Dopo la sentenza deve iniziare un’altra storia di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 9 maggio 2021 “Dopo la sentenza deve iniziare un’altra storia”: questa frase, che è al centro del saggio dedicato al cardinale Martini dalla giurista Marta Cartabia e dal criminologo Adolfo Ceretti, riassume un po’ il senso dell’incontro che la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, rappresentata da me, che sono la presidente, e dalla vicepresidente Ileana Montagnini, ha avuto il 5 maggio, al ministero, con quella stessa giurista, che da poco è diventata Ministra della Giustizia. È una frase che segna la discontinuità tra la fase processuale e la sentenza, che parlano dell’uomo del passato, e la rieducazione dell’uomo detenuto, che dovrebbe guardare al futuro. È di questo che abbiamo parlato con la Ministra, della necessità che da questo periodo di “desertificazione” delle carceri con la pandemia si esca per ricostruire qualcosa di radicalmente diverso da quello che erano le carceri “prima”. Alla Ministra avevamo chiesto di incontrarci per parlarle del Volontariato negli Istituti di pena e nell’area penale esterna, e del nostro sforzo per superare la logica del coltivare ognuno il proprio orticello perfetto, e di finire così per contare tutti pochissimo. Quello che abbiamo chiesto con forza è che questo Volontariato, come ha di recente ribadito il Garante Nazionale, Mauro Palma, “non sia né subalterno, né di minore rilevanza” rispetto alle Istituzioni. Del resto lo dice chiaramente il Codice del Terzo Settore “…le amministrazioni pubbliche (…) assicurano il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore” e lo fanno attraverso gli strumenti della co-programmazione e della co-progettazione. La Ministra, in proposito, ha manifestato incredulità rispetto a questa “alterità”, come l’ha definita lei, del Volontariato così poco riconosciuta, ma è un dato di fatto, evidenziato dalla pandemia, che spesso i volontari sono considerati “ospiti”, “ruote di scorta”, e non una componente fondamentale dei percorsi rieducativi. Tema centrale dell’incontro è stata la Giustizia riparativa, semplicemente perché all’interesse grande per questo tema che sempre ha manifestato la Ministra corrisponde un lavoro importante della Conferenza in questo ambito, che ha delle caratteristiche di particolare valore perché intreccia la rieducazione con i metodi cari proprio alla Giustizia riparativa: - Il progetto “A scuola di libertà” rappresenta una esperienza che, se per gli studenti è di autentica prevenzione, per le persone detenute è una specie di restituzione: mettendo al servizio delle scuole le proprie, pesantissime storie di vita i detenuti restituiscono alla società qualcosa di quello che le hanno sottratto. C’è bisogno di confronto con la società esterna, di sentire la studentessa che racconta cosa ha significato per lei trovare dei ladri in casa di notte o l’insegnante che testimonia del terrore provato quando è stata presa in ostaggio durante una rapina: è soprattutto così, capendo quanto distruttiva è la paura provocata dai reati, che chi i reati li ha commessi si misura con la sua responsabilità. - I percorsi in cui famigliari di vittime di reati, come Agnese Moro o Fiammetta Borsellino, accettano di entrare in carcere e di aprire un dialogo con le persone detenute, sono percorsi di autentica rieducazione. È dall’incontro con le vittime e con la loro sofferenza che nasce la consapevolezza del male fatto. Mi viene in mente la generosità con cui Agnese Moro accetta di confrontarsi nelle carceri, ma anche la sua severità, quando pone domande durissime: “Come hai potuto mettere la sveglia quella mattina per andare a uccidere un uomo?”. - Dovrebbe essere approfondita anche la questione della mediazione penale come modalità di intervento applicata ai conflitti che sorgono in carcere, tra detenuti e detenuti, ma anche tra detenuti e operatori. A Padova, con Adolfo Ceretti, che è anche un mediatore, è già stata fatta una sperimentazione, che andrebbe estesa, perché questi conflitti, affrontati con rapporti disciplinari, perdita della liberazione anticipata, trasferimenti, alla fine allungano la carcerazione delle persone punite e non affrontano affatto il tema cruciale, che è quello della difficoltà a controllare l’aggressività e la violenza nei propri comportamenti. La Ministra non ha solo espresso interesse per questa idea della Giustizia riparativa applicata all’esecuzione penale, come cuore della rieducazione, ma si è anche impegnata a coinvolgere nel sostegno a questi progetti il Ministero dell’Istruzione e i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Affetti Il nostro Paese ha, per tradizione, molto a cuore il tema della famiglia, ma se le famiglie sono quelle delle persone detenute, siamo fermi a una legge, l’Ordinamento penitenziario, che ancora finge che bastino dieci minuti di telefonata a settimana e sei ore di colloquio al mese per salvare una famiglia devastata dalla carcerazione di un suo caro. Alla Ministra abbiamo detto che la sensibilità che ha dimostrato incontrando le persone detenute nel viaggio nelle carceri della Corte Costituzionale sarà fondamentale quando finirà la pandemia e si porrà con forza il problema di mantenere nelle carceri l’uso delle tecnologie, per dare finalmente più spazio agli affetti. Quello che chiediamo è che, quando si uscirà da questa emergenza, non vengano tagliate le uniche cose buone che la pandemia ha portato, il rafforzamento di tutte le forme di contatto della persona detenuta con la famiglia e l’uso delle tecnologie per sviluppare più relazioni possibile tra il carcere e la comunità esterna. Dal carcere alla comunità Ad affrontare per la Conferenza il tema dei percorsi dal carcere alle misure di comunità è stata la vicepresidente, Ileana Montagnini, che ha sottolineato le difficoltà che si incontrano nel lavorare al reinserimento dal dentro al fuori, ben sapendo che le misure di comunità presuppongono anche di riflettere sul tipo di comunità in cui rientreranno le persone. Ma quello che è fondamentale è che questi percorsi non siano più affidati alla precarietà dei progetti-spot, ma siano servizi certi che garantiscano continuità e qualità, proprio a partire da quella parte del percorso che si sviluppa in carcere, ma oggi ancora in modo troppo “casuale” e discontinuo. In carcere serve più lavoro “formativo” (il lavoro per l’amministrazione occupa in modo poco qualificato 15746 detenuti, il lavoro in carcere per cooperative circa 700 detenuti, di cui 150 a Padova Due Palazzi, per imprese circa 300), servono più attività costruite in vista del “fuori”, che è molto più complesso di quanto si aspetti la persona detenuta quando inizia a uscire. Ma se prima della pandemia uscivano ogni giorno dal carcere di Bollate circa 150 detenuti con il lavoro all’esterno o la semilibertà, e a loro volta i detenuti dentro quel carcere lavorano quasi tutti, vuol dire che si deve considerare carceri come Bollate, ma anche Padova e altri Istituti che sperimentano strade nuove, non “carceri vetrina”, ma modelli da applicare anche in altri istituti per rilanciare i valori della rieducazione. Ergastolo ostativo e possibilità di un cambiamento Alla Ministra abbiamo rappresentato le esperienze avanzate che il Volontariato porta avanti anche sul tema dell’ergastolo ostativo. La recente sentenza della Corte Costituzionale, che ridà ai magistrati di Sorveglianza la discrezionalità di concedere permessi anche a chi ha scelto di non collaborare con la Giustizia, ha scatenato una campagna di stampa forsennata sul fatto che “i mafiosi non cambiano mai”. Con la Ministra abbiamo ragionato sul fatto che le persone, da decenni in carcere nei circuiti di Alta Sicurezza, difficilmente possono cambiare se non gli si propongono dei percorsi rieducativi che rappresentino una assunzione di responsabilità rispetto al loro passato. Il progetto “A scuola di libertà” può essere uno di questi percorsi, e la recente esperienza, di un progetto di videoconferenze tra le scuole di Reggio Calabria e detenuti di quel territorio in carcere a Padova, è un esempio di persone detenute che mettono a disposizione delle scuole le loro testimonianze, perché i ragazzi capiscano i rischi e le conseguenze di certi comportamenti. Per finire, ci piacerebbe che venisse ripreso il grande lavoro fatto dagli Stati Generali dell’Esecuzione penale, con il coordinamento di uno dei massimi esperti di diritto penitenziario, il professor Glauco Giostra: la nostra proposta è, sulla base di quella esperienza, di creare un tavolo di lavoro, che veda rappresentate tutte le componenti coinvolte nella gestione dell’esecuzione delle pene: Volontariato, Camere penali, Garanti, Cooperative sociali, Università, Istruzione e Sanità. Se ci fosse stato nella fase della pandemia un coordinamento di questo genere, forse si sarebbe evitata la desertificazione delle carceri, ma ora il tema si ripropone con forza, perché serve davvero “UN’ALTRA STORIA”: *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Incontro dei laboratori di scrittura e delle attività di informazione e sensibilizzazione Ristretti Orizzonti, 9 maggio 2021 Ai responsabili dei laboratori di scrittura e delle attività di informazione e sensibilizzazione dal carcere e dall’area penale esterna. Gentili tutti, abbiamo ricevuto da Francesco Lo Piccolo, giornalista, direttore del periodico “Voci di dentro”, realizzato con i detenuti delle Case circondariali di Chieti e Pescara, un invito a promuovere una videoconferenza per rilanciare le nostre attività. Noi della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ci occupiamo da anni di informazione e comunicazione, in particolare con il Festival della comunicazione dal carcere e sul carcere, e quindi accogliamo volentieri questo invito e vi chiediamo di manifestarci il vostro interesse a partecipare a un incontro web (indicativamente da tenersi tra il 15 e il 28 di questo mese) e a contribuire a rilanciare queste complesse attività, anche in considerazione dell’uso delle tecnologie, che riteniamo vada promosso con forza negli istituti di pena. Segnalare la propria adesione alla mail ornif@iol.it. Per la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Ornella Favero, presidente Carla Chiappini, responsabile della comunicazione Da Voci di dentro Onlus Da un anno tutte le attività delle associazioni di volontariato sono sospese o in casi più fortunati sono ridotte al minimo. In tutte le carceri anche i laboratori via web, compresi quelli di scrittura e per la realizzazione dei giornali, hanno subito drastiche battute d’arresto. In molti casi sospeso anche il servizio di prenotazione e distribuzione dei libri e altrettanto è stata ostacolata la stessa comunicazione dentro-fuori. Per motivi di sicurezza a causa dell’emergenza Covid, dal carcere è stata così estromessa la società civile, che comunque già prima della pandemia era spesso considerata come subalterna all’Istituzione. A titolo di esempio diciamo solo che nel carcere di Pescara era in piedi un progetto in un’area non utilizzata e da noi trasformata in uno spazio aperto con laboratori quotidiani di scrittura, teatro, fotografia, computer, musica, sartoria tenuti da 15 tra volontari e studenti tirocinanti per una quarantina di detenuti. Progetto chiuso dopo tre anni nel 2019 e trasformato in un unico laboratorio di scrittura due volte a settimana e limitato a soli 5 detenuti. Poi il Covid ha fatto il resto. Nel ritenere che oggi spesso nelle carceri non venga rispettato il dettato della Costituzione (art. 27) e le norme e le osservazioni-indicazioni della Comunità Europea, proponiamo al più presto un incontro di tutte le associazioni impegnate nelle carceri italiane con laboratori di scrittura, con la realizzazione di riviste e/o giornali del carcere e con altre attività di questo tipo. L’incontro oltre a fornire il quadro esatto della situazione nelle varie carceri, deve essere occasione di confronto e dibattito per giungere anche alla definizione di una linea comune di risposta rivolta al superamento di questa grave situazione, che di fatto ha trasformato le carceri italiane in luoghi di sempre maggior sofferenza per oltre 50 mila persone, e spesso al di fuori della legalità. Francesco Lo Piccolo “Carcere inutile a rieducare”. “No, serve” di Gherardo Colombo e Vittorio Occorsio Corriere della Sera, 9 maggio 2021 L’ex pm di Mani Pulite e il nipote del magistrato vittima dei terroristi di Ordine Nuovo. Il carcere come strumento di rieducazione e repressione è superato? Ne è convinto un ex pm eccellente, Gherardo Colombo: in questo incontro con Vittorio Occorsio, il cui nonno, omonimo, fu ucciso dai terroristi di Ordine Nuovo nel 1976, spiega perché. Il dialogo (di cui qui pubblichiamo un’anticipazione) sarà trasmesso in occasione di un dibattito organizzato dalla Fondazione Occorsio all’interno del Festival della Giustizia Penale che si terrà in modalità mista (web e presenza) dal 21 al 23 maggio. Occorsio: “Lei è un convinto assertore dell’inutilità del carcere sul piano della rieducazione del condannato”. Colombo: “Mi sono convinto che il carcere, così com’è, non aiuta chi lo subisce a reintegrarsi positivamente nella società e non ci aiuta ad essere più tutelati. La mia opinione è che chi è pericoloso sta da un’altra parte, con tutti i diritti costituzionali che non confliggono con la sicurezza, e ci sta fin tanto che è pericoloso; per gli altri, il carcere non serve. E la Costituzione - che, agli articoli 3 e 27, assicura pari dignità a tutte le persone - a imporre che la pena non possa consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Inoltre, la funzione rieducativa della pena significa che l’aver commesso un delitto non necessariamente richiede, per rieducarsi, il carcere”. O: “L’articolo 27 della Costituzione viene a volte, non da lei, invocato in maniera piuttosto vaga. La norma non dice che la pena serve solo alla rieducazione del condannato. Ma che deve “tendere” alla rieducazione. Quest’ultima non esaurisce la funzione della pena. Nessuno qui vuole dire che la pena debba comportare violenza o soprusi. Ed anzi sono convinto che la sicurezza nelle carceri, così come un’edilizia più accogliente, siano elementi su cui valutare il grado di civiltà di una nazione. Ma sono altrettanto convinto che la privazione della libertà per i criminali sia un sacrificio imposto a garanzia dei cittadini. Anche quando la condanna arriva a molti anni dal reato”. C: “Vogliamo guardare ai risultati? L’alto numero di recidive fa sì che vi siano nuovi reati, che la collettività ne continui a soffrire”. O: “Però, mi consenta, occorre anche rispettare il punto di vista delle vittime, o no?” C: “Ma è proprio l’attuale sistema a non interessarsi delle vittime. Nella giustizia riparativa, invece, la vittima è un interprete principale, attraverso la ricucitura della relazione che il reato ha troncato. Il male consiste in quello: nella negazione della relazione sociale, nel rifiuto dell’altro e conseguentemente nel calpestarlo”. O: “Perché chiedere ai familiari delle vittime di doversi far parte attiva, oltreché della memoria - che già richiede alto senso di responsabilità per tornare sul dolore patito - anche di questo processo di riconciliazione con i carnefici?”. C: “La giustizia riparativa è su base volontaria, nessuno può esservi costretto. Ma torniamo alla pena. In alcuni Stati degli Stati Uniti c’è ancora la pena di morte, eppure lì si uccide circa 8 volte più che da noi. Non è che la pena di morte educhi all’omicidio? Occhio per occhio rende il mondo cieco, diceva Gandhi. Occorre separare le conseguenze della trasgressione dalla vendetta. E ben più faticoso compiere un percorso di mediazione, di giustizia riparativa, che essere costretto a starsene 20 ore al giorno sulla brandina della cella”. O: “Non c’è nessun desiderio di vendetta. Mio padre ha anche scritto un libro, in forma di lettera a me, “Non dimenticare, non odiare”. Il mio coinvolgimento non deriva da essere nipote di mio nonno. Direi le stesse cose comunque. Qui si discute di quale sistema assicura al meglio l’incolumità propria, dei propri cari, dei propri beni. Sono le alternative al sistema penale attuale che mi preoccupano”. C: “La giustizia riparativa viene praticata in molti Paesi con successo, ci si deve misurare con la realtà. Gli studi parlano di una decrescita della recidiva del 25%”. O: “Sperando che non vi sia, in questa statistica, una base maggiore di reati...”