Dopo la sentenza deve iniziare un’altra storia di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 8 maggio 2021 “Dopo la sentenza deve iniziare un’altra storia”: questa frase, che è al centro del saggio dedicato al cardinale Martini dalla giurista Marta Cartabia e dal criminologo Adolfo Ceretti, riassume un po’ il senso dell’incontro che la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, rappresentata da me, che sono la presidente, e dalla vicepresidente Ileana Montagnini, ha avuto il 5 maggio, al ministero, con quella stessa giurista, che da poco è diventata Ministra della Giustizia. È una frase che segna la discontinuità tra la fase processuale e la sentenza, che parlano dell’uomo del passato, e la rieducazione dell’uomo detenuto, che dovrebbe guardare al futuro. È di questo che abbiamo parlato con la Ministra, della necessità che da questo periodo di “desertificazione” delle carceri con la pandemia si esca per ricostruire qualcosa di radicalmente diverso da quello che erano le carceri “prima”. Alla Ministra avevamo chiesto di incontrarci per parlarle del Volontariato negli Istituti di pena e nell’area penale esterna, e del nostro sforzo per superare la logica del coltivare ognuno il proprio orticello perfetto, e di finire così per contare tutti pochissimo. Quello che abbiamo chiesto con forza è che questo Volontariato, come ha di recente ribadito il Garante Nazionale, Mauro Palma, “non sia né subalterno, né di minore rilevanza” rispetto alle Istituzioni. Del resto lo dice chiaramente il Codice del Terzo Settore “…le amministrazioni pubbliche (…) assicurano il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore” e lo fanno attraverso gli strumenti della co-programmazione e della co-progettazione. La Ministra, in proposito, ha manifestato incredulità rispetto a questa “alterità”, come l’ha definita lei, del Volontariato così poco riconosciuta, ma è un dato di fatto, evidenziato dalla pandemia, che spesso i volontari sono considerati “ospiti”, “ruote di scorta”, e non una componente fondamentale dei percorsi rieducativi. Tema centrale dell’incontro è stata la Giustizia riparativa, semplicemente perché all’interesse grande per questo tema che sempre ha manifestato la Ministra corrisponde un lavoro importante della Conferenza in questo ambito, che ha delle caratteristiche di particolare valore perché intreccia la rieducazione con i metodi cari proprio alla Giustizia riparativa: - Il progetto “A scuola di libertà” rappresenta una esperienza che, se per gli studenti è di autentica prevenzione, per le persone detenute è una specie di restituzione: mettendo al servizio delle scuole le proprie, pesantissime storie di vita i detenuti restituiscono alla società qualcosa di quello che le hanno sottratto. C’è bisogno di confronto con la società esterna, di sentire la studentessa che racconta cosa ha significato per lei trovare dei ladri in casa di notte o l’insegnante che testimonia del terrore provato quando è stata presa in ostaggio durante una rapina: è soprattutto così, capendo quanto distruttiva è la paura provocata dai reati, che chi i reati li ha commessi si misura con la sua responsabilità. - I percorsi in cui famigliari di vittime di reati, come Agnese Moro o Fiammetta Borsellino, accettano di entrare in carcere e di aprire un dialogo con le persone detenute, sono percorsi di autentica rieducazione. È dall’incontro con le vittime e con la loro sofferenza che nasce la consapevolezza del male fatto. Mi viene in mente la generosità con cui Agnese Moro accetta di confrontarsi nelle carceri, ma anche la sua severità, quando pone domande durissime: “Come hai potuto mettere la sveglia quella mattina per andare a uccidere un uomo?”. - Dovrebbe essere approfondita anche la questione della mediazione penale come modalità di intervento applicata ai conflitti che sorgono in carcere, tra detenuti e detenuti, ma anche tra detenuti e operatori. A Padova, con Adolfo Ceretti, che è anche un mediatore, è già stata fatta una sperimentazione, che andrebbe estesa, perché questi conflitti, affrontati con rapporti disciplinari, perdita della liberazione anticipata, trasferimenti, alla fine allungano la carcerazione delle persone punite e non affrontano affatto il tema cruciale, che è quello della difficoltà a controllare l’aggressività e la violenza nei propri comportamenti. La Ministra non ha solo espresso interesse per questa idea della Giustizia riparativa applicata all’esecuzione penale, come cuore della rieducazione, ma si è anche impegnata a coinvolgere nel sostegno a questi progetti il Ministero dell’Istruzione e i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Affetti Il nostro Paese ha, per tradizione, molto a cuore il tema della famiglia, ma se le famiglie sono quelle delle persone detenute, siamo fermi a una legge, l’Ordinamento penitenziario, che ancora finge che bastino dieci minuti di telefonata a settimana e sei ore di colloquio al mese per salvare una famiglia devastata dalla carcerazione di un suo caro. Alla Ministra abbiamo detto che la sensibilità che ha dimostrato incontrando le persone detenute nel viaggio nelle carceri della Corte Costituzionale sarà fondamentale quando finirà la pandemia e si porrà con forza il problema di mantenere nelle carceri l’uso delle tecnologie, per dare finalmente più spazio agli affetti. Quello che chiediamo è che, quando si uscirà da questa emergenza, non vengano tagliate le uniche cose buone che la pandemia ha portato, il rafforzamento di tutte le forme di contatto della persona detenuta con la famiglia e l’uso delle tecnologie per sviluppare più relazioni possibile tra il carcere e la comunità esterna. Dal carcere alla comunità Ad affrontare per la Conferenza il tema dei percorsi dal carcere alle misure di comunità è stata la vicepresidente, Ileana Montagnini, che ha sottolineato le difficoltà che si incontrano nel lavorare al reinserimento dal dentro al fuori, ben sapendo che le misure di comunità presuppongono anche di riflettere sul tipo di comunità in cui rientreranno le persone. Ma quello che è fondamentale è che questi percorsi non siano più affidati alla precarietà dei progetti-spot, ma siano servizi certi che garantiscano continuità e qualità, proprio a partire da quella parte del percorso che si sviluppa in carcere, ma oggi ancora in modo troppo “casuale” e discontinuo. In carcere serve più lavoro “formativo” (il lavoro per l’amministrazione occupa in modo poco qualificato 15746 detenuti, il lavoro in carcere per cooperative circa 700 detenuti, di cui 150 a Padova Due Palazzi, per imprese circa 300), servono più attività costruite in vista del “fuori”, che è molto più complesso di quanto si aspetti la persona detenuta quando inizia a uscire. Ma se prima della pandemia uscivano ogni giorno dal carcere di Bollate circa 150 detenuti con il lavoro all’esterno o la semilibertà, e a loro volta i detenuti dentro quel carcere lavorano quasi tutti, vuol dire che si deve considerare carceri come Bollate, ma anche Padova e altri Istituti che sperimentano strade nuove, non “carceri vetrina”, ma modelli da applicare anche in altri istituti per rilanciare i valori della rieducazione. Ergastolo ostativo e possibilità di un cambiamento Alla Ministra abbiamo rappresentato le esperienze avanzate che il Volontariato porta avanti anche sul tema dell’ergastolo ostativo. La recente sentenza della Corte Costituzionale, che ridà ai magistrati di Sorveglianza la discrezionalità di concedere permessi anche a chi ha scelto di non collaborare con la Giustizia, ha scatenato una campagna di stampa forsennata sul fatto che “i mafiosi non cambiano mai”. Con la Ministra abbiamo ragionato sul fatto che le persone, da decenni in carcere nei circuiti di Alta Sicurezza, difficilmente possono cambiare se non gli si propongono dei percorsi rieducativi che rappresentino una assunzione di responsabilità rispetto al loro passato. Il progetto “A scuola di libertà” può essere uno di questi percorsi, e la recente esperienza, di un progetto di videoconferenze tra le scuole di Reggio Calabria e detenuti di quel territorio in carcere a Padova, è un esempio di persone detenute che mettono a disposizione delle scuole le loro testimonianze, perché i ragazzi capiscano i rischi e le conseguenze di certi comportamenti. Per finire, ci piacerebbe che venisse ripreso il grande lavoro fatto dagli Stati Generali dell’Esecuzione penale, con il coordinamento di uno dei massimi esperti di diritto penitenziario, il professor Glauco Giostra: la nostra proposta è, sulla base di quella esperienza, di creare un tavolo di lavoro, che veda rappresentate tutte le componenti coinvolte nella gestione dell’esecuzione delle pene: Volontariato, Camere penali, Garanti, Cooperative sociali, Università, Istruzione e Sanità. Se ci fosse stato nella fase della pandemia un coordinamento di questo genere, forse si sarebbe evitata la desertificazione delle carceri, ma ora il tema si ripropone con forza, perché serve davvero “UN’ALTRA STORIA”: *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Incontro dei laboratori di scrittura e delle attività di informazione e sensibilizzazione Ristretti Orizzonti, 8 maggio 2021 Ai responsabili dei laboratori di scrittura e delle attività di informazione e sensibilizzazione dal carcere e dall’area penale esterna. Gentili tutti, abbiamo ricevuto da Francesco Lo Piccolo, giornalista, direttore del periodico “Voci di dentro”, realizzato con i detenuti delle Case circondariali di Chieti e Pescara, un invito a promuovere una videoconferenza per rilanciare le nostre attività. Noi della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ci occupiamo da anni di informazione e comunicazione, in particolare con il Festival della comunicazione dal carcere e sul carcere, e quindi accogliamo volentieri questo invito e vi chiediamo di manifestarci il vostro interesse a partecipare a un incontro web (indicativamente da tenersi tra il 15 e il 28 di questo mese) e a contribuire a rilanciare queste complesse attività, anche in considerazione dell’uso delle tecnologie, che riteniamo vada promosso con forza negli istituti di pena. Segnalare la propria adesione alla mail ornif@iol.it. Per la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Ornella Favero, presidente Carla Chiappini, responsabile della comunicazione Da Voci di dentro Onlus Da un anno tutte le attività delle associazioni di volontariato sono sospese o in casi più fortunati sono ridotte al minimo. In tutte le carceri anche i laboratori via web, compresi quelli di scrittura e per la realizzazione dei giornali, hanno subito drastiche battute d’arresto. In molti casi sospeso anche il servizio di prenotazione e distribuzione dei libri e altrettanto è stata ostacolata la stessa comunicazione dentro-fuori. Per motivi di sicurezza a causa dell’emergenza Covid, dal carcere è stata così estromessa la società civile, che comunque già prima della pandemia era spesso considerata come subalterna all’Istituzione. A titolo di esempio diciamo solo che nel carcere di Pescara era in piedi un progetto in un’area non utilizzata e da noi trasformata in uno spazio aperto con laboratori quotidiani di scrittura, teatro, fotografia, computer, musica, sartoria tenuti da 15 tra volontari e studenti tirocinanti per una quarantina di detenuti. Progetto chiuso dopo tre anni nel 2019 e trasformato in un unico laboratorio di scrittura due volte a settimana e limitato a soli 5 detenuti. Poi il Covid ha fatto il resto. Nel ritenere che oggi spesso nelle carceri non venga rispettato il dettato della Costituzione (art. 27) e le norme e le osservazioni-indicazioni della Comunità Europea, proponiamo al più presto un incontro di tutte le associazioni impegnate nelle carceri italiane con laboratori di scrittura, con la realizzazione di riviste e/o giornali del carcere e con altre attività di questo tipo. L’incontro oltre a fornire il quadro esatto della situazione nelle varie carceri, deve essere occasione di confronto e dibattito per giungere anche alla definizione di una linea comune di risposta rivolta al superamento di questa grave situazione, che di fatto ha trasformato le carceri italiane in luoghi di sempre maggior sofferenza per oltre 50 mila persone, e spesso al di fuori della legalità. Francesco Lo Piccolo Carcere e Covid: prorogate fino al 31 luglio le norme del “decreto ristori” di Francesco Lazzeri sistemapenale.it, 8 maggio 2021 Licenze-premio, permessi-premio e detenzione domiciliare straordinari. Con il decreto-legge 30 aprile 2021, n. 56 (in G.U. n. 103 del 30 aprile 2021), l’efficacia di alcune disposizioni della disciplina emergenziale in ambito penitenziario, sinora prevista fino al 30 aprile 2020, è stata prorogata al 31 luglio 2021. In particolare, l’art. 11 del d.l. 56/2021 interviene sul decreto-legge 137/2020 (c.d. decreto ristori), come convertito dalla legge 176/2020 (che ha convertito anche i decreti c.d. ristori bis, ter e quater), e dispone la proroga, fino al termine anzidetto: - del possibile termine massimo delle licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà concesse ai sensi dell’art. 28 c. 1 d.l. 137/2020 (“ferme le ulteriori disposizioni di cui all’articolo 52 della legge 26 luglio 1975, n. 354, al condannato ammesso al regime di semilibertà possono essere concesse licenze con durata superiore a quella prevista dal primo comma del predetto articolo 52, salvo che il magistrato di sorveglianza ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura”) - della possibilità di concedere permessi premio di cui all’art. 30-ter ord. penit. in deroga ai limiti temporali ordinari, ai sensi dell’art. 29 c. 1 d.l. 137/2020 (“ai condannati cui siano stati già concessi i permessi di cui all’articolo 30-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 o che siano stati assegnati al lavoro all’esterno ai sensi dell’articolo 21 della legge 26 luglio 1975, n. 354 o ammessi all’istruzione o alla formazione professionale all’esterno ai sensi dell’articolo 18 del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, i permessi di cui all’articolo 30-ter della citata legge n. 354 del 1975, quando ne ricorrono i presupposti, possono essere concessi anche in deroga ai limiti temporali indicati dai commi 1 e 2 dello stesso articolo 30-ter”) - della possibilità di consentire l’esecuzione domiciliare delle pene detentive non superiori a 18 mesi, ai sensi dell’art. 30 c. 1 d.l. 137/2020 (“in deroga a quanto disposto ai commi 1, 2 e 4 dell’articolo 1 della legge 26 novembre 2010, n. 199, la pena