Vaccinazioni nelle carceri: Lombardia, Lazio e Marche in pole position di Raul Leoni gnewsonline.it, 7 maggio 2021 Procede a pieno ritmo la campagna vaccinale negli istituti penitenziari: 19.655 sono ad oggi le dosi somministrate ai detenuti (53.634 unità) che risultano all’anagrafe nazionale dei vaccini presso il ministero della Salute, un dato che copre oltre il 36% della popolazione reclusa. È la Lombardia a guidare la classifica delle vaccinazioni alla popolazione detenuta con 5879 somministrazioni di vaccini anti-Covid19, a fronte dei 7800 detenuti presenti negli istituti della regione. A seguire il Lazio con 3537 somministrazioni, su 5581 reclusi. Al 75% di vaccini somministrati in Lombardia e al 63% del Lazio si aggiungono le alte percentuali registrate nelle Marche e in Abruzzo, regioni che contano, rispettivamente, 643 somministrazioni, su una popolazione detenuta di 844 unità (76%) e, 1045 dosi inoculate, su 1639 reclusi presenti (63%). A buon punto della classifica il piano vaccinale condotto negli istituti della Calabria, dove sono state somministrate 1377 dosi a fronte di una popolazione regionale di 2581 detenuti (53%). Seguono Puglia con una percentuale pari al 48,79 % (1757 somministrazioni su un totale di 3691 detenuti), Trentino-Alto Adige 47,82% (197 su 412), Basilicata 44,15 (166 su 376), Valle d’Aosta 42,07% (69 su 164), Emilia-Romagna 41,36% (1352 su 3269), Umbria 39,48% (518 su 1312), Molise 32,45% (110 su 339), Veneto 27,01 (619 su 2292), Sicilia 22,81% (1317 su 5774), Liguria 21,04% (278 su 1321), Friuli-Venezia Giulia 11,56% (75 su 649), Toscana 10,25% (317 su 3093), Piemonte 4,40% (180 su 4087), Campania 2,61% (170 su 6517). Il dato più basso si registra in Sardegna, con 49 somministrazioni soltanto su una popolazione di 1983 unità detenute, nei diversi istituti della regione. Ma, come assicurato dall’Assessore regionale dell’Igiene e sanità e dell’Assistenza sociale della Regione, Mario Nieddu, nel corso di un colloquio telefonico con il Direttore generale dei Detenuti e del trattamento del DAP, Gianfranco De Gesu, le dosi di vaccino sono ormai disponibili e la campagna vaccinale nelle carceri “subirà un’importante accelerazione già a partire da domani”. Al di là delle percentuali delle somministrazioni effettuate, conforta il dato in costante calo relativo ai detenuti positivi: ad oggi, 375 in tutti gli istituti italiani, pari allo 0,70% dei reclusi attualmente presenti, a conferma della sostanziale efficacia delle misure di profilassi attuate negli istituti, fin dalla fase iniziale dell’emergenza pandemica. Dal monitoraggio svolto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, cinque sono le regioni che al momento non registrano detenuti positivi: Valle d’Aosta, Molise, Trentino-Alto Adige, Umbria e Sardegna. Infine, dai dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con cadenza settimanale, relativi ai contagi e alle somministrazioni di vaccino anti-Covid19 all’interno degli istituti penitenziari, si evince che anche il piano delle vaccinazioni dirette al personale di Polizia Penitenziaria e del comparto delle Funzioni Centrali è in fase avanzata. La situazione attuale evidenzia che più del 50% degli appartenenti al comparto sicurezza e a quello delle funzioni centrali risulta essere stato avviato alla vaccinazione: 20.332 poliziotti penitenziari (su quasi 37mila in servizio) e 2.173 fra personale dirigenziale e amministrativo (su circa 4mila che operano negli istituti). In Italia oltre mille detenuti-studenti: crescono le donne redattoresociale.it, 7 maggio 2021 I dati della Conferenza dei poli penitenziari a tre anni di vita: tra gli anni accademici 2018-19 e 2020-21 crescono iscritti (+128,6% per le donne) e atenei aderenti. All’Università di Torino, tra i fondatori, 60 studenti. Il 7 maggio seminario tra bilanci e prospettive. “Trasformare la detenzione da tempo sospeso a fecondo”. Sono 1.034 gli studenti detenuti iscritti (di cui 64 donne) all’università nell’anno accademico in corso: 109 si trovano in regime di esecuzione penale esterna, oltre la metà (549) scontano una pena in carcere in circuiti di media sicurezza, 355 in alta sicurezza e 21 (2,1%) in regime 41bis. Le studentesse (in crescita) rappresentano il 6,2% del totale degli studenti. A ricordare i dati la Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari (Cnupp), istituita dalla Conferenza dei rettori delle università italiane nel 2018, per coordinare le attività di formazione universitaria in carcere. Un bilancio a 3 anni di vita - che segnano anche la conclusione del mandato del primo consiglio nazionale, presieduto da Franco Prina, delegato per il Polo Universitario Penitenziario del Rettore dell’Università di Torino - e gli impegni per il futuro saranno l’oggetto venerdì 7 maggio alle ore 