. C: “Non è così. Ho fatto il repressore per 33 anni, e mi sono dimesso anche perché finalmente ho compreso che questo sistema carcerario è contrario all’umanità, oltre ad essere inutile”. O: “Ma non possiamo semplicemente migliorare le carceri e sperimentare nuove forme di rieducazione? La Fondazione intitolata a mio nonno svolge anche iniziative nelle carceri, specialmente nelle scuole dei detenuti. Umanità del carcere e sistema repressivo vanno di pari passo”. Dei delitti e delle pene, di carcere e rieducazione di Concita De Gregorio La Repubblica, 9 maggio 2021 Anche io mi chiedevo come mai non si fosse accesa nessuna discussione sull’ergastolo ai due giovani americani giudicati per l’uccisione del sottufficiale dei Carabinieri Mario Cerciello Rega. Una discussione aperta, immaginavo, sul senso di condannare a vita due persone di vent’anni rispetto a quel che indica la Costituzione all’articolo 27: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Poi ho letto sul Foglio Adriano Sofri, che accantona “considerazioni azzardate” sull’ipotesi che la Corte sia stata drastica “per risarcire la vittima e con lei l’Arma dalle ombre sollevate sulla vicenda”. O per dissipare il dubbio di qualche compiacenza verso due cittadini americani. O che abbia deciso per una sentenza esemplare in prima istanza, perché tanto l’appello provvederà a smussarla. Escluse queste eventualità, bisogna concludere che lo Stato non ha nessuna fiducia che due ventenni, negli almeno sessanta successivi di aspettativa media di vita, possano attraverso il carcere essere “rieducati”. Dato che è ancora questa, giusto?, in uno stato di diritto che non contempla la pena di morte, la finalità della condanna. Pensavo a una discussione che non entra nel merito del reato commesso, non giudica la corte che giudica, non riesamina le vite dei condannati, quella della vittima o, per dire, di Sofri. Niente di tutto questo. Solo, in teoria: a cosa serve il carcere. Perché se serve a punire, certo, e insieme a rieducare ci sarebbe da chiedersi in che senso si possano rieducare due ventenni (uno dei due all’epoca appena maggiorenne) chiudendoli in una cella a vita. È solo una domanda, non contiene risposte. Pensavo di chiedere in giro, ma può darsi che sia meglio di no. La condanna dei due giovani americani e un ergastolo immaginato implacabile di Adriano Sofri Il Foglio, 9 maggio 2021 Ho letto pochi commenti alla conclusione del processo romano che ha condannato all’ergastolo due giovani americani per l’uccisione del sottufficiale dei carabinieri Mario Cerciello Rega. Non ho seguito il processo, e molto superficialmente le cronache di due anni fa: dunque mi uniformo alla convinzione di chi ha giudicato. Mi interrogo solo sulla pena massima in cui la Corte d’assise ha tradotto il suo giudizio di colpevolezza. Accantono considerazioni esteriori che sono per definizione azzardate: che la Corte abbia voluto mostrarsi drastica per risarcire la vittima e con lei l’Arma dalle ombre sollevate sulla vicenda, o per dissipare il dubbio di qualche compiacenza verso la cittadinanza statunitense degli imputati, in un paese che ricorda il Cermis e Abu Omar. Penso invece a giudici pienamente convinti della colpa che decidono di tradurre nella pena proporzionata, e optano per l’ergastolo. Dunque escludono, per due ventenni, l’eventualità che nel corso futuro della loro vita, cui la statistica accorda un tempo lunghissimo, la pena adempia alla finalità dettata dalla Costituzione: art.27, “Le pene… devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ammettiamo che qualche giudice abbia sollevato la questione. La risposta può essere stata che l’ergastolo in Italia (dove si ama dividere le cose in due) ha ormai due significati: uno inesorabile, detto “ostativo”, e peraltro appena inficiato dalla Corte costituzionale; e uno malleabile, per così dire, e che infatti fa dire a cuor leggero: “Tanto in Italia l’ergastolo non esiste…”. E fa obiettare, a cuore meno leggero: se non esiste, perché continuare a farlo esistere? Perché rendere omaggio a quella “perpetuità” della pena se non per una superstizione simbolica o retorica? Tradotta nella lingua dei due condannati, la sentenza suona così, la prigione a vita. Le donne e gli uomini che giudicano possono sentire, immagino, che finché il codice conserva la pena dell’ergastolo non tocchi a loro di derogare. È davvero così? Una condanna a 24 anni (le pene massime italiane sono di gran lunga superiori a quelle della media degli altri paesi europei) sarebbe parsa indulgente? C’è un’altra ipotesi. Che la Corte abbia pensato, si sia detta, che la sentenza di prima istanza meriti di essere esemplare, e che poi, “siamo in Italia”, l’appello provvederà a smussarla. Voglio sperare che non sia successo. Giorgia Meloni, leggo, ha auspicato che la condanna dei due giovani “venga scontata senza sconti”. Forse è stata impulsiva. La condanna, intanto, è stata pronunciata in primo grado. Quanto agli “sconti”, sono previsti variamente - buona condotta, permessi, semilibertà, libertà condizionata… - dal codice, alla cui lettera e al cui spirito l’auspicio contrasta. Oltre che al senso dell’umanità, anch’esso nell’art. 27. C’è un’abitudine pervicace a scambiare la “certezza della pena” per l’affettuoso “buttare via la chiave”. Ho una postilla, quasi buffa, l’ho suggerita altre volte. La durata media della vita si è allungata prodigiosamente, benché la pandemia lavori ora a rosicchiarne i guadagni. A metà dell’Ottocento si arrivava sì e no ai 40 anni. Un ventenne all’ergastolo aveva la prospettiva di un’altra ventina d’anni di galera. Oggi l’ergastolo di un ventenne equivale a una condanna a sessant’anni. Quasi buffo, no? I pullulanti giustizieri dovrebbero proporre l’aumento proporzionale delle pene, come una scala mobile che le indicizzi automaticamente alla longevità. Infine: un avvocato della difesa ha detto che “l’ergastolo per quei due giovani è peggio della pena di morte”. Ogni (quasi) argomento è lecito a un avvocato difensore. Ma niente è peggio della pena di morte. E un ergastolo immaginato implacabile non è il compenso al ripudio della pena di morte, ma la sua contraddizione. L’abolizione dell’ergastolo è il passo moralmente e ragionevolmente successivo al ripudio della pena di morte. “L’ergastolo per quei due giovani è peggio di una pena di morte” di Valentina Stella Il Dubbio, 9 maggio 2021 Carcere a vita con isolamento diurno per due mesi: questa la pena inflitta a Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth, accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Ergastolo con isolamento diurno per due mesi: si potrebbe pensare che sia una condanna inflitta ad un pericoloso boss della mafia e invece è la pena che due giorni fa la prima Corte d’Assise di Roma ha comminato a Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth, accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Il popolo esulta col trofeo in mano, non però quello di Dike (la giustizia) bensì quello delle Erinni, simbolo di vendetta. “Paradossalmente per un ragazzo di 19 anni l’ergastolo è più di una pena di morte - ci dice l’avvocato Renato Borzone, che difende, insieme al collega Roberto Capra, Lee Elder, il ragazzo che ha accoltellato Rega. Significa restare tutta la vita in carcere, per di più in un Paese straniero. E non dimentichiamo che solo per poco non è stato giudicato dal Tribunale dei minori e che soffre di pesanti problemi psichiatrici. Questa fame di pena e di carcere è significativa del background culturale del nostro Paese e di buona parte della magistratura che deve mostrare il pugno di ferro”. In merito alla decisione, Borzone si dice “sgomento insieme a tutta la stampa americana che, avendo seguito il processo, non si capacita dell’esito di questa vicenda. Non si è voluto in nessun modo guardare alle carte processuali ma si è fatto un atto di fede nei confronti della forza pubblica. E questo non è accettabile in una democrazia liberale. Il racconto dell’unico accusatore (il collega di Cerciello Rega, Andrea Varriale, ndr) è costellato da decine di esposizioni non corrispondenti alla realtà dei fatti: a nostro giudizio non è stato assolutamente provato, ad esempio, che i due carabinieri abbiano mostrato i tesserini e si siano qualificati. Varriale ha ripetuto per cinque volte in dibattimento di aver attraversato la strada sulle strisce pedonali di fronte alla farmacia in modo perpendicolare e il video della banca Unicredit dimostra esattamente il contrario. Ciò conforta la versione che hanno fornito i due imputati di essere stati affiancati dai due carabinieri che poi li hanno afferrati. Noi non abbiamo mai voluto dire che i carabinieri volessero uccidere i ragazzi o che volessero aggredirli. È probabile che volessero fermarli, ma nell’ambito di una operazione di polizia che è incredibile per la violazione di tutti i protocolli previsti. Questo, insieme a quanto accaduto a Bolzaneto, nella caserma di Piacenza, e i casi Cucchi e Marrazzo sollevano dubbi sulla catena di comando all’interno dell’Arma”. Questi elementi, insieme ai tantissimi altri che la difesa ha fatto emergere durante il dibattimento, lascerebbero ben sperare per l’Appello: “Non vuol essere una frase fatta ma noi contiamo sull’appello che sia condotto però da un giudizio laico e non formato su una ideologia per cui le forze dell’ordine hanno sempre ragione, soprattutto in un caso come questo dove abbiamo assistito all’imbavagliamento di uno dei due ragazzi in una caserma dei carabinieri, dove sono stati anche coperti di sputi quando sono arrivati”. Chiediamo all’avvocato Borzone se questo processo non sia la conferma di un concetto espresso recentemente dall’avvocato Valerio Spigarelli in un suo scritto per cui “il processo viene visto come uno strumento di difesa sociale e per tale motivo si carica di una serie di aspettative che finiscono per snaturarne le funzioni”. I giudici - risponde Borzone - “sono mossi sicuramente da istanze etiche e ciò non dovrebbe verificarsi in un Paese liberal democratico, dove si giudicano i singoli fatti e non i fenomeni. In questo caso si è voluta emettere una sentenza esemplare. E poi emerge sempre di più che in Italia non c’è la cultura della giurisdizione che si trasferisce dai giudici ai pm, bensì quella dell’Inquisizione che trapassa dai pm ai giudici. Purtroppo non abbiamo molto spesso giudici strutturati in base all’articolo 111 della Costituzione”. Per concludere chiediamo all’avvocato se è d’accordo con l’analisi del collega Ennio Amodio, secondo cui nel processo non dovrebbe entrare la parte civile, seconda accusatrice dopo il pm: “Sono contrario da sempre alle parti civili: si inseriscono delle istanze di vendetta privata all’interno del processo penale”. E poi fanno entrare in aula un’alta carica emotiva, che nulla c’entra con gli aspetti tecnico processuali: “Esattamente. C’è anche un problema di funzione del processo penale che si equivoca: non credo debba essere un modo di tutelare le vittime del reato, bensì dovrebbe accertare secondo i principi del giusto processo se una persona ha commesso o no un fatto. Sarebbe molto meglio che la soddisfazione per la vittima venisse consegnata ad un giudizio civile”. Abbiamo raccolto anche il parere dell’avvocato Francesco Petrelli, che ha difeso Gabriel Natale Hjorth insieme all’avvocato Fabio Alonzi: “La pena dell’ergastolo va letta per quello che è nella sua natura terrifica e inumana, contraria al dettato costituzionale. Significa dire a un ragazzo di poco più di 18 anni che non uscirà più dal carcere e che li dovrà finire la sua vita. Quale ragione di Stato e quale spinta vendicativa può far ritenere giusta una simile condanna, al di là delle parole di circostanza che sono state spese?”. Il loro assistito non ha inferto le coltellate a Cerciello Rega, eppure è stato condannato alla stessa pena di Elder: “Non entro nel merito di questioni e di ulteriori valutazioni che potremo conoscere solo leggendo le motivazioni - ci dice ancora Petrelli - ma la identità della pena inflitta, già di per sé oggettivamente contraria ad ogni principio di proporzionalità assoluta e relativa, irrogata con riferimento a posizioni che risultano totalmente difformi resta francamente incomprensibile”. Il caso ha sicuramente creato delle aspettative di condanna da parte dell’opinione pubblica, i giudici si sono potuto lasciare influenzare dalla pressione mediatica e sociale? “Accade ormai sempre più spesso che i processi, anche al di là della loro più o meno estese esposizioni mediatiche, divengano il pretesto per soluzioni di tipo simbolico, per cui la decisione tende ad assumere un valore di messaggio o di grande metafora comunicativa; il che stravolge totalmente e pericolosamente il ruolo e il fine del processo penale e la sua funzione democratica di civilizzazione”. Resta il fatto che dinanzi ad una dinamica dei fatti ambigua la Corte abbia sposato pienamente la tesi dell’accusa: “La dinamica dei fatti è stata in verità smentita anche dalla prova documentale - conclude Petrelli - in ogni sua latitudine e longitudine. Le reticenze e le menzogne emerse nella ricostruzione dell’intero “antefatto” sono clamorose, come sono risultate in maniera eclatante nei commenti a caldo e nelle successive valutazioni degli stessi colleghi dei due militari le anomalie, le oscurità, le deviazioni, le violazioni comportamentali poste in essere nel corso di quella operazione di recupero. È davvero inaccettabile che la Corte possa aver condannato partendo da tali presupposti”. Intanto ieri il dipartimento di Stato Usa, tramite un suo portavoce, ha fatto sapere: “Siamo consapevoli che a Roma i cittadini americani Finn Elder e Gabriel Natale-Hjorth sono stati condannati all’ergastolo per l’accusa di omicidio. Noi ci assumiamo la piena responsabilità di assistere i cittadini americani all’estero e fornire tutti i servizi consolari appropriati”. Il dipartimento, ha concluso il portavoce all’Agi, “resta in contatto con loro e continuerà a garantire i servizi consolari, incluse le visite in carcere”. Processo penale, sul tavolo prescrizione e inappellabilità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2021 Domani vertice tra Cartabia e i capigruppo di maggioranza in Commissione giustizia alla Camera sulle soluzioni tecniche per accelerare la durata dei procedimenti. Si stringono i tempi sulla riforma del processo penale. Domani, in un vertice tra la ministra della Giustizia Marta Cartabia e i capigruppo della maggioranza nella commissione Giustizia della Camera, sarà fatto il punto sugli esiti del lavoro della commissione guidata dal presidente emerito della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi. Nel summit, al quale dovrebbe partecipare lo stesso Lattanzi, saranno illustrate ai rappresentanti della politica le soluzioni tecniche per accelerare la durata dei processi e sminare di conseguenza la prescrizione, tema divisivo per eccellenza. La commissione ministeriale, costretta dalle urgenze dei lavori parlamentari e dalla necessità del Governo di mettere in campo un piano condiviso per accelerare i tempi della giustizia penale e civile, a chiudere i battenti in tempi estremamente brevi, ha messo a punto soluzioni alternative su alcune questioni, lasciando a Cartabia e al Parlamento la scelta finale, da tradurre poi nelle correzioni al disegno di legge Bonafede. Nel merito, alcune proposte che potrebbero prendere corpo nelle prossime ore avrebbero il sapore un po’ sorprendente del déjà-vu. Perché dalla commissione potrebbe arrivare la riproposta dell’inappellabilità del pubblico ministero, con la conservazione della sola possibilità per l’accusa di fare ricorso in Cassazione. Una strada percorsa nel 2006 dalla Legge Pecorella, poi drasticamente ridimensionata dalla corte costituzionale. Ora la disciplina verrebbe meglio precisata, tenendo conto delle osservazioni della Consulta; malgrado gli appelli del Pm rappresentino statisticamente una quota molto bassa, si fa notare come il lavoro delle Corti d’appello per affrontarli è comunque significativo. Sulla prescrizione, alla fine, la strada potrebbe essere quella di una revisione dell’attuale drastico stop dopo il primo grado, imposto dalla legge Spazza-corrotti, per virare verso una più calibrata prescrizione processuale. Ovvero, fissata una durata massima del primo grado e dell’appello, che potrebbe attestarsi rispettivamente sui 2 anni e sull’anno e mezzo, il decorso dei termini, in precedenza sospeso per consentire la celebrazione del processo, ripartirebbe, recuperando l’arretrato in caso di sforamento del limite di fase. questa soluzione se ne potrebbe affiancare un’altra, alternativa, che farebbe invece leva sull’aumento da un quarto alla metà del tempo tollerato per le interruzioni dei termini. Dalla commissione arriveranno poi proposte per incentivare l’utilizzo dei riti alternativi, allargando per esempio il perimetro dei reati che possono essere oggetto di patteggiamento. L’obiettivo, che peraltro era quello del Codice di procedura penale accusatorio, è di evitare l’afflusso al dibattimento del maggior numero di procedimenti possibile. In questo senso si interverrà in maniera più decisa anche sulle condizioni di procedibilità, con attenzione particolare per la querela. Nella fase di avvio del procedimento penale, a venire rafforzata dovrebbe essere la possibilità di sindacato del Gip sulla tempestività dell’iscrizione della notizia di reato da parte dei pubblici ministeri. In caso di indebiti ritardi odi omissioni da parte del Pm si aprirebbe la strada alla retrodatazione dell’iscrizione. Quanto poi alle indagini, l’idea è quella di fissare una durata massima, che dovrebbe essere di 2 anni, svincolandola però, almeno in via tendenziale, dalla gravità della pena prevista dall’ordinamento, nella convinzione che non sempre questa vada di pari passo con la complessità dell’attività investigativa da svolgere. Il progetto poi darà uno spazio maggiore alle condotte riparative, alla causa di non punibilità per tenuità del fatto. Giustizia, tra venti giorni in Cassazione i dieci referendum dei Radicali e di