Rapporto sulle carceri italiane: l’affollamento è ormai una questione di salute pubblica di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 12 marzo 2021 È stato presentato questa mattina in diretta Facebook e YouTube il XVII Rapporto di Antigone sulle carceri italiane. Il Rapporto è ogni anno frutto dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia, una struttura cui Antigone ha dato vita nel lontano 1998 e che coinvolge circa cento collaboratori volontari autorizzati dal ministero della Giustizia a visitare tutte le carceri italiane per adulti e per minori. Alla presentazione hanno preso parte il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Bernardo Petralia, il Capo Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità Gemma Tuccillo e il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà Mauro Palma. Partiamo dal dato sull’affollamento, che oggi ha cambiato natura. Non è più solo una condizione di trattamento degradante, come la Corte di Strasburgo ci aveva insegnato a considerarla, ma diventa anche una questione di salute pubblica. Alla vigilia dello scoppio della pandemia, alla fine di febbraio 2020, i detenuti erano 61.230. Alla fine di febbraio 2021 sono 53.697. In un anno i detenuti sono calati di 7.533 unità, corrispondente al 12,3% del totale. Ciò è stato dovuto più all’attivismo della magistratura di sorveglianza che non ai provvedimenti legislativi adottati in materia di detenzione domiciliare per far fronte al virus. Ma il tasso di affollamento ufficiale è ancora pari al 106,2% e sale al 115% se consideriamo i reparti chiusi che, come emerge dalle visite di Antigone, riguardano circa 4.000 posti. Il sovraffollamento non è distribuito in maniera uniforme. Troviamo carceri con tassi invivibili. A Taranto abbiamo 603 detenuti per 307 posti (un affollamento di quasi il 200%), a Brescia 357 detenuti per 186 posti (191,9%), a Lodi 83 detenuti per 45 posti (184,4%), a Lucca 113 detenuti per 62 posti (182,3%). In calo la popolazione detenuta straniera. Gli stranieri sono generalmente autori di reati meno gravi rispetto a quelli degli italiani, ma tuttavia subiscono maggiormente la custodia cautelare. I condannati con sentenza definitiva sono infatti il 69,1% dei detenuti italiani e il 65,3% degli stranieri. Sono le regioni più povere quelle da cui proviene la maggior parte dei detenuti, prima tra tutte la Calabria, seguita da Campania, Sicilia e Puglia. Negli ultimi 15 anni vi è stata una crescita della durata delle pene inflitte (sono solo 985 oggi le persone condannate a meno di un anno di carcere, mentre erano 3.356 nel 2005), nonostante siano in diminuzione i reati più gravi. L’omicidio volontario è ai minimi storici, essendo sceso sotto le 300 unità in un anno. Man mano che cresce la lunghezza della pena inflitta diminuisce la percentuale dei detenuti stranieri, segno del minore spessore criminale. Il carcere costa. Il bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è cresciuto del 18,2%, passando da 2,6 a 3,1 miliardi di euro: una cifra record negli ultimi 14 anni, che rappresenta il 35% del bilancio del ministero della Giustizia. A frequentare la scuola è solo un detenuto su tre, nonostante solo circa uno su dieci sia in possesso di un diploma. A lavorare è circa un detenuto su quattro, quasi tutti alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria impegnati in servizi domestici interni all’istituto. Al primo marzo 2021 erano 410 i detenuti positivi al Coronavirus. I positivi nel corpo di polizia penitenziaria erano 562. Fra lo staff amministrativo i positivi erano 49. Dall’inizio della pandemia, 18 detenuti sono morti per Covid mentre i decessi fra il personale di polizia penitenziaria sono stati 10. L’incidenza rilevata delle persone positive al Covid-19 è stata in carcere più alta che fuori. Non la mortalità, vista l’età tendenzialmente giovane della popolazione detenuta. Il numero degli attualmente positivi in carcere sul numero del totale dei detenuti è più alto dello stesso dato relativo all’Italia in generale in tutti e tre i mesi nei quali Antigone lo ha calcolato, ovvero aprile 2020 (18,7 dentro e 16,8 fuori), dicembre 2020 (179,3 dentro e 110,5 fuori) e febbraio 2021 (91,1 dentro 68,3 fuori). Dalle visite effettuate da Antigone nel corso del 2020 è emerso tra le altre cose che metà delle carceri visitate si trovava in area extraurbana e nell’11,4% dei casi non c’era mezzo di trasporto che potesse servire ai parenti in visita per raggiungerle. Nel 22,7% degli istituti visitati non sono garantiti i 3 metri quadri minimi a persona imposti dagli standard internazionali. Nel 15,9% non vi è un medico per tutte e 24 le ore. Nel 9,1% delle carceri visitate il riscaldamento non è garantito in tutte le celle, nel 29,5% non lo è l’acqua calda, nel 47,7% non lo è la doccia in cella, nel 38,6% si trovano schermature alle finestre delle celle che non favoriscono l’ingresso di luce naturale. Nel 79,5% delle carceri non c’è uno spazio di culto per detenuti non cattolici e nel 25% dei casi non vi è un ministro di culto non cattolico. Nel 15,9% delle sezioni visitate non vi sono spazi per la socialità. Nel 36,4% dei casi non è previsto l’accesso settimanale alla palestra o al campo sportivo. La presenza media settimanale degli psichiatri per 100 detenuti è 8,97 ed è di 16,56 la presenza media degli psicologi. Nel 54,5% dei casi non vi è alcuna possibilità di accedere a Internet. Nel 2020 si sono tolte la vita in carcere 61 persone. Erano quasi 20 anni che non si aveva un tasso di suicidi così elevato. Nella maggior parte dei casi si è trattato di persone giovani: l’età media è stata infatti di 39,6 anni. *Coordinatrice associazione Antigone Ancora sovraffollamento, aumentano i suicidi, ma la gestione del virus ha suscitato proteste di Marta Rizzo La Repubblica, 12 marzo 2021 Il XVII Rapporto Antigone segnala che i 189 istituti penali hanno bisogno di essere ancora spopolati e non solo per fronteggiare il virus. Crescono i suicidi, le donne detenute sono solo il 4,2%, gli stranieri non aumentano, mentre risultano buoni i sistemi e la gestione dell’epidemia nella giustizia minorile. Il Rapporto ci dice inoltre che Il numero di positivi oltre le sbarre è più alto di quello che sta fuori. Dentro le mura degli istituti di pena italiani sono morte 18 persone detenute e 10 guardie penitenziarie. I tassi medi di positivi, stando ai dati aggiornati al febbraio 2021, mostrano che su 10.000 reclusi, il numero di positivi era di 91 persone, mentre nel resto della popolazione 68. Le vaccinazioni. Riguardo i vaccini, tra fine febbraio e inizio marzo è finalmente iniziata la campagna di immunizzazione nelle carceri. Di norma, prima viene vaccinato il personale amministrativo e di polizia, solo successivamente i detenuti che, sempre fino al 9 marzo, hanno ricevuto il vaccino solo in 927. Il sovraffollamento. Da condizione degradante a questione di salute pubblica. Il Rapporto, che ha per titolo “Oltre il virus”, lancia uno sguardo al di là dell’emergenza sanitaria, perché il carcere ha disfunzioni pregresse. Al 28 febbraio 2021 i reclusi in Italia erano 53.697; il 29 febbraio dell’anno scorso erano 61.230, quanto l’Italia non era ancora “zona rossa” totale. In una anno, il calo dei detenuti è stato di 7.533 persone: il 12,3% di tutta la popolazione penitenziaria. Una diminuzione che ha riguardato sia condannati che persone in attesa di giudizio. I condannati sono il 68%, ma le persone che non hanno ricevuto il primo giudizio il 16,5%. I reati più diffusi: contro il patrimonio e contro la persona. I dati criminali informano che i reati per i quali in Italia si va in carcere più spesso sono prima di tutto quelli contro il patrimonio (30.745), poi quelli contro la persona (23.095) e i reati in violazione della legge sulle droghe (18.757). Seguono le violazioni della legge sulle armi (9.397) e i delitti di associazione di stampo mafioso (7.274). Ogni detenuto è mediamente in carcere per aver commesso più di due delitti. Omicidi ai minimi storici; femminicidi in aumento. Come negli anni precedenti, anche nel 2020 vi è stata una diminuzione degli omicidi volontari: si è passati dai 315 omicidi del 2019 ai 271 del 2020, con una riduzione del 14%. Quest’anno si è scesi sotto i 300 omicidi, raggiungendo i minimi storici. La diminuzione degli omicidi totali non ha trovato corrispondenza nella riduzione negli omicidi contro le donne. Risultano in lieve aumento le vittime femminili (da 111 del 2019 a 112 del 2020) e quelle uccise in ambito familiare-affettivo (da 94 a 98). Affollamento ufficiale al 106,2%, effettivo al 115%. Il tasso di affollamento è al 106,2%. L’amministrazione penitenziaria riconosce che “il dato sulla capienza non tiene conto di situazioni transitorie”; i reparti chiusi, poi, riguarderebbero circa 4mila posti: chiarito ciò, il tasso di affollamento effettivo, non ufficiale, cresce e raggiunge il 115%. Per arrivare al 98% della capienza ufficiale regolamentare (percentuale di un sistema vivibile, che abbia un certo numero di posti liberi per eventuali arresti), sarebbe necessario diminuire il sistema di 4.000 persone (8.000 con i reparti chiusi). Taranto, con 196,4% di detenuti in più; Brescia, con 191,9%; Lodi, con 184,4%, sono i penitenziari più affollati. Ma sono oltre 20 le carceri sovraffollate d’Italia. Sono stati 61 i suicidi in cella: numero senza precedenti. Nel 2020, 61 persone si sono tolte la vita negli istituti di pena italiani. 11 suicidi ogni 10.000 persone. L’età media è di 39,6 anni. La fascia più rappresentata, 15 decessi, è quella fra i 36 e i 40 anni, seguita da 8 decessi di ragazzi tra i 20 e i 25 anni. I più giovani avevano 22 anni, morti uno a Benevento e l’altro a Brescia; la persona più anziana aveva 80 anni, a Cagliari. Il carcere dove si sono concentrati più suicidi è a Como, con 3 decessi fra i mesi di giugno e settembre. Seguono, con 2 casi ognuno, gli istituti di Benevento, Brescia, Napoli Poggioreale, Palermo Pagliarelli, Roma Rebibbia, Roma Regina Coeli e Santa Maria Capua a Vetere. 13 i suicidi dopo le rivolte e le proteste sui tetti di marzo 2020, a inizio lockdown, e il conseguente allontanamento tra detenuti e i loro cari. Solo 1/3 dei detenuti frequenta la scuola. Appare urgente un piano di scolarizzazione e formazione. I detenuti che frequentano la scuola sono circa 1/3 del totale. Nell’anno scolastico 2019/2020 gli iscritti a corsi scolastici, dentro, erano 20.263 (il 33,4%). Poco meno della metà (9.176) erano stranieri. Gli infratrentenni detenuti, inoltre, sono ben 9.497, e questo numero elevato di giovani dovrebbe spingere l’amministrazione a organizzare azioni educative, scolastiche, culturali, di avviamento al lavoro e informatizzazione efficaci. Solo un detenuto su dieci, invece, ha una licenza di scuola superiore, o una laurea. Cresce la nicchia di universitari. Ma lavora solo un detenuto su 4. Sono 24 gli Atenei coinvolti, con attività didattiche e formative, in circa 50 carceri, con 600 studenti iscritti: una fetta piccola, ma raddoppiata tra il 2015 e il 2019. Si tratta di studenti in parte coinvolti nelle attività dei 27 poli universitari dentro le carceri e in parte (nel 44% dei casi) iscritti all’Università. Ma nella pratica, lavora solo 1 detenuto su 4 e i quelli che hanno datori di lavoro esterni sono solamente il 3,5%. La formazione professionale, in pandemia, si è ridotta ai minimi storici. Il carcere costa 3,1 miliardi. Il personale penitenziario è scarso e disomogeneo. Il bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) è pari a 3,1 miliardi, mentre quello del Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità (Dgmc) è molto più contenuto, pur occupandosi di minori, giovani adulti e dell’area penale esterna ed è meno di 1/10 delle risorse del DAP. Su un organico di 37.181 persone, poi, sono 32.545 gli agenti di polizia penitenziaria operativi. La differenza fra personale previsto ed effettivo è pari al 12,5%. La carenza di agenti rispetto all’organico non è equamente distribuita: alcuni provveditorati hanno un sotto organico oltre al 20% (Sardegna e Calabria), altri hanno un numero effettivo anche superiore a quello previsto (Campania e Puglia-Basilicata). In 31 carceri italiane manca un direttore titolare e, rispetto ai 67 mediatori culturali previsti dal Ministero della Giustizia, quelli realmente in servizio in Italia sono solo 3. Cresce l’area penale esterna: 61,589 persone. L’area penale si compone anche di misure non detentive. Sono 61.589 le persone in misura alternativa alla detenzione, sanzione sostitutiva, libertà vigilata, messa alla prova, lavori di pubblica utilità. Di queste, 6.961 sono donne. 16.856 in affidamento in prova al servizio sociale, 11.788 quelle in detenzione domiciliare e 752 in semilibertà. Ben 8.828 sono sottoposti a lavori di pubblica utilità, quasi tutti per violazione del codice della strada, 18.936 in messa alla prova e la convertibile pena residuale, per far fonte al sovraffollamento. La messa alla prova. È una forma di ‘prova giudiziale’ innovativa: consiste nella sospensione del procedimento penale nella fase decisoria di primo grado. Vi si accede su richiesta dell’imputato, per reati di minore allarme sociale. Introdotta nel 2014, si è conquistata uno spazio enorme nel sistema socio-penale, senza però contribuire sostanzialmente a diminuire i numeri della carcerazione. Le persone recluse fruiscono meno delle opportunità di reinserimento sociale e tendono maggiormente a scontare per intero la pena inflitta. Da non sottovalutare, in questo contesto, sono i 19.040 con un residuo pena inferiore ai tre anni: sono potenzialmente ammissibili a una misura alternativa alla detenzione: se metà di loro ne fruisse, si risolverebbe parte dell’affollamento carcerario. Stranieri detenuti. Da tempo sono il 32,5%, soprattutto da Marocco, Tunisia, Albania. I detenuti stranieri, da alcuni anni, rappresentano il 32,5% della popolazione carceraria. Di questi, il 18,1% è in carcere in attesa di primo giudizio, Il 16,1% con una condanna non ancora definitiva. Gli italiani nella stessa condizione sono il 14,7%. Al 31 dicembre 2020, la popolazione detenuta straniera in Italia proveniva soprattutto dall’Africa, con 9.261 ristretti, in particolare da Marocco (3.308) e Tunisia (1.775). Dall’area UE provengono 2.691 detenuti. L’Albania, con 1.956 detenuti, è lo Stato balcanico extra UE con il più alto numero di detenuti in Italia. Le donne delinquono pochissimo. Sono solo il 4,2%. Erano 2.250 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani al 31 gennaio 2021, 27 delle quali con figli al seguito: solo il 4,2% del totale della popolazione detenuta. Le quattro carceri femminili italiane (Trani, Pozzuoli, Roma, Venezia) ospitano 549 donne, meno di 1/4 del totale. L’Istituto a custodia attenuata di Lauro, unico Icam non dipendente da un carcere ordinario, ospita 7 madri detenute. Le altre 1.694 sono nelle 46 sezioni femminili di carceri maschili. Il 28,9% dei 4.160 reati ascritti alle donne riguarda reati contro il patrimonio, contro la persona (18,5%) e le violazioni della legge sulle droghe (15,7%). L’associazione mafiosa riguarda il 3% delle detenute. A fine 2020, erano 13 le donne in 41bis. La detenzione minorile fa fronte virus. A metà gennaio 2021, erano 281 i ragazzi detenuti nei 17 Istituti penali per minori, 119 minorenni e i 162 giovani adulti. I giovani in Ipm costituiscono il 22% dei 1.276 che vivono in strutture residenziali della giustizia minorile e il 2,11% dei 13.282 in carico agli uffici di servizio sociale per i minorenni, tra questi 2.149 sono in messa alla prova. Tra i 281 ragazzi in carcere a metà gennaio 2021, si contano 15 infrasedicenni, 104 minorenni tra i 16 e i 17 anni, 118 giovani adulti tra i 18 e i 20 e 44 nella fascia 21-24. Gli italiani sono 158, gli stranieri 123. Le ragazze sono 13 (4 italiane e 9 straniere), ospitate nelle sezioni femminili di Nisida e Roma e nell’unico Ipm tutto femminile di Pontremoli, con attualmente 8 donne. Sono 148 i ragazzi che hanno una sentenza definitiva, il 52,7% del totale, mentre il 20,6% è in attesa di primo giudizio. L’emergenza Covid è stata affrontata con relativa facilità da quasi tutti gli Ipm. Molti istituti, però, hanno avuto difficoltà nell’organizzare la didattica a distanza. Diverse