15 del seminario “Il diritto agli studi universitari in carcere: tre anni di esperienza della cnupp e prospettive”. “L’Università di Torino è tra i fondatori della Conferenza, essendo stato il primo Ateneo in Italia a costituire un Polo Universitario in carcere a partire dagli anni 90”, spiegano i promotori: 60 i detenuti e le detenute iscritti a UniTo, nella Casa circondariale Lorusso e Cutugno e nella Casa di Reclusione Rodolfo Morandi di Saluzzo (14). Degli iscritti 11 stanno completando gli studi dopo aver lasciato il carcere e aver ottenuto misure alternative. Stanno seguendo corsi di studio triennali (52) e magistrali (8), afferenti ai dipartimenti di Culture, politica e società (36), Giurisprudenza (18), Matematica, Psicologia, Dams. E nell’ultimo anno si sono laureati 5 studenti. Nel primo triennio di vita della Conferenza dei poli penitenziari le attività tutti i numeri sono in crescita: gli atenei aderenti con studenti attivi sono passati da 27 nel 2018-19 a 32 nel 2020-21 (+18,5%); gli istituti penitenziari in cui operano i Poli Universitari Penitenziari da 70 a 82 (+17,1%) e il numero di studenti iscritti da 796 a 1034 (incremento +29,9%). “Tra questi dati spicca il notevole incremento della componente femminile, che passa da appena 28 studentesse nel 2018-19 a 64 nel 2020-21, quindi un incremento del +128,6%”. Sono impegnati oggi 196 dipartimenti universitari, che corrispondono al 37% dei dipartimenti presenti nei 32 atenei coinvolti. E ancora: 896 sono gli studenti iscritti a corsi di laurea triennale (87%), mentre 137 frequentano corsi di laurea magistrale (13%). Le aree disciplinari più frequentate dagli studenti in regime di detenzione sono quella politico-sociale (25,4%) seguita dall’area artistico-letteraria (18,6%), area giuridica (15,1%), area agronomico-ambientale (13,7%), area psico-pedagogica (7,4%), area storico-filosofica (7,3%), area economica (6,5%) e altre aree (6%). In occasione della conclusione del primo triennio di vita gli obiettivi della Conferenza per il prossimo futuro sono quelli di “migliorare la qualità della formazione delle persone detenute impegnate in percorsi di studio universitario anche attraverso modelli didattici innovativi (è in corso una prima sperimentazione per adottare strumenti per la didattica a distanza anche oltre la pandemia), di migliorare le performances degli studenti (diminuzione degli abbandoni, incremento degli esami sostenuti e dei laureati), di lavorare al raccordo tra istruzione secondaria superiore all’interno degli Istituti e Università”. Impegni sono inoltre previsti sul fronte della formazione del personale dell’Amministrazione Penitenziaria (polizia penitenziaria e operatori dell’area trattamentale), nonché sullo sviluppo di attività di ricerca sulle problematiche carcerarie. “Percorsi sinergici con l’Amministrazione Penitenziaria - spiegano i promotori - possono consentire di trasformare la detenzione da un tempo “sospeso” ad un periodo fecondo, in cui il cittadino condannato possa intraprendere, se lo desidera, percorsi formativi anche di alto livello che gli consentano di investire sul proprio capitale umano, strumento indispensabile per ridurre i rischi di recidiva, con benefici non solo per il singolo ma per tutta la società italiana. La presenza delle Università nei luoghi di detenzione ha, in questo senso, una profonda valenza culturale per il Paese e per la più ampia discussione sul significato che possono avere la pena e l’esecuzione penale”. Carcere minorile: meno ingressi, ma penalizzate le fasce marginali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 maggio 2021 Luciano Squillaci, presidente della Federazione italiana comunità terapeutiche (Fict), denuncia le enormi difficoltà di gestione. L’intero anno 2020 ha visto un calo notevole nel numero annuale consueto degli ingressi negli istituti penitenziari per i minorenni. Ma sorprende il dato che, nonostante il minore spessore criminale delle ragazze rispetto ai ragazzi, sia calata la percentuale delle loro uscite. Un aspetto interessante che emerge nell’ultimo rapporto dell’associazione Antigone “Oltre il virus”. Secondo l’associazione una spiegazione potrebbe essere quella che fa da sfondo all’intero sistema: si tenta di residualizzare al massimo la detenzione minorile e quando non vi si riesce non è solo, né principalmente, a causa della gravità del reato bensì a causa della mancanza di reti di sostegno. Le ragazze che entrano in carcere nonostante un ridotto profilo criminale portano i segni di una forte marginalità, contro la quale anche le misure emergenziali sono più impotenti. Un problema che di fatto riguarda i ragazzi stranieri. Se nei primi sei mesi del 2019 il 42,2% degli ingressi in Ipm avveniva da parte di stranieri, la percentuale sale al 53,9% nei primi