Viaggio nelle sezioni di Alta sicurezza, dove prevale il rischio discriminazioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 marzo 2021 Il rapporto del Garante nazionale rivela la diversità dei ristretti nelle sezioni di Alta sicurezza: dagli integralisti islamici fino ad antagonisti e anarchici. Può accadere che un detenuto appartenente all’area dell’antagonismo di tipo anarchico, si ritrova ad essere l’unica presenza della sezione dell’Alta sicurezza (AS2) in un contesto di stretta osservanza religiosa e culturale di matrice islamica. Inevitabile l’impossibilità concreta di qualsiasi attività diversa dal rimanere chiusa nella propria stanza. Al contrario è accaduto che una detenuta di religione islamica è stata reclusa con giovani donne che rendevano continuamente manifesto il proprio rifiuto di ogni forma religiosa anche nel linguaggio. La vivibilità complessiva, per ovvie ragioni, era impossibile. In tali sezioni di Alta sicurezza As2 “miste”, in pratica, vi sono persone con matrici culturali, contesti di riferimento, posizioni giuridiche profondamente diverse, inclusa la provenienza da Paesi profondamente differenti anche sotto il profilo della espressione religiosa. Un coacervo di situazioni estremamente diversificate che ben poco hanno in comune. Il problema, ai nostri giorni, è diventato ancora più palpabile. Il rapporto tematico del Garante nazionale - Lo rivela il rapporto tematico del garante nazionale delle persone private della libertà dedicato alle sezioni di Alta Sicurezza 2 (AS2). Il collegio del Garante ha visitato tutte quelle Sezioni del sotto-circuito di As2 che sono attualmente caratterizzate dalla diversità delle categorie delle persone ristrette, relativamente al contesto del reato commesso. In particolare, nelle sezioni di Alta sicurezza oggetto di visita sono compresenti persone detenute per reati commessi nel contesto delle azioni armate degli anni Settanta e Ottanta, persone detenute perché imputate o condannate per reati inquadrabili nel complessivo fenomeno del terrorismo internazionale legato a integralismo religioso e persone prevalentemente imputate e in alcuni casi condannate per recenti azioni di antagonismo politico anche di tipo anarchico. Le sezioni di Alta sicurezza prevedono tre sotto-circuiti - Come premette il rapporto, com’è noto le sezioni del circuito di Alta sicurezza sono state istituite con il “compito di gestire i detenuti e gli internati di spiccata pericolosità, prevedendo al proprio interno, tre differenti sotto-circuiti con medesime garanzie di sicurezza e opportunità trattamentali”. Esse sono definite con un Atto amministrativo e non con una norma di carattere primario. La decisione di prevedere tre sotto-circuiti nasce, nel 2009, dall’esigenza, specificata nella citata circolare, di rispondere alla eterogeneità dovuta alle differenti connotazioni di natura criminale alla base della presenza delle persone nell’allora circuito “Elevato indice di vigilanza” (Eiv), da quel momento sostituito dal circuito As. Il Garante denuncia la promiscuità e la impossibilità di ipotesi trattamentali - La previsione di ben tre sotto-circuiti, pertanto, originariamente risponde proprio all’esigenza di differenziazione, “garantendo che la popolazione carceraria sia suddivisa per categorie omogenee”. Tale differenziazione consente di finalizzare meglio il percorso rieducativo sulla base di un’azione mirata per ciascuna categoria. Ma questo sulla carta. In realtà il Garante denuncia che ciò è stato ignorato “da chi ha di fatto determinato, con successivi trasferimenti, la costituzione di un sotto-circuito solo formalmente omogeneo, ma in realtà caratterizzato da differenze del profilo criminale delle azioni compiute, del loro contesto e dei tempi di attuazione che rendono inesistente non solo un trattamento orientato, ma anche la stessa ipotesi trattamentale”. In particolare, le persone detenute nel sotto-circuito As2, nei quattro casi esaminati a Roma-Rebibbia Femminile, Rossano Calabro, Terni e Ferrara, sono detenute in relazione a reati legati a tre diversi macro-fenomeni: quello del radicalismo violento di matrice islamica, quello dell’antagonismo politico anche di tipo anarchico e quello residuale dei movimenti armati degli anni Settanta e Ottanta. “Tale disomogeneità rende vago ogni riferimento a possibili percorsi di reinserimento”, osserva il Garante nel rapporto. Ma per capire bisogna fare degli esempi. Esempi di convivenza inopportuni - Il rapporto tematico parla della situazione a Rossano Calabro dove una persona è stata nei mesi scorsi assegnata a una sezione del sotto-circuito As2 a connotazione quasi esclusiva di radicalismo islamico, senza alcuna attenzione alla possibilità di un percorso trattamentale, al proseguimento di esperienza avviata nel precedente Istituto e in ben scarsa considerazione di problemi di incolumità personale. Altre volte la compresenza di persone appartenenti a contesti così distanti è inopportuna dal punto di vista della complessiva costruzione di una responsabilità rispetto al reato: in un altro Istituto, accanto a sette protagonisti della lotta armata di un tempo erano stati collocati un giovane antagonista contemporaneo e un militante di conflitti armati nel contesto balcanico. Secondo il Garante la vivibilità in questo caso era buona, l’inopportunità era evidente. Tutti esempi che evidenziano come si determini un microcosmo detentivo (le sezioni visitate dal Garante Nazionale ospitavano da un minimo di 6 a un massimo di 17 persone), separato dal resto dell’Istituto e da ogni praticabilità di obiettivi diversi dal trascorrere il tempo, segnando oltretutto una disparità di trattamento rispetto alle altre sezioni. Per il Garante, sono sostanzialmente tre i rischi che comporta tale situazione: la discriminazione, la mancanza di prospettive trattamentali e la penalizzazione delle minoranze. Rapporto Antigone: in quasi tutte le carceri niente spazi per i culti diversi da quello cattolico di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 marzo 2021 Nel XVII rapporto dell’associazione Antigone uno dei capitoli è dedicato proprio agli istituti dove non vi sono luoghi per i riti dei culti non cattolici. Negli 79,5% degli istituti monitorati da Antigone nel corso dell’ultimo anno non era presente alcuno spazio dedicato esclusivamente alla celebrazione di culti diversi da quello cattolico. In tutti gli istituti visitati (e anche in quelli non visitati) erano invece presenti degli spazi appositi per la celebrazione del culto cattolico. Ciò avviene nonostante l’ultimo censimento sulle appartenenze religiose delle persone detenute pubblicato dall’Amministrazione penitenziaria (risalente al 2016) mostri come “solo” il 54% della popolazione detenuta sia cattolica (almeno nel 2016). Parliamo di uno dei capitoli del XVII rapporto dell’associazione Antigone sulle carceri dal nome “Oltre il virus”. Si apprende che, laddove non vi sono luoghi per i riti dei culti non cattolici, nella maggior parte le preghiere si svolgono in cella. Alcuni istituti trovano soluzioni alternative: all’istituto “Panzera” di Reggio Calabria, ad esempio, i detenuti di fedi diverse da quella cattolica si riuniscono nelle aule scolastiche o in quelle dedicate ad altre attività trattamentali. A Cassino si ritrovano in un’aula dedicata ai colloqui, mentre a Frosinone nelle stanze in cui si svolgono i colloqui con i difensori e gli operatori. A Perugia i detenuti musulmani pregano a volte nello spazio antistante al cortile, mentre a Verona lo fanno nella cappella cattolica. A Ravenna ciò avviene nel corridoio adiacente alle aule scolastiche, mentre a Belluno nella sala polivalente. A Spoleto, ultimo esempio citato nel rapporto di Antigone, viene messa a disposizione la biblioteca, ma solo per le pratiche buddiste. Nel 68% degli istituti presenti ministri di culto diversi - La situazione è migliore se si guarda alla presenza dei ministri di culto. Nel 68% degli istituti visitati da Antigone erano infatti presenti ministri di culto diversi da quello cattolico. I cappellani cattolici (i quali sono dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria) erano presenti in tutti gli istituti visitati (secondo gli ultimi dati pubblicati dal Dap sono 314, distribuiti tra i circa 190 istituti penitenziari). Se i cappellani dipendono direttamente dal Dap, gli altri ministri di culto entrano in istituto in virtù di convenzioni apposite (come il protocollo siglato dall’Amministrazione con l’Unione delle Comunità Islamiche Italiane) o in quanto volontari, senza alcuna remunerazione e spesso su esplicita richiesta dei detenuti.Quella di Antigone è una fotografia che mostra come sia necessario da un lato prevedere maggiori spazi per i detenuti dei culti non cattolici, e dall’altro implementare la presenza di altri ministri di culto, di cui andrebbe rafforzato lo statuto. Rivolte nelle carceri e torture: tutti i fronti aperti di Rosita Rijtano lavialibera.libera.it, 13 marzo 2021 Quattro i procedimenti che riguardano violenze successive alle rivolte esplose un anno fa. Indagini anche su episodi avvenuti tra il 2017 e il 2020 a Torino, Monza e Palermo. Ore 3.30 del mattino, sezione di alta sicurezza del carcere di Melfi. Un gruppo di agenti di polizia penitenziaria entra nelle celle, ammanetta i detenuti, li fa inginocchiare e li picchia. Usa i manganelli e mira alla testa e al volto. Alle botte si affiancano insulti e sputi. Violenze e umiliazioni che per almeno 70 reclusi continueranno anche durante il trasferimento in un altro istituto, dove alcuni di loro saranno costretti a sottoscrivere delle dichiarazioni in cui si dice che ferite ed ematomi sono stati causati da una caduta accidentale. È la notte tra il 16 e il 17 marzo 2020, sono passati sette giorni dalla rivolta che ha scosso il penitenziario ed è culminata con il sequestro di nove persone, tra poliziotti e operatori sanitari. Un lasso di tempo troppo lungo per legittimare l’operato delle forze dell’ordine, denuncia l’associazione Antigone che nel suo XVII rapporto fa il punto su tutti i procedimenti penali aperti che hanno per oggetto presunti episodi di tortura avvenuti nelle carceri italiane. Quattro sono legati alle sommosse che un anno fa sono esplose in 21 istituti di pena. Bilancio di una rivolta collettiva - La miccia viene accesa il 7 marzo in Campania ma la bomba scoppia il giorno dopo a Modena e l’onda d’urto si propaga in tutta Italia. Una rivolta collettiva che ha causato 20 milioni di euro di danni, il ferimento di 80 agenti, e soprattutto la morte di 13 detenuti: uno a Bologna, tre a Rieti, cinque a Modena e altri quattro, trasferiti da Modena, a Verona, Parma, Alessandria e Ascoli Piceno. Le autopsie legano tutti i decessi a un’overdose da metadone o da benzodiazepine, saccheggiati durante l’assalto alle infermerie degli istituti penitenziari, ma molti rimangono i punti da chiarire. Parlando in commissione parlamentare antimafia, il capo dell’amministrazione penitenziaria Dino Petralia ha definito le proteste “terribili”. La magistratura sta ancora indagando su un’eventuale regia criminale esterna. Ma per le associazioni a tutela dei diritti dei detenuti a giocare un ruolo decisivo sarebbe stata la decisione di sospendere i colloqui per prevenire i contagi da Covid-19, non accompagnata da un’adeguata comunicazione. Di una componente psicologica dietro le proteste ha parlato anche il garante dei detenuti Mauro Palma: l’assenza di notizie chiare, la mancanza del supporto della famiglia, nonché la paura di un contagio considerato il tasso di sovraffollamento al 120 percento e le scarse condizioni igienico-sanitarie degli istituti penitenziari, avrebbero alimentato un malessere preesistente e innescato le violenti sommosse. A cui, in alcuni casi, hanno fatto seguito quelle che sembrano spedizioni punitive. Stando agli