La giustizia penale non è vendetta, ma speranza di Simona Musco Il Dubbio, 10 marzo 2021 Marta Cartabia interviene così al XIV Congresso delle Nazioni Unite su Prevenzione del crimine e giustizia penale che si è aperto a Kyoto, in Giappone. La ministra della Giustizia ha definito fondamentale, per prevenire i crimini, che il trattamento dei detenuti in carcere sia improntato sull’idea della giustizia come riconciliazione. Puntare solo sulla repressione, sulla separazione tra detenuti e società, dunque, non serve. Anzi, rischia di essere dannoso e controproducente. È necessario, dunque, puntare sulla “attività riabilitativa necessaria al loro reinserimento nella società”. E ciò facendo in modo che tra le mura degli istituti penitenziari siano garantiti i diritti, il pieno rispetto della persona, con azioni tese a far tornare l’autore del reato pienamente alla vita sociale. “Il tempo trascorso in detenzione non è un momento di mera attesa - ha evidenziato Cartabia -, ma deve essere un momento di cambiamento, finalizzato al reinserimento sociale dell’autore del reato”. Un’esigenza che è stata accolta dalla comunità internazionale e dalla stessa Commissione delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e giustizia penale, che il 22 maggio 2015 ha adottato gli standard minimi di tutela in materia di trattamento penitenziario dei detenuti, le Mandela Rules, in onore dell’ex Presidente del Sud Africa, Nelson Mandela. Standard validi anche per l’Italia, nell’ottica di una giustizia impegnata a garantire i principi sanciti dalla Costituzione, in particolare dall’articolo 27, che al paragrafo 3 sottolinea come la punizione non debba essere disumana. La regola numero 1 le riassume tutte: “Tutti i prigionieri devono essere trattati con il rispetto dovuto alla loro intrinseca dignità e valore come esseri umani. Nessun prigioniero deve essere sottoposto e tutti i prigionieri devono essere protetti dalla tortura e da altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti, per i quali nessuna circostanza può essere invocata come giustificazione. La sicurezza e l’incolumità dei detenuti, del personale, dei fornitori di servizi e dei visitatori devono essere garantite in ogni momento”. Mai vendetta, dunque, ma speranza per i condannati e speranza per la società. Cartabia ha dunque evidenziato le possibilità date dal lavoro in carcere, le forme di trattamento individualizzato, l’importanza dei corsi di istruzione e formazione volti a sviluppare le competenze dei detenuti per raggiungere l’obiettivo di una significativa riduzione del tasso di recidività. Ma soprattutto ha elogiato la giustizia riparativa: “Si può fare di meglio concentrandosi su modelli di giustizia penale basati sulla mediazione, sulla conciliazione e la riparazione e quindi promuovere il superamento del conflitto riunendo l’autore del reato, la vittima del crimine e la comunità”. Un’idea condivisa anche da Monsignor Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti del Vaticano con gli Stati, secondo cui “prevenire e rispondere alle attività criminali è strettamente correlato al rispetto e alla protezione dei diritti umani universali, sia a livello nazionale che internazionale”. “La Santa Sede è fermamente convinta che lo Stato di diritto, la prevenzione del crimine e la giustizia penale debbano andare di pari passo”, ha evidenziato il presule. Non basta reprimere per prevenire i reati, serve, invece, il “rispetto” e la “protezione dei diritti umani universali, sia a livello nazionale che internazionale”. Il crimine si alimenta con le disuguaglianze, ma la vera giustizia, ha detto citando Papa Francesco, “non si accontenta di castigare semplicemente il colpevole. Bisogna andare oltre e fare il possibile per correggere, migliorare ed educare l’uomo”. I principi fondamentali che il diritto penale deve seguire, secondo Gallagher, sono quindi due: “il principio di precauzione, per evitare qualsiasi invasione dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo”, e “il principio pro homine, volto a proteggere sempre la dignità della persona umana”. Le autorità, di fronte ad un crimine, dovranno dunque applicare la norma più favorevole all’individuo o alla comunità. “Solo osservando entrambi questi principi - ha sottolineato - sarà possibile raggiungere una giustizia penale veramente riparatrice”. Un anno fa le rivolte carcerarie in cui persero la vita 13 detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 marzo 2021 La psicosi del Covid e gli errori di comunicazione del ministero alla base della tragedia. Rivolte in decine carceri con 13 detenuti morti, 40 agenti feriti e presunti pestaggi come rappresaglia verso i rivoltosi. Sembra ieri, ma è passato un anno dagli eventi avvenuti tra il 7 e l’11 marzo del 2020. Fatti senza precedenti nella storia repubblicana che l’allora ministro della giustizia Bonafede aveva tentato, almeno inizialmente, di minimizzare. Nelle rivolte che a partire dal 1969 interessano molti istituti penitenziari, i detenuti portano avanti un movimento inedito che assume connotati politici. Il carcere viene individuato come luogo dove le contraddizioni sociali mostrano la loro faccia più spietata: dentro ci sono i marginali, l’esercito di riserva, i non attivi o attivi occasionalmente nel processo produttivo. L’essenza classista del carcere viene messa a nudo, la critica è al ruolo neutrale della giustizia. La mobilitazione operaia e studentesca porta dentro i primi “politici”, che, forti di una base teorica e dell’esperienza di lotta nelle piazze e nelle fabbriche, favoriscono la formazione ideologica dei “comuni” che iniziano ad acquisire coscienza rivoluzionaria. A volte i militanti entrano solo per qualche giorno, ma basta poco per rendersi conto dell’assurdità di quel mondo, delle atrocità che vi si perpetuano. La portata rivoluzionaria di quello che sta avvenendo in quell’inedita mobilitazione viene ben compresa dall’alto. Infatti il dibattito parlamentare in tempi relativamente brevi porta all’approvazione della riforma che giace in cantiere da anni: il Codice Rocco, codice fascista, è riformato con la Legge Reale nel 1975 e successivamente con la Gozzini del 1986. Le rivolte dell’anno scorso, invece, non hanno alcun contenuto ideologico, ma sono scaturite da un malessere che covava da tempo. La pandemia ha accelerato il processo di sofferenza. Sezioni devastate dagli incendi, evasioni di massa, decessi di detenuti, familiari e solidali fuori dalle mura delle carceri che bloccavano il traffico. Tutto è partito dalla notizia ufficiale dello stop dei colloqui con i familiari per far fronte all’emergenza coronavirus, ma anche dalla paura di un contagio di massa tra detenuti vi- sto la fragilità del sistema sanitario dei penitenziari e del grave sovraffollamento. Qualcosa non ha funzionato nella comunicazione per la gestione dell’epidemia in carcere. Prima il temporeggiare, poi la comunicazione ambigua e infine la contraddizione dei decreti dove prima si intravvedeva una apertura per le misure alternative come la detenzione domiciliare e poi la sua chiusura. Se la psicosi attraversa la società libera, all’interno delle carceri tutto si è amplificato a dismisura. Nessuna “regia occulta” dietro le rivolte, ma solo un sistema penitenziario sempre più fragile. Non a caso le rivolte si sono trasformate anche in un assalto alle infermerie e quindi ai medicinali e al metadone. È reato chiedere una commissione d’inchiesta sulla strage nelle carceri? di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 10 marzo 2021 La richiesta del Garante dei detenuti Samuele Ciambriello. Tre giorni terribili quasi un anno fa nelle carceri italiane. Molta approssimazione, poca preventiva informazione portarono a proteste, anche non pacifiche dei detenuti. Tra il 7 e il 9 marzo scoppiarono le rivolte in ventisette carceri italiane, tra cui Salerno, Carinola, Poggioreale. Tre giorni drammatici, che provocarono tredici morti, per overdose da farmaci prelevati dai detenuti nelle infermerie. Nemmeno il beneficio del dubbio che non volevano suicidarsi, visto che alcuni sarebbero usciti dopo un mese o alcuni mesi. Erano le prime settimane della pandemia e il Covid-19 fu proprio la motivazione di quelle gravi proteste. “È reato chiedere una commissione d’inchiesta sulla strage? È lecito chiedere giustizia e verità per tutti i morti in carcere e di carcere al tempo del Coronavirus? Oggi in Campania abbiamo registrato due suicidi, un ragazzo di sedici anni in una comunità e un detenuto a Santa Maria Capua Vetere, entrato da pochi giorni. Giustizia e verità. É lecito chiedersi perché, o qualcuno potrebbe offendersi, o definire questa domanda di giustizia una lesa maestà nei confronti di chi invoca sicurezza. Io vi confesso che mi sento amareggiato per queste morti e un po’ colpevole”. L’affettività dei detenuti. Applicare la Costituzione, una scelta di civiltà di Denise Amerini sinistrasindacale.it, 10 marzo 2021 Un webinar della Cgil a sostegno del disegno di legge dei Garanti per la tutela delle relazioni affettive intime delle persone detenute. In tempi di giustizialismo imperante, parlare di affettività in carcere rischia di apparire quantomeno velleitario: a nessuno sfugge lo stato in cui versano le carceri, anche dal punto di vista organizzativo e strutturale, i problemi legati al sovraffollamento, alle carenze di personale. È argomento che si presta a facili ironie da parte dei paladini della ‘giustizia giusta’, della certezza della pena. Ma è tema che, per umanità e civiltà, non può essere banalizzato e sottovalutato. La dimensione affettiva è parte integrante del rispetto della dignità della persona, i legami affettivi e familiari sono un parametro su cui modellare il processo di individualizzazione del trattamento penale, a prescindere da ogni valutazione premiale. Invece, ancora oggi, l’unica possibilità per le persone ristrette di vivere l’affettività è data dalla concessione del permesso premio che è uno strumento residuale, che può essere concesso solo se sussistono determinati requisiti soggettivi e oggettivi. Ma, come sostiene Davide Galliani, il diritto alla sessualità è da riconoscersi in sé e per sé, come posizione soggettiva costituzionalmente riconosciuta, e non all’interno di una logica premiale. Il Parlamento europeo, già nel 2004, annovera fra i diritti da riconoscersi ai detenuti quello “ad una vita affettiva e sessuale, attraverso la predisposizione di misure e luoghi appositi”. La Convenzione Europea dei Diritti Umani (Cedu), oltre a vietare ogni trattamento inumano e degradante, all’articolo 8 tutela il rispetto della vita privata e familiare, di cui affettività e sessualità sono aspetti imprescindibili. La forzata privazione affettiva e sessuale nega il principio costituzionale per cui la pena deve essere umana e rieducativa, perché non lo è nella misura in cui non concede spazio alle relazioni affettive, e provoca danni all’integrità psicofisica dell’individuo. La prigione è ancora oggi una pena fisica, pur in assenza di procurate sofferenze, ed ha marcato carattere afflittivo nella misura in cui il detenuto è tutelato nei bisogni primari (ammesso che lo sia) ma privato di stimoli emotivi. Le relazioni familiari e affettive sono fondamentali ai fini dell’effettivo reinserimento sociale. E le necessità affettive sono espressione del più ampio diritto alla salute. È patogeno il carcere che non garantisce spazi di vita umani, attività quotidiane, possibilità di mantenere rapporti il più possibile normali e continuativi con coloro che sono fuori. Il non aver mai normato compiutamente in merito all’affettività in carcere rappresenta la negazione di un diritto, mentre il binomio “affettività/carcere” parla di affettività e sessualità come di un diritto e un determinante di salute. Fuori dall’Italia, i momenti di vera affettività per le persone ristrette sono considerati “giusti”: numerosi Paesi europei, e nel mondo, regolamentano la materia, prevedendo la possibilità di usufruire di appositi spazi all’interno dei quali, sottratti al controllo audiovisivo del personale di custodia, il detenuto può trascorrere diverse ore in compagnia dei propri affetti. In Italia, dal 1996 ad oggi, sono stati presentati in Parlamento numerosi disegni di legge, anche la Corte Costituzionale ha invocato un intervento legislativo. Il 19 febbraio scorso la Cgil ha organizzato un webinar per parlare di tutto questo, presentare e sostenere il Ddl 1876 (modifiche alla legge 354 in materia di tutela delle relazioni affettive intime delle persone detenute), il cui testo è stato elaborato dalla Conferenza nazionale dei Garanti, assegnato alla commissione Giustizia del Senato a settembre dello scorso anno. Questo si compone di quattro articoli, agisce perché l’affettività venga considerata in un’accezione compiuta, lasciando spazio ad una definizione allargata dei rapporti affettivi, oltre i confini della famiglia intesa in senso tradizionale. Amplia i permessi: non più eventi familiari di particolare gravità ma di particolare rilevanza. Prevede che le visite, una volta al mese, possano svolgersi in apposite unità abitative, senza controlli visivi e uditivi, abbiano una durata minima di 6 ore e massima di 24. Interviene sulla durata e sulla frequenza dei colloqui telefonici, rendendoli quotidiani e della durata di 20 minuti. È un atto di civiltà, che nasce dall’esigenza di dare uno sbocco normativo al riconoscimento del diritto soggettivo all’affettività e alla sessualità delle persone ristrette, per un carcere vivibile in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre la perdita di libertà. In cui la Costituzione e i diritti delle persone siano rispettati. Il diritto all’affettività non può essere cancellato dalle Faq camerepenali.it, 10 marzo 2021 L’Osservatorio carcere Ucpi interviene sui divieti imposti ai familiari dei detenuti nell’esercizio del diritto di visita. Un anno di convivenza con questo “maledetto” virus è passato ed il carcere resta uno dei settori tra i più colpiti. La “congiura del silenzio” ed il regime della disinformazione impongono - contro obblighi morali e normativi - di rivolgere altrove ogni più opportuna attenzione pubblica. Al sovraffollamento cronico, alle deficienze della sanità penitenziaria, alla cancellazione della già esigua attività trattamentale si è aggiunta, da subito, l’affievolimento dei rapporti tra i detenuti e i loro familiari. Le visite ai detenuti, parte insopprimibile di un più ampio diritto fondamentale all’affettività, hanno rappresentato la spia più evidente della virulenza pandemica. È proprio sulla improvvisa chiusura di ogni contatto tra i detenuti ed il mondo esterno al carcere, primo fra tutti i familiari - avvenuta, senza alcuna forma preventiva di dialogo e comunicazione, una domenica di marzo dello scorso anno - che si è innestata una delle più violente, per quanto esecrabile, rivolta penitenziaria degli ultimi decenni. Al di là di leggende metropolitane buone a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalla vera emergenza carceraria, sappiamo bene che quelle rivolte, in cui ben 13 detenuti, seppure in differenti istituti, hanno trovato la morte improvvisa e contemporanea, sono state determinate, innanzitutto, dalla interruzione improvvisa e rigorosa di ogni contatto e visita, soprattutto dei familiari. Proprio per porre adeguato rimedio alle severe ed indiscriminate cancellazioni dei contatti tra familiari e detenuti, si è cercato, quindi, di allargare l’ambito dei colloqui a distanza, attraverso le più opportune tecnologie. Superata l’improvvisa ondata del virus, si sono consentiti nuovamente, almeno in parte, i colloqui in presenza anche se, responsabilmente, si è cercato di sollecitare l’uso dei colloqui in video per contrastare la pandemia in essere. Da alcune settimane, però, ci giungono notizie di situazioni paradossali ed incresciose che incidono pesantemente sul nucleo centrale del fondamentale diritto all’affettività dei detenuti, appunto i colloqui con i familiari. Ci vengono segnalati casi, in diverse regioni, di coniugi e figli cui, dopo aver prenotato il colloquio in presenza con il proprio congiunto, viene prospettata una singolare alternativa: effettuare il colloquio prenotato ed essere segnalati alla Prefettura competente alla irrogazione della sanzione per la violazione della normativa di contenimento ovvero rinunziare al colloquio stesso, evitando, così, la segnalazione per la sanzione. Un metodo davvero singolare! Addirittura, il provveditorato regionale per il Veneto - Friuli Venezia Giulia - Trentino Alto Adige, con nota 40935 del 20/11/2020, ha raccomandato ai direttori degli istituti penitenziari del distretto interregionale di “non dare corso alla richiesta di prenotazione del colloquio” per i familiari di detenuti provenienti da regioni contrassegnate dal colore rosso o arancione, essendo fortemente limitate e/o vietati gli spostamenti della popolazione civile, richiamando, a tal fine, quanto sul punto riportato nelle Faq pubblicate sul sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Francamente risulta davvero paradossale che un’indicazione pubblicata su un sito web possa costituire norma positiva in grado di escludere la visita al congiunto detenuto dai casi di cd “necessità”, previsti dal D.L. 19/2020, convertito in L. 35/2020, che giustificano gli spostamenti tra regioni o tra comuni della stessa regione. Se è vero che la stessa legge prevede, al comma 10 dell’art. 221, la possibilità dei colloqui a distanza, nessun diniego a quelli de visu può essere imposto con comunicazione interna all’amministrazione penitenziaria, men che meno con le c.d. Frequently Asked