detentiva è eseguita, su istanza, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, ove non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena”, salve le eccezioni ivi contemplate). Poli penitenziari: il riscatto sociale passa dall’istruzione di Giuseppe Scaffidi futura.news, 8 maggio 2021 Si si è svolto ieri il seminario della Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari (Cnupp). La Conferenza ha raggiunto quest’anno il terzo anno di vita, che coincide con la conclusione del mandato del primo consiglio nazionale, presieduto dal Prof. Franco Prina, delegato per il Polo Universitario Penitenziario del Rettore dell’Università di Torino. Sono attualmente 60, tra detenuti e detenute, gli studenti iscritti a UniTo, non solamente nella Casa circondariale Lorusso e Cutugno, ma anche nella Casa di Reclusione Rodolfo Morandi di Saluzzo (14). Dei 60 iscritti, 11 stanno completando gli studi dopo aver lasciato il carcere e aver ottenuto misure alternative. Stanno seguendo corsi di studio triennali (52) e magistrali (8), afferenti ai dipartimenti di Culture, politica e società (36), Giurisprudenza (18), Matematica, Psicologia, Dams. Nell’ultimo anno si sono laureati 5 studenti. A livello nazionale, nell’anno accademico in corso, sono 1.034 gli studenti detenuti iscritti, dei quali 109 (10,5%) si trovano in regime di esecuzione penale esterna, 549 (53,1%) scontano una pena in carcere in circuiti di media sicurezza, 355 (34,3%) in alta sicurezza, e 21 (2,1%) in regime 41bis. Le studentesse sono 64, quindi il 6,2% del totale degli studenti. Nel primo triennio di vita della Cnupp gli atenei aderenti con studenti attivi sono stati interessati da un aumento importante, passando dai 27 del biennio 2018-19 ai 32 nel 2020-21 (un incremento del 18,5%). “Sono stato particolarmente coinvolto, avendo avuto il compito di presiedere la conferenza. Un cammino importante quello dei poli penitenziari, contrassegnato da un aumento degli atenei coinvolti, che sono una realtà piuttosto significativa nel paese”, racconta a Futura News Franco Prina. “Siamo riusciti a coinvolgere nel progetto gli atenei di due regioni, la Puglia e la Sicilia, che non avevano in precedenza collegamenti nelle carceri e stanno avviando contatti con gli istituti presenti sul loro territorio: un risultato che ci rende orgogliosi”. Prina ha espresso soddisfazione anche sul piano dell’allargamento della rete di relazioni della Cnupp: “Stiamo portando avanti un confronto con il Dipartimento dell’Amministrazione centrale penitenziaria, stipulando un protocollo d’intesa che possa incentivare un confronto diretto e continuativo. Nei prossimi mesi, redigeremo delle linee guida che definiranno le condizioni omogenee di presenza delle università negli istituti penitenziari”. Da non sottovalutare anche l’impegno per il potenziamento della didattica a distanza: “Un obiettivo che ci proponiamo di raggiungere è quello di realizzare un sistema di Dad strutturato, per potere accedere ai materiali e alle lezioni registrate, in modo che ognuno, con proprie credenziali, possa attingere a quanto gli è utile per i loro corsi di studio. Dall’anno scorso abbiamo aperto una sezione piuttosto nutrita a Saluzzo, che è difficilissima da raggiungere: la didattica a distanza ci consentirà di migliorare l’offerta”. E ora meno timidezza sulla giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 8 maggio 2021 La discussione sulla riforma della giustizia penale per come si è svolta in commissione ha messo in luce le differenze tra i partiti in un modo che non corrisponde affatto alla contrapposizione tra centrodestra e centrosinistra. Sul tema più rilevante, quello della prescrizione che era stata abolita persino per chi viene assolto in primo grado, si era creata nuovamente una sintonia tra Movimento 5 stelle e Lega, mentre puntavano ad apportare modifiche in senso garantista Forza Italia, Italia viva e il Partito democratico. Che rinascesse un’intesa tra partiti che si combattono a parole tutti i giorni, e proprio su una norma che rende eterni i processi, era un segnale assai preoccupante. È persino inutile spiegare come la legge stilata da Alfonso Bonafede sull’onda di una sgangherata campagna “spazza-corrotti” finisca col creare una situazione intollerabile per chi, accusato di un reato, non vede mai la fine del suo calvario giudiziario, neppure se viene assolto perché le procure possono appellarsi contro la sentenza sine die. Però poi Matteo Salvini ha cambiato completamente registro e ha annunciato la raccolta di firme, insieme al Partito radicale, per una riforma della giustizia tutt’altro che giustizialista. Ha argomentato che “questo Parlamento con Pd e 5 stelle non la farà mai” e quindi si appella a una decisione popolare sulla responsabilità civile dei magistrati, la separazione delle carriere e l’abrogazione della legge Severino. Si tratta anche di una pressione, questa volta nella direzione giusta, nei confronti della Guardasigilli Marta Cartabia, che ha in programma incontri con i gruppi parlamentari, in modo da darle spazio di manovra per evitare il pericoloso avvitamento sulla legge Bonafede. Sembrava che ancora una volta il partito delle manette avesse vinto, invece la deriva giustizialista non è inarrestabile e questo spirito riformatore riapparso un po’ a sorpresa può rafforzare le spinte al rinnovamento e alla rinascita rappresentate da Mario Draghi. Giustizia al bivio di Marianna Rizzini Il Foglio, 8 maggio 2021 Il Pd chiama Cartabia sul caso Davigo-Amara in vista delle riforme. Parla Rossomando Roma. Il caso Amara (e prima ancora Palamara), e la magistratura dilaniata da scontri di potere. C’è soluzione? In attesa di una settimana cruciale per le riforme sulla giustizia, la senatrice Anna Rossomando, responsabile giustizia del Pd e vicepresidente del Senato, ha presentato, prima firmataria con Luigi Zanda, un’interrogazione al Guardasigilli Marta Cartabia. “Secondo quanto riportato da diversi organi di stampa un pubblico ministero del Tribunale di Milano, Paolo Storari, avrebbe provveduto a consegnare verbali coperti dal segreto istruttorio di cinque interrogatori all’allora consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura, Piercamillo Davigo”, si legge nel testo dell’interrogazione, “i verbali sarebbero inerenti agli interrogatori resi dall’avvocato Pietro Amara, nell’ambito di un’indagine giudiziaria svolta dalla Procura della Repubblica di Milano; si aggiunga che gli stessi verbali sarebbero stati altresì inviati in forma anonima ai quotidiani La Repubblica e Il Fatto Quotidiano, tuttavia le testate destinatarie anziché procedere con la pubblicazione hanno consegnato la documentazione ricevuta alle procure competenti. Inoltre, sempre secondo quanto riportato da diversi organi di stampa, a seguito degli accertamenti della Guardia di Finanza l’invio dei predetti verbali sarebbe partito proprio dagli uffici di una funzionaria del Csm”. Si sa che sono stati aperti procedimenti penali dalle Procure di Roma e di Brescia. I firmatari dell’interrogazione sottolineano le “anomalie evidenti nella trasmissione di atti coperti dal segreto istruttorio” e chiedono al ministro Cartabia “quali iniziative intenda assumere affinché venga fatta chiarezza sulla vicenda”. Intanto, fuori dall’Aula, Matteo Salvini ha annunciato una raccolta di firme con il Partito Radicale per un referendum: “Questo Parlamento con Pd e 5Stelle non farà mai una riforma”, ha detto il leader della Lega, “la politica non può aspettare per iniziare una radicale riforma della Giustizia che riguardi in primis il Csm, l’accesso e la carriera dei magistrati”. Dice Rossomando: “È il Parlamento il luogo deputato per una riforma che possa contrastare anche gli accordi di potere e l’autoreferenzialità. Ci si sta lavorando da tempo. E in particolare, come sosteniamo in alcune proposte del Pd, nella direzione di un rafforzamento della cultura delle garanzie. Non si può rispondere all’inquietudine che suscitano nei cittadini i recenti fatti con la conservazione dell’esistente”. Ma come e dove intervenire? “Non è solo la questione della legge elettorale per il Csm a essere in cima alla lista degli interventi urgenti”, dice Rossomando. “Bisogna intanto agire sulle modalità di nomina dei dirigenti degli uffici, seguendo un rigoroso criterio cronologico e basta con le nomine a pacchetto. Per quanto riguarda il disciplinare, invece, proponiamo che i magistrati non siano giudici di sé stessi, almeno per il secondo grado di giudizio. L’idea è istituire un’Alta Corte, con composizione mista e competente per tutte le magistrature”. Con gli occhi alla Costituzione, dice poi Rossomando, si dovrebbe sperimentare “una certa modularità nella composizione del plenum, perché i giudici non siano eletti tutti insieme”. Quanto ai segretari e all’ufficio studi del Csm, “stop alle nomine in base al peso delle correnti, si all’accesso per concorso, con una quota destinata ai non magistrati. Ma di tutto questo deve occuparsi il Parlamento, chi propone strade alternative non vuole cambiare niente. Ricordiamoci che i fondi del Recovery sono vincolati a interventi sulla giustizia. Abbiamo una grande responsabilità, e ora possiamo intervenire in modo efficace”. Presunzione di innocenza da tutelare di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 8 maggio 2021 Troppi errori: la riforma, che il governo ha posto tra le priorità, potrebbe costituire un’occasione per rimediare. Senza rischio di iperbole, si può affermare che la recente sentenza della Cassazione che ha definitivamente assolto la signora Carolina Girasole ex sindaco di Isola Capo Rizzuto ma, soprattutto, simbolo dell’antimafia fino a quando nell’ormai lontano dicembre del 2013 venne arrestata con l’accusa di essere stata eletta con “voti sporchi” ricevuti dalla ‘ndrangheta in cambio di favori, esprime una incongruenza inaccettabile per uno Stato democratico di diritto. Certo si può decidere di derubricare l’episodio a un ennesimo errore giudiziario oppure lasciarsi travolgere da un moto di ottimismo valutando che seppure dopo sette anni e mezzo “il calvario è finito”, come ha dichiarato l’interessata, nella consapevolezza che in altre circostanze è trascorso molto più tempo e talvolta la verità non è mai emersa. Tuttavia poiché i casi di mala giustizia sono giunti, dal 1992 al 31 dicembre 2020, all’insostenibile numero di 29.452 con un costo per la collettività di quasi ottocento milioni di euro di indennizzi (ventotto milioni di euro l’anno) è necessario, forse meglio dire urgente, chiedersi se a questi casi possa essere posto rimedio con la riforma della giustizia che l’attuale governo, in linea con le prescrizioni europee, ha collocato tra le prime quattro più importanti da attuare, insieme a quelle della Pubblica amministrazione, semplificazione e concorrenza. Sono apprezzabili gli annunciati interventi “sulla accelerazione dei processi per garantire competitività del sistema Italia”. Non di meno oltre che delle disfunzioni strutturali, le ingiustizie sono soprattutto la conseguenza di alterazioni culturali e in primo luogo del mai completamente attuato principio di presunzione di innocenza. Una problematica che sarebbe riduttivo ricondurre nel solo alveo delle sofferenze individuali, benché la loro imperscrutabile dinamica abbia condotto a drammatiche conseguenze. In uno Stato a fondamento democratico, una condanna ingiusta essendo percepita come una questione che riguarda l’intera collettività, alimenta la sfiducia nella giustizia. L’opzione ideologica condensata nel principio di non colpevolezza (articolo 27 Costituzione) è alla base di ogni democrazia costituzionale la quale al fine di preservare l’inviolabilità della libertà personale, è pronta a lasciare libero un colpevole piuttosto che condannare un innocente. La virata europeista che l’esecutivo ha inteso imprimere anche con le ultime programmazioni riformiste, deve spingersi fino a recepire appieno la portata del principio di presunzione di innocenza che, come si può leggere nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 ma anche nelle ormai granitiche direttive adottate dal Parlamento europeo e dal Consiglio (direttiva 343/Ue del 9 marzo 2016), è collocato tra i più importante diritti fondamentali della persona umana. Sarebbe comunque superficiale affrontare la tematica unicamente sotto il profilo giudiziario, senza considerare gli effetti della divulgazione di notizie relative a una determinata vicenda giudiziaria, avendo piena consapevolezza che questo implica molto spesso infrangere il divieto di punire prima della condanna definitiva. Con ciò non si intende sostenere che la presunzione di non colpevolezza debba comportare delle restrizioni al diritto di cronaca, bensì che è necessario garantire una corretta informazione, semmai fornita da parte degli Uffici inquirenti e con carattere impersonale, evitando degenerazioni attraverso la ricostruzione di fatti giudiziari nei salotti televisivi. Forme di giustizia spettacolo che tra l’altro condizionano la pubblica opinione. È tempo quindi che il principio di presunzione di innocenza, da aspirazione teorica distante dall’ordinamento giudiziario ne diventi criterio guida non soltanto per le parti direttamente interessate alle vicende processuali ma anche per tutti coloro che possono concretamente influenzarle. L’approccio europeo del quale si è detto, obbliga a guardare gli indirizzi della Corte europea che denunciando in più occasioni le pronunce di giudici nazionali basate su meri sospetti di colpevolezza, ha fornito indicazioni chiare agli Stati membri sulla esigenza di salvaguardare la reputazione e i diritti di chi deve essere considerato innocente fino all’eventuale condanna definitiva. Salvini sfida il governo per riformare la giustizia al di fuori del Pnrr di Giulia Merlo Il Domani, 8 maggio 2021 Lega e Radicali raccolgono firme per un referendum su responsabilità dei giudici, separazione delle carriere e abolizione della legge Severino. La mossa del leader della Lega, Matteo Salvini, spiazza tutti. Mentre il Consiglio superiore della magistratura è sommerso dallo scandalo della presunta loggia segreta Ungheria e le commissioni Giustizia lavorano agli emendamenti sulle tre grandi riforme (penale, civile e ordinamento giudiziario), lui lancia la bordata: “Questo parlamento con Pd e Cinque stelle non farà mai una riforma della giustizia”. Per questo, la Lega sta organizzando insieme al partito Radicale “una raccolta di firme per alcuni quesiti referendari”: la