sei mesi del 2020, segno che le misure prese per limitare al massimo le entrate in carcere hanno funzionato meglio per gli italiani. Negli stessi periodi, le uscite di ragazzi stranieri sono passate dal 41,2% del 2019 al 48,6% del 2020. A un incremento dell’11,7% delle entrate ha corrisposto un incremento del solo 7,4% delle uscite. La denuncia della Federazione italiana comunità terapeutiche (Fict) - Di fatto, ciò evidenza che la crisi sanitaria conferma la minore capacità del sistema a sostenere le fasce più marginali. È ampiamente noto, infatti, che dall’inizio della pandemia sono soprattutto le fasce più deboli e fragili ad aver sopportato le conseguenze più drammatiche. Per questo è giusto segnalare la denuncia da parte di Luciano Squillaci, presidente della Federazione italiana comunità terapeutiche (Fict). Nello specifico, riguardo l’esperienza delle loro comunità educative per minori che si occupano in particolare di fragilità complesse, tra cui minori con patologie psichiatriche e disturbi del comportamento o con dipendenze patologiche, stanno riscontrando enormi difficoltà di gestione, considerando che, a causa delle ristrettezze dovute alle norme anti contagio, hanno registrato un aumento degli abbandoni volontari. In tali casi, peraltro, rimanendo fuori dalle comunità per diverso tempo, probabilmente senza le necessarie protezioni, diventa difficile il reinserimento in struttura. Infatti non è possibile lasciarli in isolamento 14 giorni, perché non riescono a reggere psicologicamente, e la loro particolare situazione di fragilità ci impedisce di rimandarli nelle famiglie a fare la quarantena. Né evidentemente possono temporeggiare per il reingresso, non solo per la loro situazione educativa e sanitaria ma anche perché molti di loro sono sottoposti a provvedimento giudiziario. Nelle comunità si continua a lavorare nostante la paura del Covid - “Abbiamo dovuto sospendere già alcuni servizi diurni - racconta Squillaci durante al convegno organizzato dall’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei - e già questo sta creando molti problemi, soprattutto ai ragazzi che avevano iniziato un percorso e che oggi rischiano di ritrovarsi per strada. Ma le difficoltà principali le abbiamo nei servizi residenziali, a ciclo continuativo che non possono e non devono chiudere, all’interno dei quali ci sono persone con problematiche importanti. E tutto è lasciato al nostro arbitrio”. Nonostante la paura, racconta Squillaci, nelle comunità terapeutiche si continua a lavorare. “Viviamo storie di quotidiano eroismo - racconta il presidente della Fict: i nostri operatori, tutte le mattine, nonostante la paura e spesso sprovvisti di qualsiasi protezione, si armano di quello che hanno e, con professionalità e passione, vanno sul posto di lavoro, spesso facendo doppi turni per coprire gli altri colleghi ammalati. In tantissime comunità ci si è dovuti arrangiare, costruendo le mascherine fai da te, perché siamo tagliati fuori da qualsiasi possibilità di distribuzione di dispositivi di protezione. Abbiamo dovuto spiegare ai ragazzi perché non si può uscire, perché non possono vedere i familiari, rientrare a casa. E abbiamo dovuto reinventare il programma giornaliero e le attività terapeutiche. Tutto da soli, e spesso senza alcuna indicazione da parte delle istituzioni preposte”. Maggiori preoccupazioni riguardano le comunità del sud Italia. “Nel panorama già deficitario della sanità meridionale, dove le dipendenze erano già il nulla, mi chiedo cosa accadrà ai servizi e ai ragazzi - denuncia sempre Squillaci. Il privato sociale in questo momento storico rischia di non reggere questa forte pressione. Oggi più che mai sappiamo che dobbiamo investire sulla sanità, sulle persone e soprattutto potenziare quelle realtà già deboli e fragili che ora sono travolte da questo tsunami”. La nostra giustizia minorile apprezzata per la sua valenza socio-rieducativa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 maggio 2021 Le comunità sono strumenti di intervento che, nell’ambito della giustizia minorile, rappresentano delle valide alternative al carcere. In Italia la detenzione minorile è un fenomeno fortunatamente marginale nei numeri, con una percentuale di presenze assolutamente trascurabile. L’intero meccanismo di gestione della giustizia minorile è basato su un modello che in Italia funziona molto bene e ci è invidiato dagli altri Paesi, soprattutto extra europei, per la sua altissima valenza socio-rieducativa. Sebbene siano trascorsi quasi 40 anni da quando ci si è dotati di un ordinamento penitenziario che valesse in parte anche per i minorenni, ma che era stato concepito solo per i maggiorenni, un decreto del 2018 ha modificato questo assetto, creando un vero e proprio ordinamento penitenziario minorile. I tempi