anche le modalità nelle quali si sono organizzati i video-colloqui tra ragazzi e familiari, ovunque garantiti. Incrementare gli strumenti informatici è necessario. Nelle carceri mai tanti suicidi da 20 anni. Il Covid si diffonde più in cella che fuori di Federica Olivo huffingtonpost.it, 12 marzo 2021 61 persone si sono tolte la vita. L’anno della grande paura per il virus che si diffondeva, e ancora si diffonde, in cella, ma anche l’anno dell’introduzione della tecnologia per garantire, nei mesi più duri della pandemia, ai detenuti di poter sentire i familiari. L’anno della riduzione (indispensabile per fronteggiare il contagio) del sovraffollamento, che persiste ma non è più drammatico come negli anni scorsi. Ma anche l’anno in cui si è registrato un numero altissimo di suicidi nei penitenziari. Sessantuno persone si sono tolte la vita in prigione. Un numero così alto non si registrava da un ventennio. Questo è stato, in estrema sintesi, il 2020 per le carceri italiane. L’Associazione Antigone lo ha descritto nel report annuale, presentato oggi online. “Oltre il virus” è il titolo del lavoro. E oltre il virus sperano di andare le carceri, e il Paese tutto, anche grazie alla campagna di vaccinazione, iniziata anche nei penitenziari. L’incidenza delle persone positive in carcere è più alta che fuori, scrive Antigone. I detenuti attualmente positivi nei penitenziari, al 9 marzo erano 468, in aumento rispetto alla settimana precedente, su una popolazione di circa 53mila persone. Tra gli agenti di polizia penitenziaria erano 612. Fra lo staff amministrativo i positivi erano 48. Numeri che in termini assoluti sembrano piccoli, ma che non lo sono affatto. Per spiegare quanto il virus sia entrato in cella, l’associazione prende come esempio i mesi di aprile, di dicembre e di febbraio. Ad aprile 2020 nelle carceri italiane l’incidenza dei positivi ogni 10mila persone era di 18,7, in Italia di 16,8. Il gap è salito notevolmente a dicembre 2020: nelle carceri italiane l’incidenza era di 179,3, nel resto del Paese 110,5. Situazione simile a febbraio: in carcere si attestava a 91,1, in Italia 68,3. La pandemia ha fatto 18 vittime tra i detenuti e 10 tra gli agenti. Nei primi mesi di diffusione del virus la popolazione reclusa è diminuita: erano più di 60mila i detenuti all’inizio del 2020, sono poco più 53.697 ora. Il sovraffollamento resta, ma è stato ridotto del 12,6%. Per Antigone non basta: “Per arrivare al 98% della capienza ufficiale regolamentare, considerata in alcuni paesi la percentuale fisiologica di un sistema che abbia sempre la disponibilità di un certo numero di posti liberi, per eventuali improvvise ondate di arresti o esecuzioni, sarebbe necessario deflazionare il sistema di altre 4.000 unità, che diventano 8.000 se si tiene conto dei reparti transitoriamente chiusi”, si legge nel rapporto. Missione impossibile? Non è detto. Secondo i dati elencati nel rapporto tra i reclusi ci sono 19.040 persone che potrebbero scontare l’ultimo periodo della pena fuori dal carcere, perché hanno un residuo inferiore a tre anni. “Va sottratta - si legge nel report - quella quota sottoposta a divieti normativi in ragione del reato commesso. Se solo metà di loro ne fruisse avremmo risolto parte del problema dell’affollamento carcerario italiano”. Se quella di rendere più vivibili le celle e garantire più spazio ai detenuti è una sfida annosa, resasi più necessaria con l’esplosione della pandemia, la sfida nuova è quella di accelerare con i vaccini. Al 9 marzo la prima dose del prodotto anti Covid 927 detenuti, 5.764 agenti e 503 amministrativi. La campagna è appena iniziata e c’è ancora tanta strada da fare. Il dramma dei suicidi: mai così tanti da 20 anni - Il bilancio delle persone che si sono tolte la vita in carcere nel 2020 è particolarmente drammatico: nell’anno appena passato 61 persone si sono suicidate all’interno degli istituti di pena italiani. Nel 2020 tale tasso è risultato significativamente superiore agli anni passati, attestandosi a 11 casi di suicidio ogni 10.000 persone. Erano quasi vent’anni che non si registrava un numero così alto. Nella maggior parte dei casi si è trattato di persone giovani. L’istituto dove sono stati registrati più casi di suicidio nel corso dell’anno è la Casa Circondariale di Como con tre decessi fra il mese di giugno e quello di settembre, seguono con due casi ognuno gli istituti di Benevento, Brescia, Napoli Poggioreale, Palermo Pagliarelli, Roma Rebibbia, Roma Regina Coeli e Santa Maria Capua a Vetere. Stranieri, donne e 41bis - Rispetto a circa 10 anni fa, i detenuti stranieri in Italia sono diminuiti. “Erano il 37,15% alla fine del 2009, e che in termini assoluti sono diminuiti di ben 6.723 unità nel giro di undici anni”, si legge nel rapporto. Statisticamente sono gli autori dei reati meno gravi, ma sono quelli che in proporzione subiscono maggiormente la custodia cautelare. Quelli che, cioè, restano di più in carcere prima della condanna. Poche le donne detenute. Erano 2.250 al 31 gennaio 2021 - 26 delle quali con figli al seguito. Il 4.2% del totale della popolazione reclusa. La percentuale è in sostanza stabile dagli anni 90. Il picco è stato raggiunto nel 1992, con il 5%. Le quattro carceri femminili italiane (a Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) ospitano 549 donne, meno di un quarto del totale. L’Istituto a custodia attenuata di Lauro, unico Icam autonomo e non dipendente da un carcere ordinario, ospita 7 madri detenute. Le altre 1.694 donne sono distribuite nelle 46 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili. Il 28,9% dei 4.160 reati ascritti alle donne detenute riguarda reati contro il patrimonio. Seguono i reati contro la persona (18,5%) e le violazioni della legge sulle droghe (15,7%). L’associazione di stampo mafioso pesa sulle donne detenute per il 3%, mentre la percentuale sale al 5,7% se guardiamo alla popolazione reclusa generale. A fine 2020, erano 13 le donne sottoposte al regime speciale di cui all’art. 41bis (l’1,7% dei 759 detenuti complessivi sottoposti a quel regime). Al 41bis, in tutto, ci sono 759 persone. Alla stessa data del 2019 erano 754, nel 2018 erano 733 (26 in meno di oggi). Una crescita contenuta ma costante. Nel corso del 2020 sono stati 25 i provvedimenti di prima applicazione, 16 i decreti di riapplicazione del regime speciale e 294 i provvedimenti di proroga. L’età media dei detenuti - Per legge gli ultrasettantenni potrebbero trascorrere la detenzione fuori dal carcere. Spesso, però, ciò non accade: erano ben 851 persone al 31 dicembre 2020 le persone recluse che avevano più di 70 anni (erano solo 350 nel 2005). Una parte di loro è in regime di alta sicurezza o in 41bis. Sono invece 9.497 gli infra-trentenni. “Una popolazione giovane - scrive Antigone - che dovrebbe spingere l’amministrazione a organizzare un piano di azioni educative, scolastiche, culturali e di avviamento al lavoro che tenga conto della loro giovane età. Solo un detenuto su dieci ha la laurea o una licenza di scuola media superiore”. In un anno oltre 7.500 detenuti in meno nelle carceri. Lavora uno su quattro di Andrea Carli Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2021 Le persone che lavorano per datori di lavori esterni sono circa 2mila, di cui la maggior parte è impiegata all’interno del carcere. L’emergenza sanitaria Covid ha riportato sotto i riflettori il tema del sovraffollamento delle carceri italiane. Il 29 febbraio di un anno fa, pochi giorni dopo la scoperta del paziente zero di Codogno, con un’Italia che non era ancora in lockdown le persone detenute erano 61.230. Un anno dopo, al 28 febbraio 2021 sono rimasti in 53.697. In dodici mesi 7.533 persone in meno, il 12,3% del totale. Una diminuzione, mette in evidenza il XVII Rapporto Antigone sulle condizioni di detenzione “Oltre il virus” pubblicato oggi, 11 marzo, che ha riguardato condannati e persone in attesa di giudicato in modo non troppo differente. Oggi la percentuale dei condannati è del 68%. Le persone che non hanno ricevuto il primo giudizio sono pari al 16,5 per cento. Dall’inizio della pandemia coronavirus 18 detenuti sono morti per Covid. I decessi fra il personale di polizia penitenziaria sono 10. Gli ultimi tre sono avvenuti nell’ultimo mese nel carcere di Carinola nel quale si era sviluppato un focolaio che aveva coinvolto detenuti e personale. L’indagine fotografa la situazione attuale del sistema carcerario italiano. E lo fa ricorrendo ai numeri. La riduzione della popolazione detenuta intervenuta nell’ultimo anno non ha cambiato le proporzioni tra stranieri e italiani. I primi da alcuni anni si attestano intorno al 32,5% del totale dei detenuti. Va ricordato che erano il 37,15% alla fine del 2009, e che in termini assoluti sono diminuiti di 6.723 unità nel giro di undici anni. Al 31 dicembre 2020 cinque regioni del Sud (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) più l’Abruzzo ospitavano una percentuale di stranieri inferiore al 20%. Liguria, Veneto, Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, assieme alla Toscana, sono state sempre al limite tra il 49 e il 50 per cento. Sempre al 31 dicembre 2020, il continente più rappresentato tra la popolazione detenuta straniera in Italia era l’Africa, con 9.261 detenuti, la maggior parte dei quali proveniente dal Nord Africa, e in particolare da Marocco (3.308) e Tunisia (1.775), con la Nigeria unico stato dell’Africa Subsahariana a rilevare, con i suoi 1.451 detenuti. Alla stessa data, dall’area Ue provengono 2.691 detenuti. L’Albania, con 1.956 detenuti, è lo stato balcanico extra UE con il più alto numero di detenuti in Italia. Sono 18.936 le persone in stato di messa alla prova. La messa alla prova consiste nella sospensione del procedimento penale nella fase decisoria di primo grado. Vi si accede su richiesta dell’imputato, per reati di minore allarme sociale. È stata introdotta nel 2014. Guardando alla totalità delle persone in carico ai servizi di comunità esterna Uepe viene fuori che gli stranieri sono il 18,2%, contro il 32,5% dei detenuti. Gli stranieri fruiscono meno delle opportunità di reinserimento sociale e tendono maggiormente a scontare per intero la pena inflitta. Lavora una persona detenuta su quattro - Le attività formative e lavorative sono quelle ad aver pagato il prezzo più alto nell’anno della pandemia. Si è assistito ad una loro diffusa sospensione, che in molti degli istituti italiani sembra protrarsi in un tempo indefinito e che tuttora non sembra aver ripreso la sua quotidianità. Riguardo al lavoro, continua ad aumentare la percentuale di persone detenute impiegate direttamente dall’amministrazione penitenziaria rispetto a quelle impiegate da datori di lavoro esterni. Sono 17.115 le persone detenute che lavorano (anche saltuariamente). Oltre l’85% (15.043 persone) è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e quindi impiegato in quelle attività concernenti i servizi di istituto, come le attività di cuochi e aiuto cuochi, addetti alla lavanderia, addetti alle pulizie, porta vitto e magazzinieri. Sono 2.072 le persone che lavorano per datori di lavori esterni, di cui la maggior parte è impiegata all’interno del carcere (780 persone). Omicidi ai minimi storici ma aumentano i femminicidi - Come negli anni precedenti, anche nel 2020 vi è stata una diminuzione degli omicidi volontari. In particolare, si è passati dai 315 omicidi del 2019 ai 271 del 2020, con una riduzione pari al 14%. Quest’anno si è scesi per la prima volta sotto i 300 omicidi, raggiungendo i minimi storici. La diminuzione degli omicidi totali non ha trovato però corrispondenza in una pari riduzione negli omicidi con vittime donne. Negli ultimi due anni, risultano in aumento le vittime di sesso femminile (da 111 del 2019 a 112 del 2020) e quelle uccise in ambito familiare affettivo (da 94 a 98). In crescita le persone soggette al 41bis - Al 31 dicembre 2020 risultano presenti 759 persone sottoposte al regime speciale di cui all’art.41bis O. P., di cui 746 uomini e 13 donne. Alla stessa data del 2019 erano 754 (l’incremento è stato dunque di 5 persone), nel 2018 erano 733 (26 in meno di oggi). Si assiste a una crescita costante ma ridotta. Nel corso del 2020 sono stati 25 i provvedimenti di prima applicazione, 16 i decreti di riapplicazione del regime speciale e 294 i provvedimenti di proroga. Si tratta di numeri sensibilmente diversi rispetto al 2019, quando erano state 161 i “nuovi” decreti di applicazione (-15%, 136 in meno) e 552 le proroghe. Le persone al 41bis che hanno condanne (definitive o non definitive) all’ergastolo sono 304. Si tratta del 40% del totale di chi è sottoposto al “carcere duro”. Il sistema penitenziario costa 3,1 miliardi di euro - Il bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) è cresciuto del 18,2%, passando da 2,6 a 3,1 miliardi: una cifra, rileva l’indagine, che batte tutti i record degli ultimi 14 anni, e che rappresenta il 35% del bilancio del Ministero della Giustizia. Il bilancio del Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità (DGMC) è molto più contenuto: ad esso vengono assegnate meno di un decimo delle risorse del DAP. E si tratta di un sistema che deve occuparsi di minori, giovani adulti e area penale esterna. Il bilancio ammonta tratta di 283,8 milioni, 10 milioni in più rispetto all’anno scorso - e quasi 50 rispetto al 2017. La carenza di agenti - Su un organico di 37.181 unità, ad oggi sono 32.545 gli agenti di polizia penitenziaria realmente operativi. La differenza fra personale previsto e personale effettivamente presente è pari al 12,5%: leggermente in aumento rispetto al 12,3% rilevato nel precedente rapporto (2019). La carenza di agenti rispetto all’organico non è però equamente distribuita a livello nazionale. Ci sono provveditorati con un sotto organico superiore al 20%, come in Sardegna e in Calabria, e altri invece con un numero di unità effettive leggermente superiore al numero delle previste, come in Campania e in Puglia-Basilicata. Con un organico previsto di 896 unità, sono ad oggi 733 i funzionari giuridico-pedagogici effettivamente presenti negli istituti penitenziari. Il sotto organico totale è pari quindi a più del 18%, a fronte del 13,5% registrato a metà 2020. I provveditorati con carenze di organico più significative sono la Campania e l’Emilia Romagna- Marche. Al via la campagna vaccinale negli istituti di detenzione - Tra fine febbraio e inizio marzo è iniziata la campagna vaccinale nelle carceri italiane. Di norma, prima viene vaccinato il personale (amministrativo e di polizia), successivamente i detenuti. La campagna vaccinale ha preso il via, già a fine febbraio, in Friuli, Abruzzo (a L’Aquila), e Sicilia (a Catania). Per quanto riguarda la Sicilia, anche negli istituti palermitani (Pagliarelli e l’Ucciardone) e in quello di Siracusa è iniziata la somministrazione al personale di polizia penitenziaria. Faranno seguito la popolazione detenuta e il personale amministrativo. In Calabria le vaccinazioni hanno preso il via nei giorni scorsi. In alcuni istituti si stanno somministrando i vaccini al personale amministrativo e a quello in divisa. In altri, come quello di Palmi, la somministrazione è iniziata anche per la popolazione detenuta. In Puglia e Campania l’avvio della campagna vaccinale è previsto per metà marzo. In Lazio inizierà il 15 marzo. L’Umbria è tra le prime regioni d’Italia ad aver dato il via, l’8 marzo, alla campagna vaccinale, con le carceri di Orvieto, Spoleto e Terni. In Emilia Romagna e nelle Marche (che fanno parte dello stesso Provveditorato) si stanno somministrando i vaccini al personale penitenziario, agli esperti ex. art. 80 e ai volontari ex art.78. Le vaccinazioni hanno riguardato tutti gli istituti, con l’eccezione di Ancona, Reggio Emilia e Forlì, dove stanno comunque per iniziare. A seguire inizierà la somministrazione per le persone detenute. Sullo sfondo un Covid che corre, sospinto dalla variante inglese. Più contagiosa, negli spazi ristretti delle celle potrebbe accendere nuovi focolai. Rapporto Antigone: investire su un modello di pena e non su nuove carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 marzo 2021 Presentato il XVII rapporto dell’associazione Antigone, intitolato “Oltre il virus”. Il garante Palma: “Bisogna intervenire