marroni, evocando location tropicali, e le piastrelle e le pareti erano come quelle delle case che subiscono gli attacchi dell’ISIS, ho visto celle dove il detenuto potrebbe perfino mescolare con il mestolo il pentolino, con manici rotondi, dove cucina il sugo, rimanendo tranquillamente seduto sulla tazza del gabinetto, tanto che gli spazi sono “ergonomici”, da economia “circolare”, ho visto carceri senza neanche uno spazio attrezzato e permanente per pregare un qualunque Dio, abramatico o meno, ho visto carceri senza acqua potabile se non solo tossica, ho visto muri di cinta transennati, con le garitte pericolanti, ho visto prigioni dove l’acqua, come nelle sorgive, sgorgava dai pavimenti, ho visto infermerie indicibili, ho visto salette dei colloqui privi di ogni riservatezza, ho visto detenuti con le labbra cucite, oppure in fin di vita per gli scioperi della fame protratti, ho visto detenuti appesi per sempre, ho visto uomini senza indumenti, se non quelli regalati dalla Caritas, ho visto anche degli agenti non farcela, ho visto operatori penitenziari piangere. No, il carcere che ho visto ed ho conosciuto non è quello delle cucine gourmet e delle sfilate di moda, non è quello del personale dei baschi azzurri impettiti nel giorno del 2 giugno, non è quello del red carpet nel corso delle visite ufficiali perfettamente preannunciate, ma è quello della precarietà e, me lo faccia dire, dell’ingiustizia profonda. Non è certamente quello della Costituzione. Lei potrà però dirmi: “ebbè, e Lei che cosa ha fatto per migliorarle? bello parlare adesso che è comodamente in pensione e che fortuna ha avuto, giusto prima che scoppiasse la grana del Covid”. Vero, però, e glielo dico con la massima consapevolezza, posso assicurarLa che ho sempre fatto il mio dovere, lasciando “prova”, traccia del mio operato, e se vorrà verificarlo non Le sarà difficile. Ho sempre agito nel rispetto della Costituzione e dei principi di legalità e compassione, passando forse pure per folle. La mia strategia era quella della cosiddetta “la riduzione del danno”, imponendo a me stesso ed ai miei collaboratori di fare tutto il possibile, anzi il dovuto, con il poco “impossibile” che ci veniva, invece, messo a disposizione anno per anno, nella lunga stagione, ancora non terminata, delle riforme a costo zero. Oggi, nonostante i grandi proclami, Lei troverà carceri senza direttori, senza educatori, senza agenti, senza psicologi, se non sulla carta o per poche ore, senza medici, senza infermieri, lì dove invece occorrerebbero presidi stabili e nutriti di operatori. La fortuna di trovare un forte e diffuso mondo del volontariato ha spesso consentito il galleggiamento del sistema, ancorché spesso proprio quello sia stato malamente indicato come “prossimo”, eccessivamente disponibile, verso i criminali. Che menzogna e che cattiveria! La circostanza che il problema delle carceri sia, purtroppo, globale e non solo italiano, non aiuta, ma semmai è dimostrevole del tradimento generalizzato di grandi principi universali soltanto evocati. Io, però, una proposta, Cara Ministra, gliela faccio: Forse saprà che un folle Sindaco, Rodolfo Ziberna, un “visionario”, a capo della suggestiva Città di Gorizia, che con Nova Gorica (Slovenia) rappresenterà la Capitale Europea della Cultura nel 2025, su mio invito, avendo rilevato una di lui genuina sensibilità in tema soprattutto di diritti umani, ha lanciato l’ipotesi che si realizzi, proprio sul suo territorio, un Centro di Ricerca Europeo per la Sicurezza e Giustizia (CREUSeG), ove sia incardinata anche una struttura penitenziaria, destinata ad ospitare persone detenute che abbiano commesso reati di natura transnazionale, segnatamente quelli la cui competenza sarà dell’EPPO (European Public Prosecutor’s Office). Tanto anche al fine di dare un senso compiuto a quello che, de iure condendo, potrebbe essere e già in parte è il sistema penale europeo, a mente dei reati previsti dalla Direttiva PIF, già individuati dalla Convenzione del 1995, cioè quelli di frode, corruzione e riciclaggio, con l’aggiunta della frode nelle procedure di appalto e il reato di appropriazione indebita di fondi europei da parte di un pubblico ufficiale, nonché la figura della corruzione passiva, estesa anche ai pubblici ufficiali e agli incaricati di pubblico servizio di Stati non appartenenti all’Unione europea. Si aggiungono, poi, anche quelli afferenti le frodi IVA, quando l’importo delle stesse superi i 10 milioni di euro e la frode sia transnazionale, cioè che riguardi almeno due paesi dell’Unione (come nel caso delle cosiddette “frodi carosello”), per completare questo primo giro. Attorno al Centro di Ricerca Europeo che si proporrà per Gorizia, andrebbe pure realizzato un vero e proprio hub, ove si farà ricerca tecnologica per fini securitari, attraverso lo sviluppo della robotica, della dronica, dell’impiego di nuovi materiali, degli strumenti informatici e di telecontrollo, etc., così come si svilupperà la ricerca giuridica e sociologica pertinente. Insomma, una sorta di cittadella della Scienza Securitaria e della cultura penitenziaria applicata ai sistemi che definiremmo “totalizzanti” e che avrà anche il compito, pragmatico, di tradurre in veri e propri standard quei principi ancora troppo vaghi ed evanescenti delle regole penitenziarie europee. La “Strasburgo Penitenziaria” di Gorizia, che verrebbe nella fase progettuale sostenuta da un nutrito Consorzio di realtà e centri di studio e di ricerca italiani ed europei, dovrebbe, con una propria struttura penitenziaria in loco, fornire il prototipo, il modello, al quale gli Stati UE, che aderiranno al progetto, potranno rifarsi, consentendo così di offrire al cittadino europeo un “servizio penitenziario”, qualunque sia il paese europeo, che non sia più una sorpresa, o meglio una cattiva sorpresa, perché risulteranno perfettamente descritte le condizioni dello stesso. Insomma, per capirci, sarà perfettamente profilato come debba essere una cella, dalle cubature, e non soltanto dalle superfici, ai servizi annessi, dalla quantità di ricambio dell’aria ai lux, artificiali e naturali, dall’altezza dei soffitti, al tipo di colori delle pareti, dall’ampiezza delle finestre, al tipo di arredi che dovranno essere assicurati, e così per i servizi di ristorazione, per quelli sanitari, per l’effettuazione dei colloqui e delle telefonate, o degli incontri con i familiari, per assicurarne l’intimità e riservatezza, così come gli aspetti legati alla affettività, alle professioni di fede, ma anche per quanto attenga le dotazioni e corredi personali, gli spazi ed i servizi destinati allo studio ed alla formazione professionale, idem per le guarentigie in materia di lavoro affinché non si degradi nello sfruttamento, insomma tutti e proprio tutti gli aspetti della vita detentiva dovranno tradursi in perfette e vincolanti istruzioni tecniche per l’uso da parte delle amministrazioni pubbliche, ivi comprese quelle che attengano al rapporto numerico tra detenuti e personale penitenziario, per sua natura evidentemente “specialistico”, con tutto ciò che attenga anche agli aspetti contrattualistici. Anche il mondo del volontariato andrà riconsiderato, ai fini di una sua maggiore valorizzazione. Insomma, una vera e propria “Revolución”. Così risulterà finalmente facile ed oggettivo riconoscere meriti e responsabilità degli Stati. Ma soprattutto, per quanto riguarda gli aspetti sanitari, andranno descritte e attuate le prescrizioni necessarie per evitare il rischio di malattie pandemiche, realizzando la struttura che accoglierà i detenuti transnazionali con modalità tali da assicurare, ove occorra ed ab initio, il distanziamento sanitario e l’adozione di protocolli operativi finalizzati a salvaguardare sia le persone ristrette che chiunque operi o faccia ingresso in istituto. L’ipotesi progettuale ambiziosa è già depositata, fin dal 20 ottobre scorso, presso il Ministero dello Sviluppo Economico, ma è così importante che andrà condivisa, perché se la intesti, dal Consiglio Europeo, in accordo con la stessa Commissione Europea, posto che i vantaggi di tale impresa anche di cultura giuridica si rifletteranno, obiettivamente, su tutti gli Stati che vi aderiranno, di fatto migliorando le condizioni di vita di tutti i cittadini europei, detenuti e detenenti, favorendo la produzione di quel bene che indichiamo come “Sicurezza”. Ecco, Sig.ra Ministra, ove anche Lei, insieme ai Suoi sottosegretari, sostenesse tale progetto, che andrà certamente meglio perfezionato e che oggi è soprattutto frutto di una vasta Community di specialisti nelle diverse discipline sociali, scientifiche, giuridiche, del volontariato, nonché di circoli intellettuali, ivi compresi quelli di filosofi, tutti convinti che pure nella sua ancora ineluttabile presenza, il carcere non debba essere considerato luogo di “chiusura”, consentirebbe all’Italia di trascinare gli altri Stati al cambiamento, piuttosto che essere trascinata innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. *Già Dirigente Generale dell’Amministrazione Penitenziaria, Componente del Consiglio Generale del Partito Radicale Non Violento Transanzionale e Transpartito Componente dell’Osservatorio Regionale Antimafia del Friuli Venezia Giulia I “fantasmi” delle carceri italiane. Le storie degli internati ancora privati della libertà di Luca Rondi altreconomia.it, 14 marzo 2021 Nel nostro Paese oltre 300 persone restano nel circuito penale pur avendo scontato la pena. Senza casa, lavoro, prospettiva. Le “Case lavoro” nella maggior parte dei casi