esposti di Antigone, che lavialibera ha potuto visionare, oltre a Melfi sarebbe successo a Santa Maria Capua Vetere, Milano, e Pavia. Più complesso il quadro al Sant’Anna di Modena, dove pure le violenze ci sono state, denunciano i detenuti. In cinque dicono di aver assistito al pestaggio di reclusi “in palese stato di alterazione psicofisica dovuta al presunto abuso di farmaci”. Poi di essere stati ammanettati e picchiati “selvaggiamente e ripetutamente” nel carcere di Modena, durante il viaggio che li ha portati ad Ascoli Piceno, e infine una volta arrivati a destinazione. Le indagini sono in corso e “se sia configurabile come reato di tortura si capirà solo più avanti, visto che la legge penitenziaria prevede l’utilizzo della forza quando è indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza”, precisa Simona Filippi, legale dell’associazione. Reato di tortura: introduzione, prime condanne e fronti aperti Il reato di tortura è stato introdotto nel nostro ordinamento nel 2017, dopo un iter travagliato durato quattro anni. Il provvedimento, frutto della sintesi di 11 diverse proposte di legge, ha diviso le forze politiche: promotore ne è stato il Partito democratico, che si è scontrato con l’opposizione della destra. In primis di Lega e Fratelli d’Italia che hanno giudicato la legge punitiva nei confronti delle forze dell’ordine, nonché limitante per il loro operato. La norma prevede la reclusione da quattro a dieci anni per chiunque, con violenze o minacce gravi o con crudeltà, provochi a una persona privata della libertà o affidata alla sua custodia “sofferenze fisiche acute” o un trauma psichico verificabile. La pena sale da cinque a 12 anni se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. Nel 2021 ci sono state le prime sentenze per gli agenti penitenziari: il 15 gennaio un poliziotto è stato condannato a tre anni di reclusione per aver ammanettato e pestato un detenuto dopo averlo costretto a inginocchiarsi durante una perquisizione. Il 17 febbraio è stata la volta di dieci agenti responsabili di un “brutale pestaggio” a San Gimignano che ha avuto per vittima un tunisino. I fronti aperti rimangono sette. A Torino si indaga per tortura su 25 poliziotti, accusati di decine di episodi di violenza avvenuti nel 2017. A Monza sono in cinque a dover rispondere di un’aggressione nel corridoio dell’istituto. A Palermo un detenuto ha denunciato di essere stato vittima di un pestaggio al suo arrivo in carcere. Poi ci sono le azioni post rivolte. Gli esposti di Santa Maria Capua Vetere raccontano di un pestaggio di massa ad opera di una squadra di circa 300 agenti che ha fatto ingresso in una sezione del carcere in tenuta anti-sommossa. Il tutto sarebbe avvenuto il giorno dopo una protesta causata dalla notizia della positività al Covid-19 di un detenuto. Una protesta che sembra sia stata pacifica, senza feriti né danni. Il 5 aprile 2020 i detenuti hanno occupato la sezione, bloccando l’ingresso con delle brande, e hanno chiesto adeguati dispositivi di protezione anti-contagio: mascherine, guanti e igienizzanti. L’indomani, quando la situazione era ormai tornata alla normalità e si era conclusa la visita del magistrato di sorveglianza Marco Puglia, è avvenuta l’irruzione della truppa punitiva. Erano circa le cinque del pomeriggio e i reclusi sono stati colti di sorpresa nelle celle da uomini con il volto coperto e guanti alle mani: fatti spogliare, hanno incassato calci, pugni e manganellate. Il massacro è proseguito nei corridoi, dove chi fuggiva veniva pestato con ancor più violenza. Come umiliazione finale, in molti sarebbero stati costretti a rasare a zero barba e capelli. Una brutalità documentata dai video delle telecamere di sorveglianza, ora agli atti dell’inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere. Non solo: nei giorni successivi alla rappresaglia, ad alcune vittime sarebbe stato impedito di parlare con i familiari e altre sarebbero state minacciate di ritorsioni in caso di denuncia. Botte e imposizione del silenzio ricorrono anche a Pavia, dove i detenuti sarebbero stati lasciati senza cibo, e a Milano, dove a un primo intervento fatto per fermare la rivolta ne è seguito un altro definito “puramente punitivo”: preceduti “dall’interruzione dell’illuminazione”, gli agenti sarebbero entrati nelle celle e avrebbero colpito pure chi non aveva partecipato alla rivolta. Un discorso a parte merita quanto avvenuto al Sant’Anna di Modena, dove i procedimenti in corso sono tre. Uno riguarda le violenze commesse dai detenuti, un altro la morte di nove reclusi: cinque al Sant’Anna e altri quattro nelle carceri in cui sono stati trasferiti subito dopo i tafferugli. Il terzo filone di inchiesta nasce dall’esposto di cinque detenuti che denunciano sia le violenze sia l’omissione di soccorso nei confronti di Salvatore Piscitelli, 40enne poi morto nell’istituto di Ascoli Piceno. Nei giorni scorsi è stata chiesta l’archiviazione dell’indagine per omicidio colposo che riguarda otto dei nove morti. Viene escluso il decesso di Piscitelli, il cui procedimento è stato rimandato ad Ascoli. Sul suo caso pesa quanto raccontato dai reclusi che parlano di una persona “brutalmente picchiata” sia a Modena sia durante il trasferimento, e arrivata ad Ascoli in “evidente stato di alterazione da farmaci, tanto da non riuscire a camminare e da dover essere sorretto da altri detenuti”. “Era visibile a chiunque la sua condizione di overdose da farmaci”, scrivono nell’esposto, aggiungendo che: “Tutti ci chiedemmo come mai il dirigente sanitario o il medico che ci aveva visitato all’ingresso (del carcere di Ascoli, ndr) non ne avesse disposto l’immediato ricovero in ospedale”. Agli agenti sarebbe stato chiesto più volte di intervenire: appelli caduti nel vuoto. Piscitelli è stato trovato morto sulla sua brandina la mattina del nove marzo. Per quel che riguarda gli altri otto deceduti - stando alla ricostruzione di Repubblica, che ha avuto modo di leggere la richiesta - i procuratori sostengono che “polizia penitenziaria, medici e infermieri della struttura e sanitari del 118 avrebbero fatto del loro meglio per soccorrere, assistere e curare ‘tutti’ i detenuti. E se qualche smagliatura ci fu, quella domenica e nella notte successiva, lo si dovrebbe ‘solo’ all’eccezionalità della situazione, alle condizioni di caos e di emergenza, alle limitazioni imposte dal Covid. Discorso analogo per il personale dei penitenziari di Parma, Alessandria e Verona”. Ma “queste persone non dovevano essere trasferite, bensì ricoverate e curate in un pronto soccorso”, ribatte Filippi che per Antigone ha già presentato opposizione alla richiesta di archiviazione, come faranno altre associazioni e i legali dei detenuti. “Questo è il cuore della vicenda, tanto più visto che la legge penitenziaria impone l’ok sanitario di un medico per effettuare un trasferimento: in genere viaggi di molte ore, in cui i detenuti sono ammanettati e stipati all’interno delle camionette. Una condizione insostenibile in stato di palese overdose”. Il rispetto o meno di sottoporre i reclusi trasferiti a visita medica è un punto centrale della storia. La procura sostiene che la visita c’è stata, ma per via dello scenario “estremamente complesso” non è stato possibile registrare tutto: non è rimasta alcuna prova degli accertamenti sulle condizioni di salute effettuati nelle prime ore, così come non esistono nulla osta sanitari scritti per i trasferimenti. Ma non è la sola incongruenza. La giornalista Lorenza Pleuteri ricorda che dopo un primo esame dei cadaveri, fonti istituzionali dissero che sui corpi non erano presenti segni di ferite. Invece delle lesioni sono state trovate, anche se - assicurano - non hanno avuto alcuna influenza sui decessi, avvenuti per overdose. “Ci sono troppi lati oscuri, troppe domande rimaste senza risposte”, dice Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha. Quanti medici sono stati impiegati per visitare gli oltre 400 detenuti trasferiti? I reclusi deceduti potevano viaggiare? Perché non sono stati portati in ospedale?, sono alcune delle questioni irrisolte. La ricerca della verità è resa ancora più complessa dal fatto che la maggior parte dei morti ha origine straniera e i parenti fuori dall’Italia. Forse alcuni non conoscono nemmeno il destino toccato al loro familiare. Luca Sebastiani, avvocato di uno dei deceduti, il tunisino Hafedh Chouchane, racconta di essere stato lui ad avvisare il padre del ragazzo. Per giorni, i morti non hanno avuto un volto. “Il silenzio sull’identità ci ha fatto subito sospettare che si trattasse prevalentemente di migranti”, prosegue Berardi aggiungendo che nel carcere “si ripropongono in scala le stesse dinamiche della società libera e il razzismo è elemento, purtroppo, diffuso anche tra le forze dell’ordine che godono di una certa protezione politica. Il certificato di morte per metadone di queste persone è come se fosse stato redatto prima ancora dell’esecuzione dell’autopsia”. Oggi delle 13 vittime delle rivolte, uno dei capitoli più bui della storia penitenziaria italiana, sappiamo solo qualcosa di più dei loro nomi: Carlos Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri, Salvatore Piscitelli, Ante Culic, Hafedh Chouchane, Erial Ahmadi, Slim Agrebi, Ali Bakili, Lofti Ben Mesmia, Abdellah Rouan, Artur Iuzu, Ghazi Hadidi, e Marco Boattini. Carceri, più funzionari giuridici-pedagogici: salgono da 95 a 210 i posti a concorso agenzianova.com, 13 marzo 2021 Aumentano da 95 a 210 i posti messi a concorso dal ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per il profilo professionale di funzionario giuridico-pedagogico. Lo ha stabilito un decreto firmato oggi dal direttore generale del personale e delle risorse, Massimo Parisi, che eleva la disponibilità di posti previsti nel bando pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale numero 42 del 29 maggio 2020 per il suddetto profilo di personale appartenente al comparto Funzioni centrali. Al tempo stesso e considerate anche le oltre 30mila domande pervenute all’Amministrazione per partecipare alle prove preselettive, è stato innalzato da 500 a 1.000 il numero dei candidati che saranno ammessi a sostenere le prove scritte. Il provvedimento si inserisce nel solco di una precisa volontà espressa dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e sostenuta dal Capo del Dap, Bernardo Petralia, di rinforzare l’organico del personale che quotidianamente affianca i detenuti nel loro percorso trattamentale volto al reinserimento nella società, nonché di potenziare le risorse di personale sfruttando tutte le possibilità di assunzione previste dalla legge mediante lo strumento concorsuale. Cartabia: “Sul digitale più fondi per eliminare le disfunzioni” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2021 La ministra promette investimenti, ma i penalisti scioperano. Più investimenti in arrivo per la giustizia digitale, eliminando le difficoltà contestate dai penalisti, che ieri hanno condotto le Camere penali a proclamare l’astensione dalle udienze dal 29 al 31 marzo. Questo il messaggio della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, al primo Festival della giustizia organizzato da Aiga e 4CLegal con la media partnership del Sole 24 Ore e dedicato proprio al tema della digitalizzazione. “Con il processo telematico e con più tecnologia - ha sottolineato Cartabia - anche per il sistema penitenziario, con più investimenti anche nel comparto digitale contiamo anche di migliorare le disfunzioni che persistono nel portale telematico di deposito degli atti”. Gonfi Recovery plan, ha spiegato la ministra la giustizia avrà “un volto nuovo” e sarà “più efficiente e vicina alle esigenze degli operatori e dei cittadini. Questo governo - ha aggiunto - è impegnato innanzitutto nella grande sfida del Recovery plan, pensando proprio alle nuove