Questions specie laddove, queste ultime, considerano come spostamenti consentiti, dettati dalla situazione di necessità, le visite, seppure su regioni diverse, tra genitori separati e figli. Insomma, siamo in presenza di un’inammissibile discriminazione perpetrata attraverso una prassi extra ordinem, nonché imposta con la prospettazione di un male possibile, ovvero il rischio di essere segnalati al Prefetto competente per l’applicazione delle sanzioni. Ci auguriamo che il nuovo Ministro della Giustizia ed il Dap pongano rimedio alla situazione da noi denunziata, inibendo, a tutti i livelli, prassi adottate in spregio al sistema costituzionale ed in grado di violare il diritto fondamentale all’affettività dei detenuti. L’Osservatorio Carcere Ucpi La doppia reclusione delle persone transessuali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 marzo 2021 “Nelle carceri italiane le persone trans detenute sono trattate ancora come un fenomeno clandestino, di fronte a cui il Dap non è riuscito a fornire risposte univoche”. Queste le parole del garante campano delle persone private della libertà Samuele Ciambriello, dopo aver visitato le detenute trans ristrette nel piano terra del reparto “Roma” del carcere di Poggioreale. Il Garante denuncia le forme di segregazione nei reparti precauzionali, insieme a sex offenders, collaboratori di giustizia o ex appartenenti delle Forze dell’ordine, con cui non condividono vissuto e bisogni. Solo nelle carceri di Napoli, Roma, Belluno, Firenze e Rimini sono previste sezioni dedicate alle persone transessuali detenute e solo nel carcere di Rimini queste sono sotto la vigilanza di personale femminile. “Le condizioni critiche della detenzione - spiega il garante - sono esasperate dalla separazione cui tali persone sono sottoposte, non potendo partecipare ai percorsi trattamentali e alle attività rieducative previste dagli istituti. Da ciò consegue un disagio di tipo psichico, dovuto anche alla mancanza di relazioni familiari esterne, oltre che fisico per l’impossibilità di rivolgersi a medici specializzati”. Infine lancia un allarme: “Nelle persone trans diviene ancora più impossibile declinare qualsiasi forma di affettività e sessualità. È una forte discriminazione, che viola il principio di uguaglianza previsto dalla Costituzione, oltre che l’imprescindibile obbligo rieducativo previsto dall’articolo 27. Occorre far di più, per evitare una doppia reclusione. Non per il futuro prossimo, ma per il nostro sobbollente presente”. Attualmente, secondo gli ultimi dati forniti dal Dap, risultano 58 persone transessuali detenute nelle nostro patrie galere. Fu a partire dagli anni 80, con il riconoscimento giuridico della persona transessuale e del diritto all’identità sessuale, che il penitenziario si trovò a fronteggiare una situazione “nuova”. Ciò nonostante si assistette per quasi un ventennio ad una sostanziale indifferenza del legislatore per una disciplina normativa idonea a regolamentare l’identificazione e l’assegnazione dei reclusi transessuali, silenzio che confermava la sua predilezione verso la differenziazione binaria dello spazio sociale in relazione al sesso. Solo nei primi anni del XXI secolo, a fronte della reiterata inerzia legislativa nel rispondere alle esigenze di tutela avanzate dai detenuti in argomento, si svilupparono prassi che tennero conto della specificità della condizione transessuale nel contesto carcerario: in particolare, vennero disposte all’interno di alcuni istituti penitenziari dei “circuiti riservati” con lo specifico scopo di garantire, come recita il Dpr 230/2000, art. 32 comma 3, “la collocazione più idonea per quei reclusi ed internati che per motivi oggettivamente esistenti ancorché talora connessi alle loro caratteristiche soggettive potevano temere aggressioni e sopraffazioni da parte dei compagni (ad esempio, perché transessuali)”. Dalla Relazione al Parlamento del 2018, il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, ha affermato come “sia più congruo ospitare tali sezioni specifiche in Istituti femminili, dando maggior rilevanza al genere, in quanto vissuto soggettivo, piuttosto che alla contingente situazione anatomica”. Lo stesso, nel 2017, aveva valutato “con soddisfazione la stesura di un decreto del ministro che, almeno in via sperimentale, andava in questa direzione e ridefiniva le sezioni destinare alle persone transessuali. Purtroppo il decreto non è stato più emanato e il tema sembra sparito dall’agenda delle urgenze. Per questo raccomanda che sia almeno riaperta la discussione, anche al fine di considerare le perplessità che possano aver frenato il percorso”. Vale la pena ricordare che la maggior parte della popolazione transessuale nei penitenziari proviene dal Sud America (Argentina, Brasile, Colombia, Perù), mentre la parte restante principalmente dal Sud Italia. Sono persone che si trovano in carcere quasi sempre per prostituzione, spaccio di droga e/ o reati contro il patrimonio, commessi a causa della discriminazione messa in atto dalle famiglie e dalla società, che portano all’isolamento sociale e al bisogno di reperire denaro necessario al proprio sostentamento. Dal Recovery Plan a più investimenti per le carceri: Cartabia traccia la road map di Liana Milella La Repubblica, 10 marzo 2021 Primo vertice in via Arenula per la Guardasigilli: “Stop alle divisioni perché l’intransigenza finisce in tragedia”. No alle fughe in avanti, ma migliorare le riforme dell’ex ministro Bonafede. Via ai concorsi per avvocati e magistrati. Dai partiti: “Coinvolgere subito il Parlamento”. “La giustizia è stata da sempre un tema divisivo. Non solo con il governo Conte uno e con il Conte due. Le più grandi rotture si sono consumate sulla giustizia. Ho imparato la lezione dalle tragedie dell’Antigone e delle Eumenidi: quando l’affermazione di principi pur giusti arriva alle forme dell’intransigenza, lì finisce in una tragedia per tutti”. Esordisce così Marta Cartabia nel primo vertice sulla giustizia in via Arenula. Per fissare una “road map” e stabilire un “metodo”. Parte da qui il suo invito ai partner della maggioranza a superare le questioni di principio e di bandiera rispetto alle singole battaglie, andare oltre l’intransigenza, oltre le questioni ideologiche e di principio, che alla fine rischiano solo di bloccare il compromesso necessario per tutti. Per questo, ai partiti, Cartabia rivolge un esplicito invito: “Veniamoci incontro tutti perché dobbiamo avere la disponibilità e l’umiltà per comprendere le ragioni dell’altro”. Partire dal “metodo”. È questo il senso della riunione. Senza strappi tra il passato di Bonafede e il presente di Cartabia. Perché - come dice la Guardasigilli nel primo vertice in via Arenula con i protagonisti delle leggi sulla giustizia di Camera e Senato - la maggioranza precedente è dentro la nuova. Quindi sì alle novità, ma senza rotture, né strappi con il passato. A partire, immediatamente, dal Recovery plan dove la ministra vuole aumentare gli investimenti sul personale e sulla digitalizzazione, ma darne anche altri all’edilizia carceraria, vantando il lavoro della commissione Zevi sull’edilizia penitenziaria, un’invenzione dell’ex sottosegretario Pd alla Giustizia Andrea Giorgis. E le riforme di Bonafede sul civile e sul penale, nonché sulla prescrizione e sul Csm? Su quelle Cartabia chiede tempo. Da qui a fine aprile. Per far partire al ministero gruppi di lavoro di tecnici che lavoreranno agli emendamenti. Ce ne saranno quattro, sul processo civile, su quello penale, sull’ordinamento giudiziario e il Csm, e in collaborazione con il Mef anche uno sulla gestione dell’arretrato tributario in Cassazione. Dai partiti - i Pd del Senato Franco Mirabelli e della Camera Alfredo Bazoli - le arriva la richiesta di coinvolgere subito anche il Parlamento, per lavorare insieme alle forze politiche e raggiungere subito un risultato condiviso. L’obiettivo di Cartabia, sui tempi, è di chiudere poi entro l’estate. Il suo metodo passa e anche M5S, con il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni, è d’accordo. Insomma, si cambia, ma nella continuità. E la prescrizione? Enrico Costa di Azione chiede di modificarla prima di affrontare il processo penale, come vorrebbero anche Lucia Annibali di Italia viva e Pierantonio Zanettin di Forza Italia, ma Cartabia insiste sulla sua formula, la prescrizione fa parte del processo penale, e con questo va trattata. Nel suo insieme, senza strappi, né premesse e impuntature ideologiche. Dura tre ore l’incontro tra la ministra della Giustizia, Federico D’Incà per i Rapporti col Parlamento (che invita all’unità e a far cadere gli steccati ideologici), i presidenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, tutti i capigruppo. Una carrellata sui dossier aperti, a partire dal Recovery, ma soprattutto sul “metodo” che sarà seguito per aggiornarli e migliorarli. Alla fine non si registrano screzi. Addirittura un ormai ex falco come il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, avvocato di Berlusconi ed ex responsabile Giustizia di Forza Italia, fa un appello “all’unità e al lavoro comune”. Come sanno tutti la Guardasigilli ama la montagna. E utilizza questa metafora per dire che “chi sale in vetta fa gli ultimi 200 metri da solo, ma prima serve la collaborazione di tutti”. Questo vale per il giudice che porta avanti il suo processo, ma va anche per la politica e per chi fa le riforme. Sul tavolo della ministra il primo dossier aperto è quello del Recovery plan, i 2,7 miliardi di euro da spendere per la giustizia. Partendo dal piano di Bonafede, Cartabia sta lavorando per garantire più fondi alla digitalizzazione e all’edilizia carceraria, ma anche all’ufficio del processo lanciato dal ministro di M5S di cui elogia la struttura e i dettagli. Tant’è che parla di “un enorme lavoro già fatto” e usa la metafora della montagna, perché per accelerare i tempi serve una squadra, anche se poi “gli ultimi 200 metri per arrivare in vetta il giudice li fa da solo”. Spiega che i tempi del processo non possono essere ridotti solo con dei ritocchi ai codici, ma anche dal punto di vista organizzativo, recuperando le best practice. La prescrizione resta sempre il nodo più caldo per “nemici storici” come Enrico Costa di Azione. Ma la sua richiesta - “La prescrizione così com’è crea confusione togliamola di mezzo subito” - non viene condivisa da Cartabia che invece parla della riforma del processo penale nel suo complesso, con la necessaria connessione con il tema della prescrizione. È la linea che aveva già annunciato nel primo incontro a Montecitorio con l’ordine del giorno sul Mille-proroghe. La prescrizione sarà cambiata quando si definiranno le linee e soprattutto i tempi del processo. E proprio sui tempi Cartabia annuncia la sua intenzione di lavorare ai decreti attuativi delle leggi delega delle riforme del penale e del civile contemporaneamente all’analisi del Parlamento, in modo da chiudere poi rapidamente. Quanto al Csm, dice Cartabia, non ci si può permettere di perdere l’appuntamento con il prossimo voto per eleggere quello nuovo e questo lascia intendere che il capitolo della riforma della legge elettorale avrà una priorità, visto che si vota a settembre del 2022. Cartabia conferma che per i futuri avvocati ci saranno due prove, entrambe orali. La prima sostituirà l’esame scritto, reso impossibile dal Covid. Quanto alla magistratura onoraria il dossier sarà aperto non appena la Consulta si pronuncerà su un’ordinanza di un giudice di pace di Lanciano che chiede sostanzialmente di parificare le figure dei giudici onorari a quelli ordinari. Prescrizione, un lungo rinvio di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 10 marzo 2021 Primo vertice della nuova maggioranza in via Arenula. Cartabia non butta a mare i disegni di legge delega Bonafede ma su processo penale, civile e Csm avoca ai suoi tecnici la preparazione degli emendamenti correttivi. Ansia dei partiti: non sia un lavoro calato dall’alto. Intanto la ministra dà la priorità alle misure da inserire nel Recovery plan e parla anche di carcere. Il “metodo Cartabia” regge anche alla seconda prova. Dopo il primo incontro con i delegatiti dei partiti nelle commissioni giustizia che servì a sminare l’ostacolo prescrizione, la ministra Guardasigilli ha riunito nuovamente i rappresentanti della vasta maggioranza ieri mattina, questa volta in via Arenula. Tavolo largo, anche con i sottosegretari e i presidenti delle commissioni, esito positivo anche perché del merito delle questioni si è parlato pochissimo. Avanti il metodo, appunto: dialogo, confronto e rispetto del parlamento. Le promesse sono state benaugurati. Ma sul tema più delicato, quello della riforma del processo penale, che comprende anche la prescrizione, Marta Cartabia ha chiesto tempo. Molto tempo, visto che ha annunciato la presentazione di emendamenti del governo per la fine di aprile. Nel frattempo la camera, e il senato dov’è in discussione la riforma del processo civile, si fermano e aspettano. La ex maggioranza giallo-rossa, renziani ovviamente esclusi, ha incassato il fatto che i disegni di legge Bonafede - ce n’è un terzo, di riforma del Csm - non saranno buttati a mare. Anzi la ministra ha espresso l’auspicio che possano essere approvati entro l’estate. Anche perché si tratta di disegni di legge delega e dunque la maggioranza delle riforme avrà bisogno poi di essere portata a compimento con i decreti legislativi. Forza Italia, la Lega, Italia viva e Azione +Europa (che con la sponda esterna di Fratelli d’Italia potrebbero su molti temi della giustizia costituire una maggioranza alternativa) hanno portato a casa l’impegno per cambiamenti profondi. “Sui testi di Bonafede noi conserviamo tutte le perplessità”, dice al termine Lucia Annibali, responsabile giustizia del partito di Renzi. E dietro le generali lodi alle doti di ascolto della ministra si nasconde la preoccupazione dei partiti per la decisione di Cartabia di costituire tre “gruppi di lavoro” - “non chiamiamole commissioni” - che studieranno gli emendamenti che dovranno segnare la discontinuità tra il Conte 2 e il governo Draghi in tema di giustizia. Gruppi tecnici, composti dai consiglieri della ministra, “sarà una squadra ristretta ma saranno ascoltati tutte le parti in causa”, spiegano in via Arenula. Quindi certamente saranno interpellati magistrati e avvocati. Un lavoro non breve che alla fine “non deve essere calato dall’alto”, aggiunge Annibali. “È bene che i tecnici si interfaccino con i relatori dei disegni di legge e con i gruppi parlamentari altrimenti si rischia di innescare un’attività emendativa fuori controllo”, dice il capogruppo del Pd in commissione alla camera, Alfredo Bazoli. Sulla prescrizione, ad esempio, c’è chi spinge per conservare il compromesso raggiunto dai giallo-rossi un anno fa (semplificando: prescrizione cancellata dopo la sentenza di primo grado, ma rispristinata in caso di assoluzione in secondo), e sono Pd, M5S e Leu. E c’è chi punta ad abolire per intero la “riforma Bonafede”, come fanno Iv e il centrodestra. Ma tutti temono di vedersi sottratta la gestione della mediazione a vantaggio dei “tecnici” di via Arenula. E più di tutti lo teme il Pd che nel giro dei sottosegretari è rimasto completamente escluso dalla giustizia: sacrificato Giorgis, ora con Cartabia ci sono solo Fi (Sisto) e M5S (Macina). “Serve una camera di compensazione preventiva per evitare uno scontro tra il lavoro dei gruppi parlamentari e quello di questi tavoli tecnici”, avverte anche Federico Conte di Leu. Le caselle con i nomi dei componenti di questi gruppi - che saranno tre, processo penale, processo civile e Csm, possibile anche un quarto sulla giustizia tributaria - si stanno sistemando in queste ore. Intanto la ministra ha dichiarato che darà priorità agli interventi per la giustizia nel Recovery plan. Soprattutto due, in attesa delle riforme: la digitalizzazione, Cartabia ha detto che sta lavorando con il ministro Colao, e il finanziamento per far partire il più volte citato “ufficio per il processo” che dovrebbe abbreviare i tempi della giustizia. Nel vecchio piano si parlava dell’assunzione di 16mila addetti per questi uffici, con contratti a termine. Cartabia non ha dimenticato il tema carcere, facendo un accenno alla necessità di lavorare sull’esecuzione penale esterna e sulle misure alternative. E intanto ha annunciato la ripartenza della Commissione per l’edilizia penitenziaria, varata a gennaio ma mai veramente partita (la presiede l’architetto Luca Zevi). L’obiettivo è riuscire a inserire nel Recovery plan anche qualche progetto per rendere meno invivibili le carceri italiane. Cartabia ai partiti: intesa sulla prescrizione o la cambio io di Errico Novi Il Dubbio, 10 marzo 2021 Nel vertice di ieri Marta Cartabia ha indicato anche la road map per superare la prescrizione di Bonafede. La road map sulla giustizia esposta ieri dalla ministra nel vertice di via Arenula: “Termine per gli emendamenti al ddl penale rinviato di un mese, nel frattempo gruppi di studio formati da tecnici valuteranno d’intesa coi partiti le modifiche, che entro fine aprile andranno presentate”. In estate via libera in Parlamento anche alle riforme del civile e del Csm. Finora c’era un solo baluardo: la Costituzione. Al vertice di ieri mattina fra Marta Cartabia e i partiti si sono rimaterializzati due protagonisti: la magistratura e l’avvocatura. Ebbene sì, la chiave è anche questa: la guardasigilli che viene dalla Consulta ridarà la parola ai tecnici del diritto. Lo farà per poche settimane, con “gruppi di studio” agili, ai quali chiederà di rivedere le tre riforme di Alfonso Bonafede: penale, Csm (alla Camera) e civile (al Senato). Come chiesto da Alfredo Bazoli e Franco Mirabelli del Pd e da Federico Conte di Leu, i “tecnici” insediati al ministero (ma scelti all’esterno) dovranno essere in costante contatto con le commissioni Giustizia di Montecitorio e Palazzo Madama. Proprio nella sinergia fra esperti e Parlamento si dovrà individuare la correzione di rotta. Che non risparmierà la prescrizione di Bonafede. Il tutto “per la fine di aprile”. Entro quella data si dovrà trovare la sintesi, certamente sulla riforma del processo penale e sulla norma cara ai 5 stelle. Verrà dunque prorogato di un mese esatto il termine per gli emendamenti al ddl, ora fissato al 29 marzo. Le modifiche saranno fatte proprie dalla guardasigilli. Qualora sulla prescrizione non ci fosse completo accordo, com’è assai probabile, sarà lei a procedere in una chiave che sia coerente “con la Costituzione”. L’auspicio è che “per l’estate vengano approvate tutte e tre le leggi delega”. In prima lettura, quanto meno. “Modifiche alla prescrizione in chiave costituzionale” - Nella partecipatissima riunione di via Arenula con presidenti e capigruppo di maggioranza delle due commissioni Giustizia non si è arrivati ai dettagli, anche se sono stati fissati gli obiettivi del Recovery: “Interventi migliorativi su edilizia carceraria, digitalizzazione e ufficio del processo”. Ma sul capitolo più delicato, la prescrizione, la ministra è stata chiara. Primo: “La durata deve essere ragionevole”. Nessun processo potrà dunque avere durata potenzialmente infinita. Secondo: “Si deve rispettare l’articolo 111 anche riguardo al principio del giusto processo”. Vuol dire che il giudizio non può celebrarsi a distanza eccessiva dal fatto altrimenti la difesa non trova neppure i testimoni a proprio favore. Terzo: “Va assicurata coerenza con il fine rieducativo della pena”. Quindi nessuna condanna può essere eseguita quando il colpevole è una persona “ormai mutata”. Tre mazzate alla prescrizione di Bonafede. E va bene la “centralità del Parlamento”. Ma gli emendamenti arriveranno anche se il Parlamento non si metterà d’accordo. Se i 5 stelle contesteranno le soluzioni altrui. In quel caso provvederà il governo. Punto e a capo. Costa (Azione): “Intesa tra i partiti o nostra funzione sarà notarile” - Sono indicative le parole di Enrico Costa, deputato di Azione e anti Bonafede per eccellenza: “Ci sono norme approvate dal governo Conte, come la riforma della prescrizione, che rischiano di influenzare negativamente il processo legislativo sul penale”. È vero per due motivi. Come dice Costa, la prescrizione di Bonafede è una di quelle “pericolose bandierine che, se non rimosse, ostacoleranno il lavoro parlamentare”. Ma è vero pure perché proprio per dimostrare che i processi sarebbero stati così fulminei da rendere irrilevante la forzatura sulla prescrizione, si era arrivati a prendersela con giudici (sanzionati per i processi lenti) e avvocati (ridotti a terminali di notifiche per indagati irreperibili o trattati come impostori che propongono appello anche se l’imputato non vuole). Ora invece saranno proprio magistrati e avvocati, insieme con l’accademia, a rivedere il ddl penale e la prescrizione di Bonafede. È il contrappasso virtuoso della nuova giustizia targata Cartabia. Che in apparenza mette tutti d’accordo. Ma in pratica porterà, come dice Costa, a significativi interventi sui ddl del vecchio governo. “La maggioranza dovrà essere in grado di raggiungere una sintesi e discutere le proposte con l’esecutivo”, avverte ancora l’ex viceministro, “altrimenti sarà relegata a un ruolo notarile”. Chiarissimo. Prime schermaglie fra 5 stelle e Italia viva - Al vertice di ieri, i rappresentanti del Movimento 5 Stelle, in particolare la senatrice Grazia D’Angelo e il presidente della commissione di Montecitorio Mario Perantoni, hanno espresso il loro punto di vista: “La norma Bonafede non va eliminata”. Hanno ribattuto di nuovo Costa e Lucia Annibali, la deputata di Italia viva che ha prestato il cognome al “lodo”: “Invece va cambiata”. Il punto di caduta è sempre lo stesso: se non si arriva alla sintesi, come pare già evidente, provvede Cartabia. La guardasigilli naturalmente dedica una parte notevole dell’incontro mattutino ai capitoli del Recovery relativi alla giustizia e alle altre priorità imposte dall’emergenza, come il concorso per magistrati e l’esame da avvocato (di cui si riferisce in altro servizio, ndr). Accenna alla possibilità di un tavolo tecnico con il Mef per riformare anche il processo tributario e agli ultimi passi da compiere sulla Procura europea, prospettati nel recente incontro col vicepresidente del Csm David Ermini. Il vertice della commissione Giustizia del Senato Andrea Ostellari assicura “la disponibilità della Lega e mia personale, a partire dal metodo basato sul dialogo”. È il dem Mirabelli ad apprezzare “l’attenzione che la ministra ha dimostrato sulla necessità di migliorare la situazione nelle carceri, sulle pene alternative e sul trattamento esterno: obiettivi che condividiamo e su cui daremo il nostro contributo”. L’ordinamento penitenziario non è imposto dall’Ue. Ma si può scommettere che, entro la fine della legislatura, Cartabia riporterà in vita anche quella riforma. “Giustizia, occasione unica. Ultima parola alla ministra, pure sulla norma Bonafede” di Errico Novi Il Dubbio, 10 marzo 2021 Intervista a Alfredo Bazoli, capogruppo del Pd in commissione Giustizia alla Camera: “Nessun processo potrà durare all’infinito”. “È una finestra di opportunità che non si può lasciar andare. Tutti i partiti sembrano aver capito che, tra le condizioni indicate da Cartabia e l’urgenza del Recovery, persino la prescrizione è un nodo superabile”. Alfredo Bazoli è capogruppo del Pd in commissione Giustizia alla Camera. È appena reduce primo vertice di maggioranza tenuto da Marta Cartabia a via Arenula. Ed è convinto che una giornata come quella di ieri abbia cambiato tutto: “Il metodo, che prevede condivisione ma anche la necessità della sintesi. L’approccio dei partiti, che sembra costruttivo. E la possibilità di riformare la giustizia senza farne più un vessillo da sventolare”. Potenza della Costituzione e di una ministra che ne afferma il primato, onorevole? C’è un combinato disposto irripetibile. Innanzitutto l’autorevolezza della ministra, che le deriva dal ruolo ricoperto in passato. Le condizioni poste sul Recovery dalla Ue, che nel caso della giustizia pretende riforme capaci di accelerare i processi. Infine, per il Csm, la scadenza della primavera 2022: per quell’epoca il ddl dovrà essere approvato, altrimenti il nuovo Consiglio superiore sarà eletto con le vecchie norme. E a chiedere di scongiurare una simile eventualità è stato il presidente della Repubblica. La necessità di far presto scoraggerà anche le resistenze del 5 stelle sulla prescrizione? Sinceramente tra i segnali incoraggianti offerti dalla riunione ci sono le parole del ministro ai Rapporti col Parlamento Federico d’Incà, del Movimento 5 Stelle, che ha testualmente invitato tutti a “lavorare nell’interesse comune”, a “superare le divisioni” e “trovare un terreno condiviso anche sulla giustizia”. Se le premesse sono queste, si può ben sperare. Intanto il metodo: la ministra ha proposto gruppi di lavoro sulle riforme del processo. Saranno formate da parlamentari? No. Probabilmente ne faranno parte figure esterne al Parlamento ma anche al ministero: dovrebbero provenire dall’accademia, dalla magistratura e dall’avvocatura. Non si tratterà di commissioni ministeriali ma di gruppi agili, composti da poche persone. Insieme con il collega del Senato Franco Mirabelli ho chiesto che vi sia un costante rapporto fra questi gruppi, i relatori dei ddl (Bazoli lo è per la riforma del Csm, nda) e in generale le commissioni Giustizia del Parlamento. Altrimenti le soluzioni trovate a tavolino rischierebbero di infrangersi sul dissenso politico. È un’accortezza tanto più necessaria se, di fronte a margini di disaccordo, l’ultima parola dovrà spettare alla ministra. Ottimo, ma allora vuol dire che secondo lei sarà difficile trovare un accordo su tutto, prescrizione inclusa? Potrebbero restare dissensi formali, dalle conseguenze non nefaste, su alcune specifiche soluzioni tecniche. Non credo ci saranno divergenze sulla sostanza dell’approccio. La riforma penale già all’esame della commissione Giustizia sarà emendata, non riscritta da capo. Se restassero margini di divergenza su come emendarla, è giusto che la ministra metta il punto. A fine aprile gli emendamenti dovranno essere pronti. I 5 stelle potrebbero uscire dalla maggioranza, secondo lei, se la ministra indicasse una soluzione a loro sgradita sulla prescrizione? Ma no, direi proprio di no. La norma Bonafede, che elimina la possibilità di veder estinto il reato dopo il primo grado, potrebbe anche essere mantenuta. Ma andranno previsti dei tempi limite per tutte le fasi del procedimento. La “prescrizione per fasi” ipotizzata proprio da Walter Verini, giusto? Sì, ma in un caso simile il dissenso potrebbe esserci sulle conseguenze del mancato rispetto di quei tempi limite. Non credo che potrà trattarsi di un dissenso dagli effetti irreparabili, da rottura della coalizione da parte dei 5 Stelle. Anche perché si potrebbe comunque prevedere, solo per fare un esempio, una sanzione endoprocessuale diversa per i processi conclusi in primo grado con una condanna rispetto quelli in cui c’è stata assoluzione. La conseguenza sul processo potrebbe cambiare anche in base alla gravità del reato. D’accordo: ma lei ritiene si debba arrivare o no a evitare, per qualsiasi processo, una durata potenzialmente infinita, fatti salvi i reati che già prima della norma Bonafede erano imprescrivibili? Assolutamente, per qualsiasi processo, andrà evitata una durata potenzialmente infinita. Sono convinto che da tale obiettivo non si possa prescindere. Dico di più: nei processi per reati come l’omicidio, che non si prescrivono mai, l’assenza della prescrizione va intesa nel senso che anche se il delitto viene scoperto dopo trent’anni, la persona va processata lo stesso. Questo però non significa che quel processo, una volta iniziato, possa prolungarsi vita natural durante. Anche in quel caso si dovrà arrivare a sentenza definitiva entro un termine ragionevole. E la ministra Cartabia la pensa come lei? Non ne ho il benché minimo dubbio. Innanzitutto perché una prospettiva del genere corrisponde perfettamente ai principi incardinati nella nostra Costituzione, dei quali la ministra è stata interprete come giudice e presidente della Consulta. L’avvocatura, il Cnf in particolare, chiede di smaltire l’arretrato con la giustizia alternativa e complementare, più che con i giudici ausiliari a tempo: ne avete parlato? Non siamo entrati nel dettaglio degli aspetti organizzativi, che sono determinanti innanzitutto per la giustizia civile. Ma posso dire di aver registrato piena sintonia fra l’ottica del Pd e le idee di Cartabia anche sull’idea di privilegiare, nel civile, l’organizzazione rispetto alla procedura. Quindi anche il ddl civile sarà rivisto? Andranno cambiate poche norme mirate: siamo d’accordo sulla priorità da riservare all’organizzazione della giustizia. Cartabia si è specificamente soffermata sulle best practices, sul fatto che in alcuni tribunali, magari con un organico meno completo di altri, si raggiunge un’efficienza superiore grazie a un metodo di lavoro efficace. Aveva provato a introdurre un’impostazione simile già Andrea Orlando, quando propose di estendere a tutti gli uffici la logica seguita dall’ex presidente del Tribunale di Torino Mario Barbuto. Credo che quel discorso sarà ripreso. Davvero l’efficienza avrà la meglio sulla propaganda? Ripeto, è una finestra di opportunità irripetibile. Va colta. E forse anche in Italia smetteremo di considerare la giustizia come una perenne ordalia. La metà dei dirigenti al ministero? Sono magistrati fuori ruolo di Giulia Merlo Il Domani, 10 marzo 2021 Dei 180 responsabili degli uffici di Via Arenula, 90 appartengono all’ordine giudiziario e ricoprono incarichi di vertice. La scorsa settimana la ministra Cartabia ha nominato un magistrato, un professore e un avvocato. Il ministero della Giustizia conta 180 tra dirigenti e responsabili degli uffici dell’amministrazione centrale e decentrata. Di questi, esattamente la metà sono magistrati fuori ruolo, secondo le delibere del Consiglio superiore della magistratura. Magistrati sono i vertici degli uffici principali e in particolare dell’ufficio legislativo del ministero, ma anche del gabinetto ministeriale, dell’ispettorato generale, e soprattutto di tutti e quattro i dipartimenti: l’amministrazione penitenziaria, gli affari di giustizia, l’organizzazione giudiziaria e la giustizia minorile e di comunità, per citare solo i principali e non anche i sotto-uffici. Vista da fuori, appare come una sorta di silenziosa occupazione da parte del potere giudiziario della sede più contigua all’interno del potere esecutivo. Vista da dentro, invece, viene letta come un riconoscimento dell’altissima competenza di singoli magistrati non solo nel garantire giustizia quotidiana, ma anche nella gestione della macchina giurisdizionale. Nelle nomine interne che le sono spettate, la neo-ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha scelto la strada del bilanciamento tra passato e presente. Da un lato ha portato al ministero qualche volto nuovo (anche tra non togati), dall’altro ha mantenuto, in una logica di continuità, alcuni nomi scelti dai suoi predecessori. Cominciando dall’ufficio legislativo, che è uno dei posti chiave al ministero nella predisposizione dei progetti di riforma perché si occupa di redigere gli schemi dei disegni di legge e degli emendamenti del governo, di dare pareri sui testi, analizza le leggi e fornisce consigli al ministero sulla loro interpretazione: al vertice lascia il magistrato Mauro Vitiello, ma per fare posto sempre a una collega togata, Franca Mangano, che lascia la presidenza della sezione famiglia della Corte d’Appello di Roma e appartiene alla corrente di Magistratura democratica. Rimane al suo posto, invece, la vice capo e magistrata milanese Concetta Locurto, nominata dall’ex ministro Alfonso Bonafede. A lei però Cartabia ha affiancato un altro vice capo, proveniente dall’accademia e in particolare dallo stesso ateneo dove la ministra ha insegnato: Filippo Danovi, avvocato e professore di diritto processuale civile all’università Bicocca di Milano. Capo di gabinetto invece resta Raffaele Piccirillo, magistrato che è al ministero della Giustizia dal 2014, nominato da Andrea Orlando prima alla giustizia penale e poi al vertice del dipartimento per gli affari di giustizia. Dovrebbero rimanere al loro posto anche i due vice, i magistrati Leonardo Pucci e Gianluca Massaro. Nell’ufficio di gabinetto, però, la ministra ha inserito anche Nicola Selvaggi, docente di diritto penale. In mano a magistrati rimane anche il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, i cui vertici sono stati recentemente rinominati da Bonafede in seguito al cosiddetto scandalo scarcerazioni: il direttore Dino Petralia e il vice Roberto Tartaglia. All’ispettorato generale invece il vertice non è ancora stato rinominato, mentre dovrebbe rimanere al suo posto il vice capo, il magistrato Liborio Fazzi. Per ora, dunque, le tre nomine fatte dalla ministra si ripartiscono equamente: un professore, una magistrata e un avvocato. Tuttavia, l’unica nomina di vertice è quella della togata. Chi sono, però - e quanti - i magistrati che svolgono funzioni alternative a quelle nei tribunali e nelle corti? In Italia, vengono considerati “fuori ruolo” i magistrati che chiedono e ottengono dal Csm l’autorizzazione a svolgere un incarico non giudiziario. Secondo una legge del 2008, il numero massimo è di 200 magistrati e attualmente, secondo un elenco aggiornato a febbraio 2021, sono 162. Uno dei vincoli al via libera dell’incarico fuori ruolo è che l’ufficio che si lascia non abbia una scopertura di organico superiore al 20 per cento. Proprio questa clausola, tuttavia, si è dimostrata “interpretabile” in molte situazioni, (anche per Piccirillo, attualmente al gabinetto della Giustizia). L’ultima, che ha fatto sorgere un caso al Csm, ha riguardato l’assegnazione fuori ruolo della magistrata Elisabetta Cesqui, stimata sostituto procuratore presso la procura generale di Cassazione ed esponente di Magistratura democratica. Cesqui era stata capo di gabinetto al ministero della Giustizia con Andrea Orlando, che la scorsa settimana l’ha scelta per lo stesso ruolo fiduciario al ministero del Lavoro. La sua assegnazione fuori ruolo, pur approvata dal Consiglio - con 12 voti a favore, 7 contro e 3 astenuti - è stata però al centro di un acceso dibattito (tra i più contrari c’era il consigliere togato Nino Di Matteo), perché nell’ufficio da cui proviene l’organico è scoperto è scoperto oltre il 20 per cento. Ai fuori ruolo secondo la legge del 2008, tuttavia, si aggiungono i 42 magistrati di fatto fuori dalla giurisdizione perché svolgono incarichi presso gli organi di rilevanza costituzionale: Csm, presidenza della Repubblica e Corte costituzionale e i 19 eletti al Csm. In tutto, dunque, non esercitano funzioni giudiziarie 223 magistrati: numeri non altissimi, ma pur sempre significativi se si considera la carenza di organico della magistratura ordinaria, che sta lentamente iniziando a venire colmata con le nuove assunzioni promosse dal precedente governo: il dato più aggiornato è di dicembre 2018 e, rispetto ad un organico che prevede 10.413 magistrati, risultano vacanti 1.383 posti, pari al 13 per cento. Ecco