Lettera alla Ministra della Giustizia, Marta Cartabia di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 11 marzo 2021 Gentile Ministra della Giustizia, le scrivo in qualità di presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti, una rivista realizzata da una redazione di persone detenute e volontari in carcere. Sottolineo questi due ruoli differenti, perché a mio parere rappresentano due aspetti determinanti della questione CARCERE in questo momento: da una parte, la necessità di rafforzare e dare autonomia al Volontariato e al Terzo Settore, che contribuiscono a ricucire e a mantener vivo il legame tra carcere e comunità esterna, brutalmente reciso dal carcere; dall’altra, il tema dell’informazione, che rischia di scavare un solco sempre più profondo tra “i buoni e i cattivi”, fino a creare la categoria dei sicuramente irrecuperabili, come è successo in questi tempi di pandemia, in cui abbiamo letto sui giornali di persone detenute gravemente malate, inchiodate alla loro condizione di “mafiosi per sempre”. Lei è senz’altro consapevole delle speranze che sono nate nella stragrande maggioranza delle persone detenute, quando è stata annunciata la sua nomina a Ministra della Giustizia: in tanti avevano ancora negli occhi il ricordo del Viaggio della Corte Costituzionale nelle carceri, le sue parole a San Vittore, ma poi anche la sentenza della Corte sull’ergastolo ostativo, che pure ha aperto le porte alla speranza anche per quelli, per i quali forse solo Papa Francesco aveva invocato il diritto a essere trattati come persone e a ricominciare a sperare. Tradurre queste speranze in concrete opportunità non sarà facile, perché la condizione delle carceri è davvero, come dire?, frantumata, e la pandemia ha spietatamente messo in luce una realtà che, se si tengono fuori dai cancelli il Volontariato e il Terzo Settore, si trasforma rapidamente in un deserto. Ma questo ci dovrebbe rendere tutti consapevoli della necessità, espressa in modo chiaro dal Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, che la fondamentale cooperazione tra chi amministra e istituzionalmente opera in un Istituto e chi in esso svolge attività volte a saldare proficuamente il rapporto con la realtà esterna, si basi “da una parte, sul rispetto della responsabilità di chi esercita la propria azione in virtù di un mandato pubblico e, dall’altra, sul riconoscimento di quella complementarità essenziale che l’azione di organizzazioni, cooperative, enti esterni costituisce. Non un apporto subalterno, quest’ultimo, né di minore rilevanza”. Gentile Ministra, le rivolte e i morti di marzo 2020 ci ricordano che è urgente avviare dei cambiamenti significativi e farlo tempestivamente. Se a inizio lockdown fossero state messe in atto le misure per ampliare il numero delle telefonate e introdurre le videochiamate, forse la paura e la rabbia sarebbero state più contenute, ma quello che non si può più cambiare ci deve però insegnare per il futuro, e il primo insegnamento è che, quando finirà l’emergenza, non vengano tagliate le uniche cose buone che la pandemia ha portato, il rafforzamento di tutte le forme di contatto della persona detenuta con la famiglia e l’uso delle tecnologie per sviluppare più relazioni possibile tra il carcere e la comunità esterna. Per farle un esempio molto concreto, la mia redazione ha potuto intervistare dal carcere in videoconferenza Fiammetta Bosellino, occasioni come queste permettono davvero una crescita culturale di tutti i soggetti coinvolti. L’urgenza di non bruciare il buono che questa emergenza ha prodotto ci spinge a chiederLe di incontrare al più presto la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, che io rappresento, per aprire un dialogo con quel Volontariato, che può portare un enorme bagaglio di esperienze e conoscenza della realtà dell’esecuzione delle pene, grazie al fatto che anima gran parte delle attività rieducative nelle carceri e di reinserimento sul territorio. Nella speranza che la nostra richiesta sia accolta, la ringrazio comunque dell’attenzione. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Petralia (Dap): “Mille detenuti e 5mila del personale già vaccinati” di Liana Milella La Repubblica, 11 marzo 2021 A un anno dalle rivolte scoppiate per la pandemia il direttore descrive un’amministrazione che ha cambiato passo rispetto a quando “era presa da sfiducia e timore, e prendeva decisioni tiepide per paura di sbagliare ed esporsi”. Aumentano i contagiati, ma a fronte di più tamponi eseguiti. I vaccini anti Covid entrano in carcere. E Dino Petralia, il capo del Dap, davanti alla commissione Antimafia, fornisce le cifre “aggiornate alle 21 di martedì sera”. Sono 1.005 i detenuti vaccinati finora. E oltre 5mila tra il personale delle prigioni è già stato “avviato alla vaccinazione”. Petralia, a un anno dalle rivolte nelle prigioni italiane, i cui danni sono costati 20 milioni di euro, parla di un’Italia in cui il meccanismo delle vaccinazioni varia da Regione a Regione, ma sta funzionando. Anche rispetto a un numero di detenuti passato dai 61.230 del febbraio 2020 ai 52.599 di oggi. Se a maggio dell’anno scorso i positivi erano 161 tra i detenuti e 229 tra il personale, al 9 marzo ce ne sono 467 tra chi sta in cella, di cui 439 asintomatici, 8 sintomatici, 20 ricoverati. Mentre tra il personale sono 600 i positivi, 585 gli asintomatici, 63 i sintomatici e 12 i ricoverati. “La pandemia è immanente, si succedono le ondate” dice Petralia, ma oggi sul numero dei contagiati sicuramente influisce il maggior numero di tamponi effettuati rispetto a quelli di un anno fa. Petralia, ex procuratore generale a Reggio Calabria, parla a braccio. Cita più volte il suo vice Roberto Tartaglia, ex pm di Palermo ed ex consulente della stessa Antimafia, giunto come lui a maggio 2020 al vertice delle carceri, per scelta dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede sull’onda delle scarcerazioni e dopo le dimissioni dell’ex direttore Francesco Basentini. Petralia descrive quello che ha trovato al suo arrivo: “Una situazione delle più drammatiche e tragiche per l’amministrazione, dopo tre eventi come le polemiche dopo le scarcerazioni, il dopo rivolte, e il tutto nel bel mezzo di una pandemia che ci coinvolge tutti”. Ammette che “non è stato facile” venirne a capo. “Io non spengo mai il cellulare” racconta Petralia “neppure di notte”, e dice di averne passata più di una in piedi, “come quella appena trascorsa quando non ho dormito perché è morto un detenuto al 41bis”. L’eredità di “un’amministrazione disarmonica” - Racconta Petralia: “Ho trovato un’amministrazione disarmonica, presa da sfiducia e timore, portata a prendere decisioni tiepide, cioè il sentimento peggiore, per la paura di sbagliare e di esporsi. Il mio obiettivo, con Tartaglia, è stato quello di affrontare la disarmonia, la disaffezione, la demotivazione, la sfiducia, il conseguente atteggiamento timido e timoroso”. Il capo del Dap descrive i numerosi incontri con la magistratura, dal procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, ai procuratori distrettuali di tutta Italia che decidono esecuzioni e 41bis, ai magistrati di sorveglianza, al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. L’obiettivo è stato quello di “mettere fine ai disguidi sorti a seguito di comunicazioni che poi hanno prodotto ulteriori disguidi”. Gli interventi sui penitenziari danneggiati - “Possiamo parlare di un’opera compiuta” spiega Petralia. Venti milioni di euro sono stati spesi per ripristinare i danni nelle carceri dove ci furono 80 feriti tra il personale e 13 detenuti persero la vita. “I lavori sono stati accelerati e ultimati” spiega il direttore del Dap tranne che per le carceri di Trapani e di Modena - il penitenziario che ha riportato i danni più gravi - “dove però si aspettano solo gli ultimi cancelli”. Petralia guarda anche alla situazione di oggi: “In coincidenza con l’anniversario delle rivolte ci sono manifestanti fuori dagli istituti che vengono costantemente monitorati dal Nic, il Nucleo di investigazione centrale che con la sua attività di intelligence consente di controllare tutte le associazioni criminali italiane e straniere che operano nel Paese”. Le scarcerazioni, la circolare del 21 marzo, il 41bis - Petralia dice “di aver letto ogni singolo fascicolo” dei detenuti mandati ai domiciliari, tra cui quattro al 41bis e tre in alta sorveglianza. Spiega di aver potuto “ridimensionare i numeri stessi delle scarcerazioni riducendoli ad alcune centinaia”. E sulla circolare del 21 marzo - che indicava agli stessi magistrati di sorveglianza le categorie di detenuti da considerare in vista di una possibile incompatibilità con il carcere, tra cui anche gli over 70 - comunica di averla “congelata”. Quindi quella circolare “non funziona più e nulla fa pensare che possa essere riesumata”. Sottolinea che, comunque, le oltre 200 scarcerazioni sono state decise “dall’autorità giudiziaria nella sua più totale autonomia”. Sul 41bis Petralia premette che “la circolare del 2017 va rivista, arricchita e migliorata”. Per i 754 detenuti al carcere duro il direttore del Dap ha firmato una delega specifica per Tartaglia. L’attività di monitoraggio del Gom, il Gruppo operativo mobile, e del Nic è costante. Cartabia, “la pena non è mai una vendetta” - Giusto nella stessa giornata in cui la Guardasigilli Marta Cartabia, più volte citata da Petralia nel suo discorso, dice che “la pena non è mai una vendetta”, che “il tempo della detenzione non è un tempo di mera attesa, ma un tempo di cambiamento, volto al reinserimento del detenuto”, anche perché “le statistiche mostrano che a fronte di un trattamento più costruttivo corrisponde un più basso tasso di recidiva”, lo stesso Petralia spiega di essere intervenuto proprio su questo. Perché nelle carceri “si andava comprimendo l’aspetto trattamentale, erano diradati gli incontri con l’esterno” e quindi “era urgente mettere le basi per programmare protocolli con associazioni, enti pubblici e privati che garantissero il trattamento”. Ricorda “Dap” vuol dire proprio questo, direzione dei detenuti, ma anche del trattamento. “Un’interdipendenza da cui - secondo Petralia - non si può sfuggire”. Vaccini, la prima dose neanche a mille detenuti su oltre 50mila persone di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 marzo 2021 Percentuali da prefisso telefonico per quanto riguarda la vaccinazione per i detenuti e personale penitenziario. Non tutte le Regioni si sono attrezzate per le carceri e il tutto rischia di andare troppo al rilento. Abbiamo i numeri, aggiornati a lunedì 8 marzo, dei vaccinati e siamo ancora in altissimo mare per quanto riguarda la copertura per raggiungere l’immunità di gregge all’interno dei penitenziari. A questo si aggiunge il fatto che parliamo solo della prima dose. Il vaccino Covid- 19 AstraZeneca viene somministrato in due iniezioni, nel muscolo della parte superiore del braccio. Le persone che sono state vaccinate con la prima dose di AstraZeneca devono ricevere la seconda dose dello stesso vaccino per completare il ciclo di vaccinazione idealmente nel corso della dodicesima settimana e comunque a una distanza di almeno dieci settimane dalla prima dose. Il totale dei detenuti vaccinati, per ora solo con il primo richiamo, corrisponde a 927 persone. Questo, ricordiamo, su un totale (aggiornamento al 28 febbraio) di 53.697 detenuti. Sempre secondo gli ultimi dati del Dap aggiornati a lunedì scorso, sono 5.764 gli agenti penitenziari avviati alla vaccinazione. A questi si aggiungono 503 persone che ricoprono i ruoli amministrativi e dirigenziali dell’amministrazione penitenziaria. Quindi, sottolineando nuovamente che parliamo solo della prima dose, sono poco più di 6000 il personale avviato alla vaccinazione su un totale di circa 37mila agenti in servizio. Numeri bassissimi, dovuti anche dalle regioni che non si muovono in maniera uniforme. Un esempio, purtroppo negativo, viene dalla regione Molise. L’associazione Antigone locale, denuncia che negli istituti di pena della regione ancora oggi il piano vaccinale non ha interessato né il personale amministrativo, né quello di polizia penitenziaria, né tantomeno la popolazione carceraria. Una situazione più volte denunciata dai direttori delle strutture e dalla Garante regionale per i diritti delle persone detenute. “Il perdurare di questo immobilismo da parte delle istituzioni potrebbe creare un ennesimo disastro all’interno di strutture che il piano nazionale vaccinale ha individuato come presidi di primo allerta per la somministrazione dei vaccini”, afferma Antigone Molise che inoltre si unisce “al coro di proteste e di indignazione che si è sollevato in merito alla gestione della pandemia condotta dalla Regione Molise e dall’Asrem”. Situazione identica per quanto riguarda la Basilicata, la Toscana e la Campania. Un problema che scaturisce dalla mancanza di una cabina unica per quanto riguarda la gestione dell’emergenza. I numeri del contagio all’interno dei