generazioni. E nella sezione dedicata alla Giustizia, dentro il grande cantiere del Recovery, un capitolo importante è riservato proprio al tema di questo Festival: la digitalizzazione. L’utilizzo degli strumenti informatici si è rivelato fondamentale nella pandemia e continuerà a esserlo, per dare un volto nuovo alla giustizia che cerchiamo di rendere più efficiente e vicina alle esigenze degli operatori e dei cittadini”. Enfasi sul digitale che, per Cartabia, non dovrà però fare dimenticare la necessità della conservazione di momenti di confronto diretto tra le parti nelle diverse fasi processuali. Tra gli interventi quelli degli ex ministri della Giustizia, Alfonso Bonafede e Angelino Alfano, la lezione magistrale di Luciano Violante e più tavole rotonde che hanno visto coinvolti i vertici della magistratura, con il primo presidente della Corte di cassazione, Pietro Curzio, il suo predecessore Giovanni Canzio e il presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, oltre a rappresentanti dell’avvocatura e dell’accademia. I penalisti incrociano le braccia: “Il diritto di difesa è a rischio” di Simona Musco Il Dubbio, 13 marzo 2021 L’Ucpi denuncia l’ennesimo disservizio e proclama tre giorni di astensione La guardasigilli Cartabia: “Risolveremo il problema legato al deposito degli atti”. Tre giorni di astensione per rivendicare la tutela del diritto di difesa. L’Unione delle Camere penali alza la voce, lanciandosi in una feroce critica di politica e magistratura, perse dietro discussioni interne fini a se stesse e incapaci di gettare uno sguardo sulla condizione della Giustizia. “Drammatica”, sentenziano i penalisti, che di fronte all’ennesima contraddizione della macchina del processo hanno deciso di incrociare le braccia. L’ultimo disservizio è quello del portale del processo penale, il cui utilizzo è obbligatorio, ma evidentemente non lo è la sua funzionalità, se è vero, com’è vero, che i giorni in cui si ha la fortuna di vederlo funzionare sono meno di quelli in cui, invece, si inceppa. E ciò, denuncia Ucpi, nel più assoluto silenzio delle parti in causa, a fronte della richiesta di un periodo cuscinetto che consentisse anche il deposito cartaceo degli atti. “Il portale penale telematico, o meglio il portale delle Procure - affermano i penalisti -, nasce già obsoleto, ma soprattutto presenta continui guasti e inconvenienti tecnici che mettono a repentaglio il rispetto dei termini processuali e la tempestiva contezza delle iniziative della difesa. La soluzione ragionevole proposta, quale la previsione di un regime transitorio, non è stata presa in considerazione”. I tre giorni di astensione (29, 30 e 31 marzo), per i quali Ucpi chiama a raccolta tutte le Camere penali territoriali, saranno accompagnate anche da una giornata di protesta nazionale, in modalità telematica, prevista per il 29 marzo. Sul tema della digitalizzazione Cartabia si è espressa ieri, in un passaggio del suo intervento al Festival della Giustizia. “L’utilizzo degli strumenti informatici si è rivelato fondamentale nella pandemia e continuerà a esserlo, per dare un volto nuovo alla giustizia - ha evidenziato. Contiamo anche di migliorare le disfunzioni che persistono nel portale telematico di deposito degli atti”. Dichiarazioni di intenti che gli avvocati attendono di vedere concretizzate. Se, da un lato, sottolineano i penalisti, la digitalizzazione appare inevitabile, dall’altro “il deposito nel portale non è corredato da idonea certificazione comprovante l’esito positivo delle operazioni. Spesso, intervenuto il deposito della nomina, è comunque impossibile accedere al fascicolo”. A ciò si aggiunge l’esclusività dello strumento per il deposito degli atti difensivi, nonché l’estensione del suo utilizzo - sempre esclusivo - anche al deposito della querela, degli atti di opposizione alla richiesta di archiviazione e dell’atto di nomina, con l’introduzione di un “atto abilitante” che carica i difensori “di un ulteriore incombente non previsto dalla legge”. A ciò si aggiunge un’azione non omogenea da parte dei procuratori: “In alcuni casi si è negata l’esistenza del problema, in altri si è attribuito il cattivo funzionamento del meccanismo alla incapacità tecnica degli avvocati. In alcune sedi si è giunti ad autorizzare anche le forme di deposito tradizionale, salvo paventare il concreto rischio di future declaratorie di inammissibilità”, aggiungono i penalisti. Una situazione che determina, a conti fatti, “una grave lesione dei diritti dei cittadini sottoposti a procedimento penale e delle persone offese che non vedono garantita la loro rappresentanza e la loro difesa tecnica”. Dal canto suo, il Consiglio nazionale forense ha scritto una nota indirizzata a tutti i presidenti dei Coa italiani, sottolineando di aver “provveduto a sollecitare un ulteriore incontro con il Dgsia (Direzione generale dei sistemi informativi automatizzati) del ministero della Giustizia, “al fine di rappresentare le persistenti problematiche che non hanno ancora trovato soluzione”. E lunedì prossimo è prevista una riunione che coinvolgerà i rappresentanti dell’Ucpi “finalizzata a verificare le possibili soluzioni e i correttivi da adottare al fine di evitare pregiudizi agli avvocati, ma, soprattutto, qualsivoglia forma di preclusione all’esercizio dell’attività di difesa causata dal mancato funzionamento del sistema”. I penalisti sono chiari: non solo il processo penale sconta gli esiti di riforme emergenziali che hanno reso i meccanismi processuali farraginosi, ma anche “strutture sovente fatiscenti, personale di cancelleria in smart working, generale inadeguatezza dei provvedimenti assunti per l’operatività dei singoli uffici giudiziari”. Tutto questo nel mezzo di una crisi epocale della magistratura, incapace di “elaborare una seria riflessione sul sistema di potere costruito negli ultimi vent’anni” e di un temporeggiare della politica, che “non pare avere, al momento, intelligibili progetti di modifica della prescrizione né dei meccanismi capaci di incidere sui tempi del processo né dell’ordinamento giudiziario”. Ucpi continua a dirsi pronta ad un’interlocuzione con la ministra, essenziale, si legge nella nota, per qualsiasi “progetto di riforma”. L’ultimo “agguato” di Travaglio ai diritti: non vaccinate gli avvocati di Davide Varì Il Dubbio, 13 marzo 2021 “Pure Campania e Sicilia danno la precedenza agli avvocati, mentre anziani e vulnerabili restano in lista d’attesa”. È la nuova campagna del Fatto Quotidiano - chi altri sennò? - che proprio non riesce ad uscire dalla logica manichea dall’amico-nemico (Carl Schmitt ricorda qualcosa?) cercando ogni volta di aprire nuovi fronti di scontro. E non per amore marxista del “conflitto” ma solo per manganellare virtualmente chi si ostina a rivendicare diritti per tutti, ma proprio tutti, gli operatori della giurisdizione. L’altra perla di giornata arriva dal Domani il quale, imbracciato il fucile del populismo pauperista, si chiede il motivo per cui un avvocato dovrebbe essere vaccinato prima di un operaio. “Perché un operaio non ha un Ordine che lo protegge”, risponde retoricamente il commentatore del Domani con la tessera dell’ordine dei giornalisti in tasca. Il quale, evidentemente, non ha una causa pendente da anni e non è in attesa di giudizio nelle patrie galere. Altrimenti, ne siamo certi, cambierebbe idea e capirebbe all’istante che avvocati e magistrati sono fondamentali per la tenuta del nostro Stato di diritto e per il rispetto del giusto processo. E qui non stiamo citando né Schmitt né Marx, ma l’articolo 111 della nostra Costituzione. Ma quella dei vaccini agli avvocati è questione troppo seria per “buttarla” in polemica. Per quel che ci riguarda abbiamo cercato di affrontarla evitando il più possibile posizioni troppo rigide o corporative e così abbiamo ospitato anche il parere di chi pensa, o teme, che dare la precedenza agli avvocati - oltre che ai medici, agli infermieri e ai magistrati - possa essere vissuto come una sorta di ingiustificato privilegio. L’impressione, però, è che questa lettura sconti la cattiva coscienza di chi, in questi anni, ha lavorato per raccontare l’avvocatura come un mondo composto da professionisti che aiutano i disonesti (presunti) a farla franca. Un modello caricaturale e inaccettabile che è servito per dividere il mondo della giustizia in buoni e cattivi. Una pratica manichea e fasulla che ha fatto la fortuna di un “club” politico-mediatico-giudiziario che ha cercato di smantellare o indebolire il nostro Stato di diritto. Ed è proprio questo il punto: non v’è dubbio che buona parte della difesa dello Stato di diritto passi per la toga degli avvocati italiani. E tutti, anche i più scettici, non potranno non ammettere che la difesa delle garanzie e delle libertà dei cittadini è fondamentale per il bene e la salute della nostra fragile democrazia. E allora, una volta messi al sicuro medici, infermieri, operatori sanitari e tutti coloro che in questo anno di pandemia hanno lottato come leoni contro questo virus subdolo e terribile, ecco, dopo aver fatto tutto questo, dobbiamo mettere al sicuro anche chi difende i nostri diritti e manda avanti la giurisdizione. E per capire che i vaccini agli avvocati non sono un privilegio ma un diritto di cui beneficiano tutti gli italiani, soprattutto quelli che hanno subito durezze e lentezze della giustizia italiana, bisognerebbe rovesciare quel racconto caricaturale e ingiusto che ha diffamato i nostri avvocati. Ma del resto questo è uno dei motivi per cui ogni giorno mandiamo in stampa questo giornale. L’Anm non ci sta: “Vaccinare magistrati e avvocati non è favoritismo” Il Dubbio, 13 marzo 2021 Il sindacato dei magistrati si schiera: “Nella piena consapevolezza della necessità che sia data precedenza, nel piano vaccinale, alle persone vulnerabili o con disabilità grave, chiediamo che venga inserito tra le categorie prioritarie il personale del comparto giustizia, compresa l’avvocatura”. “La somministrazione del vaccino ai lavoratori del comparto giustizia non costituisce una indebita corsia preferenziale”. Lo ribadisce l’Associazione nazionale magistrati, prendendo atto dell’esclusione dal nuovo piano vaccinale in corso di approvazione, dei lavoratori addetti ai servizi essenziali dalle categorie sottoposte a vaccinazione prioritaria. Si tratta di un intervento, sottolinea l’Anm, “in evidente controtendenza rispetto alla più volte dichiarata necessità di dare continuità ai servizi essenziali”. “La necessità di svolgere la maggior parte delle udienze in presenza - allo stato della normativa attuale e per l’incompleto percorso di digitalizzazione e di aggiornamento delle dotazioni informatiche - espone quotidianamente gli operatori della giustizia (personale amministrativo, magistrati e avvocati) al rischio di contrarre il virus e di trasmetterlo”, sostiene l’Anm. Negli uffici giudiziari, “molto spesso non dotati di adeguati sistemi di areazione e di locali idonei a garantire il necessario distanziamento - se non a costo di un eccessivo rallentamento del servizio, in danno dell’utenza - vi è, infatti, un inevitabile, frequente contatto diretto tra un notevole numero di persone, con evidente ed elevato rischio di diffusione del contagio e di sviluppo di focolai epidemici”. Pertanto,” nella piena consapevolezza della necessità che sia data precedenza, nel piano vaccinale, alle persone vulnerabili o con disabilità grave, chiediamo che venga inserito tra le categorie prioritarie - a prescindere dall’età e dalle condizioni patologiche - il personale del comparto giustizia, compresa l’avvocatura”. Solo in questo modo, “peraltro, sarà assicurata uniformità sul territorio nazionale, tenuto conto delle vaccinazioni già eseguite o programmate in numerose Regioni, in base all’originario, condivisibile coinvolgimento dei lavoratori addetti ai servizi