su detenuti e trattamento”. “Le risorse del Recovery Fund non devono essere utilizzate per nuove carceri, ma per un nuovo sistema penitenziario”. È la parola d’ordine di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, che ha introdotto durante la presentazione del XVII rapporto sulle carceri dal nome “Oltre il virus”. “Bisogna investire in risorse sulle misure di comunità - ha osservato Gonnella - perché hanno solo un terzo delle risorse che ha a disposizione l’amministrazione penitenziaria. È strategico visto l’impatto che ha sulla lotta alla recidiva e su prospettive di integrazione sociale. Bisogna investire anche in termini di risorse umane, sia perché c’è bisogno quantitativamente di direttori, educatori, poliziotti, mediatori, sia perché c’è bisogno di giovani, nuova energia umana nell’amministrazione penitenziaria che proviene dai luoghi dello studio e delle passioni”. Sempre il presidente di Antigone aggiunge la terza risorsa che deve essere investita: “C’è bisogno di modernizzazione, non è possibile che in alcuni casi, ancora oggi, non vengano garantiti i diritti allo studio o all’affettività per mancanza di strumenti. Il carcere non può essere premoderno, mentre il mondo di fuori viaggia verso la post modernità”. Percorsi trattamentali e formazione del personale - A far da eco è Mauro Palma, il garante nazionale delle persone private della libertà, che è intervenuto durante la presentazione. Riferendosi alle misure alternative ha detto chiaro e tondo che, quando si propone di ampliarle, bisogna soprattutto elencare soldi e strutture, “altrimenti è meglio tacere, perché ci vuole un discorso - osserva il Garante - di materialità e risorse”. Non solo, Palma aggiunge che bisogna incidere su due aree. Quello dei detenuti e trattamento, quando ad esempio è difficile poter parlare di rieducazione dove c’è l’ostatività che preclude tali possibilità. Oppure, solo per esempio, “quando una persona viene spostata da un carcere all’altro, cambiano le regole e ciò preclude il percorso trattamentale di un detenuto”. La seconda area dove poter incidere, sempre secondo il Garante, è la continua formazione del personale penitenziario. L’aspetto della formazione deve essere soprattutto culturale. Sempre a proposito delle misure di comunità, è intervenuta anche Gemma Tuccillo, il capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. Ricordiamo che tale dipartimento estende la sua competenza sull’intero mondo dell’esecuzione penale esterna. “In merito alle misure di comunità - spiega la dottoressa Tuccillo -, sono d’accordo sull’importanza dell’investimento sia in termini di risorse economiche, sia di quelle umane. Stiamo lavorando tanto, credendoci, con gli uffici dell’esecuzione penale esterna e il provveditorato. Abbiamo avuto l’affiancamento riassicurante e gratificante da parte della procura generale della cassazione e della cassa delle ammende che ci sostiene sul profilo materiale”. Ma aggiunge il tasto dolente che sono pochi, nonostante abbiano avuto una “iniezione sostanziosa di assistenti sociali”. Il capo del Dap Petralia: la guida per tutti è l’articolo 27 della Costituzione - È intervenuto anche il capo del Dap Bernardo Petralia che ha chiarito il discorso vaccinazione della popolazione penitenziaria dove non è possibile uniformarla a causa delle competenze regionali e anche dal fatto che la sanità non è competenza dell’amministrazione penitenziaria. Ma, per quanto riguarda le criticità del sistema penitenziario, ha osservato: “Non si finisce mai di capire fino in fondo i disagi per cui intervenire e su cui invece è impossibile farlo, magari in attesa di una riforma legislativa. Noi facciamo tutto quello che viene rimesso dalla legge e quando parliamo di leggi, l’articolo 27 della Costituzione è la guida che deve accumunare tutti: noi del Dap, Antigone stesso, sindacati e poliziotti”. Sovraffollamento e suicidi: i dati più allarmanti - Veniamo ora ai dati più significativi emersi dal rapporto di Antigone “Oltre il virus”. Come ha anche sottolineato Michele Miravalle durante la presentazione, nell’anno 2020 c’è stato il numero più grande dei suicidi e dove l’età media scende sotto i 40 anni. Cresce anche il numero dell’autolesionismo: su ogni 110 persone detenute, 24 sono i casi. Il dato sale sulle carceri più sovraffollate. A proposito del sovraffollamento, i numeri nell’ultimo trimestre (dicembre 2020 - marzo 2021) sono tornati a salire. Lenti ma inesorabili. Nonostante siamo arrivati ai numeri del 2015, e questo grazie all’intervento dei magistrati di sorveglianza, il tasso di affollamento è oggi pari al 106,2%. Posto però che la stessa amministrazione penitenziaria riconosce formalmente che “il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato”, e che presumibilmente i reparti chiusi riguarderebbero circa 4 mila posti, il tasso di affollamento effettivo, seppur non ufficiale, va a raggiungere il 115%. Guardando alla composizione anagrafica delle persone detenute si evidenzia come permangano in carcere, nonostante le disposizioni che consentono la detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni, ben 851 persone che al 31 dicembre 2020 avevano più di 70 anni (erano solo 350 nel 2005). Una parte di loro è in regime di alta sicurezza o in 41bis. Sono invece 9.497 gli infra-trentenni, una popolazione giovane che dovrebbe spingere l’amministrazione a organizzare un piano di azioni educative, scolastiche, culturali e di avviamento al lavoro che tenga conto della loro giovane età. Solo un detenuto su dieci ha la laurea o una licenza di scuola media superiore. Crescono invece le pene lunghe e gli ergastolani, di pari passo diminuiscono i reati più gravi e gli omicidi. Ben 19.040 sono i detenuti con un residuo pena inferiore ai tre anni, dunque potenzialmente ammissibili a una misura alternativa alla detenzione - va sottratta quella quota sottoposta a divieti normativi in ragione del reato commesso. Se solo metà di loro ne fruisse, Antigone osserva che avremmo risolto parte del problema dell’affollamento carcerario italiano. Il linguaggio dell’odio lascia il segno di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 12 marzo 2021 La questione carceraria è una questione giuridica, politica, sociale, economica, architettonica, ma anche culturale e più genericamente educativa. Nei giorni scorsi ho incontrato Zerocalcare nel corso di un evento organizzato dal Museo Storico della Liberazione a Roma, in quegli edifici di via Tasso dove tra il settembre 1943 e il giugno del 1944 i nazisti imprigionarono e torturarono circa duemila partigiani, militari e cittadini comuni. Zerocalcare ricordava come lo scorso settembre avesse pubblicato su Internazionale un suo reportage a fumetti sulle rivolte in carcere. Tra lo stupito e l’amareggiato spiegava come, mentre su altri temi i lettori si erano mostrati solidali ed empatici, a proposito del carcere invece questo non era accaduto e qualcuno gli avesse finanche scritto che l’unica giusta fine per i detenuti fosse quella di marcire in galera. Parole di questo tenore, fino a poco tempo fa, le abbiamo sentite dire da chi rivestiva alti incarichi istituzionali. Non ci si può dunque sorprendere se i sentimenti diffusi tra la gente degenerino in impulsi truci di vendetta ed espressioni di odio. Basta farsi un giro in alcuni siti web specializzati per leggere frasi piene di volgarità rivolte al sottoscritto o a Mauro Palma, Garante nazionale, accusati di stare dalla parte dei detenuti e quindi, di converso, di essere contro i poliziotti, come se stessimo in uno stadio a tifare per una squadra o l’altra in una partita di calcio. La prima cosa di cui oggi abbiamo tutti bisogno è una rivoluzione del linguaggio nel nome della gentilezza e del rispetto. Non sapevo che esistesse una giornata internazionale della gentilezza, il 13 novembre, indetta dall’Onu. Andrebbe festeggiata l’anno prossimo in un carcere, simbolicamente. Quando si parla di temi sensibili che possono alimentare emozioni forti o reazioni esasperate, è necessario che si adotti un linguaggio sobrio, mite, riguardoso e, dunque, gentile. Mai più vorremmo sentire, da chi ha incarichi politici istituzionali, frasi che lasciano trasparire la voglia di vendetta, che associano i detenuti alle bestie o invocano il gettare la chiave della cella per sempre. Mai più vorremmo che i media mainstream offrano occasioni o palcoscenico a chi usa un linguaggio profondamente distonico rispetto a quanto scolpito nell’articolo 27 della nostra Costituzione che, ricordo, è frutto anche dell’esperienza di prigionia di tanti antifascisti durante il ventennio. E su questa visione costituzionale devono convergere tutti gli attori del sistema pubblico, dal poliziotto al volontario, dal direttore al magistrato, dall’avvocato al giornalista. Questa, e non altra, deve essere la visione della pena promossa dalle autorità di Governo. Per questo siamo confortati, a proposito del carcere, dalle parole miti, rispettose e gentili della ministra della Giustizia Marta Cartabia. Perché solo quando verrà recuperata una funzione pedagogica da parte di chi ha ruoli di governo, allora ci si potrà attendere, a cascata, una frenata nella cultura dell’odio e della vendetta. *Presidente Antigone Carceri, l’essere straniero è ancora un’aggravante di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 marzo 2021 Si riduce di un terzo la componente rumena ma i non italiani sono sempre più penalizzati. Meno omicidi ma aumentano gli ergastoli. Presentato il rapporto Antigone “Oltre il virus”. Ancora al 115% il sovraffollamento. A dare un’occhiata dentro le carceri italiane - tramite il XVII rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione dal titolo “Oltre il virus” presentato ieri alla presenza del capo del Dap Dino Petralia, della sua omologa Gemma Tuccillo, capo Dipartimento per la giustizia minorile, e del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma - si ha l’impressione che sia passata un’intera era geologica da quando “l’identità nazionale rumena veniva considerata un’aggravante”, per usare le parole di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. E da quando, nell’ottobre 2007 (proprio mentre nasceva il Pd), a Roma l’orribile stupro e omicidio della signora Giovanna Reggiani convinse l’allora sindaco dem Walter Veltroni a lanciare dal Campidoglio una campagna d’odio contro i migranti provenienti dalla Romania. “Mentre la popolazione carceraria è aumentata - ha spiegato ieri Gonnella - negli ultimi anni la componente rumena è diminuita di un terzo, passando da quasi 3 mila del 2009 a circa 2 mila del febbraio 2021”. L’integrazione ha viaggiato più velocemente del populismo penale. È un punto questo su cui giustamente insiste il rapporto Antigone. Se nell’ultimo anno la popolazione carceraria è diminuita del 12,3% (53.697 detenuti attuali) - “esito più di attivismo della magistratura di sorveglianza che non dei provvedimenti legislativi in materia di detenzione domiciliare” - riportando l’Italia vicina ai livelli del 2015, quando dopo le condanne europee intervennero misure deflattive, il numero di stranieri detenuti rimane invece stabile al 32,5%. Succede però che “il 16,1% degli stranieri si trova in carcere con una condanna non ancora definitiva”, mentre “gli italiani nella stessa condizione sono il 14,7%”. E che i detenuti stranieri, “confinati” in massa in Sardegna, finiscano per scontare l’intera pena in carcere, usufruendo delle pene alternative molto meno degli italiani. Senza parlare del fatto che dei 67 mediatori culturali previsti in pianta organica, in servizio in tutta Italia ce ne sono solo 3 (tre). Il tasso di sovraffollamento - che “è diventato non solo una condizione degradante per l’internato ma anche un problema di salute pubblica”, come fa notare Susanna Marietti - è oggi pari a 115% se si considerano i posti realmente disponibili (50.551), e deve ancora scendere. Per stare nella legalità ci vorrebbero almeno 8 mila detenuti in meno. La buona notizia è che il capo del Dap Petralia ha annunciato che è finita l’era dell’edilizia penitenziaria e che si punta piuttosto all’”architettura carceraria”. La cattiva notizia - come ha fatto notare il Garante Mauro Palma che presenterà la sua relazione al Parlamento il 15 giugno prossimo - è che il nuovo corso assomiglia molto al vecchio, perché “spesso il restauro architettonico degli istituti per ottenere un ampliamento degli spazi detentivi è a detrimento delle aree verdi, dei campi di calcio e degli spazi dedicati al trattamento dei detenuti”. Palma insiste poi in particolare sulle misure alternative di cui si parla molto ma senza agire di conseguenza (61.589 le persone che scontano una pena non detentiva, ma in carcere ci sono 19.040 detenuti con un residuo pena inferiore ai tre anni, dunque potenzialmente ammissibili a misure alternative). “Chiunque presenti un’ipotesi legislativa per potenziare le misure alternative - sottolinea il Garante - dica quanti soldi ci mette, quanto personale e come rafforza il tribunale di sorveglianza. Altrimenti taccia, è preferibile”. D’altronde la contraddizione è palese: se l’omicidio volontario è al minimo storico (271 casi nel 2020, -14% rispetto all’anno precedente), crescono invece le pene lunghe e aumenta il numero degli ergastolani (1.784, rispetto a 5 anni prima sono 560 in più; solo 112 stranieri). A questo proposito vale la pena ricordare che tra pochi giorni - il 23 marzo - la Consulta deciderà sulla costituzionalità dell’ergastolo ostativo e del divieto di concedere la liberazione a chi non collabora con la giustizia. BEN 851 sono poi gli ultrasettantenni che rimangono in carcere, a fronte di 9.497 infra-trentenni. Da notare anche il dato delle persone sottoposte al carcere duro del 41bis: 759, di cui 746 uomini e 13 donne. “Una crescita contenuta ma continua negli ultimi anni”, fa notare Gonnella. Nel corso dell’anno scorso sono stati 25 i provvedimenti di prima applicazione del carcere duro, il 15% in meno rispetto al 2019. Eppure il dato pare eccessivo perfino a Franco Mirabelli, capogruppo Pd nella commissione Antimafia: “L’istituto del 41bis va difeso - scrive in una nota il vicepresidente dei senatori dem - è un istituto straordinario che ha funzionato e funziona. Ma pensare che in Italia ci siano oltre 700 capomafia da sottoporre a quel trattamento appare spropositato. L’eccessivo utilizzo del 41bis è certamente legato alla inefficienza delle attuali strutture di Alta Sicurezza”. Va detto però che è nelle celle di detenzione comune che si registra il maggior aumento di malattie psichiche, di episodi di autolesionismo (23,86 ogni 100 detenuti), e soprattutto di suicidi: 61 nel 2020, un numero tra i più alti degli ultimi venti anni. E sono sempre più giovani, i detenuti che si tolgono la vita: la media dell’anno scorso è stata di 39,6 anni. Il totale dei morti è 154, di cui 18 di Covid, deceduti insieme a 10 poliziotti penitenziari. In un anno di pandemia non molta strada è stata fatta: da qualche giorno è cominciata la campagna vaccinale con circa mille reclusi e 5 mila agenti che, ad oggi, hanno ottenuto la prima dose. Ed è passato un anno anche da quelle rivolte scoppiate in alcune carceri in risposta alle prime restrizioni anti-Covid. Rivolte durante le quali - o subito dopo - sono morti 12 detenuti. In molti si chiedono ancora perché. La pandemia occasione per la svolta nell’ordinamento penitenziario Vincenzo M. Siniscalchi Il Mattino, 12 marzo 2021 Di questi giorni la notizia del contagio da Covid-19 che ha aggredito, anche con esito letale, agenti della Polizia penitenziaria in servizio nella casa detentiva di Carinola. Ancora: appena rientrato nella struttura minorile di Villa di Briano un minore si è tolto la vita. Così, con una drammatica sequenza quasi quotidiana torna alla ribalta, pur con motivazioni differenti, il problema della sicurezza dei luoghi di detenzione in Italia, un problema che lo scorso anno era esploso con le azioni dimostrative dei detenuti di molte carceri italiane e con il bilancio sinistro di tredici detenuti morti. La nomina a ministra della Giustizia della costituzionalista Marta Cartabia è certamente un segnale confortante per chi crede che vada data una diversa e maggiore attenzione a questo problema. Basterebbe, a conferma della