penitenziari sono, per ora, stazionari. I detenuti attualmente positivi, secondo gli ultimi dati del Dap, sono 468. Gli agenti che hanno contratto il Covid 19 sono invece 660. Senza una capillare vaccinazione e misure deflattive efficaci, i numeri potrebbero ricominciare a far preoccupare. La ministra Cartabia a sorpresa demolisce il 41bis di Piero Sansonetti Il Riformista, 11 marzo 2021 Ha richiamato le sconosciutissime “Mandela Rules” che sono state approvate dall’Onu e vietano l’isolamento di un detenuto per più di 15 giorni. Non so se Marta Cartabia riuscirà nei prossimi giorni o mesi a riformare alcuni dei pasticci orrendi combinati dal povero Bonafede nei tre anni passati a far guai a via Arenula. Non so se riuscirà a reintrodurre in fretta il principio sacrosanto e garantista e costituzionale della prescrizione. Non so se riuscirà a cancellare la “spazza-corrotti” (meglio dire la “spazza-diritti”), cioè la legge che stabilisce che prendere (o essere sospettati di aver preso) o dare una bustarella è reato assai più grave dello stupro. Non so se riuscirà a eliminare le leggi sulle intercettazioni e sui trojan che fanno assomigliare oggi l’Italia molto più alla vecchia Germania comunista che non alla Gran Bretagna liberale. Però, ecco, quando parla Marta Cartabia ci fa dimenticare la vergogna di avere avuto ministri della giustizia (e partiti di governo) medievali. Ieri la ministra ha tenuto un discorso al quattordicesimo congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine, e ha pronunciato parole che hanno fatto immaginare a tutti che l’Italia sia ancora la patria del diritto, e non la patria delle gogne a 5 stelle. Immagino che il partito dei Pm inorridirà, se leggerà quel che ha detto la ministra, e il fatto che il partito dei Pm inorridisca non è una cosa che ci rattrista. Vediamo solo due frasi pronunciate dalla Cartabia. La prima è relativa al la necessità di non concepire la pena come una vendetta e di considerare anche il carcere un luogo di speranza e non di disperazione e di terrore, e di privilegiare l’azione che favorisce il reinserimento piuttosto che l’azione punitiva. Ha citato a questo proposito anche le statistiche - facendo probabilmente infuriare Travaglio, che ha dedicato nel tempo decine di pagine del suo giornale a sostenere il contrario - secondo le quali “a fronte di un trattamento dei detenuti più costruttivo corrisponde un più basso tasso di recidiva”. La seconda frase che ha pronunciato la ministra, e che ha un valore immenso e rivoluzionario, è stata il richiamo alle “Mandela Rules”, e cioè alle regole sul trattamento in carcere che l’Onu approvò un po’ più di cinque anni fa e che furono dedicate al vecchio combattente sudafricano, che passò quasi la metà della sua vita in cella In Italia le Mandela Rules non le ha mai invocate nessuno, se non i Radicali. Non sono neanche conosciute. E pure il nome di Nelson Mandela, di solito, è trattato con seppur gentile sospetto. Non è mai piaciuto il tipo di giustizia che Mandela impose al suo paese, dopo essere uscito di prigione e dopo aver preso il potere il rifiuto o la riduzione ai minimi termini della pena e del suo valore. Bene, cosa dicono le “Mandela Rules”? Tante cose molto importanti ma soprattutto, dal nostro punto di vista, parlano del 41bis e mostrano orrore nei confronti di una regola cosi inumana e feroce. I paragrafi 43, 44 e 45 prevedono espressamente la possibilità di usare l’isolamento del prigioniero e quindi una situazione simile a quella del nostro 41bis) per non più di 15 giorni. Leggete qui. Regola 43: “In nessun caso possono aversi restrizioni o sanzioni inumane o degradanti, in particolare sono vietate le seguenti pratiche: a) indefinito isolamento, b) isolamento prolungato Regola 44: “Ai fini di queste regole, l’isolamento si riferisce al confinamento dei detenuti per 22 ore o più al giorno senza significativo contatto venano. L’isolamento prolungato si riferisce all’isolamento per un periodo superiore ai 15 giorni consecutivi”. Regola 15. “L’isolamento deve essere utilizzato solo in casi eccezionali, per il tempo più breve possibile, e sottoposto a una revisione indipendente. Non può essere utilizzato nei confronti di persone malate”. Avete capito bene: isolamento al massimo per 15 giorni. In Italia, chi sta al 41bis può restare in isolamento totale anche per 25 anni. Anni. E i giudici di sorveglianza lo lasciano lì anche se è in agonia. Anche se ha l’Alzheimer. E la politica, e la stampa, di solito battono le mani. Ecco, dal momento che la ministra Cartabia fa pane di quel piccolo nucleo di persone, e di intellettuali, che le Mandela Rules le conosce bene, è da escludere che, citandole, non pensasse al 41bis. E stavolta siamo noi a batterle le mani. E subito dopo osserviamo che mentre il Ministro si pronuncia contro l’infamia del carcere duro, il capo del Dap Bernardo Petralia, annuncia, con una certa soddisfazione, “abbiamo costituito una nuova sezione di 41bis a Cagliari”. Lo ha fatto parlando in commissione antimafia, in parlamento. Non risulta che nessuno gli abbia letto le Mandela Rules e gli abbia spiegato che il carcere duro è una roba dell’ottocento. Adesso non ci resta che aspettare: il governo Draghi andrà avanti con lo spirito di Cartabia o con quello di Pm? Le detenute di Torino alla Cartabia: “Liberazione anticipata speciale estesa a tutti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 marzo 2021 Le detenute del carcere di Torino hanno inviato un appello alla ministra Cartabia la reintegrazione della liberazione anticipata speciale di 75 giorni. “Se indulto e amnistia non sono attuabili a causa delle diverse visioni politiche, la reintegrazione della liberazione anticipata speciale di 75 giorni estesa a tutta la popolazione detenuta compreso il 4bis, è una strada possibile”. È la richiesta delle detenute del carcere Lorusso- Cotugno di Torino contenute nel loro appello sottoscritto da loro, con tanto di nome e cognome. Fanno presente che il Covid-19 ha ufficialmente fatto ingresso nel padiglione femminile, che conta un centinaio di donne ristrette. “Al momento ci sono alcuni casi di positività accertata, altre compagne sono in attesa dell’esito del tampone, altre invece sono state preventivamente isolate”. La Direzione e i coordinatori del padiglione femminile, in accordo con l’area sanitaria, prontamente hanno messo in campo le misure per contenere e monitorare il contagio dal tampone rapido alla sanificazione di celle e spazi comuni. Chiedono una risposta delle istituzioni - “Viviamo però - fanno presente le detenute - ore di angoscia e di impotenza rispetto a tutto ciò: poiché agli sforzi del singolo (inteso come le direzioni dei penitenziari) deve rispondere l’istituzione centrale”. Agli appelli dei detenuti, dei garanti dei detenuti, delle camere penali, dei magistrati di sorveglianza delle associazioni, di senatori a vita, di ex-ministri, di scrittori, artisti, dei famigliari e della gente comune per misure di clemenza come amnistia, indulto e misure deflattive, secondo le detenute deve conseguire una risposta delle istituzioni. “Con la nascita di questo governo di larghissime intese - prosegue l’appello - si è sentito parlare di europeismo, rispetto della costituzione, soprattutto di “discontinuità”. Allora l’antica lotta tra giustizialisti e garantisti deve essere superata con una presa di posizione che evidenzi civiltà e rispetto dei diritti, che la comunità europea stessa chiede all’Italia, che è “maglia nera” per quanto riguarda la giustizia in tutte le sue accezioni”. Chiedono di non discriminare chi è in carcere per reati ostativi - Le detenute spiegano che eventuali misure non devono discriminare chi è dentro per reati ostativi, perché i gap del sistema carcerario colpiscono tutti indistintamente così come le insidie che ha aggiunto la pandemia. “Se questa proposta fosse retroattiva al 2015, data in cui venne sospesa, il sovraffollamento si ridurrebbe permettendo condizioni migliori sia a noi reclusi, sia a chi opera all’interno delle carceri, dando utilità e funzionalità al proprio operato”, osservano sempre le detenute nell’appello rivolto alla ministra della giustizia Marta Cartabia. L’appello ricevuto dall’associazione Yairaiha Onlus - Le detenute del carcere di Torino spiegano che la pandemia ha messo a rischio la salute di tutti coloro che sono all’interno: reclusi, poliziotti, personale pedagogico, psicologi e operatori sanitari e ha anche reso la loro reclusione pesantissima dal punto di vista psicologico e dell’affettività: sono state ancora più isolate. Le detenute hanno ben presente che la pandemia, tra gli effetti nefasti, ha aumentato il divario tra ricchi e poveri. “Anche noi da qui dentro attraverso i canali d’informazione siamo rimaste basite davanti alle immagini delle code davanti alla Caritas e nessuno meglio di noi può comprendere cosa voglia dire la solitudine obbligata degli anziani nelle Rsa, la distanza forzata, la mancanza di un abbraccio”, osservano le detenute, spiegando che bisogna superare il concetto che il carcere sia un “pianeta a sé”. Sono ben consce che, nonostante non sia più un argomento tabù, rimane comunque argomento divisivo e difficile da trattare in sede parlamentare. “Ma la discontinuità va dimostrata a tutto campo. La pena non deve avere un’accezione “vendicativa” e retributiva, ma essere utile sia noi sia alla società che ci riaccoglierà da liberi”, chiosano le detenute. L’appello, ricevuto ieri dall’associazione Yairaiha Onlus, è stato prontamente inoltrato a tutte le sedi competenti. “Nel testo di questa lettera - spiega Sandra Berardi, la presidente dell’associazione - emerge chiaramente una rinnovata fiducia nelle istituzioni e nella società civile e chiedono, finalmente, un cambio di passo rispetto al passato nel rispetto dei principi di uguaglianza e di utilità della pena sanciti dalla Costituzione”. Tutte le riforme, senza conflitti. La sfida disarmante di Cartabia di Errico Novi Il Dubbio, 11 marzo 2021 I gruppi di lavoro tecnici lavoreranno agli emendamenti (anche sulla norma Bonafede) e non si confonderanno coi partiti: lunedì la ministra spiegherà l’alchimia alle Camere. C’è chi come Carlo Nordio definisce la prescrizione “una barbarie” ma propone di aggirare l’ostacolo con un’idea sorprendente, se avanzata da lui: rimandare la riforma del processo penale “a dopo la pandemia”. Dopo aver evaso la vera priorità, vale a dire “la giustizia civile”. Risolta l’incombenza, dice il magistrato, si potrà rimettere mano anche alla prescrizione “con una riforma di sistema e garantista”. L’ex procuratore aggiunto di Venezia ed editorialista del Messaggero ne parla con l’agenzia Agi, e riflette in fondo l’impressione di molti: con una maggioranza tanto polarizzata sulla giustizia penale, con una coalizione di governo che va da Berlusconi a Bonafede, è meglio non discutere neppure di prescrizione, o si rischia di dividersi e di non cogliere gli obiettivi immediati. E invece Marta Cartabia, nel vertice tenuto l’altro ieri a via Arenula con i capigruppo nelle commissioni Giustizia di tutti i partiti di maggioranza, ha fatto tutt’altra scelta: ha dato sì priorità ai capitoli del Recovery destinatari delle risorse Ue, ma ha messo subito in pista anche il resto. Riforma penale e prescrizione incluse. Con una road map molto ambiziosa: approvazione entro l’estate (almeno in prima lettura) dei tre ddl delega ereditati da Alfonso Bonafede su civile, penale e Csm. Si tratta di provvedimenti rimasti in sospeso per tre anni, la nuova guardasigilli punta a un via libera in cinque mesi. Assurdo? No: necessario. La ministra lo ha ricordato nella riunione di martedì: le riforme del processo civile e penale non sono un lusso ma un’urgenza. Perché l’Unione europea le ha indicate come precondizione per affidare all’Italia i 209 miliardi del Recovery fund. Se non rendiamo decisamente più veloci i tempi della giustizia civile, con digitalizzazione, strutture più moderne e risorse umane in grado di smaltire l’arretrato, se non evitiamo la paralisi delle Corti d’appello anche nel penale, non siamo credibili in Europa. E neppure sulla riforma del Csm si può attendere, come forse gli stessi partiti di maggioranza avevano messo in conto. Non perché lo chieda l’Unione europea in questo caso, ma per l’autorevolezza con cui il presidente Sergio Mattarella ha chiesto nuove regole per eleggere i togati in tempo per il voto della primavera 2022. Non tutti i dettagli sono stati rimessi in fila uno per uno da Cartabia. Ma il senso della sua sfida è questo: vanno centrati tutti gli obiettivi. E la guardasigilli, per riuscirci, ha previsto un metodo nuovo: proposte emendative ai ddl delega messe a punto da “gruppi di lavoro agili”, uno destinato a occuparsi persino della derelitta giustizia tributaria, che non assomiglieranno alle impegnative commissioni ministeriali del passato. Saranno formati con tecnici scelti direttamente da via Arenula, e non tra le forze politiche. Più di un partito di maggioranza, dal Pd a