responsabilità penale dei giudici; separazione delle carriere e abolizione della legge Severino sull’ineleggibilità o la decadenza nel caso di condanna in primo grado per alcuni tipi di reati. Ai quali il segretario del partito Radicale, Maurizio Turco, aggiunge anche i magistrati fuori ruolo, la riforma della custodia cautelare, le intercettazioni e la valutazione della professionalità dei magistrati. Tre temi ampiamente dibattuti nel corso degli ultimi anni (in particolare i primi due sono cavalli di battaglia dell’Unione camere penali italiane), ma mai divenute centrali. Men che meno ora, quando le riforme della giustizia attese sono quelle contenute nel Piano nazionale di ripresa e resilienza e puntano a un obiettivo macro: la riduzione dei tempi dei processi, sia civili che penali, attraverso riforme di rito, assunzioni di personale e informatizzazione delle strutture. Proprio questo obiettivo è uno dei punti cardine del Pnrr, perché alla velocizzazione della giustizia italiana è subordinato l’ottenimento dei fondi del Recovery plan. Per questo le dichiarazioni di Salvini hanno prodotto dure reazioni da parte degli altri partiti di maggioranza, che hanno letto nelle parole del leader leghista soprattutto una volontà provocatoria nei confronti di Pd e Cinque stelle. Piegare il referendum a “fini ostruzionistici, strumentali e di mera propaganda, serve solo a svilirne l’importanza per la nostra democrazia”, è stato il commento stizzito dei deputati del Movimento 5 stelle in commissione Giustizia. Il sospetto, infatti, è che con questa dichiarazione Salvini stia anticipando la volontà di sabotare il tavolo delle riforme già in cantiere: “Salvini dovrebbe sapere che la riforma della giustizia, sia civile che penale, è già all’esame del parlamento e dovrebbe, invece di avventurarsi in inutili proclami, impegnarsi concretamente a dare un contributo positivo”. Immediatamente, infatti, le parole di Salvini hanno fatto scricchiolare il già teso rapporto dentro la maggioranza di Mario Draghi. Ad attaccare frontalmente la Lega è soprattutto il Movimento 5 stelle, con il presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni: “Il posto di Salvini è all’opposizione, se vuole remare contro”. Contro le riforme già incardinate nelle commissioni, ma anche contro l’opera di paziente ricucitura che sta portando avanti la ministra Marta Cartabia. Tesi che viene ribaltata completamente da Salvini, secondo cui sono il Pd e i Cinque stelle “coi loro attacchi quotidiani alla Lega” a mettere “in difficoltà Draghi e l’azione del governo”. Nello scontro interno alla maggioranza, a rischiare di venire schiacciato è il Partito radicale, che è ben consapevole che l’inedito fronte comune con la Lega potrebbe essere un boomerang. Anche perché le dichiarazioni di Salvini sono arrivate con un tempismo ben calcolato: il sodalizio Lega-Radicali, infatti, sarebbe nato a inizio febbraio, nel pieno della crisi del governo Conte 2, ma tenuto nel più totale riserbo. Prima che il leader della Lega lo rivelasse a Porta a Porta. “Non è nelle volontà e nelle intenzioni del comitato promotore utilizzare i referendum per far saltare il governo. Tutt’altro: stiamo sminando il percorso del governo da chi ancora una volta vuole usare politicamente la questione giustizia”, ha detto il segretario Maurizio Turco. Un tentativo di depotenziare la polemica cercata dal leader della Lega, che però ormai è scoppiata. Tuttavia, la direzione ormai è tracciata: a fine mese i quesiti del referendum promosso dalla Lega e dal Partito radicale sulla giustizia saranno depositati in Corte di cassazione: il primo weekend di luglio partirà la raccolta firme, per il deposito entro fine settembre. Dunque, se la raccolta andrà a buon fine, nel 2022 si potrebbe arrivare alle urne, poco dopo l’elezione di febbraio del nuovo presidente della Repubblica. Certamente, il fatto che la giustizia sia terreno di scontro così aspro non viene sottovalutato dal governo Draghi. Palazzo Chigi e via Arenula, infatti, sanno quanto sia delicato l’equilibrio sulla giustizia: tutte le questioni che la riguardano dividono la maggioranza ed è stato così sin dai primi giorni di vita del governo. Per questo il mandato informale della ministra Cartabia è da subito stato quello di “sminare” il campo dai temi più ideologicamente divisivi, prescrizione in testa. L’accelerazione polemica di Salvini è un segnale che la ministra intende affrontare e la data è già fissata. Lunedì, infatti, Cartabia ha convocato un incontro con la maggioranza per fare il punto su uno dei testi più delicati in via di approvazione: quel ddl penale che contiene sì la riforma della prescrizione, ma anche e soprattutto le norme che - negli intenti del governo - dovrebbero andare nella direzione di garantire la ragionevole durata dei processi. In questa sede la ministra dovrebbe avere a disposizione anche la relazione sul ddl prodotta dalla commissione di esperti da lei stessa nominata, con l’incarico di vagliare il testo e individuare possibili miglioramenti da affiancare alle proposte emendative dei singoli partiti, il cui termine è scaduto martedì 4 maggio. La Lega sarà presente all’incontro insieme alle altre forze di maggioranza e toccherà a Cartabia ristabilire i tempi e le regole di un percorso di riforme comune. Così il Salvini referendario aiuta Cartabia a sminare la partita sulla prescrizione di Errico Novi Il Dubbio, 8 maggio 2021 L’annuncio di un’iniziativa referendaria con i Radicali non è sfuggita ai sismografi.Eppure il quadro politico non sembra sconvolto più di tanto dalla “bomba” del leader leghista. Certo a tre giorni da un delicatissimo vertice su processo penale e prescrizione, convocato da Marta Cartabia per lunedì prossimo, Matteo Salvini poteva anche toccarla un po’ più piano. Poteva evitare che sul precario tavolo della maggioranza precipitasse la sua proposta di rispondere alle difficoltà del “pacchetto giustizia” con l’iniziativa referendaria, avviata d’intesa coi radicali. Eppure il quadro politico non sembra sconvolto più di tanto dalla “bomba” del leader leghista. E il motivo non riguarda solo lo snobistico sussiego che l’ex maggioranza giallorossa esibisce nei confronti di Salvini. Il quale ieri intanto ha almeno un po’ stemperato il tono della “minaccia” di abbandonare le riforme con Cartabia e imbracciare i referendum: lo faremo, ha detto, “se i partiti non troveranno un accordo in Parlamento su riforme necessarie e urgenti”. In quel caso, “saranno i cittadini a farlo, tramite referendum”. Certo, non ha ritrattato la polemica nei confronti di “Pd e 5 stelle” che “coi loro attacchi quotidiani alla Lega, mettono in difficoltà Draghi e l’azione del governo”. Ma il capo della Lega chiarisce in pratica di non voler disertare la discussione aperta da Cartabia sulle riforme del processo. Al più, ribadisce di avere pronta un’arma di riserva. C’è poi un dettaglio: su alcune materie il referendum annunciato insieme coi radicali è possibile eccome, dalla responsabilità civile dei magistrati all’abuso della custodia cautelare fino alla legge Severino; ma su un dossier di particolare delicatezza che pure Salvini ha chiamato in causa, la separazione delle carriere, non c’è alcuna possibilità di abrogare, con una consultazione, una qualche norma “strategica”. Come fa notare il segretario di Area, la corrente progressista dei magistrati, Eugenio Albamonte, “sulla separazione delle carriere la raccolta delle firme è già stata fatta, c’è una proposta in Parlamento, c’è un percorso avviato”. Grazie all’Unione Camere penali, va detto per inciso. Non ci sono ancora quesiti depositati in Cassazione, non è dunque partita alcuna raccolta firme. Al massimo Lega e Partito radicale (con un proprio nuovo comunicato) confermano di volersi muovere insieme. Ma il discorso è più sottile, paradossale e imprevedibile. Innanzitutto, Salvini mette nel mirino non la prescrizione, non i limiti all’adozione dei riti alternativi (anzi, un limite l’ha voluto proprio lui due anni fa con la legge leghista che vieta l’abbreviato per i reati da ergastolo): coi referendum vuole fulminare questioni che chiamano in causa soprattutto l’attività dei magistrati, l’abuso dei loro poteri o di istituti come il “carcere preventivo”. Bene: non si tratterà di un siluro per Cartabia, neppure in vista del vertice convocato a via Arenula per dopodomani. Con l’enfasi sulle riforme relative alle toghe infatti, Salvini rischia di rendere un servizio prezioso proprio alle intese di maggioranza sulle riforme. Perché evita che il ddl sul Csm diventi la cenerentola del piano, schiacciata in un angolo dal ddl penale in cui è incistata la diatriba prescrizione. In tal modo, la Lega rischia di spostare l’alleanza di governo più verso il tavolo della riforma sull’ordinamento giudiziario che nel ring della commissione d’inchiesta sull’uso politico. E un simile effetto può solo calmierare il tasso di litigiosità. E ancora, reclamare per la riforma dei magistrati pari se non maggiore attenzione di quanta se ne riservi alla “norma Bonafede” può aiutare la guardasigilli, nel più imprevisto dei modi, ad arbitrare con meno patemi proprio la sfida sulla prescrizione. In ogni caso ieri la scossa provocata dal referendum radical leghista non è sfuggita ai sismografi. Mario Perantoni, il presidente pentastellato della commissione Giustizia della Camera, che è l’epicentro delle liti parlamentari sul processo, è quello che va più sul pesante: il posto di Salvini, dice, “è all’opposizione, se vuole remare contro. Promuovere un referendum sulla giustizia mentre è in corso un importante lavoro coordinato dalla ministra Cartabia per riformare il processo civile e quello penale, e il Csm, dimostra che l’unico terreno che interessa Salvini è quello della propaganda”. Molti altri dicono la stessa cosa con parole diverse: dai deputati grillini della commissione - “soliti proclami” - al capogruppo dem in commissione Giustizia al Senato Franco Mirabelli - “solite sparate” - fino al leader di Azione Carlo Calenda. Il quale liquida i referendum sulla giustizia come “iniziative propagandistiche”. Però poi conferma a propria volta come l’attualità della questione magistrati imponga di ricalibrare il baricentro delle riforme, e chiede “l’intervento del Colle”. Ma il dato forse più indicativo sull’assenza di ostilità verso Cartabia, nella “svolta referendaria” arriva proprio dalla nota del Partito radicale, firmata da Maurizio Turco, Irene Testa e Giuseppe Rossodivita: “Questi referendum sono necessari perché il Parlamento, e in particolare una ben nota componente transpartitica, ha da tempo barattato l’autonomia della politica dagli altri poteri, così pregiudicando lo Stato di diritto”, ma “è una provocazione attribuire ai referendum una funzione antigovernativa”. E se lo dice chi, delle consultazioni popolari, fa da qualche lustro il principale strumento d’azione, forse è il caso di prendere la cosa sul serio. Albamonte: “Referendum sulla Giustizia? Una boutade per cavalcare il consenso…” di Errico Novi Il Dubbio, 8 maggio 2021 È netto il giudizio di Eugenio Albamonte, segretario di Area, sull’ipotesi di un referendum di Lega e Radicali per la riforma della giustizia. “Dato quello che sta accadendo in questi mesi di crescente perdita di credibilità da parte della magistratura è diventata una costante che tutte le forze politiche colgano l’occasione per regolare dei conti. Fa parte di un’operazione politica, cercare di lucrare un segmento di consenso dell’opinione pubblica. Qualche sondaggio recente attesta che la credibilità della magistratura è scesa al 42% e qualcuno pensa di cavalcare questo dato”. È netto il giudizio di Eugenio Albamonte, segretario di Area, sull’ipotesi di un referendum di Lega e Radicali per la riforma della giustizia. “A parte la stranezza di una forza di governo che con dei tavoli di riforma aperti su sui sarebbe il caso di lavorare, decide che non si faccia niente e che si dia la parola ai cittadini”, sottolinea il segretario delle toghe progressiste. Quanto ai possibili quesiti “vedo scarsa materia di referendum - osserva Albamonte - forse guarda caso l’unica materia che si presta a un quesito referendario è la legge Severino, che non è una cosa che riguarda la magistratura ma la politica. Mettere insieme questi temi significa soprattutto cercare di trovare l’occasione per svincolare i politici dalla Severino e dalle conseguenze di eventuali condanne”. “Per il resto la responsabilità civile dei magistrati c’è, esisteva già ed è stata modificata da Renzi - ricorda - non si può intervenire su questo se non con un referendum propositivo, e allora si torna alla parola al Parlamento, quindi tanto vale lavorare adesso lì”. Infine “sulla separazione delle carriere la raccolta delle firme è già stata fatta, c’è una proposta in Parlamento, c’è un percorso avviato”. Insomma, conclude Albamonte, “mi sembra una boutade, un tentativo di cavalcare un momento di opinione pubblica favorevole, come purtroppo è accaduto anche in altre occasioni”. Duello Davigo-Ardita, l’ultima faida nel Csm. “Ora la resa dei conti” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 8 maggio 2021 Sfidarsi in un dibattito televisivo all’ultimo sangue. Come Burt Lancaster e Kirk Douglas. Come Salvini e Fedez. Ma tra giudici. Di più: tra due alti magistrati che sono stati amici, fondatori di una corrente, eletti insieme al Csm, vicini di stanza, coautori di libri-manifesto. Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, protagonisti del caso che sta destabilizzando il terzo potere, dopo un anno e mezzo da estranei nel Csm, l’altra sera si sono scazzottati a distanza sul ring tv di Piazzapulita. Dandosi appuntamento a un’alba televisiva da western, quando “ne resterà solo uno”. Sullo sfondo della fantomatica loggia segreta Ungheria, lo spettacolo, persi i freni inibitori e corporativi, è stato notevole. Prima l’intervista in video registrata da Davigo nella sua casa di Milano. Poi, mentre in studio commentavano gli ex magistrati Luca Palamara e Alfredo Robledo (spumeggiante con i neologismi Palamaravirus e Pieranguilla su Davigo), ecco l’epifania telefonica di Ardita. Dopo un breve stacco pubblicitario per aumentare la suspense, il consigliere del Csm accusato nei verbali dell’avvocato Amara di essere uno dei “magiari”, come a Roma vengono già sbeffeggiati i presunti affiliati alla loggia, si sfoga contro “il dottor Davigo”. Dicendosi “basito dalle sue affermazioni gravissime” e accusandolo di aver veicolato “atti giudiziari provenienti da reato” contro una persona, Ardita stesso, “verso cui nutriva grave inimicizia”. Ciò “ben sapendo” che la loggia era “una bufala”, perché i passaggi su Ardita sono pieni di elementi falsi e “facilmente verificabili”, non ultimo il paradosso per cui Ungheria sarebbe “una conventicola di garantisti” mentre Ardita ha scritto nel 2017 un libro orgogliosamente intitolato “Giustizialisti”, pubblicato - va sans dire - da Paper First, casa editrice del Fatto Quotidiano, con la prefazione di Marco Travaglio. Coautore proprio Piercamillo Davigo. Altra epoca, in cui i due magistrati, uscendo da Magistratura Indipendente, fondavano la corsara Autonomia & Indipendenza, per scardinare il sistema correntizio. Nel 2018 furono eletti al Csm e occuparono nell’ala nobile due uffici adiacenti, separati dal cosiddetto e invidiato “salottino”, su cui affacciava anche la stanza delle due segretarie. Quella di Davigo, devota al punto da piangere nel giorno in cui lui fu cacciato dal Csm, ora è indagata a Roma come “corvo” dei verbali segreti. Il rapporto tra Davigo e Ardita si incrinò dopo l’uscita delle intercettazioni di Palamara e si ruppe sulla scelta del procuratore di Roma. Ciascuno ha molte cose da dire all’altro e sull’altro. Motivo per cui Ardita, chiudendo la telefonata, lo sfida “a vedersi per un confronto”, così “ce le diciamo tutte guardandoci negli occhi”. Davigo non ha assistito alla telefonata di Ardita in diretta. Era quasi mezzanotte. Ieri mattina gliel’hanno segnalata via messaggio. Ma non ha potuto guardare subito la trasmissione sul web, perché aveva in casa l’idraulico. “In ogni caso - dice prima ancora di averlo congedato - accetto il dibattito. Parlerò di quello che accadde dopo l’uscita delle intercettazioni dell’hotel Champagne. Gli ricorderò che per due volte mi disse che voleva dimettersi dal Csm. E gli ripeterò la domanda che gli feci quando lo presi in disparte: c’è qualcosa che non so?”. Nel frattempo procede l’inchiesta su fughe di notizie e dossieraggi. In attesa, oggi, dell’interrogatorio del pm milanese Paolo Storari, indagato per aver consegnato i verbali a Davigo, ieri a sorpresa il procuratore di Milano Francesco Greco s’è presentato dal collega di Roma, Michele Prestipino. Greco, che si è fermato un’ora (ma non si è trattato di un interrogatorio), è considerato parte offesa perché il “corvo”, nelle lettere anonime, lo accusa di aver insabbiato l’indagine sulla loggia Ungheria. Anche il presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (ex M5S) è andato in Procura per raccontare di essere stato informato della vicenda dallo stesso Davigo, rallegrandosi del fatto che “Ardita sia uscito bene da questa vicenda”. Stefano Cucchi, carabinieri condannati nel processo d’appello di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 maggio 2021 La Corte d’Assise d’Appello di Roma conferma il primo grado ma inasprisce le pene. Ai due militari D’Alessandro e Di Bernardo 13 anni di carcere, quattro a Mandolini. Hanno avuto ragione Ilaria Cucchi (con Fabio Anselmo) e Andrea Franzoso ad intitolare il loro libro, appena dato alle stampe per Fabbri editore, “Stefano, una lezione di giustizia”. Perché tutta la vicenda di Stefano Cucchi - dal suo arresto del 15 ottobre 2009, alla sua morte, avvenuta una settimana dopo nell’ospedale Pertini di Roma, fino al processo bis d’Appello che si è concluso ieri con la conferma della condanna dei carabinieri responsabili del pestaggio e della conseguente morte del giovane geometra romano (mentre è ancora in corso il processo ter per il depistaggio messo in atto in tutti questi lunghi anni) - è un compendio di violazioni di norme e diritti. E una lezione di educazione civica che andrebbe portata nelle scuole. Dopo cinque ore di camera di consiglio, la Corte d’Assise d’Appello ha inasprito le pene rispetto al primo grado di giudizio, condannando a 13 anni di carcere (anziché 12) i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, ritenuti colpevoli di omicidio preterintenzionale perché la notte che lo arrestarono, intervenuti in borghese durante l’operazione, pestarono Cucchi fino a spezzargli due vertebre (S4 e L3). Anche per il maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti comandante della stazione Appia, è stata aumentata la pena: 4 anni (anziché 3 anni e 8 mesi) per falso, con interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Stesso reato riconosciuto al carabiniere Francesco Tedesco, il super testimone assolto dall’accusa di omicidio preterintenzionale ma per il quale è stata confermata la condanna a due anni e sei mesi di reclusione. Per tutti sono state escluse le attenuanti generiche. In aula, ieri, ad ascoltare la condanna non erano presenti i genitori del ragazzo ucciso, Rita Calore e Giovanni Cucchi. Il loro fisico non ha retto: “È il caro prezzo che hanno pagato in questi anni”, ha spiegato la sorella Ilaria. “La mamma di Stefano ha pianto non appena ha saputo della sentenza”, riferisce il loro avvocato, Stefano Maccioni, che l’ha raggiunta telefonicamente nella loro casa, a Torpignattara. Fabio Anselmo, il legale e compagno di Ilaria ringrazia coloro che hanno interrotto quello che sembrava un inesorabile percorso di malagiustizia: “Il nostro pensiero - dice - va ai procuratori Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e Giovanni Musarò. Dopo tante umiliazioni è per merito loro che siamo qui. La giustizia funziona con magistrati seri, capaci e onesti. Non servono riforme”. Di tutt’altro avviso naturalmente i difensori dei condannati: “La nostra speranza è ora il giudice delle leggi, la Cassazione, ci rivedremo lì”, promette l’avvocata Maria Lampitella che difende il carabiniere D’Alessandro. Mentre il suo collega Giosuè Bruno Naso, legale di Mandolini, mantiene stranamente un basso profilo: “Prima di commentare una sentenza bisogna leggere le motivazioni - dichiara - vedremo su quali basi sono state escluse le attenuanti generiche nei confronti dei carabinieri imputati”. Eppure dopo dodici anni, malgrado questa sentenza, rimane l’amaro in bocca. “In questa storia abbiamo perso tutti, nessuno ha fatto una bella figura”, aveva detto il pg Roberto Cavallone durante la sua requisitoria, il 15 gennaio scorso. “Stefano Cucchi quel giorno doveva andare in ospedale e non in carcere - aveva aggiunto - Credo che nel nostro lavoro serva più attenzione alle persone piuttosto che alle carte che abbiamo davanti. Dietro le carte c’è la vita delle persone. Quanta violenza da parte dello Stato siamo disposti a nascondere ai nostri occhi senza farci problemi di coscienza? Quanto è giustificabile l’uso della forza in certe condizioni? Noi dobbiamo essere diversi, noi siamo addestrati a resistere alle provocazioni, alle situazioni di rischio”, aveva concluso ricordando molte altre vittime della violenza “in divisa” e chiedendo le pene che ieri la Corte presieduta dal giudice Flavio Monteleone ha comminato. Una sentenza che in ogni caso “alimenta la speranza di giustizia per altri casi simili”, come ha detto ieri Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, il 18enne ferrarese morto nel 2005 durante un controllo di polizia. Stesso mood di Guido Magherini, padre di Riccardo, stroncato nel 2004 da un infarto a 39 anni durante un fermo a Firenze, e di Giuliano Giuliani, padre di Carlo, ucciso durante gli scontri del G8 di Genova nel 2001. “È un inizio: ora chi sbaglia è giusto che paghi”, è invece il commento di Lucia Uva, sorella di Giuseppe, morto a Varese nel 2008 dopo esser stato fermato ubriaco da due carabinieri. “Tuttavia - ha aggiunto il loro legale, l’avv. Fabio Ambrosetti - non gioisco mai per le condanne, perché sono contrario al carcere come strumento punitivo. Ancora meno quando si tratta di carabinieri, perché rappresenta il fallimento dello Stato”. Maltrattamenti in famiglia per le vessazioni contro il convivente anche ante 1° ottobre 2012 di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2021 La modifica dell’articolo 572 del Cp non fa che recepire l’orientamento giurisprudenziale di equiparazione al familiare. Il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche per le condotte vessatorie abituali tenute contro il convivente (non familiare) prima del 1° ottobre 2012, data di entrata in vigore della legge n. 172, con cui è stato modificato l’articolo 572 del Codice penale che prevede il reato. La modifica esplicita la nozione di persona “comunque convivente” e il titolo del reato tiene conto delle due figure familiari e conviventi. Ma la Cassazione considera la modifica puramente formale e afferma che il Legislatore ha solo preso atto dell’interpretazione costituzionalmente orientata fatta dai giudici. Quindi l’imputabilità per maltrattamenti contro il convivente more uxorio non è in discussione per fatti precedenti la novella normativa. La Cassazione accoglie il ricorso solo sul punto dell’irrilevanza di un singolo sms inviato alla vittima dopo l’entrata in vigore della modifica applicando di conseguenza la forbice edittale della precedente versione della norma penale. Come dice la sentenza della Cassazione n. 17599/2021 la convivenza rientrava già - per interpretazione giurisprudenziale - nella nozione di “famiglia” anche prima dell’esplicita modifica normativa, in applicazione di principi fondamentali che danno rilevanza primaria all’instaurazione di rapporti di reciproca assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo con persona con cui non vi sia legame familiare. È quindi il concetto di comunità familiare che rileva facendovi rientrare qualsiasi forma di partecipazione a un nucleo, parificabile alla famiglia legittima sotto il profilo di un condiviso progetto di vita. L’interpretazione estensiva - La giurisprudenza cui si riferisce la sentenza aveva già affermato che la vecchia intestazione del reato “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli” non escludeva la rilevanza di tutti quei legami non familiari connotati però dalla convivenza, tra cui in primis quella more uxorio. Il nuovo titolo del reato “Maltrattamenti contro familiari e conviventi” ha solo esplicitato tale rilevanza e nella descrizione della condotta utilizza oltre al precedente termine “familiare” anche quello di persona “comunque convivente”. Tra le decisioni ante riforma significative di tale interpretazione estensiva, ora recepita dal Legislatore, emerge la sentenza n. 44262/2005 secondo cui il reato di maltrattamenti in famiglia si configura “anche al di fuori della famiglia legittima” quando vi sia un rapporto di stabile convivenza, al di là della durata, essendo sufficiente che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, e a prescindere dall’esito di una tale comune decisione. Calabria in testa: vaccinato oltre il 50% dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 maggio 2021 Per la prima volta, forse su input della nuova ministra della Giustizia, i dati sulla vaccinazione per la popolazione penitenziaria sono più trasparenti. Si entra, di fatto, nel dettaglio. Il sito del ministero della Giustizia, infatti, ha pubblicato le percentuali regione per regione. Parte dal dato generale che sono 19.655 ad oggi le dosi somministrate ai detenuti (53.634 unità) che risultano all’anagrafe nazionale dei vaccini presso il ministero della Salute, un dato che copre oltre il 36% della popolazione reclusa. Risulta che sia la Lombardia a guidare la classifica delle vaccinazioni alla popolazione detenuta con 5879 somministrazioni di vaccini anti- Covid19, a fronte dei 7800 detenuti presenti negli istituti della regione. A seguire il Lazio con 3537 somministrazioni, su 5581 reclusi. Al 75% di vaccini somministrati in Lombardia e al 63% del Lazio si aggiungono le alte percentuali registrate nelle Marche e in Abruzzo, regioni che contano, rispettivamente, 643 somministrazioni, su una popolazione detenuta di 844 unità (76%) e, 1045 dosi inoculate, su 1639 reclusi presenti (63%). Il ministero della Giustizia, osserva che è a buon punto della classifica il piano vaccinale condotto negli istituti della Calabria, dove sono state somministrate 1377 dosi a fronte di una popolazione regionale di 2581 detenuti (53%). Seguono Puglia con una percentuale pari al 48,79 % (1757 somministrazioni su un totale di 3691 detenuti), Trentino- Alto Adige 47,82% (197 su 412), Basilicata 44,15 (166 su 376), Valle d’Aosta 42,07% (69 su 164), Emilia- Romagna 41,36% (1352 su 3269), Umbria 39,48% (518 su 1312), Molise 32,45% (110 su 339), Veneto 27,01 (619 su 2292), Sicilia 22,81% (1317 su 5774), Liguria 21,04% (278 su 1321), Friuli- Venezia Giulia 11,56% (75 su 649), Toscana 10,25% (317 su 3093), Piemonte 4,40% (180 su 4087), Campania 2,61% (170 su 6517). Come ha già anticipato Rita Bernardini del Partito Radicale, il dato più basso si registra in Sardegna, con 49 somministrazioni soltanto su una popolazione di 1983 unità detenute, nei diversi istituti della regione. Ma, come assicurato dall’assessore regionale dell’Igiene e sanità e dell’Assistenza sociale della Regione, Mario Nieddu, nel corso di un colloquio telefonico con il Direttore generale dei Detenuti e del trattamento del Dap, Gianfranco De Gesu, le dosi di vaccino sono ormai disponibili e la campagna vaccinale nelle carceri “subirà un’importante accelerazione già a partire da domani”. Sempre il ministero, osserva che, al di là delle percentuali delle somministrazioni effettuate, conforta il dato in costante calo relativo ai detenuti positivi: ad oggi, 375 in tutti gli istituti italiani, pari allo 0,70% dei reclusi attualmente presenti, a conferma della sostanziale efficacia delle misure di profilassi attuate negli istituti, fin dalla fase iniziale dell’emergenza pandemica. Dal monitoraggio svolto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, cinque sono le regioni che al momento non registrano detenuti positivi: Valle d’Aosta, Molise, Trentino-Alto Adige, Umbria e Sardegna. Infine, dai dati forniti sempre dal Dap con cadenza settimanale, relativi ai contagi e alle somministrazioni di vaccino anti-Covid19 all’interno degli istituti penitenziari, si evince che anche il piano delle vaccinazioni dirette al personale di Polizia Penitenziaria e del comparto delle Funzioni Centrali è in fase avanzata. La situazione attuale evidenzia che più del 50% degli appartenenti al comparto sicurezza e a quello delle funzioni centrali risulta essere stato avviato alla vaccinazione: 20.332 poliziotti penitenziari (su quasi 37mila in servizio) e 2.173 fra personale dirigenziale e amministrativo, su circa 4mila che operano