Salvini di Liana Milella La Repubblica, 9 maggio 2021 Dalla responsabilità civile, alla custodia cautelare, dalla separazione delle carriere all’uso del Trojan, dalla legge Severino alla responsabilità professionale dei giudici, per finire al Csm e al suo ruolo costituzionale. Una “bomba” pronta a esplodere sotto i piedi della Guardasigilli Marta Cartabia proprio mentre la ministra, con passi felpati e comportamento istituzionale, cerca di condurre in porto le riforme della giustizia. Una “bomba” che è già piena di contenuto. Perché sono una decina i referendum sulla giustizia su cui sta alacremente lavorando il radicale Maurizio Turco che, da marzo, è in strettissimo contatto con Matteo Salvini. Il quale, a parole, giura di non voler terremotare il lavoro di Cartabia, né tantomeno arrivare a uno scontro, ma di fatto rende plateale, proprio attraverso i suoi referendum, i suoi drastici obiettivi sulla giustizia. Che vanno ben oltre il programma di via Arenula e richiederebbero, tra l’altro, significative modifiche costituzionali. Titoli, quelli dei futuri referendum, che al pari della commissione d’inchiesta sulla magistratura, sono destinati ad arroventare i rapporti tra la politica e le toghe. Basta scorrerli: ecco i quesiti sulla responsabilità civile dei giudici, sui margini effettivi della custodia cautelare, sulla separazione delle carriere. Ma anche sull’uso della microspia Trojan, e perfino sulla legge Severino che disciplina la decadenza di parlamentari, uomini di governo e amministratori locali se condannati. Infine un referendum anche sul Csm. Il segretario dei Radicali, Turco, non si tira indietro dal raccontare come si sia messo d’accordo con Salvini. Una storia semplice, per come la riassume: “È dal 2019, dal nostro congresso di Napoli, che vogliamo rilanciare il referendum sulla responsabilità civile dei giudici il cui esito, rispetto ai risultati del 1986, è stato tradito dal Parlamento. Ne abbiamo riparlato a marzo, all’assemblea degli iscritti del partito”. Di cui Repubblica diede notizia, il 21 marzo. Proprio da lì nasce l’idea del contatto con Salvini. Che, per come la racconta Turco, c’è stato “prima che cadesse governo Conte”. Quindi quando il Guardasigilli era Alfonso Bonafede. E soprattutto Salvini era all’opposizione. Il racconto di Turco è dettagliato: “Ho recuperato il cellulare di Salvini e gli ho mandato un sms. Mi ha risposto subito. E mi ha detto che il giorno dopo era libero e potevano vederci. Siamo andati da lui, io e Irene Testa, la nostra tesoriera. Ci ha trattato da pari a pari, come se il suo non fosse un partito che conta il 22% dei voti. Gli abbiamo illustrato la nostra idea dei referendum. E lui ha detto subito che era d’accordo. Ci ha dato delle garanzie, e io mi devo fidare della parola di Salvini e del fatto che, a voto avvenuto, difenderà l’esito del referendum”. Nessun dubbio allora? Maurizio Turco è netto nella risposta: “In un rapporto di fiducia sulla parola data io non credo proprio che Salvini possa tradire. Del resto, finora, si è comportato correttamente. La nostra è stata un’iniziativa paritaria”. E quindi, Turco, che succede adesso? “Semplice, tra 15-20 giorni al massimo, andremo in Cassazione per depositare i quesiti. Saranno otto o al massimo dieci. Stiamo decidendo quali saranno i cinque sui quali raccogliere le firme”. Turco elenca dettagliatamente i referendum a cui lui e i suoi stanno lavorando. E poi, quasi di striscio, chiarisce che con Salvini non solo non si è parlato di accordi di governo o di sottogoverno, ma anche che i contatti con lui risalgono agli ultimi scampoli del governo Conte, quando ancora non c’era la crisi, né tantomeno già concretamente in vista il governo Draghi. Ma adesso, invece, non solo le toghe sono in allarme, ma anche all’interno del governo si avvertono scricchiolii, e basta vedere, all’uscita di Salvini sui referendum (Porta a porta di giovedì sera), la prima reazione a caldo della responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando, poi quella del vice capogruppo del Pd al Senato Franco Mirabelli, ma anche la collera di M5S che trapela dalle parole del presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni. Né basta, a spegnere l’incendio, le uniche due parole pronunciate dalla ministra Cartabia che alla notizia dei referendum che hanno per protagonista Salvini chiosa con i suoi “legittime iniziative”. Turco su questo è netto: “Salvini non vuole mettere in difficoltà il governo, in lui non c’è nessun retro pensiero su questo, ma è pronto a raccogliere con noi le 500mila firme necessarie per andare al voto nella prossima primavera”. Turco nega, quindi, che i referendum siano “un’arma di ricatto dentro il governo”, ma come hanno spiegato a Repubblica fonti della Lega, Salvini vuole tenersi libero rispetto a riforme, quelle che saranno proposte da Cartabia e anche approvate, che non affrontano in maniera radicale i punti dolenti della giustizia. Quelli, appunto, su cui lui vuole sentire l’opinione degli italiani e, forte di un voto favorevole, passare a riforme che saranno anche di tipo costituzionale. A che punto è, a oggi, il lavoro tra Radicali e Lega? E chi sono gli interlocutori del Carroccio? Turco spiega che il principale protagonista è proprio lui, Salvini. Ma fa anche i nomi anche di Giulia Bongiorno, la responsabile giustizia, e di Andrea Ostellari, il presidente della commissione Giustizia del Senato. Aggiunge che “i testi dei referendum non sono ancora pronti, ma una prima scrittura di massima è stata fatta, e adesso si sta lavorando a quella tecnica, con gli esperti nostri e quelli della Lega sulla formulazione più corretta dei quesiti”. E la Cartabia, in tutto questo? Turco è stato da lei, sempre con Irene Testa, giusto tre giorni fa. E le ha parlato anche dei referendum. “Le abbiamo detto che il Partito radicale vuole arrivare dove il Parlamento non può intervenire. Per noi lei è un tipo anglosassone. È una spanna sopra il livello superiore di chi si occupa di giustizia”. Non è dato sapere quale sia stata la reazione di Cartabia di fronte alla notizia dei referendum promossi anche da Salvini. Certo è che Turco la mette così: “Buttare giù il governo non esiste, è fuori dalle sue intenzioni. Posso testimoniare che in privato - presenti io, Irene e Giuseppe Rossodivita - Salvini non ha mai detto che vuole far cadere il governo Draghi. Ma si rende conto che questa partita può giocarla soltanto con noi. E per noi lui è l’unico che poteva capire l’importanza di questa partita sulla giustizia”. Lotta nella magistratura. Tutti i rischi del silenzio del Colle sulla giustizia di Rino Formica Il Domani, 9 maggio 2021 Da almeno 30 anni è in corso un processo di ridimensionamento del potere sovrano popolare e di concentrazione di potere nelle mani dei vertici delle istituzioni che servono a evitare di affrontare la congiunzione che da così lungo tempo in atto tra crisi del sistema politico e crisi del sistema previsto dalla Carta. Tutto è cominciato all’inizio degli anni Novanta quando il potere dei partiti politici, e quindi del sistema politico, si è andato depauperando, ha dato spazio all’intervento di altre componenti del sistema istituzionale consentendo loro di essere forze sostitutive della politica. Quando il Partito radicale pone al presidente della Repubblica il problema del messaggio alle camere sulla crisi della giustizia e del Csm, la risposta semi ufficiosa è stata quella che non si deve interferire con la attività della magistratura. È come dire: vogliamo sapere che malattia ha il nostro corpo sociale e politico e si risponde che se ne sta occupando il malato. Il presidente della Repubblica può diventare re senza violare l’articolo 139 della Costituzione che stabilisce che la forma repubblicana non è sottoponibile a una revisione costituzionale? Il potere sovrano esercitato dal popolo può essere limitato o condizionato senza infrangere il secondo capoverso dell’art. 1 della Costituzione? Le due domande sono retoriche, la risposta non può non essere no. Però è in corso da almeno trent’anni un processo che ha messo in moto un ridimensionamento del potere sovrano popolare ed una concentrazione di potere nelle mani dei vertici delle istituzioni - presidente della Repubblica e presidente del Consiglio - che servono a evitare di affrontare la congiunzione che da così lungo tempo in atto tra crisi del sistema politico e crisi del sistema previsto dalla Carta. Tutto è cominciato all’inizio degli anni Novanta quando il potere dei partiti politici, e quindi del sistema politico, si è andato depauperando, ha dato spazio all’intervento di altre componenti del sistema istituzionale consentendo loro di essere forze sostitutive della politica. Non dimentichiamo che nel 1992 il presidente della Repubblica disse che che il parlamento, che è il luogo dell’esercizio della sovranità popolare, doveva scrivere sotto dettatura la legge elettorale; e poi sciolse le camere, che pure avevano una maggioranza politica e di governo mai venuta meno. Si fece una modifica nel potere locale, si passò dal primato della democrazia consiliare nei comuni e nelle regioni all’accentramento del potere del sindaco che diventò podestà, e nelle regioni fu ridotto il potere delle giunte e dei consigli e ci fu un forte accentramento del presidente, che non a torto infatti fu dalla voce popolare chiamato governatore. Questo ha portato a evidenziare la necessità che la crisi del sistema politico era risolvibile attraverso una semplificazione del sistema politico, con una riduzione del potere dei partiti e delle istituzioni del sistema dei partiti, ed una accentuazione del potere dei vertici istituzionali. Questa situazione è esplosa in maniera grave con questa legislatura, quando ci siamo trovati di fronte a un effetto collaterale di un sistema non più organizzato che è stato sostituito da un sistema di organizzazione populistica del consenso intorno a motivazioni di carattere convincente, non di grandi visioni e di orizzonte. Nell’interno del sistema istituzionale i poteri e le forze costitutive nelle istituzioni sono andate assumendo sempre più prima un carattere autonomo e corporativo di corpi che intervenivano direttamente nella politica, poi con una disgregazione interna degli stessi corpi istituzionali. Quando il Partito radicale, un piccolo partito ma che nella storia della Repubblica italiana rappresenta una componente non trascurabile della coscienza critica della società, pone al presidente della Repubblica il problema del messaggio alle camere sulla crisi della giustizia e del Csm, la risposta semi ufficiosa è stata quella che non si deve interferire con la attività della magistratura, perché si stanno occupando del problema quattro procure. È come dire: vogliamo sapere che malattia ha il nostro corpo sociale e politico e si risponde che se ne sta occupando il malato. Dobbiamo constatare che noi oggi abbiamo due posizioni al centro della crisi del sistema politico democratico parlamentare: la presidenza della Repubblica e quello del Consiglio. L’uno è garante dell’equilibrio costituzionale e quindi delle istituzioni, e l’altro del buon governo. Ma entrambi hanno problemi di calendario: l’uno è alla fine del settennato vuol evitare che ci sia un diluvio istituzionale nella coda del mandato, l’altro è stato incaricato di un compito riduttivo e speciale: risolvere la crisi sanitaria e varare il piano di rilancio. Questo si esaurisce in pochi mesi. A ottobre o è fatto o il non fatto peserà sulla situazione generale. E che fare subito dopo? Può una personalità così quotata nel campo internazionale, che anche se si mostra modesto è molto carico di autostima, andare al Quirinale? Si pone un problema: la stabilità nei prossimi anni ha bisogno di un punto di stabilità, un punto sovrano. La Pdr che diventa il punto di stabilità e consente nello stabilire cosa è buono e cosa è male nelle riforme. E questo giudizio non può essere affidato al volere sovrano del popolo, perché il popolo non è tutta brava gente. La completa e totale sovranità affidata al popolo è un rischio. Questa è una tentazione da sempre presente nella società italiana, che ha assunto caratteri vistosi dal 1992 e oggi se fossimo meschini soddisfatti delle vendette della storia, dovremmo dire come quel manipolo di giacobini tracotanti che alla tv in nome del potere rivoluzionario della magistratura stabilivano che l’Italia andava voltata come un calzino, adesso mestamente si trovano ad essere di fronte ad altri pezzi della magistratura che vanno a vedere i loro calzini. Questo processo lento ma inesorabile è una restaurazione. E in Italia ha il carattere di una restaurazione pre-repubblicana. Cioè il sovrano diventa il re, buon galantuomo dispensatore di giudizi sani e saggi, e la democrazia deve essere docile. Insomma un poco di accettazione da parte del popolo dei caratteri propri dei sudditi e un poco di accettazione da parte del sistema democratico di avere un sovraordinato regolatore degli eventi non risolvibili dalle crisi e dalle emergenze. Se tutto questo nei prossimi mesi non viene riportato nell’alveo naturale, la discussione nell’organo costituzionale della sovranità popolare che è il parlamento, e se questo non viene attivato dal garante della Costituzione, ci troveremo di fronte al rinsecchimento dei poteri del parlamento. E come si fa ad affrontare una crisi istituzionale non attraverso gli organi istituzionali ma nelle indiscrezioni dell’opinione pubblica, della stampa, dei giornali? Perché ciò che può essere divulgato da un giornalismo di inchiesta non può essere affrontato dagli organi istituzionali? È già questa un’autolimitazione della rappresentanza. Questa discussione deve avvenire in parlamento subito. Il piano di rilancio che lega investimenti alle riforme, ma già oggi ci spiegano che le riforme non potranno essere profonde, ma delle semplificazioni di superficie, che non intervengono sui meccanismi profondi delle disuguaglianze. A settembre si vota elezioni di carattere politico totale. Da questo panorama uscirà una divaricazione fra il parlamento, il paese legale, rispetto al paese reale. Non sarà un sondaggio. In che clima si svolgerà la elezione del pdr? Sarà un clima torbido, dove già sono visibili non solo i giochi e gli intrighi fra gruppi, ma anche un ulteriore disgregarsi del sistema politico fuori del parlamento. Non è sottovalutabile che fra ottobre e novembre si svilupperà la campagna referendaria di un partito tradizionalmente legato ai referendum come i radicali, ma anche di un partito di governo come la Lega su temi cruciali come la giustizia. Noi avremo uno stato di confusione in cui il parlamento non discute e nel paese avviene un dibattito politico. Insomma, il rifiuto di portare il dibattito sulla crisi istituzionale nel parlamento con un doveroso messaggio del garante della costituzione è ineludibile. Sfuggire a questo obbligo significa avventurarci verso situazioni totalmente imprevedibili, la restaurazione di una finta democrazia pre-repubblicana e una regressione totale. Su questa strada forse si troverà qualcuno che sarà preso dal desiderio di napoleoneggiare su una crisi delle istituzioni. Sicuramente non troveremo un popolo diventato libero, ma che accetta la regressione alla massa di sudditi. Csm: come cambiare l’organo di autogoverno della magistratura dopo gli scandali di Guido Neppi Modona Il Riformista, 9 maggio 2021 L’elemento che domina il dibattito sulla crisi della giustizia e sulle possibili soluzioni, alcune inutili se non addirittura dannose, è certamente la grande confusione. Conviene sgombrare subito il campo dalle numerose proposte di legge volte a istituire una commissione parlamentare di inchiesta. Attraverso la sciagurata vicenda Palamara e poi le altrettanto inquietanti rivelazioni dell’avvocato Amara già conosciamo quanto profondo e diffuso sia il degrado di un sistema che di fatto ha messo nelle mani delle correnti tutto ciò che riguarda lo stato giuridico dei magistrati: assegnazione della sede, trasferimenti, promozioni, incarichi direttivi, applicazioni presso istituzioni e uffici esterni alla magistratura. Una commissione parlamentare di inchiesta non farebbe che confermare lo scempio che è stato fatto dei principi di legalità su cui avrebbero dovuto basarsi i provvedimenti sullo stato giuridico dei magistrati, ma certo non sarebbe in grado, proprio per le finalità prevalentemente conoscitive e per i diversi obiettivi politici dei singoli parlamentari, di proporre soluzioni condivise e risolutive. Il problema centrale dunque non è conoscere: il vergognoso sistema di raccomandazioni e di scambio di favori a cui hanno dovuto sottomettersi molti, troppi magistrati per perseguire le loro legittime aspettative di “carriera” è ormai ampiamente noto. Peggio ancora, poi, quando per ottenere una posizione di favore illegittima, il magistrato ha fatto mercimonio della propria indipendenza, perché qualcuno, in perfetto stile mafioso, sarebbe poi venuto a chiedergli di saldare il conto. Dei meccanismi su cui si reggeva questo quadro agghiacciante sappiamo più che a sufficienza, ora è il momento di cercare le vie per venire fuori da questo pantano in cui ha sguazzato una parte, speriamo non troppo consistente, della magistratura. Il rimedio va senza dubbio ricercato