essenziali”. Procura europea, proposta Cartabia: 20 Pm per l’Italia Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2021 Saranno magistrati in ruolo, designati dal Csm. Svolgeranno indagini e processi davanti alle Corti nazionali alle dipendenze del Procuratore Ue. Venti e dislocati nelle principali sedi giudiziarie. Saranno tanti i pm italiani che lavoreranno per Eppo, la procura europea, secondo la proposta della ministra della Giustizia Marta Cartabia, su cui si pronuncerà il 23 marzo il plenum del Csm, nella riunione presieduta dal capo dello Stato. Sarà la prima occasione di confronto con il Csm di Cartabia, che invece ha già incontrato il vice presidente David Ermini il 4 marzo scorso al ministero della Giustizia. Al centro di quel colloquio c’era proprio il tema della procura europea, di cui Cartabia ha parlato anche nella riunione di ieri con i capigruppo della maggioranza nelle Commissioni Giustizia di Camera e Senato. L’Italia è un po’ in ritardo rispetto ad altri Paesi nell’attuazione degli ultimi passaggi necessari al pieno funzionamento della procura europea, che già esiste. Si tratta ora di nominare i Ped, i procuratori europei delegati. Sono i sostituti, in ogni Stato dell’Unione, del Procuratore Europeo, che a breve sarà il titolare esclusivo dell’azione penale per tutti i reati che offendono gli interessi finanziari della Unione Europea. Il Csm ha indicato i criteri per la loro designazione, ma perché si proceda al bando di concorso occorrono ulteriori passaggi. A partire dal parere sulla proposta della ministra Cartabia di determinare in 20 il loro numero, su cui la prossima settimana si pronuncerà la Commissione prima del voto del plenum. I Ped - che in Italia saranno magistrati in ruolo, ma negli altri Paesi non necessariamente - svolgeranno indagini e celebreranno processi innanzi alle corti nazionali, designati dal Csm, ma alle dipendenze della Procura europea. Nella circolare Il Csm ha stabilito che nella loro scelta sarà valorizzata l’esperienza nella conduzione di indagini in materia di reati contro la PA o di criminalità economica e finanziaria e nella cooperazione giudiziaria internazionale. Napoli. Boom di errori giudiziari, alla città il record negativo di Valentino Di Giacomo Il Mattino, 13 marzo 2021 Un anno ancor più difficile a causa del Coronavirus anche per i detenuti reclusi nelle carceri campane. Un’accelerazione di contagi e morti c’è stata soprattutto negli ultimi sei mesi all’interno delle case circondariali. Ma non è stato solo il Covid a monopolizzare ieri la presentazione della relazione annuale sullo stato delle carceri campane presentata dal Garante dei detenuti, Samuele Ciambriello con al suo fianco il Garante nazionale, Mauro Palma e il presidente del Consiglio regionale della Campania, Gennaro Oliviero. A Napoli spetta infatti un triste primato: quello delle ingiuste detenzioni causate da errori giudiziari. “Solo nello scorso anno a Napoli - ha denunciato Ciambriello - si sono contati 129 casi di errori giudiziari, persone ingiustamente carcerate che si sono viste riconoscere un indennizzo complessivo di 3,2 milioni di euro”. Tantissimi casi che, purtroppo, sono comuni in tutta Italia. Il sito web “errorigiudiziari.com” ne ha contati in tutta Italia dal 1991 al 31 dicembre 2019 ben 28.893, con una spesa complessiva per i risarcimenti da parte dello Stato che, tra indennizzi e risarcimenti, sfiora il miliardo di curo. “Mille persone hanno ricevuto un’indennità per ingiusta detenzione soltanto nell’ultimo anno - ha spiegato Ciambriello - dopo Napoli, nella classifica nazionale, c’è Reggio Calabria con 120 casi e indennizzi per oltre 9 milioni di euro”. Ma nell’ultimo anno è stato soprattutto il problema più grande da affrontare anche al di là dei muri dei penitenziari. “Il mondo carcerario campano - ha raccontato il Garante - ha pagato un prezzo alto per la pandemia in termini di vite umane con 10 persone decedute a causa del Covid - 19 di cui 5 agenti, quattro detenuti e un medico”. Un’accelerazione di morti e contagi si è registrata soprattutto nelle ultime settimane. “Sono stati 1644 i contagi negli ultimi sei mesi e - ha illustrato nella sua relazione Ciambriello - di essi, 862 fra gli agenti, 724 fra i detenuti e 58 fra gli operatori penitenziari. L’emergenza Coronavirus ha acuito ulteriormente le già gravi problematiche della realtà carceraria, a cominciare dal sovraffollamento, ed ha evidenziato la necessità di ricorrere a misure alternative al carcere”. Proprio l’impatto del Covid ha favorito un importante aumento del ricorso a misure alternative per far scontare la pena. Ovviamente, anche nelle case circondariali c’è un’enorme speranza per i vaccini anche per riprendere nuovamente i normali colloqui familiari di persona e non attraverso le videoconferenze. “In questo momento la parola magica e d’ordine - si è augurato il Garante - è la campagna di vaccinazione. In tutta Italia 927 detenuti sono stati vaccinati e 5704 agenti. In Campania invece non parte ancora la campagna. Le criticità legate al virus - ha rimarcato Ciambriello - hanno così sottolineato in modo inequivocabile la necessità di investimenti in termini di risorse umane e dotazioni tecnologiche che possano facilitare lo svolgimento del trattamento e l’apertura di canali comunicativi con l’esterno in grado di assicurare il processo di risocializzazione”. Non poteva non essere affrontato il tema della detenzione dei ragazzini minori anche riguardo al recente caso del 16enne trovato suicida nella comunità di recupero di Briano, nel Casertano. Ma il tema è soprattutto dell’incidenza della criminalità giovanile, una ferita nel tessuto sociale soprattutto a Napoli. “Ogni anno - ha ricordato Ciambriello - ci sono 5mila minori tra i 12 e i 18 anni identificati e riaffidati ai genitori o condotti in comunità di recupero. Tra Napoli e provincia si contano 172mila minori, cioè il 17,8% della popolazione e mi chiedo cosa facciamo noi socialmente per questi giovanissimi per evitare che finiscano nelle maglie della giustizia”. Napoli. Covid, l’appello del Garante dei detenuti: “Subito la campagna di vaccinazione” di Oscar De Simone Il Mattino, 13 marzo 2021 Il Covid corre veloce e supera qualsiasi barriera, anche quella delle mura del carcere. Altri cinque positivi sono stati riscontrati nei giorni scorsi a Poggioreale portando il numero di detenuti contagiati da novembre, mese in cui è iniziata una vera campagna di screening massiva, ad oggi a 256 unità. Una situazione che nonostante tutto viene ritenuta sotto controllo anche se la preoccupazione c’è e non viene nascosta. Proprio per questo motivo, soprattutto in questa fase di terza ondata, le operazioni procedono spedite. Ogni settimana gli ospiti di un intero padiglione vengono sottoposti a tampone e questo, come viene sottolineato dal direttore della unità operativa per la tutela della salute negli istituti penitenziari della Asl Napoli 1 C Lorenzo Acampora, per avere il tempo di preparare eventuali stanze per i positivi. “È una procedura - afferma Acampora - che stiamo adottando quattro mesi a questa parte e ci sta dando ottimi risultati. In questi giorni ci stiamo occupando del padiglione Milano, poco più di trecento unità, i cui risultati saranno in nostro possesso solo la prossima settimana. Crediamo che il lavoro fatto fino ad oggi sia importante ma è ovvio che deve proseguire a ritmi serrati e tenendo conto anche della polizia penitenziaria. C’è un altro vecchio problema da risolvere e che rende tutto più difficile, però: quello del sovraffollamento. Nel carcere di Poggioreale infatti ci sono dai 500 ai 600 detenuti in più e questo non agevola il nostro lavoro. Inoltre molte malattie che fuori sono debellate - come ad esempio la scabbia - qui continuano a circolare. Questo perché le condizioni di promiscuità ci sono ed a volte è difficile evitarle”. Un vecchio problema insomma che crea nuove difficoltà. Anche per questo i garanti per i detenuti della regione Campania e del comune di Napoli, chiedono a gran voce l’avvio della campagna vaccinale. Unica alternativa alla diffusione del virus tra le mura del carcere. “Lo stiamo chiedendo da tempo - affermano Samuele Ciambriello e Pietro Ioia - perché è importante mettere tutti in sicurezza. I morti che ci sono stati in questi mesi in tutta la regione - anche tra la polizia penitenziaria - sono un segnale che nessuno deve trascurare. È necessario agire in tempi brevi anche perché l’isolamento di questi uomini adesso è ancora più evidente. L’impossibilità dei colloqui e di qualsiasi genere di visita è un ulteriore motivo di insoddisfazione e tensione tra la popolazione carceraria. Il lavoro messo in campo a Poggioreale è apprezzato da tutti, ma adesso è necessario un ulteriore accelerazione. Non possiamo più permetterci passi falsi o rallentamenti. La salute di tutti quelli che vivono dietro queste mura va tutelata in ogni modo possibile”. Padova. Detenuti declassificati. “Non c’è stato alcun reato” di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 13 marzo 2021 È stata archiviata l’indagine sull’ex direttore del carcere Salvatore Pirruccio. La conclusione della Procura: “Si tratta di atti valutativi e quindi discrezionali”. Casa di reclusione Due Palazzi, il carcere per i detenuti condannati in via definitiva: quattro inchieste aperte e un’indagine finita in archivio. Si tratta dell’indagine di cui è stato protagonista Salvatore Pirruccio, all’epoca dei fatti direttore del Due Palazzi da 13 anni, poi rimosso nell’ottobre 2015 dall’incarico. L’accusa contestata era di falso ideologico in seguito alla declassificazione di 6 reclusi dal regime di Alta sicurezza (riservato ai condannati inseriti nella criminalità organizzata per reati di tipo associativo come mafia e traffico di droga a livello internazionale) a quello proprio dei detenuti comuni. A sollecitare l’archiviazione (accolta dall’ufficio gip) il pm Sergio Dini che ha concluso come “con tale atto (di declassificazione) Pirruccio comunicava esservi stata una positiva valutazione circa il comportamento dei detenuti.... tale atto, per ciò che concerne l’aspetto contenutistico, è di carattere discrezionale, non risulta avere carattere di attestazione o certificazione dei fatti”. La conseguenza? “Gli aspetti valutativi (con riferimento alla declassificazione decisa dall’allora direttore) essendo per loro natura discrezionali..., non possono essere ricompresi nella fattispecie dell’articolo 479 (l’articolo del codice penale che disciplina il reato di falso ideologico)”. Da qui l’archiviazione in quanto con quella declassificazione Pirruccio non ha certificato un “fatto” (come richiesto dal reato di falso) ma ha solo espresso delle valutazioni. Scrive ancora il pm: “Residuerebbe la circostanza di avere il Pirruccio “comunicato” al Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) che tale positiva valutazione era “già stata inserita in Afis” (si tratta della banca dati delle forze dell’ordine), circostanza quest’ultima non perfettamente corrispondente alla realtà posto che sotto la data del 9 aprile 2015 ancora non vi era stata formale adozione di provvedimenti in tal senso... Pirruccio ha dichiarato che al di là dell’aspetto formale (non ancora perfezionato) si era però già formata un’inequivocabile volontà in tal senso dell’organo collegiale (il Got o Gruppo osservazione e trattamento) deputato a tale tipo di valutazione, volontà espressa in colloqui e incontri anche informali e non verbalizzati, tra i componenti del predetto organo”. Tutto nasce dall’ispezione da parte del Dap nel Due Palazzi tra giugno e luglio 2015 quando “venivano riscontrate anomalie e irregolarità nella conduzione della casa di reclusione” scrive sempre il pm Dini “in particolare per quanto concerneva la declassificazione di alcuni detenuti in Alta Sicurezza”. Quest’ultima