il vaccino per giudici e cancellieri, ma non per gli avvocati di Viviana Lanza Il Riformista, 10 marzo 2021 Magistrati e personale amministrativo del comparto giustizia. Nel piano vaccinale stabilito dalla regione Campania i prossimi a essere vaccinati contro il Covid saranno loro. La notizia è stata data dal presidente della Corte d’Appello Giuseppe De Carolis e dal procuratore generale Luigi Riello, d’intesa con l’avvocato generale Antonio Gialanella. La decisione di procedere alla somministrazione del vaccino alle categorie del comparto giustizia è stata presa dopo un confronto tra i vertici degli uffici giudiziari napoletani e il governatore Vincenzo De Luca. Che sia un modo per accelerare un po’ i ritmi della giustizia? Se lo augurano in tanti, soprattutto gli avvocati che in quanto liberi professionisti non sono contemplati in queste direttive che sono invece rivolte al personale della magistratura, quindi giudici e pm, e al personale amministrativo, quindi cancellieri, funzionari, assistenti. Anche l’Ordine degli avvocati ha chiesto di avere una priorità nel piano vaccinale in considerazione del fatto che i legali sono parte integrante della giustizia intesa come servizio essenziale. Si vedrà. Intanto il prossimo step riguarderà magistrati e dipendenti della cittadella giudiziaria. Napoli come Milano, quindi. Circa un mese fa le organizzazioni sindacali del personale amministrativo avevano scritto ai vertici degli uffici giudiziari di essere ammessi tra le categorie da vaccinare con una certa priorità in questa fase 2 del piano vaccinale proprio portando l’esempio della Corte d’Appello di Milano che in questo senso si era già pronunciata ottenendo il via libera dalla Regione Lombardia. Ora c’è la decisione anche su Napoli. Per i tempi bisognerà attendere la disponibilità delle dosi. Quindi, dopo le forze dell’ordine, si procederà a vaccinare gli altri operatori dei servizi pubblici essenziali, tra i quali quelli del comparto giustizia. “L’accoglimento della richiesta è motivo di soddisfazione tenuto conto della importante ed essenziale funzione che tutti noi svolgiamo”, si legge nella nota di De Carolis e Riello. In attesa della data per cominciare, è stato nominato un referente distrettuale che provvederà a raccogliere i dati di tutti i magistrati e il personale amministrativo che intendevano vaccinarsi contro il Covid. E c’è da sperare che presto toccherà anche agli avvocati visto che il presidente dell’Ordine Antonio Tafuri aveva già avanzato la richiesta di inserire la categoria nel piano vaccinale della Regione e dalla Regione era arrivato, se non ancora un formale provvedimento, comunque una promessa che aveva acceso le speranze. Il vaccino, quindi, è la chiave non solo per contestare la pandemia, ma anche per riportare la giustizia ai suoi ritmi ordinari. Da ieri la Campania è in zona rossa, la curva dei contagi indica che il Covid è ancora una minaccia, gli spostamenti sono limitati, le misure di sicurezza devono essere al massimo. E tutto questo ha delle inevitabili ripercussioni, per il momento, sui tempi della giustizia, sul numero di udienze che è possibile fissare ogni giorno, sul numero di magistrati, cancellieri, avvocati e utenti che possono frequentare le aule. Umiliati e impoveriti: “Siamo le vittime della malagiustizia” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 10 marzo 2021 Il presidente di Aivm, l’associazione che si occupa dei casi di malagiustizia: “Ho provato sulla mia pelle quanto sia difficile risollevarsi dopo essere stati colpiti in modo ingiusto”. L’anno prossimo l’Associazione italiana vittime di malagiustizia (Aivm) compirà dieci anni. Un traguardo che ha stupito Mario Caizzone, il commercialista siciliano, da anni trapiantato a Milano, che nel 2012 al termine di una tormentatissima vicenda giudiziaria, decise di dar vita ad una associazione che si occupasse dei casi di “malagiustizia”. L’Aivm, che non riceve finanziamenti pubblici, ha sede nel capoluogo lombardo e si avvale della collaborazione di laureandi o laureati in materie giuridiche, oltre a quella di avvocati ed esperti psicologi. Il sito dell’associazione ha registrato nell’ultimo mese circa 30 mila accessi. “La malagiustizia è ovunque: nel penale, nel civile, nel tributario e nell’amministrativo”, afferma Caizzone. “Ho provato sulla mia pelle - prosegue il commercialista - quanto sia difficile risollevarsi dopo essere stati colpiti ingiustamente da un procedimento giudiziario”, ricordando “le pesanti conseguenze economiche e familiari” che quasi sempre accompagnano queste vicende nel disinteresse generale. “Sono tantissimi i casi di coloro che dopo essere incappati nelle maglie della giustizia hanno perso tutto, sono loro i ‘nuovi’ poveri”, ricorda Caizzone. Ad oggi l’Aivm ha fornito assistenza ad oltre 9.000 persone. “La delusione nel sistema giustizia è il collante che lega quasi tutte le persone che si rivolgono alla nostra associazione”, specifica Caizzone: “Non diamo assistenza legale, anche se molti di coloro che si rivolgono a noi ci chiedono il nome di un avvocato perché hanno difficoltà a trovare un difensore disposto ad assumere un incarico per un’azione di responsabilità nei confronti di chi ha causato loro tante sofferenze, soprattutto se si tratta di un magistrato”. Dopo quasi diecimila casi affrontati, Caizzone ha stilato una graduatoria delle principali criticità del sistema giustizia: “Sottovalutazione dei problemi da parte dei giudici, mancanza di fondi e strutture adeguate, professionalità non sempre all’altezza da parte di consulenti, periti, amministratori giudiziari ed operatori del diritto”. Tanti magistrati hanno, poi, carichi di lavoro eccessivi e questo è un “danno” per la giustizia. “L’associazione svolge una attività di sostegno e consiglio e non intende, come ho ricordato, in alcun modo sostituirsi all’attività forense: le persone che ci contattano sentono l’esigenza di parlare e di sfogarsi. Il nostro obiettivo è quello di diventare ‘intermediari’ tra le vittime e le istituzioni, stimolando quest’ultime affinché si facciano carico dei loro problemi”. “Ultimamente sono in aumento gli imprenditori che si rivolgono all’associazione. Le criticità della giustizia civile, soprattutto l’eccessiva durata delle cause, penalizzano moltissimo coloro i quali devono, ad esempio, riscuotere un credito”. Il tutto è stato aggravato dalla pandemia. “Colgo l’occasione per un appello al neo ministro della Giustizia, Marta Cartabia, donna di grandissima esperienza e professionalità, affinché provveda quanto prima ad una riforma complessiva del sistema. In questi anni sono stati fatti solo provvedimenti spot. Ci sarà un motivo perché la fiducia nella giustizia è ai minimi termini in questo Paese?”, conclude amaro il dottor Caizzone, augurandosi che si torni a parlare seriamente di separazione delle carriere in magistratura e responsabilità civile per le toghe che sbagliano. “Dopo Palamara solo parole e nessuna riforma”, parla Michele Vietti di Aldo Torchiaro Il Riformista, 10 marzo 2021 Michele Vietti, avvocato e giurista, in politica prima nel Ccd e poi nell’Udc, ha assunto la carica di vicepresidente del Csm dall’agosto 2010 al 2014, dopo esserne stato componente laico sin dal mandato 1998-2001. Il suo nome ricorre in diverse pagine del libro Il Sistema, in cui Alessandro Sallusti raccoglie le confessioni di Luca Palamara. Il sistema Palamara che cos’era? Una degenerazione delle correnti della magistratura che, messa in secondo piano la loro vocazione ad essere luoghi di elaborazione e confronto di idee e proposte di politica giudiziaria, si sono concentrate sulla spartizione di incarichi. Sì, ma possiamo parlarne al passato? Credo che la tentazione dell’autoreferenzialità sia forte, nella magistratura come in tutte le corporazioni e che non ci si possa affidare solo a predicozzi moralistici per invertire una tendenza che si è rivelata molto radicata e dagli effetti dirompenti. Solo una riforma che sia frutto finalmente dell’assunzione di responsabilità da parte della politica, può porre rimedio alle distorsioni che il “caso Palamara” ha portato alla luce e che non ci si può illudere di superare, come è successo in passato, affidandosi a patetiche “autoriforme” del CSM. E questo in concreto come si traduce? Certo se ci si continua a scandalizzare per quello che è successo senza fare assolutamente nulla, tra qualche tempo non dovrà stupire lo scoppio di una nuova puntata. Sono quasi due anni che si parla di Palamara ma non ho visto un solo intervento riformatore messo in campo da chi ne aveva la titolarità. Nel libro di Palamara lei viene citato più volte. Quali furono i rapporti tra voi? Non esito a dire che gli sono stato amico e l’ho frequentato a lungo nei vari ruoli istituzionali che ho ricoperto. Ne ho apprezzato la passione per il suo lavoro associativo e la capacità di rappresentare le istanze dei suoi colleghi. Avevamo sensibilità e stili diversi, ma questo non ci ha impedito di collaborare. Comunque il giudizio di onestà che mi rivolge in quella sede lo considero un complimento. Anche lei fu parte di un sistema, era possibile andarvi contro? Continuo a pensare che le correnti possano essere governate e non necessariamente subite: certo ci vuole autorevolezza, senso istituzionale e dignità del ruolo. E ci vogliono riforme incisive. Una cosa che lei avrebbe dovuto fare e invece non ha fatto, all’epoca? Avrei voluto convincere i miei consiglieri ad essere più rigorosi nelle valutazioni periodiche, nelle progressioni in carriera e nel giudizio disciplinare: la legittimazione dei magistrati non viene dal consenso, come per gli esponenti degli altri due poteri, ma dalla selezione, dalla professionalità, dall’equilibrio, in una parola dalla credibilità, che l’organo di governo autonomo deve preservare come il bene più prezioso. Una riforma complessiva del Csm è possibile? Quale? Riforma della legge elettorale, incompatibilità tra ruolo amministrativo e disciplinare del consigliere, snellimento dei pareri, norma primaria sintetica per la nomina degli uffici direttivi che consenta di scegliere i migliori in forza di un atto politico e non di uno slalom tra requisiti contraddittori che giustificano forzature in nome di un ossequio formale, attribuendo al giudice amministrativo il ruolo di ultima istanza rispetto alle decisioni di chi la magistratura ordinaria dovrebbe governare. Queste e tante altre proposte sono sul tavolo. Non vedo però la volontà politica di attuarle. Questo suo impegno di oggi in Finlombarda segna un taglio col passato? Per la verità di diritto dell’economia mi sono occupato all’epoca della riforma del diritto societario e di quello fallimentare. Essere alla guida della prima finanziaria regionale italiana nonché dell’Associazione di tutte le finanziarie regionali mi onora e mi stimola per il grande ruolo che questi istituti potranno avere per la ripresa economica del Paese, anche veicolando le ingenti risorse del Recovery fund. La Lombardia rappresenta ancora un esempio di innovazione? La Lombardia è una tra le prime regioni d’Europa per produttività, innovazione, movimentazioni finanziarie, investimenti, ricerca e sviluppo. La partecipazione del giudice di pace al riesame determina nullità della decisione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2021 La violazione del divieto incide “negativamente” sulla capacità del magistrato onorario di essere componente del collegio. Dalla riforma del 2017 sulla magistratura onoraria è previsto che il giudice di pace possa essere assegnato al tribunale con conseguente legittimazione alla trattazione di cause civili e penali. Ma lo stesso Dlgs 116/2017, che ha recato la novità pone, poi, al suo articolo 12, dei divieti espliciti alla partecipazione ai collegi del tribunale da parte del giudice di pace: - le cause affidate alle sezioni specializzate; - la sezione civile fallimentare; - il riesame delle misure cautelari nel processo penale. L’eventuale partecipazione del giudice di pace al collegio del tribunale - in una delle ipotesi vietate - determina nullità assoluta del procedimento e del provvedimento giurisdizionale che ne deriva. Così la Corte di cassazione penale, con la sentenza n. 9383/2021, ha ribadito che il divieto posto in maniera dettagliata dall’articolo 12, proprio per la sua formulazione, non è passibile di letture alternative che consentano eccezioni o rimedi meno drastici della nullità assoluta. La Cassazione ribadisce che la norma è secca e precisa e in caso di violazione la conseguenza più adeguata a ribadire l’efficacia delle sue disposizioni non può che essere l’azzeramento di quanto compiuto illegittimamente. La soluzione si giustifica secondo la Cassazione perché l’esplicita esclusione dei magistrati onorari da talune competenze giurisdizionali incide direttamente sulla capacità giuridica propria del giudice. Modena. Strage del Sant’Anna, le tesi “assolutorie” della procura di Lorenza Pleuteri giustiziami.it, 10 marzo 2021 Un anno dopo, dopo le rivolte che hanno incendiato decine di galere e la morte di tredici detenuti, dalla richiesta di archiviazione per otto decessi “modenesi” emergono altri passaggi destinati a far discutere. La sicurezza della casa di reclusione di Modena, anche a sommossa cessata e ad allarme rosso rientrato, è stata la priorità. E se il numero di croci è salito a nove, quando l’istituto non era più fuori controllo, la colpa non può essere addebitata a nessuno, se non ai reclusi stessi. Hanno rubato o distribuito metadone e psicofarmaci, ingerendone in quantità. Li hanno nascosti nelle mutande o nelle tasche. Non se ne sono liberati. Il carcere veniva prima, prima di ciascun uomo. Questa almeno sembra essere la tesi della procura, un pugno allo stomaco. Testualmente, a fronte della perdita di nove vite, le pm titolari delle indagini scrivono: “È evidente che l’esecuzione di perquisizioni personali a carico dei detenuti al momento del loro ingresso in cella non sia finalizzata a tutelare colui che fa ingresso ed evitare che porti con sé beni che possano nuocere alla sua stessa salute (nello specifico metadone) ma sia al contrario giustificata da motivi di sicurezza, ossia dalla necessità di evitare situazioni di pericolo capaci di mettere a repentaglio l’ordine e la sicurezza dell’istituto”. Alì Bakili probabilmente viene visitato una prima volta l’8 marzo, a sommossa in corso, e poi il 9 marzo. La dottoressa di turno la prima sera non si ricorda di lui, il collega del giorno dopo sì. Degli accertamenti sanitari e delle cure c’è traccia su due schede, redatte non si sa esattamente da chi (in un punto della richiesta di archiviazione si parla di personale 118 e in un altro punto di volontari) e con non meglio specificate imprecisioni. L’uomo resta fuori dagli sfollamenti e dai trasferimenti, fatali per quattro persone. La mattina del 10 marzo l’uomo è trovato senza vita nella cella numero 21, divisa con un compagno. È morto da ore. Anche lui ha ingerito metadone e farmaci, certifica l’autopsia, affidata alle sole consulenti della procura. Questo e non altro, è la loro delle anatomopatologhe, ha causato l’epilogo tragico. Le ecchimosi che ha sul corpo vengono spiegate nel solito modo, come per le altre vittime: se le sarebbe procurate da solo “presumibilmente” durante la rivolta, forse abbattendo un cancello o magari scalando un muro come un ragno (paragone scritto negli atti). Ma come è stato possibile che avesse sostanze letali a disposizione? Perché non gli sono state tolte, se le aveva addosso lui? Oppure, se le ha rimediate, come ha fatto? Dove le ha trovate? Le risposte date dai “custodi” e dalla procura lasciano senza fiato, perché parlano di una persona che era nelle mani dello Stato. “Nessuna responsabilità può ravvisarsi in capo a soggetti terzi in relazione al decesso di Bakili Alì: egli ha consapevolmente assunto metadone e altri farmaci, ad di fuori di qualunque controllo medico, assumendo il rischio di complicanze come quelle che effettivamente si sono verificate. Nessuna responsabilità può essere attribuita ai sanitari che hanno visitato il paziente in data 8 e 9 marzo 2020, né al personale della casa circondariale che ha organizzato e diretto le fasi del rientro dei detenuti nelle celle, posto che l’exitus è stato determinato da una condotta consapevole e intenzionale del detenuto (ritenuto evidentemente in grado di conoscere gli effetti della poliassunzione di oppioidi e medicinali e di poter far libere scelte in una istituzione totale), non controllabile da parte di soggetti terzi che, comunque, non avevano alcun obbligo giuridico (e qui ci sarà da discutere) di prevedere e impedire tale condotta”. I detenuti riportati in cella (i pochi rimasti, dopo i trasferimenti in massa) non sono stati perquisiti, non nelle fasi più convulse e drammatiche. La procura giustifica anche questo, “assolvendo” pure la polizia penitenziaria. “Occorre evidenziare - scrivono le pm a capo delle indagini - come la scelta di non effettuare perquisizioni sia stata determinata dalla necessità di convincere gli ultimi rivoltosi, che ancora non avevano acconsentito a rientrare nelle proprie celle, a consegnarsi alle forze di polizia, evitando così un’irruzione del personale di polizia penitenziaria, a cui sicuramente (e chissà da che cosa viene dedotto) sarebbe seguito un vero e proprio scontro con i detenuti, pronti ad opporre resistenza attiva pur di mantenere il controllo della posizione conquistata”. Alì Bakili muore. Non è l’ultimo. Il pomeriggio del 10 marzo viene constatato il decesso di Lofti Ben Mesmia, spirato da ore o forse da minuti (i pareri raccolti divergono e il medico del 118 che ha accertato la morte viene sentito “dopo molti mesi”). Non si muove. Dalla bocca gli esce bava marrone, come il compagno di cella dice a un assistente di passaggio, richiamando l’attenzione. Le carte evidenziano che durante la rivolta si era accaparrato sostanze letali, tenute nei boxer. Spiegano che il decesso è avvenuto dopo il rientro in cella, la sera prima, a sommossa rientrata. Confermano la presenza di piccole ecchimosi non letali. Per Lofti manca il racconto di quando, dove e da chi sia stato visitato (perlomeno nella richiesta di archiviazione, una sintesi degli atti prodotti dalla procura). La certezza dichiarata è che sia morto per overdose e che, anche per lui, “nessuna responsabilità possa ravvisarsi in capo a soggetti terzi”. Caserta. Sedicenne si toglie la vita in Comunità, scontava la rapina di un cellulare di Piero Rossano Corriere del Mezzogiorno, 10 marzo 2021 “Te l’avevo detto mamma che sarebbe finita così”. Villa di Briano, era ospite della casa alloggio da ottobre. Domenica era fuggito per andare dalla madre. Il tribunale gli aveva negato di partecipare a una messa per la sorella defunta. “Te l’avevo detto mamma che sarebbe finita così...”