sono stati molto lunghi, ma sulla base dell’esperienza del modello attuato di cui se ne è valutata la buona funzionalità ben sperimentata in concreto lo Stato ha prodotto una regolamentazione ad hoc. Le comunità per i minori sono strumenti di intervento che, nell’ambito della giustizia penale minorile, rappresentano delle valide alternative al carcere e, in quanto tali, presentano delle caratteristiche molto diverse. Con la nascita delle comunità il legislatore penale minorile ha voluto introdurre, di fatto, qualcosa che fosse alternativo e il più distante possibile dal carcere. Le comunità sono, diversamente dagli istituti penitenziari, delle istituzioni aperte all’interno delle quali gli ospiti hanno la possibilità di usufruire di risorse e di servizi che sono in grado di aiutarli a gestire e a migliorare le loro relazioni problematiche; insomma, le comunità possono essere considerate a tutti gli effetti degli strumenti di intervento che erogano un servizio che può assumere natura educativa o sanitaria in base alle specifiche necessità del minore. Uno degli elementi più importati, che ricopre un ruolo sorprendentemente fondamentale, è rappresentato dal luogo nel quale la comunità viene costruita. Le comunità possono essere costruite, di fatto, ovunque, come in appartamenti o all’interno di cascine, ma la scelta del luogo influenza notevolmente il tipo di lavoro e, di conseguenza, il tipo di sevizi e di attività che vengono erogate all’interno di una specifica comunità. Un minore, ricordiamo, può finire in comunità per eseguire una misura amministrativa di rieducazione, una misura cautelare, la messa alla prova, una misura alternativa alla pena o perché destinatario di provvedimenti civili. La Cartabia prepara una lista di soluzioni per il processo penale di Valerio Valentini Il Foglio, 7 maggio 2021 A Via Arenula si lima il dossier sulle riforme. L’asse mobile del Pd, tra M5s e FI. L’appuntamento è stato già fissato: lunedì 10, alle 14, nel suo ufficio di Via Arenula la ministra Marta Cartabia ha convocato i capigruppo di maggioranza della commissione Giustizia della Camera. Quelli, cioè, che stanno discutendo la riforma del processo penale. E che finora, per lo più, si sono logorati in un gioco di posizionamenti, nell’attesa di capire quale sarà l’orientamento della Guardasigilli rispetto ai temi più scivolosi, e fra tutti quello della prescrizione. Su cui, però, lunedì la Cartabia non fornirà una soluzione unica. Il comitato di esperti che la ministra ha creato, presieduto da Giorgio Lattanzi, oggi si riunirà per l’ultima volta (con un giorno d’anticipo rispetto alla chiusura dei lavori fissata nel Pnrr), e preparerà un pacchetto di misure possibili. Tutte, comunque, indirizzate verso un unico fine: la riduzione del tempo del giudizio per altre vie rispetto a quelle battute dal grillismo. Se, infatti, lo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio resterà in vigore, l’obiettivo più generale di garantire una ragionevole durata del processo seguirà altre strade rispetto all’ipotesi, assai fumosa, avanzata a suo tempo da Alfonso Bonafede: quella, cioè, delle sanzioni disciplinari per i magistrati ritardatari. Ora si cambia. E, innanzitutto, Via Arenula proporrà un ripensamento generale dei tempi della prescrizione. Che, interrompendosi dopo il primo grado di giudizio, non potrà essere più calcolata basandosi sulla pena massima prevista per il reato perseguito com’era fintantoché la sua estinzione era possibile fino al pronunciamento della Cassazione: i tempi per determinare l’estinzione del reato andranno accorciati. Dopodiché, per i restanti gradi di giudizio, si provvederà a indicare fasi ben precise: oltre le quali si interverrà con la riduzione di pena in un primo momento, per poi decretare l’ineseguibilità dell’azione penale nel caso di un protrarsi ulteriore del processo. Tutte soluzioni, però, che stando alla visione maggiormente condivisa dai consulenti della Cartabia, rappresentano già un rattoppo. Perché l’imperativo categorico resta quello di decongestionare i tribunali. E questo obiettivo lo si perseguirà non soltanto puntando su un notevole potenziamento degli strumenti deflattivi e delle misure alternative, ma anche modificando le norme di riferimento per le indagini preliminari. Sarà infatti aumentato il potere d’intervento del gip di fronte a casi di inerzia del pubblico ministero, che avrà nel complesso minore tempo a disposizione. Nella stessa ottica, verranno proposte varie soluzioni, tutte improntate al modello americano, per rendere inappellabili, da parte dello stesso pm, le sentenze di proscioglimento. Se questo è l’orientamento generale, verrà però lasciato alla politica il suo spazio di manovra. Che al momento si preannuncia assai caotico, anche perché finora ogni