negli istituti. Bergamo. A processo per l’omicidio della moglie, si toglie la vita in carcere di Giuliana Ubbiali Corriere della Sera, 8 maggio 2021 L’avvocato: “Era sconvolto dall’udienza”. Era la prima udienza con i testimoni, martedì scorso. Per la maggior parte del tempo Maurizio Quattrocchi aveva tenuto gli occhi abbassati, nella gabbia a vetri dei detenuti, in Corte d’Assise. Imputato dell’omicidio della moglie Zinaida Solonari, 36 anni, avrebbe parlato martedì prossimo. Avrebbe, perché nella notte tra giovedì e ieri si è tolto la vita in carcere. Almeno così risulta allo stato delle indagini. Il suo avvocato Gianfranco Ceci ne è convinto, per tutte le volte che si erano parlati prima di martedì: “L’udienza l’ha sconvolto, non ha retto, anche perché alcuni aspetti secondo lui non erano veri, come il fatto che fosse già stato un marito violento”. Gli ultimi respiri della moglie, colpita con 18 coltellate, la notte del 6 ottobre 2019, fuori dalla casa della sorella, a Cologno al Serio; altre aggressioni precedenti, la relazione con un altro uomo: gli atti raccontavano già tutto questo e Quattrocchi lo sapeva. Martedì l’ha sentito dalla sorella di Zinaida, Oxana, da suo marito Lucio Carlo Di Dio, che è anche nipote di Quattrocchi, dal fratello di lui. Dall’uomo che frequentava la moglie dall’estate 2019, l’imputato ha anche sentito parlare di “10 anni d’inferno”. Così, ha raccontato il testimone, Zinaida gli aveva riassunto il matrimonio: “Quello mi ammazza, non mi dà il divorzio”, si era sfogata. “Era segnata, psicologicamente sempre, e circa 10 giorni prima le avevo visto anche segni sul collo”, ha aggiunto l’uomo. Martedì prossimo Quattrocchi non avrebbe potuto negare l’innegabile, cioè di aver ucciso la moglie. “Ma era un uomo pentito - se ne fa portavoce il suo avvocato -. Fino a luglio 2019, quando intuì che lei aveva una relazione con un altro uomo, era un marito che aveva vissuto e lavorato in cantiere per la moglie. Dopo il dubbio sulla relazione aveva iniziato a diventare pressante”. Dai racconti affidati all’avvocato, che al sabato andava a trovarlo, Quattrocchi era anche un omicida “che aveva rimosso quello che aveva fatto, e in aula ha rivissuto quei minuti. Inoltre, era rimasto colpito dalla richiesta di testimonianza della figlia più grande (18 anni, ma il presidente Giovanni Petillo non l’ha ammessa, ndr). Era un padre amorevole, mi chiedeva sempre: “Ma le mie figlie testimoniano?”“. Aveva adottato la grande, avuta da Zinaida da una precedente relazione. Insieme, ne avevano altre due, di 10 e 14 anni. Per i familiari - non si conoscono i dettagli sui destinatari- ha lasciato diversi bigliettini. Non era solo, condivideva la cella con un altro detenuto che non si sarebbe accorto del gesto di Quattrocchi, impiccato in bagno. In un giro serale della polizia penitenziaria, l’imputato era stato visto ancora sveglio. Il pm Emma Vittorio ha effettuato un sopralluogo in carcere, per raccogliere le testimonianze: allo stato non c’è una spiegazione alternativa al suicidio, comunque è stata disposta l’autopsia Si tratta di un fatto che ha sconvolto più parti. “Il mio pensiero, da tutto il giorno, va alle figlie”, è scosso l’avvocato Cinzia Sansolini, tutrice delle due minorenni. Insieme Vitalia, 18 anni a marzo, sono parti civili con l’avvocato Luigi Villa:”Per loro è un’altra terribile perdita, un papà per quanto colpevole è sempre un papà. È una tragedia nella tragedia”. Don Giambattista Mazzucchetti, cappellano del carcere con don Luciano Tengattini, l’ha saputo ieri mattina. Ed è rimasto colpito: “Lo avevo incontrato già nella confessione, frequentava la chiesa, e veniva a colloquio con me o con don Luciano. L’avrò visto un mese fa. Svolgeva quei piccoli lavoro che i detenuti svolgono a rotazione, si era già confrontato anche con gli educatori”. Non aveva dato segnali preoccupanti: “Era anche sereno, per quello che possa esserlo un detenuto, non aveva avuto comportamenti autodistruttivi. Non so se al processo possa aver sentito qualcosa che lo abbia ferito e ributtato nella disperazione, quello che è successo in udienza non lo so. So che anche le guardie stamattina (ieri, ndr) ne parlavano, dispiaciute, ne avevano un’immagine collaborativa”. Con la morte dell’imputato, il processo termina qui. Per martedì, il difensore aveva citato 10 testimoni, con l’intento di raccontare una vita di dedizione alla famiglia. Prima di uccidere. Catania. Per sei detenuti si aprono le porte dell’Università globusmagazine.it, 8 maggio 2021 Grazie all’accordo quadro siglato nel febbraio scorso tra Regione, atenei siciliani, amministrazione penitenziaria e Garante dei diritti dei detenuti. Tra le matricole dell’Università di Catania ci sono anche sei studenti attualmente reclusi. Sono i primi risultati dell’accordo quadro siglato nel febbraio scorso tra l’assessorato all’Istruzione della Regione, gli atenei siciliani, il Provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria e il Garante dei diritti dei detenuti. Una “apertura” del mondo accademico di rilevante incidenza che consente e promuove il diritto all’istruzione universitaria all’interno dei poli penitenziari. Un’azione fortemente voluta dal rettore Francesco Priolo e dai docenti Fabrizio Siracusano e Teresa Consoli, referenti per l’Università di Catania ai rapporti con i Poli universitari penitenziari, che è stata portata avanti, nonostante l’emergenza pandemica, garantendo per l’anno accademico in corso l’iscrizione agevolata di sei studenti attualmente reclusi oltre all’assistenza didattica (compresi gli esami), al recupero degli Obblighi formativi aggiuntivi e alla possibilità di seguire le lezioni a distanza. Una realtà promossa dalla Crui tre anni fa con l’istituzione della Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari a cui l’ateneo catanese ha aderito dal dicembre scorso. Lanciata più di 20 anni fa a Torino e replicata in numerose altre sedi universitarie, oggi sono coinvolti quasi 40 atenei che operano in oltre 80 istituti penitenziari. Nell’anno accademico in corso sono 1.034 gli studenti detenuti iscritti, dei quali 109 (10,5%) in regime di esecuzione penale esterna, 549 (53,1%) che scontano una pena in carcere in circuiti di media sicurezza e 355 (34,3%) in alta sicurezza e 21 (2,1%) in regime 41bis. Le studentesse sono 64, il 6,2% del totale degli studenti. Nel primo triennio di vita della Cnupp gli atenei aderenti con studenti attivi sono passati da 27 nel 2018-19 a 32 nel 2020-21 (incremento del +18,5%), gli istituti penitenziari in cui operano i poli universitari penitenziari da 70 a 82 (incremento +17,1%), mentre il numero di studenti iscritti da 796 a 1034 (incremento +29,9%). Tra questi dati spicca il notevole incremento della componente femminile, da appena 28 studentesse nel 2018-19 a 64 nel 2020-21, con un incremento del +128,6%. Sono impegnati oggi 196 dipartimenti universitari, il 37% dei dipartimenti presenti nei 32 atenei coinvolti. Ben 896 sono gli studenti iscritti a corsi di laurea triennale (87%), mentre 137 frequentano corsi di laurea magistrale (13%). Le aree disciplinari più frequentate dagli studenti in regime di detenzione sono quella politico-sociale (25,4%) seguita dall’area artistico-letteraria (18,6%), giuridica (15,1%), agronomico-ambientale (13,7%), psico-pedagogica (7,4%), storico-filosofica (7,3%), economica (6,5%) e altre (6%). La costituzione della Cnupp ha permesso agli atenei di garantire il diritto agli studi universitari per le persone private della libertà personale oltre ad una profonda valenza culturale per il Paese. In questi anni le interazioni avviate con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, competente per le attività formative, ha permesso di siglare nel settembre del 2019 un protocollo d’intesa che definisce le modalità per il confronto permanente tra Cnupp e Dap. A breve saranno emanate delle linee guida condivise per regolamentare le attività di studio universitario all’interno degli istituti penitenziari italiani. Grazie alla “conferenza” i referenti delle singole università possono confrontarsi continuamente su varie problematiche, scambiare buone pratiche, rivolgere istanze al Dap su singole situazioni e affrontare problematiche complesse (ad esempio i disagi dovuti ai trasferimenti dei detenuti studenti universitari da un istituto penitenziario ad un altro). Una rete istituzionale (tra atenei e amministrazione penitenziaria) che consente alle università pubbliche di garantire l’accesso e lo svolgimento degli studi anche a persone private della libertà nell’esercizio di un diritto costituzionale. In futuro la Cnupp sarà impegnata a migliorare la qualità della formazione dei detenuti attraverso modelli didattici innovativi (didattica a distanza anche oltre la pandemia), le performances degli studenti (diminuzione degli abbandoni, incremento degli esami sostenuti e dei laureati) e raccordo tra istruzione secondaria superiore all’interno degli Istituti e Università. Previsti anche miglioramenti della formazione del personale dell’amministrazione penitenziaria e dello sviluppo di attività di ricerca sulle problematiche carcerarie. Percorsi sinergici che possono trasformare la detenzione da un tempo “sospeso” ad un periodo fecondo in cui il cittadino condannato può intraprendere una formazione universitaria utile al proprio capitale umano, strumento indispensabile per ridurre i rischi di recidiva, con benefici per il singolo e per tutta la società italiana. Bobby Sands, senza lotta non c’è vita di Damiano Tavoliere Il Manifesto, 8 maggio 2021 Gli “Scritti dal carcere”, nell’anniversario della morte. “Non mi spezzeranno perché il desiderio di libertà, la libertà del popolo irlandese, è nel mio cuore. Il nostro giorno verrà. Finché la mente rimane libera, la vittoria è certa”. Alla terza settimana di sciopero della fame, così scriveva dalla prigione il 17 marzo 1981 Robert Gerard Sands, detto Bobby, nato il 9 marzo 1954 a Rathcoole, sobborgo settentrionale di Belfast. La famiglia di Bobby è cattolica nell’Irlanda del Nord abitata in prevalenza da protestanti, eredi di coloni emigrati dalla Gran Bretagna. Una famiglia operaia nella regione a maggior insediamento industriale dell’Isola. Come sempre, la questione non è solamente a carattere religioso, ma altresì economica e sociale, con gravi cascami culturali e discriminatori permanenti: “una casa fredda per i cattolici”, come ebbe a definirla il barone unionista e conservatore David Trimble. Così fredda che a 18 anni, nel 1972, Sands aderisce al Pira (Provisional Irish Republican Army) e diviene membro del Primo Battaglione della Brigata Belfast: “avevo visto troppe case distrutte, padri e figli arrestati, amici ammazzati; troppi gas, sparatorie e sangue della nostra gente…”, ma viene arrestato presto e rimane in carcere fino al 1976. La Provisional è la componente più forte dell’Ira nonché la più profondamente religiosa e di sinistra. Bobby esce di prigione e torna a vivere in famiglia, a Twinbrook, area sudoccidentale di Belfast, dove la comunità vede in questo ragazzo ventiduenne già un attivista di riferimento. Bobby matura una coscienza rivoluzionaria, fantastica una repubblica socialista, fa un pupo con Geraldine, stabilisce legami di fede e d’acciaio coi compagni di lotta e d’avventura. Neppure un anno dopo, l’auto in cui viaggiavano Bobby e altri quattro militanti viene fermata: a bordo trovano una pistola, Bobby è condannato a 14 anni di detenzione e rinchiuso nel carcere di Long Kesh, più esattamente nella parte nuova, i famigerati Blocchi H, otto costruzioni a forma di H edificate appositamente per gli oppositori incalliti della Corona britannica. Un inferno per i combattenti costretti alla clausura forzata giorno e notte, al pari della prigione femminile di Armagh per le combattenti: “cammino avanti e indietro per evitare che il freddo mi congeli le ossa”. Bobby si fa giornalista, poeta, scrittore. Scrive su pezzi di carta igienica e cartine per sigarette, quando non scrive nasconde nel corpo la penna agli aguzzini.Le sue creazioni e corrispondenze escono dalle sbarre sui mezzi incerti che i detenuti sanno prodigiosamente inventare per essere pubblicate dall’organo repubblicano An Phoblacht-Republican News con lo pseudonimo Marcella. E molte di quelle esternazioni dell’anima sono oggi preziosamente incarnate nel volume Scritti dal carcere, poesie e prose (a cura di Riccardo Michelucci, Enrico Terrinoni, prefazione di Gerry Adams, ed. Paginauno, pp. 270, euro 18). Senza lotta non c’è vita, il conflitto è ragione e strumento di sopravvivenza. Ovunque e sempre. Anche in carcere. I detenuti dell’Ira promuovono proteste a getto continuo per ottenere lo status di prigionieri politici, contro i limiti imposti dalle comuni regole di detenzione: iniziano con la protesta delle coperte (blanket protest), ossia il rifiuto di indossare l’uniforme carceraria vestendosi di solo plaid, proseguono con la protesta dello sporco (dirty protest), ossia spalmando di escrementi i muri delle gabbie e rovesciando l’urina fuori delle porte per esprimere la rabbia non solo contro la durezza dei guardiani che picchiano selvaggiamente i reclusi quando escono dalle celle per andare in bagno, ma anche contro le punte estreme della deprivazione sensoriale: “i secondini hanno chiuso tutte le finestre con lastre di metallo… un’ulteriore tortura, chiudere fuori l’essenza della vita, la natura”. E giungono al primo sciopero della fame il 27 ottobre 1980: Bobby Sands viene eletto dai suoi compagni ufficiale comandante (Officer Commanding) dei prigionieri Ira a Long Kesh: sette di loro iniziano il digiuno che si protrae fino al 18 dicembre, quando il giovane Sean McKenna entra in coma ed il governo di sua maestà fa generiche promesse di concessione, che poi rimangerà appena terminato lo sciopero: “viviamo in tempi moderni, si dice…/ma a guardarmi attorno, vedo soltanto/ moderne torture, dolore, ipocrisia…/ burocrati, speculatori e presidenti…/ si appuntano in faccia i loro sporchi sorrisi…/ il prigioniero solitario griderà dalla sua tomba”. La notorietà di Sands è alle stelle, viene candidato alle elezioni suppletive del 9 aprile 1981 per la morte di un parlamentare irlandese ed eletto contro il rappresentante unionista Harry West. Ma Bobby è in sciopero della fame da quaranta giorni, sta male, le televisioni del mondo intero seguono il dramma, uomini e donne di buona volontà inorridiscono per la barbarie del governo britannico guidato dalla lady di ferro Margaret Thatcher. Il papa