non funzionano. Il sistema è “indifendibile”, spiega Mauro Palma, garante nazionale delle persone private della libertà personale. Il caso di Biella. Si aggirano come fantasmi in decine di penitenziari italiani, senza una casa, un lavoro e una prospettiva per voltare pagina e cominciare a vivere una vita nuovamente all’esterno delle mura carcerarie. Sono gli internati, 325 persone etichettate come “pericolose” e quindi destinatarie di una misura di sicurezza. Persone che, pur avendo scontato la pena detentiva per il reato commesso - nella maggior parte dei casi di contenuta gravità, legato a situazioni di marginalità e vulnerabilità - restano nel circuito penale perché devono ulteriormente dimostrare che il loro cambiamento è maturo. Peccato che le “Case lavoro”, i luoghi in cui gli internati dovrebbero avere la possibilità, tramite un impiego, di liberarsi dell’etichetta della pericolosità, nella maggioranza dei casi non sono nient’altro che sezioni dei penitenziari, detentive, inadeguate per il loro percorso. “La misura di sicurezza -spiega ad Altreconomia Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà personale- finisce così per essere una privazione della libertà che, per quanto si ammanti di valore di graduale inserimento, di fatto diviene una misura ‘difensiva’ della società che non si accontenta della pena espiata”. Un caso paradigmatico della drammatica situazione degli internati è la casa circondariale di Biella che improvvisamente, nel febbraio 2017, si è “trasformata” in Casa lavoro. La decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) nasce dall’apertura, nell’istituto biellese, di una sartoria industriale per la produzione di divise della Polizia penitenziaria senza tenere in considerazione l’inesistenza di uno spazio adeguato. Inoltre, a pochi giorni dall’arrivo dei primi 14 internati, il mancato rilascio da parte della Direzione sanitaria territoriale dell’idoneità al lavoro nella sartoria, a causa dei loro fragili profili psichiatrici, toglie ai nuovi ospiti questa possibilità, lasciandoli nell’impossibilità di “dimostrare” di aver concluso il loro percorso di cambiamento. Anche perché, alla mancanza di un impiego, si aggiunge la difficoltà di ottenere adeguate licenze di uscita utili per la valutazione del magistrato di sorveglianza. “L’85% di queste persone non ha legami con il territorio ed è necessaria una misura alloggiativa che non può essere garantita -spiega Sonia Caronni, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Biella. Anche perché la casa circondariale ha visto aumentare, negli ultimi anni, la popolazione detenuta da 350 ospiti a quasi 500 ed è insostenibile riuscire a garantire per tutte le richieste la possibilità di uscita e di presa in carico da parte del territorio”. Nonostante l’evidente incompatibilità dello svolgimento della misura di sicurezza nell’istituto biellese e il sovraffollamento, gli arrivi degli internati sono aumentati nel corso degli anni: al 25 febbraio 2021 erano ospiti 50 persone, con 33 in lista d’attesa. Delle poche persone che dal 2017 sono uscite, una è deceduta poco dopo l’uscita dal penitenziario per overdose, un’altra ha tentato il suicidio. “È l’assurdità di un sistema - sottolinea Caronni - che ti fa scontare un’ulteriore pena detentiva per poi, tante volte senza una gradualità, farti uscire in libertà. Una persona, con fragilità psichiatriche amplificate dal lunghissimo tempo di detenzione, se non accompagnata, non riesce a sopportare questo cambiamento”. Nonostante la criticità della situazione, nessuno, fino ad ora, è intervenuto. “Ho sollevato la questione sia al provveditore regionale sia al ministero della Giustizia ma non ho ricevuto risposta. L’alternativa indicata dall’amministrazione penitenziaria, anche se solo informalmente, è lo spostamento ad Alba: se a Biella la situazione è emergenziale e necessita, dunque di un intervento, un trasferimento simile, in strutture inadeguate, sposterebbe solamente il problema”. Il problema riguarda diversi istituti sul territorio nazionale. Lo evidenziano i dati del ministero della Giustizia (giustizia.it) che permettono di tracciare un quadro della situazione. Al 28 febbraio 2021 il circuito penitenziario ospitava in tutta Italia 334 internati, di cui 77 stranieri, ristretti principalmente in Abruzzo (74), Emilia-Romagna (53) e Piemonte (54). Indicativo è il fatto che solo Vasto, in Abruzzo, è classificata come “Casa lavoro” e il numero degli internati non diminuisce dal 2014, anno in cui un decreto legislativo aveva stabilito che la durata della misura di sicurezza non poteva superare la lunghezza della pena massima applicabile per i reati per cui il soggetto viene condannato. “Non riesco a leggere la questione di Biella come un caso isolato -continua Palma- ma come paradigmatica della indifendibilità del sistema del doppio binario, tipico del nostro codice penale, che consiste nella pena e nella misura di sicurezza: la prima caratterizzata da ciò che si è commesso, la seconda da ciò che si potrebbe commettere. La prima è, dunque, consequenziale, al di là di come oggi poi si concretizzi l’esecuzione penale, la seconda è invece prognostica, basata su un cosiddetto ‘accertamento scientifico’ della pericolosità del soggetto, sul cui fondamento è lecito quantomeno dubitare”. Un doppio binario che non è nient’altro che “una truffa delle etichette” secondo Marco Pelissero, professore ordinario di Diritto Penale all’Università di Torino. “Questo sistema va eliminato. La Corte di giustizia europea ha condannato la Germania per questo motivo: la misura di sicurezza è lecita solo se non è una riproposizione di quella detentiva. Purtroppo, però, le ragioni per cui il legislatore decide o meno di sopprimere il doppio binario o di ampliare le misure alternative alla detenzione sono legate al contesto socio-culturale. Gioca un ruolo importante la paura di abbassare la guardia e l’esigenza di difesa sociale, che poi è una percezione molto soggettiva delle istanze che arrivano alle forze politiche”. Il periodo attuale, fortemente securitario, non è terreno fertile per soluzioni del genere. Basti pensare che la commissione Pelissero, presieduta dal professore e istituita per dare attuazione alla legge delega contenuta nella riforma Orlando del 2017, poi naufragata a causa della caduta di governo, non aveva come mandato l’abolizione del doppio binario. “La legge delega, sebbene fosse nata dalla apertura della maggioranza politica di allora a potenziare le misure alternative e riformare l’ordinamento penitenziario (il ministro della Giustizia aveva organizzato gli Stati generali dell’esecuzione penale, ndr), non prevedeva purtroppo il superamento delle misure di sicurezza detentive per imputabili. Servirebbe il coraggio di soluzioni nuove ma non vedo un legislatore pronto a fare una scelta di campo nel tentativo di rivedere il sistema. È un salto culturalmente molto forte perché riguarda soggetti considerati pericolosi”. Una situazione paradossale confermata anche nella pandemia. Il 31 gennaio 2021, rispetto all’anno precedente, il numero dei detenuti è diminuito del 13% in Italia in seguito ai timidi provvedimenti adottati dal governo per fronteggiare la crisi da Covid-19. Se si analizzano i dati riguardanti gli internati, invece, la stessa percentuale si ferma al 6%: solo 21 persone sono uscite nel corso del 2020 e, tra l’altro, non a seguito di provvedimenti connessi alla necessità di limitare il sovraffollamento delle strutture penitenziarie. “Considerando la difficoltà di una riforma del codice penale l’unico modo per intervenire -conclude Palma - deve seguire tre direzioni: predisporre luoghi strutturalmente e logisticamente diversi dal carcere in cui scontare tali misure; diffondere programmi di coinvolgimento del territorio nella loro esecuzione, in funzione della proposizione di programmi di formazione certificata e di lavoro; la riduzione dei tempi complessivi di durata delle misure”. Una riduzione dei tempi che richiede, inevitabilmente, un cambiamento da parte della comunità esterna al circuito penale. “Serve la costruzione di una cultura sociale più inclusiva, territorialmente diffusa e che sappia coinvolgere anche la cultura di chi ha la responsabilità di irrogare tali misure. Compito difficile”. Gli angeli delle videochiamate per detenuti e famiglie nell’era Covid di Federico Mereta La Stampa, 14 marzo 2021 La video chiamata? La stiamo sperimentando tutti in questo momento di distanziamento. È un modo per stare in contatto con il mondo esterno, per salutare madri, padri, figli e amici. Per abbracciarsi virtualmente. “Ed è stata una grande opportunità nella prima ondata della pandemia da Covid-19, grazie a circa 3.200 tablet, per chi ha vissuto la realtà del carcere: con la tecnologia si sono raddoppiate le possibilità di parlare, guardarsi, avere contatti con i propri cari, ovviamente per via telematica - racconta Luciano Lucania, Presidente Simspe (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria)”. Eravamo nel periodo dell”#andratuttobene”. Poi, la seconda ondata. Tutto è più difficile. Ma non bisogna mollare. E si devono dare risposte nuove”. La Simspe ha chiesto che personale e detenuti siano vaccinati prima possibile, ma soprattutto punta molto sul fatto che proprio in carcere si possano sviluppare percorsi di conoscenza, diagnosi e cura. “Covid-19 è un’emergenza nuova che si affianca alle problematiche di salute e di prevenzione che interessano la popolazione carceraria: ad esempio, tra i detenuti esiste una percentuale non indifferente