. Quelle poche righe scritte a penna su un fogliettino di carta ritrovato a poca distanza dal suo corpo sono tutto quel che resta di un giovane di nemmeno 16 anni che ieri ha deciso di togliersi la vita, lasciandosi morire dopo essersi sistemato al collo la cintura di un accappatoio. Il dramma si è consumato in mattinata all’interno di una comunità di recupero di Villa di Briano, nell’Agro Aversano, senza che nessuno potesse intervenire in suo soccorso in quei frangenti e sull’episodio è stato aperto un fascicolo dalla Procura della Repubblica del tribunale di Napoli Nord che ha disposto anche il sequestro della salma e l’autopsia sul corpo. L’esame necroscopico dovrebbe essere condotto oggi stesso all’ospedale di Giugliano in Campania ma intorno alle cause del decesso non dovrebbero esserci dubbi: il medico legale intervenuto ieri ha potuto già verificare che la morte sarebbe sopravvenuta per asfissia. Quel che resta da accertare, invece, sono le motivazioni che hanno spinto il minore a compiere un gesto così grave. Una ipotesi è stata formulata già ieri da fonti investigative (ad indagare in prima battuta sono i carabinieri della stazione di Frignano): il ragazzo sembrava turbato da alcuni giorni, da quando a metà della passata settimana il Tribunale dei minorenni di Napoli aveva risposto in maniera negativa alla sua richiesta di permesso per seguire una funzione religiosa in memoria della sorella morta di recente. Il ragazzo era ospite della casa alloggio “I cento passi” da alcuni mesi e condivideva spazi ed attività con altri minori. Lui ci era arrivato per espiare una rapina compiuta il 24 settembre dello scorso anno a Scafati in concorso con altri minori. Nella cittadina del Salernitano c’era arrivato dalla sua Boscoreale, dove viveva con i genitori (entrambi, si è appreso ieri sempre da fonti investigative, con precedenti di polizia). E con gli altri aveva preso di mira un ragazzino, al quale dietro minacce era stato alla fine strappato il suo cellulare. I giudici minorili gli avevano per questo inflitto un periodo in comunità e la casa alloggio prescelta era stata quella di Villa di Briano. Dove il minore, tra alti e bassi, aveva accettato di stare. Partecipando anche alle diverse attività che si svolgevano in comunità, secondo il racconto dei responsabili della struttura ai carabinieri. Poi qualcosa dentro di lui si è rotta fino ad arrivare all’irreparabile. Domenica scorsa il ragazzo si è allontanato dalla casa alloggio senza alcuna autorizzazione. Alle 17 del pomeriggio, quando la fuga è stata scoperta, è stato dato l’allarme e sono cominciate le ricerche. Tre ore più tardi, intorno alle 20, il giovane ha fatto ritorno in via Ugo La Malfa, dove ha sede la cooperativa sociale, accompagnato dalla madre. Pare che sentisse il bisogno, la necessità di tornare a casa in un momento particolare di dolore per sé e per la sua famiglia. Pur essendo rientrata la fuga, nella mattinata di ieri la responsabile della struttura si è però recata presso la stazione dei carabinieri di Frignano per denunciare ugualmente l’episodio: una prassi a cui non poteva sottrarsi per termini di legge. Ed è stato in questo preciso istante - quando le lancette dell’orologio segnavano le 11 - che la donna ha ricevuto una chiamata sul suo cellulare: il corpo senza vita del ragazzo era stato scoperto con un cappio rudimentale al collo ricavato da una cintura d’accappatoio fissata all’altra estremità alla ringhiera del balcone di un bagno. Poco più in là, come detto, la scoperta di un foglio di carta su cui aveva lasciato un messaggio ai familiari. Alla madre, in particolare, alla quale forse aveva già rivelato le sue intenzioni. “Te l’avevo detto mamma che finiva così...”. Sul posto sono subito accorsi i carabinieri e in contemporanea un equipaggio del 118 che ha solo potuto constatare l’avvenuto decesso del minore. Napoli. Scappa dalla Comunità per minori prima di togliersi la vita: “Mamma perdonami” di Massimiliano Cassano Il Riformista, 10 marzo 2021 “Mamma, perdonami. Non è colpa tua, ma te lo avevo detto che in comunità non ci volevo stare”. Poche parole, scritte a penna con tratto incerto su un foglio di carta, trovato a terra in un bagno della Comunità per minori “Cento Passi” di Villa di Briano, vicino Caserta. Sopra il biglietto, il corpo sospeso a mezz’aria di Vincenzo Arborea, il ragazzo di 16 anni che ieri mattina si è tolto la vita dopo che dal 27 novembre scorso era sottoposto al provvedimento di misura cautelare per il furto di un iPhone avvenuto qualche mese prima a Scafati. Il tribunale dei minori aveva disposto l’accoglienza in comunità, visto il rischio di fuga e reiterazione del reato: una soluzione meno dura di quelle che spesso toccano ad altri suoi coetanei che, per reati simili, finiscono nelle carceri minorili. Ma Vincenzo ha sempre mostrato frustrazione verso la sua condizione: domenica, giorno prima della tragedia, era scappato e tornato a casa, a Boscoreale, per gridare la sua sofferenza: “Non ci torno in comunità”, avrebbe detto alla madre, che però ha insistito per riaccompagnarlo a Villa di Briano. Gli operatori della casa di recupero avevano perso le sue tracce, dopo che gli era stato negato il permesso per uscire e partecipare alla commemorazione per il trigesimo della morte di sua sorella. Sua madre lo ha riportato lì, provando a convincerlo che per lui quel periodo avrebbe potuto significare una seconda chance per lui. Dopo meno di 24 ore Vincenzo ha scelto di impiccarsi con la cintura di un accappatoio. La responsabile della comunità è venuta a sapere del gesto mentre si era recata dai carabinieri di Frignano per riferire in merito alla fuga del giorno prima. La Procura di Napoli Nord, retta dal procuratore facente funzioni Carmine Renzulli, ha predisposto gli accertamenti di rito, che hanno confermato si sia trattato di suicidio. In Campania ogni anno sono in media 5mila i giovanissimi, tra i 12 e i 18 anni, che vengono identificati e riaffidati ai genitori o condotti in comunità di recupero per episodi di disagio e devianza, atti di bullismo, risse. “Sono ragazzi attraversati da una profonda sofferenza psichica, solcati da storie tremende”, ha scritto in un post su Facebook Maria Luisa Iavarone, mamma di Arturo, il ragazzo accoltellato da una baby gang nel dicembre del 2017 a via Foria a Napoli. “Chiediamo per questi ragazzi - ha proseguito la donna - una profonda attenzione alla loro salute psichica e mentale: c’è bisogno per loro di protocolli di accompagnamento educativo-terapeutico con accordi interistituzionali tra Ministero della Giustizia e Ministero della Salute”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Un detenuto si è tolto la vita nel carcere di Michela Salzillo corrierece.it, 10 marzo 2021 Aveva quarantotto anni ed era originario della città di Castel Volturno, l’uomo che ieri si è tolto la vita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. La vittima stava scontando la pena detentiva perché implicato in un’inchiesta di rapine ed estorsioni legate al Clan Fraglioli - Pagliuca. Cinque anni ancora da scontare e poi avrebbe saldato il suo debito con la giustizia, ma non c’è lieto fine in questa storia. Quando gli agenti e i detenuti si sono accorti di quello che stava accadendo, purtroppo, era già troppo tardi e non c’è stato nulla da fare. Bologna. Covid, carcere della Dozza “tutto esaurito”: sospese tutte le attività bolognatoday.it, 10 marzo 2021 250 detenuti in più rispetto alla capienza dell’istituto di pena: “Costante rischio di contagio”. Sarebbe stato sospeso anche il “triage per il controllo dei nuovi giunti”. 750 presenze, a fronte di una capienza regolamentare di 492 ospiti, un vero e proprio “tutto esaurito” al carcere della Dozza che, da quanto si apprende, ha anche vietato l’ingresso nei reparti a insegnanti, volontari e cappellani, a causa dell’emergenza sanitaria, con sospensione di tutte le attività. Anche se “risulta sotto controllo, con numeri molto contenuti di positivi tra i detenuti ed il personale, anche per tutti gli sforzi messi in campo dalla direzione”, e anche se “in questi giorni è anche partito anche il piano di vaccinazione del personale”, fa sapere Fp-Cgil di Bologna che lancia un nuovo sos sul sovraffollamento nell’istituto bolognese e chiede azioni per “ridurre il numero di detenuti e considerare l’idea di bloccare i nuovi ingressi”. Infatti - scrive il sindacalista Salvatore Bianco in una lettera al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria “nonostante in una precedente nota avessimo lamentato il consistente numero di detenuti presenti e le problematiche connesse all’interno dei vari reparti detentivi, il loro numero risulta ulteriormente cresciuto nelle ultime settimane, raggiungendo circa 750 presenze, a fronte di una capienza regolamentare di 492 ospiti”. Questa situazione, segnala Bianco, rischia di diventare pericolosa, dato il “costante rischio di contagio da Covid”, e, nonostante al momento i numeri siano buoni, per la Cgil serve “mantenere alto il livello di attenzione” dato che il numero dei detenuti “cresce costantemente e di conseguenza anche il livello di rischio di contagio risulta piuttosto alto”. Con “sempre più probabili ingressi di detenuti nuovi giunti già positivi al Covid” dal momento che Bologna e provincia zona rossa. Da quanto si apprende dal sindacato di Polizia penitenziaria, Sinappe, sarebbe stato sospeso il “triage per il controllo dei detenuti nuovi giunti per motivazioni che al momento si sconoscono. Considerato che il quadro pandemico è in costante peggioramento nel territorio felsineo, tanto che, ancora oggi, la metà circa dei nuovi contagi riscontrati in regione è riconducibile al comune di Bologna, l’eventuale conferma di tale sospensione non potrebbe non allarmarci, anche in relazione ai focolai che hanno già interessato l’Istituto della Dozza”. Bologna. Rivolta alla Dozza un anno dopo, in 49 davanti al giudice di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 10 marzo 2021 Notificato il fine indagine, si attende l’udienza preliminare per i detenuti che accesero i disordini. Archiviato il fascicolo sul ventinovenne morto. Al piano terra del padiglione giudiziario della Dozza, i lavori sono ancora in corso. “I danni sono stati quasi tutti sistemati, manca soltanto di provvedere all’automatizzazione dei cancelli”, spiega chi lavora all’interno della casa circondariale. È passato un anno esatto da quando la rivolta di un centinaio di detenuti, degli allora 891 che allora il carcere di via del Gomito ospitava, è sfociata in due giorni di devastazione e follia. Era l’alba della pandemia italiana: per contenere l’avanzata dei contagi, alla Rocco d’Amato come negli altri istituti della penisola erano state annullate le visite in parlatorio. La rabbia tra la popolazione penitenziaria aveva cominciato a montare un po’ ovunque. A Modena la miccia era stata accesa e in breve la situazione era degenerata. Come un’onda, il giorno dopo la marea si è alzata a Bologna. La rivolta era partita dalla sezione più problematica: il secondo piano giudiziario. I disordini erano durati due giorni. Alla fine, si contavano un milione e mezzo di danni, ventidue feriti (venti detenuti e due agenti) e anche un morto, un ragazzo tunisino di 29 anni, Kedri Haitem, stroncato da un’overdose da farmaci, rubati negli ambulatori al piano, saccheggiati durante quel caos. All’esito dell’autopsia e dell’esame tossicologico, a luglio scorso, la Procura, con la pm Manuela Cavallo, aveva chiesto l’archiviazione del fascicolo relativo al decesso, accolta dal gip. Un fascicolo distinto era invece stato aperto sulla rivolta, coordinato dalla pm Elena Caruso, con le indagini affidate a Penitenziaria e Squadra mobile: a novembre scorso, è stato notificato il fine indagine, atto che di prassi precede il rinvio a giudizio, a 49 detenuti. Tutti accusati, a vario titolo, di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, incendio e devastazione; due rispondono anche di tentata evasione. Otto di loro, secondo la Procura, avrebbero istigato i compagni alla rivolta. Per arrivare all’identificazione del corposo gruppo, gli inquirenti si erano avvalsi dei filmati della Digos, che aveva ripreso i rivoltosi sul tetto della Dozza; e pure dei video postati su Youtube girati dagli stessi detenuti. Tra i 49 indagati, compaiono anche David Santagata, pilastrino, fratello dei più noti William e Peter, e Sonic Halilovic, in carcere per l’omicidio del meccanico Quinto Orsi, avvenuto durante un tentativo di rapina. A oggi, esclusi i due citati, la maggior parte dei detenuti indagati per i fatti del 9 e 10 marzo 2020 sono stati trasferiti. Alcuni immediatamente dopo la rivolta. E il processo non si è aperto: non è stata ancora fissata l’udienza preliminare, mentre i procedimenti disciplinari per i detenuti sono pendenti. Dopo i disordini, l’anno del Covid alla Rocco d’Amato è filato via abbastanza liscio, tra tentativi di contenimento del virus e lavori in corso. “La popolazione penitenziaria - spiega il garante dei detenuti Antonio Iannello - escluso un gruppo limitato che è poi quello individuato nel corso delle indagini, si era opposta ai disordini, tentando anche di fermare i compagni facinorosi, autori delle devastazioni. Oggi la situazione alla Dozza è sotto controllo, anche dal punto di vista dell’epidemia. Dopo il focolaio di dicembre, che ha causato molta apprensione, si contano solo due casi, subito isolati”. Fuori dai cancelli della Rocco d’Amato c’è però chi tenta di rintuzzare i focolai di rivolta. Lo scorso 21 febbraio, un gruppo di anarchici si è ritrovato in via del Gomito, per una manifestazione in solidarietà con i detenuti in vista dell’anniversario della rivolta, con manifestazioni organizzate a livello nazionale nel corso della settimana appena trascorsa. Una manciata di giorni prima, gli stessi anarchici si erano ritrovati, in protesta, fuori dalla sede dell’amministrazione penitenziaria in viale Vicini. Padova. Voto a Messina Denaro come Garante dei detenuti. “Perizia calligrafica per tutti” di Luca Preziusi Il Mattino di Padova, 10 marzo 2021 Interrogazione del deputato dem Pellicani: “Intervengano governo e Procura”. L’ex vicesindaco Lorenzoni: “Un’azione premeditata, va fatta chiarezza”. Il caso Matteo Messina Denaro finisce sulla scrivania dei ministri della Giustizia e degli Interno, dopo il voto segreto attribuito al boss mafioso durante l’ultima seduta del consiglio comunale chiamato a eleggere il garante dei detenuti. E il movimento Padova Bene Comune sfida i 32 consiglieri comunali: “Si sottopongano volontariamente a perizia calligrafica. Nascondersi ora è da vigliacchi”. A portare il caso in Parlamento è stato il deputato dem Nicola Pellicani, componente della commissione antimafia, che in un’interrogazione parlamentare rivolta ai ministri Marta Cartabia e Luciana Lamorgese, chiede di fare chiarezza sul caso: “Quanto accaduto è una forma intollerabile di esaltazione della mafia, in una regione come il Veneto dove le inchieste di questi ultimi due anni hanno dimostra un forte radicamento della criminalità organizzata. Quali iniziative intendono assumere i ministri per avviare ogni accertamento necessario, procedendo una volta identificato alla rimozione dal consigliere comunale responsabile del gesto?”, chiede Pellicani. Un brutto episodio accaduto mercoledì scorso, quando durante la seduta del consiglio convocata per votare segretamente il garante dei detenuti per il Due Palazzi, un consigliere tuttora “ignoto” ha scritto sulla scheda il nome di Matteo Messina Denaro (ricercato dal 1993), anziché quello di uno dei 7 candidati a ricoprire l’incarico. Quasi tutti i consiglieri nei giorni successivi hanno condannato il gesto, chiedendo in alcuni casi l’intervento della Procura. Il sindaco Sergio Giordani aveva invitato il colpevole a farsi avanti e dimettersi, prima di essere costretto a rivolgersi al tribunale. Ieri poi è intervenuto anche l’ex sindaco Arturo Lorenzoni, oggi portavoce dell’opposizione in consiglio regionale: “Un fatto gravissimo avvenuto nel luogo sacro della democrazia. Non si tratta di una bravata, commessa nella certezza di essere all’oscuro, ma di un’azione che potrebbe addirittura essere stata premeditata”. “Padova è una città antimafia. Quanto avvenuto è un fatto su cui esprimiamo una netta condanna”, aggiunge invece il segretario generale della Cgil, Aldo Marturano. Davanti a un esposto in Procura si apre l’ipotesi della richiesta di una perizia