nel Consiglio superiore della magistratura (Csm), rimasto anch’esso travolto dallo scandalo (ben sei componenti togati hanno frettolosamente dato le dimissioni), al punto che vi è da domandarsi se possa ancora essere qualificato come organo di “autogoverno” della magistratura, o non si debba piuttosto pensare, per la stessa tutela dei giudici non immischiati nel gioco delle correnti, a un organo di “governo”. Della riforma del Csm si sta comunque occupando un gruppo di studio tempestivamente nominato dalla ministra della giustizia Marta Cartabia. Tenuto conto dei vincoli posti dal dettato costituzionale, che prevede - come noto - che due terzi dei suoi componenti (i c.d. togati) siano eletti dai magistrati ordinari e un terzo (i c.d. laici) dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari in materie giuridiche e avvocati dopo 15 anni di servizio, la riforma del Csm dovrebbe realizzarsi in due tempi: subito le modifiche più urgenti che non interferiscono con i principi costituzionali, in un secondo momento le modifiche che coinvolgono anche la Costituzione. Nel primo tempo i magistrati rimarranno quindi in schiacciante maggioranza e il principale rimedio potrebbe essere un sistema elettorale idoneo a contrastare il peso delle correnti all’interno della maggioranza togata del Consiglio. Si potrebbe pensare - a qualcosa di analogo ha accennato Giovanni Maria Flick - a circoscrizioni elettorali non troppo estese, coincidenti con i distretti di corte di appello, nelle quali i magistrati vengono chiamati a votare colleghi che si sono autocandidati a titolo personale, senza riferimento alle correnti; meglio ancora se in una sorta di primarie gli elettori della circoscrizione indicano una serie di candidati che per conoscenza personale e diretta riscuotono la loro fiducia, tra i quali viene poi eletto il consigliere del Csm. Nel secondo tempo della riforma si dovrebbe diminuire il numero dei componenti togati del Csm. I Costituenti avevano l’obiettivo primario di garantire l’indipendenza della magistratura dal potere esecutivo, quanto ai giudici già intaccata nel corso dello Stato liberale e poi del tutto vanificata nel periodo fascista, mentre il pubblico ministero era da sempre posto alle dipendenze del ministro della giustizia. L’attuale degenerazione causata dallo strapotere delle correnti e dall’esasperata autotutela corporativa dei magistrati, soprattutto del pubblico ministero, suggerisce di diminuire a un terzo o alla metà il numero dei togati. Quanto ai laici, dovrebbe esser eliminata la componente politica eletta da Parlamento, al fine di evitare il riproporsi di pericolosi cortocircuiti tra giudici e politici. I laici, scelti come ora tra docenti universitari e avvocati, potrebbero essere eletti dai presidi delle facoltà (ora dipartimenti) di giurisprudenza e dai consigli forensi, nonché dalla Conferenza dei rettori delle università italiane. Risulterebbero così inseriti nel corpo elettorale anche esponenti di rilievo della società civile, non necessariamente provenienti dal ceto dei giuristi. Infine, il vice-presidente del Csm, ora eletto dal Consiglio tra i componenti laici, dovrebbe essere designato, sulla base di un rapporto di fiducia, dal Presidente della Repubblica, che è anche Presidente del Csm. Verbali e Csm, Storari scarica Davigo: “Disse che era tutto in regola” di Giuliano Foschini e Conchita Sannino La Repubblica, 9 maggio 2021 Il pubblico ministero milanese, indagato a Roma per rivelazione di segreto, interrogato dal procuratore capitolino Prestipino rivela che l’ex pm di Mani pulite lo convinse a passargli carte. Avvenne a Milano, la consegna. E, soprattutto, non fu una scelta avventata. Né il frutto di una solitaria deliberazione di un pm a caccia di ribalta o scandali. Quelle carte segrete del caso Amara arrivarono a Palazzo dei Marescialli perché fu l’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo ad “autorizzare” il pm milanese Paolo Storari sulla “legittimità” di una soluzione che ha invece scosso il Consiglio Superiore e seminato la strada di gialli e veleni. Ecco ciò che di inedito emerge ieri, dal racconto di Storari, indagato a Roma per rivelazione di segreto e interrogato dal procuratore Michele Prestipino e dai suoi sostituti, Affinito e Tucci, per lo scandalo della fuga di notizie sulla presunta loggia Ungheria. Quell’azione fu meditata, dice il pm, e tutta affidata al togato del Consiglio: “In due momenti”. Prima, Storari spiega il contesto, i nomi, si sfoga su presunte inerzie del suo procuratore Francesco Greco, chiede consiglio. Poi, Davigo valuta e gli dice: sì, anche senza deposito o esposto formale. Dammi quei verbali, si può fare. Da lì parte la storia misteriosa dell’inchiesta che doveva rimanere segreta e invece viene esposta a rischi di varia natura. Non solo circolata tra membri del Csm, poi spifferata dalla “postina” Marcella Contrafatto, la funzionaria di Davigo ora sotto indagine a Roma, che recapiterebbe quei verbali ai giornalisti e al consigliere Nino Di Matteo. L’ultimo imbarazzo per Davigo potrebbe riguardare la scelta di veicolare il contenuto dei verbali anche in ambiente tecnico-politico. L’allora consigliere ne parlò al presidente della commissione Antimafia, il senatore 5S Nicola Morra. Che spiega ora perché ha depositato a Michele Prestipino, venerdì, la sua relazione. “All’Antimafia è insediato il comitato che si occupa di massonerie deviate, e quindi Davigo mi raccontò dell’indagine - dice Morra a Repubblica - Mi mostrò i verbali nella tromba delle scale, rimasi interdetto. Mi sbalordì anche sapere che accuse del dichiarante (il faccendiere Piero Amara, ndr) colpivano anche Ardita”, attuale membro Csm ed ex compagno di corrente di Davigo, con cui quest’ultimo aveva chiuso i rapporti. “Felice di sapere oggi che Ardita non c’entra nulla”, aggiunge Morra. Scelta legittima anche quella? O Davigo commise una violazione? La Procura di Roma non può che valutarne i profili. Ma è soprattutto l’interrogatorio di Storari a tener banco nel sabato di istruttoria. Sono le 13 e 15 quando il pm travolto dal caso Amara e il suo avvocato, Paolo Della Sala, escono dalla Procura generale, ma il faccia a faccia è durato di meno. Prestipino e i suoi pm - come correttezza vuole - concentrano le domande sull’unico aspetto: il luogo della consegna degli atti a Davigo, dirimente nella valutazione della competenza. “Milano”, dice subito Storari. Contrariamente a quanto avrebbe detto un mese fa, ricorda che tutto avvenne non a Roma, ma in pieno lockdown lombardo, inizio aprile 2020 (come aveva già detto Davigo, da teste). E poi fa di più. Oltre al dove, Storari offre il perché. Questo: mi fidavo fosse una scelta giusta, ne parlammo e Davigo mi rassicurò. Ora la competenza potrebbe passare a Brescia, non lontana peraltro dalle tensioni milanesi. All’uscita Storari appare un po’ provato ma sereno: resta muto. Parla invece il legale (“Niente sul merito dell’interrogatorio”). E, legandosi a dichiarazioni fatte in tv da Davigo, Della Sala spiega: “Tecnicamente, il consigliere era persona autorizzata, dal nostro punto di vista, a ricevere quegli atti. Tale il dottor Davigo si era qualificato e in tal senso aveva autorizzato il dottor Storari alla consegna”. Una sottolineatura che, come Repubblica è in grado di ricostruire, Storari fa mettere agli atti: attraverso una dichiarazione spontanea. È un modo per scaricare la regia dell’azione sullo stimato collega, ora in pensione? È la strategia difensiva di chi non ci sta a essere usato da chicchessìa nello scandalo che ha risvegliato risentimenti e vecchie faide, come la distanza ormai insanabile tra Davigo e Ardita? Della Sala alza le mani: “Il dottor Davigo, con trasparenza, in tv ha rivendicato tali prerogative”. Intanto potrebbe aprirsi con un vertice un’altra settimana incandescente. È fissata - nei prossimi giorni - la riunione di coordinamento tra le Procure investite dal ciclone Amara. “Sulla magistratura serve un’inchiesta indipendente”, intervista a Fausto Pocar di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 9 maggio 2021 Una crisi di credibilità è quella che ha investito la Magistratura. Non in casi singoli, ma nel suo complesso. Ed è questa la cosa più allarmante. A sostenerlo a Il Riformista, è un’autorità riconosciuta a livello internazionale nel campo del Diritto: Fausto Pocar, già professore di Diritto Internazionale presso l’Università degli Studi di Milano. Dal 1984 al 2000 ha fatto parte del Comitato per i Diritti Umani dell’Onu, ricoprendo l’incarico di presidente dal 1991 al 1992. Inoltre, Pocar è stato membro della delegazione italiana all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York e a più riprese alla Commissione per i Diritti Umani a Ginevra. Nel 1999 è stato nominato giudice per il Tribunale Internazionale per i Crimini nella ex-Jugoslavia, ricoprendo il ruolo di Presidente dal 2005 al 2009. È anche membro della Camera di Appello del Tribunale penale internazionale per il Ruanda dal 2000. Professor Pocar, un nuovo tsunami si è abbattuto sulla magistratura: quello della “Loggia Ungheria”, che fa seguito al “caso Palamara”. Che idea si è fatto in proposito? L’impressione che ho ricevuto è di una estrema gravità. Mi riporto a quanto ha detto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quando è scoppiato il caso Palamara. In buona sostanza, il Capo dello Stato parlò di un quadro sconcertante, di manovre per veicolare le nomine dei magistrati. E ha parlato di necessità di una riforma per restituire credibilità ai giudici. Questa è l’impressione che ho avuto io stesso e mi identifico pienamente in queste parole del Capo dello Stato. Perché? Perché se i giudici non sono più credibili in questo Paese, la gravità del problema è di carattere generale. Non è il singolo episodio di corruzione al quale si può mettere riparo. Ma se stiamo parlando di credibilità dell’organo di autogoverno, il Csm, e di credibilità della magistratura nel suo complesso, sia quella inquirente sia quella giudicante, la situazione è veramente gravissima. Occorre trovare un rimedio. Un Paese civile, un Paese europeo soprattutto, non può andare avanti con una magistratura che non è più credibile. Ne va di tutta la cooperazione giudiziaria internazionale, e di questo credo di avere una certa esperienza. Non coglierne la portata, o ridurre il tutto a qualche “mela marcia”, lo ritengo un grave errore di percezione che rischia di rendere vane le parole e le sollecitazioni del Presidente Mattarella. La “correntizzazione” della nostra magistratura, dell’Anm, lei l’ha ritrovata in altre realtà con cui ha interagito? In quelle con cui ho interagito non l’ho ritrovata. Premetto che non ho una esperienza ampia nella conoscenza di altre magistrature e poi bisogna vedere come le nomine vengono fatte in altri Paesi. Non c’è sempre un organo di autogoverno come abbiamo in Italia. Dove c’è, ci può essere questo stesso problema, mentre dove le nomine sono fatte in altro modo il discorso può diventare molto diverso: se le nomine sono fatte dal potere politico, ad esempio, ci saranno altri problemi ma non questo della “correntizzazione”. Che è una grave stortura della magistratura. Questa non è una cosa nuova. Le correnti ci sono da troppo tempo nella magistratura. Un pluralismo che sia fondato su differenze di opinioni è benvenuto, ma non una sindacalizzazione finalizzata alle carriere. Perché questo porta a gruppi di potere, a lobby che non ci devono essere nella magistratura. In precedenza lei ha evocato le parole del Capo dello Stato in merito alla necessità di mettere mano ad una riforma della giustizia. Ma non è questo un compito della politica, dal quale la politica puntualmente si ritrae. Perché, a suo avviso, la politica si chiama fuori da questo dovere? Su questo non si può essere tranchant. Però il sospetto che il cittadino ha è che la “correntizzazione” della magistratura abbia anche una implicazione politica e nella politica. Se la politica è coinvolta in questa cattiva gestione dell’organo di autogoverno della magistratura, ha il problema di coprire certe cose o di non indagare o garantire su altre. Ciò fa sì che la politica non riesca a riformare la giustizia, perché non riesce o non vuole “riformare” se stessa. C’è, per fare un esempio, il problema della nomina di una commissione parlamentare sulla giustizia, che poi non è chiaro se debba essere una commissione d’inchiesta o di indagine. Qualunque ne siano i compiti, questa commissione nasce malamente, se nasce. Perché lo scontro dei partiti per avere delle posizioni di controllo nella commissione stessa sono tali da mettere in pericolo la sua istituzione. Butto lì una ipotesi, se posso… Certo che sì, professor Pocar... Una commissione parlamentare è la benvenuta, ovviamente. Nessuno dice che non ci debba essere una commissione d’inchiesta della magistratura fatta dal Parlamento, che è pur sempre l’autorità democratica principale. Ma mi domando se le implicazioni politiche che ha avuto il governo della magistratura, consentano di svolgere un’inchiesta veramente indipendente. È un po’ azzardato dire che il Parlamento non possa fare qualcosa d’indipendente, ma mi chiedo se le implicazioni non siano tali che alla fine questa commissione rischi di fare ben poco. Sarebbe più auspicabile una commissione del tutto indipendente. Non fatta di magistrati, sarebbe imbarazzante, ma perché non di giuristi, avvocati, che sono molto fuori dal gioco della riforma, di professori, e ne abbiamo nel nostro Paese, ex presidenti di Corte costituzionale, ex presidenti della Cassazione, ma in pensione a quel punto. Quella sarebbe un’inchiesta che avrebbe un peso molto maggiore di quella parlamentare. Una delle questioni su cui più si discute, si polemizza, ci si divide, è quella della separazione delle carriere. Come la pensa in proposito? È davvero difficile dire. Se si guarda in modo comparato a questo problema con altri Paesi, in vari sistemi costituzionali le due funzioni, quella inquirente e quella giudicante, sono separate, ma una compete decisamente, in quanto alle nomine, al potere politico. La magistratura inquirente, negli Stati Uniti e in altri Paesi, è sotto il controllo del potere politico. Il che, ovviamente, non garantisce l’indipendenza. Perché è chiaro che il ministro che controlla può dire al suo procuratore che proceda nei confronti di tizio e non nei confronti di caio. Il rischio c’è. In questi sistemi esistono altri contrappesi. In Italia, forse, un vantaggio nella separazione delle carriere ci sarebbe. Mi riferisco alla gestione delle carriere, perché a quel punto sarebbero carriere separate e quindi fenomeni di conflitti d’interesse che si verificano oggi, potrebbero non verificarsi. Ma non credo, in tutta franchezza, che questo possa essere il toccasana. Mi preoccupa di più la posizione del nostro Paese in un contesto internazionale ed europeo. La ministra della Giustizia ha un programma che va nella direzione giusta, Il problema sarà riuscire a realizzarlo. Parla di colpire i conflitti d’interessi e i fenomeni di lobbying, sono cose importanti. Le permetterà la politica di fare tutto quello che la ministra Cartabia si propone di fare? Io mi auguro di sì, ma questo è tutto da vedere. Ricordiamo le vittime ma anche la verità negata di Daria Bonfietti* Il Manifesto, 9 maggio 2021 Memoria. Oggi 9 maggio celebrazione in Senato del Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo. Alla presenza, tra gli altri, del presidente Mattarella. Al di là di ogni retorica e di ogni ufficialità ricordare oggi le Vittime del terrorismo significa innanzitutto ricordare le tante vite spezzate, le ferite rimaste, i tanti dolorosi vuoti lasciati nelle famiglie, nella vita delle persone. In tanti orizzonti di aspettative cancellati. Ma vuol dire confrontarsi con la Storia di questo Paese e soprattutto farsi carico della ferita profonda tra cittadini, vittime, e Stato: uno Stato che non ha saputo garantire il diritto fondamentale alla vita, non ha saputo proteggere prima e dare giustizia poi. Uno Stato che con troppi suoi servitori “infedeli” è stato addirittura complice o spettatore inerme. Credo che proprio se partiamo da quel giorno di dicembre a Piazza Fontana, che indichiamo come l’inizio del terribile periodo della nostra Storia, possiamo avere la rappresentazione di tutto questo: i morti, i feriti, la giustizia in ogni modo rallentata o negata, i depistaggi le scie di dolore. Bisogna parlare di Giustizia, di ricerca della verità, cominciando pure dalle notizie che abbiamo salutato con soddisfazione venirci da oltralpe sul processo di estradizione per i condannati di terrorismo. Come ha avuto modo di dire Mario Calabresi non si tratta di una soddisfazione per una vendetta o rivincita ma il prendere atto che la Giustizia, le sentenza della nostra Magistratura, continuano il loro corso. Nello stesso tempo oggi si deve ricordare in quanti casi la Magistratura non ha saputo dare ancora verità, quante vicende sono ancora impunite, quanti procedimenti, processi, inchieste sono ancora aperti, in quanti casi la verità stenti ad emergere. Come sia faticosa la ricostruzione completa degli eventi; le responsabilità, le complicità, i mandanti. Posso parlare di Ustica: la sentenza ordinanza di Priore (1999) ci ha dato una prima verità