invia al detenuto in fin di vita una croce d’oro cristiana che l’eroe-martire stringe fra le mani spirando il 5 maggio. Mentre Londra lancia anatemi alla Chiesa Cattolica colpevole di aver legittimato un “terrorista”, mentre centomila nazionalisti irlandesi accompagnano il feretro al cimitero di Milltown, mentre altri nove militanti perdono la vita dietro le sbarre nei mesi successivi. Generando l’esplosione spontanea di rivolte massive, moltiplicando robustezza vigorosa e adesione popolare alla lotta indipendentista. “Bobby era un internazionalista”, dice Gerry Adams, “ha letto di altre lotte, dell’apartheid in Sudafrica, dei palestinesi in guerra per una Patria…, le sue parole risuonano ancora oggi nelle teste di molti giovani, vengono ripetute sui social media”. Come tanti combattenti per la libertà, Bobby Sands non amava lo scontro in quanto tale, le armi non erano un feticcio, aveva anzi un’intimità amabile (“i fiori sono fanciulle gentili, emanano una bellezza mozzafiato e un profumo che manda in estasi anche gli uccelli…”), ma riteneva che l’uso della forza fosse lo strumento necessario contro l’imperialismo inglese per riconquistare la dignità perduta e guardare a un futuro finalmente solare: “le risate dei nostri figli saranno la nostra vendetta”. La sua morte incendiò l’animo di molti nel Pianeta: dallo sciopero dei portuali statunitensi all’invasione dei consolati britannici, dalla salsa di pomodoro lanciata sulla regina Elisabetta alle solide manifestazioni diffuse. Chi scrive era a Milano, marciammo in migliaia per onorarlo ed esprimere l’ira sacrosanta verso la nera Thatcher, la sua crociata contro i lavoratori, la repressione violenta del malcontento economico, la propensione reazionaria complessiva che avrebbe favorito -insieme a Reagan- il liberismo sfrontato e incontrollato nel Globo per i decenni avvenire; in quei giorni Bobby era per noi l’emblema della resistenza alla ferocia maligna del potere fascistoide nelle sue multiformi espressioni. Perciò nei cuori e nell’aria vibrava un urlo collettivo: siamo tutti Bobby Sands. Regno Unito. Il caso degli immigrati europei e italiani fermati alla frontiera e detenuti di Antonello Guerrera La Repubblica, 8 maggio 2021 Sarebbero almeno una trentina i cittadini Ue bloccati dalle autorità britanniche per aver provato ad entrare nel Paese per lavorare senza avere un visto. Molti sono stati rinchiusi per giorni in centri di accoglienza prima di essere espulsi. Un’altra dura realtà della Brexit. Una trentina di cittadini europei, e anche italiani, fermati e detenuti in centri di immigrazione anche fino a sette giorni per aver provato a entrare nel Regno Unito per lavorare senza visto. È la dura concretizzazione della Brexit e di ciò che accade a chi vuole superare la frontiera britannica con un visto turistico per poi cercare e/o iniziare un lavoro a Londra o in un’altra città. Un tempo, quando il Regno Unito apparteneva all’Unione Europea, ciò si poteva fare senza alcun problema grazie alla libera circolazione dei cittadini prevista dal mercato unico Ue. Oggi non è più possibile, perché la situazione si è completamente ribaltata. Se prima del 1° gennaio 2021 si poteva entrare tranquillamente nel territorio del Regno Unito e successivamente cercare un lavoro, oggi è l’opposto: bisogna prima cercarsi un lavoro e solo successivamente si può superare la frontiera con un visto lavorativo, perché il lavoro deve esser individuato e ottenuto prima di mettersi in viaggio. È una rivoluzione radicale cui molti devono ancora abituarsi. Come riporta Politico, infatti, ci sarebbero decine di cittadini europei, soprattutto ragazzi, anche italiani, che da quando sono entrate in vigore le nuove regole il 1° gennaio scorso, sono stati fermati alla frontiera britannica perché volevano lavorare senza aver ottenuto un visto adeguato, per poi esserre trasferiti in centri di immigrazione (e di asilo politico). Qui vengono detenuti fino a sette giorni, spesso senza cellulare o altri mezzi per contattare l’esterno perché sequestrati, se non un telefono pubblico nella struttura. Diversi, come il 26enne greco Sotiris Konstantakos, hanno raccontato di condizioni al limite, con temperature fredde e sbarre alle porte e alle finestre, da dove ovviamente non si può uscire, a parte i momenti di socializzazione con gli altri “fermati”. Per diversi diplomatici europei, riporta sempre Politico, si tratta di una reazione “sproporzionata” da parte delle autorità di frontiera britanniche. Le quali però rispondono di applicare semplicemente le nuove norme e che spesso la detenzione dei migranti irregolari in questi centri si allungherebbe a una settimana prima dell’espulsione a causa del numero limitato di voli verso la loro nazione di origine causa Covid e la necessità di organizzare test anti coronavirus prima del viaggio. La notizia è una doccia fredda per molti ragazzi e immigrati italiani ed europei che prima della Brexit potevano andare a lavorare a Londra o altre città britanniche molto facilmente. Tuttavia, era qualcosa di atteso e annunciato molte volte in passato, visto che ora per entrare e lavorare in Regno Unito bisogna passare preventivamente il cosiddetto “sistema a punti” di stile australiano. Questo perché, dopo la Brexit, i cittadini europei, italiani inclusi, vengono trattati come tutti gli altri stranieri. E quindi, come già avviene quando si entra negli Stati Uniti per esempio, se non si ha il visto giusto, si può essere fermati, detenuti per qualche giorno e rispediti nel proprio Paese di origine. Il disastro libico dell’Italia di Alberto Negri Il Manifesto, 8 maggio 2021 Lo potremmo chiamare il “sovranismo blu”, in salsa libica ma con gli ingredienti neo-ottomani di Erdogan. La sottile e incandescente linea della pesca del gambero rosso ci riporta oltre che a vecchie questioni, ad una realtà recente: il Mediterraneo è diventato un mare conteso come non mai dai tempi della guerra fredda, dove gli attori protagonisti sono le vecchie potenze ex coloniali e gli sconfitti di un tempo rivendicano larghe porzioni di mare. La Russia delle tensioni non è dispiaciuta: ha le basi in Siria e punterebbe ad averne un’altra sulla costa in Egitto o in Cirenaica dove è presente con la compagnia di mercenari Wagner. La Libia, che unita e sovrana non è, ma è occupata sia in Tripolitania che in Cirenaica da potenze e milizie straniere, ha trovato il suo sponsor in Erdogan che ha scambiato la sua protezione militare contro il generale Haftar con intese economiche e accordi sulle zone marittime; con un obiettivo non dichiarato ma esplicito: estromettere l’Italia dopo le parole del premier Draghi su Erdogan “dittatore”. Questa è la differenza con il passato costellato di tensioni e sequestri tra marineria da pesca italiana e libici. La Turchia aveva già ben fatto capire che ritiene il mare davanti alla Tripolitania un’area di sua influenza, e non a caso aveva fatto fotografare i suoi militari sulle motovedette donate dall’Italia a Tripoli. Erdogan non fa niente per caso. Se incoraggia i libici a mostrare i muscoli ai pescatori italiani è perché non ha intenzione di ritirarsi dalla Libia come dichiara il ministro degli Esteri Cavusoglu. E intende rafforzare le sue pretese nel Mediterraneo orientale dove contesta le zone economiche esclusive di Grecia e Cipro per l’estrazione di gas offshore. Qui affronta una coalizione costituita oltre che da Atene e Nicosia, da Francia, Egitto, Israele ed Emirati. La partita della pesca ha una posta in gioco ben superiore al gambero rosso. Lo sanno perfettamente anche le autorità italiane che negoziano da qualche tempo sui confini marittimi con Algeria e Turchia. Ma la nostra diplomazia è sottile e sfuggente come un pesce che non vuole abboccare e quando vede guai in vista, trova subito il capro espiatorio. Alla fine, per le nostre autorità, la colpa è dei pescatori, così si evince da un comunicato della Farnesina. Il peschereccio “Aliseo”, con sette uomini d’equipaggio, il cui comandante Giuseppe Giacalone è rimasto ferito dai colpi sparati da una motovedetta libica di Misurata non doveva essere lì perché la zona, dice il ministero degli esteri, “è altamente pericolosa”, e da un decennio. L’attacco era stato preceduto questa settimana da un altro tentativo di abbordaggio contro pescherecci italiani partito dalle coste della Cirenaica, quelle controllate da Khalifa Haftar. L’episodio aveva riportato alla memoria il sequestro dei marittimi terminato in dicembre dopo che in Cirenaica dovette recarsi una delegazione guidata dal premier Giuseppe Conte e dal ministro degli esteri di Maio. Missione senza precedenti della storia della repubblica. Ma che accade a largo della Libia e di quella Tripolitania sotto protettorato di Erdogan? Ecco le rivendicazioni dei libici e come le giustificano - fin dai tempi di Gheddafi. L’episodio sarebbe accaduto a circa 35 miglia dalle coste libiche tra Tripoli e Misurata, all’interno della zona riservata di pesca istituita dalla Libia nel 2005, con estensione di 62 miglia al di là delle acque territoriali di 12 miglia. La diatriba è tra chi ritiene che il tentativo di sequestro illegittimo perché avvenuto in una zona di giurisdizione libica non internazionalmente riconosciuta e chi invece considera che sia illegittima la pesca nelle zone rivendicate dalla Libia, tranne che vi sia il consenso dello stato costiero. Quest’ultima tesi è sostenuta dal fatto che la Libia ha dichiarato nel 2009 una zona economica esclusiva estesa “sino ai limiti consentiti dal diritto internazionale” e che l’Italia non ha realmente contestato. Dichiarando la zona di pesca ad “alto rischio” e promettendo di evitare sconfinamenti, di fatto ha già riconosciuto alcune pretese di Tripoli. Il tutto non può che fare felice Erdogan, sempre più impegnato a rinsaldare i legami con la parte occidentale della Libia a scapito dell’Italia. Misurata, prima nostro avamposto e dove teniamo ancora un ospedale da campo militare, adesso è saldamente in mano alla Turchia. Per noi non solo il Mediterraneo non è più da un pezzo Mare Nostrum ma sta diventando un pantano politico-diplomatico. Era inevitabile visto che della Sponda Sud l’Italia, l’Europa e gli Usa hanno fatto una sorta di discarica dei diritti umani, dei profughi e di ogni dignità. Il decennio di sangue in Libia. Da Gheddafi al nuovo governo di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 8 maggio 2021 La morte del colonnello libico nel 2011 in seguito all’intervento della Nato ha aperto una lunga fase di violenza e instabilità che ha devastato il paese, modificando lo scacchiere geopolitico dell’area e spingendo un enorme flusso di migranti. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha effettuato la sua prima visita all’estero in Libia. Una meta non casuale visto che si è da poco insediato il nuovo governo guidato dal primo ministro Abdul Hamid Mohammed Dbeibah. Un governo nato sotto l’egida dell’Onu a Ginevra e che inizia il suo mandato a dieci anni dallo scoppio delle proteste che hanno gettato la Libia nel caos della guerra civile. Ma come si è arrivati a questo punto? Un decennio fa, il colonnello Muammar Gheddafi in pochi mesi ha perso il controllo del paese e le divergenze tribali, tenute a bada attraverso concessioni petrolifere e la repressione, sono venute a galla dividendo il paese. 2011: L’inizio delle proteste - Con le proteste a Place de la Kasbah in Tunisia e le manifestazioni di piazza Tahrir in Egitto era inevitabile che l’onda rivoluzionaria straripasse anche verso la Libia. Tuttavia, a differenza delle istanze tunisine ed egiziane, quelle del popolo libico avevano una base più politica che economica. Con il petrolio Muammar Gheddafi ha sempre cercato di accontentare tutti e tenere a bada le circa 140 tribù sparse per il paese, ma la primavera araba è stata l’occasione perfetta per porre fine ai 42 anni di regime. La prima manifestazione è del 16 febbraio, giorno in cui viene arrestato in un noto avvocato per i diritti umani. Alle proteste partecipano migliaia di persone e la violenza del regime, che non ha mai avuto scrupoli a usare la forza, non si fa attendere. Dopo poche ore si contano già i primi morti per mano delle forze di sicurezza libiche che usano armi da fuoco per disperdere i manifestanti, soprattutto nella città di Bengasi che in questa prima fase è l’epicentro delle proteste. Il 18 febbraio si contano circa una cinquantina di morti a dimostrazione che l’escalation è rapidissima e brutale. L’inizio della guerra civile - Le forze d’opposizione incoraggiano i cittadini a continuare le proteste e la rivolta scoppia anche nelle carceri di Tripoli dove si verificano le prime evasioni. Inutili i tentativi di “chiudere” l’accesso a internet. Nella Cirenaica, regione orientale della Libia e più ostile al governo centrale, la situazione è incandescente. Ed è qui, nella città di Bengasi, che il figlio del colonnello, Saad Gheddafi, rimane intrappolato in un albergo circondato dai manifestanti. Per liberarlo il padre invia oltre mille uomini della sicurezza e per sedare le proteste nei quartieri più incontrollabili della città Gheddafi ha assoldato anche dei mercenari africani e serbi. In pochi giorni a Bengasi si raggiunge la cifra di trecento morti. Anche a nell’area di Tripoli la situazione degenera, ma Gheddafi non può permettersi di perdere il controllo della capitale e così autorizza i primi bombardamenti sui civili, decretando l’inizio del conflitto interno. Le forze di opposizione avanzano a Bengasi, Sirte, Misurata e Tobruch. Il Rais è accerchiato sia nella Cirenaica sia in Tripolitania e si trova costretto a fare un annuncio televisivo. “Chiunque rivolgerà le armi contro lo stato dovrà essere ucciso” dice, aggiungendo che se sarà necessario brucerà tutto. Parole e frasi che fanno rabbrividire parecchi membri dell’esercito e danno vita alle prime defezioni. Due piloti a bordo di due caccia bombardieri si rifiutano di sganciare bombe su Bengasi, così come due navi militari che si rifugiano in acque maltesi. Le prime fughe - I funzionari stranieri iniziano a lasciare il paese e in una sola settimana dall’inizio delle proteste si contano migliaia di morti. Scappano anche alcuni membri della famiglia del colonnello. A Gheddafi non resta che proteggere Tripoli e per raggiungere il suo obiettivo mette a disposizione della popolazione i depositi di armi per combattere. A livello internazionale si muovono i primi passi che porteranno poi alla sua destituzione. Il 28 febbraio il Consiglio europeo introduce un