fiducia che va riposta nella ministra, il ricordo delle approfondite analisi che la Guardasigilli ha fatto, allorché si impegnò, in occasione della serie di percorsi di visite e di approfondite analisi delle realtà carcerarie iniziati con la presidenza del magistrato e giurista Giorgio Lattanzi. Indubbiamente quei percorsi hanno consentito di radiografare in profondità la realtà della detenzione di uomini e donne sottoposti a regime di custodia in carcere. C’è una sorta di lume che si accende ogni qual volta si scandaglia la realtà della visibilità carceraria ed il lume è rappresentato dagli articoli 27 Cost. (“funzione rieducativa della pena” e “valore umano della pena”) e articolo 32 Cost. (“tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”). Risale al 1975 la legge n. 354 di riforma dell’ordinamento penitenziario ma, anche con gli interventi che si sono succeduti nel tempo questa normativa, a parte il valore dei precetti costituzionali, nella applicazione pratica e nella concreta interpretazione giurisprudenziale ha fatto registrare molte censure ad opera della Cedu (Commissione europea per i diritti umani). A richiamare l’attenzione dei governi vi sono state sempre prese di posizione della Unione delle Camere Penali e della Magistratura associata, in particolar modo, di quella che svolge le funzioni di Tribunali e giudici di Sorveglianza. Tra gli altri, è intervenuto sulla questione della doverosa trasparenza in tema di accertamento delle cause della morte dei detenuti nello scorso anno il magistrato Riccardo de Vito, giudice di sorveglianza, presidente di Magistratura Democratica. Proprio sul punto della necessità di una doverosa trasparenza De Vito aveva sollecitato al predecessore della Cartabia una chiarificazione su quanto accaduto nelle carceri italiane nella estate dello scorso anno con l’impressionante bilancio di tanti decessi. In effetti, si chiede - e la richiesta è stata reiterata in sede parlamentare - di conoscere con completezza di riferimenti quali sono le cause di quelle morti tra detenuti. Dal precedente ministro della Giustizia era stato comunicato solamente che si era avviata una inchiesta ma gli esiti non risultano noti. Si sa soltanto che il vertice del Dipartimento amministrazione penitenziaria rappresentato dal magistrato Basentini era stato rimosso e sostituito con il procuratore della Repubblica Dino Petralia già autorevole componente del Consiglio superiore della Magistratura. Va subito detto, per doverosa chiarezza, che le speranze di interventi che si pongono sull’esercizio delle sue funzioni da parte della ministra Cartabia, hanno già ricevuto un confortante segnale in occasione della interlocuzione che la professoressa Cartabia ha stabilito con il Garante dei detenuti professor Mauro Palma. Importante diviene il riferimento (essenziale per una reale riforma dell’ordinamento penitenziario) all’attività dell’Autorità di garanzia che di recente ha depositato la relazione annuale, di per se stessa ricca di inoppugnabili ed approfonditi passaggi che analizzano minuziosamente le riduzioni di ogni garanzia reale di vivibilità e di sicurezza delle carceri italiane (significative anche le analisi che formulano le autorità regionali di garanzia con particolare riguardo alle carceri della Campania). Ora è tempo di concentrare l’attenzione sull’imponente documentazione che questa Autorità di garanzia unitamente alle ispezioni ministeriali offre alla riflessione e allo studio del legislatore affinché si possa finalmente passare dalle enunciazioni astrattamente umanitarie alle riforme necessarie anche per assicurare trasparenza e conoscenza sullo stato delle inchieste giudiziarie che dovrebbero fare luce soprattutto sugli eventi conseguenti alle manifestazioni di protesta. Il carcere nell’anno del Covid di Anna Lisa Antonucci L’Osservatore Romano, 12 marzo 2021 Non è facile raccontare solo con i numeri un anno, come quello appena trascorso, nelle carceri italiane. Un anno tragico, che ha rivoluzionato il modo di essere delle persone libere e di quelle detenute, ma l’associazione Antigone, che si batte per i diritti negli istituti di pena, ci prova con il suo diciassettesimo rapporto annuale, presentato oggi a Roma. Le cifre parlano di una diminuzione dei detenuti pari al 12,3% nell’anno del Covid che ha portato la popolazione carceraria dai 61.230 reclusi di febbraio 2020 ai 53.697 di febbraio 2021. Una deflazione importante, dovuta secondo l’associazione “all’attivismo della magistratura di sorveglianza”, ma che guardando i posti realmente a disposizione nelle carceri italiane continua a segnare un tasso di sovraffollamento del 115%. Secondo Antigone, infatti, per stare nella legalità degli spazi i reclusi dovrebbero essere 8 mila in meno. Analizzando poi più da vicino la popolazione detenuta, il rapporto rileva come le regioni più povere producano più detenuti e quanto, ancora, la condizione economica di provenienza influisca sulle possibilità di finire in cella. Solo un detenuto su dieci ha la laurea o una licenza di scuola superiore e tra le regioni più a rischio ci sono la Calabria, la Campania, la Sicilia e la Puglia. Per quanto riguarda gli stranieri, invece, continua a diminuire la loro presenza in cella: sono il 32,5% contro il 37,15% di 11 anni fa. In particolare è diminuito di un terzo, negli ultimi 12 anni, il numero dei detenuti rumeni passati da 2,966 del 2009 ai poco più di 2 mila del 2021. Le nazionalità più presenti, invece, restano quella marocchina e tunisina. Il rapporto segnala inoltre come gli stranieri subiscano maggiormente la custodia cautelare nonostante siano autori di reati meno gravi. Analizzando i dati più strettamente criminali l’osservatorio di Antigone rileva che ogni detenuto in media compie almeno due delitti, quelli contro il patrimonio i più rappresentati cui seguono quelli contro la persona e i reati di violazione della legge sulle droghe. Aumentano in carcere i condannati a pene lunghe e gli ergastolani che hanno raggiunto la cifra di 1.784 (erano 1.224 nel 2005). Sono 759 i reclusi in regime di 41bis di cui 746 uomini e 13 donne, di questi il 40% è condannato all’ergastolo. Inoltre, A fronte di una diminuzione degli omicidi, passati dai 315 del 2019 ai 271 del 2020, risultano invece in lieve aumento le vittime di sesso femminile e quelle uccise in ambito familiare. Il lavoro in carcere continua a rappresentare un miraggio, lavora solo una persona su 4 in attività concernenti i servizi di istituto, mentre sono appena 2 mila le persone alle dipendenze di datori di lavoro esterni al carcere. Il Covid, inoltre, ha causato l’interruzione di quasi tutte le attività formative e il troppo tempo passato in cella, senza alcuna occupazione, si riflette sul malessere dei detenuti. Da qui l’aumento dei suicidi: 61 nel 2020, un tasso di 11 casi ogni 10 mila persone, per la maggior parte giovani. “Un numero così alto non si registrava da quasi vent’anni”, rileva con preoccupazione l’associazione che segnala anche 23,86 casi di autolesionismo ogni 100 detenuti, registrati in particolare laddove è più alto il tasso di sovraffollamento. Sono stati infine 18 i detenuti morti per Covid e l’incidenza dei positivi in carcere risulta più alta che fuori: 91,1 in cella, 68,3 fuori. Al primo marzo i positivi tra i detenuti erano 410 e tra la polizia penitenziaria 562. Restano, infine, gravi le carenze per quanto riguarda il personale penitenziario: manca il 12,5% degli agenti e il 18% degli educatori. Solo 3 sono i mediatori culturali presenti a fronte di una dotazione organica prevista di 67. In compenso il rapporto sottolinea l’importante presenza dei volontari in carcere, 19.550 persone, “una ricchezza tutta italiana” si sottolinea. “Il carcere va modernizzato e umanizzato” ha dichiarato il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. “È necessario che le istituzioni, con coraggio e senza cedimenti, aderiscano a una visione costituzionale della pena. Si devono usare le risorse del Recovery Fund, non tanto per costruire nuove carceri, ma per dar vita a un nuovo sistema penitenziario, profondamente rispettoso della dignità umana”. Più detenuti al 41bis che a Guantánamo durante la guerra Il Riformista, 12 marzo 2021 Nelle prigioni italiane ci si ammazza dieci volte di più che all’esterno. La popolazione detenuta è composta per il 32,5% da stranieri. Uno su 3 è rinchiuso per reati legati alle droghe. Nelle carceri italiane ci sono oggi 759 prigionieri in regime di 41bis, cioè di carcere duro. Pensate che nel momento di massimo allarme antiterrorismo, mentre erano in corso le guerre di Iraq e di Afghanistan, e Bush aveva scelto la linea dura, repressiva - condannata da moltissimi governi e da tutte le organizzazioni di difesa dei diritti umani - nella famigerata Guantánamo, carcere duro per eccellenza, erano stati rinchiusi, secondo le stime più sfavorevoli, circa 500 detenuti sospettati di terrorismo internazionale. Il 41bis è un regime carcerario, italiano, sicuramente in contrasto con la Costituzione e con le norme internazionali, previsto allo scopo di impedire ai capi della mafia (o ai sospetti) di comunicare con l’esterno. Per ottenere questo risultato, molto spesso, si impedisce ai detenuti al 41bis di vestirsi come vogliono, e di cucinare i propri cibi, di leggere quel che gli interessa, di avere alcun contatto fisico coi propri familiari, di parlare con altri detenuti o con altre persone umane, escluse le guardie carcerarie. Domanda: possibile che i capimafia siano addirittura 759? Se lo è chiesto persino un esponente politico del Pd molto moderato come Franco Mirabelli. Chissà se gli daranno qualche risposta. Del resto è stata proprio la ministra Cartabia che l’altra sera, parlando a un convegno internazionale, ha invocato il rispetto delle norme scritte nelle cosiddette “Mandela Rules”, che proibiscono il 41bis per una durata superiore ai 15 giorni (oggi il 41bis dura un numero imprecisato di anni: anche più di 20). Questi dati sul 41bis vengono dal rapporto annuale dell’associazione Antigone sulla situazione nelle carceri. Dal rapporto risulta anche che ci sono in prigione 851 persone sopra i 70 anni (la legge prevede che possano essere mandate a casa) 500 in più rispetto al 2005. Nel 2005 forse la criminalità era meno pericolosa? No, oggi è molto meno pericolosa. Gli omicidi sono scesi sotto la soglia dei 300 all’anno, (erano più di 2000 alla fine del secolo scorso), tutti in costante diminuzione tranne i femminicidi. Anche gli ergastolani sono in aumento, 1784 (500 più del 2005). Ci sono 9000 persone nelle celle di massima sicurezza. I suicidi sono in aumento (61: circa 10 volte sopra la media nazionale). L’esempio virtuoso degli istituti minorili anche durante il Covid di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 marzo 2021 Il bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è cresciuto del 18,2%, passando da 2,6 a 3,1 miliardi: una cifra che batte tutti i record degli ultimi 14 anni, e che rappresenta il 35% del bilancio del ministero della Giustizia. Questo emerge dal rapporto di Antigone “Oltre il virus”. Il bilancio del Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità (Dgmc) è molto più contenuto: ad esso vengono assegnate meno di un decimo delle risorse del Dap. E si tratta di un sistema che deve occuparsi di minori, giovani adulti e dell’area penale esterna. Il bilancio ammonta tratta di 283,8 milioni, 10 milioni in più rispetto all’anno scorso - e quasi 50 rispetto al 2017. Ed è proprio il carcere minorile (Ipm) ad essere un esempio virtuoso anche ai tempi del Covid 19. Non conosce il sovraffollamento, il massimo esempio dell’utilizzo del carcere come extrema ratio e non a caso ha avuto casi di Covid prossimi allo zero. All’interno dei penitenziari minorili c’è spazio per applicare il protocollo sanitario. Tra i 281 ragazzi presenti in carcere alla metà del mese di gennaio 2021 si contano 15 infrasedicenni, 104 minorenni nella fascia di età 16-17 anni, 118 giovani adulti nella fascia 18- 20 e 44 in quella 21- 24. I detenuti italiani sono 158 e gli stranieri 123. Le ragazze sono 13 (4 italiane e 9 straniere) e sono ospitate nelle sezioni femminili di Nisida e Roma e nell’unico Ipm interamente femminile di Pontremoli che ospita attualmente 8 donne. Sono 148 i ragazzi che hanno una sentenza definitiva, il 52,7% del totale, mentre 58 tra i rimanenti, pari al 20,6% del totale delle presenze in carcere, sono in attesa di primo giudizio. I 119 minorenni e i 162 giovani adulti pesano su queste percentuali in maniera estremamente diseguale: se tra i primi solo il 23% ha una sentenza definitiva e il 40,3% è in attesa di primo giudizio, tra i secondi il 74,1% ha una sentenza definitiva mentre il 6,2% è in attesa di primo giudizio. Come sottolinea il rapporto Antigone, questo è indice della capacità del sistema di trovare percorsi di esecuzione della pena alternativi al carcere per i ragazzi più giovani. Cara Cartabia, ora caccia Petralia e Tartaglia di Tiziana Maiolo Il Riformista, 12 marzo 2021 Non possono essere questi due magistrati contro-riformatori a dirigere le carceri italiane: scelti dal ministro Bonafede non rispettano l’articolo 27 della Costituzione. Dino Petralia e Roberto Tartaglia non possono proprio restare ai loro posti di capo e vice del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap). Sono incompatibili. Il fatto è sotto gli occhi di tutti e non può esser sfuggito alla lungimiranza della ministra Marta Cartabia. Ma soprattutto alla memoria della Presidente emerita della Corte Costituzionale. Potremmo fare un discorso generale sulla stranezza del fatto che due magistrati che si definiscono “antimafia” siano chiamati ad applicare l’articolo 27 della Costituzione. Per avere a cuore il reinserimento dei detenuti non bisogna essere “anti” ma “per”, e non si deve ritenere che solo i “pentiti” abbiano il diritto ad avere diritti. Cosa del resto ribadita poche settimane fa nella relazione annuale della Direzione nazionale antimafia, alla cui cultura i due magistrati sono decisamente affini, e che auspica un rafforzamento dell’articolo 41bis. La mentalità è quella. E basterebbe ricordare l’articolo entusiastico di Repubblica (quella che spacciava bufale su centinaia di boss scarcerati) all’indomani delle due nomine, dopo la cacciata di Franco Basentini. È “un segnale contro chi addebita al governo la responsabilità di aver messo ai domiciliari dei boss”, scriveva Liana Milella. Più chiaro dì così. Il precedente capo del Dap era stato costretto alle dimissioni per una circolare in cui invitava i direttori delle carceri a segnalare, in piena epidemia Covid, le condizioni dei detenuti anziani e malati. Petralia e Tartaglia vengono scelti subito dopo dall’ex ministro Bonafede come “segnale” affinché governino le carceri con pugno di ferro e soprattutto le rendano impermeabili a qualsiasi speranza di futuro per i detenuti. Il contrario di quanto dice la Costituzione, quel librettino che, ci piace immaginare, Marta Cartabia tiene anche sul comodino. La neo-ministra li ha già incontrati, non prima però di aver parlato con il Garante dei detenuti Mauro Palma. Quindi sa già con chi ha a che fare. Sono due contro-riformatori, prima di tutto. Ne sa qualcosa Roberto Giachetti, il deputato di Italia Viva che segue più di ogni altro parlamentare la politica sul carcere e che ha atteso invano le risposte dell’ex ministro Bonafede alle proprie interrogazioni. “Spero proprio - dice adesso - che nella discontinuità con il passato ci sia anche maggiore rapidità nella risposta alle interrogazioni, in particolare a quelle che riguardano i diritti di coloro che sono detenuti in regimi carcerati durissimi come il 41bis. Come quella al detenuto di Viterbo cui è stato vietato di acquistare i libri di Cartabia e Manconi”. Sull’articolo 41bis i capi del Dap Petralia e Tartaglia hanno già avuto occasione di mostrare il pugno di ferro su una vicenda importante, una di quelle rispetto alle quali il deputato Giachetti (e soprattutto i detenuti) è ancora in attesa di risposta dal mese di ottobre 2020.1129 settembre precedente il direttore generale del Dap, Turrini Vita, aveva emanato una circolare in cui ordinava alle direzioni degli istituti penitenziari di rispettare ordinanze dei giudici in applicazione