sezione viene eliminata perché nell’estate 2014 esplode lo scandalo “carcere colabrodo”, un’inchiesta che svela un sistema di crimini, abusi e complicità tra alcuni agenti di polizia penitenziaria e un gruppo di detenuti, capaci di trasformare un reparto del carcere in un supermarket fuorilegge dove tutto aveva un prezzo. Al termine dell’ispezione viene trasmesso anche in procura il rapporto firmato dalla dottoressa Gianfederica Dito (Capo del Dipartimento Ufficio per l’attività ispettiva e di controllo del Dap). Nel rapporto si rileva che “la commissione ha confermato quanto è emerso nella visita ispettiva del 2014... che il controllo di una parte dell’istituto e dei detenuti che vi lavorano è affidato interamente a due centri di potere ai quali la direzione (all’epoca affidata a Pirruccio) sembrerebbe aver ceduto la gestione e il controllo”. In seguito all’ispezione (di carattere amministrativo) nell’ottobre 2015 scatterà il trasferimento ad altro incarico del direttore, difeso dalle cooperative attive in carcere e dai volontari di Ristretti Orizzonti. Sul piano penale, invece, l’indagine avviata sul fatto specifico della declassificazione dei 6 detenuti in Alta sicurezza posta in essere da Pirruccio si è chiusa con quell’archiviazione, non rilevando alcun falso ideologico. Pescara. Covid, positivi 30 detenuti: la protesta degli agenti Il Centro, 13 marzo 2021 Stato di agitazione del Sinappe: vogliamo sicurezza. E si preparano al presidio fisso davanti al carcere. Trenta detenuti ospitati nelle due aree Covid del carcere San Donato. Uno è ricoverato in Terapia intensiva al Covid hospital di via Paolini. Un altro detenuto (entrambi italiani) è stato trasportato ieri mattina in ospedale dopo aver accusato un malore in cella. La sicurezza del penitenziario è al centro dello stato di agitazione proclamato, per i prossimi giorni, dal Sinappe, Sindacato nazionale autonomo di polizia penitenziaria. L’annuncio è del vice segretario regionale, Alessandro Luciani. Che spiega: “Ci stiamo organizzando per un presidio fisso esterno al carcere, l’obiettivo è ottenere rassicurazioni sulla sicurezza nella durissima trincea del carcere. Da 8 detenuti positivi siamo passati a 30 in poche settimane e mancano all’appello 87 agenti, siamo sotto organico”. Le proteste del Sinappe, nelle settimane scorse, rilanciate dal Centro, hanno “sortito più di un effetto”, secondo Luciani: “Sono arrivate tute e mascherine in quantità. Inoltre sono terminate le vaccinazioni a personale e detenuti. E oggi (ieri) sono in corso 50 tamponi da parte dei sanitari della Asl e del carcere” diretto da Lucia Di Feliciantonio. Spiega, il poliziotto penitenziario, che ieri mattina ha indossato tuta e calzari e ha trasportato il detenuto che si è sentito male in ospedale, che “sono diventate due le aree Covid in carcere dove sono ospitati 30 reclusi positivi: 22 alla prima sezione giudiziaria e 8 alla prima penale”, al piano terra della casa circondariale. “I detenuti sono liberi di circolare all’interno delle mura del carcere, soprattutto nella prima sezione giudiziaria, ciò ci preoccupa. La nostra mobilitazione sarà per la sicurezza, nei giorni scorsi abbiamo incontrato il prefetto per riferire le nostre problematiche”. Sono 287 i detenuti del San Donato, tra cui molti pescaresi, ma anche stranieri, maghrebini e sudafricani. I collaboratori di giustizia, una ventina, sono isolati in un padiglione di massima sicurezza della casa di reclusione. E sono “115 i poliziotti incaricati della sorveglianza, di cui 36 assenti per malattia, ma non sappiamo quanti hanno il virus”, spiega Luciani, “dovremmo essere 166, mancano 87 agenti all’appello”. L’annosa carenza del personale viene sottolineata anche da Mario Di Febo della Cgil Funzione Pubblica e Antonio Di Marco, Cisl, che rimarcano “la necessità di avere in organico almeno 50 agenti in più”. Secondo Di Febo, tra gli agenti “in forze a Pescara, alcuni vengono mandati in missione al carcere di Chieti”. Brescia. Canton Mombello è il secondo peggior carcere d’Italia Giornale di Brescia, 13 marzo 2021 Lo tsunami Covid ha cambiato il mondo intero, ma non è riuscito a cambiare il peso del sovraffollamento nel carcere cittadino di Canton Mombello. La casa circondariale “Nerio Fischione”, infatti, resta tra le più affollate d’Italia. Peggio di noi solo Taranto. E dopo alcuni mesi di relativo alleggerimento - seguiti al decreto “Cura Italia” che intendeva proprio combattere la diffusione del virus nella popolazione carceraria - oggi siamo tornati ai pesantissimi livelli pre-pandemia. La conferma arriva dal XVII Rapporto Antigone che l’osservatorio nazionale sulla realtà penitenziaria ha illustrato ieri. Al 28 febbraio scorso Canton Mombello ospitava 357 detenuti (il 28 febbraio di un anno fa erano 366) e cioè ben il 192% rispetto ai 186 reclusi che sono formalmente indicati come capienza accettabile per una struttura costruita più di un secolo fa. La realtà all’interno del carcere, però, non si misura solo coi numeri. Le limitazioni legate al Covid, infatti, all’interno delle strutture carcerarie hanno comportato anche un pesante arretramento della capacità della pena di recuperare l’individuo alla società. Sottolineano i promotori di Antigone: il carcere è “un sistema in cui la tecnologia era un tabù pericoloso e oggi sembra strumento irrinunciabile per garantire i diritti. In cui la scuola e le attività lavorative si sono troppo spesso bloccate e faticheranno a riprendersi. In cui la medicina d’emergenza ha soppiantato ogni timido tentativo di intervento preventivo. Un sistema in cui, soprattutto, neanche la pandemia ha saputo azzerare il sovraffollamento. E anzi, dove i numeri, nell’ultimo trimestre (dicembre 2020 - marzo 2021) sono tornati a salire. Lenti ma inesorabili”. Per la Casa circondariale “Nerio Fischione” di Canton Mombello, ad esempio, i reclusi erano calati nei primi mesi della pandemia di circa un centinaio di persone (destinate spesso a misure di detenzione alternativa). Ma la tregua è durata pochi mesi e oggi siamo tornati al livello di sovraffollamento di un mese fa. “La cosa che rattrista di più - sottolinea Luisa Ravagnani, Garante per i detenuti del Comune cittadino - è che il sovraffollamento di Canton Mombello è un dato antico, noto da sempre, col quale combattiamo da almeno vent’anni. Eppure c’è l’illusione di affrontarlo volta per volta alla luce di qualche nuova emergenza: anni fa era il tema del fondamentalismo islamico, oggi è la pandemia da Covid. Il dato vero è che Canton Mombello è invivibile, non ha i parametri minimi per garantire la dignità della persona. E questo non lo diciamo noi, lo denuncia da tempo il personale della Polizia penitenziaria. Ma evidentemente si tratta di un problema che la collettività preferisce rimuovere”. Come è cambiata la vita dentro il carcere con la pandemia? “Se possibile, è cambiata in peggio - spiega la Garante -. C’è stato un lungo periodo di sospensione dei colloqui coi familiari, ma anche oggi sono di fatto annullate le molte esperienze che, specie in un territorio come quello di Brescia, le realtà del volontariato avevano saputo negli anni mettere a punto assieme alla direzione del penitenziario. E si tratta di attività formative e di crescita fondamentali per ridurre il pericolo di recidiva fra chi prima o poi uscirà dai cancelli”. La speranza? “È che i vaccini entrino in misura massiccia oltre i cancelli. Abbiamo fiducia che il ministro Cartabia abbia la sensibilità e la cultura giuridica per una svolta concreta”. Taranto. Il carcere più sovraffollato di Italia: “Quando i vaccini?” di Associazione Marco Pannella tarantinitime.it, 13 marzo 2021 Il carcere di Taranto è il più sovraffollato di Italia, ma ancora l’assessore Lopalco non ha una data per i vaccini. È stato presentato il rapporto nazionale di Antigone sulle carceri italiane 2020. Ancora una volta Taranto è al primo posto della classifica per carcere più sovraffollato d’Italia: 603 detenuti per 307 posti (un affollamento di quasi il 200%), seguito da Brescia con 357 detenuti per 186 posti (191,9%), e Lodi 83 detenuti per 45 posti (184,4%). Da anni l’Associazione Marco Pannella denuncia le condizioni del carcere di Taranto verificate puntualmente attraverso le decine di visite ispettive effettuate all’interno, che però nell’ultimo anno non sono state autorizzate dal Dap per il Covid. Per questo vogliamo sapere dalla Regione Puglia la data in cui somministrerà i vaccini ai detenuti. Il sovraffollamento non è più solo una condizione di trattamento inumano e degradante, come la Corte di Strasburgo con la famosa sentenza pilota della Cedu ci aveva insegnato condannando l’Italia per violazione dei diritti umani, ma oggi è diventato anche una questione di salute pubblica. Per questo motivo le carceri sono state inserite dal Ministro della Salute tra le priorità da vaccinare subito in questa fase. Ma purtroppo in Puglia questo non è avvenuto, e non si legge nel piano vaccinale regionale nessuna indicazione per quanto riguarda la somministrazione ai detenuti. Questo, dopo i solleciti del Presidente Draghi e del Ministro Cartabia non è più accettabile. Sono 52 gli attuali positivi nelle carceri pugliesi. Un dato allarmante considerando che è una comunità in cui è difficile isolare il virus, poiché i detenuti non possono, loro malgrado, tenere le distanze e non hanno neanche mascherina. “Emiliano nell’ordinanza di chiusura scuole ha scritto che per riaprirle doveva prima vaccinare gli insegnanti, e allora-chiede l’Associazione Marco Pannella - se non fa i vaccini perché non chiude anche le carceri?”. Cosenza. In ricordo di Sergio Cosmai, direttore del carcere ucciso dalla ‘ndrangheta di Antonella Barone gnewsonline.it, 13 marzo 2021 La condanna a morte di Sergio Cosmai fu eseguita da quattro killer il 12 marzo 1985, davanti alla scuola materna dove il direttore del carcere di Cosenza, da tempo nel mirino della n’drangheta, stava andando a prendere la figlia Rossella. Fu investito da una raffica di pallottole e morì il giorno dopo, un mese prima della nascita del suo secondo figlio. Nel 36 °anniversario dell’agguato, Sergio Cosmai è stato ricordato a Cosenza con la celebrazione di una messa officiata nella cattedrale dal vescovo Francesco Nolè e con la deposizione di una corona d’alloro al monumento situato all’interno del carcere che oggi porta il suo nome. Alle cerimonie commemorative ha preso parte il capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) Bernardo Petralia che, al termine ha incontrato direttori, comandanti e altri rappresentanti degli istituti penitenziari della Regione. A Sergio Cosmai sono stati dedicati nel tempo numerosi tributi tra cui, nel 2017, la Medaglia d’oro al merito civile alla memoria. Anche quest’anno, sia pure con i limiti imposti dalla pandemia, l’Amministrazione penitenziaria ha voluto rinnovare il ricordo della sua vita e del suo sacrificio, per continuare a valorizzarne nel presente la portata educativa. Quando Sergio Cosmai, nel 1982, fu assegnato come direttore al carcere di Cosenza, nella città era in pieno svolgimento la prima guerra di mafia tra i clan Pino-Sena e Perna-Pranno. I tanti detenuti, esponenti della ‘ndrangheta cosentina, tentavano da tempo di assumere anche il controllo dell’istituto di pena, tra agguati e minacce per ottenere privilegi. Il giovane dirigente si mostrò da subito determinato a ristabilire la legalità, affiancato dal maresciallo Filippo Salsone (anche lui ucciso, in un agguato mafioso, un anno dopo la morte di Cosmai). I ‘mammasantissima’ risposero con un crescendo di provocazioni, culminate in una violenta protesta, subito sedata, nel giugno del 1984. Cosmai propose a una rappresentanza di detenuti di incontrarlo, ma Franco Perna, capo dell’omonima ‘ndrina, rifiutò, chiedendo che fosse il direttore a recarsi da lui. “Io non