complessiva, ricostruendo lo scenario di guerra attorno al DC9 Itavia. Dal 2007 la Procura della Repubblica di Roma ha aperto ulteriori indagini a partire dalla dichiarazione del Presidente della Repubblica emerito Cossiga che indicava precise responsabilità francesi nel quadro del conflitto ben presente tra Francia e Libia. Quelle indagini sono state e sono ostacolate dalla non collaborazione di Paesi amici e alleati- non adeguate risposte alle rogatorie internazionali. È una situazione che da troppo tempo andiamo denunciando, e voglio segnalare che di queste difficoltà si è fatto interprete in occasione delle celebrazioni per lo scorso 27 giugno lo stesso Presidente della Repubblica, affermando tra l’altro: “Trovare risposte risolutive e la loro ricostruzione piena e univoca richiede l’impegno delle istituzioni e la collaborazione dei Paesi alleati con i quali condividiamo comuni valori”. È giunta l’ora per uno sforzo definitivo per la chiusura delle indagini. Bisogna ribadire con forza dunque, che le vittime del terrorismo soffrono di questa ferita nei rapporti con lo Stato per la mancanza di giustizia e verità. E poi in questa terribile vicenda del terrorismo, un altro aspetto che non si deve trascurare è l’oscurità e complicità di comportamenti di settori di apparati dello Stato. E qui voglio aprire il capitolo della trasparenza degli atti della Amministrazione. E siamo alla direttiva Renzi. Le associazioni delle Vittime nel 2014, hanno salutato con favore la direttiva del Governo per la desecretazione e il deposito di tutti gli atti riguardanti significativi episodi di terrorismo, presso l’Archivio centrale dello Stato. La delusione è andata crescendo: sono venute alla luce omissioni, mancanza assoluta di documentazione, “trascuratezza” nell’impegno delle Amministrazioni e addirittura colpevoli situazioni di dispersione e mancanza di archiviazione. Situazioni in sé non rispettose della legge archivistiche dello stato. Non deve sembrare improprio affermare: uno Stato che ancora una volta non tutela il cittadino e che ha al suo interno ferite (insomma funzionari infedeli prima, archivi fuori legge oggi!). Non può essere taciuto il fatto che il Ministero dei Trasporti all’oggi non dispone della documentazione, di legge, dell’attività dei suoi stessi Ministri. E allora sempre più il ricordo per le vittime del terrorismo non deve essere la cerimonia di un giorno ma un impegno profondo e costante proprio per la tutela dei rapporti tra Stato e Cittadini, in poche partole per la effettiva Democrazia. *Presidente Associazione Parenti Vittime Strage di Ustica Mattarella: fare piena luce sugli anni di piombo di Maurizio Molinari La Repubblica, 9 maggio 2021 Il presidente della Repubblica: “Fu una guerra asimmetrica e molti intellettuali favorirono chi sparava per la rivoluzione. L’eversione nera era invece al servizio di trame oscure e mirava a rovesciare l’asse del Paese”. Negli anni di piombo la democrazia italiana ha sconfitto il terrorismo: è questo il giudizio che il capo dello Stato, Sergio Mattarella, consegna a Repubblica attraverso un esame limpido e severo della violenta aggressione dei terroristi, rossi e neri, contro la Repubblica italiana. In coincidenza con il Giorno delle Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, Mattarella descrive quanto avvenne dall’inizio degli anni Settanta, quando “coloro che predicavano la morte” misero in pericolo le nostre libertà, causando lutti e tragedie, ma perdendo il confronto contro “la statura della nostra democrazia”, che seppe difendersi senza mai applicare leggi di emergenza. Mattarella definisce il terrorismo di allora una “guerra asimmetrica” lasciando così intendere quanto la capacità delle Istituzioni repubblicane di imporsi sui nemici possa essere oggi patrimonio delle democrazie minacciate dal terrorismo contemporaneo, di matrice islamista, a cui l’Italia stessa ha versato un alto prezzo di vite umane: da Tunisi a Nizza, dal Bataclan fino alle impervie montagne dell’Afghanistan. Nella conversazione che segue la ricostruzione di uno dei periodi più difficili della vita repubblicana si sovrappone all’analisi dei motivi profondi del fallimento dei terroristi, evidenziando l’impossibilità di qualsiasi tipo di “zona grigia” fra lo Stato e i suoi avversari. Nei confronti di tali ambiguità, intellettuali e politiche, la condanna di Mattarella è inequivocabile. Il dovere morale è di “non dimenticare” e di fare luce sugli angoli ancora bui di ciò che avvenne perché “la completa verità sugli anni di piombo è un’esigenza fondamentale per la Repubblica”. E per il sistema Paese c’è un’eredità importante da valorizzare: il “patto di cittadinanza” che si impose sui terroristi e di cui anche oggi c’è bisogno per unirsi e risollevarsi dopo la pandemia. Sul recente arresto in Francia di dieci latitanti degli anni di piombo, responsabili di atti di sangue, Mattarella ringrazia il presidente Emmanuel Macron ed auspica che “altri Paesi stranieri ne seguano l’esempio”, consentendo alla giustizia italiana di fare il proprio corso nei confronti di tutti i latitanti fuggiti all’estero. Che cosa sono stati gli anni di piombo per il nostro Paese? “Sono stati anni molto sofferti, in cui la tenuta istituzionale e sociale del nostro Paese, è stata messa a dura prova. Oltre quattrocento le vittime in Italia, di cui circa centosessanta per stragi. Cittadini inermi colpiti con violenza cieca, oltre cento gli uomini in divisa che hanno pagato con la morte la fedeltà alla Repubblica. Magistrati, docenti, operai, dirigenti d’azienda, studenti, giornalisti, uomini politici, sindacalisti. Nessuna categoria manca all’appello di una stagione in cui il terrorismo, di varia matrice, ha preteso di travolgere la vita delle persone inseguendo progetti sanguinari. La scia lasciata dagli assassini ci porta sino ai primi anni 2000”. Da dove nasceva la violenza del terrorismo che colpiva i civili per indebolire lo Stato? “Certamente non dalla contestazione del ‘68. La Repubblica non ha mai identificato nel conflitto delle opinioni e nel loro confronto, anche aspro, un pericolo o un nemico. Al contrario. Le stagioni delle lotte sindacali, come quelle delle manifestazioni studentesche, sviluppatesi alla fine degli anni ‘60 del Novecento, hanno rappresentato forti stimoli allo sviluppo di modelli di vita ispirati a maggiore giustizia e coesione sociale. Esperienze che, in particolare per i giovani, attraversarono tutti Paesi occidentali: si pensi ai movimenti per la pace nelle università americane, alle esperienze nelle università francesi e tedesche. Potremmo anzi, sotto questo profilo, dire che il dibattito pubblico italiano si arricchì nel 1968 e nel 1969 di elementi che portarono a risposte positive, a partire dalle innovazioni introdotte nell’ordinamento universitario e dai diritti dei lavoratori nelle fabbriche. La radicalizzazione ideologica di frange nichiliste introduce a partire dagli anni ‘70 modelli di terrorismo “fai da te”, gruppi che ritengono di porsi come isolate avanguardie contro tutto e contro tutti, ispirate all’aberrante teoria del superuomo o a quella della prevalenza della massa sulla persona”. Qual era l’obiettivo dei terroristi? “Il bersaglio era la giovane democrazia parlamentare, nata con la Costituzione repubblicana, per approdare a una dittatura, privando gli italiani delle libertà conquistate nella lotta di Liberazione. Esattamente il contrario di quanto proclamava il terrorismo rosso, quando parlava di Resistenza tradita. Il tradimento della Resistenza sarebbe stato, invece, quello di far ripiombare l’Italia sotto una nuova dittatura, quale che ne fosse il segno. Al di là delle storie personali di chi aderì alla lotta armata, c’era la contestazione radicale della democrazia parlamentare, così come era stata delineata dai padri Costituenti; e, a ben vedere, anche la mancata accettazione della volontà degli elettori in favore di forze centriste, atlantiche, riformatrici, di segno moderato. Un esercizio di democrazia che veniva definito “regime”. C’era in Italia anche chi, legittimamente, si sarebbe aspettato dei governi o delle politiche diverse. Ma fu grave e inaccettabile quel processo mentale, prima che ideologico, che portò alcuni italiani - pochi - a dire: questo Stato, questa condizione politica, non risponde ai miei sogni, è deludente e, visto che non siamo riusciti a cambiarlo con il voto, abbattiamolo. Uno dei pilastri su cui si fonda la Repubblica è il valore del pluralismo. La democrazia è libertà, uguaglianza, diritti. È anche un metodo. Un metodo che impone di rispettare le maggioranze e le opinioni altrui. Prescindere dal consenso e dalle opinioni diverse vuol dire negare, alla radice, la volontà popolare, l’essenza della democrazia. È quello che tentarono di fare i terroristi”. Che cosa assimilava e che cosa distingueva il terrorismo rosso e nero? “L’obiettivo del terrorismo rosso era di approfondire i solchi e le contrapposizioni nella società e nella politica, per spingere, compiendo attentati, il proletariato a fare la rivoluzione, cercando di delegittimare i partiti della sinistra tradizionale, accusati di essersi “imborghesiti”. Il terrorismo nero, accanto a suggestioni nostalgiche di improbabili restaurazioni, è stato spesso strumento, più o meno consapevole, di trame oscure, che avevano l’obiettivo politico di rovesciare l’asse politico del Paese interrompendo il percorso democratico, provocando una reazione alle stragi che conducesse a un regime autoritario, così come era avvenuto in Grecia. Ricordiamo sempre il contesto, a neppure venticinque anni dalla fine del secondo conflitto mondiale”. La lotta armata si giovò di un humus culturale di ostilità per le istituzioni. Come rileggere opinioni e scelte di chi allora decise di restare in una zona grigia nello scontro con lo Stato? Quanto era grande l’area dell’indifferenza, del “né con lo Stato né con le Br”? “Vi furono, palesemente, posizioni inaccettabili di alcuni intellettuali dell’epoca, che favorirono la diffusione del mito della “Resistenza tradita”, a somiglianza di D’Annunzio che contribuì ad aprire la strada al Fascismo, con lo slogan della “Vittoria mutilata”. Il dibattito tra gli intellettuali dell’epoca, in realtà, non fu sempre così manicheo: in qualcuno prevalevano le sfumature, i distinguo, rispetto alle posizioni nette. Oggi non si può neanche ipotizzare l’idea dell’equiparazione tra lo Stato e le Brigate Rosse, senza avvertire incredulità e sdegno, ma neppure allora era legittimo farlo. Quasi ogni giorno, in vili agguati, venivano gambizzate o uccise persone inermi. Ed è bene ricordare che il terrorismo uccideva sovente gli uomini migliori, fautori del dialogo, volti al confronto, al superamento delle contrapposizioni, alla coesione: servitori della Repubblica e della comunità nazionale, non feroci aguzzini dediti alla repressione del popolo come sostenevano nelle farneticanti rivendicazioni”. Cosa distinse la reazione dello Stato alla sfida del terrorismo, quali furono gli elementi di forza e di debolezza delle istituzioni? “La debolezza dello Stato si manifestò soprattutto nella impreparazione, talvolta in infedeltà, nel contrastare una guerra che oggi definiremmo asimmetrica. Ma fu proprio la violenza contro persone inermi e innocenti a prosciugare rapidamente il bacino del consenso al terrorismo. Mentre cresceva, per così dire, l’aggressività degli agguati e l’efferatezza delle stragi, aumentava anche la consapevolezza che bersaglio del terrore era la società, i cittadini, la comunità nazionale, il popolo: pensiamo agli attentati sui treni, alle stragi di piazza Fontana, di Bologna, di piazza della Loggia. A mandare in crisi il terrorismo fu l’isolamento, la totale contrarietà che il terrorismo nero, le Brigate Rosse, e gli altri movimenti armati, lo stragismo, trovarono nella vita della comunità, nei luoghi di lavoro, nel sindacato, negli uffici, nel sentire comune”. Casalegno e Tobagi uccisi, Montanelli ferito: perché i terroristi bersagliavano la stampa? “La libera stampa, il diritto di critica, il dissenso sono i cardini delle democrazie liberali. Il giornalismo è prima di tutto testimonianza civile. Nella visione folle dei terroristi, i giornalisti costituivano un pericoloso ostacolo sulla loro strada. Per questo andavano intimiditi per ridurli al silenzio”. L’Italia è stato il Paese dell’Occidente più sfidato dal terrorismo ideologico (non fondato su rivendicazioni autonomiste come i baschi in Spagna o i nordirlandesi in Gran Bretagna). Si aspettava questa capacità di resistenza, questa difesa della democrazia nonostante le zone grigie? “Non ho mai nutrito dubbi. Il terrorismo imponeva una scelta tra la vita e i portatori di morte, e non vi è stata esitazione nella risposta da parte del popolo italiano, rafforzando una fedeltà laica e civile ai valori della Costituzione, un patto di cittadinanza che trova radice nella Resistenza e nella lotta di Liberazione. Il tentativo di spacciare l’assassinio come strumento di lotta politica ha visto reagire senza esitazioni le istituzioni democratiche, i partiti e le forze sociali. Si pensi al ruolo del sindacato nelle fabbriche, soprattutto dopo l’assassinio a Genova di Guido Rossa. L’inammissibile proposito di negare le proprie responsabilità personali con l’appello a non distinguibili responsabilità collettive, è andato deluso, evidenziando la sua inconsistenza. Sono stati condannati coloro che hanno commesso reati, ferendo e assassinando, non gli appartenenti al circolo della critica. Non furono solo “anni di piombo”. Il terrorismo non è riuscito a realizzare l’ambizione di rappresentare una cesura, uno spartiacque nella storia d’Italia. Il disegno cinico - non esente da collegamenti a reti eversive internazionali - di destabilizzare la giovane democrazia è stato isolato e cancellato. La comunità nazionale ha saputo rispondere allargando gli spazi di partecipazione, aprendo alle nuove generazioni: dallo Statuto dei lavoratori al riconoscimento dell’obiezione di coscienza, agli organi democratici nella scuola, alla maggiore età a diciotto anni. Nelle sedi istituzionali i partiti politici seppero elaborare una risposta unitaria. L’esperienza della solidarietà nazionale dimostrò la capacità della Repubblica di sapersi unire, oltre i tradizionali confini di maggioranza e opposizione, contro un nemico che intendeva travolgere le libere istituzioni che gli italiani si erano dati. È la statura della nostra democrazia, è la Repubblica ad avere prevalso contro l’eversione che aveva nel popolo il proprio nemico”. Come giudica la recente decisione della Francia di ordinare l’arresto di dieci terroristi rossi condannati per fatti di sangue? “La lotta al terrorismo è indivisibile e impegna tutte le democrazie, insieme. Era una decisione che lo Stato italiano - attraverso i diversi governi che si sono succeduti negli anni - chiedeva da tempo. Ringrazio il Presidente Macron: con la sua decisione ha confermato amicizia per l’Italia e manifestato rispetto per la nostra democrazia. Mi auguro che possa avvenire lo stesso per quanti si sono sottratti alla giustizia italiana e vivono la loro latitanza in altri paesi. Vi sono state tante vite stroncate, ferite insanabili nei familiari che hanno visto sconvolta la loro esistenza. Lo Stato di diritto, la Repubblica democratica, seppero battere il terrorismo senza venire mai meno alla pienezza della garanzia dei diritti fondamentali, senza leggi eccezionali. Tanti corresponsabili di quei delitti, scontata la pena, sono da tempo in libertà, grazie ai benefici della legislazione italiana, piena di garanzie. Tutto questo in coincidenza di un processo di tenace e incessante conciliazione con le nuove istanze sociali e i nuovi protagonisti espressi dalla società”. Sugli anni di piombo è stata fatta piena luce o ci sono ancora angoli bui? “Come ha ricordato il Presidente Napolitano in occasione della Giornata della Memoria nel 2012 “non brancoliamo nel buio di un’Italia dei misteri: ci troviamo dinanzi a limiti da rimuovere e a problemi di giustizia e di verità ancora da risolvere, ma in un’Italia che ha svelato gravissime insidie via via liberandosene... individuandone e sanzionandone a centinaia gli sciagurati attori...”