di persone in età avanzata e, comunque, con diverse patologie, che vanno seguiti e protetti esattamente come avviene all’esterno - ricorda Lucania. Ma, soprattutto, bisogna sviluppare strade nuove che, a prescindere dall’infezione da Sars-CoV-2, contribuiscano a migliorare il benessere fisico e psichico delle persone: in questo senso si sviluppa il progetto pilota E.D.I.SON., che stiamo conducendo in alcuni Istituti di Lazio, Abruzzo e Molise ed è realizzato da Simspe Onlus, grazie al sostegno di Healthcare. L’obiettivo è eseguire un “doppio” test rapido per lo screening dell’infezione da virus Sars-CoV-2, responsabile di Covid-19, e dell’HIV”. Ovviamente, in questo percorso di prevenzione che si traduce in salute è compresa anche l’infezione da virus dell’epatite C: “La legge prevede questi screening sui detenuti da parte dello Stato: il nostro impegno è far sì che ogni ente faccia la propria parte, anche su scala regionale - segnala l’esperto”. L’importante, in ogni caso, è far sì che anche da Covid - 19 possano nascere opportunità in termini di salute e conoscenza, sia per gli uomini che per le donne che vivono una realtà più difficile, magari sulla scorta di una vita di prostituzione e/o di tossicodipendenza. Lo testimonia il programma Rose-Hiv, che ha visto 17 specialisti in malattie infettive seguire i bisogni specifici della popolazione femminile ed ha coinvolto 876 donne, circa una su tre nelle sezioni femminili degli Istituti carcerari. Per il solo virus HIV le sieropositive sono risultate il 5,5 per cento, di cui 30 italiane e 18 straniere. In 16 donne è stata osservata la coinfezione con il virus dell’epatite C. Per lei, come per lui, occorre insomma l’impegno di tutti. Ma la strada da fare è ancora lunga se si vuole rompere il muro dello stigma che ancora accompagna infezioni come quella da virus HIV. E non solo in carcere. Guerra a populisti e giustizialisti, la politica secondo Enrico Letta: sei punti cruciali di Andrea Pugiotto Il Riformista, 14 marzo 2021 1. Ricordiamo tutti il passaggio di consegne tra il governo Letta e il governo Renzi: una delle più sbrigative e gelide cerimonie della campanella che Palazzo Chigi rammenti. Era il 22 febbraio 2014: un tempo distante come il pleistocene, per la politica italiana ma ancor più per la biografia di Enrico Letta, ormai lontanissimo da quel “tengo il broncio, ergo sum”. Non sarà, il suo, un ritorno all’insegna del risentimento: in politica come nella vita, il destino di chi si ostina a guardare indietro è quello della moglie di Lot, trasformata in un’immobile statua di sale. Letta, invece, ha in mente un’idea di futuro: per capire quale, possiamo attingere ai suoi due ultimi libri, editi per il Mulino, ambedue dai titoli inequivoci: Contro venti e maree. Idee sull’Europa e sull’Italia (2017) e Ho imparato (2019). Chiuse le pagine di entrambi, il lettore non fatica a rintracciarne il denominatore comune nel rifiuto di ogni nuance di sovranismo. 2. “L’Europa è composta di due tipi di Stati: quelli piccoli, e quelli che non si sono ancora accorti di essere piccoli” (il copyright è di Emma Bonino). A questo sovranismo nazionalista, Letta contrappone la forza dei numeri: nel 2050, il pianeta dovrà sfamare 10 miliardi di persone. Nel frattempo, le classi medie dei paesi emergenti (in Asia, soprattutto), divorano quantitativi di energia sempre maggiori, aspirando legittimamente ai nostri livelli di consumo. Da qui i mutamenti climatici, il loro impatto ambientale, le crisi sanitarie. Ne siamo e ne saremo colpiti tutti, ma qualcuno in misura maggiore: gli innocenti (le generazioni future) e i meno responsabili (i paesi poveri, più estesi e meno protetti). Tutto ciò se ne frega dei confini nazionali e delle loro sentinelle sovraniste. Con utopico realismo, Letta invoca la necessità di una policy che orienti il pianeta verso un modello di sviluppo capace di coniugare sostenibilità ambientale, crescita demografica, giustizia sociale. Ecco perché - paradossalmente - la difesa della sovranità nazionale passa attraverso la sua parziale cessione in ambiti di interesse comune. Letta lo sa bene: condividere sovranità statale è una forma lungimirante di altruismo interessato, perché solo a livello transnazionale possiamo vincere sfide che travalicano il nostro periferico cortile di casa. 3. Per ciò Letta è un europeista inossidabile, ma non dogmatico. Riconosce l’errore di aver creduto in un modello di sviluppo mainstream che ha aggravato le diseguaglianze. Da europeista, critica i governi rigoristi rifiutando l’equazione “minori diritti in cambio di maggiori opportunità”. Descrive l’Ue come “un’unione di minoranze” dove nessuno domina sull’altro perché “l’Europa è il contrario di un progetto imperiale”: ai suoi occhi, mettere insieme 27 Stati, 24 lingue, 19 Paesi con una stessa moneta, dandosi una Carta dei diritti fondamentali dalla stessa forza giuridica dei Trattati, è il progetto politico e nonviolento più ambizioso e meglio riuscito dei nostri tempi. Guardando avanti, per Letta non si può essere timidamente europei, altrimenti abbiamo già perso. Da qui la sua proposta di un’Ue a geometrie variabili, cerchi concentrici, velocità differenziate, dove concedere di più a chi vuole fare di più in termini di integrazione in ambiti decisivi: politica estera, politica di difesa e sicurezza, unione bancaria, un comune ministro delle Finanze e del bilancio. C’è dell’altro. Se la sfida più impegnativa per la politica di oggi è “proporre il meglio, non l’alternativa al peggio”, l’Europa può farlo soprattutto nel campo dei diritti frutto di tradizioni comuni: rifiuto della pena di morte, giuste condizioni di detenzione, tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale, diritto al lavoro, laicità, pluralismo confessionale, libertà di coscienza. Letta è giustamente convinto che solo attraverso una pragmatica “strategia dei valori” europei potremo collocarci tra chi organizza le regole del gioco globale (rule makers) invece di trovarci relegati tra chi applica regole scritte da altri (rule takers). 4. Vale, ad esempio, per il fenomeno migratorio, da sempre campo d’elezione per il sovranismo xenofobo interessato a non risolvere il problema per lucrarvi elettoralmente. Cifre alla mano, Letta svela la differenza tra realtà e percezione della questione: mentre i picchi di sbarchi sulle nostre coste non sono più quelli del passato, ad aumentare è il tasso di mortalità dei migranti nel Mediterraneo; mentre si alimenta la narrazione, giuridicamente fasulla, dei porti chiusi, ininterrotto è il flusso di extracomunitari in entrata con visti turistici a scadenza. Per portare a soluzione il problema - scrive Letta - servirebbe “un Super Mario Draghi per la crisi migratoria”: aprire vie legali di accesso all’Europa, gestire i rifugiati a livello europeo (cambiando l’accordo di Dublino), creare corridoi umanitari con le zone di crisi (a evitare pericolose odissee in mare), controllare le frontiere esterne dell’Unione (senza appaltarne la gestione a paesi terzi) creando una polizia europea integrata, armonizzare le regole di accoglienza, promuovere una diplomazia culturale tra continenti (sfruttando il ruolo chiave degli Atenei). 5. Tra le cinquanta sfumature di sovranismo c’è anche quella populista. Senza reticenze, Letta ne rintraccia sintomi evidenti nelle leadership - in apparenza alternative - di Grillo, Salvini e Renzi. Comuni sono il linguaggio truce (“vaffa, ruspa, rottamazione”) e la postura politicamente aggressiva (asfaltare e delegittimare l’avversario). Comune è “l’idea che la propria discesa in campo segni l’anno zero della politica”, ma anche la promessa non mantenuta che “mai, una volta raggiunto il potere, si sarebbero comportati come i predecessori”. Comune è “la totale sovrapposizione tra la propria figura di leader e quella del proprio partito”, come pure “l’esaltazione, a tratti perfino fanatica, della disintermediazione”, e l’”appello diretto al popolo”. Ai diversamente populisti - alfieri di “annunci mediatici e produzione di racconti, privi di risultati concreti” - Letta contrappone il coraggio di “dire la verità [che] in politica vuol dire spiegare che la scelta di oggi non sarà proficua da domani mattina”. All’uomo solo al comando, Letta contrappone le ragioni di una leadership politica condivisa, perché “i nostri sono i tempi delle coalizioni, non dell’uomo singolo; del team, non del grande talento solitario; dell’intelligenza collettiva, non della tattica individuale”. 