vengo, allora non c’è niente da dire” fu la risposta di Cosmai. Un affronto per il “capobastone” che, per dimostrare di non piegarsi all’autorità dello Stato, ordinò la morte del suo rappresentante. Gli esecutori materiali dell’omicidio di Sergio Cosmai furono arrestati poco dopo e inizialmente condannati. In appello però, per il venir meno di una testimonianza, il verdetto fu ribaltato e furono assolti. A dare nuovo impulso alla vicenda giudiziaria furono gli altri due componenti del commando che, divenuti collaboratori di giustizia, indicarono il mandante dell’omicidio in Francesco Perna. Il boss fu condannato, in via definitiva all’ergastolo, nel 2017, a 32 anni dall’omicidio. Firenze. Una campagna per donare nuovi libri alle carceri novaradio.info, 13 marzo 2021 Un libro è sempre strumento di evasione e libertà: tanto più se si è reclusi in carcere, e a maggior ragione se si fronteggiano ulteriori limitazioni a causa della pandemia. Per ampliare il patrimonio librario a disposizione delle biblioteche delle carceri di Firenze e Prato, l’associazione Volontariato con il sostegno del polo universitario penitenziario lancia la campagna “Nel frattempo… un libro”: chiunque può recarsi in una delle 30 librerie indipendenti aderenti nell’area fiorentina e pratese (elenco completo su polopenitenziario.unifi.it) e decidere di donare un libro a piacere o tra quelli consigliati, ricevendo in cambio una cartolina realizzata dagli illustratori dell’associazione Scioglilibro e accompagnata da testi scritti dai detenuti. A sostegno della campagna parte anche da domani una serie di 5 incontri on line che affrontano da diverse prospettive il tema “cultura, letteratura e carcere” - da Focault agli scrittori russi, passando per le molte recenti serie Tv ambientate nei penitenziari (https://meet.jit.si/Nelfrattempounlibro). Una questione che non è solo lettura d’evasione ma anche studio, in primis di quei detenuti che sono iscritti ai corsi dell’università di Firenze, attraverso il Polo universitario penitenziario di Firenze e Prato. “I numeri sono in crescita e l’isolamento forzato, con la sospensione delle visite e di molte attività sportive o laboratoriali, sembra aver spinto ancor di più verso lo studio. Da due anni le immatricolazioni sono in aumento e nei prossimi si laureeranno 5 detenuti - spiega a Novaradio Maria Grazia Pazienza, delegata dell’università di Firenze al polo universitario penitenziario di Firenze-Prato. Nonostante i problemi nuovi che il lockdown ha portato e l’impossibilità di una dad in carcere, siamo riusciti a garantire agli detenuti studenti le registrazioni delle lezioni in streaming. Rimane il problema degli spazi: “I reclusi del carcere dei Prato del ‘Gozzini’ sono più facilitati, mentre quelli di Sollicciano scontano purtroppo le carenze storiche della struttura”. Un progetto di riqualificazione degli spazi da adibire ai corsi è allo studio in collaborazione con il garante dei detenuti, ma il suo avanzamento ha subito ritardi dopo il trasferimento del direttore Prestopino. Il nostro debole senso civico e la lezione del volontariato di Giovanni Belardelli Corriere della Sera, 13 marzo 2021 I nostri limiti si sono accentuati negli ultimi decenni anche in conseguenza di una modernizzazione che ci ha indotto a essere molto attenti ai diritti e assai meno ai doveri. Perché alcuni italiani indossano la mascherina e rispettano le norme anti-Covid mentre altri sembrano curarsene poco, anzi in qualche caso non rifuggono nemmeno da azioni pericolose per gli altri come organizzare feste e cene di nascosto? Dietro interrogativi del genere c’è la questione dei limiti antichi di cui soffre il nostro senso civico; limiti accentuatisi negli ultimi decenni anche in conseguenza di una modernizzazione che ci ha indotto a essere molto attenti ai diritti e assai meno ai doveri. Invita a riflettere di nuovo sul tema un piccolo testo pubblicato nel 1795 in Francia, la Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo e del cittadino, ora stampato da Liberilibri, a cura di Maurizio Griffo. Distrutti i vecchi legami che tenevano assieme la società di antico regime, cosa può tenere assieme una collettività che i soli diritti individuali, si temeva, avrebbero fatto precipitare nell’anarchia? Affrontando anni dopo lo stesso problema, Giuseppe Mazzini delineava il progetto di una comunità democratica fondata appunto sul dovere. Da allora, si può dire che non vi sia stata generazione nel nostro Paese che non abbia richiamato tale necessità. Lo fece anche Aldo Moro nel 1976 con parole di rara drammaticità: l’Italia “non si salverà [...] se non nascerà un nuovo senso del dovere”. Ma, ecco il punto cruciale, cos’è che lo può rafforzare se e quando è debole? Un tempo erano la religione o il sentimento nazionale ad alimentare e sostenere i principi di etica pubblica. Oggi però, in una società decisamente secolarizzata e con lo Stato nazionale indebolito, quella strada è più difficile da percorrere. A ben vedere, gli stessi deprecati partiti della Prima Repubblica rappresentavano pur sempre, per chi li votava e ancor più per chi vi apparteneva, dei veicoli di un’obbligazione generale che (non sempre ma spesso) alimentava il sentimento civico. Ma quei partiti non ci sono più e sui nuovi è meglio sorvolare. Per fortuna in ampi settori della società italiana (uno per tutti: il volontariato) il senso del dovere - la consapevolezza per così dire automatica che certe cose vanno fatte e altre no - ancora sopravvive, eccome. Ma a volte quegli italiani e a quelle italiane che rispettano norme e leggi hanno la sensazione di non ricevere un adeguato riconoscimento da parte dei poteri pubblici. Forse su questo terreno qualcosa si potrebbe fare. Pandemia sociale, crollo senza precedenti dell’occupazione nel 2020 di Mario Pierro Il Manifesto, 13 marzo 2021 Istat. I più colpiti sono le donne, i giovani e i precari. Ma per loro nessuna tutela universale. Dai sindacati e dalle associazioni la richiesta di estendere il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione per il lavoro dipendente fino alla fine del 2021: “Senza i dati dell’occupazione saranno ancora peggiori”. Secondo l’Istat il calo dell’occupazione è “senza precedenti” (-456 mila, -2,0%) nel 2020 ed è stato accompagnato da una forte crescita dei lavoratori inattivi tra 15-64 anni (+403 mila, +3,1% in un anno) che non hanno cercato lavoro perché il lavoro, semplicemente, non c’è. Per la stessa ragione si è registrata una forte diminuzione della disoccupazione (-271 mila, -10,5%). Non lavorando, né cercando il lavoro, anche questo indice diminuisce. Quando il lavoro ricomincerà ad essere venduto, e sfruttato, anche questo indice tornerà ad aumentare. Per il momento chi è rimasto senza attività svolge un lavoro precario, in particolare nella parasubordinazione, la principale vittima della crisi. La bomba sociale è già esplosa tra i dipendenti a termine non rinnovati (-391 mila, -12,8%) e, in minor misura, gli indipendenti, cioè le partite Iva (-154 mila, -2,9%). La diminuzione ha investito il lavoro a tempo pieno (-251 mila, -1,3%) e, soprattutto, il part time (-205 mila, -4,6%); la quota di part time involontario è salita al 64,6% (+0,4 punti) dell’occupazione a tempo parziale. I più colpiti sono le donne e i giovani, Sui 456 mila gli occupati persi, nel 249 mila sono lavoratrici. E se si guarda alla fascia di età, i giovani tra i 15 e i 34 anni sono i più colpiti: 264 mila in meno. Al Sud il tasso di disoccupazione ha registrato il calo più pesante: 1,7 punti in meno, contro -0,3 punti nel Nord e -0,6 punti nel Centro. E si conferma il dato strutturale del mercato del lavoro in Italia: l’occupazione a tempo pieno cresce tra gli ultracinquantenni (+113 mila), mentre la generazione di mezzo tra i 35-49enni è massacrata: meno 306 mila. Nel lavoro dipendente si resta in attesa che tra la fine di giugno e ottobre quando saranno sbloccati i licenziamenti nel lavoro dipendente. Il blocco varrà dunque per altri tre mesi per tutti: da marzo a giugno. Per le piccole imprese che attualmente non hanno la tutela della cassa integrazione ordinaria sarà legato alla riforma degli ammortizzatori sociali. In questo settore i dati dell’Istat attestano che l’aumento del ricorso alla Cig è stato cospicuo: +139,4 ore ogni mille lavorate, ed è stato più marcato nel comparto dei servizi rispetto a quello dell’industria. “Deve essere rivista la politica degli incentivi che, nonostante si sia concentrata maggiormente su queste fragilità, non ha risolto i problemi della mancata crescita occupazionale. La stesura definitiva del Piano di ripresa dovrà assolutamente tenere conto di queste emergenze e trovare soluzioni” sostiene la segretaria confederale della Cgil, Tania Scacchetti. “Per contrastare queste drammaticità occorrono impegni precisi e interventi mirati del governo. Deve essere rivista la politica degli incentivi che, nonostante si sia concentrata maggiormente su queste fragilità, non ha risolto i problemi della mancata crescita occupazionale”. “Vanno messe in campo le indennità per i lavoratori stagionali, intermittenti, autonomi, gli incentivi per i contratti di solidarietà, il potenziamento della Naspi, il superamento dei vincoli per le assunzioni a termine” sostiene il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra. Con il nuovo decreto Sostegno “ci aspettiamo - ha detto la segretaria confederale della Uil, Ivana Veronese - Congedi parentali retribuiti al 100%, altrimenti si andrebbero a colpire maggiormente le donne che hanno già pagato troppo in questa pandemia sia in termini occupazionali che retributivi”. Anche il Codacons sostiene la necessità di prorogare “per tutto il 2021 il blocco dei licenziamenti, perché in caso contrario si andrà incontro ad una catastrofe occupazionale ancora peggiore di quella registrata nel 2020”. Grecia. Violenze di polizia fuori controllo, ad Atene un intero quartiere si rivolta di Dimitri Deliolanes Il Manifesto, 13 marzo 2021 Si può governare un paese europeo ricorrendo sempre e ovunque alla violenza poliziesca? È il quesito che deve risolvere in tutta fretta il premier neoliberista greco Kyriakos Mitsotakis, che rischia di pagare cara la sua fiducia incondizionata nelle capacità repressive di una polizia fuori controllo. Tutto comincia lunedì nel quartiere Nea Smyrni di Atene. Giorno soleggiato, quartiere residenziale, borghesia medio alta, sindaco di destra. Nella piazza centrale famiglie con carrozzine, bambini che giocano, qualche giovanotto passeggia e fuma. All’improvviso piomba sulla piazza una nutrita pattuglia di poliziotti in moto che cominciano a distribuire multe da 300 euro a testa per “violazione delle norme contro la pandemia”. Le famiglie protestano, mostrano di tenere le distanze, tutti portano la mascherina, nessun decreto vieta di passeggiare. I poliziotti reagiscono con brutalità. Zittiscono, insultano, bestemmiano e minacciano. Un giovane si avvicina e chiede gentilmente “ma cosa fate?”