. Desidero riaffermare la riconoscenza per il coraggio di giudici e di giurie popolari di cittadini che non avevano ceduto alle minacce. Ci sono ancora ombre, spazi oscuri, complicità, non pienamente chiarite. Mi ha colpito molto il dialogo di qualche giorno fa tra la vedova e il figlio del commissario Calabresi che si sono detti persino pronti - insieme ad altri familiari delle vittime - a rinunciare al loro titolo ad avere giustizia, dopo tanti anni, in cambio della piena verità da parte degli assassini dei loro cari. L’esigenza di completa verità è molto sentita dai familiari. Ma è anche un’esigenza fondamentale per la Repubblica. Il trascorrere del tempo non colloca quanto avvenuto tra gli eventi ormai esausti, consumati, da derubricare. Cos’è il terrorismo? L’orrore dell’attacco vile alla vita delle persone, aggressione violenta alle idee, intimidazione contro le libertà dei cittadini, violenza contro il diritto di professare la propria fede. Penso alla vita del piccolo Stefano Gaj Taché, ucciso, a due anni, alla Sinagoga di Roma. Ho voluto ricordarlo nel mio discorso di insediamento, sei anni fa, perché quel delitto suscita congiuntamente tanti motivi di orrore: disprezzo per la vita, antisemitismo, violenza contro la libertà religiosa. La Repubblica sa che sarebbe un errore pensare che si tratti di questioni ed esperienze relegate a un passato, più o meno remoto. Quei morti, quei feriti ci parlano di come difesa della libertà e della democrazia, affermazione dei diritti delle persone, siano un’impresa mai pienamente compiuta, sempre sottoposta a insidie da prevenire e contrastare. Custodiamo la memoria di tante vite spezzate e dobbiamo interrogarci con rigore su come sia stato possibile che accadesse”. Negli anni più recenti è stato il terrorismo jihadista a uccidere cittadini italiani, dal museo Bardo di Tunisi ad un ristorante di Dacca fino al lungomare di Nizza. Si tratta di un pericolo ancora attuale? “Le guerre, anche quelle appunto asimmetriche, si nutrono di radicalismo, di negazione di comuni principi di convivenza, di mancato riconoscimento della persona e dei diritti degli altri. Sarebbe colpevole ritenere che siano definitivamente sconfitte queste tossine profondamente anti-umane. Negli anni scorsi il terrorismo, soprattutto di matrice islamista, ha colpito tanti Paesi e tante comunità, con le quali ci sentiamo solidali. Tanti italiani sono stati colpiti in Paesi esteri, dal Museo del Bardo a Tunisi, nel 2015 (dove mi sono recato pochi mesi dopo), al Bataclan, Dacca, Nizza, Berlino, Barcellona, Strasburgo. Come si vede, la lotta al terrorismo ci interpella da vicino e gli sforzi internazionali tesi a rimuovere ogni pretesto invocato per legittimarlo, a spegnere i focolai di guerra che, in Europa, in Medio Oriente, nel Mediterraneo, lo fortificano, devono essere più che mai efficaci. Il fanatismo, l’odio non hanno diritto di cittadinanza. La Repubblica Italiana è fortemente impegnata su questo terreno, anche partecipando alle missioni di pace decise dalla comunità internazionale”. Si riconosce nella tesi secondo cui il caso Moro costituisce la maggiore discriminante nella storia del Paese? “L’assassinio di Aldo Moro fu uno dei momenti più drammatici della storia della Repubblica. Non a caso, dopo molti anni, resta tanto viva l’esigenza di fare luce completa su quella vicenda. Il vuoto che quel delitto terroristico ha prodotto è stato inimmaginabile. Mi limito a ripetere le parole di Paolo VI: “un uomo buono, mite, saggio, innocente”. Rileggendo i suoi discorsi, le sue parole, le sue idee riusciamo a comprendere, oltre il caso giudiziario, non solo cosa i terroristi volessero colpire ma soprattutto le ragioni per cui sono stati sconfitti e la democrazia ha prevalso. Non è stata un’epoca facile: tanti i terrorismi all’assalto, anche di matrice straniera. Come non ricordare l’attentato a Giovanni Paolo II nel 1981?”. Trieste. Gli revocano i domiciliari, si toglie la vita per non finire in carcere triesteallnews.it, 9 maggio 2021 Nella serata di venerdì 7 maggio, un 45enne agli arresti domiciliari per comportamenti persecutori nei confronti della ex convivente, si è tolto la vita lasciandosi cadere da una finestra dell’abitazione dove era ristretto. I Carabinieri si sono presentati presso il domicilio dove viveva con i famigliari per notificargli un’ordinanza di revoca degli arresti domiciliari e sostituzione con custodia cautelare in carcere, disposta a seguito di violazioni della misura restrittiva. I militari incaricati di eseguire l’ordinanza e accompagnarlo al Coroneo hanno spiegato le motivazioni del provvedimento all’interessato, dimostratosi tranquillo e collaborativo e che non risultava essere affetto da problemi psichici - spiega il comando provinciale dei Carabinieri di Trieste in una nota - il quale, dopo aver rassicurato la madre e il fratello ha cominciato a preparare una borsa con biancheria ed effetti personali. Poi, repentinamente, senza dare particolari segni di agitazione si è diretto verso il bagno e, raggiunta la finestra, si è lasciato cadere nel vuoto. I militari sono accorsi sul luogo dell’impatto ove hanno tentato di rianimarlo, allertando contestualmente il 118. I sanitari, giunti poco dopo, hanno continuato le manovre ma per il 45enne non c’è stato nulla da fare. Foggia. Covid, quasi settanta contagi tra poliziotti penitenziari e detenuti foggiatoday.it, 9 maggio 2021 69 positivi nel carcere di Foggia: è il cluster più grande della Puglia. In ospedale quattro dei 58 detenuti contagiati. A lanciare l’allarme nelle scorse settimane sono stati i sindacati di polizia, i cui timori trovano conferme nei dati del report nazionale del Dipartimento di amministrazione penitenziari. Il Coronavirus continua a propagarsi nelle carceri italiane, tra detenuti e personale di polizia penitenziaria. A lanciare l’allarme nelle scorse settimane sono stati i sindacati di polizia, i cui timori trovano conferme nei dati del report nazionale del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Secondo i dati aggiornati al 3 maggio, sono 69 le positività al virus accertate nel carcere di Foggia: si tratta di 11 agenti e 58 detenuti (di questi, quattro sono in ospedale). Un solo caso Covid accertato nel carcere di San Severo, che ha dovuto fare ricorso alle cure ospedaliere. I dati sono rilanciati dall’agenzia Dire. Meno grave la situazione negli altri istituti penitenziari pugliesi, dove si contano 18 casi a Bari, 10 a Lecce, 5 a Taranto e 4 ad Altamura. Nel complesso del panorama nazionale carcerario, si contano 397 detenuti positivi su oltre 52mila. Di questi, solo 20 sono ricoverati. Per quanto riguarda, invece, il personale di polizia penitenziaria, si contano 400 agenti positivi su circa 37mila (9 sono ricoverati). Alessandria. Nasce “Brigantella”, la crema di cioccolata prodotta dai detenuti di Roberto Bobbio farodiroma.it, 9 maggio 2021 La “Brigantella è una crema spalmabile al cioccolato fondente, con cuore al caffè 100% arabica e nocciole piemontesi prodotta all’interno del carcere “Cantiello e Gaeta” di Alessandria nell’ambito del progetto “Fuga di Sapori”, gestito dall’associazione Ises, Istituto Europeo per lo Sviluppo Economico, che ne gestisce la vendita nella bottega “Social Wood” aperta sul muro di cinta della casa circondariale. L’offerta di creme spalmabili al cioccolato è ampia e di grande tradizione ma una crema in grado di sposare il cuore di chi la assaggia alla sua solidarietà non era ancora in offerta. Chi deciderà di concedersi questa delizia artigianale, contribuirà allo sviluppo di progetti di economia carceraria e alla ricerca in campo medico-scientifico: la produzione della “Brigantella” è, infatti, frutto di una partnership tra ISES, con la Fondazione “Solidal onlus” che sostiene linee di ricerca in stretta collaborazione con l’Azienda Ospedaliera di Alessandria e una piccolissima azienda agricola del torinese che lavora solo le sue nocciole piemontesi. Questa crema fondente spalmabile alle nocciole del Piemonte ha un cuore al caffè 100 per cento arabica prodotto dalla Cooperativa Sociale Lazzarelle che lo produce nella Casa Circondariale femminile di Pozzuoli. L’attività di Ises in carcere è iniziata nel 2015 con l’attivazione di una falegnameria, di un panificio, ora una linea di produzione dolciaria didattica proprio all’interno del Carcere di Alessandria. La bottega “Social Wood” espone e vende non solo i prodotti dei laboratori ma articoli frutto del lavoro dei detenuti di vari penitenziari italiani perché esca il più possibile tutto quanto di buono viene fatto all’interno dei penitenziari italiani e posano avere anche un’utilità sociale. I prodotti sono reperibili anche sull’e-shop www.fugadisapori.it. Londra, italiani detenuti nei Centri di accoglienza: “Dopo Brexit vietato entrare per lavoro” di Francesco Guerrera La Repubblica, 9 maggio 2021 Decine gli europei imprigionati ed espulsi: “Dietro le sbarre senza effetti personali e cellulare”. Almeno una dozzina di italiani fermati alla frontiera britannica, detenuti in centri di accoglienza per migranti “con sbarre alle finestre e cellulare ed effetti personali sequestrati” e infine espulsi. Motivo, stando alle autorità del Regno Unito: volevano entrare per lavorare oltremanica senza un visto. È la cruda realtà della Brexit, dall’entrata in vigore il 1° gennaio scorso, che ha capovolto il regime migratorio precedente, quando si poteva prima entrare nel Regno Unito e poi cercare un lavoro. Oggi non è più così: in vigore c’è un “sistema a punti” di tipo australiano per cui bisogna avere già un impiego e le qualifiche giuste prima di trasferirsi oltremanica. “Basta corsie preferenziali per gli europei!”, ha tuonato più volte la ministra dell’Interno, Priti Patel. Ma non tutti sembrano esserne coscienti. Secondo stime apprese da Repubblica da fonti diplomatiche, in realtà gli italiani detenuti alla frontiera perché ritenuti irregolari “sembrano essere almeno il triplo” di coloro che si sono rivolti al Consolato di Londra. Ma il caso non si limita ai nostri connazionali. Secondo Politico, ci sarebbero diverse decine di cittadini Ue fermati dalla border police britannica dal 1° gennaio 2021, e poi trasferiti e detenuti anche per giorni in centri di accoglienza per migranti e richiedenti asilo. Gli italiani coinvolti che abbiamo provato a contattare non vogliono parlare. Secondo fonti diplomatiche, sarebbero rimasti “al massimo per 12 ore in questi centri, grazie ai voli frequenti tra Italia e Regno Unito”. Ad altri europei è andata peggio. Il 26enne greco Sotirios Konstantakos ha riferito al quotidiano Ta Nea di esser stato tenuto per giorni “in una stanza con le sbarre alla finestra, senza riscaldamento, con gli effetti personali e cellulare sequestrati. Ero disperato”. Alla fine è intervenuto l’ambasciatore in persona per farlo tornare in Grecia. Un’anonima 25enne spagnola, invece, arrivata da Valencia il 3 maggio, ha riferito a Politico delle stesse condizioni e a causa di un cluster di Covid nel centro è stata messa in autoisolamento per 10 giorni. Interpellato da Repubblica, il ministero dell’Interno britannico ha risposto che “i cittadini Ue sono nostri amici e hanno il diritto di restare se residenti nel Regno Unito prima del 31 dicembre 2020. Chi è arrivato dopo deve invece dimostrare di averne diritto e attenersi alle nuove regole comunicate in ogni Paese Ue, nella propria lingua”. Sulle condizioni degli ospiti dei centri, l’Home Office ci ha rimandato a linee guida che però non parlano né di sbarre, né di sequestro dei cellulari. A quanto si apprende, l’Home Office sta lavorando con urgenza su questi casi. Ma c’è un altro problema, e cioè gli italiani ed europei che, senza visto, riescono ad entrare illegalmente nel Regno Unito per lavorare, senza conoscere i rischi cui vanno incontro. Cristina Tegolo, responsabile della associazione “Settled” che segue i migranti post Brexit in Gran Bretagna, ci riferisce che ci sono già “diverse segnalazioni” su cittadini Ue che, entrati soltanto con il visto turistico, invece lavorano. Manuela Travaglini, avvocata a Londra e consulente dell’Ambasciata italiana su Brexit e diritti, ci spiega che non bisogna scherzare con il nuovo regime migratorio britannico: “Se un datore di lavoro, anche italiano, viene sorpreso ad assumere un irregolare rischia fino a 20mila sterline di multa per ogni lavoratore e fino a 5 anni di detenzione come deterrente. Il lavoratore irregolare invece viene espulso e, anche in questo caso, detenuto, in attesa di essere rimpatriato”. La Guarda costiera libica spara e respinge, ma riceve nuovi fondi europei di Maso Notarianni Il Domani, 9 maggio 2021 Mentre la cosiddetta Guardia costiera libica spara sui nostri pescherecci e si occupa dei respingimenti collettivi (e illegali) per conto del nostro governo e dell’Europa, l’Unione Europea sta valutando lo stanziamento di nuovi e ingenti fondi speciali destinati proprio a fornire aiuti militari e sostegno logistico alla cosiddetta. Lo si apprende da un documento interno del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), nel quale si afferma che “l’Unione europea dovrebbe impegnarsi di più non solo politicamente, ma anche nell’ambito delle iniziative di rafforzamento delle capacità complessive” dei libici, afferma il documento. La firma sulla proposta è dell’ex-comandante dell’Operazione Irini - una missione navale che dovrebbe impedire il traffico di armi e petroli da e verso la Libia - il commodoro greco Mikropoulos, recentemente sostituito dal contrammiraglio Stefano Frumento. Nel documento si propone di utilizzare il cosiddetto “Fondo europeo per la pace”, un fondo extrabilancio del valore complessivo di 5 miliardi di euro utilizzato, più che per la pace, per sostenere gli eserciti “regolari” soprattutto in Africa centrale. E proprio perché utilizzato per sostenere eserciti, il fondo non rientra nel bilancio dell’Ue, attraverso il quale non possono essere finanziate operazioni militari di paesi extraeuropei. Un fondo fortemente voluto dalla Francia, che può servire per “la fornitura di attrezzature, infrastrutture o assistenza militari e legate alla difesa”, come si legge in un comunicato stampa dello scorso marzo. Sebbene l’Unione europea sostenga che lo stretto monitoraggio dei fondi e delle forniture garantisca che sia l’assistenza militare, che le armi di piccolo calibro e munizioni, non possono nelle mani sbagliate, numerose inchieste hanno dimostrato che a beneficiare degli aiuti europei non è solo la cosiddetta Guardia Costiera ufficiale della Libia ma anche le bande armate con la quale il governo libico è colluso e che rivestono sia il ruolo di “guardia costiera” sia quello di carcerieri, torturatori, stupratori e venditori di schiavi, oltre che quello di scafisti e trafficanti di esseri umani. Nonostante le innumerevoli denunce giornalistiche, delle organizzazioni della società civile, delle nazioni unite abbiano dimostrato inequivocabilmente i diversi reati compiuti dai libici e dalle stesse missioni dell’Unione Europea che facilita i respingimenti collettivi, l’Europa potrebbe quindi presto utilizzare la sua nuova “struttura per la pace” da 5 miliardi di euro per tornare a finanziare le bande travestite da guardia costiera e a fornire loro mezzi navali ed aerei utilizzati per riportare illegalmente in Libia i profughi dove tornano ad essere prigionieri dell’inferno. E per sparare sui pescherecci italiani. Siria. Il veleno di Assad di Roberto Saviano Corriere della Sera, 9 maggio 2021 Il regime siriano ha scaricato sulla popolazione civile del Paese il proprio arsenale chimico. Ci sono le prove, dice e scrive Joby Warrick, due volte Premio Pulitzer. Eppure il regime siriano - dieci anni dopo l’inizio di una guerra in cui si sono affrontati governativi, ribelli, islamisti, minoranze etniche, servizi segreti di mezzo mondo e diplomazie internazionali - è ancora lì, sostenuto da amici potenti (soprattutto la Russia di Putin) e simpatie occidentali. Un fallimento (anche di Obama) che ha poche giustificazioni. Il Sarin è definito il killer perfetto. Lo scoprirono i nazisti che arrivarono alla sua formula per caso, mentre testavano nuovi pesticidi. Il Sarin è un gas 26 volte più letale del cianuro. Il Sarin non ha odore, non ha sapore. Quando lo respiri, il sistema nervoso si paralizza. Chi è esposto al Sarin non riesce più a respirare, i polmoni non riescono più a muoversi, il cuore chiede ossigeno, ma i muscoli non sono in grado di assecondare le esigenze del cuore. La morte è dolorosa e avviene per asfissia. Bastano pochissime gocce in sospensione nell’aria e ciò che si prova è come essere stritolati all’istante da una forza invisibile. Ecco, Bashar al-Assad ha bombardato migliaia di persone con questo veleno, ha usato i gas sulla popolazione civile, su persone indifese. Bambini, anziani, uomini e donne di ogni età e ogni attività sono stati sorpresi da questa morte atroce, sterminati con il gas ideato per uccidere i topi. Assad ha lanciato armi chimiche su quartieri che non erano stati avvertiti dalle sirene, su paesi che non avevano avuto nemmeno l’ultima concessione della minaccia prima della catastrofe. Assad ha ucciso con il gas persone a caso, al solo scopo di terrorizzare; non gli importava uccidere, ma mostrare quale morte fosse in grado di infliggere: la peggiore di tutte, l’asfissia immediata e senza scampo. O Assad o niente! - urlavano i suoi ufficiali. Joby Warrick, reporter americano che seguo da sempre, dai tempi di Bandiere nere in cui ha raccontato la nascita dell’Isis, ha scritto oggi un nuovo libro, necessario per comprendere finalmente il dramma siriano, e per dare il giusto peso agli echi che qui da noi sono giunti, alle storie drammatiche di chi è scampato al massacro, di profughi senza terra che hanno inseguito in Europa la vita che Assad gli ha portato via. Esce in libreria, per La nave di Teseo, La linea rossa. La devastazione della Siria e la corsa per distruggere il più pericoloso arsenale del mondo, il libro in cui Warrick racconta come il mondo abbia assistito immobile al massacro dei gas; come un regime che ha gasato innocenti sia ancora lì, immutato nella sua violenza, e ancora saldo al potere l’assassino che ha ordinato l’impiego di Sarin, che ha fatto torturare e uccidere migliaia di dissidenti. Assad continua a rimanere al suo posto, e continua a