delle sentenze della Corte costituzionale e della cassazione in tema di 41bis. Si trattava di quattro ordinanze. La prima aveva a che fare con il divieto di cottura dei cibi, superato da una sentenza della Corte Costituzionale nel 2018. La seconda il divieto di scambi di oggetti tra detenuti nel medesimo gruppo di socialità. Anche questo superato da una sentenza dell’Alta Corte del maggio 2020. Le altre due consistono nell’azzeramento del divieto di saluto tra detenuti al 41bis di diversi gruppi di socialità e della possibilità di avere due ore (invece di una) di aria al giorno, seguendo il dettato di sentenze di Cassazione. Tutte questioni ragionevoli, piccoli diritti di vita quotidiana cui si erano attenute le ordinanze dei giudici e in seguito la circolare del direttore generale, come riferito in quei giorni dal quotidiano Il Dubbio. Ma la circolare due giorni dopo fu revocata con decisione dei capi Petralia e Tartaglia. Il che ha un significato molto chiaro. Prima di tutto che le decisioni della Corte Costituzionale e della Cassazione in tema di diritti (anche dei Caino al 41bis, certo) sono ininfluenti per i due capi del Dap. Cioè, per parlare con chiarezza, ai magistrati “antimafia” Petralia e Tartaglia dell’attività della presidente Cartabia e dei suoi colleghi dell’Alta Corte importa poco. In secondo luogo, si stabilisce che anche delle ordinanze dei giudici di sorveglianza è possibile farsi un baffo. In conclusione: possono questi due contro-riformatori, ostili all’articolo 27 della Costituzione, dirigere le carceri italiane? Certo che no, sono incompatibili. “Un pregiudizio devastante ha ridotto il politico a sinonimo di criminale” di Simona Musco Il Dubbio, 12 marzo 2021 Intervista all’ex presidente della Camera Luciano Violante: inevitabile la sentenza della Consulta sulla legge Severino, ma il tic anticasta va rimosso. La legge Severino non contrasta con l’articolo 3 del protocollo addizionale alla Cedu sulla tutela del diritto di voto attivo e passivo, come interpretato dalla Corte di Strasburgo. Non è dunque illegittima, secondo la Corte costituzionale, la sospensione automatica dalla carica per chi sia stato condannato in via non definitiva per reati di particolare gravità o commessi contro la pubblica amministrazione. Una decisione, quella presa ieri dalla Consulta, che complica la vita degli amministratori pubblici. Ma il problema più grande, per l’ex presidente della Camera Luciano Violante, è un altro: “I partiti hanno ormai demandato alla magistratura il compito di stabilire il proprio codice etico”. Il tutto in un clima di costante criminalizzazione di chiunque eserciti una funzione pubblica. Presidente, la legge Severino dunque non è in contrasto con la Convenzione Edu? No, perché la convenzione lascia liberi gli Stati di stabilire se fissare una volta per tutte, in astratto, gli effetti di questo tipo di condanne o lasciarli alla discrezione dei giudici. La legge Severino fa una valutazione in astratto uguale per tutti, senza lasciare al giudice la scelta, caso per caso. La sentenza, da questo punto di vista, è ineccepibile. Come valuta questa norma? Ho sempre avuto qualche perplessità, ma non per la legge in sé, ma per la delega sull’onestà che i partiti hanno affidato alla magistratura. Il giudizio sulla moralità di una personalità politica dovrebbe essere pronunciato sulla base di canoni etici non del canone penale. e il livello di reputazione dei propri componenti. Credo sia il segno di una difficoltà ad avere un codice etico autonomo. E così la società diventa una comunità penalmente orientata. La sospensione vale anche con una condanna non definitiva, in questo modo viene meno il principio di non colpevolezza... Certamente, un domani la condanna potrebbe essere rivista. Ma oggi quella persona gode di una reputazione ridotta rispetto alle funzioni che deve svolgere. Perché la politica non si dà regole chiare e oneste per distinguere ciò che immorale da ciò che è penale? Il tema va oltre questa vicenda e naturalmente non ha nulla a che fare con la rivendicazione di impunità per i politici. La legge Severino si applica, naturalmente, anche a reati come l’abuso d’ufficio. Sul punto c’è stata una grande mobilitazione, con la richiesta di abolire la norma, che spazza via esperienze amministrative anche coraggiose, creando, dall’altro lato, una forma di inerzia per via della cosiddetta “paura della firma”. Sa, gli amministratori si dividono in due categorie: quelli che hanno avuto una comunicazione per abuso d’atti d’ufficio e quelli che l’avranno. Perché non si sfugge. Chiunque faccia l’amministratore, dunque, anche il più virtuoso, prima o poi avrà problemi? La norma è ancora vaga, e la lotta politica spesso si riduce ridotta ai minimi termini dal punto di vista della dignità; così la denuncia penale finisce per prendere il posto della critica politica. Così, alla fine, chi rimarrà ad amministrare o a volerci provare? Questo è uno dei punti più delicati: oggi la confusione di leggi è enorme, il sospetto nei confronti di chiunque amministri è altrettanto ampio, il concorso tra procure della Corte dei conti e procure della Repubblica è rilevante. I mezzi di comunicazione, poi, esaltano l’avvio dei processi, con danni gravi per la reputazione delle persone, anche se poi la notizia dell’assoluzione non è mai una notizia. Questa pronuncia della Consulta complica ulteriormente le cose per gli amministratori pubblici? Sicuramente. Per questo occorre attenzione e prudenza per gli effetti diretti e indiretti delle condanne. Non conosco la questione affrontata nello specifico dalla Consulta, ma tutta la vicenda dei fondi dei Gruppi è assai complicata. Andrebbe vista con una maggiore conoscenza delle dinamiche proprie di un gruppo politico. Una cosa è comprare, ad esempio, dei capi d’abbigliamento; ma c’è stato un caso, in una città italiana, in cui i fiori comprati per il matrimonio di una dipendente del gruppo sono stati considerati peculato. Gli effetti della Severino sono però automatici. In questo modo non si configura un’aggressione alla democrazia? Le norme incriminatrici devono essere chiare e precise. Anche la professoressa Severino, uno dei maggiori penalisti italiani, è molto critica sull’abuso d’ufficio, ma è il Parlamento che ha deciso. E ricordo che la riforma di quella figura di reato rientrava tra i progetti del Governo Conte 2. Si sta aprendo una stagione di discussione su queste norme, che molti etichettano come giustizialiste. I tempi sono maturi? Non è tanto una questione di giustizialismo, il punto è la denigrazione di chi svolge funzioni pubbliche. È qualcosa di più profondo: c’è una critica pregiudiziale nei confronti di chiunque eserciti funzioni pubbliche; c’è il sospetto diffuso che si abbia a che fare con un criminale. Siamo al di là del giustizialismo, siamo in una società divisa fra i buoni, che siamo noi, e i cattivi, che sono tutti gli altri. È un fattore culturale che la politica ha cavalcato, a partire dal M5S, salvo poi scoprire sulla propria pelle che una denuncia per abuso d’ufficio è un rischio che corrono tutti... Non tutta, ma ci sono settori della politica sostengono questo tipo di crociate. E i 5 stelle devono uscire dall’età dell’innocenza, nella quale i peccati sono solo quelli degli altri.: ormai sono sufficientemente adulti per cominciare a tener conto dei propri peccati Un amico, un fratello. Io conosco Ambrogio di Rita Bernardini Il Riformista, 12 marzo 2021 Gli proponemmo di girare “Spes contra spem”. Non era convinto: “Che speranza può esserci nella vita di un ergastolano ostativo?”. Poi ha ascoltato le voci degli uomini ombra e ha realizzato un manifesto contro la mafia. Dolce, intelligente. Ecco chi è Crespi, un innocente appena entrato in carcere. La condanna della Cassazione contro Ambrogio Crespi è un’altra pagina di ingiustizia che non avremmo voluto leggere. Un incubo per una persona innocente che dovrà entrare in carcere e subire la violenza di un sistema che ogni giorno si rivela un tritacarne che alimenta se stesso. A dispetto di qualsiasi logica e buon senso, anche in questo caso non sono valse a nulla le prove d’innocenza e l’estraneità effettiva ai fatti che gli sono stati contestati. Voglio dare ad Ambrogio quell’abbraccio che nel 2013 ci ha fatti conoscere, durante una mia visita ispettiva nel carcere di Opera dove era detenuto e, se allora ci siamo detti tutto in quell’abbraccio, oggi più che mai sono accanto a lui, cammino con lui affinché sappia che non è solo. Allora era già sofferente per l’ingiusta detenzione che doveva subire, posso solo intuire cosa stia passando oggi, dopo questa condanna che lo colpisce insieme alla sua famiglia. Il mio abbraccio è ancora più forte perché oggi è all’amico, al fratello, ad una persona che stimo e alla quale voglio bene. E non posso dimenticare tutto il bene che gli ha voluto Marco Pannella. A caldo, appresa la notizia della sentenza, ho voluto riascoltare la conferenza stampa del 29 dicembre del 2012 al Partito Radicale. Allora eravamo con Marco Pannella, Luigi Crespi, l’avvocato Giuseppe Rossodivita. L’intervento di Marco ebbe la forza di raccontarci anche della Storia del nostro Paese e della necessità di pone fine alla mala Giustizia Marco in un passaggio di quel dibattito disse: “Quando non c’è diritto, quando non ci sono valori, quando non c’è Storia, quando non c’è Democrazia, s’impazzisce”. Si riferiva all’accusatrice di Ambrogio Crespi, a quel magistrato, Ilda Boccassini, che aveva definito Ambrogio, dopo aver letto sicuramente bene le carte e istruito le indagini “sondaggista di Berlusconi”. Peccato che avesse confuso Ambrogio con il fratello Luigi. Peccato che all’epoca dell’inchiesta nemmeno Luigi Crespi fosse più il sondaggista di Berlusconi. Marco Pannella nel dire che “s’impazzisce” si riferiva ad un altro processo in corso, uno dei tanti Ruby istruiti contro Berlusconi che si svolgeva contemporaneamente con l’inchiesta su Crespi. Quello che colpì Pannella fu il tenore degli interrogatori d’indagine svolti da Ilda Boccassini che, fissata su Berlusconi, si soffermava sui particolari della vita sessuale dell’allora premier come se fossero contestabili in quanto reati. Ecco, quando non c’è diritto, quando non ci sono valori, quando non c’è democrazia, quando non c’è Storia, si impazzisce. Marco volle esprimere solidarietà a Ilda Boccassini perché capiva il dramma di questa donna, del suo personaggio, la quale aveva urgenza di legare il nome di Ambrogio a quello di Berlusconi, perché in realtà il suo obiettivo fisso era Berlusconi. Il procuratore generale, non dimentichiamolo, ha chiesto l’annullamento con rinvio perché il processo non aveva né capo né coda e andava rifatto daccapo. I giudici non l’hanno voluto ascoltare. Noi però abbiamo capito e conosciuto ancora più a fondo in questi anni Ambrogio Crespi e la persona che sta per entrare in carcere. Ricordo quando gli venne proposto di girare il film Spes contra spem. Inizialmente non era convinto: “Come posso trattare un argomento come l’ergastolo ostativo se sono persone che hanno ucciso? Quale speranza ci può essere nella loro vita?”. Poi ha compreso perché li ha conosciuti quegli uomini-ombra e quando ha ascoltato le loro storie, di persone che in carcere ci stanno da 25, 30 anni di cui molti al carcere duro, che cosa ha fatto Ambrogio? Lo ha ricordato Sergio D’Elia: ha realizzato un manifesto contro la mafia. Ecco chi è Ambrogio Crespi. Io conosco Ambrogio, la sua dolcezza, la sua intelligenza fatta di amore e di amicizia. Lo conosco anche attraverso il racconto che ci ha fatto tremare quando ha rischiato di perdere il suo bambino che era svenuto in una piscina. Egli ringrazia ancora la vita per avergli riservato il dono più bello: poter salvare suo figlio. Io conosco Ambrogio. E oggi il mio abbraccio è più maturo, più profondo di quello che ci fu allora, tanti anni fa. Siamo tutti cambiati. Come Partito Radicale, come Nessuno Tocchi Caino, siamo cambiati. E siamo ancora più consapevoli che anche questo Paese deve cambiare per divenire una democrazia compiuta. Ambrogio e tutti gli italiani hanno il diritto a una Giustizia giusta e a vivere in uno Stato responsabile e autorevole. Lo rivendichiamo ancora con Enzo Tortora insieme a tutto il Partito Radicale. Ambrogio ti abbraccio. “Oggi rinasco dopo 5 anni in carcere da innocente. Ma mi hanno distrutto la vita” di Vincenzo Imperitura Il Dubbio, 12 marzo 2021 “Rinato. Dopo la sentenza di ieri mi sento di essere rinato”. Ha un sorriso piegato dall’amarezza Rocco Femia, l’ex sindaco di Gioiosa Marina arrestato la notte del 3 maggio del 2011 con la pesantissima accusa di essere parte integrante della cosca dei Mazzaferro, e scagionato mercoledì dalla seconda sezione della corte d’Appello di Reggio Calabria che lo ha mandato assolto al termine del processo bis, “perché il fatto non sussiste”. Una sentenza arrivata dopo cinque anni di carcere preventivo e due condanne - in primo e secondo grado - a dieci anni di reclusione. Poi, nel 2017, la sentenza dei giudici di Cassazione che ha smontano punto per punto l’ipotesi investigativa della distrettuale antimafia dello Stretto e ieri, dopo il nuovo processo in Appello, la tanto attesa sentenza di assoluzione. Un calvario giudiziario durato 10 anni, cinque dei quali trascorsi tra il carcere di Reggio e quello di Palermo. “I giornali, o almeno quelli che ne hanno parlato, visto che in tanti dopo avermi massacrato in occasione dell’arresto neanche hanno riportato la notizia della mia assoluzione, raccontando la mia storia parlavano di 5 anni di carcere. E invece no: sono 5 anni e 9 giorni; i nove giorni sono quelli che sono pesati di più”. Consigliere dal 1988, poi assessore e candidato alla Provincia, quella di Rocco Femia per la politica è una fissa antica. L’ex sindaco si fa tutta la gavetta amministrativa prima di vincere le elezioni comunali nel 2008 alla guida di una lista civica che verrà poi smontata dall’operazione “circolo formato” che nel 2011, oltre al sindaco, arresta anche tre assessori della sua giunta, anche loro assolti a distanza di anni dai giudici del Palazzaccio perché il fatto non sussiste. “Quando sono stato scarcerato, Gioiosa Marina era completamente diversa da come l’avevo lasciata - racconta Femia seduto a un tavolino del bar gestito dalla moglie dove, all’indomani della sentenza di assoluzione, fanno capolino amici e semplici cittadini per un saluto o per una stretta di mano - Il paese allora era riuscito a ritagliarsi un posto importante nel panorama turistico regionale. Tutte le sere sul nostro lungomare c’erano almeno 10 mila persone a passeggiare o a gustarsi uno degli innumerevoli spettacoli gratuiti che avevamo organizzato. Stavamo lavorando bene, lo dicono i cittadini che a distanza di tanti anni si ricordano con fierezza dell’amministrazione di Rocco Femia. Guardi ora in che condizioni si trova il paese”. Poi gli arresti, lo scioglimento dell’amministrazione per infiltrazioni mafiose e il lungo commissariamento prefettizio che cambiano completamente la situazione. “Davamo gli appalti alla Suap (la stazione unica appaltante, ndr) prima ancora che diventasse obbligatorio farlo. Abbiamo abbattuto strutture abusive, alcune delle quali appartenenti proprio ai Mazzaferro e poi mi dite che faccio parte del clan? Ma che state dicendo? Tra tutte le pratiche che gli inquirenti hanno passato al setaccio, non hanno trovato niente di irregolare, niente di associabile agli interessi della ‘ndrangheta. Mi sono sentito spesso un capro espiatorio. Ho sempre amministrato con la massima trasparenza, si vede che a qualcuno non andava bene. E ora la mia comunità chi la risarcisce? Chi risarcirà i danni per questa splendida comunità che ha subito per anni l’onta della mafia?”