. In risposta viene aggredito, gettato a terra e picchiato in malo modo per parecchi minuti. Alla fine viene ammanettato e portato in questura, accusato di mezzo codice penale. I poliziotti non avevano messo in conto però che il pestaggio era stato ripreso e che il video si era già diffuso in rete. Preoccupati, gli ufficiali si sono inventati che la vittima avrebbe tentato di sottrarre la pistola a un agente. Più tardi hanno detto che gli agenti stavano respingendo un presunto assalto di “30 anarchici mascherati”. In tarda serata il cerino acceso è passato alla goffa portavoce del governo che ha trasformato gli “anarchici” in “giovani di Syriza che lanciavano foglietti volanti contro la moglie di Mitsotakis”. L’ennesima bugia, ovviamente, ma nessuno ha capito quale fosse il reato. La mattina dopo un deputato di Nuova Democrazia, il partito di governo, ha reso pubblico il nome del pestato e la sua passata militanza in un’organizzazione della sinistra. Così i greci hanno saputo che con Mitsotakis al governo la polizia greca ha ripreso a schedare i cittadini a seconda delle loro opinioni politiche. Proprio come all’epoca dei colonnelli. Un altro segreto nascosto dietro il crescendo di gaffe per giustificare le inammissibili brutalità poliziesche. Il quartiere di Nea Smyrni ha reagito con indignazione. Subito dopo il pestaggio si è formato spontaneamente un corteo di molte centinaia di abitanti, che ha sfilato tra gli applausi di chi stava al balcone. La grande manifestazione però si è tenuta il giorno seguente, quando tutta Atene si è spostata a Nea Smyrni in un corteo con migliaia di partecipanti (6 mila secondo la polizia, 10 mila per gli organizzatori). La polizia ha di nuovo fatto esibizione di forza, ma stavolta la violenza le si è ritorta contro. Il quartiere ha rinchiuso i poliziotti in un cerchio di disapprovazione e di condanna, mentre i più giovani hanno respinto con forza le cariche fino a notte inoltrata, con un poliziotto ferito piuttosto seriamente. Trincerati nella piazza principale gli agenti si sono visti costretti a sfogarsi, di nuovo, contro innocenti passanti oppure con bestemmie e insulti contro tutti, giornalisti compresi. Vedere un quartiere pacifico ribellarsi e condannare in massa il comportamento della polizia è stato uno choc per il premier Mitsotakis. Il quale ha ritenuto che fosse una buona idea rivolgere un messaggio ai cittadini. L’ennesimo passo falso: all’ora di cena è apparso sullo schermo un premier pallido, che ha parlato meno di un minuto a bassa voce, esprimendo solidarietà al poliziotto ferito e accusando Syriza di “spargere discordia”. Nessun cenno alla brutalità della polizia, nessuna assunzione di responsabilità, nessuna promessa di mettere un freno agli agenti. Grecia. Il governo spedisce il terrorista Koufondinas (in rianimazione) in massima sicurezza di Francesco De Palo Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2021 Sommossa degli anarchici. L’ex membro della Brigata 17 novembre, condannato a 11 ergastoli per altrettanti omicidi, è da settimane in sciopero della fame e della sete e sarà trasferito, dopo essere tornato dall’ospedale dove è ricoverato in terapia intensiva, dalla prigione agricola di Volos alla prigione di Domokos. Durante le proteste un agente di 27 anni è stato gravemente ferito con colpi di mazze. Si è trasformata in una guerriglia urbana (e politica) la vicenda del terrorista greco Dimitri Koufondinas, in sciopero della fame (e in terapia intensiva) per protestare contro la decisione del governo di riportarlo al carcere duro dal penitenziario agricolo di Volos. L’uomo, condannato a 11 ergastoli, è stato capo della brigata 17 novembre, e da tre settimane è in sciopero della fame e della sete. Una condizione che lo ha portato a un passo dalla morte, mentre gli anarchici che si riconoscono alle sue battaglie contro Usa, Nato e Ue mettono a ferro e fuoco le strade di Atene. Un agente di 27 anni è stato gravemente ferito con colpi di mazze in occasione di una manifestazione di protesta a Nea Smirni. Al momento Koufondinas è ricoverato presso l’ospedale di Lamia, nella Grecia centrale. Due anni fa sotto il governo targato Tsipras era stato trasferito in una prigione più leggera, provocando la protesta dei familiari delle vittime. Il suo avvocato chiede che lo stato di diritto venga rispettato e avverte che se ciò non accadrà ci saranno “condizioni che minacciano la pace e la coesione sociale”, come dimostrano le quotidiane sommosse degli anarchici nella zona ateniese di Zografou, con una vera e propria guerriglia urbana condotta a colpi di molotov da incappucciati contro gli agenti di polizia della capitale ellenica. Koufondinas è stato accusato di 200 reati in vari processi e condannato a 11 ergastoli per la sua partecipazione a un totale di undici omicidi, oltre a vari attentati e rapine. La prima vittima fu il 23 dicembre 1975, il capo della stazione Cia ad Atene, Richard Welch, freddato sull’uscio della sua abitazione davanti alla moglie e all’autista, passando per vari attacchi missilistici contro una sede della British Petroleum e contro gli uffici ateniesi della Siemens. La questione sta infiammando il dibattito politico e sociale. L’ex premier Alexis Tsipras ha chiesto al governo di cambiare posizione, in modo che “il filo della vita di Koufontinas non venga tagliato, la vita umana in uno Stato governato dallo stato di diritto è il bene supremo”. Il governo conservatore ha replicato che in uno Stato governato dallo stato di diritto “la legge si applica a tutti, anche a coloro che non mostrano rimorso e insultano la memoria delle loro vittime camminando ostentatamente nei luoghi in cui sono stati uccisi”. Tra le vittime del 17 novembre ci sono anche l’editore Nikos Momferatos e il deputato Pavlos Bakoyannis nel 1989, cognato dell’attuale primo ministro Kyriakos Mitsotakis, e padre dell’attuale sindaco di Atene, Kostas Bakoyannis. Un omicidio che all’epoca fece indignare tutto il Paese, con la condanna unanime anche da parte dei comunisti greci che rispettavano molto Bakoyannis per il suo contributo politico contro la Giunta. Syriza ora accusa il governo di vendetta per il coinvolgimento personale della famiglia Mitsotakis, ma i familiari delle vittime sostengono che il confinamento di un terrorista come Koufondinas in una prigione agricola sia uno sfregio alle morti causate dalla 17 novembre. In piazza Syntagma, ad Atene, si susseguono le proteste di antagonisti e militanti dell’opposizione: forte la tensione con la polizia che ha impiegato i cannoni ad acqua per disperdere i manifestanti, i quali hanno risposto con lancio di molotov e pietre. La scorsa settimana sono stati segnalati attacchi mirati di anarchici ai poliziotti impegnati nelle strade per le attività legate alla pandemia, come la campagna di vaccinazione o i controlli nelle aree in lockdown. Secondo la denuncia fatta pubblicamente dal Segretario generale delle forze di sicurezza greche, Stratos Mavroidakos, i poliziotti adesso rischiano la vita. “Il clima è pesante, non abbiamo ancora un poliziotto morto - ha detto - Ma alcune persone vorrebbero sporcarsi le mani con il sangue della polizia, pensando di fare una rivoluzione”. La Russia vuole inviare i detenuti ai lavori forzati a ripulire l’Artico di Andrey Poznyakov it.euronews.com, 13 marzo 2021 I detenuti in Russia saranno inviati ai lavori forzati per ripulire l’Artico dall’inquinamento. Lo ha affermato il direttore dei servizi federali penitenziari, Alexander Kalashnikov. Stando alle sue dichiarazioni al board dell’istituzione, sono già stati conclusi accordi con le autorità del territorio di Krasnojarsk, una divisione amministrativa situata nella Siberia centrale, e con l’amministrazione della città di Norilsk. Indiscrezioni su questa possibilità erano già circolate nei giorni passati in relazione ad un’analisi su 15 siti illegali di smaltimento rifiuti nella regione di Arkhangelsk, ricorda l’agenzia Interfax. Nell’area di Krasnojarsk, il dipartimento penitenziario punta a creare un centro correzionale che ospiterà 56 detenuti. Le autorità parlano di “cooperazione che darà mutuo beneficio”, con il dipartimento penitenziario, interessato ad aumentare l’utilizzo di lavori forzati per colmare la domanda di manodopera locale. Il Ministro delle Risorse Naturali, Alexander Kozlov, ha sottolineato l’importanza di una “pulizia generale” dell’Artico, che a suo dire va ripulito da ferraglia arrugginita e altri materiali inquinanti. Il Ministro si era pronunciato in relazione ad un disastro naturale che ha causato una perdita di combustibile nei pressi della centrale energetica di Norilsk. Nel maggio scorso, più di 20 tonnellate di diesel si erano riversate nelle acque e nel sottosuolo e la compagnia, Norilsk Nickel, è stata condannata al pagamento di quasi 150 miliardi di rubli (oltre 1.7 miliardi di euro) di danni. Gli attivisti dell’opposizione denunciano una rinascita dei gulag e dei lavori forzati nelle più remote periferie della Russia, in condizioni ambientali estreme. Lavori forzati che, storicamente, hanno provocato trattamenti degradanti e il decesso di innumerevoli detenuti. Egitto. Da Europa e Stati Uniti rarissima condanna del regime di al-Sisi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 13 marzo 2021 Presentata all’Unhrc una dichiarazione congiunta che condanna le pratiche repressive del Cairo, le detenzioni e il bavaglio alla stampa. Plauso delle ong internazionali. Intanto nel paese il ministero degli interni risponde con le minacce a chi denuncia le torture. La dichiarazione congiunta di 31 paesi sull’Egitto è stata letta ieri in videoconferenza dall’ambasciatrice finlandese Kauppi durante il dibattito generale del Consiglio Onu per i diritti umani (Unhrc), dedicato ai casi sotto osservazione: una pagina in cui stretti alleati del Cairo, venditori strutturali di aerei, navi e tecnologie militari per l’esercito e armi leggere per la polizia, noti investitori nel regime egiziano hanno messo nero su bianco una serie di gravi violazioni dei diritti umani commesse nella sponda sud del Mediterraneo. Parole, è vero, ma talmente rare da attirare l’attenzione: è la prima pesa di posizione congiunta sull’Egitto presentata all’Unhrc dal 2014, l’anno successivo al golpe dell’ex generale Abdel Fattah al-Sisi. Parole importanti anche alla luce del peso specifico di chi le esprime: tra i 31 paesi firmatari della dichiarazione congiunta c’è mezza Europa (tra gli altri Italia, Francia, Germania, Spagna, Svezia), ci sono il Canada e il Regno Unito, e ultimi in ordine alfabetico gli Stati uniti. Nello specifico, si chiede al Cairo di interrompere la persecuzione di attivisti, giornalisti, oppositori politici veri e presunti, di “garantire spazio alla società civile perché lavori senza timore di intimidazioni, vessazioni, arresti, detenzioni”. L’elenco è lungo e tocca i tanti ingranaggi con cui il regime fa funzionare la rodata macchina della repressione interna: “restrizione della libertà di espressione e del diritto all’assemblea pacifica”, “applicazione della legge anti-terrorismo contro i critici pacifici” e contro “attivisti, persone Lgbti, giornalisti, politici e avvocati”, “divieti di espatrio e congelamento dei beni contro i difensori dei diritti umani”, “restrizioni alla libertà mediatica e digitale e pratica del blocco dei siti dei media indipendenti”. Il documento chiude con un focus sulle pratiche giudiziarie del regime, dall’estensione continua della detenzione cautelare (è il caso di Patrick Zaki) al sistema delle porte scorrevoli, ovvero nuovi casi giudiziari con cui mantenere dietro le sbarre prigionieri politici che hanno terminato la loro pena, come Alaa Abdel Fattah. Proprio l’attivista, nuovamente imprigionato a settembre 2019 dopo il rilascio pochi mesi prima, a inizio marzo ha denunciato l’uso della tortura con l’elettrochoc nella prigione di Tora, ma - hanno fatto sapere mercoledì diverse organizzazioni egiziane - la procura generale non ha indagato. Anzi: il ministero degli interni ha minacciato Mona Seif, la sorella di Alaa di procedimenti penali nei suoi confronti per accuse false. Immediata la reazione delle ong internazionali, dopo che oltre 100 di loro all’inizio dell’anno avevano scritto agli Stati membri dell’Onu avvertendo del tentativo egiziano di “annientare le organizzazioni locali” e “sradicare il movimento per i diritti umani”. Ieri 20 di loro hanno risposto con un comunicato congiunto - firmato tra gli altri da Human Rights Watch, Amnesty, Dignity e diverse associazioni egiziane - per “esprimere forte sostegno” alla dichiarazione: “Pone fine ad anni di assenza di azioni collettive sull’Egitto da parte del Consiglio Onu per i diritti umani - il