negare il gas e le torture nella dinamica mafiosa del fare e negare, perché è proprio qui, nello spazio della discrezionalità e della non rivendicazione, la forma di violenza più forte. Uccido nell’ombra, senza preavviso, in modo che morte e violenza arrivino senza motivo, senza logica, senza rivendicazione, nemmeno la rivendicazione più irrazionale e furiosa. E quando tutto accade così, senza che niente faccia supporre che il peggio sia in arrivo, vivere diventa l’attesa più spaventosa. Warrick raccoglie in Siria le prove finali di come il mondo abbia permesso che un assassino sanguinario e folle mietesse oltre mezzo milione di vittime e costringesse oltre 10 milioni di persone ad abbandonare le proprie case, a muoversi all’interno dei confini siriani o a decidere di lasciare il Paese. In questi anni abbiamo assistito in rete e in televisione alla propaganda di squallidi figuri che, certamente prezzolati, non hanno avuto scrupoli a difendere uno dei peggiori macellai della storia contemporanea, sostenendo che Bashar al-Assad non ha mai usato armi chimiche, che la loro esistenza faceva piuttosto parte di un “complotto imperialista ordito dagli americani” e che se c’erano, le armi venivano in realtà utilizzate dai terroristi islamici. Menzogne, solo menzogne. Joby Warrick decide di fare chiarezza, sgombra il campo da ogni equivoco e sceglie di raccontare le storie tenendo saldo il rigore, attraverso la verificabilità delle fonti, ma affidandosi alla parola narrata che però resta saldamente ancorata ai fatti. È stato coraggioso, Warrick, nella scelta del metodo perché in genere, negli Stati Uniti, questa strada è vista come una soluzione ambigua, a tratti pericolosa. Dove misuro la verità - ecco l’obiezione - se c’è narrazione? Scegli, ti diranno: o sei uno scrittore o fai il giornalista. Nel primo caso l’identità sarà formata dalla qualità dello stile, la credibilità dal fascino della storia, l’affidabilità dalla verosimiglianza dello scritto. Nel secondo l’identità è la chiarezza della prova, la credibilità risiede nell’inconfutabilità del fatto, l’affidabilità nella giusta distanza da ciò che racconti. Per lo scrittore empatia e coinvolgimento, per il giornalista rigore e imperturbabilità. Ecco, Warrick riesce con una strategia personale a porsi completamente nell’ambito giornalistico, ma a conservare gli aspetti narrativi che avvicinano storie distanti - distanza fisica e distanza culturale. Un mondo sconosciuto diventa vicinissimo, persone sconosciute diventano familiari, meccanismi geopolitici complessi diventano accessibili. Warrick non è nuovo al genere che lo ha portato, nel 2016, a vincere il (secondo) Premio Pulitzer con Bandiere nere, l’incredibile racconto della fondazione dell’Isis, con i suoi personaggi avanzi di galera, picari ridicoli che la furbizia, il vuoto politico e il risiko geopolitico rendono temuti guerriglieri e mistici ferocissimi. Dalle sue pagine si esce allo stesso tempo intrattenuti e informati, ma con forme di conoscenza approfondite. Più del romanzo, c’è il dato ricercato, visto, osservato, metabolizzato. Più del saggio c’è la narrazione del dato, che lo rende vivo. La linea rossa inizia con una vicenda talmente incredibile da sembrare un calco troppo perfettamente realizzato di una storia di genere. C’è “il chimico” Ayman che viene avvicinato dalla Cia alla fine degli anni Ottanta, quando la Siria inizia il programma militare per fornirsi di un arsenale chimico. Il progetto si chiama al Shakush, il martello. Ed è il progetto che la Cia deve monitorare. Gli Assad vogliono costruire un arsenale chimico per attaccare Israele; le armi devono servire contro gli israeliani e per difendersi dai nemici. Ayman “il chimico” inizia a collaborare con i servizi segreti americani in cambio di denaro. In fondo gli sembra una cosa innocua, fornisce informazioni sul proprio lavoro senza modificarlo o sabotarlo, e in cambio riceve denaro. Un giorno Ayman consegna al suo contatto della Cia un piccolo regalo di Natale. Il pacchetto contiene una fiala con liquido chiaro, un agente nervino. Ayman fornisce agli americani la prova della produzione di armi chimiche. All’inizio del nuovo millennio, la Siria possiede 1.500 tonnellate di Sarin binario, di gas mostarda e VX (gas nervini letali e classificati come armi di distruzione di massa), tra i più letali al mondo. Ma Ayman non prende soldi solo dagli americani. Riceve anche mazzette dai fornitori: ha cinquant’anni ormai, è un uomo facoltoso e rispettato, con case in mezzo mondo e una famiglia ricchissima. Nasce da qui il sospetto sulle origini della sua fortuna. Assad, terrorizzato dai tradimenti, mobilita il Mukhabarat, il servizio segreto, che immagina cospirazioni con zelo paranoico. Ayman viene avvicinato dai militari, arrestato e chiuso in prigione. Gli dicono che hanno scoperto tutto, gli chiedono i nomi. Ayman cede, confessa subito, dice che la Cia non gli ha dato scampo - o collaborava o lo avrebbero ucciso, lui e la sua famiglia. Gli uomini di Assad sono sconvolti: non sospettavano in nessun modo del suo rapporto con la Cia, avevano banalmente scoperto le tangenti e ad Assad serviva capire se quei soldi provenivano da aziende amiche del governo o nemiche. Per questo lo avevano spaventato, per comprendere se quelle tangenti avevano un orientamento politico: se non lo avessero avuto, l’avrebbero liberato in 48 ore. E invece lui, confessando tutto e subito, firma la propria condanna a morte e getta Assad nel panico. La mattina del 7 aprile 2002 viene bendato, legato a un palo e fucilato. Così inizia La linea rossa, la storia del più grande fallimento della diplomazia americana. Il titolo del libro riecheggia una dichiarazione di Obama, che traccia, con l’immagine della linea rossa, il limite entro cui i governi democratici - indipendentemente dalla situazione, indipendentemente dal Paese - devono restare. La linea rossa è una linea di tolleranza per violenze e ingiustizie, ma quando viene superata tutto cambia... O dovrebbe cambiare, perché la linea rossa di cui parlava Obama è stata abbondantemente superata, eppure gli Stati Uniti non sono intervenuti. Eppure nessuno è intervenuto. Il terrore di finire in un altro ginepraio mediorientale - un nuovo Iraq, un nuovo Afghanistan - ha paralizzato ogni proposito. Un presidente che ha ricevuto il Nobel per la Pace, una sorta di assegno in bianco per quel che avrebbe fatto, non è intervenuto in Siria, lasciando al potere un uomo che ha usato armi chimiche sulla popolazione civile. Proprio questo chiedo a Warrick, che incontro in collegamento video: come sia stato possibile consentire ad Assad di armarsi contro la sua stessa popolazione, come sia stato possibile abbandonare milioni di siriani al loro destino, come sia possibile che un sanguinario dittatore trovi ancora, contro ogni evidenza, chi è disposto a giurare che mai abbia usato i gas per colpire i civili. Come tutti i libri che lavorano sulla necessità di dare al lettore una soluzione, La linea rossa offre risposte assai più incredibili di quelle che offrirebbe la fantasia. Avete letto bene: incredibili. Sì, perché una cosa l’ho imparata presto: la realtà riesce a essere molto più assurda dell’immaginazione. C’è un personaggio tra i tanti, Timothy Blades, il cowboy della chimica, a cui il governo sottopone la necessità di smantellare l’armamentario chimico, progetto che riuscirà soltanto in parte. Vengono proposte infinite strategie. Bombardare l’arsenale? No, perché il gas fuoriuscito dopo l’esplosione si diffonderebbe ovunque. Andare alla fonte del problema e uccidere Assad? Nemmeno, soprattutto dopo che Obama ha acceso i riflettori su di lui (“il mondo sta guardando”). Spedire centinaia di camion a prelevare 1.500 tonnellate di armi chimiche e munizioni? Impensabile. Allestire un gigantesco inceneritore? Impossibile anche questo, perché l’inceneritore avrebbe impiegato anni, almeno tre, per bruciare tutto. A questo punto, non sapendo come distruggere le armi, è palese che il governo americano si trova su un binario morto. È qui che interviene Blades e, come descrive Warrick, con i modi di un muratore del Maryland orientale del tutto insensibile all’etichetta della Casa Bianca, apre una bottiglia d’acqua sul tavolo e dice: ecco la soluzione, l’idrolisi. In sostanza Sarin, gas mostarda e VX si combinano facilmente con l’acqua e, attraverso un processo chiamato idrolisi, l’agente nervino viene neutralizzato. Anche grandi quantità di Sarin possono essere neutralizzate in pratica con l’acqua calda. Nell’ottobre del 2018, la Bbc conferma che 106 attacchi chimici su 164 casi sospetti sono avvenuti su ordine di Assad, il cui scopo era quello di piegare il morale della popolazione e costringerla ad abbandonare le zone controllate dai ribelli. Idlib, Aleppo, Hama, la periferia di Damasco... e prima ancora, nel 2013, Ghouta. È dopo Ghouta che inizia la vera propaganda siriana. Assad approfitta della missione sul territorio siriano degli osservatori dell’Onu guidati da Åke Sellström. Forte della loro presenza, inizia a bombardare con i gas. Sembrerebbe un pensiero illogico: bombardare proprio quando ci sono gli osservatori dell’Onu? E invece va proprio così, e la presenza dell’Onu in Siria impedisce un nuovo intervento americano. Nonostante i satelliti spia americani avessero scoperto con video inconfutabili che la mattina del 21 agosto 2013 i missili erano partiti proprio da aree controllate dal governo, Assad ha avuto mano libera per iniziare la sua propaganda. Tutti - Siria, Turchia, Israele, Stati Uniti, Onu e organizzazioni non governative - avevano prove incontrovertibili che si fosse trattato di un attacco chimico. L’unica fu la Russia ad affermare che gli attacchi fossero in realtà operazioni sovversive condotte dai ribelli. Putin scrisse addirittura un insolito fondo sul “New York Times” per dire che la minaccia era jihadista, non certo Assad: “Nessuno dubita che in Siria sia stato usato gas velenoso, ma ci sono tutte le ragioni per ritenere che sia stato usato non dall’esercito siriano, piuttosto dalle forze di opposizione, per provocare l’intervento dei loro potenti protettori stranieri, che prenderebbero le parti dei fondamentalisti”. Ovviamente Putin mentiva. C’è un altro episodio incredibile, raccontato nel libro. Assad si convince, dopo un altro bombardamento chimico, che l’America sarebbe intervenuta. Allora fa sgombrare la prigione di Adra, dove sono reclusi anche migliaia di prigionieri politici, alcuni detenuti semplicemente per avere portato latte in polvere a famiglie isolate in quartieri considerati filo-islamisti. Ebbene, Assad fa portare i prigionieri politici nei pressi dell’aeroporto militare di al-Mazzeh perché è convinto che gli americani avrebbero bombardato i suoi aeroporti militari: il piano è fare uccidere i dissidenti politici dalle bombe americane. Ha già pronti giornalisti e blogger per raccontare questo “oltraggio”. È furbissimo Assad; è un macellaio di grande strategia. Usa la moglie come volto laico del regime criminale; laico, emancipato e persino femminista; lei rilascia interviste con la stampa occidentale, chiacchiera di moda e di stile, mentre i generali, su indicazione del marito, torturano, sgozzano e avvelenano gli oppositori. Dunque, chiedo direttamente a Joby Warrick, se l’uso di armi chimiche in Siria a opera di Assad è così ben documentato e altrettanto provato, come è possibile che si sia sviluppata una contro-narrativa secondo la quale Assad sarebbe vittima di un complotto internazionale? “Assad non è un ideologo: lui alimenta il regime. È questo che sostiene, e questa è la maniera in cui il regime siriano ha operato dagli anni Settanta, da quando era al potere suo padre. E quando c’è un’opposizione - non importa da quale direzione venga, dalla comunità islamica o da ambienti democratici - la soluzione è la brutalità. Il dissenso viene schiacciato. L’hanno fatto anche nei primi anni 2000, quando Bashar al-Assad è arrivato al potere. Sanno benissimo come reprimere l’opposizione e lo fanno con i mezzi più brutali. Questo lo so perché ho trascorso molto tempo nella regione, ho parlando con moltissime persone, persone normali le cui vite sono state trasformate da questa brutalità, persone che hanno subito attacchi con armi chimiche, persone che sono sopravvissute per raccontarlo, persone che sono state rinchiuse nei gulag di Assad. Chiunque pensi che sia una persona degna di ammirazione si fa ingannare. I siriani hanno ammesso di avere il Sarin, la Siria è l’unico Paese del Medio Oriente che sappiamo avere il Sarin”. Negli anni ho cercato di studiare chi arrivava a sostenere Assad. Ci sono tre categorie. Quelli pagati direttamente da Assad (pochi, pochissimi); quelli influenzati da false informazioni provenienti dalla Russia; e poi c’è la macro categoria che si alimenta di una umorale simpatia per Assad, che lo descrive come un laico delegittimato dagli americani, dagli israeliani e dall’Occidente perché è filorusso. Assad come baluardo della lotta all’Isis: è questa l’immagine che scientemente s’è cucito addosso... “Nel 2014, quando Assad viene accusato di usare armi chimiche, arrivano le smentite. Smentiscono i siriani, naturalmente. E poi smentiscono i russi, in maniera decisa per proteggere il loro alleato attraverso una campagna molto sofisticata che noi chiamiamo Twitter bot, cioè mediante account Twitter automatizzati che ripetono in continuazione le stesse falsità. E a volte appaiono sui media tradizionali, a volte sui media russi. Queste storie false hanno un obiettivo: proteggere Assad, ripulire la sua immagine, avvelenare la verità. Io lo vedo ogni giorno, quando scriviamo articoli che criticano Assad o quando divulghiamo le scoperte di enti investigativi che denunciano, prove alla mano, i crimini del regime”. E a chi dice che i gas sono opera degli islamisti? “Esamino la cosa in maniera dettagliata nel libro. Non è solo un problema che riguarda Assad perché alcuni gruppi radicali ed estremisti, come lo Stato islamico, hanno deciso di unirsi al gioco. Vedono il risultato drammatico delle armi chimiche e dicono: perché non lo facciamo anche noi? Ma queste sono operazioni molto diverse. Lo Stato islamico ha dedicato risorse a cercare di costruire un programma di armi chimiche, ma non è andato molto lontano. Abbiamo visto e analizzato alcuni agenti chimici che hanno creato: non sono efficaci, si disperdono velocemente. Abbiamo visto casi in cui gli estremisti hanno utilizzato armi chimiche, ma le sostanze davvero pericolose - il Sarin, il gas nervino, il VX - le sostanze potenti e pericolose, sono state utilizzate solo dal regime di Assad. Nessun altro ne ha accesso. Il regime siriano stesso ha confermato che nessuno ha saccheggiato le loro riserve. La maggior parte dei loro agenti chimici sono stati trasferiti fuori dal Paese nel 2014, quindi sul suolo siriano non sono rimaste scorte. Ci sarà sempre chi cercherà di incolpare gli islamisti, ed è vero che hanno utilizzato in passato il cloro e altre sostanze grezze, ma le sostanze sofisticate, le sostanze letali che abbiamo visto ripetutamente impiegare con effetti tragici, sono prodotti e armi del regime siriano”. È il grande fallimento di Obama non essere riuscito a fermare Assad? “Credo sia un fallimento internazionale, il fallimento dei nostri sistemi. Non ci vado leggero su Obama nel libro, sono critico, ma cerco anche di spiegare a chi legge cosa Obama doveva affrontare, compresa la teoria della “linea rossa” su cui, negli Stati Uniti, eravamo concentrati. Come spiego nel libro, è estremamente complicato e ci sono molti motivi per cui era consigliabile non colpire in quel momento preciso, soprattutto se consideriamo le armi in questione, perché non si possono bombardare le armi chimiche: è una cosa molto pericolosa da fare. Se le bombardi probabilmente finirai solo per disperderle, si scatenerà una nuvola velenosa, ucciderai i civili che volevi salvare. Quindi la sua scelta di accettare una soluzione diplomatica, in base alla quale le armi vengono portate fuori, per quanto non fosse perfetta, per quanto Assad non abbia svuotato completamente il suo arsenale, è stata una mossa importante e di grande effetto. Il fallimento collettivo, non credo sia un fallimento solo americano, sta nel non essere riusciti a prevedere quanto la situazione sarebbe precipitata. Tutti pensavano che Assad sarebbe caduto, nel 2011-2012 sembrava spacciato, non avevamo capito che aveva alleati importanti e che era disposto a combattere fino alla fine. Inoltre non riuscivamo a far funzionare il sistema internazionale, si era ingolfato, perché ogni volta che si tentava di fare qualcosa in Siria, ogni azione veniva bloccata, generalmente dalla Russia, che voleva impedire che le Nazioni Unite agissero e che arrivassero aiuti ai rifugiati. Siamo precipitati in uno stallo che si è trascinato in maniera perpetua, e che continua tuttora. Ne hanno subito le conseguenze milioni di siriani”. Si possono usare gas letali e continuare a governare? Si possono usare gas letali e rimanere impuniti? Si possono usare gas letali e continuare a negare di averli usati? “La Russia copre le spalle ad Assad. Sostiene totalmente Assad e si sta impegnando affinché rimanga in carica. Dobbiamo ricordarci, tra parentesi, che di tutti i Paesi al mondo la