Leu a Italia viva, ha osservato: “Se non si assicura un filo diretto fra gruppi tecnici e gruppi parlamentari, c’è il rischio che gli emendamenti ipotizzati al ministero si incaglino nelle divergenze in Parlamento”. Marta Cartabia non si è pronunciata in via definitiva. Potrebbe farlo a breve. Probabilmente già lunedì prossimo, quando presenterà le linee programmatiche del suo dicastero alle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Sarà il primo discorso in Parlamento della ministra. Ed è in quella occasione che potrebbe chiarire anche l’approccio costituzionale con cui intende impostare la revisione dei ddl Bonafede. A cominciare dalla prescrizione. Il nodo più delicato e scivoloso, come sostiene anche Nordio. Alla riunione con i capigruppo la guardasigilli ha lasciato che emergessero le distanze, ma senza lasciarsene coinvolgere. Anzi ha invitato tutti, in modo suggestivo ma mirato, a “capire le ragioni degli altri”. Vale per il Movimento 5 Stelle, che sulla prescrizione è isolato. Ma vale anche per tutto il resto dell’inedita coalizione. Dal Pd, che sa bene di dover usare tatto con l’alleato, ai garantisti di centrodestra. “Se vogliamo costruire un percorso comune, la giustizia non sia rottura”, ha detto Cartabia. Poteva sostituire la parola giustizia con “prescrizione”. Ma il senso è chiarissimo. Che poi la ministra ritenga necessario rendere la norma Bonafede compatibile con gli articoli 27 e 111 della Costituzione, è evidente. Ma la delicatezza del passaggio si rifletterà anche sul tipo di osmosi da creare fra i “gruppi di lavoro” e il Parlamento. Se non devono essere scollegati fra loro neppure potranno confondersi. Altrimenti le scelte tecnico- formali, che possono aiutare a trovare una sintesi, sarebbero viziate dal colore politico delle diverse posizioni. Oltretutto dialogo e decisione sono i due risvolti, in apparenza contrastanti, della politica di Cartabia. Lo conferma anche Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia e figura chiave di Fi: “La riapertura del dialogo con il Parlamento, con la condivisione del metodo, è un ottimo punto di partenza. Cartabia è la ministra del dialogo ma anche della decisione: non ci può essere un confronto senza frutti, né si può scambiare la ricerca dell’accordo come legittimazione alla melina, e su questo la ministra è molto decisa, e noi con lei”. Tutto sta a far passare quel messaggio: dividersi è una catastrofe. La guardasigilli lo ha affidato persino alla citazione delle tragedie greche. Un’iperbole, che forse avrà contribuito a spegnere gli ardori del conflitto. E a preparare i 5 mesi di lavoro più intensi che la politica sulla giustizia abbia conosciuto nel dopoguerra. La lezione politica di Cartabia che sulla prescrizione media di Davide Varì Il Dubbio, 11 marzo 2021 La ministra della giustizia è sotto attacco di chi le chiede di asfaltare la prescrizione di Bonafede. Ma lei la cambierà con la mediazione e la Costituzione. Inutile e ridondante evocare il Rino Formica della “politica è sangue e merda”. In queste ore sarebbe forse più appropriato rispolverare il Mandela del compromesso: “Il compromesso è l’arte della leadership e i compromessi si fanno con gli avversari, non con gli amici”. E quando Mandela parlava di avversari non aveva esattamente in mente i volti, tutto sommato paciosi, di Vito Crimi e Alfonso Bonafede, ma quelli arcigni di Botha e della sua agghiacciante apartheid. Insomma, tutto questo per dire che chi, in questi primissimi giorni di governo alza il sopracciglio per l’eccessiva prudenza della ministra Cartabia in materia di prescrizione, forse dovrebbe ridare un’occhiata alla composizione di questa larghissima maggioranza. E magari ripensare al richiamo di Mandela. Oppure fare un salto a via Arenula dove scoprirebbe che 5Stelle e Forza Italia, i due partiti in assoluto più distanti sui temi della giustizia, hanno piazzato due “sentinelle” - una delle quali, Paolo Sisto, preparatissimo - che seguono passo passo i movimenti della ministra. La quale, anche questo bisogna pur dirlo, non è più, o non è solo, la professoressa di diritto che amava “dialogare” con cardinal Martini sui temi della pena e del recupero dei detenuti (e per chi non lo avesse ancora fatto legga e rilegga il suo libro “Un’altra storia inizia qui”) ma è soprattutto, almeno per ora, la ministra della giustizia sostenuta da una maggioranza di governo che include garantisti col pedigree e tifosi del “buttiamo le chiavi delle galere”. E di fronte a questo panorama la ministra Cartabia ha due opzioni: passare come un caterpillar sulle pretese grilline di salvare la prescrizione riformata da Bonafede - un obbrobrio giuridico scritto con la pancia e la bile degli italiani amanti delle manette - col rischio, anzi la certezza, di frantumare il giovanissimo governo Draghi; oppure iniziare un paziente e costante lavoro di mediazione per cercare di limitare gli effetti nefasti di quella legge senza piazzare mine sotto la poltrona del premier. Insomma, Marta Cartabia è chiamata a scegliere tra la battaglia di principio e la battaglia politica. A noi sembra che abbia vinto quest’ultima e siamo certi che i suoi dialoghi con cardinal Martini, la ministra Cartabia li ha ancora ben scolpiti nella testa e nel cuore e mai e poi mai rinuncerebbe al principio del giusto processo. E un processo è giusto quando rispetta la ragionevole durata. Questo lo sappiamo noi ma lo sa bene anche lei. Caos portale telematico, i penalisti: “Pronti a forti iniziative di protesta” di Simona Musco Il Dubbio, 11 marzo 2021 Continuano le disfunzioni nonostante l’obbligo di deposito telematico. Oggi il conclave della Giunta dell’Ucpi. “Forti iniziative di protesta”. La frase è breve, ma racchiude la rabbia accumulata da giorni. Una rabbia che l’Unione delle Camere penali non vuole più tenere per sé, scendendo in campo per pretendere dal ministero della Giustizia un servizio efficiente. Al centro della polemica c’è il portale telematico, sempre più spesso in down. Il problema più grosso è legato all’esclusività del mezzo, “sancita con decreto ministeriale in spregio alla gerarchia delle fonti”, contestano da giorni i penalisti. E se, da un lato, alcune Procure hanno autorizzato metodi alternativi attraverso apposite circolari, dall’altro sono nati protocolli locali per gestire i casi di malfunzionamento. E ciò, secondo l’Ucpi, non fa altro che alimentare il fenomeno del “federalismo giudiziario”, che tanto aveva fatto discutere nel periodo più buio della pandemia. Le disfunzioni, ha evidenziato l’Ucpi, “sono a volte di natura tecnica, molto spesso di natura umana poiché necessariamente il portale si misura con il personale amministrativo, non sempre formato ed indirizzato a correttamente operare - si legge in una nota -. Non è accettabile che la salvezza di atti (alcuni con un portato assai alto in tema di conseguenze possibili) sia rimessa ad un sistema senza rete”. Un tema che oggi la Giunta dell’Ucpi porterà a conclave, per decidere come muoversi di fronte alle centinaia di segnalazioni arrivate da tutta Italia, segnalazioni tutte identiche, che certificano “l’insostenibile disfunzione” del portale, il tutto a danno dell’esercizio del diritto di difesa. “Disfunzioni - afferma l’Unione delle Camere penali - aggravate dalla ingiustificabile disposizione che ne rende obbligatorio l’uso, precludendo la possibilità di depositare gli atti anche con le modalità e nelle forme tradizionali”. La babele regolamentare che si sta determinando in tutti i fori d’Italia, continuano i penalisti, “esige risposte chiare e non più rinviabili. La Giunta valuterà l’adozione di forme di protesta adeguate alla gravità della situazione determinatasi in tutti gli uffici giudiziari italiani, e rileva come sia tuttora rimasta senza riscontro la ragionevole richiesta di ripristinare, in via transitoria, le modalità tradizionali di deposito degli atti difensivi e di accesso ai fascicoli processuali”. Nei giorni scorsi, l’Unione aveva fatto appello al ministro Cartabia, chiedendo l’introduzione di un regime transitorio, richiesta ribadita ieri dalle colonne del Dubbio anche dalla Camera penale di Roma. Il deposito telematico è, di base, una conquista dei penalisti, che per fronteggiare l’emergenza pandemia e il conseguente rallentamento della macchina della Giustizia avevano chiesto al ministero di autorizzare il deposito degli atti via pec. Ma “fuori da ogni interlocuzione, la burocrazia ministeriale ha predisposto regole per il funzionamento di tale nuova modalità di deposito, alcune delle quali si sono poi rivelate fonti di inutili complicazioni”, si legge in una nota di qualche giorno fa. Ed ecco fatto il danno: il portale, nato per consentire l’accesso “da remoto” al fascicolo del pubblico ministero ed il deposito degli atti difensivi relativi alla fase delle indagini preliminari - e che prevede una illogica inammissibilità per il deposito delle impugnazioni - ha finito per complicare la vita agli avvocati. E in sede di conversione, anziché prevedere un periodo transitorio, è stato ampliato il novero degli atti soggetti ad esclusivo deposito telematico. L’ultima novità è quella del 12 febbraio scorso, quando è stato introdotto il cosiddetto “atto abilitante” con il quale accompagnare il deposito dell’atto di nomina nella fase delle indagini preliminari, sulla cui natura, contesta l’Ucpi, non si sa ancora molto. Elementi che, raggruppati, per i penalisti rappresentano l’ennesimo ostacolo al diritto di difesa. “La situazione attuale genera una crescente incertezza ed una progressiva e sempre maggiore disomogeneità degli strumenti a disposizione nei diversi territori e, come segnalato dalle Camere penali territoriali, mette concretamente a repentaglio l’esercizio del diritto di difesa e la possibilità di garantire agli assistiti il corretto rispetto dei termini e delle scadenze processuali”, protestano. I problemi sono tanti: dai limiti ai files che è possibile caricare a difficoltà ad accedere al sistema, nonché intoppi in fase di caricamento. E così, spesso, l’unica alternativa è depositare a mano, opzione sulla cui legittimità le cancellerie sollevano più di un dubbio. Per tale motivo l’Ucpi aveva già chiesto a Cartabia “un intervento diretto per definire quanto prima, in via transitoria, il ripristino anche delle modalità tradizionali di deposito degli atti difensivi e di accesso ai fascicoli processuali”. Ma ora si passa alla protesta. Quell’assalto mediatico al Gup che ha scarcerato l’uomo condannato per omicidio di Valentina Stella Il Dubbio, 11 marzo 2021 Dopo le numerose proteste degli ultimi giorni, la Camera Penale di Napoli interviene sul caso di Fortuna Bellisario per ribadire che “abbiamo il dovere di non cedere a pulsioni irrazionali e di ricordare che la giustizia non può mai essere vendetta”. “Assistiamo ancora una volta ad una forte pressione mediatica che potrebbe anche involontariamente influire sul corretto esercizio della giurisdizione”: a dirlo al Dubbio è l’avvocato Angelo Mastrocola, segretario della Camera Penale di Napoli, in merito ad una vicenda quantomeno originale se non preoccupante per la serena amministrazione della giustizia. È opportuno che un Presidente di Tribunale rilasci una intervista in cui solleva dubbi su alcuni aspetti della decisione di un Gup in materia cautelare, rispetto ad un fatto di cronaca che ha comportato addirittura manifestazioni di parenti e amici della vittima e sdegno mediatico? Il contesto è il seguente: la giovane Fortuna Bellisario è stata uccisa nel 2019 con una stampella ortopedica dal compagno, che per questo delitto è stato condannato a dieci anni con rito abbreviato, riconosciuto colpevole di omicidio preterintenzionale, come richiesto dallo stesso Pm. Qualche giorno fa, dopo due anni di carcere, l’uomo è andato ai domiciliari, perché il Gup ha accolto il ricorso dell’avvocato e lo ha giudicato non pericoloso socialmente. La decisione ha scatenato numerose proteste e anche un flash mob dinanzi al Palazzo di Giustizia con uno striscione “In-Giustizia per Fortuna”. Quanto accaduto è stato commentato anche in una intervista fatta su Repubblica alla dottoressa Elisabetta Garzo, da un anno al vertice del Tribunale di Napoli, e dal titolo “Garzo: Caso Fortuna, inopportuni i domiciliari nella casa del massacro”: “premessa importante - dice la dottoressa Garzo - non posso entrare in alcuna valutazione sul provvedimento” ma, sollecitata dalla giornalista, prosegue: “ecco, forse doveva essere valutata con ancora ulteriore rigore, rispetto a quello che il giudice avrà adottato, dove e come concedere i domiciliari. Questo mi sento di dirlo. Magari, non avrei destinato quell’uomo nella stessa casa dove era avvenuto il massacro della donna”. Queste dichiarazioni insieme alla campagna mediatica e ai sit-in di protesta sotto il Tribunale hanno suscitato una reazione critica da parte della Camera Penale di Napoli che ha elaborato un lungo documento, siglato dal Presidente Marco Campora e dal segretario Mastrocola, per