commento di Bahey Hassan, direttore del Cairo Institute for Human Rights Studies - Si deve continuare a dire al governo egiziano che non ha più carta bianca”. Ora è da capire se alle parole seguiranno i fatti. Che non sono affatto promettenti: appena un mese fa l’amministrazione Biden, dopo aver promesso di tirare il freno ad al-Sisi, gli ha venduto 168 missili tattici Raytheon, valore totale 197 milioni di dollari. Dell’Italia abbiamo parlato in abbondanza, dell’Europa anche: vale la pena ricordare che - dati Ue alla mano - nel 2019 gli Stati membri hanno autorizzato l’export di 16 miliardi di euro in armi al Cairo, quasi due terzi in più del 2014. E poi c’è la Turchia che ieri ha annunciato la ripresa di contatti diplomatici con Il Cairo dopo otto anni di rottura, dovuta alla repressione della Fratellanza musulmana (di cui l’Akp di Erdogan è espressione) da parte di al-Sisi. Tantissimi i membri dei Fratelli fuggiti in territorio turco in cerca di protezione dopo il golpe che nel luglio 2013 portò alla rimozione del presidente islamista Morsi e all’inizio di una persecuzione sia legale che giudiziaria. Senza contare la rivalità intorno alla questione libica - i due paesi stanno ai poli opposti - Ankara con la Tripoli di Sarraj, Il Cairo con la Bengasi di Haftar. Proprio la definizione dei confini marittimi, unilateralmente dichiarati da Sarraj ed Erdogan, sarebbe al centro delle discussioni tra i due paesi. Marocco. Il digiuno in cella di Maati Monjib di Paolo Lepri Corriere della Sera, 13 marzo 2021 Lo storico marocchino, imprigionato con un pretesto, si batte per la verità. “Sono vittima di una persecuzione per la mia attività in difesa dei diritti umani”, denuncia lo storico marocchino Maati Monjib, che ha iniziato una settimana fa uno sciopero della fame nel carcere di Al-Arjat a Salè, la citta che guarda, dall’altra parte del fiume Bou Regreg, la capitale di un regno che Mohammed VI non ha affatto reso più democratico come aveva promesso dieci anni fa quando soffiava il vento delle “primavere arabe”. L’arresto di questo professore di studi africani, figura importante nel mondo della cultura marocchina, è avvenuto proprio a Rabat, alla fine del 2020. Otto agenti, scesi da due veicoli, lo hanno prelevato all’uscita di un ristorante. Un’accusa pretestuosa, “riciclaggio di denaro” (utilizzata spesso nei regimi illiberali contro gli oppositori), gli ha impedito di essere presente al processo conclusosi il 27 gennaio con una condanna a un anno di reclusione per “attentato alla sicurezza dello Stato” e “frode”. “Mettendomi in prigione arbitrariamente - ha detto - mi hanno anche impedito di difendermi”. Cinquantanove anni, nato a Benslimane, Monjib è rientrato in patria dopo un dottorato all’estero nel 1999, in un momento nel quale l’ascesa al trono del figlio di Hassan II aveva fatto sperare nell’avvio di un’epoca nuova. Le illusioni di un tempo sembrano ora finite dopo tante battaglie contro un sistema politico totalmente dominato dalla makhzen, la corte reale. “L’opposizione è oggi rappresentata da intellettuali e giornalisti - ha detto in una intervista pubblicata sul sito del Carnegie Endowment for International Peace - e non dalle forze politiche compromesse con il potere”. “Agli “Islamisti del re” - scrive Adel Abdel Ghafar della Brookings Institution - è consentito governare fino a quando non vengono varcate le linee rosse tracciate dal palazzo. Chi come Monjib le oltrepassa diventa un bersaglio del regime”. È accaduto anche al giornalista Omar Radi, in detenzione provvisoria da giugno, perseguito per un tweet critico contro le autorità. Di fronte a tutto questo la comunità internazionale ha il dovere di muoversi. Intanto, il professore di Rabat non sembra avere paura: “Prometto a tutti che dirò la verità in modo risoluto”. Australia. Gli scienziati scagionano la mamma-killer. “Figli morti per cause naturali” di Marta Serafini Corriere della Sera, 13 marzo 2021 L’australiana Folbigg è in cella da 18 anni per l’omicidio dei 4 figli sulla base di prove indiziarie. Gli esperti: è innocente. Fin dall’antichità il processo a Medea, accusata di aver ucciso i suoi figli, ha visto innocentisti e colpevolisti contrapporsi. Dalla Colchide all’Australia, dal mito alla realtà, ora sulle opposte barricate del tribunale, ci sono giudici e scienziati. Alla sbarra, una madre di quattro figli, nati uno dopo l’altro e tutti morti ancora prima di aver compiuto il secondo anno di vita. La “Medea” è Kathleen Folbigg, originaria della regione della Hunter Valley del Nuovo Galles del Sud. Condannata a 30 anni nel 2003, quando aveva 35 anni, Folbigg ha già trascorso quasi 18 anni in prigione dopo essere stata giudicata colpevole dell’omicidio colposo del suo primogenito Caleb e dell’omicidio dei suoi tre altri tre figli, Patrick, Sarah e Laura. “Li ha soffocati tutti” ha decretato il tribunale. “È un mostro” è stato il verdetto dell’opinione pubblica che le ha attaccato addosso la lettera scarlatta di “peggior serial killer donna d’Australia”. La scorsa settimana il colpo di scena nel copione della tragedia: una petizione firmata da 90 eminenti scienziati e genetisti ha chiesto la grazia per Folbigg e il suo rilascio immediato. Tra i firmatari, due premi Nobel e il presidente dell’Accademia australiana delle scienze, il professor John Shine. Secondo gli scienziati, a provocare la morte dei bambini è stato un difetto congenito. Gli esperti hanno analizzato il genoma di Folbigg, riscontrando una rara mutazione del gene CALM2. Queste anomalie sono associate a patologie che provocano aritmie cardiache e che, nei bambini, possono causare un arresto cardiaco o la morte improvvisa. Analizzati i campioni, è venuto fuori che Sarah e Laura avevano la stessa mutazione del gene della madre e potrebbero essere morte a causa delle anomalie. Inoltre, gli studi e i test hanno evidenziato che Caleb e Patrick avevano due diverse varianti molto rare del gene BSN, collegato a problemi neurologici e attacchi epilettici letali. A Patrick era poi stata diagnosticata l’epilessia prima della nascita. Difficile dunque non vedere un nesso. Kathleen - di fatto - è stata condannata sulla base di prove indiziarie. All’epoca fu il marito a denunciarla dopo aver letto il suo diario. Qui aveva trovato scritto frasi inquietanti. Ossia che Sarah era morta “con un po’ di aiuto”. Un’aiuto che la madre- che si è da sempre proclamata innocente - ha spiegato di aver attribuito a Dio. Poi un’altra frase. “È chiaro che io sia la figlia di mio padre”, scriveva Kathleen riferendosi alla morte della madre accoltellata a morte dal compagno, quando Kathleen aveva solo 18 mesi. Finora il tribunale del Nuovo Galles del Sud ha respinto due appelli contro la condanna di Folbigg - che nel 2005 è passata da 40 a 30 anni- senza possibilità di libertà condizionale. E se oggi il procuratore dello stato, Mark Speakman, ha dichiarato che la petizione degli scienziati verrà valutata con attenzione, è chiaro come ora il sistema giudiziario australiano rischi di finire nella bufera, a causa di quello che potrebbe essere uno dei peggiori errori giudiziari della storia. Una storia che ha sempre condannato Medea. E che ora però potrebbe cambiare. Congo. La guerra per coltan & cobalto, liquirizia amarissima che sa di sangue di Roberto Saviano Corriere della Sera, 13 marzo 2021 Un uomo giovanissimo scende in un pozzo della miniera di coltan. Ragazzini e bambini sono molto richiesti per questi lavori perché più agili, più piccoli ed elastici: si muovono meglio in spazi angusti. La mortalità è altissima per la velocità di scavo: il coltan somiglia a scaglie di liquirizia e sta in cunicoli messi di rado in sicurezza, che rovinano sui minatori. Una liquirizia amarissima, che lascia in bocca il sapore del sangue. Sono cresciuto tra minerali, mia madre mineralogista è stata direttrice del Real Museo Mineralogico di Napoli e ha passato tutta la vita a studiarli. Tra quelle mura mi sentivo circondato da qualcosa di eterno. I minerali non mi hanno mai comunicato pericolosità, solo un incredibile fascino che mi pareva però statico rispetto a musica, poesia, filosofia. La verità delle pietre mi sembrava fredda, scientifica, chimica. Crescendo ho capito che mi sbagliavo: nella potenza dei minerali c’è la storia viva, pulsante, della Terra. L’unica bibliografia del pianeta, la nostra storia di specie, la si può leggere solo nelle profondità abissali. Ricordo che c’era, al Real Museo, un piccolissimo diamante che veniva sistematicamente nascosto per evitare che sfondassero la vetrina per rubarlo. C’erano minerali ben più preziosi, ma l’istinto verso il diamante sarebbe stato diverso e non abbisognava di conoscenze di mercato. Bastava dire: diamante. La sola parola rimandava a qualcosa di inarrivabile. Qualcosa di luminosissimo che si può trovare solo nell’abisso, e che conduce all’abisso. La fotografia di questo articolo l’abisso lo racconta, l’abisso in cui sprofonda l’Africa, ricca di tutto ciò che di più prezioso esista e depredata di quanto di più prezioso esista. Diamanti, certo. Oro, sempre oro. Ma il nuovo oro generato dalla fame della tecnologia si chiama coltan e cobalto. Senza coltan e cobalto non si potrebbe conservare nessuna energia in nessun dispositivo. Ora mi addentro in una terra che per anni ho attraversato - la terra dei minerali - ma resta un mondo fantastico. Il coltan è una miscela complessa di due minerali dal nome letterario: la columbite e la tantalite. “Nel 1801”, mi racconta mia madre, “Charles Hatchett ritenne di aver scoperto un nuovo elemento chimico: chiamò questa “nuova terra” columbium, in onore di Cristoforo Colombo, e il minerale che lo conteneva columbite”. Oggi il nome columbium è stato sostituito da niobio, ma il minerale resta la columbite. Anche la tantalite ha un nome letterario: nel 1802, A. G. Ekeberg la chiamò così perché, non sciogliendosi negli acidi, gli ricordò di re Tantalo, gettato nel Tartaro e condannato in eterno ad avere una fame e una sete che nessun cibo né l’acqua avrebbero mai placato. Nonostante l’unione di due nomi così romantici, il coltan è il vero responsabile, con il cobalto, di conflitti insanabili (anche il cobalto ha un’etimologia affascinante, dal greco kobalos, coboldo: leggenda vuole fosse proprio un coboldo a ingannare i minatori e a far trovare cobalto invece di metalli preziosi). In Congo le fazioni in guerra per cobalto e coltan sono finanziate da società di mezzo mondo: americane, russe, cinesi, francesi, belghe. Una guerra mondiale che combattono le etnie locali. La morte dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio ci ha mostrato come la nostra distrazione verso uomini capaci come lui si interrompa solo per eventi tragici. Attanasio conosceva il Congo nel profondo, ma di rado in Italia i conoscitori dell’Africa trovano spazio e attenzione per poter raccontare, ad esempio, le dinamiche di migrazione e sfruttamento, il disinteresse che rende interi Paesi terra di saccheggio. Cobalto e coltan sono sistematicamente saccheggiati e hanno messo il Congo al centro del mondo della guerriglia: fazioni di volta in volta sostenute e armate dagli interessi di tutte le restanti aree del pianeta, tutti parimenti coinvolti nella infinita guerra mondiale congolese. Forse è proprio questa la parola che bisognerebbe usare per i conflitti africani: mondiali. La foto mostra un uomo giovanissimo che scende in un pozzo della miniera di coltan. Spesso sono impiegati bambini e ragazzini, soprattutto nelle gallerie a cielo coperto. Sono molto richiesti perché più agili, più piccoli ed elastici, adatti a spazi angusti. La mortalità è altissima per la velocità di scavo: il coltan somiglia a scaglie di liquirizia ed è in cunicoli raramente messi in sicurezza, che rovinano addosso ai minatori. Liquirizia amarissima, che lascia in bocca il sapore del sangue.