partito si è mosso in modo autonomo, al di fuori di qualsiasi logica di coalizione passata e presente, in attesa di lasciare definire il perimetro dello scontro. Vale anche a destra, in effetti: dove, col decisivo spostamento di Italia viva sul fronte garantista, Forza Italia e Lega potrebbero puntare a costruire una nuova maggioranza nella maggioranza, soverchiando i rossogialli anche grazie al contributo esterno di Giorgia Meloni. “Ma per ora non stiamo facendo questi calcoli, ci stiamo anzi concentrando nel merito delle questioni”, precisa, con la sua proverbiale pacatezza, Pierantonio Zanettin, capogruppo azzurro in commissione. Che forse parla anche con l’acume di chi sa che, su alcuni punti come quello delle pene alternative, non è da escludersi uno scantonamento del Carroccio, in una riedizione della vecchia intesa nazionalpopulista insieme al M5s. Anche per questo, allora, c’è chi spera in una convergenza nazarenica, tra Pd e FI, che possa indirizzare i lavori del Parlamento nell’assegnare la delega al governo per la riforma del processo penale. E forse anche per questo, tra i dem, c’è chi tenta di spostare l’asse del partito verso il centro, prendendo dunque le distanze, per quanto possibile, dal M5s, e assecondando le richieste di chi, come il calendiano Enrico Costa, spinge per eliminare le riduzioni di pena intermedie dopo il primo grado, e di passare direttamente all’estinzione del reato nel caso di prolungamento eccessivo dei tempi in Appello. Ed è in questa logica che s’inseriscono emendamenti come quello di Carmelo Miceli, volto a introdurre dei termini di scadenza perentori per le indagini che si prolungano oltre il termine fissato. Un piglio, quello del deputato siciliano del Pd, che lascia interdetti alcuni suoi compagni di partito più attenti a non indispettire gli umori del grillismo. E che però trova una sua legittimità proprio nella rigidità del M5s, che è tornato addirittura a proporre, nei suoi emendamenti, un ritorno al blocco della prescrizione previsto dalla cosiddetta “Spazza-corrotti”. Come se, nel frattempo, non fossero venuti giù già due governi. Giustizia. Salvini sgambetta Cartabia: “Accordo con i Radicali, pronti i referendum” di Liana Milella La Repubblica, 7 maggio 2021 Su un tema strategico per il Recovery, la Lega va all’attacco: “Con Pd e M5S nessuna riforma in questo Parlamento”. La frase è dirompente. Di quelle che possono squassare una maggioranza. Detta da Matteo Salvini poi, nel salotto di Porta a porta, fa ancora più rumore. Soprattutto se riguarda la giustizia, e alla vigilia di riforme strategiche che, se dovessero fallire, metterebbero in pericolo i fondi del Recovery. Eppure l’annuncio fa capire che non parla “politichese”, il progetto è già in cammino. Lui dice proprio così: “Questo Parlamento con Pd e 5Stelle non farà mai una riforma della giustizia. Per questo stiamo organizzando con il Partito Radicale una raccolta di firme per alcuni quesiti referendari”. Che, scopre Repubblica, equivalgono a una bomba, perché riguardano, per citarne due, sia le carriere dei magistrati e la loro eventuale separazione, sia il Csm. Quando, in via Arenula, sottopongono alla Guardasigilli Marta Cartabia la battuta di Salvini lei reagisce solo con un “legittime iniziative”. Ma, politicamente, si tratta di una bomba. E va da sé che la prima verifica di autenticità da fare è con Giulia Bongiorno, l’avvocato penalista dei casi difficili - Andreotti, Sollecito, adesso Grillo - che non solo è senatrice della Lega, ma anche responsabile Giustizia del partito. E lei conferma pienamente le parole di Salvini con un “ci stiamo lavorando”. Ma alla domanda “ma questo è un attacco a Cartabia? State pensando a una crisi di governo?” Bongiorno frena: “Ma no, non c’è niente contro di lei. Questo non è un passo che va contro la ministra, la Lega sarà con lei sulle riforme, siamo soddisfatti che acceleri sulla giustizia. Ma al contempo vogliamo vedere se i cittadini italiani hanno voglia di un grande cambiamento proprio sulla giustizia”. Poi aggiunge quel suo tipico “stop, non dico altro” che chiude spazi ad ulteriori domande. Ma non ci vuol molto - tra radicali e leghisti - per ricostruire qual è la strategia della Lega sulla giustizia proprio mentre Cartabia, stringe le fila per chiudere le riforme del processo civile e penale. Giusto lunedì il primo arriva in aula al Senato e il secondo verrà discusso in un vertice di maggioranza. Eppure Salvini non è soddisfatto. Non gli bastano le riforme processuali, vuole dare una spallata alla magistratura dei casi Palamara e adesso del caso Amara. È convinto che né il Pd né tantomeno M5S siano i partner per cambiare radicalmente le regole. Una crisi di governo? Una spallata a Mario Draghi? Non c’è questo nelle sue intenzioni. La strategia è tutt’altra, tant’è