Russia ha sempre interpretato la sopravvivenza della Siria come un fattore di sicurezza nazionale interna. L’Iran uguale, la pensava allo stesso modo. Erano entrambi completamente decisi ad assicurarsi la permanenza di Assad al potere. Non credo tuttavia che la situazione sia senza speranza. Oggi, dieci anni dopo l’inizio del conflitto, la Siria è in guai seri, la sua economia sta collassando, nessuno ricostruisce le sue città, la popolazione rimasta è sempre più scontenta e arrabbiata. Sicuramente anche il Covid ha giocato un ruolo in questo scenario. Credo che qualche forma di accordo sia possibile. Forse non saranno accordi perfetti, ma potrebbero contenere una forma di responsabilità, persino una forma di giustizia per il popolo siriano. Potrebbe sembrare un sogno, una fantasia, ma è già successo. Nel conflitto balcanico sono state commesse atrocità terrificanti e le persone che le hanno commesse l’hanno fatta franca per molto tempo. Ci sono voluti vent’anni prima che alcune figure chiave, i capi militari responsabili di quelle atrocità, fossero portati al cospetto del tribunale all’Aia. Ma alla fine è successo. Penso che non dobbiamo perdere la speranza. Alcune organizzazioni internazionali hanno iniziato a raccogliere le prove per imbastire un’azione legale. È possibile che un giorno si faccia giustizia, anche se non subito”. Quindi cadrà Assad? “È scoraggiante vedere che continua a rimanere al potere e a negare i crimini: questo è il messaggio che ci arriva da lui. Ma credo sia importante riconoscere che è stato indebolito. Ha perso credibilità internazionale - non credo arriverà mai il giorno in cui i Paesi occidentali lo accetteranno come membro della famiglia internazionale, come qualcuno con cui si possa fare affari. È un paria, un emarginato, ha qualche alleato importante, ma la Siria sarà sempre vista come il Paese dov’è successa una cosa orribile che non verrà dimenticata, almeno nell’arco delle nostre vite. L’altra tragedia è che questo tabù collettivo, che ci appartiene in quanto comunità globale, sull’utilizzo delle armi chimiche, è uscito indebolito perché Assad non è stato processato. Il fatto che abbia usato armi chimiche e l’abbia fatta franca significa che c’è un cattivo esempio che altri potrebbero seguire. La sensazione è che questa norma internazionale molto forte - questo divieto di utilizzare armi chimiche - sia stata indebolita. Ecco, questo ci danneggia tutti, questo fa parte della tragedia, queste sono conseguenze che potremmo dover affrontare di nuovo in futuro”. Nelle nostre vite non sarà possibile dimenticare quanto è accaduto, ha ragione Joby Warrick; non sarà possibile cancellare dalla memoria collettiva quanto abbiamo visto come testimoni inermi, immobili, incapaci di porre fine alla tragedia. Tutto ciò che è accaduto è rimasto impunito, non senza colpevole, ma senza che il colpevole sia stato messo al cospetto delle proprie responsabilità. Ricordo i quattro sintomi del Sarin, e li ricordo per comprendere come la ferocia umana non abbia paragoni in natura. Tim Blades ricordava quello che era accaduto al tecnico di un laboratorio chimico che aveva sfiorato una sola goccia di Sarin ed era stato esposto al suo “morso”. Il primo sintomo: il naso iniziò a colare a cascata, come fosse un rubinetto aperto. Il secondo sintomo: il campo visivo cominciò a restringersi, il tecnico di laboratorio iniziò a vedere sempre meno. Il terzo sintomo: una pressione sul petto, una pressione descritta come il peso di una Volkswagen appoggiata sullo sterno. Il quarto sintomo: una nausea fortissima, come se qualcosa di grosso e marcio fosse stato ficcato a forza nello stomaco. Iniziò il vomito senza sosta, ma in realtà non usciva niente, perché non era vomito ma gli spasmi del corpo che non riusciva più a respirare. Questo, proprio questo è accaduto a migliaia di persone inermi, a bambini morti strozzati da un nemico invisibile, durante il gioco, durante il sonno, mentre erano a scuola o per strada. Un mondo che il Covid ha reso edotto su che cosa significhi perdere l’aria, continua a lasciare l’assassino che ha tolto l’aria a mezzo milione di persone al suo posto. Non possiamo fare molto contro i regimi che difendono Assad, ma è proprio quando ci tolgono ogni strumento che ci resta il racconto, e a voi che leggete il compito cruciale di non lasciare evaporare mai questo dolore. Strage di studentesse a Kabul: “Attacco al futuro dell’Afghanistan” di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 9 maggio 2021 Almeno 55 vittime nell’attentato a una scuola nel quartiere Hazara, i Talebani negano ogni coinvolgimento, la scelta dell’obiettivo fa pensare all’Isis-Khorasan. In Afghanistan è vietato sognare: l’idea di un futuro è proibita, per i giovani e soprattutto per le donne. La speranza di un ruolo nel mondo si spegne in fretta, di fronte al fanatismo, resta solo il dolore. Lo dicono i corpi delle ragazze estratte dalla scuola Sayed-ul-Shuhada, nel quartiere di Dasht-e-Barchi, la zona abitata dalla minoranza sciita degli Hazara, a Kabul. Sono almeno 55, secondo i primi bilanci, le persone rimaste uccise in una serie di esplosioni, la cui dinamica deve essere ancora chiarita. I feriti sono almeno 150, alcuni molto gravi. “Abbiamo già ricevuto 24 pazienti, tutti necessitano di cure chirurgiche, almeno una decina sono gravi. Una ragazza è arrivata già morta. Abbiamo dovuto chiamare staff aggiuntivo, infermiere donne e altri chirurghi. Le nostre sale operatorie lavoreranno tutta la notte”, dice da Kabul il capo missione di Emergency, Marco Puntin. Nell’ospedale dell’ong italiana sono state portate molte delle ragazze ferite. I primi rilievi, dice la locale Tolo tv, sembrano indicare che l’attacco sia partito con un’autobomba, seguita poi dal lancio di alcuni razzi. Quello che sin da subito è evidente, è che all’origine dell’assalto ci sia un odio radicale. Nessun ragionamento politico può servire a spiegare la visione di corpi di ragazzine coperti con veli d’emergenza, spesso smembrati dalla forza delle bombe. Ed è straziante la visione delle prime foto che arrivano, con gli ingenui oggetti di ogni giorno sparsi accanto ai corpi, la borsetta coperta di fumo o il fazzoletto a fiori macchiato di sangue: è il racconto di un sogno di normalità, destinato a non realizzarsi. Come dice la rappresentanza diplomatica europea: “È un attacco al futuro dell’Afghanistan”. La scuola colpita è un liceo che lavora su tre turni, separando i ragazzi dalle studentesse. Non sembra davvero un caso che l’attacco sia partito durante un turno in cui le aule ospitavano le ragazze. E per una volta, si può credere da subito alle parole di Zabihullah Mujahid, portavoce dei Talebani, che ha preso le distanze dall’attentato. Al di là del momento particolare, in cui gli “studenti coranici” stanno pregustando l’ormai prossima partenza delle forze occidentali, è la scelta dell’obiettivo a chiarire che la mano assassina appartiene all’Isis-Khorasan. La sezione afgana dell’organizzazione fondata a suo tempo da Abu Musab al Zarqawi ha da tempo preso di mira la minoranza di credo sciita, colpendola soprattutto nella captale, a sottolineare una capacità militare che supera le difese governative e ancora di più si prende gioco di ogni accordo, più o meno esplicito, preso dai concorrenti della Jihad. Il messaggio di questo attentato è chiaro e aberrante: se i Talebani si sono “ammorbiditi”, accettando un percorso di pace che vanta qualche accenno di condivisione, l’Isis-Khorasan rivendica la priorità della sua visione, quella più radicale, che considera gli sciiti come apostati. E che continua a chiamare sangue. Etiopia. La Commissione diritti umani denuncia le condizioni incivili delle carceri africarivista.it, 9 maggio 2021 La polizia dell’Oromia sta trattenendo un gran numero di persone, compresi neonati e bambini, senza accusa, in stazioni di polizia “antigieniche e sovraffollate”. La dura denuncia arriva dalla Commissione etiope per i diritti umani in un comunicato emesso ieri. Secondo la Commissione, i bambini di età compresa tra i 5 mesi e i 10 anni sono detenuti insieme alle loro madri, ma bambini di età inferiore a 9 anni, sospettati di reati, sono tenuti in celle con prigionieri adulti. I detenuti nella regione, che si trova nell’Etiopia centrale e come altre regioni ha una certa autonomia dal governo centrale nella gestione di questioni come l’applicazione della legge e l’istruzione, sono detenuti in “condizioni disastrose” senza accesso ad acqua, cure mediche o servizi igienico-sanitari e con cibo limitato. Il rapporto afferma che la Commissione ha visitato 21 stazioni di polizia nella regione tra novembre e gennaio, documentando “gravi violazioni dei diritti umani”, comprese le percosse. “I centri di detenzione ospitano un gran numero di persone che erano state arrestate senza ordine del tribunale”, ha detto, senza fornire alcun numero. Il rapporto ha anche documentato detenzioni arbitrarie e prolungate di sospetti le cui accuse erano state ritirate o che avevano ricevuto l’ordine di rilascio da un tribunale. Molti non si erano presentati davanti a un tribunale nelle 48 ore di detenzione previste dalla legge etiope. Molti dei detenuti sono stati arrestati all’indomani dell’uccisione del cantante politico oromo Haacaaluu Hundeessaa, ucciso a colpi d’arma da fuoco da sconosciuti ad Addis Abeba lo scorso giugno. La sua morte violenta ha scatenato proteste nella capitale e in tutta Oromia nelle quali sono morte almeno 178 persone. Vietnam e Cambogia, condannati sette attivisti per i diritti della terra di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 maggio 2021 Non c’è pace nel Sudest asiatico per chi difende i diritti della terra e dell’ambiente. Il 5 maggio Trinh Ba Tu e Can Thi Thieu, madre e figlio, sono stati condannati a otto anni di carcere per “produzione, archiviazione e diffusione di informazioni, materiali od oggetti con l’obiettivo di opporsi alla Repubblica Socialista del Vietnam”. Con queste condanne, le autorità vietnamite hanno voluto chiudere i conti con una famiglia che lottava da un decennio contro le confische illegali dei terreni. Anche Trin Ba Khiem, marito e padre dei due condannati, aveva trascorso un periodo di carcere tra il 2014 e il 2015 per aver filmato lo sgombero di un terreno. Il giorno dopo, un tribunale cambogiano ha condannato cinque attivisti dell’associazione “Madre Natura” (nella foto, due di loro) a pene da 18 a 20 mesi per aver guidato la lotta non-violenta contro il progetto di privatizzare il lago Boeung Tmok, l’unica grande area lacustre ancora intatta della capitale Phnom Penh. A fronte dell’impegno riconosciuto a livello internazionale, gli attivisti cambogiani di “Madre Natura” sono da anni nel mirino delle autorità: la draconiana legge sulle Ong non ne consente il riconoscimento e per questo l’associazione è accusata di agire illegalmente e di “seminare il caos nella società”. In Libano la crisi non è uguale per tutti di Pasquale Porciello Il Manifesto, 9 maggio 2021 Con metà della popolazione in povertà, il mercato immobiliare vive un nuovo boom grazie alle banche e a una moneta fantasma, il “lollar”. Sullo sfondo la visione di Hariri e della sua Solidere SpA: cambiare il volto della capitale. “I problemi di alcuni sono una benedizione per altri”. Cita un vecchio detto libanese Adib Al Nakib, division manager e responsabile vendite di terreni e marketing della compagnia immobiliare Solidere. “Le ripercussioni della crisi del 2019 hanno avuto un impatto positivo sul nostro settore e su tutte le compagnie che vi operano. C’è stato un controllo non ufficiale del capitale da parte delle banche. I correntisti hanno quindi investito nell’immobiliare temendo di perdere del tutto i loro beni”. La svalutazione della lira libanese inizia nel settembre 2019, quando sul mercato inizia a scarseggiare il dollaro, moneta ufficiale in Libano a cui la lira è agganciata a un tasso fisso ancora immutato di 1.515 per un dollaro. Da quel momento in poi si è sviluppato un mercato nero in cui il dollaro - valuta dell’import/export in un paese in cui l’80% circa di beni primari e secondari arriva da fuori - è arrivato a vette di 15mila lire e oggi fluttua tra le 12 e le 13mila. Le banche nel 2019 hanno semi-congelato i conti, impedito i trasferimenti internazionali e fissato un tasso di cambio di 3.900 lire per i limitatissimi prelievi in dollari. Inflazione al 90%, impennata dei prezzi e secondo le stime delle agenzie Onu metà della popolazione sotto la soglia di povertà, per metà di loro è estrema. Chi ha invece dei conti consistenti bloccati in banca ha intrapreso una vera e propria corsa al mattone o all’appezzamento, nella speranza di salvare il salvabile. L’analista e membro dell’Advanced Leadership Initiative di Harvard, Dan Azzi, ha per primo chiamato “Lollars” i dollari bloccati in banca con cui le operazioni vengono effettuate. Una moneta fantasma, un dollaro virtuale ma accettato dalle compagnie immobiliari. Gli acquisti in lollars e quelli in dollari contanti hanno però prezzi diversi al metro quadro. Una forbice in costante crescita dal 2019: oggi acquistare in lollars ha un costo fino a quattro volte quello del contante. I lollars - che rimangono a tutti gli effetti dollari e che subiscono una svalutazione solo sul mercato ma non nel circuito bancario - sono subito rigirati dai singoli o dalle società alle banche per coprire i debiti contratti e gli interessi accumulati nell’ultimo decennio dato lo stallo del settore e l’alta quantità di invenduto. Il vantaggio è evidente. “Nessuno costruisce con il proprio denaro. Noi avevamo ingenti debiti con le banche i cui interessi crescevano, non riuscivamo a pagare perché il mercato era fermo ormai da svariati anni. Le vendite sono servite a saldare questi debiti - continua Al Nakib - Un periodo di grande fortuna. Le azioni del gruppo Solidere sono quintuplicate dal maggio 2019, passando da 5 a 25 dollari circa cadauna”. Sul perché poi le banche abbiano accettato il ritorno dei lollars, risponde: “Non sono un tecnico, ma come osservatore deduco che le banche siano più credibili a livello internazionale senza l’enorme esposizione di capitali degli ultimi anni”. Solidere è una s.p.a. nata nel 1994 sotto l’autorità del Consiglio per la Ricostruzione e lo Sviluppo, l’organo del governo fondato nel 1977 durante la guerra civile (1975-90) e direttamente dipendente dal primo ministro. Il Crs fu rifondato nel ‘92 dall’allora premier Rafiq Hariri in seguito agli accordi di Ta’if (‘89), acquistando una serie di agevolazioni legali che avrebbero favorito la ricostruzione. Solidere concretizzerà la visione di Hariri occupandosi del rifacimento del centro città e cambiandone il volto e l’essenza. Spazi come l’antico suq e l’antica marina diventeranno le attuali Downtown e Zaituna Bay, un complesso di negozi, uffici, caffé e appartamenti di lusso il primo e un porticciolo di yacht privati e ristoranti élitari il secondo. Solidere attira su di sé forti critiche da parte di società civile e movimenti come Stop Solidere a causa dei privilegi legislativi, il forte spirito privatistico, accuse di corruzione, collusione e di distruzione del patrimonio naturale e artistico. Stesso discorso per altre agenzie con altre congiunture politiche, come Elyssar a Jnah e Linor nel Metn. Un intreccio tra pubblico e privato che evoca scenari da Le mani sulla città. Da dicembre 2020 i pagamenti vengono accettati solo in fresh dollars, che Solidere non investe però in Libano data l’instabilità del paese, ma nei progetti della compagnia in Arabia saudita ed Emirati. Guillaume Bodisseau, giornalista de L’Orient le Jour e Le Commerce e consulente per il gruppo di consulenza immobiliare Ramco, conferma come la crisi finanziaria abbia sbloccato il mercato. “Prima della crisi il numero di invenduti era altissimo, ma ne abbiamo liquidato solo nell’ultimo periodo un migliaio. Trattative che prima sarebbero durate settimane concluse spesso in poche ore. Si tratta maggiormente di appartamenti, più facili da gestire, mentre restano ancora 100mila metri quadri di uffici di difficile collocazione. Al momento i proprietari hanno estinto tutti i debiti con le banche e accettano quasi solo pagamenti in contanti, ovviamente in dollari. La domanda è ancora alta, ma è in lollars. I prezzi per chi invece compra in contanti sono vantaggiosi rispetto agli anni passati, ma non ci sono più investimenti stranieri, dal Golfo per esempio, come avveniva prima. I compratori in contanti sono in genere libanesi che vivono o che hanno attività all’estero”. Kamal Hamdan, direttore dell’Istituto di Consultazione e Ricerca fondato a Beirut nel 1977, prevede anni a venire drammatici. “L’iniqua tassazione delle compagnie immobiliari è una delle cause del fallimento del paese. Al momento le prospettive macroeconomiche non sono incoraggianti. Molti giovani, ma anche molte famiglie, proveranno a lasciare il paese in maniera definitiva. Questa crisi viene da lontano e manifesta il fallimento di Parigi I (2001), II (2002) e III (2007) e della Cedre Conference (2018)”, tutte conferenze con al centro il risanamento dei conti pubblici libanesi. C’è sempre chi trae vantaggio da una crisi degna di questo nome o qualcuno, come in questo caso, per cui è addirittura una benedizione.