6. “Io ci sono”, ha detto ieri. Accettando la candidatura a segretario del Pd, Letta interrompe un “esilio” di sette anni fuori dall’”acquario della politica romana”, definiti i più intensi e carichi di insegnamenti perché “la vita personale influenza il pensiero”. C’è da aspettarsi, dunque, che quanto fin qui maturato sarà portato dentro la politica italiana. Se ciò accadrà, la sua segreteria non sarà soltanto “il baricentro di qualsiasi alternativa alle destre” (come ha detto, benedicendola, Zingaretti). Sarà parimenti in radicale opposizione a qualunque populismo sovranista, dovunque alberghi. Lo auspicava ieri il Direttore di questo giornale, invitando Letta a respingere “il ricatto dello schieramento obbligatorio” con un grillismo semmai da liquidare, nel nome di un nuovo e allargato riformismo di sinistra. Lo aspetta un compito titanico: rovesciare il tavolo delle liti correntizie nel partito. Riportare finalmente il Pd sul terreno delle idee e dell’agire, non solo ministeriale. Sfidare gli avversari esterni sulla capacità di rispondere a bisogni di generazioni aggredite da cambiamenti epocali. Difendere e contribuire a rigenerare la democrazia della rappresentanza politica e delle formazioni sociali intermedie. Lo attende una lotta politica a tutto campo da condurre insieme alla sua ritrovata comunità, perché - come recita il proverbio africano a Letta molto caro - “Se vuoi andare veloce, agisci da solo; se vuoi andare lontano, agisci insieme agli altri”. Ben tornato e auguri vivissimi. Covid, l’Anm a Draghi: “Non siamo furbetti, ma il vaccino è indispensabile” di Liana Milella La Repubblica, 14 marzo 2021 In assenza di una tutela sanitaria, secondo le toghe, il rischio è quello di rallentare o addirittura interrompere un servizio essenziale se, soprattutto negli uffici piccoli, dovessero aumentare i positivi. Subito una proroga delle misure emergenziali per i processi penali e civili. Subito la vaccinazione per i magistrati, per il personale del mondo della giustizia, per gli avvocati. E subito anche un incontro con Draghi e Speranza. A chiederlo sono i magistrati dell’Anm. Che in un’angosciata assemblea oggi dicono: “Faremo e garantiamo il nostro lavoro con la passione di sempre, ma dobbiamo essere messi nelle condizioni di poterlo fare senza diventare noi stessi un veicolo del Covid”. E, con un riferimento alla sentenza della Corte costituzionale pubblicata appena ieri e redatta dal giudice Augusto Barbera - che boccia il tentativo di legislazione autonoma della Valle D’Aosta - le toghe denunciano il rischio che si vada a misure differenti tra Regione e Regione, proprio in dissenso con quella sentenza che invece incardina, nel solo Stato centrale, le misure necessarie per affrontare la pandemia, escludendo quindi scelte autonome dei poteri periferici. È netto il messaggio che i giudici, dalla tribuna dell’Anm, rivolgono al premier Mario Draghi e al ministro della Salute Roberto Speranza. “Non siamo né vogliamo essere dei furbetti, né tantomeno presentarci come una categoria privilegiata - dicono i magistrati che intervengono uno dopo l’altro all’assemblea dell’Anm - ma bisogna garantire alla collettività un servizio sicuro, assicurando a tutti gli operatori, magistrati, personale, avvocati, le garanzie contro il virus. Il nostro è un servizio essenziale, non si può interrompere, ma deve essere reso anche con senso di responsabilità”. A lanciare il segnale dell’emergenza è il segretario dell’Anm, Salvatore Casciaro, toga di Magistratura indipendente, per il quale l’esclusione, tra i servizi cui non viene garantita la vaccinazione, anche dei magistrati, rappresenta un vulnus. Perché la decisione “non mostra la dovuta attenzione per il nostro mondo e per i possibili contraccolpi, derivanti da eventuali focolai di contagio, sulla continuità del servizio reso ai cittadini”. “Dall’altro - dice ancora Casciaro - la decisione sembra non tenere in debito conto le reali condizioni di lavoro degli operatori costretti a lavorare, con frequenti contatti con un notevole numero di persone, in uffici giudiziari privi di adeguati sistemi di areazione e di spazi idonei ad assicurare il rispetto delle misure di distanziamento sociale”. Nasce da qui un dibattito con molte voci - tra cui tante toghe al femminile, Lilli Arbore, Paola Cervo, Paola Maddalena, Silvia Albano, Ida Moretti e altre - che confermano l’analisi di Casciaro. E dicono: la vaccinazione prioritaria non è “un privilegio per una casta, ma una misura giusta e necessaria”. Ancora “l’esclusione è un paradosso ingiusto”. E poi: “Non siamo furbetti, ma bisogna garantire alla collettività un servizio sicuro, garantendo a tutti gli operatori le garanzie anti virus. Perché il nostro è un servizio essenziale, e deve essere reso con senso di responsabilità”. Ovviamente le toghe chiedono anche a Draghi e alla ministra della Giustizia Marta Cartabia la proroga immediata delle misure speciali per i processi, vista la nuova ondata pandemica. Da Santalucia netto no al sorteggio per l’Anm. Altro tema in discussione è, ancora una volta, quello del futuro sistema con cui eleggere le toghe del Csm. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia boccia nettamente l’ipotesi del sorteggio. “Non ritengo accettabile - dice Santalucia - che l’unica riforma possibile debba consistere nella compressione del diritto di elettorato (attivo e passivo) dei magistrati, anche di tutti quelli, e sono la gran parte, che non hanno colpe da emendare. Non penso che si possa restituire libertà al Csm privando i magistrati di diritti di cui dalla Costituzione repubblicana in poi hanno goduto. Considero un progetto di retroguardia culturale quello che muove dall’implicita premessa dell’inadeguatezza etica dei magistrati, sin dal loro ingresso in carriera, della loro debolezza di fronte alle lusinghe del potere e alle pressioni dei gruppi di potere”. Una posizione molto netta, che contrasta con quella, favorevole invece al sorteggio, di Magistratura indipendente che fa parte della giunta Anm ed esprime anche il segretario generale Casciaro. Ma Santalucia è contrarissimo e pone in sequenza una serie di interrogativi da cui, secondo lui, si evidenzia la negatività del sorteggio: “Un magistrato a cui si dice, e che supino accetta, che non può praticare la libertà di associazione nel modo più trasparente, democratico e apartitico possibile, che non può scegliere coloro a cui la Costituzione affida il compito di preservare le precondizioni di una giurisdizione all’altezza del ruolo sarà più forte o più debole di fronte al potere?”. E ancora: “Il Csm, strappato all’orizzonte di un’ancora possibile legame ideale con la platea dei magistrati amministrati, sarà più autorevole o ne verrà fuori fiaccato e indebolito nel confronto tra gli attori della sfera pubblica?”. Secondo Santalucia queste sono “domande necessarie, che non eludono e non celano la drammatica realtà di una vistosa crisi dell’associazionismo e dell’autogoverno della magistratura”. Infine, conclude Santalucia, “non si può e non si deve smarrire la strada di una ricostruzione fedele a un disegno costituzionale di cui siamo tra i custodi e non i proprietari, liberi come tali, di concorrere al suo sfascio in nome dei più nobili ideali di moralità e indifferenza ai vantaggi personali. Il sistema elettorale va cambiato, nel senso di restituire al magistrato elettore la più ampia libertà di scelta, di fare arretrare - e fortemente - i gruppi associativi nel momento della espressione del voto, di consentire al Csm d’essere rappresentativo delle varie sensibilità. E le possibilità tecniche ci sono, penso tra i possibili, al sistema del voto singolo trasferibile, o a quello uninominale per plurimi collegi con candidature individuali con collegamento extra collegio”. Sicilia. La Giustizia “espulsa” dal piano vaccinale di Simona Musco Il Dubbio, 14 marzo 2021 La Regione decide di adeguarsi al piano nazionale, escludendo i servizi essenziali. Il presidente del Coa di Palermo: “Scelta inaccettabile”. Caos. Forse l’unica parola per descrivere la situazione è questa. Perché dopo la pubblicazione del nuovo piano vaccinale, la Regione Sicilia, tra le poche che aveva deciso di inserire gli avvocati, assieme al resto del comparto Giustizia, tra le categorie prioritarie per il vaccino, ha deciso di fare dietrofront. Tutto, dunque, bloccato, con buona pace di chi stava aspettando il proprio turno. “In linea con il nuovo piano vaccinale varato dal governo nazionale, prosegue la vaccinazione dei siciliani over 80, della fascia 70-79 anni, del personale scolastico e universitario docente e non docente, delle forze armate di polizia e del soccorso pubblico, dei servizi penitenziari italiani, delle comunità residenziali”, si legge in una nota della Regione siciliana, spiegando che “seguendo le disposizioni del nuovo piano nazionale che ha bloccato di fatto la somministrazione del vaccino sul target dei cosiddetti “servizi essenziali”, anche in Sicilia si proseguirà con le vaccinazioni programmate per età anagrafica e non per categoria”. “Scelta inaccettabile”, commenta il presidente dell’Ordine di Palermo, Giovanni Immordino. “Non è possibile essere stati riconosciuti fra i soggetti che svolgono un servizio pubblico essenziale e ora tornare sui propri passi e ci viene detto che non ci vaccineremo. È inaccettabile, soprattutto dopo che molti di noi hanno già effettuato le prenotazioni fino a metà aprile - ha dichiarato -. Non entro nel merito delle scelte del Governo, ma è ovvio che gran parte del nostro lavoro si effettua in presenza e quindi il rischio di contagio è alto. Sono state avviate interlocuzioni con la Regione per garantire almeno il rispetto della prenotazione effettuate”. Il nuovo piano suggerisce cinque categorie prioritarie: le persone ad elevata fragilità, quelle di età compresa tra 70 e 79 anni, quelli tra i 60 e i 69 anni, persone con comorbilità di età inferiore ai 60 anni e il resto della popolazione. Rimangono tra le categorie prioritarie il personale docente e non docente, scolastico e universitario, le Forze armate, di Polizia e del soccorso pubblico, servizi penitenziari e altre comunità residenziali. La strada è in salita, ma le Regioni potrebbero, sulla base della loro autonomia organizzativa, decidere di inserire anche gli operatori della Giustizia tra coloro da vaccinare in via prioritaria. A recapitare l’appello alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, mercoledì, erano stati il Consiglio nazionale forense e l’Organismo congressuale forense, che con due distinte note avevano evidenziato la necessità di evitare disparità, non