calligrafica, ma non è affatto scontata la concessione. Alla luce di questa possibilità, i due esponenti di Padova Bene Comune Antonino Pipitone e Rosa De Pietra, hanno inviato una nota ai capigruppo per chiedere che tutti i consiglieri si sottopongano volontariamente alla perizia calligrafica: “Riteniamo sia da vigliacchi nascondersi dietro il voto segreto, e che la trasparenza sia dovere di ogni consigliere eletto democraticamente” sostengono i due. Per il consigliere responsabile della “malefatta” si potrebbe prefigurare l’accusa di vilipendio delle istituzioni. “Chiunque abbia votato un mafioso mina alla credibilità dell’istituzione stessa, svilendola in maniera inaccettabile - sottolinea il capogruppo della lista Giordani Carlo Pasqualetto - chi rappresenta le istituzioni ha il dovere di essere serio, per questo ritengo senza alcun dubbio che sia necessario capire chi si è macchiato di un gesto così grave e chiedere subito le sue dimissioni. Padova non merita un consigliere comunale del genere. Tutta la città è stata svergognata dalla sua stoltezza”. Volterra (Pi). “Subito la vaccinazione per detenuti e personale” Il Tirreno, 10 marzo 2021 Vaccinazioni anti-Covid per detenuti e personale che lavora in carcere. Lo chiedono a gran voce il regista della Compagnia della Fortezza Armando Punzo e la parlamentare del Pd ed ex sindaca di Calcinaia Lucia Ciampi. “I detenuti non sono più andati in permesso per quasi un anno - spiega Punzo -. I pochissimi che hanno la famiglia in Toscana, al loro rientro, stanno più di due settimane in quarantena, vengono sottoposti a tampone, isolati e chiusi nella propria stanza. Non fanno più colloqui con i familiari da un anno. È evidente che il virus è venuto da fuori, lo hanno portato gli operatori che tutti i giorni entrano per lavorare. Bisognerebbe interrogarsi sul perché, in una situazione chiusa e potenzialmente esplosiva come il carcere, non siano stati subito tutti vaccinati, a partire dagli operatori. E questo non solo a Volterra. Ma queste sono scelte nazionali e non locali e molti avrebbero gridato allo scandalo”. Il regista aggiunge che “gli insegnanti sono gli stessi delle scuole esterne, è evidente che c’è un rischio enorme, essendo partito un focolaio in ascesa che potrebbe, se non arginato, espandersi a macchia d’olio. Cerchiamo di non peggiorare la nostra condizione, già messa a dura prova, con rabbia e conflitti inutili”. Secondo Ciampi, “la vaccinazione di detenuti e personale delle carceri va accelerata. Il caso di Volterra è emblematico e rischia di creare una situazione incontrollabile. È necessario che le autorità cittadine, in particolare il sindaco Giacomo Santi e l’Asl competente, vengano immediatamente supportate dalla Regione, e dallo Stato per cercare di circoscrivere il contagio e intervenire tempestivamente con azioni efficaci di tracciamento e prevenzione. Mi attiverò subito in questa direzione”. Paliano (Fr). Si conclude il progetto “Ri-costituzione” nella Casa di reclusione frosinonetoday.it, 10 marzo 2021 “Attraverso la cultura e l’arte quali strumenti di integrazione, questo progetto aiuta i detenuti a recuperare le loro abilità, a sviluppare nuove competenze e a sentirsi parte utile e attiva sia della realtà in cui sono inseriti che della società”. Lunedì 8 marzo, presso la Casa di Reclusione di Paliano, il Sindaco Domenico Alfieri e il Vicesindaco e Assessore alla Cultura Valentina Adiutori, su invito del direttore, dott.ssa Anna Angeletti, hanno partecipato all’evento finale del percorso-progetto “Ri-Costituzione” seguito dai detenuti. Presenti il provveditore regionale dott. Carmelo Cantone e il Garante Regionale dott. Stefano Anastasìa. Il progetto ha portato alla presentazione di un video multimediale sui 12 principi fondamentali della Costituzione Italiana spiegati dagli stessi detenuti e corredata dalla realizzazione di altrettante targhe artigianali in ceramica. “Il progetto - ha dichiarato il Sindaco Alfieri - è stato sicuramente un mezzo per impegnare il presente di queste persone e, approfondendo i 12 principi fondamentali della nostra Costituzione, un monito e un argomento di riflessione per il loro futuro. Complimenti a tutti i partecipanti per il lavoro svolto, agli operatori che hanno collaborato e alla dott.ssa Angelini che ha fortemente voluto questo importante lavoro di promozione e conoscenza dei valori sulla legalità”. “Attraverso la cultura e l’arte quali strumenti di integrazione, questo progetto aiuta i detenuti a recuperare le loro abilità, a sviluppare nuove competenze e a sentirsi parte utile e attiva sia della realtà in cui sono inseriti che della società. Encomiabile anche la scelta di presentare il progetto nella giornata dell’8 marzo, a ricordo delle tante donne che sono state importanti per la Costituzione italiana, si sono battute perché i principi normativi difendessero la parità tra uomini e donne, hanno favorito la nascita di leggi fondamentali per la famiglia e la società”. Questo il commento del Vicesindaco Adiutori. Milano. “Il Covid? Una punizione di Allah”, il reclutatore di terroristi in carcere di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 10 marzo 2021 Tunisino intercettato in cella: cercava detenuti da mandare in Siria e Libia con l’Isis. Un anno fa, mentre la pandemia iniziava a flagellare la Lombardia e le immagini con i mezzi dell’Esercito carichi di bare a Bergamo facevano il giro del mondo, Saber Hmidi, tunisino di 37 anni, gioiva dal carcere di Opera durante le telefonate al padre Monji e al fratello Achraf perché “il Covid era una punizione di Allah agli italiani per i torti inflitti ai musulmani”. Hmidi era rinchiuso per scontare una condanna a 4 anni e 6 mesi per proselitismo dopo che nel 2014, a Roma, gli investigatori gli avevano trovato una bandiera del gruppo terroristico tunisino “Ansar al-Shari’a”, legato a Isis e al Qaeda, immagini di guerra, opuscoli sul funzionamento del mitra Ak 47 e su come creare e potenziare ordigni esplosivi. Sapeva di essere “osservato speciale”. E nei colloqui con la moglie (italiana) lo ripeteva di continuo. Eppure non aveva mai smesso di cercare nuovi adepti. Come un giovane detenuto per reati comuni, tunisino, e dalla personalità “debole e manipolabile”, come ricostruisce il gip Anna Magelli nelle dodici pagine della misura cautelare per proselitismo, danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale per aver tentato una rivolta in carcere e aver aggredito due agenti della polizia penitenziaria. Il 37enne lo aggancia durante l’ora d’aria e lo invita a pregare “cinque volte al giorno”, gli dice di uccidere gli infedeli (i cristiani), gli racconta di aver combattuto con i terroristi (“io comando 4 mila uomini”) e gli chiede, una volta scarcerato, di andare a combattere in Siria e Libia al fianco dello Stato islamico e poi di tornate in Italia “per fare un attentato in una spiaggia affollata della Sicilia, a Palermo, o in un parco a Firenze”. Messaggi che gli investigatori del Corpo di polizia penitenziaria del carcere di Opera hanno ricostruito in modo dettagliato nelle indagini coordinate dal pm Enrico Pavone e dal capo del pool Antiterrorismo, Alberto Nobili, nel periodo in cui Hmidi è rinchiuso nel penitenziario milanese prima di essere trasferito ad Asti e poi a Siracusa dove gli è stata notificata la misura cautelare. La presenza a Opera di Hmidi è turbolenta. Il 30 marzo scorso distrugge la cella nella quale è rinchiuso: “Piega le ante delle finestre, sfonda il vetro, rompe gli armadietti e stacca il wc e un pezzo di muro”. Il 17 aprile la mancata concessione di una videochiamata dopo aver usufruito dell’ora d’aria lo porta a innescare un tentativo di rivolta. Il 37enne anziché tornare in cella corre verso il cancello della sezione e si arrampica. Quando arriva la Penitenziaria in forze lui corre verso un’altra cancellata del reparto, cerca di coinvolgere nel suo tentativo gli altri detenuti, poi aggredisce due agenti: “Siete tutti dei cattolici di m..., io vi taglio la testa, avete finito di vivere”. È grande, grosso e furioso, Hmidi, gli investigatori devono lottare per bloccarlo: “In un momento di “follia pura” opponeva un’eccezionale resistenza con calci e pugni, fino a quando veniva riportato nella camera di detenzione”. La sua ossessione, secondo quanto ricostruito dall’Antiterrorismo, era il jihad. Come già evidente dai suoi profili social. Nell’ora d’aria convocava gli altri detenuti tunisini nella sua cella per farli pregare, “spesso costringendoli sebbene non fossero particolarmente avvezzi”. Al suo adepto parlava di combattenti (uno realmente morto in battaglia), di Bin Laden, di tagliare “gambe e braccia agli infedeli”. Gli confida di puntare all’espulsione per tornare in Libia con la figlia e “fare jihad fino alla fine”. Gli chiede anche di contattare in un colloquio telefonico il padre per avvisare due presunti terroristi (“Hawaif e Bagdedi”) che avrebbero dovuto “iniziare a fare la guerra”. In cella indossava una tuta della Roma calcio: “Perché l’Isis vuole fare la guerra a Roma”. Aiuti e ritardi, le strade da indicare al Paese di Daniele Manca Corriere della Sera, 10 marzo 2021 Bene l’accelerazione sul piano vaccini. Ma il probabile rinvio del Decreto Sostegni si tramuterà in ritardi per quegli aiuti a famiglie e aziende già alle prese con un drammatico riacutizzarsi della pandemia. Singolare la richiesta di agire rapidamente da parte delle forze politiche della maggioranza, pronte poi a dividersi un minuto dopo sulle misure da prendere. Forse non si ha contezza del fatto che un decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale alla fine della settimana prossima significherà far arrivare gli aiuti anche a maggio. Settimane e mesi che per molte imprese significherebbe soccombere, per le famiglie in difficoltà un’ulteriore punizione e nuove sofferenze. Il governo ha il dovere di ascoltare i partiti che lo sostengono. Ma anche quello di decidere. Tanto più che si sta parlando di un provvedimento che ha le dimensioni di una Legge Finanziaria. È previsto che si tratti di una Manovra tra i 35 e i 40 miliardi. Una cifra molto rilevante. Adeguata a un Paese che si prepara a chiusure ancora più stringenti. Bene, come sembra, aver esteso all’intero 2020, invece che ai soli primi due mesi, il confronto sulla caduta di ricavi per definire gli aiuti alle imprese. Come pure concentrare in un decreto, e non in più provvedimenti, gli stanziamenti. Si attendono le misure che aiutino le famiglie con figli in età scolastica grazie a congedi parentali e supporto alle spese per baby sitter. In ogni caso un livello di interventi così elevato in termini di investimenti, giustifica anche l’attesa di prime indicazioni sulla strada che si vuole percorrere per fare sì che si mettano le basi per il futuro del Paese. Come giustamente sottolineato dal presidente del Consiglio nel suo discorso alle Camere, “non esiste un prima e un dopo”. Soprattutto in una situazione di emergenza. Pietro Nenni coniò nel 1962 la celebre espressione “entrare nella stanza dei bottoni”, pur sapendo che il mondo non era così semplice. Che non bastava andare al governo per cambiare tutto. Che quei bottoni, come gli fu ricordato da un altro socialista, Lelio Basso, di fatto non esistevano. Ma è anche da piccole scelte e segnali che si possono indicare strade al Paese. Decidere che il cashback non è la strada migliore per aiutare gli italiani, è un’indicazione concreta. E che quei soldi possono essere usati per aiutare chi si è trovato senza casa, senza lavoro e magari ha solo un’automobile dove vivere. E non ci si dica che si batte l’evasione con una tassa (sul contante) o con i regali (a chi usa la carta di credito). Bisognerà poi affrontare il tema scomodo della cassa integrazione. Dovrà continuare a essere gratuita per tutte le imprese? O andrà introdotta una seppur minima contribuzione per evitare gli abusi di quanti la stanno usando per problemi che con il Covid non hanno nulla a che fare? Il blocco dei licenziamenti sarà prorogato. Ma lo sarà per tutti i settori? O si inizieranno a introdurre delle distinzioni? E si comincerà a far capire che vanno difesi i lavoratori in carne e ossa con adeguati strumenti di welfare state, e non posti di lavoro destinati all’estinzione? La capacità di aiutare i molti che si sono trovati in difficoltà tentando, per quanto possibile, di combinare il supporto al fatto che esso rappresenti anche la possibilità di ripartire, è essenziale. Superare cioè la logica dei bonus evitando di voler affidare tutte le speranze di ripresa al catartico Recovery plan.Ieri il ministro dell’Economia, Daniele Franco ha fatto un’operazione verità rammentando che le risorse dall’Europa arriveranno a fine estate. E che già prima del Covid il nostro Paese aveva bisogno di essere riavviato. È innegabile che improvvide misure e cattiva gestione in alcuni passaggi di questa crisi abbiano reso più pessimisti i cittadini. Si pensi solo a quell’agenzia fantasma che è l’Anpal che si dovrebbe occupare di politiche attive del lavoro, quanto mai necessarie in momenti di crisi come questi e che invece risulta non pervenuta. O ancora quegli intoppi sui pagamenti della cassa integrazione dovuti all’intreccio perverso tra Inps e Regioni. È come se l’emergenza avesse evidenziato con maggiore forza le migliaia di piccole quanto insopportabili manchevolezze dello Stato nei confronti dei cittadini. Fare sì che famiglie e imprese sentano, senza ritardi, la vicinanza della collettività è decisivo. Ancor più che sia chiaro l’obiettivo: aiuti per superare il momento e per rialzarsi. Spagna. La battaglia dei leader catalani dopo la revoca dell’immunità di Elena Marisol Il Domani, 10 marzo 2021 Con 400 voti a favore, 248 contro e 45 astensioni il parlamento europeo ha revocato l’immunità parlamentare a Carles Puigdemont e, con numeri analoghi, a Toni Comín e Clara Ponsatí, come richiesto dalla giustizia spagnola per riattivare la procedura di estradizione nei confronti dei tre dirigenti indipendentisti, sospesa nel momento della loro elezione all’europarlamento nelle elezioni del 2019. Il 58 per cento di sì sul totale dei voti espressi, una percentuale inferiore a quanto previsto. Ma il voto segreto, emesso elettronicamente nel tardo pomeriggio dell’8 marzo, ha aperto una breccia di almeno una cinquantina di voti nei diversi gruppi favorevoli: il fronte contrario alla revoca dell’immunità è cresciuto fino al 42 per cento. Si conclude così la procedura iniziata un anno fa nel parlamento europeo: con la raccomandazione agli eurodeputati di accedere alla richiesta del Tribunal supremo spagnolo, togliendo l’immunità ai tre parlamentari catalani, in esilio dalla fine dell’ottobre 2017, dopo la dichiarazione unilaterale d’indipendenza. La perdita dell’immunità per Puigdemont, Comín e Ponsatí non fa venir meno la loro condizione di europarlamentari, perché con la riattivazione della richiesta di estradizione saranno la giustizia belga e quella scozzese (Ponsatì è residente in Scozia) a decidere sul loro futuro. E i tre leader indipendentisti possono contare su un precedente a loro favore: quello stabilito dalla giustizia belga che ha negato l’estradizione dell’ex consigliere in esilio Lluís Puig per non considerare il Tribunal supremo competente nella causa. La questione del giudice competente per legge, unitamente alla denuncia di essere oggetto di persecuzione politica, sono stati infatti gli elementi su cui si è fondata la difesa dei tre eurodeputati. Ma la situazione che si è determinata nel caso della giustizia belga può non valere in un altro paese europeo, limitando quindi la loro libertà di movimento in Europa. La seconda via che si apre è quella del ricorso presso il Tribunale generale di giustizia della Ue per le irregolarità già denunciate nel corso del procedimento dai tre deputati e che Puigdemont ha confermato di volere intraprendere. Immediate le reazioni della politica, a cominciare dal governo spagnolo che pure è diviso al suo interno tra i socialisti che hanno votato a favore della revoca dell’immunità e Unidas Podemos che ha votato per il suo mantenimento. Poco dopo le 12 è il diretto interessato a pronunciarsi da Bruxelles sul voto che gli toglie l’immunità. Dopo avere sottolineato il sostegno maggiore del previsto ottenuto in suo favore, Puigdemont afferma che “è un giorno triste per il parlamento europeo. Noi abbiamo perso la nostra immunità. Ma il parlamento europeo ha perso molto di più e come conseguenza ha perso la democrazia europea”. E in tarda mattinata arriva anche un’altra notizia, attesa da giorni in Catalogna: il Tribunal supremo ha revocato il terzo grado penitenziario, corrispondente alla semilibertà, ai leader indipendentisti in carcere. Torneranno in prigione, in attesa di un qualche provvedimento che restituisca loro la libertà. Negli ultimi giorni la procura ha anche chiesto l’incriminazione dell’ex presidente del parlamento catalano Roger Torrent per disobbedienza, per avere permesso il voto in aula su mozioni contrarie alla monarchia. E tutto questo succede nel pieno delle trattative per il nuovo governo catalano dopo le elezioni dello scorso 14 febbraio, con la probabile riedizione di una coalizione indipendentista a guida repubblicana. Venerdì prossimo si insedia a Barcellona il nuovo parlamento eletto. Stati Uniti. I prigionieri politici dimenticati di Marco Cinque Il Manifesto, 10 marzo 2021 Libertà per Mumia Abu-Jamal e Leonard Peltier, condannati ingiustamente negli Usa al carcere a vita. Entrambi affetti da gravi patologie, Mumia è anche risultato positivo al Covid-19. C’è un tragico destino che accomuna le due voci più emblematiche delle minoranze