che ha già affidato ai suoi il dossier dei futuri referendum. Dopo averne parlato a lungo con il radicale Maurizio Turco. Proprio colui che ha aperto la porta a Palamara. È già pronto l’elenco dei possibili referendum. Quattro per ora quelli che trapelano. Sulla carriera dei magistrati, sul Csm, sulla separazione delle carriere tra pm e giudici, sulle misure cautelari. Salvini vuole sapere cosa ne pensano gli italiani e se hanno voglia di un “grande cambiamento”. Con Turco trova una porta aperta. Quello dei referendum è da sempre il loro terreno. Lo strumento principe di Marco Pannella. Altrettanto evidente la sfiducia verso l’asse Pd-M5S. Della crisi con M5S si sa tutto, già ai tempi del governo gialloverde, gli scontri quotidiani tra Bongiorno e l’allora Guardasigilli Bonafede, la richiesta insistente di una “riforma strutturale” anche su magistrati e carriere. Invece, accusa la Lega, Bonafede “si fermò sulla soglia delle riforme procedurali”. Poi scoppia il caso Palamara e Salvini freme perché vorrebbe veder azzerate le correnti, ma “c’è chi minimizza”. E “il Parlamento sta a guardare”. Adesso “spuntano pure le logge segrete”. Con chi si può fare tutto questo? Salvini taglia fuori Pd e M5S e parla coi Radicali. E si arriva così alla scioccante battuta di oggi. I silenzi del Quirinale e della ministra Cartabia lasciano isolato il Csm di Giulia Merlo Il Domani, 7 maggio 2021 Nessuna dichiarazione, nessun comunicato ufficiale. Nemmeno a margine di un evento che ha portato entrambi ieri dentro la sede del Consiglio superiore della magistratura, a una settimana dal terremoto giudiziario che ne ha certificato la crisi. Il caso ha voluto che proprio ieri palazzo dei Marescialli ospitasse la proiezione del docu-film sul magistrato Rosario Livatino, assassinato dalla mafia nel 1990 e che verrà beatificato il 9 maggio: presenti il plenum, il cardinale Gualtiero Bassetti, Mattarella e Cartabia. In questo clima sospeso - fuori dal Csm la bufera mediatico-giudiziaria, dentro nessun riferimento esplicito - l’unica velata allusione è risuonata nell’inciso finale di una frase del vicepresidente David Ermini: “La credibilità esterna della magistratura nel suo insieme e in ciascuno dei suoi componenti è un valore essenziale in uno stato democratico, oggi più di ieri”. Il Csm rimane dunque solo a governare lo scontro tra toghe e isolato nel rispondere davanti all’opinione pubblica dello scandalo che mina alla credibilità della magistratura come corpo dello stato. Sullo sfondo, infine, rimane un nodo che ha condizionato fino a oggi la vicenda: la totale assenza di relazioni scritte, documenti e atti oltre ai verbali usciti dalla procura di Milano e messi nelle mani del consigliere Piercamillo Davigo. È stato lui a dire di aver “informato chi di dovere”, ma c’è solo la sua parola. E in questo elenco figurerebbe anche il Colle, che sarebbe stato informato dell’esistenza della loggia e che a oggi non ha smentito né confermato la notizia. Nessuna interferenza - La scelta del Quirinale, infatti, è netta e viene dettata alle agenzie, il giorno prima dell’evento al Csm: è essenziale il rispetto assoluto delle regole. Ogni ulteriore intervento si configurerebbe come una indebita interferenza nelle indagini in corso. Indagini che vedono impegnate ben quattro procure. La ministra Cartabia, invece, nei giorni scorsi ha fatto sapere di aver parlato al telefono con il procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi e di aver convenuto che l’azione disciplinare spetta al suo ufficio. Un passo indietro dell’esecutivo, nel rispetto delle prerogative di autonomia e indipendenza del terzo potere dello Stato. Tutto, dell’attuale situazione, ha tratti inediti. Inusuale se non improprio è stato l’iter utilizzato dal magistrato milanese Paolo Storari, che ha consegnato i verbali della presunta loggia a un consigliere e non direttamente al vicepresidente del Csm. Altrettanto è stata anche la scelta di Davigo di comunicare solo informalmente senza lasciare traccia scritta di nulla di ciò che ha fatto con i documenti ricevuti. Entrambi i comportamenti potrebbero determinare conseguenze penali. Improprio è anche citare l’unico precedente lontanamente paragonabile e risalente a quarant’anni fa, con riguardo a un’altra loggia segreta. Quando i giudici istruttori di Milano Gherardo Colombo e Giuliano Turone trovano l’elenco dei nomi degli affiliati alla P2 si chiedono se l’affare non dovesse riguardare anche gli altri poteri dello stato e non solo la magistratura. Decidono così di informare il presidente della Repubblica, che è non solo il garante della Costituzione ma anche il presidente del Csm. “Non è una cosa semplice per due giudici istruttori parlare col capo dello stato”, ricorda Colombo nel suo libro Il vizio della memoria, così