solo tra i diversi protagonisti del settore, ma anche a livello territoriale. E nei giorni scorsi è arrivato anche l’appello dell’Unione delle Camere penali. “Penso che gli avvocati siano una delle categorie sicuramente più esposte al contagio, perché operano quotidianamente, per molte ore al giorno, negli spazi chiusi dei tribunali. Quindi se si ragiona in termini di esposizione al rischio e di essenzialità del servizio, a meno che non si voglia mettere in discussione il servizio giustizia, credo che fare una polemica su questo sia veramente privo di senso”, ha sottolineato il leader dei penalisti Giandomenico Caiazza. Nel frattempo, l’Ordine degli avvocati di Palermo ha avviato un’interlocuzione con Roma per “garantire le prenotazioni già effettuate”. Venezia. Rivolta in carcere, prime sette condanne di Roberta De Rossi La Nuova Venezia, 14 marzo 2021 Ai detenuti che hanno scelto il rito abbreviato sconto di pena, per altri 16 il processo si aprirà nel mese di maggio. Nei giorni in cui, nel carcere di Santa Maria Maggiore (come in quello femminile della Giudecca) personale, agenti e detenuti vengono sottoposti al vaccino anti-Covid, arriva la prima sentenza per la violenta protesta di marzo 2020: iniziata con la tradizionale “battuta” delle stoviglie contro i ferri delle celle - contro il blocco delle visite causa lockdown e il sovraffollamento - la giornata era poi degenerata sulla scia dell’azione di una cinquantina di detenuti: videocamere di sorveglianza distrutte, suppellettili infrante, lenzuola date alle fiamme, con spirali di fumo che uscivano dalle finestre del carcere, creando grande allarme e squadre dei vigili del fuoco che avevano operato per ore, orientando i getti dell’acqua verso l’interno del carcere. Ieri, la giudice per le udienze preliminari Marta Paccagnella ha accolto le richieste di condanna - da 6 a 18 mesi - avanzate dal pubblico ministero Giorgio Gava per i sette detenuti che avevano chiesto il rito abbreviato, ottenendo quindi uno sconto di un terzo della penna. L’udienza si è svolta in aula bunker a Mestre, per permettere i collegamenti con i 23 detenuti delle più diverse nazionalità (cittadini tunisini, marocchini, rumeni, nigeriani, senegalesi, bulgari e italiani), che sono stati accusati dal pubblico ministero Gava di danneggiamento aggravato e resistenza a pubblico ufficiale. Per alti 16 imputati il processo avrà inizio davanti al Tribunale di Venezia il 17 maggio. Tra questi, anche il chioggiotto (con casa alla Giudecca) Manuel Fabris accusato di rapina, il veneziano Clyde Salvagno, il chioggiotto Lino Tiozzo Compini e Alberto Sarpato (residente a Piove di Sacco, anche lui detenuto per rapina). Hanno scelto di difendersi in aula. Tra gli avvocati che li rappresenteranno Mauro Serpico, Federico Tibaldo, Marco Zanchi, Elisabetta Costa, Giuseppe Vio, Claudia Vianello, Andrea Cerutti. La protesta risale al 10 marzo 2020, nei primi giorni di lockdown totale ed era iniziata - come tante altre volte - con la battuta delle stoviglie. Poi era andata degenerando: chi aveva ricavato mazze dalle zampe dei tavoli, chi distrutto le videocamere di sorveglianza, chi bloccato con frigo e tavoli i cancelli per impedire l’arrivo della polizia, utilizzando anche gli idranti antincendio contro gli agenti, chi mandato in frantumi le finestre, chi tentato di sfondare i cancelli di sbarramento, chi dato fuoco a lenzuola legate alle inferiate delle finestre, chi è accusato di aver contribuito a mandare in frantumi ben 22 vetrate. In quest’ultimo anno, altre proteste si sono susseguite a Santa Maria Maggiore - troppo affollato, rispetto alla sua capienza - ma sempre nell’ambito della legittimità. Intanto, il garante per i diritti delle persone private della libertà, comunica che in questi giorni il personale, detenuti e detenute si stanno sottoponendo al vaccino AstraZeneca. Una cinquantina i detenuti che sono risultati positivi al virus negli ultimi mesi e che quindi non saranno vaccinati, mentre per ora hanno dato l’adesione in 70 sui circa 200 presenti a Santa Maria Maggiore. Al carcere femminile della Giudecca, 50 adesioni tra le 75 detenute. Carinola (Ce). Parte la vaccinazione anti Covid nel carcere del focolaio casertanews.it, 14 marzo 2021 Le somministrazioni sono iniziate in mattinata, dopo che nelle settimane hanno perso la vita tre agenti. Parte la campagna di vaccinazione anti Covid per gli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Carinola. Le somministrazioni sono iniziate questa mattina, dopo che nelle settimane hanno perso la vita tre agenti, contagiati a causa di un focolaio Covid che ha reso indisponibili al servizio una trentina di poliziotti penitenziari. La campagna vaccinale ha preso il via venerdì presso il carcere di Benevento e via via sarà estesa a tutte le strutture carcerarie della Campania. Il personale può effettuare la registrazione al sito regionale della Campania. “Si è data priorità agli agenti - ha spiegato Antonio Fullone, responsabile regionale dell’amministrazione penitenziaria - perché entrano ed escono continuamente dagli istituti e, quindi, possono rappresentare un veicolo di contagio per i detenuti. A breve, la vaccinazione partirà, anche per questi ultimi, ovviamente per chi ne farà richiesta”. Sono circa 4000 i poliziotti penitenziari che prestano servizio in Campania. Per il vice segretario regionale Osapp Campania Luigi Castaldo, con la vaccinazione degli agenti “si creerà uno scudo contro il Covid-19 per tutti i ristretti, che a breve, in funzione dei Dpcm, saranno vaccinati”. L’Osapp auspica “un intervento mirato della politica in un piano di assunzioni straordinarie per contrastare la battaglia contro il virus”. Pisa. Far partire il piano di vaccinazione per le persone detenute e il personale civile unacittaincomune.it, 14 marzo 2021 Presentata una mozione in consiglio comunale. In questi giorni in cui la cittadinanza guarda ansiosa al piano vaccinale della Regione toscana in attesa del proprio turno, contando le dosi destinate a quella o questa categoria e connettendosi più volte al giorno al portale di prenotazione, ci chiediamo quando inizierà la vaccinazione delle persone private della libertà residenti al Carcere Don Bosco. È lo stesso carcere che il Garante dei diritti delle persone private di libertà nel suo ultimo rapporto (Ottobre 2020) descrive, tra le altre cose, come una casa circondariale “dove il numero dei presenti è di gran lunga superiore alla capienza massima in rapporto anche alle attuali situazioni di emergenza sanitaria”. Dal XVII rapporto di Antigone pubblicato lo scorso 11 Marzo emerge come durante la seconda ondata, nonostante alcune precauzioni, siano spesso scoppiati focolai nelle carceri italiane. È, ad esempio, di pochi giorni fa la notizia del focolaio scoppiato nel carcere di Volterra dove su 167 detenuti si sono riscontrati più di 60 positivi. Questi numeri sono agghiaccianti, solo se pensiamo che tra le persone detenute ci sono persone vulnerabili e persone anziane. Non solo: un istituto di pena è un luogo della comunità, dove ci lavorano educatori, ragionieri, amministrativi, assistenti sociali, agenti, insegnanti, maestri d’arte, registi, attori, volontari: gestire le misure di precauzione e di contenimento è terribilmente più complesso che negli altri luoghi di lavoro. Per dare l’idea di quanto il carcere sia un luogo maggiormente a rischio di altri, l’Associazione Antigone, sempre nel suo ultimo rapporto, ha calcolato il tasso medio di positività su 10.000 persone nella popolazione carceraria e in quella libera: nel mese di Dicembre 2020 un tasso medio di positività nelle carceri era di 179,3, mentre nella popolazione libera in Italia era 110,5. Nel mese di Febbraio 2021 il tasso vediamo che rimane sempre più elevato nelle carceri con 91.1 mentre nella popolazione libera è del 68.8. È di qualche giorno fa la notizia, diffusa dalla stessa Regione, che per la metà di marzo si sarebbe avviata la campagna di vaccinazione nelle carceri: ci attendiamo che questa data non subisca altri rinvii. Nel mondo della detenzione, i soli ad avere avuto la possibilità di accedere alle vaccinazioni sono gli agenti di polizia penitenziaria: una operazione che rischia di essere inutile se non si procede immediatamente alla profilassi vaccinale dei detenuti e dei lavoratori Per questo abbiamo presentato una mozione in consiglio comunale con cui chiediamo al Sindaco di intervenire e di informare la comunità: la salute dei detenuti e chi in carcere ci lavora è interesse di tutti e tutte. Diritti in comune: Una città in comune - Rifondazione Comunista - Pisa Possibile Bari. Uffici della giustizia senza casa: “Edilizia giudiziaria simbolo di civiltà” di Roberto Calpista Gazzetta del Mezzogiorno, 14 marzo 2021 Aspettando la “cittadella”. Il commento di Raffaele Della Valle. Politico ed avvocato, è stato, tra gli altri, il legale di Enzo Tortora e della modella americana Terry Broome. Avvocato e politico, Raffaele Della Valle è stato, tra gli altri, il legale di Enzo Tortora e della modella americana Terry Broome. Ha fatto parte della Commissione Giustizia, nella quale ha svolto l’attività di relatore nel disegno di legge sulla custodia cautelare ed è stato membro della Commissione Stragi. La questione Uffici giudiziari a Bari è ormai paradossale. Si discute da decenni di un Polo giudiziario, ma se tutto - difficilmente, sembra - andrà bene, occorrerà attendere ancora un bel po’. Che ne pensa? “La civiltà di un Paese si misura dalla qualità e dall’efficienza degli ospedali, delle carceri e degli uffici