. Ex calciatore, professore di educazione fisica in un liceo della zona e molto attivo nell’associazionismo, l’arresto del 2011 stravolge completamente la vita di Femia. “La mia è una famiglia di sportivi, ma quale ‘ndrangheta? La ‘ndrangheta non è mai entrata nella mia famiglia e non ci entrerà mai. Io ho quattro figli - racconta indicando uno di loro che lavora dietro il bancone del bar - uno di loro giocava a calcio a Livorno. Dopo il mio arresto la sua carriera è finita ad appena 17 anni. Un altro dei miei figli invece voleva fare carriera nelle forze armate. Intendeva entrare in Marina ma non gli hanno consentito di partecipare al concorso perché suo padre era in carcere con l’accusa di essere un mafioso. Ora hanno superato l’età per i loro sogni. Ma i giudici non ci pensano, ti sbattono in galera perché devono occupare le prime pagine, devono dimostrare che hanno fatto 100, 200, 300, 400 arresti. E poi diamo anche le medaglie a queste persone”. La famiglia dell’ex amministratore, nonostante la situazione, si compatta nel momento più buio, stringendosi ancora di più attorno a Femia. “L’unica nota positiva di questa storia è la mia famiglia; mi ha dato la serenità necessaria a superare tutto questo. Non mi ha mai fatto mancare il suo sostegno, la sua presenza. Mia moglie non ha mai mancato un colloquio, è stata sempre presente. E anche i ragazzi, non hanno saltato un’udienza. Molti in carcere non hanno avuto la mia stessa fortuna e sono caduti in depressione”. Filo comune di tutto il calvario giudiziario resta la voglia e la necessità di chiarire la situazione e in più di un’occasione, sia durante le indagini preliminari sia poi all’interno del dibattimento, ha chiesto di essere ascoltato dai magistrati. “Io non sono mai stato in silenzio. Mai. Ho chiesto innumerevoli volte di essere interrogato da Gratteri (all’epoca dei fatti Procuratore aggiunto dell’ufficio retto da Giuseppe Pignatone, poi divenuto capo della Procura di Roma, ndr) che non mi ha mai ascoltato, e mi ha mandato una sua collaboratrice. Avrei voluto chiedergli i motivi per cui ero finito in carcere, ma non è stato possibile, non ha voluto ascoltarmi, diceva di essere sempre impegnato. Anche durante il processo (assistito dagli avvocati Eugenio Minniti e Marco Martino, ndr), ho fatto quasi due ore e mezzo di dichiarazioni spontanee rispondendo alle tante domande che mi faceva il presidente della Corte. Non mi sono mai tirato indietro, io non sono un mafioso. Ma non è servito a niente, visto che prima della pronuncia della Cassazione ero stato condannato sia in primo che in secondo grado”. Sentenze che hanno dell’incredibile alla luce delle ultime decisioni del Tribunale. Un ribaltamento che però non è bastato a ricucire lo strappo profondo che si è creato tra lui e il sistema giustizia: “Ho grande rabbia, sono rimasto traumatizzato da tutto quello che è successo. Uno che passa tutto quello che ho passato io, come può avere ancora fiducia nella giustizia”? Ingiusta detenzione, dalla Corte europea una sentenza favorevole laquilablog.it, 12 marzo 2021 La nota di Giulio Petrilli, portavoce comitato per il risarcimento per ingiusta detenzione a tutti gli assolti. “Alla fine tutte le battaglie anche le più’ difficili, se giuste, si possono affermare. Dopo tante iniziative a Strasburgo, con iniziative insieme ai parlamentari europei e di fronte la Corte europea dei diritti umani dove sollecitai l’attenzione contro una norma anticostituzionale che vieta il risarcimento per ingiusta detenzione per comportamenti che non hanno nulla a che vedere con il giudizio penale, accade che per la prima volta nelle sua storia la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo dà ragione a una persona, Fernandos Pedroso, condannando il Portogallo a risarcirlo, procedimento n. 59133, che non è stata risarcita per ingiusta detenzione con le stesse motivazioni che in Italia hanno usato per non concedermela, ho scontato sei anni di carcere speciale con l’accusa di appartenere alla “banda armata Prima Linea” prima di essere assolto con sentenza definitiva. Sono stato a Strasburgo più’ di un anno fa per protestare contro questa ingiustizia, sia davanti al parlamento europeo che la corte europea, ho fatto petizioni e tante iniziative lì e ora per la prima volta un risultato importante. Penso che ho contribuito in qualche modo a questo successo in quanto la responsabile diritti e presidente delle petizioni la deputata svedese Cecilia Wikstrom mi rispose dicendomi che avevo ragione e di aver avuto la forza di portarlo all’attenzione di organi europei. Ora invierò la sentenza alla ministra della giustizia Marta Cartabia e al presidente del consiglio Mario Draghi, sperando ne prendano atto e decidano di cambiare la norma che dà la possibilità ai magistrati di stabilire un giudizio sul comportamento per chi è stato assolto, per non risarcire sulla ingiusta detenzione. La Corte europea con la sentenza stabilisce che chi è stato ingiustamente detenuto va sempre risarcito altrimenti si va contro l’articolo 5 della convenzione europea sui diritti umani. Non sono consentiti per non risarcire, giudizi morali, frequentazioni sbagliate o se ti sei avvalso della facoltà’ di non rispondere oltretutto consentita dalla legge. Anche le frequentazioni, puoi frequentare chi vuoi, l’importante non commettere reati”. Il mafioso fa causa all’Inps per la pensione revocata di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 12 marzo 2021 Una legge dello Stato stabilisce che a mafiosi e terroristi devono essere revocate le prestazioni assistenziali erogate dall’Inps. Ma la Corte d’appello di Venezia ha deciso di investire la Consulta per sapere se sia costituzionalmente legittimo applicare tale revoca anche in relazione a fatti commessi e a sentenze di condanna penale pronunciate prima dell’entrata in vigore della norma. Il singolare caso è stato sollevato qualche giorno fa dalla Sezione lavoro della Corte lagunare, presieduta da Gianluca Alessio, nel corso di un procedimento che riguarda un collaboratore di giustizia, condannato per omicidio, associazione per delinquere di stampo mafioso ed altri reati, il quale usufruisce di un assegno di invalidità civile. Sulla base di quanto prevede la legge Fornero, approvata nel 2012, l’Inps ha deciso di revocare tale prestazione in quanto l’articolo 2, comma 58, così stabilisce a carico delle persone condannate per reati gravi, collegati in particolare al terrorismo o ad associazione di stampo mafioso. Il pentito, assistito dallo studio Borile, si è prima opposto in via amministrativa, senza risultato; quindi ha impugnato il provvedimento dell’Istituto di previdenza di fronte al Tribunale competente per territorio, quello di Rovigo, il quale ha accolto il suo ricorso ritenendo “che la prestazione in godimento all’assistito, prevista dall’art.13 della legge n.118 del 1971 non fosse fra quelle oggetto della prevista revoca”. Contro la decisione dei giudici polesani ha fatto ricorso a sua volta l’Inps, patrocinato dall’avvocato Aldo Tagliente, con l’obiettivo di ottenere una decisione favorevole all’Istituto di previdenza. Il legale ha ammesso che la legge Fornero fa esplicito riferimento a indennità di disoccupazione, assegno sociale, pensione sociale e pensione per gli invalidi civili tra le prestazioni che devono essere revocate nel caso di persone condannate per gravi reati, aggiungendo però che per estensione deve essere ricompreso anche l’assegno di invalidità civile perché rientra nella logica della norma. La Corte di appello di Venezia, con un’ordinanza emessa nei giorni scorsi, premette di non essere d’accordo con la decisione del giudice di Rovigo, in quanto la legge Fornero, nello stesso comma 58, precisa che la revoca riguarda tutti i trattamenti previdenziali a carico degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza, ovvero di forme sostitutive, esclusive ed esonerative delle stesse. E dunque anche l’assegno di invalidità civile deve essere ricompreso. I giudici, però, si sono posti un ulteriore problema: ovvero se sia costituzionalmente legittimo applicare una norma di legge in relazione a reati e condanne penali (presupposto che la sanzione accessoria) che risalgono ad un periodo precedente all’entrata in vigore della legge. Secondo la Corte lagunare una tale applicazione retroattiva potrebbe porsi in violazione degli articoli 25, comma 2, e 117 comma 1 della Costituzione. Di conseguenza hanno sospeso la definizione del giudizio in corso, in attesa che la Consulta si pronunci. Il collaboratore di giustizia, un tempo appartenente al clan dei casalesi, è stato condannato in via definitiva a 30 anni di reclusione per gravi reati di mafia. L’autocertificazione infondata non è mai reato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2021 Un Dpcm non può limitare la libertà personale, misura incostituzionale Non ha rilevanza penale la compilazione di una falsa autocertificazione. E di conseguenza deve essere prosciolto perché il fatto non costituisce reato chi, un anno fa, in violazione alle prescrizioni del Dpcm dell’8 marzo 2020 si era fatto sorprendere in strada con un modello di autocertificazione che riportava ragioni prive di fondamento, asserendo la necessità di una visita in ospedale. In questo senso conclude la Sezione Gip-Gup del tribunale di Reggio Emilia con la sentenza n. 54 del 2021. La pronuncia mette in evidenza come non si configura un falso ideologico in atto pubblico per effetto della trasgressione di un Dpcm che è intervenuto a istituire un obbligo di permanenza domiciliare che, per giurisprudenza consolidata anche della Corte costituzionale, rappresenta una limitazione della libertà personale che può essere disposta dall’autorità giudiziaria o comunque dall’autorità giudiziaria deve essere valutata. Così peraltro dispone l’articolo 13 della Costituzione con il quale si stabilisce che le limitazioni della libertà personale possono essere adottate solo su atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei casi e modi stabiliti dalla legge. E allora, sottolinea la sentenza, è evidente che un Dpcm, atto regolamentare di rango secondario nella gerarchia delle fonti di natura giuridica, non può intervenire a disporre un obbligo di permanenza in casa. Ma il Gip-Gup di Reggio Emilia si spinge anche oltre e osserva che neppure una legge o un decreto legge potrebbe prevedere in via generale e astratta, nel nostro ordinamento, l’obbligo della permanenza domiciliare disposto nei confronti di una pluralità indeterminata di cittadini, “posto che l’articolo 13 della Costituzione postula una doppia riserva, di legge e di giurisdizione, implicando necessariamente un provvedimento individuale, diretto dunque nei confronti di uno specifico soggetto”. La pronuncia ricorda poi che, trattandosi di un atto amministrativo come il Dpcm, non è necessario un rinvio della questione alla Consulta perché ne venga dichiarata l’illegittimità. A disapplicarlo basta l’intervento della magistratura. A nulla serve poi il passaggio del divieto dall’area della libertà personale a quello della libertà di circolazione, circoscrivendo solo a quest’ultimo la prescrizione del Dpcm. Per la sentenza infatti la libertà di circolazione, come affermato dalla Corte costituzionale, può trovare limitazione con riferimento all’accesso a determinati luoghi, magari perché giudicati infetti, ma non può essere confusa con una vera e propria limitazione della libertà personale. Per il giudice di Reggio Emilia quindi il Dpcm è illegittimo per violazione dell’articolo 13 della Costituzione e la redazione dell’autocertificazione rappresenta una costrizione “incompatibile con lo stato di diritto del nostro paese”. Per questo la falsità del documento, provata negli atti, non ha i connotati dell’antigiuridicità e non deve essere punita sul piano penale. Si configura infatti il caso di un falso inutile perché incide su un documento irrilevante. E il giudice incenerì i Dpcm: “Non possono obbligarti a casa” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 12 marzo 2021 La clamorosa sentenza a Reggio Emilia: “Violata la Costituzione, che per l’obbligo di dimora prevede doppia riserva: di giurisdizione e di legge”. Gli ormai celebri “Dpcm”, ovvero i decreti del presidente del Consiglio dei ministri, sono illegittimi. Lo ha stabilito il giudice del Tribunale di Reggio Emilia Dario De Luca pronunciandosi sulla richiesta di emissione di decreto penale di condanna avanzata dal pm. In estrema sintesi, un atto amministrativo, quale è il Dpcm, non può limitare la libertà personale di movimento, essendo contrario alla Costituzione un obbligo generalizzato di rimanere nella propria abitazione. I fatti risalgono al 13 marzo scorso. L’allora premier Giuseppe Conte aveva da pochi giorni firmato il primo di una lunghissima serie di Dpcm, prevedendo il divieto di uscire di casa al fine di contenere i contagi da Covid-19. Una donna, fermata da una pattuglia di carabinieri a Correggio, in provincia di Reggio Emilia, aveva dichiarato di essersi dovuta recare in ospedale per effettuare delle analisi con il compagno. I carabinieri, poi, accertarono che non erano mai stati in ospedale e scattò la denuncia per entrambi. Tutto nullo per il giudice “perché il fatto non costituisce reato”, dal momento che il Dpcm “non può imporre l’obbligo di permanenza domiciliare, neanche in presenza di un’emergenza sanitaria”. L’obbligo di permanenza domiciliare è “una sanzione penale che può essere decisa dal magistrato per singole persone per alcuni reati, e soltanto all’esito del giudizio”. Il giudice ha ribadito, infatti, che “un decreto del presidente del Consiglio è un semplice atto “regolamentare”, privo della forza normativa per costringere qualcuno a restare in casa”. Neppure un provvedimento normativo, in astratto, può imporre ad alcuno di restare a casa: la Costituzione pone sul punto una doppia riserva, di giurisdizione oltre che di legge. Secondo il giudice “sono considerate restrittive misure ben più lievi come l’obbligo di presentarsi al commissariato per gli ultras ‘daspati’ o il prelievo di sangue per i sospetti ubriachi al volante, mentre richiedono il controllo del giudice l’accompagnamento coattivo alla frontiera per gli stranieri irregolari e il trattamento sanitario obbligatorio oltre che gli stessi provvedimenti contro i tifosi violenti”. La disapplicazione di tale disposizione, materialmente comprovata, non è punibile giacché le circostanze escludono l’antigiuridicità in concreto della condotta e, comunque, integrano un falso inutile. L’essersi voluti “sostituire” all’Autorità giudiziaria da parte del premier è, pertanto, incompatibile con lo Stato di diritto del nostro Paese. La pronuncia del giudice di Reggio Emilia è un precedente importante per gli innumerevoli ricorsi presentati in questi mesi contro i dpcm. Padova. Voto al boss, i Garanti dei detenuti del Veneto: “Amarezza” Corriere del Veneto, 12 marzo 2021 Continua a tenere banco, dentro e fuori Palazzo Moroni, il caso legato a Matteo Messina Denaro. Ossia all’ancora anonimo consigliere comunale che, mercoledì della scorsa settimana, durante la votazione segreta per eleggere il Garante dei detenuti, ha appunto scritto sulla scheda il nome del superlatitante di Cosa Nostra. L’altro giorno, il segretario cittadino del Pd, Davide Tramarin, ha annunciato la presentazione di un esposto in procura “per fare chiarezza sulla vicenda” e il deputato Alessandro Zan (pure lui del Pd) ha rivolto un’interrogazione parlamentare al ministro dell’interno, Luciana Lamorgese. Ieri, invece, un’identica interrogazione è stata depositata pure dall’onorevole di Fratelli d’italia, Ciro Maschio (commissario provinciale del partito di Giorgia Meloni): “Non è accettabile - si legge che un consigliere, nascondendosi dietro la segretezza del voto, abbia scritto il nome di uno dei superboss più pericolosi e ricercati del mondo”. Mentre in una nota, i Garanti comunali dei detenuti di Belluno, Rovigo, Venezia, Verona e Vicenza, insieme con il Garante regionale, Mirella Gallinaro, hanno espresso “desolata amarezza per l’accaduto”. E infine, i capigruppo a Palazzo Moroni di Pd, Lista Giordani, Coalizione Civica, Lista Lorenzoni, Area Civica, M5S e Forza Italia (non pervenuti, almeno fino a tarda sera, quelli di Lista Bitonci, Lega e Fratelli d’Italia) hanno ribadito “la necessità che l’autore di tale grave atto si manifesti pubblicamente chiedendo scusa alla città”. Padova. Voto in Consiglio comunale a Messina Denaro, indagini della Digos di Marco Aldighieri Il Gazzettino, 12 marzo 2021 Imbarazzo, pur con la certezza che l’autore non sia un “complice della mafia”. Sconcerto, perché non si aspettava proprio che il parlamentino che presiede da tre anni e mezzo finisse alla ribalta della cronaca per un episodio così increscioso. Ma