cercano un contatto per farsi ricevere. Scoprono però che il presidente Sandro Pertini non è in Italia ma in viaggio in Sudamerica, quindi decidono di rivolgersi al vertice dell’esecutivo, Arnaldo Forlani. I magistrati predispongono una lettera ufficiale, la fanno recapitare al presidente del Consiglio e lo incontrano a palazzo Chigi per due volte, il 25 e il 30 marzo 1981. Non comunicano alcuna informazione coperta da segreto istruttorio ma allertano Forlani dell’esistenza di un’organizzazione segreta in grado di interferire sulle decisioni delle istituzioni pubbliche. Nessun passaggio di informazioni da più bocche, nessuna informalità che trasforma tutto in chiacchiericcio e lega le mani agli attori istituzionali. Nel silenzio del ministero della Giustizia e del Colle, si può solo rileggere la Costituzione, che all’articolo 31 fissa le modalità per lo scioglimento del Csm. È prerogativa del capo dello stato, “qualora ne sia impossibile il funzionamento”, sentiti i presidenti delle camere e il Comitato di presidenza. Nessun inquilino del Quirinale è mai arrivato a tanto e una lettura formalistica considera questo non un atto politico, ma solo tecnico: il funzionamento è impossibile solo se manca il numero legale di consiglieri. È incerto allora come (e quando) si sbloccherà questo stallo all’americana tra organi istituzionali: tutti immobili e silenziosi, in un’attesa che è impossibile sapere a cosa preluda. Cortocircuito nelle procure: ora tutti indagano su tutti e c’è anche chi indaga su sé stesso di Giulia Merlo Il Domani, 7 maggio 2021 Indagini avviate a Milano, Brescia, Roma e Perugia. E a Milano l’inchiesta per fuga di notizie denunciata dal Fatto dopo aver ricevuto i verbali di Amara era stata assegnata al pm Storari, che quindi ha indagato su sé stesso. Per circa quattro mesi Storari è titolare del fascicolo, di cui si spoglia solo l’8 aprile di quest’anno. La notizia dell’esistenza della presunta loggia segreta denominata “Ungheria”, composta da magistrati, alti funzionari di stato e avvocati e nata per condizionare inchieste giudiziarie e nomine nasce dalla rivelazione del segreto d’ufficio compiuta da un magistrato milanese, Paolo Storari. È lui, che ha sostenuto di aver agito in “autotutela” perché preoccupato dall’”inerzia” della procura di Milano, a consegnare al togato del Consiglio superiore della magistratura Piercamillo Davigo i verbali segreti resi dall’ex legale di Eni, Piero Amara, in cui racconta della loggia. Questa consegna, avvenuta tra il marzo e l’aprile 2020 nella casa milanese di Davigo, ha generato un inestricabile cortocircuito tra procure. Da che nessun fascicolo era stato aperto, ora le indagini sono parcellizzate in quattro diversi uffici, che ora indagano gli uni sugli altri. Milano e Perugia - A dare la dimensione dell’amalgama è il caso dello stesso Storari. Dopo che ha consegnato i verbali a Davigo, il togato comunica informalmente il contenuto ad alcuni membri del Csm: sicuramente al comitato di presidenza composto dal vicepresidente David Ermini, il pg di Cassazione Giovanni Salvi e il primo presidente di Cassazione Pietro Curzio, ma anche al laico Fulvio Gigliotti e forse anche ai togati Giuseppe Cascini e Giuseppe Marra. Tuttavia pubblicamente nulla succede e Davigo va in pensione e decade da consigliere nell’ottobre 2020. Poco dopo, al Fatto Quotidiano e a Repubblica vengono inviati in forma anonima dei plichi contenenti i verbali segreti, i giornalisti però non li pubblicano e denunciano il fatto rispettivamente alle procure di Milano e La procura di Roma indaga e, ad aprile 2021, scopre che la mittente sarebbe la ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, indagata per calunnia. A fine 2020 anche Milano però apre un fascicolo a partire dalla denuncia del giornalista del Fatto, che il procuratore capo di Milano Francesco Greco assegna allo stesso Storari. Del resto, i verbali oggetto della fuga di notizie sono gli stessi che contengono le dichiarazioni dell’ex legalde di Eni, Piero Amara, raccolte da lui raccolti insieme all’aggiunta Laura Pedio. Storari, dunque, si trova a indagare su se stesso: i verbali arrivati al Fatto, infatti, sarebbero gli stessi che lui ha consegnato a Davigo e dunque l’origine della fuga di notizie sarebbe lui. Storari potrebbe non aver subito capito: infatti inizia a indagare e dispone addirittura una consulenza per stabilire la provenienza delle carte. Per circa quattro mesi Storari è titolare del fascicolo sulla fuga di notizie, di cui si spoglia solo l’8 aprile di quest’anno, quando scopre che nell’indagine aperta a Roma è coinvolta l’ex segretaria di Davigo. Solo allora Storari riferisce a Greco per la prima volta di aver consegnato le carte al togato del Csm e si chiama fuori dall’indagine. Ma non è l’unico fascicolo che