stigmatizzare quel corto circuito che si è creato tra media, magistrati e tribunale del popolo intorno al caso della donna uccisa. “Siamo vicini ai familiari ed agli amici della sventurata Fortuna Bellisario - scrive la Camera Penale - ne comprendiamo il dolore sordo ed insopportabile, la rabbia e finanche una - per loro comprensibile - volontà di vendetta”. Tuttavia, proseguono i penalisti, “noi - e cioè tutti quelli che non hanno perso una persona cara in questa vicenda - abbiamo il dovere di non cedere a pulsioni irrazionali, di ricordare che la giustizia non può mai essere vendetta e che la qualità della funzione giurisdizionale non si misura sulla base degli anni di galera che vengono inflitti. Concetti basilari che, tuttavia, negli ultimi anni sono costantemente messi in discussione da un populismo penale che sembra ormai aver smarrito anche un qualsivoglia sub-strato ideologico per degradare a mero istinto o riflesso di maniera. Allo stesso modo, occorre sempre ribadire che i processi non si occupano mai dei fenomeni ma solo ed esclusivamente di singoli casi, ognuno diverso dall’altro”. Il tema “femminicidio” è meramente culturale prima che penale: “Nessun ergastolo, infatti, eviterà un nuovo femminicidio in futuro. Nessuna pena esemplare potrà avere efficacia dissuasiva di condotte che sfuggono completamente allo schema del rapporto costi/benefici; solo una nuova struttura materiale e culturale della società (che sia pur in tempi lunghissimi sta evolvendo nei termini auspicati) consentirà davvero alle donne di allontanarsi in tempo dai propri aguzzini”. E comunque, ricordano gli avvocati, la decisione è stata emessa rispettando quello che prevede il codice: “Dunque, nessuno scandalo, nessuna “eccentricità” ma una sentenza assolutamente coerente ed in linea con la produzione giurisprudenziale quotidianamente emessa. E, ciononostante, a seguito della lettura del dispositivo sono partite le solite proteste: la pena è troppo bassa, l’imputato uscirà di galera dopo pochi anni, anzi è già libero perché il Gup gli ha concesso gli arresti domiciliari! È un format che si autoalimenta e che sta inesorabilmente avvelenando la qualità della nostra democrazia”. Aggiungiamo: sta immolando il garantismo sull’altare di una presunta sicurezza collettiva. Ma l’aspetto forse più importante che mette in evidenza la Camera Penale è che questa ondata di indignazione popolare a cui la stampa ha dato ampia eco, senza minimamente dare conto dei meccanismi del giusto processo, avrebbe spinto persino il Presidente del Tribunale di Napoli a sollevare obiezioni su un aspetto della decisione del Gup: “Le spinte provenienti dall’esterno sono talmente forti che ormai travolgono, talvolta, anche i protagonisti della giurisdizione, tanto che finanche il Presidente del Tribunale si è lasciato andare, in un’intervista pubblica, a valutazioni critiche in ordine ai provvedimenti emessi dal Gup. Nonostante il garbo e la cautela delle affermazioni, infatti, dalla intervista emerge chiaramente - allorquando si afferma che “forse la vicenda doveva essere valutata con ancora ulteriore rigore” o “magari, non avrei destinato quell’uomo nella stessa casa dove era avvenuto il massacro della donna” - una presa di distanza dalle valutazioni del Gup. Ma non solo: simili dichiarazioni rischiano di condizionare inconsciamente anche i giudici che si occuperanno in futuro della vicenda e, in particolare, i giudici del riesame che a breve saranno chiamati a rivalutare, a seguito di ricorso della Procura, la situazione cautelare dell’imputato”. Non ravvisate qualcosa di completamente stonato nel connubio tra pressione mediatica e esercizio della giurisdizione? “Per carità, le sentenze sono sempre criticabili - dicono Campora e Mastrocola - ed ognuno può legittimamente ritenere - previo ovviamente adeguato e consapevole studio dell’incartamento processuale - che la pena comminata sia troppo bassa o che il titolo di reato sia sbagliato. […] E, tuttavia, occorre registrare che la critica è sempre unidirezionale e colpisce unicamente le sentenze di assoluzione o le sentenze di condanna ad una pena non draconiana. Nessuno mai si azzarda a criticare una sentenza che commina un ergastolo, mentre costituiscono ormai un topos le grida - di solito: “Vergogna, Vergogna!” -delle vittime, spalleggiate sovente da “agitatori” politici o dell’informazione, alla lettura dei dispositivi che assolvono l’imputato o che lo condannano ad una pena non ritenuta abbastanza severa”. Ci piace concludere con quanto scritto in “A furor di popolo” (Donzelli Editore), dal professore e avvocato Ennio Amodio, secondo cui oggi la giustizia è caratterizzata da fenomeni anti-costituzionali e anti-illuministi: “alla razionalità si sostituisce l’emotività delle vittime di reati; al rispetto della dignità umana subentra la collera, che spinge a vedere nel delinquente un nemico da eliminare; la proporzionalità della pena cede il posto a un estremismo sanzionatorio che pretende dal giudice pene sempre più aspre; il carcere, infine, diventa il luogo elettivo per segregare chi ha sbagliato, al fine di garantire al massimo la sicurezza collettiva”. Ambrogio Crespi è un esempio nella lotta alla mafia: va in carcere un innocente di Angela Stella Il Riformista, 11 marzo 2021 Gli strani giri della vita sono tutti qui: a breve per Ambrogio Crespi si apriranno le porte del carcere milanese di Opera. Lo stesso carcere dove aveva scontato 200 giorni di carcerazione preventiva, di cui 65 in isolamento, con l’accusa di concorso esterno in associazione di stampo mafioso e voto di scambio, e dove era tornato da uomo libero per girare il docu-film “Spes contra Spem - Liberi dentro”. Due giorni fa il regista, che ha iniziato la sua carriera collaborando alle produzioni televisive e teatrali di Gianfranco Funari, è stato condannato dalla Cassazione in via definitiva a sei anni di reclusione, perché accusato di aver procurato voti a Domenico Zambetti, assessore alla Casa della giunta Formigoni, per le regionali del 2010, servendosi di conoscenze in ambienti della ‘ndrangheta. Eppure la Procura Generale aveva chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza d’appello. “Sono sconcertato dall’esito del ricorso” ha detto all’Adnkronos l’avvocato Riccardo Olivo, difensore insieme a Marcello Elia: “Crespi non si è reso responsabile di alcun illecito, la lettura degli atti non lascia dubbi. È quindi grandissimo il rammarico di vedere dichiarata la colpevolezza di un innocente quale è Ambrogio”. Crespi, tirato in ballo da alcune intercettazioni, si è sempre dichiarato innocente. Il processo ha fatto molto discutere per le tantissime incongruenze, raccolte anche nel libro di Marco Del Freo Il Caso Crespi. Il caso giudiziario del regista Ambrogio Crespi. L’analisi di tutti i documenti (Male Edizioni, 2019). Come ha scritto il Presidente onorario di Cassazione, Alfonso Giordano, nella prefazione “anche per chi non abbia una approfondita conoscenza della personalità del Crespi, qualcosa stride nei due documenti giudiziari; e soprattutto poco convincenti appaiono certe credulità che hanno costituito i plinti dell’edificio usato per condannarlo in primo grado a dodici anni di reclusione, ridotti a sei in fase d’appello”. Ripercorriamo brevemente la vicenda giudiziaria: Ambrogio Crespi viene arrestato il 12 ottobre 2012. Ore 4:30, la famiglia - Ambrogio, la moglie Helene, e il figlioletto di 4 mesi - dorme, ma improvvisamente il campanello comincia a suonare, insistente e violento. Il risveglio all’improvviso, la paura, la corsa ad aprire: i carabinieri invadono casa, la mettono a soqquadro, svuotano i cassetti, ribaltano i letti. È l’inizio di un incubo, è l’incredulità che si impossessa di tutti, è il primo doloroso capitolo della storia vera di un uomo che per la giustizia è uno ‘Ndranghetista, mentre per altri, come diceva Marco Pannella, era ed è un nuovo Enzo Tortora. Crespi viene portato ad Opera, dove trascorrerà circa sette mesi di carcerazione preventiva, definita dal leader radicale “vergognosa e ignobile”. L’8 febbraio 2017 il Tribunale di Milano lo condannerà a 12 anni di reclusione, per concorso esterno in associazione mafiosa, dandogli sei anni in più di quelli richiesti dal pm. Per il Tribunale l’uomo, forte delle sue conoscenze in ambito malavitoso, aveva contribuito a far convergere circa 3 mila voti su Domenico Zambetti, condannato nello stesso processo a 13 anni e 6 mesi per aver acquistato questi e altri voti, durante le elezioni regionali lombarde del 2010. Il pm aveva indagato Crespi perché aveva sentito fare il suo nome nel corso di svariate intercettazioni effettuate nel 2011 tra personaggi legati alla criminalità organizzata. Le uniche prove a suo carico sono infatti le intercettazioni tra due uomini, uno dei quali, E. C., accuserà Crespi per poi ritrattare: “La storia dei voti procurati da Crespi Ambrogio a Zambetti me la sono inventata di sana pianta. Ho iniziato all’età di sedici anni a millantare su tutta la mia vita. Il motivo non glielo so dire. Non ero contento della mia vita e mi sono creato una identità parallela. Dicevo di essere un commercialista, avvocato, architetto, ingegnere. È qualcosa di insito nella mia natura. Nell’ultimo periodo mi sono vantato di essere ‘ndranghetista” (Fonte, Il Giornale 2014). Successivamente una perizia del giudice appurerà che l’uomo era affetto da disturbi mentali. Tutto questo non servirà a sottrarre dalla tenaglia della giustizia Ambrogio Crespi, seppur in appello, il 23 maggio 2018, la pena verrà ridotta a sei anni. Ora l’uomo, che intanto è diventato papà di un secondo bambino, ha davanti a sé oltre cinque anni di carcere, dovendo sottrarre ai 6 anni definitivi i circa 7 mesi di carcerazione preventiva. Questa decisione ha provocato molto turbamento perché chi conosce Ambrogio Crespi, da sempre sostenitore delle lotte del Partito Radicale, non riesce a credere in questa “ingiustizia”, a partire da suo fratello Luigi: “Con Nessuno Tocchi Caino, mio fratello ha realizzato il film Spes contra spem-Liberi dentro menzionato al Festival di Venezia, per cui tra gli altri, il già Ministro della giustizia Andrea Orlando, Santi Consolo, ex capo del Dap, il procuratore generale di Napoli, Giovanni Melillo, e l’ex direttore del carcere di Opera, oggi a San Vittore, Giacinto Siciliano, hanno affermato che quel film rappresenta un lenzuolo bianco contro le mafie perché capace di destabilizzarne la cultura”. Luigi Crespi ha anche aggiunto in un video su Facebook che adesso “avrà inizio un percorso nel quale non solo chiederò la revisione del processo, ma chiederò, sulla base dell’ingiustizia subita, la grazia al Presidente della Repubblica Mattarella”. Gli fa eco proprio il Segretario di Nessuno Tocchi Caino, Sergio D’Elia, con cui Ambrogio stava girando il seguito di Spes contra Spem: “È stato condannato un innocente. Umanamente, oltre che giuridicamente, è paradossale che l’autore di questo manifesto della lotta alla mafia, ma anche un capolavoro artistico, politico, umano e civile, sia stato condannato per associazione di stampo mafioso a sei anni di carcere”. Sta tutta qui per molti la bizzarria di questa vicenda: come può un uomo impegnato in prima linea per la legalità, per il rispetto dei diritti degli ultimi, che con la sua opera è andato a dare speranza a chi speranza non ha - come i reclusi al fine pena mai - che don Luigi Merola ha definito “esempio di lotta alla criminalità” mentre lavoravano insieme al progetto Terra Mia, film denuncia della criminalità ed alla canzone Ora Basta creata per Noemi, la piccola di soli 4 anni colpita da una pallottola durante un agguato di camorra a piazza Nazionale a Napoli, come può essere proprio lui l’origine di quel male che infetta la parte buona della nostra società? Il giudice è tenuto a motivare la specifica richiesta dell’imputato sull’attenuante di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2021 Il diniego all’istanza di applicazione della massima riduzione della pena deve essere esplicitato anche sommariamente. La Cassazione accoglie in parte il ricorso di un uomo condannato per atti sessuali verso un minore infraquattordicenne, il quale - a fronte del riconoscimento delle attenuanti generiche sia in primo sia in secondo grado - lamentava la mancata riduzione massima della pena, pari a un terzo. In particolare, la Cassazione aderisce al rilievo del ricorrente, perché nell’esercizio del suo potere discrezionale (in ordine alla riduzione della pena conseguente al riconoscimento delle attenuanti) il giudice di appello, nel caso specifico, avrebbe mancato di motivare puntualmente sull’espressa richiesta dell’appellante. Con la sentenza n. 9408/2021 la Cassazione, infatti, ricorda che se non è necessaria una motivazione puntuale del giudice sulla misurazione della pena in applicazione delle attenuanti è, invece, necessaria una specifica risposta del giudice a fronte di richiesta dell’imputato circostanziata sul calcolo della pena “attenuata”. Il giudice, quindi, nello stabilire la pena a fronte della ricorrenza di circostanze attenuanti il reato, non deve di regola ribattere - punto per punto - gli elementi favorevoli all’imputatole e ben può valorizzare quelli sfavorevoli o ostativi al riconoscimento della massima riduzione. Però trattandosi di esercizio di un potere discrezionale da parte del giudice, è necessario che dal contesto della decisione emerga una compiuta valutazione complessiva che garantisca il raggiungimento di un giudizio equo e proporzionato rispetto alla pena “individualizzata”. La Cassazione, nel rinviare al giudice di merito la questione, detta il principio da seguire: “Sebbene il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche nella massima estensione di un terzo possa giustificarsi in base al rilievo implicito conferito a dati significativi emergenti dal tenore complessivo della motivazione, nondimeno, a fronte di specifica richiesta dell’imputato, volta all’ottenimento della più ampia riduzione, il giudice di merito non può esimersi dall’esplicitare anche sommariamente, le plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, dando così conto del corretto uso del potere discrezionale affidatogli dalla legge”. Volterra (Pi). 