anche dispiacere, per “l’errore” commesso da un collega. Giovanni Tagliavini, numero uno del consiglio comunale mai avrebbe ipotizzato che nella votazione a Palazzo Moroni per la nomina del garante dei detenuti qualcuno indicasse il nome del boss Matteo Messina Denaro. Un caso spinoso e inquietante che nel frattempo è finito sul tavolo del procuratore capo Antonino Cappelleri: gli uomini della Digos, infatti, proprio ieri mattina hanno depositato una dettagliata relazione sull’episodio. Non è invece ancora giunto, almeno per ora, nessun esposto al quarto piano del palazzo di giustizia. Al momento non è stata vagliata alcuna ipotesi di reato. E sarebbe stato anche individuato l’autore della “bravata”, ma per avere certezza sulla sua identità dovrebbe essere disposta una consulenza calligrafica sulla scheda elettorale, che però non può essere effettuata in assenza di un’indagine penale. La scritta in stampatello è stata vergata con una grafia ferma, senza incertezze da parte di chi stava facendo un gesto eclatante e quasi sicuramente premeditato, con le lettere riportate esattamente entro la riga prestampata, proprio come se si trattasse del nominativo di uno dei candidati effettivi. Tagliavini, quindi, nel fare il punto sulla situazione, spiega: “In questo momento si sta cercando di approfondire con la massima attenzione ogni aspetto, ai fini della presentazione di un esposto e per capire eventualmente quale reato possa essere ravvisato. E nel caso in cui ce ne fosse uno perseguibile, la Procura potrebbe disporre un approfondimento calligrafico. Il Comune, essendo il voto segreto, non ha poteri per fare verifiche. Ci sono implicazioni istituzionali, politiche e giuridiche molto gravi e ritengo che l’autore non si sia reso conto delle conseguenze che avrebbe provocato. Ho preso contatti con il presidente nazionale dei garanti Marzio Palma, con quello regionale Mirella Gallinaro, oltre che con il referente regionale di Libera, Roberto Tommasi, esternando loro il mio rincrescimento e l’auspicio che il responsabile avvii una riflessione su di sè, per capire la sua adeguatezza rispetto alla carica che ricopre”. Il presidente, poi, ha aggiunto: “Però, anche nelle circostanze più problematiche va valorizzato un segnale positivo e cioè che nel luglio scorso il regolamento sul Garante era stato approvato all’unanimità dalle forze politiche presenti all’assise”. Quanto poi all’identità del consigliere, Tagliavini ha osservato: “Di fronte a fatti gravi è opportuno contenere la reazione emozionale e cercare invece di capire il perché di questa scelta. L’autore, magari tra un po’, farebbe bene a iscriversi a un’associazione di volontariato che opera in carcere: sarebbe questo un modo per riparare. Resta, comunque, la necessità di appurare le motivazioni di un gesto assurdo, anche se escluderei che il protagonista sia uno “sponsor” consapevole della mafia e lo voglio assicurare a tutela della collettività. Solo chi ha indicato Matteo Messina Denaro sa perché l’ha fatto e se è un errore rimediabile. L’episodio non deve ripetersi, perché il mandato politico va affrontato con serietà. Il nostro consiglio ha dimostrato di saper fare politica di alto livello e questo incidente auspico serva a sviluppare “anticorpi” per il futuro”. Intanto i garanti comunali dei detenuti di Belluno, Rovigo, Venezia, Verona, Vicenza, e quello regionale dei diritti della persona, Mirella Gallinaro hanno espresso in una nota “amarezza per l’incredibile designazione”. “L’episodio - sottolineano - che pure ha subito ricevuto la reazione bipartisan del consiglio comunale e su cui si è già espresso autorevolmente il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, lascia l’amaro in bocca. Nell’esprimere la solidarietà al Comune di Padova per l’insulto istituzionale ricevuto, restiamo fiduciosi in una rapida presenza del futuro Garante patavino nel nostro coordinamento”. Bologna. Il Garante dei detenuti: “Sospesi i nuovi ingressi alla Dozza” Ristretti Orizzonti, 12 marzo 2021 Il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Emilia-Romagna e Marche ha adottato un provvedimento orientato a sospendere i nuovi ingressi (i nuovi arresti verranno dirottati a Modena) in ragione della saturazione degli spazi detentivi, anche dovuta alla contemporanea chiusura in via precauzionale di diverse sezioni detentive, essendosi riscontrati casi di positività all’interno. Il numero delle persone detenute positive è al momento limitato (5). Già durante il mese di dicembre scorso, il Prap aveva adottato un provvedimento analogo, ma in quella occasione fondato sull’alto numero dei contagi all’interno. Risulta costante la condizione di sovraffollamento, il cui trend nel recente periodo è anche in crescita, potendo incidere sull’aggravamento del rischio sanitario in quanto la mancanza di distanziamento fisico può evidentemente fungere da acceleratore della diffusione del contagio. Al 29 febbraio 2020, prima che l’emergenza sanitaria esplodesse in tutta la sua virulenza, erano presenti nel carcere di Bologna 891 persone a fronte di una capienza regolamentare di 500. Alla data del 30 giugno 2020 risultavano presenti 674 persone. Sul calo numerico incisero la concessione di misure all’esterno del carcere, anche per l’attualità e gravità del rischio sanitario a fronte di serie e pregresse patologie, e anche i trasferimenti verso altri istituti penitenziari e il decremento dei reati durante la fase del lockdown, con conseguenti minori arresti e ingressi in istituto. Oggi sono presenti circa 750 persone. La buona notizia dei giorni scorsi aveva riguardato l’inizio della campagna di vaccinazione degli operatori penitenziari (e anche di parte dei volontari) e si spera che a breve possa anche iniziare quella destinata alle persone detenute così che la comunità penitenziaria possa essere messa in sicurezza sanitaria. Antonio Ianniello Garante per i Diritti delle persone private della Libertà personale del Comune di Bologna Vigevano (Pv). Rumore d’ali, la nuova compagnia teatrale del carcere di Paolo Perazzolo Famiglia Cristiana, 12 marzo 2021 Nasce volutamente in un momento storico in cui l’arte è silenziata e dopo 5 anni di laboratorio. Il modello è quello creato a Volterra da Armando Punzo. Il testo del primo spettacolo è stato scritto da un giovane detenuto. Nasce, grazie al progetto Per Aspera ad Astra, Rumore d’ali teatro, una nuova compagnia teatrale all’interno della Casa di Reclusione di Vigevano, nell’anno in cui il Teatro e i teatranti son stati silenziati. Rumore d’ali teatro prende vita dopo 5 anni consecutivi di laboratorio teatrale, a cura di ForMattArt insieme alla regista Alessia Gennari, dentro la Casa di reclusione di Vigevano. Dall’estate 2020 il progetto Per Aspera ad Astra ha permesso di indirizzare definitivamente l’orientamento del lavoro verso la produzione artistica e la formazione tecnica professionalizzante dei detenuti attori. La Compagnia nasce nel 2021, 10mo anno di attività di ForMattArt, per mettere un punto - che sia anche d’inizio - ad un 2020 così complesso, a distanza fisica, traballante, incerto, di legami sospesi, di chiusure e di prossimità mediate da computer, in cui, però, non ha mai smesso di esserci, in Dad, su Zoom, dal vivo, dentro, fuori, ma sempre insieme. Insieme al Direttore Davide Pisapia ed educatori, insieme all’Amministrazione Penitenziaria, insieme ai vecchi e nuovi detenuti attori, insieme alla regista, alla responsabile organizzativa Iris Caffelli, alla drammaturga Federica Di Rosa, al coreografo Flavio D’Andrea, grazie a chi non ha mai smesso di credere che è possibile “riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”: al progetto Per aspera ad astra - nato dalla Compagnia della Fortezza di Volterra guidata da Armando Punzo). Un progetto che ha come obiettivo principale quello di promuovere il confronto delle migliori esperienze e pratiche di teatro in carcere presenti in diversi Istituti italiani, avviando un dialogo e uno scambio di competenze a beneficio della professionalità di tutti i soggetti coinvolti. Il nuovo progetto della neonata compagnia affonda le sue radici nel percorso di questi anni. In occasione di un’improvvisazione il gruppo si era trovato a lavorare sul tema dell’attesa. All’incontro successivo uno degli attori detenuti, un ragazzo che prima di iniziare il laboratorio a stento parlava l’italiano, si era presentato con un monologo scritto di suo pugno. Il monologo descriveva un hotel “piccolo e tranquillo”, ironicamente diventato per il suo autore la metafora di un carcere. Questo testo, così ben scritto, così ironico e così spontaneo, è rimasto nel nostro cassetto a lungo, fino a che i recenti eventi non ne hanno evidenziato ancora di più la potenza e l’universalità: l’hotel è metafora del carcere e diventa anche metafora di un luogo chiuso entro cui si volge l’intera vita dell’uomo e si manifesta l’intera gamma dei sentimenti: amore, amicizia, solitudine, frustrazione, entusiasmo, depressione, dipendenza. Su questo testo e su queste riflessioni pone le basi il nuovo progetto di spettacolo cui stiamo lavorando insieme al gruppo di attori detenuti, impegnati in questa prima fase in un processo di scrittura creativa. Il progetto nasce già con una vocazione duplice, che considera il momento storico e le difficoltà connesse alla messinscena dello spettacolo dal vivo, in particolare all’interno di un istituto penitenziario. La prima fase del lavoro infatti prevede la realizzazione di una versione digitale del progetto, con la creazione di un percorso virtuale che ci porterà a scoprire in anteprima contenuti video e audio che andranno in un secondo momento a far parte dello spettacolo dal vivo: un viaggio (prima virtuale, poi reale) dello spettatore attraverso le stanze che abitano l’hotel, il carcere, la nostra vita. Nell’autunno del 2019 stavamo provando l’ultima produzione del gruppo, un adattamento di Aspettando Godot di Beckett. Nello spettacolo c’è una canzone - del cantautore Canis - il cui titolo riprende Beckett, che ha dato il titolo allo spettacolo: Fanno rumore d’ali. Con il gruppo di attori detenuti stavamo cantando la canzone in prova e proprio mentre cantavamo di ali, nel teatro del carcere è entrata una farfalla molto colorata e molto grande, che è venuta a posarsi esattamente al centro del cerchio in cui ci trovavamo per cantare. Ha sbattuto le ali un po’, ha fatto un giretto del cerchio, poi se ne è andata. È stata una specie di epifania. Un segno che ci ha emozionato. Cosa ci faceva una farfalla dentro al teatro del carcere, e proprio in quel momento? Che interpretazione dare a questo segno? Quando si è trattato di trovare il nome per il nostro gruppo - già di fatto attivo dal 2016, ma che fino ad ora “anonimo” - è stato abbastanza immediato tornare a quel momento. Le ali di una farfalla, quando sbattono, non le sente nessuno, figurarsi se vola dentro le mura di un carcere. ForMattArt è una Associazione Promozione Sociale, che dal 2011 si propone di progettare, promuovere e realizzare attività finalizzate alla trasformazione dei contesti di fragilità sociale attraverso attività artistiche, ArtEducative, culturali, formative, favorendo la costruzione di reti aperte di soggetti pubblici e privati. ForMattArt ha avviato principalmente percorsi artistici in ambiti caratterizzati da forte criticità (persone detenute, minori ad alto rischio - anche in carico ai servizi penali - quartieri periferici, profughi e migranti…). Attualmente l’associazione è impegnata in particolare nella realizzazione di alcuni grandi progetti artistici ed educativi pluriennali in diversi contesti: carcere, infanzia e adolescenza, migrazione. Non autosufficienti, i più deboli rimasti senza aiuti di Dario Di Vico Corriere della Sera, 12 marzo 2021 Sono poco meno di 3 milioni di anziani che vivono nelle Rsa o in casa. Sono poco meno di 3 milioni, hanno pagato il prezzo più salato alla devastazione del virus (la mortalità si è concentrata tra persone ultraottantenni con due o tre patologie concomitanti) ma ciononostante non riescono ad ottenere la giusta e necessaria attenzione. Si aspettavano che, una volta illuminata dai media la loro condizione, politica e amministrazione agissero di conseguenza e invece niente. Sono il piccolo esercito degli anziani che vivono nelle Rsa o in casa propria ma non sono autosufficienti vuoi a causa di una riduzione drastica della mobilità fisica (con l’impossibilità di lavarsi, vestirsi e camminare) vuoi per un grave disturbo cognitivo (il terribile Alzheimer tra tutti). Avrebbero bisogno di assistenza continuativa domiciliare o residenziale per rispondere alla condizione di dipendenza permanente, però non trovano interlocutori e risposte. Perché se è vero che la spesa corrente per il welfare italiano pende sul lato pensionistico, una è la condizione di un ex lavoratore settantenne in buona salute, altra e diversa quella di un anziano che dipende dai congiunti per le funzioni vitali e il sostentamento materiale. Su questa esigenza di rappresentanza e di voce si muove il Network Non Autosufficienza, una rete di esperti affiancata da 8 associazioni di malati di Alzheimer e Parkinson, da Cittadinanzattiva, Forum del Terzo Settore, Forum Disuguaglianze Diversità e sostenuta da Caritas Italiana. Un raggruppamento mai così largo e che testimonia la preoccupazione di fondo che circola tra le famiglie coinvolte. Il primo impegno è stato quello di elaborare una proposta sull’assistenza che nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza purtroppo manca. “Sarebbe paradossale - dice Cristiano Gori, coordinatore del Network - che un Piano nato per rispondere a una tragedia dimenticasse coloro che hanno pagato il prezzo maggiore, le vittime”. E aggiunge che la pandemia ha solo messo drammaticamente a nudo una criticità che esisteva da tempo. Il welfare italiano è stato interessato negli ultimi anni da diversi interventi di riforma, dall’Aspi del 2012 al Reddito di cittadinanza del 2019 fino all’Iscro del 2021, ma nessuno di essi ha riguardato la platea dei non autosufficienti. Come invece hanno scelto di fare in varie forme Austria, Germania, Francia e Spagna tra gli anni Novanta e i Duemila. Il risultato è che, secondo le statistiche Ocse, solo la Grecia ha meno posti letto dell’Italia in strutture residenziali: 1,8 ogni 100 persone contro 1,9. Ma oltre alla residenzialità anche l’assistenza a domicilio fa acqua: i servizi pubblici nella migliore delle ipotesi seguono l’anziano in media 18 ore l’anno (!). Eppure che ci sia necessità di provvedere lo suggeriscono innanzitutto le tendenze demografiche che vedono salire il numero degli ultraottantenni a un ritmo vertiginoso (fatto 100 il livello del 2000 già siamo nel 2020 a 198,1). E in questa fascia d’età i medici segnalano la preoccupante crescita dei malati di Alzheimer. Due sono i problemi di fondo che, secondo il Network, vanno affrontati di petto. Il primo riguarda la frammentazione degli interventi pubblici erogati da soggetti diversi (Asl, Comuni, Inps) e, purtroppo, non coordinati tra loro. Che andrebbero invece collocati in un sistema di governance unitario capace di armonizzare le diverse linee di responsabilità. Il secondo investe l’inadeguatezza dei servizi domiciliari, il cui sviluppo invece è valutato alla stregua di una priorità. Come ovviare? Offrendo agli anziani non solo gli interventi di natura medico-infermieristica ma anche quelli di supporto nelle attività di base della vita quotidiana. Il Pnrr non permette (giustamente) l’incremento della spesa corrente ma può finanziare un investimento straordinario nella domiciliarità per accompagnarne la riforma e avviare l’ampliamento dell’offerta. Che, non ultimo, creerebbe un numero significativo di quei white jobs più volte raccomandati dalla Commissione Europea. “La proposta - sintetizza Gori - prevede circa 7,5 miliardi per la non autosufficienza nel periodo 2022-26, 5 dei quali dedicati ai servizi domiciliari. È la cifra giusta per avviare una riforma ambiziosa ma si può partire anche con meno. Il vero pericolo non è che i fondi siano inferiori a quelli sperati ma che il Pnrr ignori del tutto i non autosufficienti”. Diritti Lgbtiq, l’Europa si dichiara “zona di libertà” di Francesca Basso Corriere della Sera, 12 marzo 2021 Voto a larga