embargo sulle armi su spinta delle Nazioni unite e congela i beni di Gheddafi e la sua cerchia. A inizio marzo i ribelli propongono a Gheddafi di non avviare un processo per crimini contro l’umanità nel caso in cui lasciasse il potere. Ma il colonnello non ne vuole sapere e i caccia libici continuano a sganciare bombe tra i civili e i ribelli. Misurata, Bengasi, Agedabia, le “roccaforti” dei ribelli sono nel mirino dei bombardamenti. L’intervento internazionale - Il 17 marzo del 2011 il consiglio di sicurezza dell’Onu approva una no-fly zone sulla Libia a seguito delle pressioni di Parigi. Due giorni dopo, il governo di Sarkozy avvia l’operazione Harmattan e i caccia francesi lanciano le prime bombe contro le forze lealiste di Gheddafi. Qualche ora più tardi navi statunitensi e britanniche lanciano missili Tomahawk a supporto dell’azione militare francese. Il 25 marzo le azioni dei singoli stati si uniscono nell’operazione Unified Protector a guida della Nato. L’Italia, durante il governo Berlusconi, fornisce supporto attraverso le sue basi militari, tra cui Sigonella, Gioia del Colle e Trapani, da dove partono i cacciabombardieri americani, francesi e britannici. Il 28 aprile è il turno dell’aviazione italiana e due Tornado volano sopra la Libia sganciando le prime bombe. La guerra apre una crisi umanitaria e l’Unicef denuncia il rischio dello scoppio di epidemie sanitarie per via della carenza d’acqua dovuta ai bombardamenti della Nato che hanno colpito alcuni acquedotti. Il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), un organo che rappresenta l’opposizione al regime di Gheddafi, ha assicurato la stesura di una nuova costituzione entro otto mesi e nuove elezioni democratiche. Il 21 ottobre 2011 nella città di Sirte si combatte tra i lealisti e i ribelli. Qui si trova il Rais che cerca di scappare per mettersi in salvo ma viene attaccato da un raid della Nato. Da lì a poco giungono sul posto i ribelli del Cnt che uccidono il colonnello libico. Le immagini fanno il giro del mondo e ritraggono la Browning 9mm placcata d’oro che ha decretato la fine del regime. Insieme a Gheddafi viene giustiziato anche il figlio Mutassim. Dopo 42 anni, la Libia è senza guida. 2012-2013: il dopo Gheddafi - Morto il colonnello, il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), sostenuto da paesi come Francia, Turchia e Qatar ha provato a imporsi come autorità centrale per dare vita a un processo di transizione politica. Un compito difficile dovuto alla frammentazione del paese che mina una riconciliazione pacifica e duratura. Alle divergenze tribali si somma la presenza di circa 800 gruppi armati, formati da su per giù 200mila uomini, ognuno dei quali reclama la sua fetta di potere. Nascono partiti politici con una vocazione più locale che nazionale e l’islam assume un ruolo sempre più rilevante nella definizione della nuova identità del paese. L’economia dipende interamente dal petrolio e a marzo 2012 la produzione del settore torna quasi ai ritmi del 2010, ovvero prima dell’inizio del conflitto civile. Infatti, sono proprio i giacimenti e le raffinerie a finire nel mirino delle varie milizie che con il contrabbando di gas e petrolio fanno affari e aumentano la loro sfera di influenza. A luglio del 2012 si svolgono le prime elezioni parlamentari e il Consiglio nazionale di transizione lascia il posto al neoeletto Congresso nazionale generale (Cng), formato anche dagli islamisti, che nomina come primo ministro l’avvocato per i diritti umani Ali Zeidan. Tra le sfide più complicate del nuovo esecutivo c’è il contrasto al radicalismo islamico che dilaga approfittando dell’instabilità politica. L’11 settembre alcuni miliziani di Ansar al Sharia, un gruppo terrorista affiliato ad al Qaida, attaccano il consolato statunitense a Bengasi. Muore l’ambasciatore americano Christopher Stevens e altre tre persone. Nel gennaio del 2013 viene attaccata l’auto di un altro diplomatico, questa volta è il console italiano Guido de Santis, che esce indenne. La situazione è tesa in tutto il paese e l’anno scorre con i jihadisti che avanzano nella Cirenaica tra Bengasi e Sirte incontrando un’opposizione flebile. A marzo 2014 il primo ministro Zeidan viene sfiduciato e rimpiazzato da Abdullah al-Thani. 2014: l’ascesa di Haftar - Nel maggio del 2014, il generale dell’ex esercito di Gheddafi, Khalifah Haftar, lancia un’operazione militare guidando l’autoproclamato Esercito nazionale libico contro i miliziani di Ansar al Sharia a Bengasi. Il primo ministro al Thani equipara l’operazione a un tentativo di colpo di stato e si apre una nuova crisi politica. Le milizie di Zintan alleate con Haftar attaccano la sede del parlamento a Tripoli per ottenerne la dissoluzione. Succede tutto rapidamente e il Congresso nazionale generale è costretto a indire nuove elezioni parlamentari. L’affluenza è del 18 per cento e gli islamisti ne escono decisamente indeboliti. Il nuovo parlamento si riunisce a Tobruch, come deciso inizialmente, per cercare di avvicinarsi alla Cirenaica. Il 25 agosto gli islamisti insieme ad altri membri del vecchio Congresso nazionale generale si autoproclamano parlamento legittimo con la capitale come loro centro politico. Il paese risulta così diviso tra due governi rivali, con Tripoli e Misurata controllate da forze leali al nuovo Congresso nazionale generale di Tripoli, mentre la comunità internazionale continua a riconoscere il governo di Abdullah al Thani e il suo parlamento a Tobruch. 2015: l’attacco all’Isis - Il 3 ottobre, a Derna, una formazione islamista radicale, Majlis Shura Shabab al Islam, dichiara la propria affiliazione allo Stato islamico di Abu Bakr al Baghdadi, proclamando il territorio sotto il suo controllo come parte del califfato. La violenza jihadista è sempre più brutale. Il 15 febbraio, i miliziani dell’Isis in Libia pubblicano un video con la decapitazione di ventuno cristiani copti egiziani. L’Egitto, preoccupato per la sua stabilità lungo il confine libico effettua alcuni bombardamenti a Derna in coordinazione con il generale Haftar, che con il generale al Sisi due stringe un’alleanza decisiva negli anni successivi. Alla violenza del terrorismo si aggiunge la crisi umanitaria dei migranti che rinchiusi in centri di detenzione, dove subiscono le pene dell’inferno da milizie e brigate, tentano di raggiungere l’Europa. Il 18 aprile 2015, un barcone carico di persone si rovescia al largo delle coste libiche provocando almeno 750 morti. Una data che rimarrà impressa nella coscienza dell’Europa. La nomina di al Sarraj - Per porre fine allo stallo e allo scontro tra est e ovest nel paese, l’8 ottobre del 2015, l’inviato speciale dell’Onu Bernardino León annuncia che Fayez al Sarraj è il primo ministro del nuovo governo di unità nazionale che dovrebbe ricevere il voto favorevole dei due parlamenti, ma la Camera dei rappresentati di Tobruch nella Cirenaica non gli concede la fiducia. A dicembre anche il Governo di accordo nazionale (Gna) di Al Sarraj sferra attacchi congiunti all’Isis, che gode ancora di parecchi combattenti attivi nel paese. 2016-2019: Haftar avanza - L’11 settembre l’Esercito nazionale libico di Haftar lancia un’offensiva contro alcuni porti della mezzaluna petrolifera. È il primo scontro su larga scala tra il generale e le forze allineate al Governo di accordo nazionale. Proprio come la Siria anche la Libia diventa uno scacchiere in cui agiscono pedine internazionali. Russia, Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti appoggiano Haftar, con i paesi arabi che si pongono in chiavi anti fratellanza musulmana. Il generale viene ospitato da Vladimir Putin a Mosca a cui chiede sostegno militare, mentre l’Onu e paesi come l’Italia, la Turchia e il Qatar sostengono il governo di Sarraj. Il 2 febbraio del 2017 il presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni firma insieme ad al Sarraj il Memorandum Italia-Libia voluto fortemente dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti. Obiettivo dichiarato dell’accordo è di ridurre il flusso migratorio proveniente dalle coste libiche. L’Italia quindi inizia a fornire sostegno finanziario, addestramento, mezzi e attrezzature alla Guardia costiera libica per intercettare i barconi che partono verso l’Europa e respingere i migranti nei centri di detenzione libici. I primi risultati dell’accordo non tardano ad arrivare, così come le violazioni di diritti umani denunciate dalle Nazioni unite. Il paese rimane ancora molto instabile. A fine febbraio lo stesso Sarraj riesce a uscire illeso da un attentato ma la sua figura politica è ridimensionata per le evidenti difficoltà che incontra nel controllare il territorio. Haftar, invece, accresce il suo consenso internazionale e viene visto come un argine all’avanzata dell’Isis. In estate il presidente francese Emmanuel Macron ospita un vertice a Parigi con la presenza dell’Onu e invita al Sarraj e Haftar parificando i due schieramenti che arrivano a siglare un cessate al fuoco. Ma in pochi mesi il generale dichiara concluso il mandato del suo rivale e si inasprisce il conflitto di nuovo. L’Onu indice nuove elezioni per il 2018 ma il conflitto civile, le scorribande delle milizie e l’offensiva ancora aperta con i gruppi jihadisti costringono a posticiparle al 2019. L’obiettivo di Haftar però è chiaro: prendersi Tripoli. Lancia così un’offensiva nella regione centrale del Fezzan avanzando verso la capitale. Il governo di accordo nazionale di Sarraj si difende e in una serie di bombardamenti uccide 35 mercenari russi del Gruppo Wagner, un contractor militare privato già impiegato da Putin in Siria e ora al fianco di Haftar. Al Sarraj chiede aiuto all’amico Erdogan, con cui firma un accordo militare e marittimo. L’intervento turco viene condannato dalla comunità internazionale. 2020: l’anno della pandemia - Il 4 gennaio 2020, qualche mese prima della pandemia, l’esercito di Haftar sferra un attacco contro la città di Sirte ed entra in città. Il 19 gennaio a Berlino si tiene una conferenza di pace guidata dalle Nazioni unite. Sono presenti i due leader libici e molti capi di stato che lanciano un appello per mantenere il cessate il fuoco e l’embargo militare. Tuttavia ancora oggi alcuni stati continuano a portare armi in Libia, come l’Egitto del generale al Sisi. Anche qui arriva la pandemia. Stando ai dati ufficiali dell’Oms si contano 178mila contagi e oltre tremila decessi. Ad agosto arriva la svolta politica, il premier di Tripoli al Sarraj e quello di Tobruch, al-Thani, si impegnano a rassegnare le dimissioni e avviare un processo per la formazione di un nuovo Consiglio presidenziale che sostituisca i due attuali governi e accontenti entrambe le fazioni. Viene firmato un cessate il fuoco e chiesto alle truppe straniere di lasciare il territorio. 2021: il nuovo governo - Il 10 marzo 2021 si è costituito il nuovo governo ad interim di unità nazionale, guidato dal businessman vicino a Mosca e Turchia Abdul Hamid Dbeibah, che dovrà guidare il paese verso le elezioni del 2022. Dbeibah è stato eletto il 5 febbraio scorso da 75 delegati del Forum del dialogo politico libico, una sorta di grandi elettori che sotto l’egida dell’Onu a Ginevra hanno deciso chi sarà a guidare il processo di transizione politica. Insieme a Dbeibah è stato votato anche un consiglio presidenziale presieduto da Mohammad Younes Menfi, sostenuto da Haftar. Una scelta che ha cercato di accontentare entrambe le parti. Ora al primo ministro Dbeibah spetta ricostruire quasi da zero un paese su cui le aziende europee vogliono mettere le mani e cacciare dal suo territorio i soldati turchi e russi per avviare una transizione politica e voltare pagina, dopo dieci anni di sangue. Egitto. Di Maio: per aiutare Zaky meglio il silenzio. Ma è polemica per la cautela del ministro di Ilaria Venturi La Repubblica, 8 maggio 2021 “Più aumenta la portata mediatica più l’Egitto si irrigidisce”. Amnesty: “Non parlarne aiuta i governi repressivi”. A 15 mesi esatti dalla carcerazione di Patrick Zaky il ministro degli Esteri Luigi Di Maio gela tutti: “Più aumenta la portata mediatica del caso più l’Egitto reagisce irrigidendosi e chiudendo i canali di comunicazione. Non illudiamoci che porteremo a casa risultati facendo in questo modo”. La reazione è di imbarazzo e sconcerto se si pensa alla campagna che sin dal primo giorno ha aiutato lo studente egiziano detenuto a Tora, alla periferia del Cairo, a non scomparire dall’attenzione del Paese e internazionale: appelli degli amici e compagni di studi - Zaky è iscritto al master in Studi di genere dell’università di Bologna e proprio in questo periodo avrebbe potuto laurearsi - mobilitazioni del mondo accademico e politico, risoluzioni del Parlamento europeo fino all’approvazione in Senato della richiesta di cittadinanza italiana. Amnesty, con il portavoce Riccardo Noury, attacca: “Il silenzio è proprio ciò che aiuta governi repressivi a continuare a commettere violazioni dei diritti umani. E nel silenzio Patrick sarebbe stato dimenticato e temo avrebbe subito anche una sorte peggiore. Un segnale preoccupante poi sarebbe se il riferimento indiretto delle parole del ministro fosse alla proposta di cittadinanza italiana, per smorzarla”. Di Maio parla a L’aria che Tira su La7, spiega che confida su intelligence e diplomazia per liberare subito Zaky e farlo tornare dalla sua famiglia: “Abbiamo portato a casa tutti i cittadini rapiti o in stato detentivo ingiusto. E la notizia è stata data quando hanno messo piede in Italia. Abbiamo lavorato in silenzio. Zaky, purtroppo per il metodo di lavoro nostro, è un cittadino egiziano. Tutte le iniziative sono meritorie, è legittimo portare avanti campagne di solidarietà e battaglie. Dico solo di non illuderci che così otteniamo dall’altra parte un risultato”. Poco prima il segretario del Pd Enrico Letta aveva inaugurato il ritratto di Zaky esposto al Nazareno reclamando con forza la sua liberazione. E in un video su Tg La7, ieri l’altro, Marise Zaky, la sorella, con le lacrime agli occhi aveva raccontato di lui e di quanto soffra per una detenzione ingiusta con l’accusa di propaganda sovversiva e istigazione al terrorismo: “È nervoso e sta male psicologicamente, vuole essere rilasciato”. Il sostegno che lo circonda lo fa sentire meno solo. Due settimane fa la famiglia aveva fatto arrivare al giovane un messaggio per capire cosa ne pensasse e la sua risposta è stata che la campagna continui, ha il terrore di essere dimenticato. Aggiunge Noury: “Qui non stiamo parlando di un sequestro compiuto da