50 detenuti positivi, per loro niente vaccini di Angela Stella Il Riformista, 11 marzo 2021 Sono 50 i detenuti che hanno contratto l’infezione da Covid-19 nel carcere di Volterra, in provincia di Pisa; fortunatamente sono in buone condizioni di salute, molti sono asintomatici al momento. Da stamattina verrà completato il tracciamento interno alla struttura detentiva rivolto anche al personale penitenziario e a chiunque abbia accesso alla casa di reclusione per motivi di lavoro: “Da domani (oggi, ndr) - ha annunciato il sindaco volterrano, Giacomo Santi - scatterà un ulteriore screening a tappeto per tutti i familiari delle persone che accedono al carcere: sono circa 90 famiglie e oltre 200 persone”. Lo screening verrà effettuato impiegando i test antigenici rapidi e in caso di sospetta positività su ciascun individuo sarà ripetuto il tampone molecolare per confermare o escludere il risultato precedente. Nel corso dello screening effettuato all’interno della casa di reclusione sono state individuate anche due positività su persone, una delle quali residente fuori dal Comune di Volterra, che dall’esterno hanno accesso alla struttura per motivi di lavoro e che potrebbero avere innescato il focolaio anche se al momento non ci sono conferme da parte delle autorità sanitarie. Due giorni fa era stata la deputata dem Lucia Ciampi a sollevare il problema della vaccinazione: “La vaccinazione di detenuti e personale delle carceri va accelerata. Il caso di Volterra è emblematico e rischia di creare una situazione incontrollabile”. Eppure priorità per la vaccinazione era stata data al personale degli uffici giudiziari, di età compresa tra i 18 e i 65, inserito dalla Regione tra i servizi pubblici essenziali. Infatti proprio il Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Firenze, Marcello Viola, era stato tra i primi a rivolgersi al Presidente della Toscana, Eugenio Giani, per chiedere di integrare l’ammissione al desiderato antidoto anti-Covid per chi svolge un servizio essenziale come i magistrati. Ed è stato accontentato. Ora, come leggiamo sul sito della Regione Toscana, le dosi di Astrazeneca sono terminate e non è più possibile prenotarsi per questa categoria. E allora quando toccherà ai reclusi toscani, visto che dopo dovrebbe spettare proprio a loro la dose Astrazeneca? Non sarebbe il caso di rivedere la lista di priorità? Rovigo. Covid in carcere, contagiati detenuti e agenti di polizia penitenziaria di Francesco Campi Il Gazzettino, 11 marzo 2021 Il Covid si fa strada anche in carcere, con le porte che si chiudono non solo in uscita, ma anche in entrata. Il tutto apparentemente in sintonia con l’adagio popolare che parla di porte, di stalle e di buoi. Perché, se proprio ieri sono iniziate le somministrazioni di vaccino ai detenuti, che saranno seguiti a ruota già nelle prossime ore dal personale della polizia penitenziaria, la scorsa settimana è scoppiato un focolaio all’interno della casa circondariale di Rovigo. Un focolaio consistente, il cui perimetro sembra essere stato circoscritto a un totale di 26 casi, 21 fra i detenuti e 5 fra gli operatori, più precisamente quattro agenti di polizia penitenziaria e un impiegato amministrativo. Tutti i detenuti con positività sono stati trasferiti nell’apposita area di isolamento, uno però, nei giorni scorsi, aveva presentato un quadro sintomatologico abbastanza preoccupante così da portare al suo ricovero: per alcuni giorni è stato piantonato nel reparto di Malattie infettive all’ospedale di Rovigo, con difficoltà ulteriori visti i ranghi già ridotti a causa dei contagi fra gli agenti di Polizia penitenziaria. A Rovigo l’area di isolamento, prevista dagli appositi protocolli, ha una capienza di 34 posti, ma una così massiccia presenza nelle aree Covid complica le operazioni di filtro che sono attivate nel caso di nuovi ingressi. Secondo la circolare organizzativa, infatti, all’interno di ogni istituto è stato realizzato un reparto isolamento in cui collocare i detenuti appena arrestati e i detenuti provenienti da altri istituti di pena, in attesa dell’esito del tampone, e anche i detenuti che risultino positivi al Covid. Il fatto che sia stata saturata con la ventina di positivi “interni” ha fatto sì che venisse deciso, come era già successo nei mesi scorsi in altre realtà, come a Venezia, il blocco agli ingressi: al momento nella struttura carceraria rodigina, quindi, non entra più nessuno. In caso di arresti, quindi, la struttura di riferimento diventa il carcere Due Palazzi di Padova o, in alternativa, il carcere di Verona Montorio. In questo momento, con l’ultimo dato aggiornato al 28 febbraio, nella casa circondariale di Rovigo si trovano 200 detenuti, 79 dei quali stranieri. Sostanzialmente, quasi la capienza massima, prevista a quota 208, e un numero fortunatamente inferiore rispetto a quello dei 258 detenuti che si trovavano reclusi esattamente un anno fa, quando la situazione si era fatta esplosiva. Proprio nel marzo dello scorso anno, al primo dilagare del virus ancora di fatto sconosciuto, su indicazione della direzione dell’Ulss erano state individuate stanze di isolamento nell’area sanitaria, per tenere sotto controllo eventuali detenuti con sintomi sospetti, ed era stata allestita una tensostruttura all’ingresso dove, allora, il personale sanitario dell’Ulss eseguiva un triage con misurazione della febbre a tutte le persone in ingresso. “Il personale, sia medico che infermieristico, sta facendo un grande lavoro sia clinico che psicologico, gli infermieri, durante il giro di terapia e quando i detenuti vengono in area sanitaria li sostengono anche a livello umano”, aveva sottolineato al tempo l’ormai ex direttore generale dell’Ulss Polesana Antonio Compostella. “Non si sa al momento quale possa essere stato il canale d’ingresso del virus - sottolinea Gianpietro Pegoraro della Fp Cgil penitenziari -, però ora la situazione sembra essere sotto controllo. Tutti sono stati sottoposti a un doppio giro di tamponi. E finalmente sono iniziate anche le vaccinazioni, ma questo focolaio è l’evidente conferma di come il carcere, per le sue caratteristiche, dovesse essere raggiunto prima dalla campagna vaccinale”. I contagi aggiungono difficoltà a difficoltà, è un cane che si morde la coda: in un simile momento, per i reati minori bisognava aumentare ulteriormente il ricorso alla detenzione domiciliare”. Bologna. Dozza, un anno dopo. Momenti duri, ma detenuti responsabili di Antonio Ianniello* Il Resto del Carlino, 11 marzo 2021 Si è trattato di un anno molto duro sotto il profilo delle condizioni detentive e anche delle condizioni di lavoro di tutte le professionalità dell’ambito penitenziario. Come noto, la Dozza, fra lunedì 9 marzo e martedì 10 marzo 2020, è stata teatro di violenti disordini nel reparto giudiziario che hanno comportato la devastazione di vari ambienti. Pesante il bilancio: una persona detenuta morta per eventi legati ai disordini; ferimenti degli operatori; ingenti danni. Ma è doveroso rimarcare che la maggioranza delle persone detenute ha adottato comportamenti orientati al senso di responsabilità. Prevalente è stato anche il numero di coloro che, in quegli stessi spazi in cui si sono consumati i disordini, non vi ha preso parte, risultando tentativi di contrastare gli atti di devastazione. Dopo c’è stato un drastico peggioramento delle condizioni detentive nel reparto giudiziario: le celle sono rimaste chiuse h24 per almeno un mese, mancando le condizioni strutturali di sicurezza. Permane il sovraffollamento, in crescita, che può aggravare il rischio sanitario, potendo la mancanza di distanziamento fisico fungere da acceleratore della diffusione del contagio. Al 29 febbraio 2020 erano presenti 891 persone per una capienza di 500. Al 30 giugno 2020 674. Oggi circa 750. Le attività trattamentali hanno risentito dell’emergenza sanitaria - con interruzioni connesse all’andamento del contagio all’interno - ma bisogna riconoscere che il locale livello di gestione penitenziaria ha tentato sempre di preservarne lo svolgimento, pur dovendo essere sensibilmente ricalibrate. Sono stati riaperti i colloqui familiari, pur con limitazioni (fra cui l’impossibilità del contatto fisico) ed è stata data la possibilità di fare videochiamate in aggiunta alle telefonate ordinarie il cui numero è stato ampliato. Ora sono partite le vaccinazioni per gli operatori penitenziari e si spera che a breve possano estendersi alle persone detenute, così che la comunità penitenziaria possa essere messa in sicurezza sanitaria. *Garante dei detenuti di Bologna Venezia. Paura nel carcere femminile, un focolaio Covid alla Giudecca Il Gazzettino, 11 marzo 2021 Positive in 8: tamponi a tutte. Finora il carcere femminile della Giudecca era rimasto estraneo al virus: nessun focolaio, come invece accaduto a dicembre nel penitenziario maschile di Santa Maria Maggiore e la prima dose di vaccini alle detenute conclusa nei giorni scorsi. Ma ieri mattina, la scontro con la realtà più cruda di questi tempi di pandemia: di colpo, uno dietro l’altro, si sono verificati otto casi di positività al nemico invisibile. Sei riguardano altrettante agenti di polizia penitenziaria, mentre due sono detenute, una in regime di semilibertà e una che lavora nella cucina della casa di reclusione della Giudecca. Tutte e otto le contagiate stanno bene e non hanno presentato i sintomi tipici della malattia. Non si sa se le due detenute si fossero vaccinate mentre per le agenti, l’appuntamento era fissato al 18 marzo. La scoperta della positività ha fatto scattare un giro di vite attorno al carcere che, per disposizione dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto, è stato chiuso alle visite mentre eventuali nuove detenute dovranno trascorrere una quarantena in una zona dedicata all’isolamento sanitario, per evitare che il virus si diffonda in maniera ancora più forte e possa, così, dilagare. Per contrastare il virus e dar vita al tracciamento, gli infermieri della cooperativa che presta servizio medico alla Giudecca hanno iniziato una serie di tamponi alle detenute e al personale della struttura di reclusione, in modo da scovare eventuali nuove positività e così isolarle senza trovarsi a fare i conti da un momento all’altro con un bubbone a quel punto quasi incontrollabile. Non è chiaro come il Covid sia potuto entrare all’interno del penitenziario dell’isola: quello che è certo è che la detenuta in regime di semilibertà è diventata positiva per un contatto sul posto di lavoro all’esterno del carcere. Difficile dire che sia stata lei a trasmettere il virus anche perché, proprio per il regime di detenzione in semilibertà, la detenuta ha una sua entrata e una sua uscita dal carcere ed essendo l’unica che gode del lavoro extra-carcere, vive già in una sorta di distanziamento sociale dalle altre recluse. Per questo il lavoro di tracciamento sarà fondamentale, come sarà importante anche l’eventuale invio, da parte dell’Ulss 3, dei tamponi del focolaio all’Istituto Zooprofilattico delle Venezie di Legnaro, nel Padovano, per verificare che la diffusione del virus così velocemente, non sia legata alla presenza di una delle varianti al Covid-19 che si dimostrano essere più aggressive rispetto alla forma originaria. Un focolaio era esploso a dicembre, ma nel carcere maschile di Venezia, quando c’erano stati contagi tra detenuti e agenti della polizia penitenziaria. Bologna. Balcani, detenuti di raccolgono fondi per i migranti: “Vi siamo vicini” di Maurizio Papa agenziadire.com, 11 marzo 2021 Dal carcere della Dozza è partita un’iniziativa di solidarietà per i profughi in viaggio sulla rotta balcanica: “Ci è capitato di vedere in tv la situazione drammatica che stanno vivendo e abbiamo deciso di dare il nostro contributo”. Dalla condizione