e del dissenso negli Stati uniti: quella del giornalista radiofonico afroamericano Mumia Abu-Jamal - definito “Voce dei senza voce” - e quella del nativo americano di ascendenza Lakota/Anishnabe, Leonard Peltier, entrambi gravemente malati e condannati a marcire in prigione, dopo processi farsa caratterizzati da razzismo e discriminazione. Non è stato un caso che Peltier fosse un attivista dell’American Indian Movement, mentre Abu-Jamal fosse membro delle Black Panthers, due organizzazioni politiche finite entrambe sul libro nero dall’FBI e perseguite nelle aule di tribunale di un Paese che è l’incontrastato campione mondiale in fatto di arresti e incarcerazioni. Dagli ultimi dati del Dipartimento di Giustizia risulta infatti che dentro le celle delle 4.575 carceri americane, locali, statali, federali e private, sono rinchiusi più di 2.200.000 detenuti, con un tasso di detenzione di 666 detenuti ogni 100mila abitanti o, se si preferisce, con un cittadino ogni 130 dietro le sbarre. Insomma, con meno del 5% della popolazione mondiale, gli Usa contano circa un quarto della popolazione carceraria dell’intero pianeta. Ai primi posti tra i condannati a morte o al carcere, risultano percentualmente proprio nativi americani e afroamericani. Lo stesso Mumia, in una sua lettera, scrisse che “La composizione etnica delle galere statunitensi è il frutto di una precisa volontà di imprigionare afroamericani. Lo scopo è alleviare le ansie dei ricchi e mantenere la subordinazione nera”. Ai numeri impressionanti sulle incarcerazioni, bisogna aggiungere anche la quantità di leggi inique, inumane e persino razziali che vengono inflitte a poveri, minoranze, malati mentali e minorenni, senza contare le torture più o meno istituzionalizzate che sono regolarmente utilizzate all’interno dei circuiti penitenziari. Tornando al caso del 66enne Mumia Abu-Jamal, che ha passato oltre metà della sua vita in prigione, nei giorni scorsi uno dei suoi avvocati, Robert Boyle, in una conferenza stampa convocata d’urgenza presso il Mahanoy Correctional Facility, in Pennsylvania, ha annunciato che il suo assistito è risultato positivo al Covid-19, ricordando che le stesse condizioni carcerarie determinano un alto rischio di contagio, come dimostra pure l’alto numero dei morti e dei contagi tra i detenuti, con quasi duecentomila casi di positivi al virus e più di millecinquecento morti; ma la salute di Mumia purtroppo era stata già pesantemente minata dalla lunga detenzione e dall’Epatite C contratta in carcere, per la quale gli vennero negati, per ben due anni, i farmaci necessari alle cure, compromettendo gravemente il suo quadro clinico. Condannato a morte nel 1982, con l’accusa d’aver ucciso l’agente di polizia Daniel Faulkner, la sentenza prevista per Mumia venne successivamente commutata in ergastolo, a seguito di un’imponente mobilitazione internazionale. Quello di Mumia è infatti considerato uno dei più controversi casi giudiziari della storia contemporanea statunitense. Forse l’ostinazione nel negargli le cure necessarie potrebbe essere, in qualche modo, un tentativo di dar seguito a quella sentenza di morte che non è stato possibile applicare giuridicamente. Nei lunghi anni della sua detenzione, nonostante la censura sistematica cui è stato sottoposto, Mumia ha continuato a far sentire la sua voce dal cosiddetto “Ventre della Bestia”. In questi giorni, molti sostenitori del prigioniero politico afroamericano stanno manifestando davanti alla sede del governo della Pennsylvania. Tra i manifestanti anche il nipote di Mumia, che ha detto: “Vogliono seppellire il nome di mio nonno e la lotta per la liberazione nera. Vogliono sotterrare tutto questo. Non lasceremo che l’ottengano”. Per salvargli la vita e garantirgli le cure necessarie, gli attivisti ora ne chiedono l’immediata scarcerazione, che rientrerebbe nelle facoltà del governatore democratico Thomas Westerman Wolf. Riguardo a Peltier, fu condannato nel 1976 a due ergastoli per l’omicidio dei due agenti dell’FBI, Ronald Williams e Jack Coler, nonostante un accurato rapporto balistico della stessa FBI rivelasse che i proiettili non potevano essere stati sparati dall’arma del leader dell’AIM. Nel 2003 i giudici del 10° Circuito dichiararono: “Gran parte del comportamento del governo su quanto è accaduto a proposito del Signor Peltier, è da condannare. Il governo ha trattenuto delle prove. Ha intimidito testimoni. Questi fatti sono incontestabili”. Le clamorose vicende giudiziarie di Abu-Jamal e Peltier sono già apparse in molte occasioni sulle pagine de il manifesto. Loro rappresentano i simboli viventi di due popoli vittime, da una parte, del più grande genocidio della storia umana, dall’altra dell’immane deportazione schiavista protrattasi tra il XVI e il XIX secolo, sono quindi diventati bersagli perfetti per l’immarcescibile razzismo che ancor oggi inquina gli Stati uniti; le cronache quotidiane che non smettono di dimostrarlo nei fatti ne sono inconfutabile testimonianza. Adesso però ci si augura che il presidente Biden mantenga, in primo luogo, le promesse abolizioniste fatte durante le presidenziali, poi che non dimostri la stessa sordità pilatesca dei suoi predecessori e che restituisca finalmente al mondo dei liberi i due prigionieri politici. Stati Uniti. Cannabis, parte al Senato la riforma federale di Bernardo Parrella Il Manifesto, 10 marzo 2021 L’amministrazione Biden non potrà ignorare ulteriormente la questione cannabis. Nel percorso di ritorno verso la “normalizzazione” politica, l’amministrazione Biden non potrà ignorare ulteriormente la questione cannabis perché forme di regolamentazione sono già vigenti in oltre due terzi dei 50 Stati, per l’ambito terapeutico, e in circa un terzo per quello ricreativo. Sono in vista analoghi traguardi in alcuni Stati chiave quali New Jersey e New York, oltre a Virginia, New Mexico, Maryland, Hawaii, Minnesota, North Dakota. La novità della maggioranza in Senato, seppure di appena un seggio, è stata subito accompagnata dallo storico comunicato stampa dei senatori democratici Cory Booker, Ron Wyden e Chuck Schumer per annunciare la formale presentazione di una proposta di riforma sulla marijuana a livello federale. Un passo atteso e accolto con entusiasmo da altri colleghi, a partire da Earl Blumenauer, responsabile del relativo caucus alla Camera. Immediato anche il pubblico sostegno del variegato fronte degli attivisti, con la storica organizzazione pro-riforma Norml pronta a ribadire: “È rincuorante vedere la nuova leadership del Senato impegnarsi per eliminare questo crudele e insensato proibizionismo. Dobbiamo impegnarci con una intensa collaborazione per trarre vantaggio dalla finestra apertasi ora per attuare riforme urgenti, popolari e razionali”. Un quadro positivo completato dall’approvazione, lo scorso autunno, del MORE Act alla Camera bassa, mentre la versione in quella Alta, rimasta nel cassetto perché allora ancora in mano repubblicana, vedeva come prima firmataria l’attuale Vice-Presidente Kamala Harris. Sempre al Senato è stata presentata un’indagine curata dal Caucus on international narcotics control: le vendite di cannabis legale nel 2020 hanno raggiunto il record di 17,5 miliardi di dollari, con un aumento del 46% rispetto al 2019 - grazie soprattutto al traino del settore terapeutico, particolarmente nei mercati più maturi come Colorado (+26%) e Oregon (+29%). A tre settimane dallo storico annuncio dei tre senatori democratici, altri 37 parlamentari hanno firmato una lettera aperta per chiedere all’attuale Presidente di promulgare un ordine esecutivo per l’amnistia a favore di persone condannate o incarcerate solo per reati non violenti legati alla marijuana. In attesa di avviare l’iter per la attesa normativa federale di regolamentazione, spiegano i primi firmatari Earl Blumenauer e Barbara Lee (D-California), “Lei ha la capacità unica di promuovere la riforma della giustizia penale e di offrire immediato sollievo a migliaia di cittadini”. La lettera non manca di sottolineare l’impegno, preso dallo stesso Biden in campagna elettorale, per l’automatico azzeramento della fedina penale per precedenti condanne in materia e per la rimozione della cannabis dalla Tabella I delle sostanze proibite, pur se è noto che Biden rimane contrario alla legalizzazione per l’uso ricreativo. Analogo il tono di un appello diffuso pochi giorni da svariati attivisti e imprenditori, tra cui la Norml, la Minority Cannabis Business Association e la National Cannabis Industry Association: “La criminalizzazione della cannabis, con le opportunità occupazionali, sociali e umane andate perse per le relative condanne, provoca danni di gran lunga superiori a quelle dell’uso responsabile della sostanza stessa”. E secondo un rapporto dell’azienda leader Leafly, nonostante la crisi del Covid lo scorso anno l’imprenditoria della cannabis ha aggiunto oltre 77.000 posti di lavoro: un incremento del 32% che lo rende il settore di maggior crescita in assoluto. Sono circa 321.000 i lavoratori a tempo pieno oggi impiegati nei 37 Stati che prevedono varie forme di regolamentazione. Inevitabile quindi una normativa federale capace di riparare ai disastri causati da quasi un secolo di proibizionismo e di dare impeto a un’industria assai promettente. Brasile. L’arresto di Lula fu un colpo di Stato politico-giudiziario di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 10 marzo 2021 Lula è pulito. Immacolato come un foglio di carta bianca. Il giudice del Tribunale supremo federale Edson Fachin ha invalidato tutte le condanne penali a carico dell’ex presidente Lula da Silva, ripristinando i suoi diritti politici e rendendo di nuovo possibile la sua corsa contro Jair Bolsonaro alle presidenziali 2022. Il motivo è di procedura: il giudice Fachin si è limitato a segnalare che la corte federale della città di Curitiba, nel sud del Paese, che condannò Lula per corruzione, non aveva competenza territoriale per perseguire l’ex presidente. Deltan Dallagnol, a capo della task force di “Lava Jato”, l’inchiesta su Petrobras, la potente compagnia petrolifera, che ha travolto la politica brasiliana, e che tanto sembrò somigliare alla “nostra” Mani Pulite, ha commentato che la sentenza potrebbe chiudere l’intero caso contro l’ex presidente perché ormai prescritto. Per quelle condanne, Lula ha trascorso 580 giorni in carcere. L’inchiesta Petrobras comincia nel marzo del 2014, e coinvolge i dirigenti della compagnia petrolifera di stato Petrobras e le principali aziende brasiliane per le costruzioni e i lavori pubblici (Btp). Alcune di queste sono multinazionali che hanno delle filiali in tutto il mondo. Odebrecht, per dire, ha ottenuto degli appalti a Cuba, in Venezuela e in Africa grazie alla mediazione di Lula. Queste società si occupavano della costruzione delle infrastrutture per l’estrazione del petrolio al largo delle coste brasiliane. La Btp gonfiava i contratti e in cambio i partiti che facevano parte della coalizione di governo hanno ricevuto tangenti e finanziamenti illeciti. Tra questi, il Partito dei lavoratori di Lula, che governava il paese dal 2003. La procura definì l’inchiesta “il più grande scandalo di corruzione della storia del Brasile”: una novantina di politici, deputati e senatori, ne vengono travolti. La presidente, Dilma Roussef, rieletta per il secondo mandato il 26 ottobre 2014, dato che Lula che aveva guidato il paese dal 2003 al 2010 non poteva ripresentarsi, non era coinvolta direttamente nell’inchiesta. Tuttavia una parte dell’opinione pubblica brasiliana sembrò convinta che Rousseff fosse al corrente del sistema di tangenti e corruzione. Nel 2016, il Parlamento brasiliano vota a favore dell’impeachment per la Rousseff, accusata di aver manipolato i dati sulla situazione economica del Brasile. Dopo il lungo periodo di boom economico, che aveva permesso a Lula di varare imponenti riforme a favore delle fasce sociali più deboli, erano arrivati negli ultimi anni i segnali di una crisi che aveva portato il Brasile in recessione. Negli ultimi mesi poi, gli scandali legati alla corruzione. Rousseff aveva cercato di proteggere Lula, nominandolo a un incarico di governo, ma il decreto di nomina era stato bloccato da un giudice. Il paese è letteralmente spaccato a metà. Roussef accusa i sostenitori dell’impeachment di un vero e proprio colpo di stato. Lula era stato condannato la prima volta nel luglio 2017 per corruzione prima a dieci e poi a diciassette anni di reclusione. Soprattutto, era stato privato dei suoi diritti politici, e così costretto a rinunciare a candidarsi alle presidenziali del 2018, eppure tutti i sondaggi lo davano vincente, lasciando campo libero alla destra di Bolsonaro. L’accusa ruotava attorno alla proprietà di un appartamento di 216 mq a Guarujà, una delle località più esclusive del litorale di San Paolo, che sarebbe stato donato dal gigante delle costruzioni Oas in cambio di importanti commesse con la compagnia petrolifera statale Petrobras. Il giudice Sergio Moro, suo principale accusatore, divenne poi ministro della Giustizia nel governo di Bolsonaro, salvo rinunciare nell’aprile dello scorso anno per “divergenze con il presidente”. Dopo la condanna a dodici anni e un mese per corruzione e riciclaggio di denaro, nell’aprile 2018 Lula si consegna. Aveva partecipato a una messa in ricordo della moglie, Marisa Leticia Rocco, morta nel 2017, e in un comizio improvvisato aveva promesso che si sarebbe consegnato, ribadendo però la sua innocenza: “Mi sottoporrò al mandato” di arresto, aveva detto parlando davanti alla folla che si era radunata di fronte la sede del sindacato dei metalmeccanici di San Paolo. Sul palco, insieme a Lula, c’era anche l’ex presidente Dilma Rousseff. A giugno Lula presenta ricorso, chiedendo che si sospendesse la condanna e gli si concedesse la libertà condizionale, ma la Corte Suprema brasiliana lo respinge. Cadono così le speranze del Partito dei Lavoratori che Lula potesse essere liberato in modo da avviare la campagna per le presidenziali di ottobre. Lula non si arrende: Il Partito dei Lavoratori registra formalmente la candidatura di Lula alle elezioni presidenziali. Ma Raquel Dodge, procuratrice generale elettorale, presenta al Tribunale elettorale una richiesta di impugnazione in base alla cosiddetta “legge della scheda pulita”, che dispone che una persona condannata in seconda istanza da un tribunale collegiale non possa candidarsi a un’elezione. Poi, nel 2019, il sito d’inchiesta “Intercept Brasil” pubblica il contenuto di parte dei messaggi audio scambiati tra il giudice Moro, chiamato a giudicare le prove portate dalla pubblica accusa nel processo contro Lula, e il coordinatore della pubblica accusa Deltan Dallagnol. La legge vieta ovviamente al giudice di interferire nella acquisizione delle prove che poi sarà chiamato a giudicare. I due - si deduce con evidenza dal contenuto dei messaggi - si scambiano invece infinite informazioni. Moro spiega ai pm cosa devono raccogliere e cosa no. Suggerisce mosse, indica errori, detta i passi dell’indagine. Il materiale è stato acquisito illegalmente - da alcuni hacker - e quindi non può essere portato in tribunale. Lula intanto deve far fronte a un altro processo, per un’altra casa, stavolta non sulla costa, ma in campagna, i cui lavori di ristrutturazione sarebbe stati pagati dalla Odebrecht. Lula dice che la casa non è sua, i giudici dicono che lo è “di fatto”. Ma qualcosa del castello di accuse comincia a vacillare. Il Tribunale supremo ribalta la sentenza del 2016 secondo la quale era prevista la detenzione obbligatoria in carcere per imputati condannati in secondo grado. Lula può uscire. La norma che prevedeva la carcerazione dopo il secondo grado di giudizio era stata introdotta per “facilitare” il lavoro dei pubblici ministeri nelle inchieste per corruzione: attraverso la carcerazione, infatti, si sperava di poter esercitare pressione sugli imputati per convincerli a dare informazioni, in cambio di accordi premiali. In questi anni, però, la legislazione era stata criticata duramente dai giuristi, i quali ritenevano che violasse la Costituzione. Poi è la stessa polizia federale - nel tentativo di scovare gli hacker che avevano passato il materiale a “Intercept” - a entrare in possesso del contenuto completo, chat che sarebbe durata per anni, tra il 2015 e il 2017. È a questo punto che va in discussione l’intero processo: i colloqui tra magistrato giudicante e il pm violano infatti l’articolo 254 del codice del processo penale brasiliano, consentendo alla difesa dei condannati in quei processi di considerare il giudice “sospetto di non essere imparziale”. E di chiedere quindi l’annullamento del giudizio. In questi ultimi mesi Lula non ha smesso di attaccare Bolsonaro, soprattutto per la conduzione della pandemia. I sondaggi lo danno ancora fortissimo nel gradimento dei brasiliani. Bolsonaro è nervosissimo e attacca i giudici che hanno liberato Lula. Sarà una campagna elettorale molto dura. Etiopia. Si combatte, si muore e si fugge ancora per la guerra nel Tigray di Caterina Castaldi La Repubblica, 10 marzo 2021 Ormai è piena catastrofe umanitaria. La lotta per il potere tra TPLF tigrino e governo federale vede coinvolta anche l’Eritrea; nella regione si susseguono eccidi e stupri. L’indagine di Amnesty International. Migliaia di morti, decine di migliaia di profughi, quattro milioni e mezzo di persone che hanno bisogno di acqua, cibo, medicine. È il bilancio di quattro mesi di combattimenti tra forze armate etiopiche e partito al potere nel Tigray, che rischiano di destabilizzare l’intero Corno d’Africa e che hanno già coinvolto l’Eritrea (implicata nel conflitto