maggioranza del Parlamento per il rispetto dello stato di diritto. Un messaggio forte contro le discriminazioni in Polonia e Ungheria. Da ieri l’Unione europea è “zona di libertà Lgbtiq”. Almeno così l’ha dichiarata il Parlamento Ue a larga maggioranza. Una dichiarazione simbolica che vuole essere una risposta politica forte a quanto sta accadendo in Polonia e Ungheria, dove le persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, non binarie, intersessuali e queer (Lgbtiq) vengono discriminate e le pressioni di Bruxelles per il rispetto dello Stato di diritto non stanno dando risultati. Sono infatti passati due anni dalla creazione della prima “Lgbt Free Zone” in Polonia e ad oggi sono oltre 100 le regioni, contee e comuni che hanno adottato risoluzioni simili. In Ungheria la situazione non va meglio. In novembre la città di Nagykáta ha adottato una risoluzione che vieta la “diffusione e la promozione della propaganda Lgbtiq” e il Parlamento ungherese ha anche emendato la costituzione limitando i diritti delle persone Lgbtiq. Gli eurodeputati hanno chiesto alla Commissione di usare tutti gli strumenti a sua disposizione per far rispettare lo Stato di diritto, incluse le procedure di infrazione, l’attivazione dell’articolo 7 del trattato Ue e la nuova clausola che protegge il bilancio dell’Ue (ma la cui applicazione è stata rimandata a più avanti). Il punto è che finora non ci sono stati progressi, ci sono due Paesi che si stanno allontanando volontariamente dai valori fondanti l’Ue: non solo nel mancato riconoscimento dei diritti delle persone Lgbtiq, ma anche di quelli delle donne (la Polonia ha vietato l’aborto), della libertà d’informazione, dell’indipendenza della magistratura. Non riuscire a far rispettare lo Stato di diritto restando impantanati nei meandri delle regole vuol dire accettare che esistono cittadini europei di serie A e di serie B. A maggio si apre la Conferenza sul futuro dell’Europa. Non inizia sotto i migliori auspici, ma sarà l’occasione per la società civile per obbligare istituzioni e Stati membri ad ascoltare la propria agenda e a chiedere cambiamenti sostanziali. Società violente e meno sicure con il modello “law and order” di Porzia Addabbo Il Riformista, 12 marzo 2021 Un sistema giudiziario e penitenziario eccessivamente duro non solo non funziona, ma è anche dannoso. Lo dimostra il confronto tra Usa e Italia. L’eccesso di durezza di un sistema giudiziario e penitenziario non solo non funziona, nel senso che non rende la società più sicura, ma è anche controproducente, nel senso che contribuisce a mantenere un livello di violenza diffusa che è molto superiore a quello dei sistemi meno giustizialisti”. Invitata per conto di Nessuno tocchi Caino a un convegno a Cascina il 2 marzo scorso, ho presentato una scheda comparativa tra Usa e Italia che evidenzia il “paradosso” di un sistema di giustizia penale che invece di ridurre il crimine lo alimenta. Il convegno dal titolo “La storia di Greg” era dedicato a Gregory Summers, un detenuto che è stato giustiziato in Texas il 25 ottobre 2006 ma aveva chiesto di essere sepolto in Toscana, il primo Stato (come Granducato) che ne11786, per la prima volta in Europa, ha abolito tortura e pena di morte. Il confronto tra Stati Uniti e Italia mostra delle differenze molto significative: gli USA hanno 330 milioni di abitanti, l’Italia 60 (loro sono 5 volte e mezza più popolosi di noi); gli USA hanno 2.100.000 persone in carcere, l’Italia 53.000 (se noi fossimo quanti gli statunitensi, avremmo 291.000 persone in carcere, ne abbiamo invece 7,2 volte di meno); negli USA si verificano ogni anno una media di 16.500 omicidi, in Italia 315 (è come se l’Italia, in proporzione, avesse 3.000 omicidi, invece ne abbiamo 9,5 volte di meno); negli USA oltre 203.000 persone stanno scontando l’ergastolo, in Italia L784 (è come se l’Italia, a parità di popolazione, avesse 36.900 ergastolani, invece ne abbiamo più di 20 volte di meno). Negli Stati Uniti la polizia uccide in media, ogni anno, circa L800 cittadini, e in media altri 400 omicidi, compiuti da cittadini, non vengono perseguiti perché considerati “giustificati” ai sensi delle leggi sulla legittima difesa. Sebbene in Italia manchi trasparenza su questa categoria di uccisioni, è probabile però che si tratti comunque di cifre basse, che non dovrebbero superare, di media, i 20 casi l’anno. Seguendo la proporzione statunitense, la polizia dovrebbe uccidere in media 330 persone l’anno, e 70 dovrebbero essere i casi di legittima difesa. Se diamo per buona la cifra complessiva desunta di 20, in Italia le “uccisioni giustificate” sono in proporzione 16,5 volte di meno che negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti in media il 40% degli omicidi rimane irrisolto. Alcune contee Iconiche”, in stati mantenitori, hanno statistiche particolari. La Miami-Dade, quella dove sono ambientati i telefilm “CSI Miami”, con “Orazio” e i suoi elegantissimi colleghi che risolvono brillantemente tutti i casi, ha avuto nel 2019 il 51% degli omicidi irrisolti. In Italia, nel 2019, sono rimasti irrisolti Il 24% degli omicidi. Quindi la polizia statunitense, più numerosa, più armata, meglio pagata, e con potere di vita e di morte quasi illimitato sui cittadini non è affatto più efficiente di quella europea, continente in cui, in alcune nazioni, la polizia gira disarmata, e per poter estrarre un’arma conservata in un vano corazzato nel portabagagli dell’auto di servizio deve prima chiedere via radio il permesso, e ottenere dalla centrale un codice numerico di sblocco. Gli Stati Uniti uccidono in media 20 persone l’armo attraverso esecuzioni “legali”, ossia dopo una serie di processi, mentre in Italia l’ultima esecuzione risale all’immediato dopoguerra, al 1947. Anche il fatto che in 28 dei 50 stati sia in vigore la pena di morte non sembra dare agli USA nessun vantaggio rispetto all’Europa, dove la pena di morte è in vigore nella sola Bielorussia, nazione dell’ex blocco sovietico che appartiene “geograficamente” all’Europa, ma “politicamente- non fa parte né dell’Unione Europea né del Consiglio d’Europa. Per quanto sia considerata in ambito internazionale una dittatura “de facto”, la Bielorussia fa un uso “moderato” della pena di morte, con una inedia di 2 esecuzioni l’anno negli ultimi 10 anni. C’è da dire che il tasso di criminalità violenta di USA e Bielorussia sono molto simili, in media oltre il quadruplo rispetto alla “Vecchia Europa”. Detto tutto questo, ossia che l’Italia tiene in carcere, in proporzione, 7 volte meno cittadini degli USA, che ne condanna all’ergastolo 20 volte di meno, che le nostre forze dell’ordine uccidono “senza processo” almeno 20 volte meno di quelle USA, che noi non giustiziamo nessuno da 74 anni, detto tutto questo, noi abbiamo un tasso di omicidi che è 10 volte più basso di quello statunitense. Cifre in media con quelle italiane le hanno gli altri grandi paesi europei che per popolazione possono essere paragonati all’Italia: la Gran Bretagna, la Plancia, la Germania, e la Spagna. Alla luce di questi semplici dati, si può dire che la tradizione europea di “garantismo” e di un uso complessivamente “moderato” della repressione e della punizione sembra funzionare nel tenere basso il livello di violenza e/o criminalità, mentre il modello statunitense law and order non sembra avere nessun effetto migliorativo sulla società su cui insiste. Arabia Saudita. Loujain è stata condannata non potrà lasciare il Paese di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 12 marzo 2021 Confermata la sentenza per l’attivista per i diritti delle donne. Cinque anni e otto mesi di cui tre anni di sorveglianza permanente L’hanno arrestata per “attività terroristiche” dopo un processo-farsa. Appena pochi giorni fa, all’inizio di marzo, il neo presidente americano Joe Biden si era detto “incoraggiato” dal fatto che la monarchia saudita avesse compiuto dei passi avanti in tema di diritti umani. Alcuni attivisti, imprigionati da anni, erano stati rilasciati (a gennaio, una corte d’appello aveva quasi dimezzato una condanna a 6 anni di carcere per un medico saudita- statunitense e aveva sospeso il resto anticipando l’uscita di prigione insieme ad altri 2 cittadini accusati di terrorismo) e Washington invitava dunque a percorrere ancora questa strada. Le autorità saudite a febbraio inoltre avevano liberato Loujain al- Hathloul, in carcere per aver difeso il diritto delle donne a guidare l’automobile incrinando il sistema di tutela maschile dell’Arabia Saudita. Ora però il tribunale d’appello di Ryad ha confermato di nuovo la condanna ai danni della donna ribaltando la precedente decisione. Eppure, mercoledì mattina, prima dell’udienza, al- Hathloul si era detta fiduciosa sull’esito finale confidando in un verdetto a suo favore. Il tribunale però, anche se ha sospeso 2 anni e 10 mesi della sua pena che era di quasi 6, la maggior parte dei quali già scontata, ha ribadito che l’attivista dovrà sottostare ad una condizione di sorveglianza continua insieme ad un divieto di viaggio che durerà 5 anni. L’arresto di al-Hathloul risale al 2018, quando rimase vittima delle ampie leggi sulla criminalità informatica e contro il terrorismo, alla fine del 2020 iniziò un lungo processo che le spalancò le porte del carcere con la prospettiva di rimanere prigioniera per molto tempo. Il verdetto fu accolto da una pioggia di critiche internazionali al massimo livello, a cominciare da quella espressa dall” ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani con sede a Ginevra che definì la condanna di al- Hathloul come “profondamente preoccupante”. L’Onu dichiarò tuttavia di confidare che “il rilascio anticipato sarebbe stato possibile possibile” incoraggiandolo fortemente come “questione di urgenza”. Il ministero degli Esteri francese così come quello tedesco (a cui si unì anche Biden non ancora presidente) affermarono di aver ribadito la richiesta per una “liberazione rapida”. Ma a non credere alla giustizia del Regno fu la famiglia dell’attivista 31enne che bollò il processo come “finzione” e “politicamente motivato” annunciando proprio l’appello che ha avuto però esito negativo. al- Hathloul fu arrestata già nel 2014 mentre tentava di attraversare il confine dagli Emirati Arabi Uniti, dove aveva una patente di guida valida, per entrare in Arabia Saudita. Trascorse 73 giorni in una struttura di detenzione femminile, un’esperienza che rafforzò le sue convinzioni nel combattere le leggi patriarcali saudite. Il caso al-Hathloul inoltre è già finito sotto la lente d’ingrandimento delle organizzazioni per i diritti umani per le accuse di molestie e maltrattamenti che la donna ha subito in carcere. Le violenze sono state documentate, vere e proprie torture che secondo i familiari sarebbero avvenute in presenza dello stretto collaboratore del principe ereditario Mohammed bin Salman, Saud al- Qahtani. A questo proposito esiste un altro imbarazzante episodio risalente al 2019 quando al- Hathloul avrebbe rifiutato un patto con le autorità. L’accordo prevedeva il rilascio in cambio del silenzio sulle torture subite. Dubbi concreti permangono anche sulla regolarità dei processi, l’organizzazione Al Qst ha segnalato diverse “anomalie” comprese supposte prove dell’accusa in cui si dice che abbia confessato azioni violente legate al suo attivismo per i diritti umani. Sulla nuova condanna inflitta alla donna è possibile avanzare alcune ipotesi che probabilmente attengono allo specifico della vicenda solo lateralmente. Nonostante i passi in avanti in tema di garanzie, la monarchia saudita è al centro della bufera, il coinvolgimento del principe bin Salman nella feroce esecuzione del giornalista dissidente Kashoggi è sempre più evidente, proprio vecchi alleati come gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo cruciale nelle accuse al monarca, l’accanimento sulla pelle di al- Hathloul dunque potrebbe rappresentare una triste rappresaglia. Afghanistan. “Il ritiro di tutte le forze straniere, condizione per il dialogo” di Pierluigi Bussi La Repubblica, 12 marzo 2021 Parla Mohammad Naeem, portavoce dei talebani: “È ragionevole e persino necessario porre fine a questa guerra, e penso che la politica americana lo abbia capito. Noi vogliamo mantenere buoni rapporti con tutti i governi stranieri e con Washington”. “Noi siamo fermi agli accordi di un anno fa. Il ritiro di tutte le forze straniere dall’Afghanistan è la condizione per il dialogo”. Mohammad Naeem, il portavoce dei talebani nelle trattative di Doha, discute con Repubblica della situazione nel Paese dopo l’insediamento dell’amministrazione Biden. Finora la Casa Bianca non ha rivisto le decisioni di Donald Trump che hanno portato gran parte delle truppe statunitensi a lasciare Kabul. E questo nonostante le pressioni degli alleati, soprattutto europei, nell’ultimo vertice dei ministri Nato. La situazione sul campo continua a peggiorare, con attacchi e omicidi mirati contro funzionari governativi, ufficiali dell’esercito e attivisti: nel mirino specialmente le donne. Alcuni sono opera dei talebani, altri vengono rivendicati dall’Isis. Si teme che con la primavera tutto possa degenerare. Anche il quadro politico si sta frammentando, con il ritorno sulla scena di figure molto discusse. Come il signore della guerra Gulbduddin Hekmatyar, ultimo combattente dei mujahideen anti-sovietici e oggi leader di Hizb-i-Islami, un partito integralista islamico contrario alla politica dei talebani: minaccia di assediare il palazzo presidenziale se il governo non mantiene la promessa di scarcerare migliaia di suoi seguaci detenuti. E dichiara di volerli armare per fermare l’attesa offensiva talebana. Al momento i colloqui a Doha sono in una fase di stallo. Perché? “Come è noto, il 29 febbraio 2020 è stato raggiunto un accordo tra l’Emirato islamico e gli Stati Uniti. Sulla base di questo intesa, tutte le forze straniere avrebbero dovuto lasciare il nostro Paese, e gli Stati Uniti non interferire nei nostri affari interni fino alla definizione di un nuovo governo islamico afgano. Queste sono le condizioni per portare avanti il dialogo”. Negli accordi con gli Stati Uniti, ai talebani era stato chiesto di fermare gli attacchi e proseguire i colloqui di pace con il governo di Kabul. Il presidente Biden ritiene che questi impegni non siano stati mantenuti… “Dall’inizio dei colloqui intra-afgani vi erano alcuni obblighi fondamentali da rispettare. Per poter accettare le condizioni, tutti i nostri prigionieri devono essere rilasciati entro tre mesi e i nomi dei leader e membri dell’Emirato islamico devono essere rimossi dalle blacklist. Dopodiché un cessate il fuoco globale sarà un argomento all’ordine del giorno e sarà certamente discusso. La posizione dell’Emirato Islamico è stata dall’inizio molto chiara. La migliore soluzione ai problemi è attraverso i negoziati e seduti attorno a un tavolo”. Il senatore repubblicano statunitense Lindsey Graham ha dichiarato che le truppe statunitensi non completeranno il ritiro entro maggio, perché le condizioni di sicurezza non lo permettono. Pensate che ciò possa deteriorare i colloqui con Washington? “Per quanto riguarda il mancato rispetto dei propri obblighi e dell’accordo finora nessuna dichiarazione ufficiale è stata rilasciata dal governo americano. L’importanza di questo accordo è dovuta al fatto che si tratta di un’intesa per porre fine alla guerra più lunga nella storia degli Usa, che è stata imposta al nostro Paese e al nostro popolo. Sulla base di ciò, è ragionevole e persino necessario porre fine a questa guerra, e penso che la politica americana lo abbia capito. Noi vogliamo mantenere buoni rapporti con tutti i governi stranieri e con Washington”. Il portavoce del Pentagono John Kirby ha chiesto ai talebani di tagliare i legami con Al Qaeda, come presupposto imprescindibile per una collaborazione. L’organizzazione terroristica è ancora presente in Afghanistan? “L’Emirato islamico non consente a nessuno di utilizzare la terra dell’Afghanistan contro la sicurezza dell’America e dei suoi nemici. La presenza di Al Qaeda è solo uno strumento di propaganda del governo afgano”. Cosa pensa del nuovo presidente americano Biden, preferiva che Trump fosse rimasto alla Casa Bianca? “Non voglio lasciare dichiarazioni in merito”.