giudiziari. E non mi riferisco solo alla qualità del capitale umano che ci lavora, ma anche all’aspetto prettamente edilizio. Una struttura gradevole, tecnologica, affidabile conquista la fiducia del cittadino e può essere anche da deterrente per chi delinque”. Poi però ci vuole anche il “materiale umano”, non crede? “Certo, e penso all’organico dei magistrati e forse ancor più dei cancellieri. Altrimenti è come saper fare il pane, ma poi non trovare nessuno che lo inforni. Oltretutto, la prenda come una provocazione, ma è una mia vecchia battaglia, se non si riesce a separare le carriere, separiamo almeno fisicamente gli uffici dei pm da quelli dei magistrati giudicanti. La giustizia ne guadagnerà in credibilità e il sistema capacità”. Una Cittadella della Giustizia per essere tale necessita anche di servizi di supporto adeguati. A Bari se n’è discusso per anni con il risultato di rinviare ancora. Meglio i centri storici delle città o le periferie? “Sarebbe bello avere questi palazzi nelle aree centrali, ma conoscendo le nostre città, temo che i disagi sia per chi ci lavora che per gli utenti, sarebbero di gran lunga maggiori rispetto a un “Polo” collocato in una zona periferica. Un Tribunale è anche parcheggi, viabilità, facilità di accesso. Oltretutto si liberano i quartieri centrali dal caos e dall’inquinamento migliorando notevomente la qualità della vita dei residenti”. Quindi non ritiene che la Cittadella della Giustizia possa svolgere una funzione sociale per il territorio? “Sì, ma soprattutto se è funzionale e funzionante, non se congestiona il quartiere e rende più complicato viverci”. Avvocato ma perché in Italia ci sono sempre tempi biblici per realizzare queste opere? “Per i soggetti che stanno a monte. Perché siamo ancora un po’ terzo mondo. Per l’iter degli appalti, con l’immancabile passaggio al Tar, le sospensive, il “sottobosco” che si muove su scelte che hanno una forte valenza politica. Si chieda perché le Prefetture - e lo dico col massimo rispetto - spesso sono in edifici lussuosi e arredati lussuosamente. Perché questa disparità tra i luoghi delle autorità amministrative e quelle giudiziarie?” I Tribunali devono insomma essere riformati e non solo sotto l’aspetto legislativo ma anche architettonico? “Sì, devono essere avanti con i tempi, moderni. E soprattutto inseriti in un contesto di arredo urbano confortevole e adeguato. I progettisti, gli architetti che disegnano un ufficio giudiziario, devono avere la cultura dell’arredo urbano. Per non parlare della ricerca del particolare. In Svizzera, per esempio, anche la collocazione in aula di pm, difensore e giudice è frutto di un’attenta pianificazione. Ma quella, appunto, è la Svizzera”. Bergamo. Detenuti per violenza di genere: allerta in caso di scarcerazione di Michele Andreucci Il Giorno, 14 marzo 2021 La firma a Bergamo: le forze dell’ordine potranno valutare in tempo reale i rischi di recidiva. Avvertire, con congruo anticipo, l’Ufficio minori e vittime vulnerabili della Divisione Anticrimine della Questura di Bergamo della data di scarcerazione delle persone detenute per reati relativi alla violenza di genere (maltrattamenti in famiglia, stalking, violenza sessuale, pedofilia), per consentire alle forze dell’ordine di valutare per tempo eventuali rischi di recidiva e tutelare al massimo le potenziali vittime. È questo il senso del “Protocollo a tutela delle vittime della violenza di genere” siglato tra Questura e Casa Circondariale di Bergam. L’intesa è stata sottoscritto dal questore di Bergamo Maurizio Auriemma e dalla direttrice del carcere di via Gleno Teresa Mazzotta, nell’ambito della campagna di sensibilizzazione attivata su tutto il territorio nazionale dalla Direzione Centrale Anticrimine della polizia di Stato. Acquisita la notizia dell’imminente scarcerazione, viene svolta dalle forze dell’ordine un’accurata analisi del potenziale rischio di recidiva, ricostruendo la pericolosità del soggetto, le modalità di interazione con la vittima, gli eventuali pregressi interventi della polizia. Si procede, infine, a localizzare la prossima residenza-domicilio della persona scarcerata e contestualmente di quelle potenzialmente in pericolo. Spiega il questore Maurizio Auriemma: “Attraverso una nota di allertamento indirizzata agli Uffici territoriali interessati (sia della Polizia di stato sia dei carabinieri) viene attivato un monitoraggio effettivo del soggetto scarcerato e delle potenziali vittime. Nell’ottica della prevenzione i soggetti scarcerati vengono inoltre valutati per l’eventuale proposizione della sorveglianza speciale”. “Il protocollo siglato - sottolinea invece la direttrice del carcere di Bergamo Teresa Mazzotta - rappresenta una forma di controllo e di monitoraggio importante, che si affianca ad un progetto rieducativo che stiamo avviando all’interno della casa circondariale, per i detenuti responsabili di maltrattamenti e stalking. L’intento è puntare al reinserimento sul territorio evitando che si ripetano situazioni di conflitto”. Varese. Una seconda chance per i detenuti: Don Riboldi ne parla a Gorla Maggiore di Sara Pasino malpensa24.it, 14 marzo 2021 “Una cooperativa nata proprio in Valle Olona per dare una possibilità di rinascita a persone che sono arrivate al capolinea della propria vita”. Così il cappellano del carcere di Busto Arsizio, don David Riboldi il prossimo mercoledì 17 marzo presenterà l’associazione La Valle di Ezechiele ai cittadini gorlesi per sensibilizzarli sul tema e intercettare aiuti in una serata dedicata al tema della “Carità all’opera”. “Siamo molto contenti di poter avere virtualmente con noi don David che ha fondato la Cooperativa La Valle di Ezechiele: una realtà da anni attiva sul territorio della Valle Olona, dove è appunto nata”, ha annunciato sui social il sindaco di Gorla Maggiore, Pietro Zappamiglio. Un annuncio arrivato da Facebook, proprio perché su questa piattaforma si svolgerà l’incontro, rigorosamente online, dal momento che da domani, lunedì 15 marzo, la Lombardia sarà in zona rossa. Una realtà a noi vicina - “Spesso pensiamo che i detenuti o le persone che hanno scontato delle pene in carcere siano una realtà molto lontana da noi. Ma non è così”, ha esordito don David Riboldi. “Pensandoci bene potremmo accorgerci che anche nelle nostre vite, nei nostri quartieri e paesi ci sono persone che stanno affrontando periodi difficili. È proprio a loro che si rivolge la nostra cooperativa”. Aiutateci ad aiutare - La Valle di Ezechiele, infatti, nasce con l’intento di dare una seconda possibilità a tutti coloro che sono in uscita dalla detenzione, cercando e offrendo opportunità di lavoro. “Speriamo che questo incontro in diretta possa aiutarvi a capire il bene che cerchiamo di fare e chissà, magari qualcuno vorrà unirsi a noi”, conclude il parroco, ringraziando l’amministrazione di Fare Comune per l’invito. La diretta si svolgerà mercoledì 17 marzo sulla pagina Facebook Pietro Zappamiglio Sindaco di Gorla Maggiore. Genova. Detenuto e laureato, da Marassi all’ateneo la vittoria di Roland di Valentina Evelli La Repubblica, 14 marzo 2021 “Sono entrato in carcere con un cellulare Nokia, quando sono uscito tutti usavano l’Iphone. Il tempo in cella rischia di fermarsi mentre il mondo va avanti”. Per Roland Barkaj, albanese di 36 anni, il tempo nel carcere di Marassi non si è mai fermato. Ha trascorso due anni tra lezioni ed esami e domani si laureerà in Relazioni Internazionali a Scienze Politiche. Sarà la prima laurea magistrale, e a distanza, per il Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Genova dopo la prima laurea triennale di un detenuto in storia, nel 2019. Roland domani si collegherà da casa, ora è agli arresti domiciliari, in attesa della sentenza della Corte di Cassazione. “Ha saputo investire il tempo in carcere e mantenere il contatto con la società esterna che per un detenuto è fondamentale”, spiega Massimo Roaro, dottore di ricerca in diritto e procedura penale, dal 2018 coordinatore dei tutor del Polo Universitario Penitenziario. Domani mattina Roland presenterà la tesi “La rivoluzione digitale nell’amministrazione pubblica e nel sistema penitenziario” in cui analizza proprio il sistema obsoleto delle comunicazioni tra realtà carceraria e mondo esterno. “Il Covid ha cambiato le regole dell’università anche dentro al carcere - continua il professor Roaro. Nell’aula di Marassi fino allo scorso anno i computer non erano collegati a internet per paura che i detenuti potessero riallacciare i contatti con l’esterno. Portavamo i materiali per lo studio su una chiavetta. Caricavamo anche Wikipedia da remoto”. Poi il lockdown ha sospeso tutto fino a giugno. Le lezioni non sono più riprese. Gli studenti seguono i corsi registrati ma ora nell’aula del carcere, possono connettersi su Google Meets per i ricevimenti anche in gruppi di cinque allievi, grazie a un poliziotto penitenziario che gestisce i collegamenti on line. E tra gli ultimi docenti a entrare in carcere lo scorso anno c’era anche Andrea Pirni, professore di Sociologia dello sviluppo che ha seguito Roland in questi mesi. “Dietro questa tesi c’è un anno di lavoro. Ho rincontrato Roland qualche volta in carcere e poi abbiamo continuato a distanza, su Skype - ricorda il docente - Ho ritrovato uno studente che mi aveva già chiesto di portarlo alla laurea cinque anni prima con una tesi già pronta, lo ricordavo appena. Mi ha colpito molto rincontrarlo lì, è una persona vivace dal punto di vista intellettuale, ha investito il tempo che aveva in una nuova sfida. E se subito ognuno