difficile di recluso a quella disperata dei migranti bloccati in Bosnia. È il cuore dell’iniziativa di solidarietà di una cinquantina di detenuti della Dozza di Bologna, che hanno deciso di promuovere una raccolta fondi per mandare un sostegno ai profughi in viaggio sulla rotta balcanica tramite l’associazione La Villetta, una delle realtà che sotto le Due torri sono impegnate nell’invio di aiuti umanitari nei Balcani. “Solidarietà per le persone bloccate in Bosnia”, è il titolo dell’appello che i detenuti delle sezioni penali hanno condiviso per raccogliere il denaro. “In queste settimane, più di una volta, ci è capitato di vedere per televisione la situazione drammatica che stanno vivendo, nel nord della Bosnia, migliaia di migranti (uomini, donne e bambini) in cammino lungo la rotta balcanica”, prosegue il testo: “Respinti dalle Polizie di frontiera dei vari confini, sono costretti a sopravvivere al freddo e al gelo, molto spesso senza cibo e acqua, in una situazione di continue violenze e di negazione dei diritti più elementari”. Alla luce di queste scene, “nella nostra particolare contingenza di persone detenute- continua l’appello - ci sentiamo vicini a questi esseri umani che, nel terzo millennio, a meno di 500 chilometri da Bologna, tentano di resistere a condizioni di vita che fanno venire in mente i campi di concentramento delle tante guerre di cui è pieno il mondo. Nel nostro piccolo abbiamo deciso di dare anche noi il nostro contributo con un gesto minimo e semplice”. E così, come “hanno già fatto organizzazioni e movimenti umanitari, con raccolte di fondi, vestiario, generi di prima necessità e alimenti, anche noi vogliamo esprimere solidarietà a tante persone che soffrono”, scrivono i detenuti. “Abbiamo scelto perciò di effettuare una donazione in denaro (ciascuno secondo le sue possibilità) - si conclude il testo visionato dalla Dire - all’associazione di solidarietà La Villetta, che da alcune settimane ha avviato una raccolta di aiuti umanitari per le persone migranti bloccate in Bosnia e organizza spedizioni dei materiali raccolti”. Il risultato finale della raccolta ammonta a diverse centinaia di euro. Non è la prima iniziativa di solidarietà nata tra le celle del carcere bolognese in questo periodo. Un’altra, meno di due mesi fa, è stata raccontata dagli attivisti della Colonna solidale autogestita, un progetto che dall’inizio dell’emergenza Covid è impegnato nella raccolta di beni di prima necessità da distribuire alle famiglie che ne hanno bisogno. “È arrivata una donazione in buoni pasto da parte di un gruppo di detenuti del carcere della Dozza. Questa notizia ci ha naturalmente riempite di gioia ed è la dimostrazione che la solidarietà non conosce muri e sbarre”, ha scritto la Colonna solidale, sottolineando che “nelle carceri continua ad esserci una situazione estremante rischiosa. A causa principalmente del sovraffollamento il rischio di ammalarsi di Covid-19 è molto alto, nel solo carcere della Dozza a dicembre 2020 erano 50 i positivi su 700 detenuti, 200 in più rispetto alla capienza massima, questione che rende difficoltoso anche l’isolamento e la cura dei malati”. Bergamo. Il virus della solidarietà di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 11 marzo 2021 Il ricavato delle mascherine confezionate dalle detenute del carcere di Bergamo destinato alle missioni delle Suore delle poverelle. “Ci è stata consegnata nei giorni scorsi la somma di 3000 euro da parte delle sorelle che operano nella sezione femminile del carcere di Bergamo, frutto del loro lavoro con le detenute, nella produzione di mascherine. È proprio vero che tante gocce formano un mare di bene”. La lettera di ringraziamento arrivata nei giorni scorsi alle ospiti dell’istituto orobico è firmata da suor Madeleine Tanoh, religiosa delle Suore delle poverelle - Istituto Palazzolo, che a nome dei bambini di Repubblica Democratica del Congo, Malawi, Costa d’Avorio e Kenya ha voluto così ringraziare per questo gesto di generosità che consentirà ai piccoli di “vivere sani e sereni”. Tutto è nato all’inizio di marzo dello scorso anno. “Con il dilagare della pandemia e la necessità impellente di reperire mascherine omologate in larga misura, è arrivata la richiesta da parte della direzione della Casa circondariale di Bergamo di ovviare alla presente necessità attraverso la possibilità di una produzione interna utile a soddisfare i bisogni di detenuti e detenute, corpo di polizia penitenziaria e personale dell’istituto”, racconta suor Anna Pinton, una delle tre religiose che vive all’interno del carcere dove, peraltro, gestisce una lavanderia e consente alle ragazze di lavorare. “Questa è la nostra casa e qui si svolge la nostra missione. Ci aiutano nel servizio quotidiano quattro ospiti che si alternano ogni mese”, spiega la religiosa. “Offriamo così la possibilità a più ragazze di guadagnare qualcosa anche perché questo lavoro viene direttamente retribuito dal ministero della Giustizia. Quando non siamo occupate - continua suor Anna - trascorriamo il tempo con loro e cerchiamo di assicurare costantemente il nostro supporto materiale e spirituale. Questo avviene regolarmente, ma in tempo di pandemia ancora di più, tenuto conto che non hanno potuto più vedere né familiari, né amici. Per fortuna non sono mai state con le mani in mano”. Suor Anna manifesta apertamente la sua gratitudine nei confronti della direttrice del carcere, Maria Teresa Mazzotta, che, grazie alla sua sensibilità, ha contribuito a migliorare la qualità dei servizi, portando un significativo supporto alle detenute, ascoltando i loro problemi e dando sostegno morale e psicologico. Una piccola rivoluzione culturale sul concetto di detenzione, finalizzata, nel rispetto del principio della certezza della pena, a una maggiore umanizzazione e al perseguimento degli obiettivi di rieducazione e reinserimento contenuti anche nella Costituzione. “È stata lei ad avere l’idea di coinvolgerle nel confezionamento delle mascherine. All’inizio ne giravano poche e quindi c’era assolutamente bisogno di questa fondamentale protezione. Soprattutto in carcere. Hanno cominciato in tre, coordinate da una delle nostre sorelle, e la produzione ha ottenuto immediatamente il consenso dei destinatari. Tra questi, anche il personale amministrativo e gli agenti di polizia penitenziaria”. Visto l’esito positivo della produzione, l’entusiasmo e la creatività, la tenacia, la costanza e l’impegno delle partecipanti, è sorto il desiderio di un’ulteriore produzione che potesse raggiungere l’esterno del carcere e diventare possibilità buona e concreta di un aiuto personale per la drammatica situazione in corso. Da qui la proposta di devolvere il ricavato delle offerte ottenute a una realtà di maggiore povertà. “In accordo con la direzione tutto il ricavato è stato donato a favore di quattro comunità per bambini in diversi Paesi dell’Africa”, riprende la religiosa, sottolineando che, “considerati i risultati, le ragazze hanno voluto mettersi a disposizione per aiutare chi, più di altri, era stato colto di sorpresa dal Covid e non aveva i mezzi per poter contenere la diffusione del virus. Si è pensato, così, di raccogliere fondi attraverso un’offerta volontaria e da lì è partita una vera e propria gara di solidarietà”. L’iniziativa rientra nel progetto denominato “Dà vita alla vita”, che contribuisce a sostenere le comunità di accoglienza dei bambini rimasti orfani in attesa di essere adottati o di ricongiungersi ai propri familiari. “Le ragazze sono al settimo cielo. Nonostante il loro stato di detenzione, si sono sentite utili e il ringraziamento dei piccoli è stato un balsamo per le loro sofferenze”, evidenzia Pinton. Quella delle Suore delle poverelle è l’ennesima testimonianza che progetti come questi servono a far capire come i detenuti possano essere recuperati, soprattutto perché spesso l’unica alternativa che resta a chi esce dopo un periodo di detenzione è il reclutamento nelle file della criminalità proprio perché rifiutato dalla società. Anche se sembra poca cosa, l’accogliere nelle istituzioni persone che hanno rotto il patto sociale serve a molto. Serve a seminare risultati, lavorando sulla prevenzione piuttosto che sulla repressione, che saranno raccolti magari tra qualche anno. O, in casi come questi, anche immediatamente. Le Suore delle poverelle sono presenti, oltre che in Italia, in Africa e in America latina (Brasile e Perù). Svolgono attività, in collaborazione con le Chiese locali, nei contesti educativi a vario livello, in strutture sanitarie, nell’assistenza e promozione di quanti sono nel bisogno, con predilezione a favore dei più poveri. Nella Casa circondariale lombarda hanno scelto di vivere appieno il carisma del fondatore, il beato Luigi Palazzolo, attraverso la convivenza con chi, pur avendo commesso errori, intende proiettarsi all’interno di nuovi circuiti virtuosi, convinte che il reinserimento sociale delle persone detenute passa attraverso atti concreti in grado di produrre un autentico legame tra mondo del carcere e società civile. Vigevano (Pv). Ripararsi recitando di Ilaria Solari Elle, 11 marzo 2021 Sei donne sedute su un palco rispondono alle domande del pubblico. L’ultima arriva come una stilettata: la vostra vita avrebbe potuto essere diversa? A rispondere è una donna bionda, l’unica tra loro con un accento del Nord. Lo sguardo è duro, dietro si intuisce un carico pesante di dolore: con voce ferma risponde di no. Pochi minuti dopo la polizia riporta lei e le altre nel carcere di alta sicurezza di Vigevano, che ospita le detenute appartenenti alla criminalità organizzata, a cui è assegnato un regime detentivo separato da quello dei carcerati comuni. Alcune di loro hanno alle spalle famiglie dai nomi pesanti, pezzi di storia delle organizzazioni criminali. “Donne Caino”, le definisce Mimmo Sorrentino, drammaturgo e regista, che le ha accompagnate nel progetto teatrale Educare alla libertà, aiutandole a scrivere e mettere in scena l’origine del male di cui si sono rese responsabili secondo la giustizia: un viaggio di scavo che le ha portate a esibirsi nelle aule magne delle università, nelle accademie e nei teatri. Le ha soprattutto aiutate a spezzare le catene di un destino familiare che a molte sembrava irrevocabile. Un’esperienza ora raccontata in Cattività, documentario di Bruno Oliviero su Prime Video e dal 12 marzo su Chili, Cgdigital e itunes. “Ho raccolto le loro storie”, ricorda Sorrentino, “ciò che mi hanno detto e anche ciò che non sapevano di avermi detto. E infine ho chiesto loro di recitare le testimonianze di altre compagne”. “Quando ho sentito la mia storia pronunciata da un’altra mi sono pietrificata”, confessa Carla, che ha scontato la pena e s’è rifatta una vita lontano da Napoli coi figli, ma ancora non riesce a pronunciare parole come carcere, o cella. “La psicologa dice che ho un blocco, ma il lavoro di rimozione più potente è cominciato là dentro: ed è solo nelle parole di un’altra che realizzi che quella vita era vera”. “Ascoltarle è scioccante”, continua Sorrentino. “La droga, le armi, i morti ammazzati, le sparatorie: snocciolano vissuti traumatici come se non si fossero mai davvero viste, non fossero mai riuscite ad adottare uno sguardo esterno. E quando si vedono riflesse nelle parole delle altre crollano. L’affidare a un’altra la propria storia ha prima di tutto un valore drammaturgico. Ma ha anche insegnato loro a condividere, a vedere che il tuo dolore è anche il dolore dell’altra”. Come ricorda Nando Dalla Chiesa, docente di Sociologia e metodi di educazione alla legalità (figlio del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, vittima di mafia), che le ha invitate alla Statale di Milano, all’origine di quasi tutte le storie c’è la figura di un padre: “Irrompe il bisogno di fare i conti con questa tempesta di affetto e di potere”, scrive in un’appendice a Il teatro in alta sicurezza (Titivillus) il libro in cui Sorrentino ha raccolto i testi e la storia di questa esperienza. “Sono contesti familistici patriarcali”, continua il drammaturgo, “dentro cui l’universo femminile è schiacciato, non ci sono modelli femminili che non siano succubi. Immaginatevi che forza dirompente ha la detenuta che scrive al marito, recluso al 41bis, e ai familiari per chiedere di continuare a fare teatro fuori”. Fuori, dove tutto è nuovo, “dove donne abituate a maneggiare milioni si ritrovano fare le badanti, le operaie e sono contente: perché col teatro hanno incorporato un metodo, sanno che le cose si possono vedere da prospettive diverse”. O, come ha spiegato loro lo psicoanalista Massimo Recalcati partecipando al progetto, hanno imparano il lavoro lento del perdono, che assomiglia a quella tecnica giapponese che usa l’oro per riparare i vasi rotti: “così le crepe, le ferite diventano preziose e il perdono diventa la possibilità di fare della ferita una poesia. È una specie di resurrezione”. Dentro il “fine pena mai”. La storia di Alessandro di Luca Liverani Avvenire, 11 