un gruppo armato con cui negoziare in silenzio, ma di un prigioniero di coscienza privato di ogni suo diritto dalle autorità di uno Stato amico dell’Italia col quale sarebbe necessario alzare la voce e non abbassarla”. Stesso invito arriva dal deputato Pd Filippo Sensi: Di Maio “sappia che il Parlamento ha fatto e continuerà a fare la sua parte. La faccia anche il governo”. Stati Uniti. Perché è urgente che Biden chiuda Guantánamo di Guido Moltedo Il Manifesto, 8 maggio 2021 Il nuovo presidente democratico non ripeta l’errore di Obama. La prigione americana a Cuba è il “simbolo di illegalità e di abusi dei diritti umani”, i valori che gli Usa dicono di difendere. Ora poi c’è il ritiro dall’Afghanistan. Musica da spaccare i timpani, incappucciamenti, “waterboarding”, cani feroci sguinzagliati, privazione del sonno, isolamento, umiliazioni e violenze sessuali. Il saudita Mustafa al-Hawsawi, 51 anni, accusato di aver partecipato al piano d’attacco alle Torri gemelle, da anni non riesce a stare seduto per i dolori inenarrabili al retto, in seguito alle brutali e ripetute violenze di sodomia subite nella detenzione ormai quasi ventennale nei siti della Cia e a Guantánamo. Mustafa mangia il meno possibile e spesso digiuna: per evitare i conseguenti terribili dolori. Il palestinese Abu Zubaydah, detenuto dopo essere stato rapito dalla Cia e rinchiuso in una cella grade quanto una bara in un sito della Cia stessa, fu sottoposto alla tortura dell’annegamento, il “waterboarding”, 83 volte. Dopo è finito a Guantánamo e nel 2043, se sarà ancora vivo, avrà 72 anni, e forse ne uscirà. Gli altri detenuti, in tutto quaranta, tra ventiquattro anni semplicemente non ci saranno più, per motivi anagrafici, ma più probabilmente perché eliminati da malattie, invalidità, disturbi fisici e mentali, conseguenze di una infinita detenzione disumana, senza processo, illegale, senza ombra di diritto e di diritti, senza adeguata assistenza medica. Perché il 2043? Perché la prigione nella base americana a Cuba è destinata a restare operativa per almeno altri due decenni, secondo i piani del Pentagono, su indicazione di Trump. Eppure, specie dopo l’annunciato ritiro dall’Afghanistan e con l’escalation del terrorismo domestico, non ci sono più ragioni, se mai ci sono state, perché Guantánamo resti operativa e perché i detenuti non siano liberati o quanto meno trasferiti nei diversi paesi da cui provengono e dove furono violentemente e illegalmente rapiti per essere prima detenuti nei siti della Cia - torturati, violentati, umiliati - e per essere poi detenuti a Guantánamo in attesa di processi che non sarebbero mai arrivati. Un orrendo capitolo delle orrende “war on terror” e guerre in Afghanistan e nel Golfo. Milioni di morti. Decine di migliaia di caduti americani. Ottocento “terroristi” nei siti della Cia per poi finire nel buco nero di Guantánamo. Vent’anni che pesano sull’America non meno di quelli del Vietnam. Ragione in più per porvi fine. Completamente. Non solo col ritiro da Kabul. A questo punto solo una forte, determinata decisione da parte della Casa Bianca può mettere termine a queste pagine ignominiose della storia recente americana. Joe Biden può farlo. Può fare ciò che Barack Obama s’impegnò a fare e non fece. Per l’ostruzionismo incontrato al Congresso, a maggioranza repubblicana. Avrebbe dovuto farlo rapidamente, nei primi due anni della sua presidenza. Dopo, com’è avvenuto, non avrebbe avuto più le leve per farlo. E sarebbe diventato complice, di fatto, della vergogna che egli stesso aveva denunciato con forza e che aveva promesso di cancellare. Non averlo fatto sarà per lui motivo di grande rimorso, egli stesso ha poi detto. Biden può chiudere Guantánamo come logico corollario dell’annunciata fine della presenza americana in Afghanistan. E perché il Congresso ha oggi una maggioranza democratica nei suoi due rami. Anzi, una parte importante del Congresso stesso glielo chiede. In una lettera a Joe Biden, il 16 aprile scorso, un presidente di commissione, il senatore Dick Durbin, e 23 suoi colleghi senatori chiedono l’immediata chiusura della prigione di Guantanamo Bay “simbolo di illegalità e di abusi dei diritti umani”. Almeno sei di loro possono essere rilasciati, gli altri trasferiti nei paesi d’origine, altri ancora finalmente processati e detenuti in carceri americane. Ai senatori si uniscono organizzazioni per diritti umani e una vasta opinione democratica. L’urgenza di chiudere la prigione in terra cubana è dettata anche dall’evidente constatazione che la sua stessa esistenza - sostengono i senatori - annulla la pretesa dell’America di ergersi a potenza che tutela i diritti umani e la legalità nel mondo, ne danneggia la reputazione, alimenta il razzismo anti-islamico, ne indebolisce la lotta al terrorismo, peraltro oggi domestico. È tempo di por fine a tutto questo. Il rischio, adesso, è che il ritorno d’attualità del tema sia offuscato da altre vicende. Dopo la lettera dei senatori non si è avuto segno di averla ricevuta da parte della Casa bianca. Importante che se ne continui a parlare, che si faccia pressione. A questo può servire anche un film come “The Mauritanian”, da poco disponibile su Amazon Prime, la storia vera di un pacifico cittadino mauritano, Mohamedou Ould Slahi, catturato, senza prove, dai servizi americani perché creduto coinvolto negli attacchi dell’11 settembre, e detenuto a Guantánamo. Un film crudo, che scuote le coscienze, anche di chi sapeva e sa della sinistra prigione, della pratica delle rendition e delle complicità europee, anche italiane. Una brutta storia che sarebbe oltraggioso tornare a dimenticare. A meno che non ci sia un interesse preciso a che proprio questo accada. Brasile. Elicotteri, blindati e 200 agenti: strage nella favela di Francesco Bilotta Il Manifesto, 8 maggio 2021 La polizia giustizia 25 persone a Jacarezinho, nella zona nord di Rio de Janeiro. Gli abusi sono strutturali: nei primi tre mesi del 2021, cinque morti al giorno. La protesta degli abitanti e delle organizzazioni per i diritti umani. Con il passare delle ore appare sempre di più come una chacina, mattanza, quella che si è consumata giovedì mattina nella favela Jacarezinho, nella zona nord di Rio de Janeiro. Un’operazione di polizia con 200 agenti e l’impiego di due elicotteri e veicoli blindati ha portato morte e distruzione tra i 400mila abitanti della baraccopoli. Si contano almeno 25 morti, tra cui un agente di polizia, e numerosi feriti. Un intervento violento, con spari dagli elicotteri e l’uso di granate e fucili automatici, ha prodotto la più grande carneficina nella storia di Rio. Anche alcuni passeggeri che si trovavano nella stazione della metropolitana di Triagem sono rimasti feriti dai colpi sparati dagli agenti. Secondo la ong Fogo Cruzado (fuoco incrociato), laboratorio di dati sulla violenza armata, “siamo di fronte a una strage e al più alto numero di morti in una singola operazione di polizia”. In conferenza stampa le autorità di polizia hanno dichiarato che l’operazione era autorizzata e aveva lo scopo di smantellare una banda di trafficanti che reclutava minori per attività criminali. Si afferma che le 24 persone uccise erano armate, senza comunicare i loro nomi e dare altri dettagli, le circostanze in cui sono stati colpiti. Respinte, come sempre, le accuse di abusi. Si sostiene, inoltre, che l’intervento si è svolto nel rispetto di tutti i protocolli ed è il risultato di dieci mesi di indagini. Ma sono molti gli analisti che, analizzando le dinamiche dell’intervento, parlano di esecuzioni extragiudiziali, di una vendetta degli agenti per la morte del poliziotto avvenuta all’inizio dell’operazione. Joel Luiz Costa, avvocato e membro della Commissione dei diritti umani, è andato nei luoghi dell’intervento, ha visto il sangue e i segni dei proiettili nelle vie e nelle case, ha raccolto le testimonianze di vere e proprie esecuzioni. “Siamo di fronte a un massacro, una crudeltà, una barbarie”, ha dichiarato dopo la visita. La comunità di Jacarezinho sta protestando con forza, accusando la polizia di comportamento criminale. I principali accessi alla favela sono stati bloccati. Si discute da anni sulla letalità delle operazioni di polizia in Brasile e dell’impunità di cui godono i poliziotti che compiono abusi. Raramente vengono identificati e condannati. Il Gaesp, organismo responsabile nell’investigare gli abusi e i comportamenti non appropriati della polizia, è stato sciolto un mese fa. Secondo l’Osservatorio di pubblica sicurezza dell’Università Candido Mendes, nel 2019 sono state 1.810 le persone uccise a Rio dalla polizia, un record da quando esistono statistiche ufficiali. Nella regione metropolitana di Rio sono state 337 le operazioni compiute tra marzo 2020 e febbraio 2021, un periodo in cui erano in vigore le misure di isolamento sociale. Nei primi tre mesi del 2021 gli interventi della polizia nell’area di Rio hanno prodotto la morte di cinque persone al giorno. Il Supremo Tribunale federale aveva deciso nel giugno 2020 che durante la pandemia dovevano essere sospese nelle favelas e nelle periferie dello Stato di Rio tutte le operazioni di polizia non urgenti. Si indicava espressamente che “gli interventi erano consentiti solo in casi assolutamente eccezionali e preventivamente autorizzati”. La decisione era stata presa sotto la spinta delle organizzazioni per i diritti umani e dei familiari delle vittime. Ma la polizia aveva sempre considerato la presa di posizione del Stf un ostacolo alla sua azione e non un’indicazione a modificare le fallimentari politiche di sicurezza fatte di operazioni militari ad alta letalità. Monica Cunha, coordinatrice della Commissione dei diritti umani dell’Assemblea legislativa di Rio, afferma che “l’operazione condotta a Jacarezinho va contro la delibera del Stf e la polizia entra nelle favelas per fare morti”. “Questa è sicurezza pubblica?” si chiede in un documento il Psol. La carneficina nella favela di Jacarezinho riapre in modo drammatico la questione. Russia. Navalny, Amnesty ci ripensa: è un prigioniero di coscienza di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 8 maggio 2021 La decisione di non definirlo tale era dovuta alle passate dichiarazioni nazionaliste e contro gli immigrati del leader dell’opposizione russa. Ma sono stati soprattutto i mezzi di informazione vicini al Cremlino a rilanciare una campagna tendente a screditarlo. La campagna, alimentata anche da insospettabili media occidentali, aveva rilanciato alcuni “fantasmi” del passato di Aleksej Navalny, il principale avversario politico di Vladimir Putin che ora si trova in carcere. Il blogger era stato molto vicino agli estremisti nazionalisti una dozzina di anni fa e aveva rilasciato dichiarazioni che oggi appaiono più che imbarazzanti, come “Abbiamo il diritto di essere russi in Russia”. Accompagnate a partecipazioni a marce dell’estrema destra. Una campagna rilanciata soprattutto dai mezzi di informazione vicini al Cremlino e tendente a screditare l’unico che potrebbe forse contendere il potere al presidente russo, dicono oggi i collaboratori di Navalny. E i risultati di quella campagna si erano visti, al punto che perfino Amnesty International aveva deciso di non considerare più il blogger un “prigioniero di coscienza”, proprio per i suoi precedenti inviti alla divisione e all’odio interetnico. Ma ora l’organizzazione sovranazionale che si occupa del rispetto dei diritti umani nel mondo ci ha ripensato e ha assegnato nuovamente ad Aleksej lo status di prigioniero di coscienza. Trascorsi certamente difficili da giustificare oggi quelli di Navalny che, per rispetto della verità storica, si è sempre rifiutato di cancellare i suoi video di allora, pur scusandosi per molte sue affermazioni. Nel 2007 uscì dal partito liberale Yabloko perché si rese conto che quel tipo di formazione non aveva alcun impatto effettivo sulla società russa. Fondò assieme ad altri il movimento Narod, (Popolo) che tentava di cavalcare l’onda nazionalista. Perfino nel 2013 Navalny si presentò alle elezioni per sindaco di Mosca (ottenendo un sorprendente 27 per cento) con un programma contro l’immigrazione clandestina. “La mia idea - spiegò poco dopo per giustificarsi - è che devi comunicare con i nazionalisti ed educarli”. Certamente oggi il blogger ha posizioni ben diverse. Ma in questa fase calda della battaglia politica russa in vista delle elezioni politiche di autunno, ogni mezzo viene usato per diminuire le possibilità dell’opposizione di raggiungere un qualsiasi risultato. Intanto lo stesso Navalny è in una colonia penale e ci resterà per due anni e mezzo. Gli è stata infatti revocata la libertà condizionale dopo che non si era presentato a controlli di polizia perché ricoverato in Germania a seguito di un avvelenamento subìto in Siberia ad agosto (a opera di agenti segreti, dicono i suoi). La condanna di qualche anno prima, all’origine dell’arresto, è stata definita ingiusta dalla Corte europea dei diritti umani. Ma con l’avvicinarsi del voto si è intensificata anche la campagna contro tutte le organizzazioni che fanno capo a lui. Il Fondo per la lotta contro la corruzione, che stava ottenendo grandi consensi, è sul punto di essere dichiarato “organizzazione estremista”, al pari dei gruppi terroristi. Quando ciò avverrà (ed è una quasi certezza), i collaboratori del Fondo, anche del passato, potranno subire pesanti condanne penali. Lo stesso vale per chi ha donato quattrini o chi donerà. Poi in Parlamento è pronta una legge che vieterà a chiunque abbia fatto parte di simili organizzazioni di partecipare alle elezioni politiche o amministrative. Un ulteriore strumento per bloccare i “fiancheggiatori” dell’oppositore. Infine sarebbe partito anche l’attacco a un altro strumento ideato da Navalny e che si è rivelato molto forte negli ultimi anni. Anziché presentare un ennesimo esponente di opposizione in consultazioni locali, Navalny ha chiesto agli elettori di concentrare i consensi su qualunque candidato, di qualsiasi partito, purché fosse in grado di battere il locale rappresentante di Russia Unita, la formazione putiniana che il blogger ha definito “Il partito dei ladri e dei truffatori”, stigma che è molto piaciuto alla gente. Ebbene, secondo alcuni media russi, YouTube starebbe rimuovendo tutti i filmati che invitano la gente nelle regioni ad adottare questa tecnica definita del “voto intelligente”. Anche se la sua formazione è in caduta libera di consensi (lui come presidente no), a settembre Putin non vuole brutte sorprese.