era fermo sul proprio ruolo con il tempo il rapporto è cambiato, si è ammorbidito”. La vecchia tesi di Roland è stata cambiata completamente con un nuovo elaborato partendo dalla sua esperienza personale. E la storia di Roland non è un caso isolato. I detenuti iscritti al Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Genova, attivo dal 2016, attualmente sono 27 (venti a Marassi e sette a Pontedecimo) e un altro dottore è atteso per l’estate. Toccherà a Giacinto Pino, il boss di Soziglia, laurearsi in Scienze Politiche dell’Amministrazione. Dalla parte delle donne, contro stalking e femminicidi di Carlo Lucarelli La Repubblica, 14 marzo 2021 La lotta contro questi reati ha fatto passi avanti. Ma manca ancora una rivoluzione culturale. “C.C., di anni 23, è vittima di stalking da quando aveva 15 anni. Il suo persecutore, G.S., di anni 27, l’ha adocchiata nel 2009 e, non essendo mai stato corrisposto nei suoi sentimenti, l’ha pedinata, tormentata tramite i social network, le ha inviato migliaia di messaggi e decine di video a contenuto pornografico, l’ha continuamente ed esplicitamente minacciata di violenza sessuale e in alcune occasioni l’ha anche avvicinata fisicamente, con poco successo perché la giovane, ormai da 8 anni, è sempre e necessariamente scortata dal padre nei suoi spostamenti”. Ho la fortuna di fare tante cose e anche molto belle, e una di quelle che più mi piacciono è lavorare per la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati. Stanziamo dei fondi, molto in fretta, per aiutare chi si trova in difficoltà, con la logica che i risarcimenti arriveranno dopo tanti anni e l’assassino, per esempio, finirà in galera; ma intanto la moglie del tabaccaio ucciso in una rapina la spesa la deve fare fin dal giorno dopo. O la moglie vittima di violenza con i figli pagare l’affitto di un posto in cui stare. O i bambini resi orfani da un omicidio-suicidio affidati alla nonna avere una terapia di sostegno che costa un po’ di più. O, tutti, hanno bisogno anche solo di un segno di solidarietà. Così arrivano da parte dei sindaci richieste come quella di C.C., arrivataci nel 2017, che sto citando letteralmente. “In questi lunghi anni C. ha querelato più e più volte lo stalker, il quale è stato ripetutamente condannato. I periodi di effettiva detenzione sono stati molto ridotti in quanto, trattandosi di reati fin troppo dimostrati, il difensore ha sempre chiesto il rito abbreviato e questo ha assicurato uno sconto di pena. Nessun provvedimento giudiziario è mai riuscito a fermarlo. I divieti di avvicinamento sono sempre stati ignorati, tanto che le sentenze di condanna constatano l’incapacità di G. a riconoscere la gravità delle sue azioni e la sua pericolosità sociale”. Abbiamo fatto grandi passi dal punto di vista giudiziario e anche da quello della preparazione professionale delle forze dell’ordine nel campo della violenza di genere da quando non esistevano parole come femminicidio, e quello che poi sarebbe diventatato il reato di stalking si rarefaceva in una nebulosa di mi telefona, mi segue, mi minaccia a cui corrispondeva spesso un rassicurante cosa vuole che sia, gli passerà. Succede ancora, certo, e lo abbiamo visto anche di recente. Ma anche quando le cose funzionano bene, evidentemente ancora non basta. “Attualmente G.S. è detenuto in misura cautelare ma la sua scarcerazione è imminente. C.C. ha 23 anni e ha ancora paura”. Forse perché gli strumenti giudiziari e polizieschi, pur in una continua, necessaria e sempre più decisa evoluzione, non basteranno mai da soli se non esisterà anche una cultura della non-violenza di genere che parte prima di tutto dagli uomini. Forse. Alla fine, esaminato il caso di C.C., abbiamo stanziato dei fondi per aiutarla, come richiesto nell’istanza, a ricostruire la sua vita. All’estero. Per mettere più distanza possibile tra lei e G.S., evitando così un sicuro, prossimo, ennesimo femminicidio. E questa è una sconfitta di tutta la società, che fa di questa vicenda, anche se un po’ diversa da quelle che di solito narro qui, davvero una brutta storia. Migranti. Lamorgese ha bloccato più navi Ong di Salvini di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 14 marzo 2021 La ministra ha preferito il fermo amministrativo al sequestro: meno mediatico, più efficace. Durante il Conte 2 si è giunti allo stop in contemporanea di 7 battelli umanitari. L’ultimo rapporto dell’agenzia europea Frontex continua a stigmatizzarne il “ruolo vitale” nei flussi migratori del Mediterraneo centrale. E le Procure siciliane si sono rimesse in moto contro di loro. Di qua legalitarismo e realismo, di là umanitarismo e compassione, in mezzo accuse di interessi privati e speculazioni politiche: quella sulle navi Ong è una battaglia mai finita. Il bilancio - Anzi, grafici alla mano, si scopre che è stata ingaggiata più da Luciana Lamorgese che da Matteo Salvini, sia pure con mezzi diversi. Stando ai dati del ricercatore Matteo Villa dell’Ispi, durante la permanenza al Viminale della ministra nel governo Conte 2, si è arrivati al blocco contemporaneo di sette battelli delle Organizzazioni non governative tra il 9 ottobre e il 21 dicembre 2020 (Jugend Rettet, Sea Watch3, Sea Watch4, Eleonore, Alan Kurdi, Ocean Viking e Louise Michel); mentre nell’estate 2019, periodo di massimo attivismo in materia del leader leghista all’Interno, non si è mai andati oltre le quattro navi Ong ferme. L’ammiraglio in congedo Vittorio Alessandro, portavoce della Guardia Costiera al tempo dell’operazione Mare Nostrum, sostiene che “la linea di Salvini, da lui soltanto declamata, è stata pressoché rispettata anche dopo la conclusione del suo mandato al ministero”. Fermo amministrativo - Giusto o sbagliato che sia, un elemento balza agli occhi. Fino a settembre 2019 (data di nascita del Conte 2 con l’avvicendamento tra Salvini e Lamorgese) contro le navi umanitarie si usava il sequestro penale, derivante dall’imputazione di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (vigente il decreto Sicurezza 2). Dalla primavera 2020 in poi questa misura viene sostituita dal fermo amministrativo della nave, che tocca la Alan Kurdi e la Alta Mari a maggio-giugno, la Sea Watch3 e la Ocean Viking a luglio, la Sea Watch4 a settembre, di nuovo la Alan Kurdi e poi la Louise Michel a ottobre. È come se si passasse da una repressione politico-giudiziaria con Salvini a una dissuasione burocratica più serrata con Lamorgese. Un mutamento che potrebbe spiegarsi anche con i diversi profili: tutto mediatico Salvini, portato a enfatizzare a uso tv i blocchi in mare; tutta tecnica Lamorgese, incline alla sordina delle prefetture e delle capitanerie di porto. La ministra, rimasta al suo posto pure con Draghi anche grazie all’apprezzamento del Quirinale, da settembre 2019 si è trovata nella necessità di raffreddare un terreno arroventato. E, durante il Conte 2, di conciliare le istanze di una sinistra decisa a cancellare la policy leghista con quelle dei Cinque stelle assai riottosi a farlo, avendovi contribuito non poco da alleati. Con Salvini, inoltre, le Ong sono rimaste attive in mare 67 giorni e hanno atteso 263 giorni davanti alle coste italiane l’assegnazione di un Pos (un posto di sbarco sicuro); con Lamorgese sono state in mare 289 giorni e sono rimaste in attesa di Pos per 157 giorni. Non sarebbe onesto non marcare le differenze. I diritti - Nonostante ciò, la ministra non è molto più amata del suo predecessore da chi si batte ogni giorno per strappare al mare i profughi. E l’uso del fermo amministrativo è molto controverso. Il provvedimento si regge di volta in volta sulla contestazione di irregolarità tecniche, trattando i battelli umanitari alla stregua di navi commerciali: “Come se il comandante di una nave impegnata in ricerca e soccorso potesse decidere a un certo punto di interrompere le attività di salvataggio perché a bordo non si trovano in misura adeguata giubbetti salvagente, servizi igienici con scarichi a norma o zattere preinstallate con gli attacchi omologati a un numero di persone corrispondente a quello dei naufraghi...”, osserva l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo, di Adif (Associazione diritti e frontiere). Il Tar siciliano ha appena accolto l’istanza dei legali di un’altra associazione immigrazionista, l’Asgi, per la sospensiva cautelare del fermo amministrativo di Sea Watch4. Ma se vacilla la strategia burocratica, torna in auge quella giudiziaria. Le immagini allegate dalla Procura di Trapani al fascicolo di chiusura indagine sulla nave Vos Hestia, con scafisti che picchiano i migranti davanti ai volontari e poi se ne vanno tranquilli a spasso per il porto di Reggio Calabria, sembrano raccontare un rapporto di contiguità che può sconfinare nella sudditanza. Ed è inquietante l’accusa della Procura di Ragusa contro Mare Jonio: avere incassato soldi per prendere a bordo profughi dalla petroliera Etienne. Teste a Catania per il caso Gregoretti che vede Salvini imputato, la ministra Lamorgese ha spiegato come le navi umanitarie in acque libiche non tornino subito indietro a ogni soccorso, “a volte si fermano anche tre o quattro giorni per recuperare il più possibile quelli che sono in difficoltà”. Le archiviazioni - Una dichiarazione neutra, che ha però ridato la stura alla narrazione dei “taxi del mare”, nata con Luigi Di Maio quando il procuratore catanese Carmelo Zuccaro puntava l’indice contro i volontari nelle indagini e nei talk show. Attendendo i processi, va preso atto, per ora, delle professioni di innocenza delle Ong coinvolte, che parlano di “nuove campagne di fango”: ricordando che, di una ventina di inchieste aperte negli anni, cinque sono state archiviate e nessuna ha mai prodotto finora una condanna. È anche vero, tuttavia, che il pull factor, il fattore di traino che le navi avrebbero sulle partenze dalla Libia, inesistente secondo l’Ispi tra gennaio 2019 e luglio 2020 (56 partenze al giorno con le Ong in mare e 55 senza), si è fatto sentire a gennaio e febbraio di quest’anno: con 150 partenze giornaliere contro 50, a seconda della presenza delle navi, benché sia presto per valutare il trend. Marco Minniti, che da ministro pd riuscì ad abbattere gli sbarchi quasi dell’80% tra giugno 2017 e giugno 2018 tramite i pur contestati accordi con le tribù libiche, ora si occupa di Mediterraneo, Africa e Medio Oriente dalla fondazione Med-or di Leonardo. Sostiene che bisogna allargare lo sguardo, “l’immigrazione è un pezzo del piano di ricostruzione della Libia” per il quale l’Europa dovrebbe stanziare “due miliardi subito”. In questo quadro, anche il ruolo delle Ong potrebbe tornare a ridursi: se Mare Nostrum salvò l’onore dell’Italia, navi Ue davanti alle coste libiche potrebbero almeno rammendare quello dell’Europa. Migranti. Un miliardo di euro per il “muro” italiano in Africa. Inefficace e brutale di Luca Liverani Avvenire, 14 marzo 2021 Rapporto di ActionAid: in 5 anni l’Italia ha speso 1,33 mld per bloccare rotte e respingere, solo 15 milioni (1,3%) per vie legali d’accesso. “Nulla sul ruolo di multinazionali, land-grabbing, armi”. Un fiume di soldi pubblici, italiani ed europei, per sbarrare le rotte migratorie in Africa e attrezzare polizie e milizie al contrasto e alla cattura dei migranti. Una fetta minore per progetti di cooperazione allo sviluppo, non sempre verificati nella loro l’efficacia. Briciole per gestire vie legali di ingresso. Tra il 2025 e il 2020 l’Italia ha stanziato 1 miliardo e 337 milioni di euro per azioni esterne di politica migratoria in 25 paesi africani, finalizzate a fermare i flussi in entrata. Il 70% per il contrasto, l’1,3% per gli ingressi legali. Politiche fortemente sbilanciate su un approccio securitario, che non solo risulta poco efficace, ma fortemente lesivo dei diritti delle persone. È l’analisi che emerge dall’inchiesta di ActionAid, l’organizzazione internazionale impegnata nel contrasto della povertà e per lo sviluppo. Lo studio, intitolato The Big Wall (il grande muro) per la prima volta cerca di quantificare la spesa complessiva italiana per il contrasto all’immigrazione. Tra gennaio 2015 e novembre 2020 i ricercatori hanno rintracciato 317 linee di finanziamento gestite dall’Italia con fondi propri, 791 milioni, ed europei, altri 545. Come sono stati spesi? La metà, 666 milioni per controllare le frontiere esterne, 142 per lottare contro il traffico di migranti, 64 per rimpatri. Poi 146 per sostenere gli stati partner, 194 per alternative economiche nei paesi africani, 92 per proteggere migranti e rifugiati, 14 per sensibilizzare sui rischi delle migrazioni irregolari. Solo 15 per creare vie legali per raggiungere l’Italia. “Ci sono satelliti, droni, navi, progetti di cooperazione, posti di polizia, voli di rimpatrio, centri di formazione. Sono mattoni di un muro invisibile ma tangibile - si legge nella ricerca di ActionAid - e spesso violento. Innalzato dal 2015 in poi, grazie a oltre un miliardo di denaro pubblico, con un unico obiettivo: azzerare quei movimenti via mare, dal Nord Africa all’Italia, che nel 2015 avevano fatto gridare alla crisi dei rifugiati”. Un muro poco efficace, ma costosissimo. Nel quinquennio esaminato abbiamo speso 210 milioni di euro solo in Libia, dove sono documentate violenze sistematiche da parte delle milizie attrezzate con i soldi dei contribuenti italiani, e poi 99 in Niger, 57 in Sudan, 54 in Etiopia, 40 in Senegal, altrettanti in Tunisia. E decine e decine di milioni in altri 19 paesi africani. Il risultato? Almeno 13 mila morti affogati nella traversata, altri 523 mila arrivati via mare. Senza contare le migliaia di persone torturate e morte nei centri di detenzione libici. Le scelte politiche in Libia, avviate dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, sono il caso più eclatante. “Si cercava un risultato immediato e si è perso di vista il quadro generale, sacrificando la pace sull’altare della lotta alle migrazioni, quando la Libia era in pezzi, nelle mani delle milizie che ci tenevano in ostaggio”, è l’analisi dell’ex viceministro degli Esteri Mario Giro. L’attivista libica Marmwa Mohamed sottolinea che fondi e interventi “erogati senza nessuna reale clausola di rispetto dei diritti umani, hanno frammentato ancora di più il Paese, perché intercettati dalle stesse milizie che gestiscono sia il traffico dei migranti che i centri di detenzione, come quella di Abd el-Rahman al-Milad, noto come “al-Bija”. Niente clausole sui diritti umani nei finanziamenti al contrasto delle migrazioni irregolari, dunque. Ma nemmeno sull’effettiva riduzione delle partenze nei progetti di cooperazione allo sviluppo. In un singolo programma finalizzato alla riduzione della migrazione dall’Etiopia, ad esempio, da 19,8 milioni di euro, secondo i ricercatori non “appare nessun indicatore dei risultati attesi”. Insomma, “si ammette implicitamente che non c’è modo di verificare che quell’obiettivo sia raggiunto. Che cioè il giovane formato per l’avvio di una micro-impresa nella zona di Wollo, per esempio, sia un migrante in meno”. In tutto ciò manca il minimo tentativo di incidere sulle cause profonde e strutturali della povertà. Bram Fouws, direttore del Mixed migration center, sottolinea come in questa dispendiosa e disinvolta strategia italiana non si mettano mai in discussione, ad esempio, gli accordi internazionali per la pesca che danneggiano le comunità locali, né tantomeno quelli di accaparramento di terre da parte di speculatori (il landgrabbing delle multinazionali, ndr), di grandi opere o di corruzione e di vendita di armi, ma di una generica vulnerabilità economica e della scarsa stabilità degli stati. Alzare muri dunque non arresta le migrazioni, sostiene la ricerca, ma le rende ingestibili e pericolose. Un esempio? Nel 2007 l’Italia emanò un Decreto flussi da 340 mila visti d’ingresso legali, per metà stagionali. Nessuno o quasi gridò all’”invasione”. Dieci anni dopo quei visti per lavoro erano stati ridotti drasticamente a 30 mila, mentre dal Mediterraneo arrivarono 119 mila persone, un numero che sembrò spropositato, quando era circa un terzo del Decreto flussi di qualche anno prima. I demografi da anni ripetono che l’Italia in crisi di nascite ha bisogno di forze giovani. “Per decenni il Giappone ha avuto politiche migratorie molto restrittive - spiega Helen Dempster, economista del Center for global Development - ma negli ultimi anni si è reso conto che, con il suo tasso d’invecchiamento, presto non avrà più persone per svolgere lavori fondamentali, pagare le tasse e quindi finanziare le pensioni”. E dall’aprile 2019 ha iniziato ad accettare domande di visto per lavoro, sperando di attirare 500 mila lavoratori stranieri. Usa, emergenza migranti al confine con il Messico: Biden mobilita la protezione civile di Federico Rampini La Repubblica, 14 marzo 2021 E i repubblicani attaccano il presidente: “Ha istigato il boom degli arrivi”. Si aggrava la crisi al confine col Messico e Joe Biden mobilita la protezione civile per occuparsi degli immigrati minorenni arrestati. L’emergenza migratoria apre un altro fronte per la nuova Amministrazione democratica alle prese con il Covid. Diventa anche un caso politico: l’opposizione repubblicana accusa il presidente di avere istigato il boom negli arrivi, con l’annuncio di un disegno di legge per una sanatoria degli immigrati senza permesso di soggiorno che sono già sul territorio degli Stati Uniti. Da due mesi si registra un crescendo negli ingressi dal Messico, e in parallelo continuano ad aumentare gli arresti effettuati dalla polizia di frontiera. Nel mese di febbraio sono stati arrestati centomila immigrati subito dopo aver attraversato il confine, e si stima che a marzo il numero raggiungerà i 130.000. In certi casi si tratta di minori che passano la frontiera senza i genitori, solo negli ultimi giorni ne sono stati arrestati 700. Un forte afflusso accadde durante l’Amministrazione Obama-Biden nel 2014 e fu allora che vennero creati centri di detenzione per minori in alcune basi militari vicine al confine. In seguito la prassi della separazione dei minorenni venne portata avanti durante l’Amministrazione Trump e fu contestata dai democratici. L’intervento della protezione civile può servire a creare nuovi centri sotto la gestione di personale civile. La pandemia ha ulteriormente complicato la situazione al confine: da un lato le restrizioni sanitarie hanno aumentato i respingimenti alla frontiera, d’altro lato il contagio si diffonde nei centri di detenzione affollati. La legge impone di assegnare entro 90 giorni un “tutore” ai minorenni arrestati, ma non sempre si riesce a rintracciare un genitore o altro parente. L’emergenza è acuta soprattutto al confine fra Messico e Texas nella Valle del Rio Grande. Il governatore repubblicano del Texas Greg Abbott è in prima linea nel contestare la sanatoria proposta da Biden. Il boom d’ingressi clandestini è stato denunciato anche da Donald Trump, e può diventare uno dei temi della campagna elettorale in vista delle prossime legislative di mid-term (novembre 2022) dove la destra punta a riconquistare la maggioranza in uno dei rami del Congresso.