marzo 2021 Alessandro Limaccio, da 26 anni in carcere per crimini di mafia (che lui sostiene di non avere mai commesso), si è laureato in Sociologia dietro le sbarre. Così il racconto del suo viaggio attraverso le carceri italiane riapre il dibattito sulla disumanità della “condanna a vita”. Un sociologo detenuto non fa notizia. In carcere cene sono finiti diversi, quando negli “annidi piombo” abbandonavano i libri per la P38. Ma un detenuto che si laurea in Sociologia dietro le sbarre, nel 2017, scegliendo di studiare la condizione dei condannati tra cui vive, è un caso unico. Soprattutto perché il suo studio non prevede una conclusione. Il sociologo è condannato all’ergastolo. A raccontare questa storia, singolare e drammatica, è il protagonista, Alessandro Limaccio, classe 1971, siciliano di Lentini, nel suo libro “Il Sociologo detenuto - una storia etnografica”, edito da H.E. Herald Editore. A firmare le prefazioni il suo amico Enrico Rufi, di Radio Radicale, e il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma. Limaccio è condannato all’ergastolo ostativo. Fine pena mai. Da 26 anni in carcere, deve scontare quattro ergastoli per cinque omicidi di mafia. Reati orribili, di cui l’uomo si dichiara innocente. All’epoca dei crimini è un ventenne in una famiglia di piccoli commercianti, estranea agli ambienti criminali. I suoi votano Pci, lui invece da cattolico diventa attivista nella Dc. Il suo mito è Bernardo Mattarella, papà di Piersanti e Sergio. Ma improvvisa lo travolge un’accusa enorme. I processi, le condanne, il viaggio nelle carceri di Catania, Napoli, Roma. L’amicizia con Enrico Rufi nasce quando Limaccio e altri da Rebibbia gli scrivono una lettera di vicinanza. Rufi è il padre della ragazza italiana che non è tornata dalla Giornata Mondiale della Gioventù di Cracovia del 2016: una meningite l’ha stroncata sulla via del ritorno. “Nessuno più di chi sconta una lunga pena detentiva - confessa Rufi - è in grado di capire la pena di chi perde per sempre una figlia”. Alessandro Limaccio ha perso per sempre la sua di vita, in un processo fondato su dichiarazioni di pentiti. Un clamoroso abbaglio processuale, sostiene. La pensa così anche il suo amico Rufi. Per resistere a un destino soffocante, il sociologo scandisce la sua vita a Rebibbia tra attività fisica, studio, preghiera. Limaccio è un credente convinto. Colpevole o innocente che sia, però, interessa relativamente. Non per cinismo disumano, ma perché il suo caso - e la sua analisi “da dentro” dell’universo detentivo come nessun sociologo ha mai fatto - riapre il dibattito sulla disumanità della “condanna a vita”, pena che confligge col dettato costituzionale. Quello dell’articolo 27 (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione”), e del 13 (“È punita ogni violenza fisica e morale” sui detenuti). La Costituzione non parla di vendetta di Stato. Ma la condanna a vita non apre a prospettive di vita nuova, solo a disperazione, rabbia e cupa depressione. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha bocciato l’ergastolo ostativo perché viola l’articolo 3 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo sui trattamenti inumani e degradanti. Ben prima, nel 1976, Aldo Moro - ricorda il Garante Palma - sosteneva che “la pena perpetua, priva com’è di qualsiasi speranza, prospettiva, sollecitazione al pentimento, appare crudele e disumana non meno della pena di morte”. Lo ha detto più volte anche Papa Francesco. Nel 2019 aveva invitato i penalisti a “ripensare sul serio l’ergastolo”, affermando che “se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società”. Già nel 2014, aveva definito l’ergastolo una “pena di morte nascosta”, abolita l’anno prima in Vaticano. E nell’ordinamento italiano? Beccaria nel 1764 si scagliava contro tortura e pena di morte, entrambe abolite nel 1786 - per la prima volta nella storia - nel Granducato di Toscana. Davvero non sono ancora maturi i tempi perché anche il “fine pena mai” scompaia dal codice di procedura penale? Covid. I Paesi ricchi stanno vaccinando, quelli poveri devono ancora iniziare comunicato di Oxfam ed Emergency Il Manifesto, 11 marzo 2021 Usa, Unione europea e Regno Unito si stanno opponendo alle proposte avanzate da oltre 100 Paesi in via di sviluppo per la sospensione dei brevetti dei vaccini, in discussione oggi all’Organizzazione mondiale del commercio Ad oggi i Paesi a basso reddito saranno in grado di vaccinare solo il 3% della popolazione entro metà anno e il 20% entro la fine del 2021. A un anno esatto dalla dichiarazione di pandemia da Covid-19 da parte dell’OMS, la disuguaglianza tra Paesi ricchi e poveri nell’ accesso ai vaccini è più acuta e drammatica che mai. Le nazioni più ricche nell’ultimo mese hanno vaccinato in media una persona al secondo, mentre la stragrande maggioranza dei Paesi in via di sviluppo ancora non è stata in grado di somministrare una singola dose, con una carenza strutturale di forniture mediche e scorte di ossigeno. Ma anche tra i paesi più ricchi le differenze sono enormi: negli Usa ogni secondo si vaccinano 35 persone, nel Regno Unito 9, in Germania, Spagna, Francia e Italia solo 2, in Belgio, Svezia e Danimarca poco più di 20 persone ogni minuto. È l’allarme lanciato da Oxfam e Emergency, membri della People’s Vaccine Alliance, insieme tra gli altri a Unaids e Yunus Center, in occasione dell’incontro dell’Organizzazione mondiale del commercio in programma oggi. Riunione che vede la contrapposizione di molti Paesi ricchi - inclusi USA, Unione europea e Regno Unito - alla proposta di oltre 100 Paesi in via di sviluppo di superare l’attuale monopolio detenuto dalle aziende farmaceutiche sui brevetti dei vaccini. Una proposta, che se venisse approvata, consentirebbe di aumentare la produzione mondiale e avviare la distribuzione in tutti i Paesi poveri che ne hanno immediato bisogno. Allo stato attuale infatti la distribuzione di vaccini, che nei Paesi a basso reddito inizierà nelle prossime settimane tramite il sistema Covax, porterà a coprire appena il 3% della popolazione entro la metà dell’anno e il 20% entro la fine del 2021. I primi a farne le spese saranno i Paesi già distrutti da anni di guerra e messi in ginocchio dalla crisi climatica - come Sud Sudan, Yemen, Malawi - che senza strutture sanitarie, strumenti di protezione, cure e vaccini hanno subito un aumento esponenziale dei contagi negli ultimi mesi. In Malawi, per esempio, la variante sudafricana del virus si è diffusa molto rapidamente, facendo registrare un aumento dei casi del 9.500% in pochissimo tempo. Le conseguenze del monopolio sui vaccini anche in Europa e in Italia - La disuguaglianza nell’accesso ai vaccini non risparmia alcuni dei Paesi più ricchi: in Israele il 57% della popolazione ha ricevuto almeno una dose di vaccino, nel Regno Unito il 32%, negli Stati Uniti il 16,6%, in Francia, Germania e Italia meno del 6%. Tale situazione è dovuta dalla limitata capacità di produzione a livello globale, che trova la sua origine nel sistema di monopoli con cui operano le case farmaceutiche, che al momento, con brevetti esclusivi, non condividono tecnologia e know-how, azzerando di fatto la possibilità di concorrenza nel mercato. É per questo che in un Paese come l’Italia, complice anche le difficoltà organizzative e logistiche interne, si determinano dinamiche analoghe a quelle che portano i Paesi a basso reddito ad essere esclusi dall’accesso ai vaccini, sebbene con conseguenze di gran lunga inferiori. Una mobilitazione globale per chiedere un immediato cambio di rotta - Quasi 1 milione di persone in tutto il mondo ha firmato l’appello della People’s Vaccine Alliance, per chiedere ai Paesi ricchi di smettere di proteggere il monopolio dei colossi farmaceutici, che antepongono i profitti alla vita delle persone, liberalizzando i brevetti dei vaccini anti-Covid, “Nel mondo il Covid-19 ha già ucciso 2 milioni e mezzo di persone, mentre gran parte dei Paesi non ha letteralmente mezzi per combattere il virus - ha detto Sara Albiani, policy advisor per la salute globale di Oxfam Italia - Consegnando il potere di decidere della vita e della morte di milioni di persone a un ristretto numero di case farmaceutiche, le nazioni ricche non fanno altro che prolungare l’emergenza sanitaria globale, mettendo a rischio altre innumerevoli vite. In questo momento cruciale della lotta contro la pandemia, tutti, Paesi ricchi e Paesi in via di sviluppo devono agire compatti e intraprendere azioni coraggiose, perché nessun Paese potrà vincere questa battaglia da solo”. Il 10 e 11 marzo, più di 100 Paesi in via di sviluppo, con in testa Sud Africa e India, torneranno a chiedere all’Organizzazione mondiale del commercio una sospensione della proprietà intellettuale dei vaccini regolata dall’Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale (Trips). Tale sospensione rimuoverebbe le barriere legali e permetterebbe a più Paesi e industrie di produrre i vaccini, aumentando la disponibilità di dosi e dando così inizio ad un processo di ripresa, anche economica. “La situazione reale in tanti Paesi a basso reddito in cui operiamo è che la campagna vaccinale contro il Covid-19 non solo non è ancora iniziata, ma nemmeno pianificata, a causa della mancata disponibilità dei vaccini- ha dichiarato Rossella Miccio, presidente di Emergency - In Afghanistan la somministrazione è iniziata solo una decina di giorni fa grazie a una donazione di mezzo milione di dosi fatta dal governo indiano su base totalmente volontaristica. Con questa dotazione si possono vaccinare 250.000 persone, ovvero lo tra lo 0,6 e lo 0,7% di tutta la popolazione. Addirittura ci troviamo al paradosso che alcuni Paesi come l’Uganda avrebbero acquistato i vaccini ad un costo di molto superiore a quello pagato dall’Unione europea. Se non invertiamo la rotta non riusciremo mai a mettere fine a questa pandemia”. Nonostante abbiano beneficiato di miliardi di euro in aiuti pubblici, le industrie farmaceutiche mantengono comunque il monopolio della produzione per ottimizzare al massimo i loro profitti. A fronte di più di circa 100 miliardi di dollari di finanziamenti pubblici destinati alla ricerca e allo sviluppo di vaccini contro il Covid, si stima che Pfizer, Moderna e Astrazeneca da sole realizzeranno entrate per 30 miliardi di dollari. Allo stesso tempo, industrie qualificate per produrre i vaccini in tutto il mondo sono pronte a iniziare una produzione di massa non appena verrà loro garantito l’accesso alla tecnologia e al know-how, al momento ben difesi da un pugno di industrie. Se queste li condividessero, un aumento della produzione potrebbe essere ottenuto nel giro di pochi mesi. Suhaib Siddiqi, ex direttore chimico di Moderna, che attualmente produce uno dei vaccini autorizzati, ha dichiarato che, una volta ottenuta la formula e il necessario supporto tecnico, uno stabilimento adeguatamente attrezzato può iniziare la produzione di vaccini nel giro di tre o quattro mesi. Regolarizzazioni dei migranti: zero certezze sui tempi e il governo fa ammuina di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 11 marzo 2021 Decine di migliaia di domande in attesa di esame da parte delle prefetture. Il “popolo degli irregolari” costretto a restare tale. Ma quel “popolo” è entrato ieri a Montecitorio, grazie all’interrogazione al ministro dell’Interno presentata da Riccardo Magi, deputato di Più Europa. “Dai risultati della ricognizione svolta dalla campagna Ero straniero - rimarca l’interpellanza - sullo stato di avanzamento dell’esame delle domande di regolarizzazione dei lavoratori stranieri presenti in Italia emerge che, a sei mesi dalla chiusura della finestra per accedere alla misura, ad agosto 2020, il numero delle domande finalizzate è inferiore all’1 per cento del totale di quelle presentate; dai dati forniti dal Ministero dell’interno, in risposta ad un accesso agli atti da parte delle associazioni promotrici della campagna, al 31 dicembre 2020, a fronte delle oltre 207.000 domande presentate dal datore di lavoro per l’emersione di un rapporto di lavoro irregolare o l’instaurazione di un nuovo rapporto con un cittadino straniero (articolo 103, comma 1, del decreto-legge n. 34 del 2020), in tutta Italia erano stati rilasciati dalle questure solo 1.480 permessi di soggiorno; inoltre, al 16 febbraio 2021, il 5 per cento delle domande era giunto nella fase finale della procedura, mentre il 6 per cento era nella fase precedente della convocazione di datore di lavoro e lavoratore per la firma del contratto in prefettura e successivo rilascio del permesso di soggiorno. In circa 40 prefetture, a quella data, non risultavano nemmeno avviate le convocazioni… tale enorme ritardo appare grave anche nella prospettiva della campagna vaccinale anti-Covid in corso nel Paese: anche a tutela della salute pubblica, è fondamentale che il maggior numero possibile di persone in possesso dei requisiti venga regolarizzato per garantire una più efficace programmazione vaccinale e una quanto più ampia