con i suoi uomini) e il Sudan (paese verso il quale fuggono i rifugiati). Uccisioni di massa, linciaggi, stupri, sequestri. Cina e Russia, membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’ONU, hanno bloccato il 6 marzo scorso - esercitando il loro diritto di veto - l’adozione di una dichiarazione del Consiglio di sicurezza che chiedeva la fine delle violenze nel Tigray. La bozza, dopo due giorni di negoziati, è stata fatta decadere; Mosca e Pechino ritengono che si tratti di una “questione interna” dell’Etiopia, e ha votato come loro anche l’India. Michelle Bachelet, responsabile ONU per i diritti umani, ha esortato il governo di Addis Abeba a consentire una inchiesta indipendente, dopo la verifica di gravi violazioni dei diritti umani (uccisioni di massa, linciaggi, stupri, sequestri) ad Axum e nel Dengelat, nel Tigray centrale, ad opera delle forze armate eritree, sconfinate nella regione, responsabili secondo la Bachelet di crimini di guerra. Governo e opposizione del Tigray si accusano a vicenda. Il primo ministro Abiy Ahmed - Premio Nobel per la pace nel 2019 - aveva scatenato l’offensiva in novembre, accusando il Fronte di liberazione popolare del Tigray (Tplf) di aver attaccato una base militare per impadronirsi di armamenti e artiglieria e promettendo una guerra lampo; il leader del fronte ed ex presidente della regione del Tigray, Debretsion Gebremichael, aveva subito dichiarato che il suo partito era pronto a “estendere la resistenza”, ventilando la minaccia di una guerra senza quartiere. Secondo Gebremichael l’attacco dei militari costituiva una punizione contro il Parlamento del Tigray, reo di aver organizzato elezioni (vinte a stragrande maggioranza dal Tplf) sfidando la decisione del consiglio elettorale centrale di rinviare tutte le consultazioni. Le misure restrittive del governo di Addis. Per Abiy il voto tigrino è “illegale”; e di pari passo con le critiche al suo operato si sono moltiplicati gli arresti di dissidenti e giornalisti e la chiusura di internet, tutte tecniche da vecchio regime. Jawar Mohammed, principale sfidante del premier, come lui appartenente all’etnia oromo, esule negli Stati Uniti e rientrato nel 2018, laureato all’università di Stanford, si trova al momento in carcere con l’accusa di terrorismo e tradimento, e pratica lo sciopero della fame. Amnesty International ha sollecitato un’indagine internazionale guidata dalle Nazioni Unite e il pieno accesso al Tigray per attivisti per i diritti umani, giornalisti e operatori umanitari. La complicata geografia etnica dell’Etiopia. I rapporti fra governo federale e governo del Tigray erano tesi fin dall’elezione di Abiy, che aveva posto fine a tre decenni di dominio del Tplf; il premier, gradito all’Occidente, si diceva pronto a riunificare il Paese rafforzando i poteri dell’autorità centrale, ma il Tigray si è subito opposto, e altrettanto hanno fatto alcune delle diverse etnie che compongono l’Etiopia (il secondo più popoloso stato africano, con i suoi 110 milioni di abitanti e le sue 80 etnie). Abiy è il primo capo di governo nella storia etiope appartenente all’etnia Oromo (i gruppi etnici maggioritari sono gli Oromo, gli Amhara, i Somali e i Tigrini). Le aperture e le promesse che segnano il passo. Il suo Partito della prosperità ha aperto all’allargamento del processo decisionale a diversi gruppi etnici che prima ne erano esclusi, ma ha sbarrato il passo al Tplf. Nuove elezioni nazionali sono in programma per il 5 giugno, ma sarà difficile che possano aver luogo, vista la grave situazione di tensione, aggravata dalla pandemia; il premier aveva promesso un ambizioso piano di riforme economiche , tra cui la Costituzione della prima borsa valori etiopica e la privatizzazione del settore delle telecomunicazioni, ma le riforme segnano il passo mentre il gigantesco debito del paese si aggrava, e anche esponenti della sua stessa etnia cominciano a dubitare dell’efficacia del suo operato. Il coinvolgimento dell’Eritrea. Il governo minimizza la portata degli scontri e l’entità delle vittime, e parla di una semplice operazione di law enforcement, di ordine pubblico, dopo la conquista di Macallè, capoluogo del Tigray, il 28 novembre, ha dichiarato “completate e concluse le operazioni militari”: ma gli uomini del Tplf si sono dati alla macchia rifugiandosi sulle montagne e nelle zone rurali e sporadici combattimenti si segnalano tuttora. I dubbi di chi assegnò il Nobel ad Abiy. Alle forze governative etiopi si sono affiancati militari eritrei, accusati di essere quelli che hanno perpetrato i peggiori abusi. Eritrea ed Etiopia erano diventate nazioni separate negli anni novanta, dopo una guerra di indipendenza durata tre decenni, e sono nuovamente entrate in conflitto tra il ‘98 e il 2000; ma dall’ascesa di Abiy le relazioni si sono fatte più amichevoli, e proprio per il suo impegno nel ricercare e trovare un nuovo clima di distensione con l’Eritrea, il premier era stato insignito del Nobel per la pace. La situazione ora è talmente esplosiva che persino il Comitato di Oslo ha inviato un inusitato, sebbene circospetto, monito al primo ministro: “Il Comitato norvegese per il Nobel segue attentamente la situazione in Etiopia, ed è profondamente preoccupato”. Dagmawi Yimer, regista e documentarista etiope, ha detto a Nigrizia che la speranza è che con Abiy Ahmed “crescano ed emergano figure che rappresentino una stagione nuova per il Paese”. “Crimini contro l’umanità” perpetrati da tutti. Secondo le informazioni raccolte da Nigrizia, rivista dei missionari comboniani, crimini contro l’umanità sono stati perpetrati “da più attori del conflitto”, sia dalle forze armate etiopiche, che dal Tplf e dai militari eritrei, oltre che dalle milizie a loro associate. Il quotidiano Avvenire ha raccolto una drammatica testimonianza degli stupri perpetrati dagli eritrei: è quella di Sennait, “contadina e madre sequestrata in strada e violentata per giorni a Kerseber, un villaggio dove sorge un ponte costruito dagli italiani quasi novanta anni fa sulla strada per Asmara. “Sapevo che gli eritrei avevano passato il confine e occupato l’area da Zalambesa a Kerseber. Ma dovevo procurarmi il cibo per i miei figli di 6 e 11 anni. Mio marito è emigrato in Arabia Saudita tre anni fa. Hanno rapito me e altre otto donne, alcune giovanissime. Mi hanno violentata notte e giorno in quindici. Mi picchiavano e torturavano, quando chiedevo perché ci odiassero tanto dicevano che ora comandavano loro nel Tigray”. Egitto. “Se diventa legge torniamo indietro di 200 anni” di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2021 Così al-Sisi vuole degradare i diritti delle donne. La proposta di legge - che tocca matrimonio, divorzio e tutela dei figli - si trova al vaglio della Camera dei Rappresentanti in vista di una imminente adozione. Colpisce, in particolare, la creazione della figura del tutor in grado, sempre e solo per la parte femminile, di poter dichiarare nullo il matrimonio entro un anno di tempo qualora ritenga la coppia incompatibile o, addirittura, la dote. Vivere in Egitto, non sostenere politicamente il governo ed essere donna può avere conseguenze devastanti nel periodo storico che copre gli ultimi sette anni. Un Paese con una forte impronta patriarcale dove i diritti umani sono raramente stati tutelati, specie dal 2013 in avanti. Il regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi, al potere dopo il colpo di Stato, nel tempo ha introdotto alcune leggi e modifiche della Costituzione che hanno fatto discutere. Oltre a concedere mandati illimitati allo stesso presidente, gridano vendetta i disegni di legge che hanno prodotto un giro di vite sull’informazione, con circa 600 tra testate cartacee e siti online oscurati, e quello diretto contro le ong sul fronte sociale ed economico. Adesso arriva la discussione su una proposta di legge che intende mettere mano ai diritti acquisiti dalle donne: “Se la proposta avanzata dal governo dovesse essere convertita in legge sarebbe come tornare indietro di 200 anni - attacca Nehad Aboul Kmosan, avvocatessa che fa parte dell’Ecrw, Egyptian centre for women’s rights. Respingiamo con forza questo progetto legislativo scioccante. In Egitto abbiamo donne in tutti i campi, addirittura ministre, donne che possono firmare contratti per conto dello Stato, ma in base a questa legge, non avrebbero nemmeno il diritto garantito di contrarre un matrimonio qualora fossero state precedentemente sposate”. La proposta di legge è stata annunciata l’autunno scorso e adesso, dopo alcuni mesi di silenzio, il testo si trova al vaglio della Camera dei Rappresentanti in vista di una imminente adozione. Un gruppo di oltre 50 organizzazioni che si occupano di diritti delle donne ha firmato un documento congiunto in cui si chiede alle autorità egiziane di ritirare la proposta di legge. All’appello lanciato si sono uniti centinaia di personaggi pubblici che hanno aderito alla campagna: “L’attuale governo si vanta di avere molte donne all’interno dell’Esecutivo e di altre cariche dello Stato, ma con questa legge devasterà per sempre i diritti femminili” attaccano le organizzazioni in un documento. Entrando nel merito, la proposta di legge del governo va ad incidere su tre temi centrali: il matrimonio, il divorzio e la tutela dei figli. Colpisce, in particolare, la creazione della figura del ‘tutor’ in grado, sempre e solo per la parte femminile, di poter dichiarare nullo il matrimonio entro un anno di tempo qualora ritenga la coppia incompatibile o, addirittura, la dote insoddisfacente. Non siamo al Medioevo, ma poco ci manca. Alle organizzazioni in tutela delle donne non va giù neppure l’idea che una madre single debba chiedere il permesso scritto dall’ex marito per viaggiare e su decisioni legali. Su questo punto la legge non prevede simili restrizioni anche per gli uomini: “Piuttosto - replicano le organizzazioni - chiediamo la modifica del regolamento per consentire ad una donna che decide di risposarsi, dopo aver divorziato, di mantenere la custodia dei figli da altro matrimonio: al momento la stessa passa al padre o alla nonna, non alla madre”. Modifiche sarebbero previste anche sotto l’aspetto religioso, ad esempio le discriminazioni verso le donne cristiane che potrebbero perdere la custodia dei figli qualora il marito si converta all’Islam. Dalle proposte alla realtà dei fatti purtroppo il passo è breve in Egitto. È nella vita e nei drammi di tutti i giorni che si perpetua una subalternità latente della donna all’interno della società egiziana. È sufficiente analizzare quanto accaduto negli ultimi mesi a proposito di concetti che dovrebbero essere considerati astratti come la “pubblica decenza delle donne”. Nonostante i social network vengano frequentati da ambo i sessi, il caso Tik Tok, esploso nel 2020, ha visto la giustizia del Paese assumere provvedimenti restrittivi solo ed esclusivamente nei confronti della parte femminile: 9 le donne arrestate e richiesta di condanne tra 2 e 6 anni; i processi sono tuttora in corso. Cosa dire poi del caso dell’anno in Egitto, lo scandalo dello stupro all’interno di uno degli hotel più lussuosi del Cairo avvenuto alcuni anni fa, anche se la notizia è emersa soltanto nel 2020 e l’inchiesta è subito partita. Una ragazza fu violentata per tutta la notte da un gruppo di rampolli dell’alta società egiziana. Al momento ad avere la peggio è stata una testimone di quanto accaduto: la sua denuncia le è costata il carcere per circa sei mesi, un’esperienza che l’ha scioccata al punto di tentare il suicidio. Infine il dramma delle attiviste antiregime arrestate e detenute nella prigione femminile di Qanater. Alcune di loro, tra cui le giornaliste Solafa Magdy e Esraa Abdel Fattah, oltre all’avvocato Mahinour al-Massry, hanno denunciato maltrattamenti e violenze e lo hanno fatto pochi giorni fa durante l’ultima udienza per il rinnovo delle loro detenzioni: “Solafa, Esraa e Mahinour hanno raccontato di essere state vittime di vari episodi di abusi ed intimidazioni da parte di funzionari della National Security - afferma l’avvocato Nabil al-Genady -. Sono stati loro tolti gli effetti personali, compresi coperte e vestiti caldi, sono sottoposte a ripetuti episodi di bullismo e di forte disagio psicologico”. Le tre donne si trovano in carcere in attesa di giudizio dal 2019. Tunisia. Polizia scatenata contro attivisti e militanti di Arianna Poletti Il Manifesto, 10 marzo 2021 Nel Paese nordafricano si moltiplicano gli arresti e le condanne al termine di processi celebrati con rito rapido e senza garanzie. Nel Paese nordafricano si moltiplicano gli abusi e le condanne al termine di processi celebrati con rito rapido e senza garanzie. Secondo la Lega tunisina per i diritti umani le persone arrestate sono ormai più di 1700. A dieci anni dalla caduta del regime di Zine el-Abidine Ben Ali, la Tunisia torna a fare i conti con la repressione poliziesca e giudiziaria. Il paese è attraversato da un’ondata di arresti senza precedenti dai tempi della rivoluzione, tanto che le principali organizzazioni della società civile mettono in guardia contro un possibile ritorno allo stato di polizia. Mentre l’alternarsi di ministri e governi altera da più di un anno il regolare funzionamento delle istituzioni in piena crisi economica e sociale, i sindacati delle forze dell’ordine, sempre più autonomi, continuano a rafforzarsi. Da metà gennaio, le pagine Facebook e gruppi Whatsapp dei sindacati di polizia pubblicano le foto di alcuni manifestanti, spesso scattate tramite il drone che sorvola le proteste, incitando ad un generale “ritorno all’ordine”. Così nella capitale è in corso un vero e proprio braccio di ferro tra polizia e attivisti politici. Sono sempre meno i giovani che si ritrovano nelle strade dei quartieri di periferia - i primi a scendere in piazza a gennaio 2021 - o in Avenue Bourguiba per manifestare: chi protesta è cosciente di rischiare l’arresto. Dopo l’ultima manifestazione di sabato 6 marzo, tre noti militanti della sinistra tunisina - Mondher Souidi, Mahdi Barhoumi e Sami Hmayed - sono stati arrestati dopo un’incursione domenica notte della polizia nell’abitazione di uno di loro, poi rilasciati dopo due giorni di detenzione in attesa del processo. Secondo l’ultimo rapporto dell’Associazione Tunisina per la Prevenzione contro la Tortura (Atpt), basta un post su Facebook per finire in manette. È accaduto ad Ahmed, a cui la polizia ha confiscato cellulare portatile e computer senza autorizzazione giudiziaria, come a Houssem, arrestato a Ben Arous per aver pubblicato un post a sostegno dei movimenti di protesta, spiega l’Atpt, che sta esaminando i dossier di decine di manifestanti che avrebbero subito violenze in commissariato. Alle polemiche sul caso di Ahmed Gam, 21 anni, prelevato sul posto di lavoro e picchiato fino alla perdita di un testicolo, il portavoce del sindacato nazionale della polizia Jamel Jarboui ha risposto che “si tratta di errori individuali” e le forze dell’ordine hanno saputo “mantenere l’autocontrollo nonostante le provocazioni”. Secondo l’avvocato Charfeddine Kellil, citato dai media locali, numerosi giovani si sono però ritrovati in detenzione arbitraria “senza che alcuna procedura venisse rispettata”, in assenza di un avvocato, spesso ancora minorenni. Gli arresti sono ormai più di 1700 secondo la Lega tunisina per i diritti umani. Tra i giovani condannati al carcere con un processo rapido, c’è Rania Amdouni, volto delle recenti proteste nella capitale, arrestata il 27 febbraio dopo essersi presentata spontaneamente in commissariato per denunciare una campagna denigratoria nei suoi confronti in quanto attivista femminista queer. Dal commissariato, però, la militante tunisina non è più uscita: il 4 marzo è stata condannata a sei mesi di carcere in nome dell’articolo 226 bis del codice penale, con l’accusa di “attentato al pudore”. La repressione di polizia, infatti, va a braccetto con quella giudiziaria: “anche i giudici sono in prima linea e, senza che il governo intervenga, stanno partecipando a un ritorno al passato”, commenta sulla stampa tunisina Nadia Chaabane, ex deputata ai tempi della Costituente. Il codice penale del paese nordafricano - risalente ai tempi del protettorato francese, apertamente liberticida ma ancora in vigore - giustifica le misure repressive adottate nei confronti di chi viene fermato dopo le proteste, spesso davanti a casa o in un luogo pubblico come è accaduto in pieno centro, nei caffè della capitale. Di conseguenza, da inizio gennaio ad oggi, anche le priorità della piazza sono cambiate: gli striscioni su pane e giustizia sociale vengono rimpiazzati dalle foto dei manifestanti arrestati, per cui la piazza continua a chiedere la liberazione. Il caso di Abdessalem Zayen, ventinovenne diabetico, morto in carcere perché privato dell’insulina dopo esser stato arrestato a inizio marzo a Sfax e accusato di aver aggredito verbalmente un poliziotto, ha contribuito a ravvivare il dibattito su pesanti condanne ingiustificate, che vanno da sei mesi a un massimo di quattro anni di prigione. Mentre si moltiplicano gli appelli per lo scioglimento dei sindacati di polizia, un collettivo a sostegno dei movimenti sociali in Tunisia si è rivolto al presidente Kais Saied chiedendo di concedere la grazia presidenziale ai giovani detenuti. Per l’associazione Al-Bawsala, invece, è necessario che sia il parlamento a sottoporre ad audizione il primo ministro Hichem Mechichi, perché risponda delle violazioni delle forze dell’ordine. Ieri pomeriggio, i sindacati di polizia si sono riuniti proprio di fronte alla Kasbah per chiedere un aumento del proprio stipendio e migliori condizioni di lavoro.