copertura della popolazione…”. La risposta del Viminale è in un documento di tre pagine, dalla prosa soporifera letto con velocità supersonica dal sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia (5Stelle) con il quale si comunica che 800 unità selezionate, su 20.061 candidati, “svolgeranno attività amministrativa di supporto agli Sportelli Unici per l’Immigrazione e che saranno assegnate a ciascuna sede proporzionalmente al numero delle istanze pervenute”. Per concludere con: “Si confida che entro questo mese i lavoratori selezionati potranno essere operativi e così contribuire ad accelerare le procedure di regolarizzazione”. Nei dettagli, in questo caso nei verbi, spesso si cela il “diavolo”. E così, si “confida” ma non si dà certezza. Si scrive di “accelerazione” delle procedure di regolarizzazione, ma non si definiscono i tempi né si quantizzano gli obiettivi. Se non è “ammuina”, ci siamo vicini. “La situazione è drammatica - commenta Magi con il Riformista. Noi ci troviamo, a sei mesi dalla chiusura della finestra per la regolarizzazione, in una situazione in cui di fatto la lavorazione di queste domande da parte delle prefetture non è iniziato, solo lo 0,7 è stato trattato. La regolarizzazione era motivata principalmente da due ragioni: quella dell’emergenza sanitaria, per cui noi dovevamo garantire a cittadini “fantasma”, sconosciuti, anche l’assistenza sanitaria adeguata e quindi ora anche l’inserimento nei piani vaccinali. E l’altra motivazione è la crisi di alcuni settori, a partire da quello agroalimentare”. “È evidente - sottolinea ancora Magi - che un ritardo tale su un provvedimento che era di emergenza, rischia di vanificare gli obiettivi principali, tanto è vero che la Coldiretti ha già lanciato un allarme rispetto, di nuovo, alla carenza di lavoratori nel settore agricolo alimentare”. Qui la tecnicalità lascia il passo alla politica. “Non voglio pensare - dice il deputato di Più Europa - che ci sia una motivazione politica in questo ritardo. Poiché c’è stato uno scontro acceso su questo provvedimento, in qualche modo lo si finisca per non attuare. Perché questo sarebbe gravissimo, significherebbe non dare applicazione a una norma di legge. Quello che servirebbe non è un provvedimento emergenziale, peraltro limitato solo ai lavoratori domestici e a quelli dell’agricoltura. A noi servirebbe un meccanismo stabile di regolarizzazione degli stranieri irregolari quando hanno un posto di lavoro dimostrabile”. Lo prevede, tra l’altro, la legge di iniziativa popolare Ero straniero per il superamento della Bossi-Fini di cui Magi è relatore in Commissione Affari costituzionali. Questa sarebbe la soluzione migliore. Ma già sarebbe qualcosa, conclude il deputato, “riuscire ad attuare un provvedimento emergenziale”. Migranti, i morti nel Mediterraneo: la colpa è delle politiche europee di Vittorio Longhi La Repubblica, 11 marzo 2021 L’accusa della Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic. I superstiti del naufragio a largo delle coste tunisine aggrappati a quel che resta del gommone. Il monito è arrivato nelle stesse ore, ieri mattina, in cui si ripescavano i corpi senza vita dei 39 migranti subsahariani, al largo delle coste tunisine. “L’approccio dei Paesi europei alla migrazione sta causando migliaia di morti ogni anno, morti che si potrebbero evitare.” La condanna della Commissaria per i diritti umani al Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, è arrivata nelle stesse ore, ieri mattina, in cui si ripescavano i corpi senza vita dei 39 migranti subsahariani, al largo delle coste tunisine. Sulle due imbarcazioni partite dal porto di Sfax, in direzione Lampedusa, a salvarsi sono stati in 165, secondo la Guardia costiera. Sarebbe l’ennesima dimostrazione di quanto le politiche migratorie attuali siano inadeguate e colpevoli delle continue tragedie del mare, stando al nuovo rapporto del Consiglio. Sono più di 2.600 i morti nel periodo considerato dalla ricerca, che ha un titolo disperato e allarmante: “A distress call for human rights”, ovvero “S.o.s. per i diritti umani”. Il primo monito. Già due anni fa Mijatovic aveva lanciato un primo monito: “L’approccio degli Stati europei alla migrazione nel Mar Mediterraneo si è concentrato eccessivamente nell’impedire a rifugiati e migranti di raggiungere le coste europee e troppo poco sugli aspetti umanitari, sul rispetto dei diritti”. Ne era seguita una lista di 35 raccomandazioni articolate in cinque aree: dal coordinamento di ricerca e soccorso alla garanzia di sbarchi sicuri e tempestivi, dalla cooperazione con le Ong alla vigilanza sugli abusi nei paesi terzi e, ovviamente, la predisposizione di vie legali di ingresso in Europa. Oltre 20mila respinti in Libia. Con questo aggiornamento arriva la conferma che la situazione non è affatto cambiata, anzi è destinata solo a peggiorare se non si inverte subito la rotta. Complice è l’indifferenza generale verso i migranti, data l’emergenza Covid19 e la decisione di alcuni Paesi, come l’Italia e Malta, di tenere a lungo i mezzi di soccorso fermi in porto. Eppure - dice il rapporto - nonostante la pandemia avremmo tutti gli strumenti per fermare i naufragi. A mancare, inutile dirlo, è la volontà politica. Basti guardare a quanto avviene sulla rotta del Mediterraneo centrale, con il ricorso ormai continuo alla Guardia costiera libica. Si contano oltre 20mila persone intercettate e riportate indietro tra 2019 e 2020, persone esposte ai peggiori abusi e alle violenze note di quelle carceri. Sostegno alle Ong e solidarietà. Per questo motivo la Commissaria rinnova una serie di richieste ancora più specifiche agli Stati membri del Consiglio d’Europa. Innanzitutto urge il potenziamento delle operazioni di soccorso in mare con la supervisione statale e con una reale rapidità di intervento, prima condizione per evitare altre stragi. È indispensabile, a questo proposito, sostenere e non più criminalizzare le Ong impegnate nel soccorso e nel monitoraggio dei diritti umani. D’altra parte sembra che non stia servendo a molto l’operazione militare Irini, lanciata a metà 2020 per controllare l’embargo Onu sulle armi in Libia e per contrastare il traffico di esseri umani. Uno dei punti più dolenti toccati dal rapporto è la redistribuzione dei rifugiati tra i Paesi dell’Unione. È passato un anno e mezzo dalla “Dichiarazione di Malta”, l’accordo sottoscritto da Italia, Malta, Francia e Germania ma ci si rende conto solo oggi degli scarsi risultati in termini di collaborazione e ricollocamento. È opinione diffusa che quel documento sia stato vago e contraddittorio, che solo una profonda riforma del trattato di Dublino possa davvero portare a una redistribuzione dei richiedenti asilo solidale, equa. No alla Libia, sì ai corridoi umanitari. Riguardo ai respingimenti, la Commissaria torna a chiedere che migranti e rifugiati siano portati in aree sicure, al riparo da ulteriori violenze, e la Libia non lo è di certo. Per questo motivo critica apertamente il rinnovo del finanziamento alla Guardia costiera libica come parte dell’operazione Irini e in generale mette in discussione il Trust Fund europeo per l’Africa, che non prevede misure adeguate di protezione nei Paesi di transito. Infine, vanno aperti quanto prima canali d’ingresso legali, a cominciare da chi ha diritto a una forma di tutela. Mijatovic plaude ai corridoi umanitari avviati dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Caritas Italiana, dalla Chiesa Evangelica e dalla Tavola Valdese, che hanno assicurato il passaggio a oltre tremila persone verso Italia, Belgio, Francia e Andorra. Si tratta però di iniziative private e limitate nei numeri. A mancare, di nuovo, è il ruolo attivo e risolutivo dei governi. Migranti. Volevate fare della Libia un “porto sicuro”? Lo sta facendo Erdogan di Luca Gambardella Il Foglio, 11 marzo 2021 Ieri la Libia ha compiuto un passo significativo verso l’insediamento di un governo di unità nazionale. Il Parlamento si è riunito a Sirte - città dall’alto significato simbolico perché è qui che si sono attestati gli schieramenti in guerra al momento del cessate il fuoco dello scorso ottobre - e ha votato la fiducia all’esecutivo del premier ad interim Abdulhamid Dbeibeh. “Con questo voto è chiaro che i libici sono una cosa sola”, ha detto il nuovo primo ministro. E Fayez al Serraj, premier del governo di unità nazionale di Tripoli sostenuto dall’Italia, ha dato disponibilità a farsi da parte per una transizione pacifica. Il voto di ieri è stato celebrato come un successo dalla comunità internazionale, perché è un passaggio cruciale del processo di Berlino, avviato un anno fa fra molte perplessità e che dovrebbe culminare con le elezioni a ridosso di dicembre. Il cammino è ancora lungo e il nuovo governo ad interim è già nato zoppo, con facce nuove su cui però pendono vecchie accuse, prima fra tutte quella della corruzione. E poi ci sono le forze esterne - Russia, Turchia, Emirati Arabi Uniti- convitate di pietra ai colloqui di pace di Ginevra in questi mesi e artefici della frammentazione sul campo. Le Nazioni Unite e l’Ue inseguono da tempo la prospettiva - da molti considerata utopica - di poter parlare in Libia con un unico interlocutore. “Il clima qui è cambiato - ci dice una fonte diplomatica a Tripoli- e la fiducia al nuovo governo è un aspetto molto importante, che non era scontato”. Uno dei dossier su cui di recente le cancellerie occidentali hanno riscontrato delle novità sorprendenti è quello dell’immigrazione. Tre giorni fa, una della miriade di milizie libiche, quella che appartiene alla 444esima brigata, ha assaltato uno dei tanti centri di detenzione dei migranti di Bani Walid, 150 chilometri a sud di Tripoli, e ha liberato una settantina di persone. Breve premessa. Bani Walid è retta dalla tribù dei Warfalla ed è un punto di transito delle rotte dei trafficanti di uomini. Di fatto è terra di nessuno, contesa dalle milizie e sorvegliata dai mercenari russi. È qui che si sviluppa parte del business del traffico di essere umani. I carcerieri registrano dei video che mostrano le sevizie cui sono sottoposti i migranti, poi inviano i filmati ai parenti delle vittime e chiedono denaro in cambio della liberazione dei loro cari. Tornando al raid della 444esima brigata di qualche giorno fa, si è trattato di un’operazione diversa da quelle compiute finora: il loro “ufficio stampa” ha condiviso un filmato che mostra il film dell’incursione, con tanto di telecamere GoPro che mostravano l’incursione in soggettiva, stile videogiochi di guerra, e usando un drone che riprendeva dall’alto la liberazione dei migranti e la cattura dei trafficanti. Un effetto scenico curato nei minimi dettagli, del tutto nuovo per queste operazioni anti trafficanti. Qualcuno pensa che si tratti di un modo per convincere l’occidente che nella “nuova Libia” l’immigrazione è una priorità. Per Jalel Harchaoui, ricercatore del think tank Global Initiative ed esperto di Libia, le cose stanno diversamente: “Siamo nel 2021, non nel 2017. I libici non hanno più bisogno di mandare messaggi all’occidente. Si tratta solo di operazioni per mettere in sicurezza il territorio”. Per farlo, queste milizie si stanno via via emancipando dalle forze occidentali e la storia della 444esima brigata è emblematica perché spiega bene come stanno cambiando le cose sul terreno. “Prima si chiamava Unità 20-20, un corpo d’élite appartenente alla Radaa, le forze speciali di deterrenza. Sono comandati da Mahmoud Hamza, una testa calda di orientamento salafita. Dipendeva direttamente dal ministro dell’Interno Fathi Bashagha. Poi, a giugno 2019, si è fatta notare per avere respinto brillantemente l’avanzata di Haftar a Tarhuna. Così ha cambiato nome e ora dipende dal ministero della Difesa guidato da Ali Namroush, molto più filoturco rispetto a Bashagha”. Secondo Harchahoui, da allora la brigata ha assistito a una metamorfosi: “I turchi sono stati molto furbi e l’hanno individuata come unità da sostenere, addestrare, armare. Ora è molto più numerosa”. In rete girano le foto di militari turchi che addestrano questa forza speciale durante esercitazioni di tiro, mirando alle sagome di Haftar e del leader di al Qaida Ayman al Zawahiri. Per non parlare delle armi in dotazione: fucili d’assalto MPT- 55 e di precisione JNG-90, entrambi forniti proprio dai turchi. Se la più efficiente brigata libica dipende dai turchi - che da tempo addestrano anche la Guardia costiera a pilotare le motovedette italiane - allora le operazioni anti trafficanti come quella di Bani Walid assumono un sapore agrodolce per l’Europa e per l’Italia in particolare. Estirpare le reti criminali che gestiscono i flussi migratori e i centri di detenzione dei migranti è una precondizione indispensabile per rendere la Libia “porto sicuro” e legittimare, anche legalmente, quelli che oggi sono invece dei respingimenti illegali. Ma se questo avviene con la firma di Erdogan, scalzandoci dal paese, è segno che qualcosa nella strategia italiana è andato storto.