sarebbe tuttora aperto a Milano. Nonostante l’inerzia denunciata da Storari, a inizio 2020 la procura meneghina si coordina con quella di Perugia sui verbali di Amara, che contengono tra i possibili indagati nomi di magistrati romani e dunque la competenza è degli uffici umbri. Il 9 maggio 2020 la procura di Milano iscrive nel registro delle notizie di reato lo stesso Piero Amara, il suo collaboratore Alessandro Ferraro e l’avvocato Giuseppe Calafiore, con l’ipotesi di reato di associazione segreta. Un fascicolo gemello è aperto a Perugia, a cui nel gennaio 2021 Milano trasmette ufficialmente i verbali di Amara. Anche qui l’ipotesi accusatoria è di associazione segreta e gli indagati dovrebbero essere dei magistrati romani di cui ancora non si conoscono i nomi. Sempre a Perugia, inoltre, è in corso il processo a Luca Palamara (a sua volta tirato in ballo da Amara, che ne sarebbe il corruttore), che però ormai sembra essere diventato solo un filone laterale nella storia della presunta loggia. Roma e Brescia - A Roma, invece, sono stati aperti due fascicoli. Il primo è quello nato dalla denuncia della giornalista di Repubblica, Liana Milella, dopo aver ricevuto i verbali anonimi. È stata lei a portare la procura a individuare la ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, oggi indagata per calunnia. La funzionaria inizialmente si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Il suo avvocato Alessia Angelini ha chiesto al tribunale del Riesame il dissequestro dei documenti sequestrati (una scelta difensiva che permette di conoscere le prove in mano all’accusa) e ha dichiarato che “manca il presupposto per la configurabilità del reato calunnia”, ovvero la coscienza di accusare qualcuno di un reato, sapendo che non lo ha commesso. Poi ha aggiunto che la sua cliente “è intenzionata a collaborare alle indagini”. Segno che forse la storia è meno lineare di come apparsa fino ad ora. Inoltre è in corso uno scontro tra Roma e Brescia. Entrambe le procure hanno aperto un fascicolo con la stessa ipotesi: rivelazione di segreto d’ufficio da parte di Storari. A determinare la competenza per l’indagine, è il luogo in cui il reato si sarebbe consumato. Se i verbali sono stati consegnati a Davigo a Roma, allora l’indagine spetta alla procura di Michele Prestipino. Se invece la consegna è avvenuta a Milano, come ha detto Davigo nei giorni scorsi, la competenza è di Brescia in quanto ufficio titolare delle indagini sui magistrati milanesi. A dirimere la questione sarà probabilmente l’interrogatorio di Storari, previsto per sabato davanti ai magistrati della capitale. Per ora, dunque, l’unica certezza in tutti questi procedimenti aperti è la costituzione di parte offesa da parte del Csm. La richiesta è stata presentata formalmente durante l’ultimo plenum da parte dei togati di Magistratura indipendente e il comitato di presidenza ha deciso di accoglierla. Rieducare, retribuire, risarcire. Le tre facce della giustizia di Guido Viale Il Manifesto, 7 maggio 2021 Gli arresti di Parigi. L’arresto di alcuni latitanti italiani rifugiati in Francia da decenni e protetti dal “lodo Mitterrand” è sì un’applicazione “rigorosa” della legge, attribuendo però alla pena una finalità “retributiva”, cioè “afflittiva”, del tutto estranea alla Costituzione, che le attribuisce solo finalità rieducative (quelle che, come ha scritto Sofri, la Francia aveva ampiamente raggiunto). L’arresto di alcuni latitanti italiani rifugiati in Francia da decenni e protetti dal “lodo Mitterrand” è sì un’applicazione “rigorosa” della legge, attribuendo però alla pena una finalità “retributiva”, cioè “afflittiva”, del tutto estranea alla Costituzione, che le attribuisce solo finalità rieducative (quelle che, come ha scritto Sofri, la Francia aveva ampiamente raggiunto). È stato così aggiunto un miserabile tassello alla versione che da decenni connota gli eventi di cinque decenni fa come “Anni di piombo”, dominati dal “terrorismo rosso”: cancellando sotto questa dizione sia la “Strategia della tensione” e le sue stragi sia le lotte e le conquiste di studenti, operai e popolo contro cui quella strategia era diretta. Una guerra - ancorché “non ortodossa”, come era stata definita dai suoi promotori - che lo Stato italiano ha condotto contro movimenti di massa, colpendo nel mucchio con sequele di stragi, mentre le formazioni armate, nate ai margini di quei movimenti, decidevano di “contrattaccare” con agguati contro uomini simbolo. Crimini da entrambe le parti: superfluo, ormai, fare comparazioni. Ma nella strategia della tensione sono stati coinvolti molti corpi dello Stato, politici e istituzionali; e tutti ne hanno a loro modo approfittato, trovando poi conveniente non chiudere più quella fase, come sarebbe stato possibile e opportuno. Oggi Draghi e Cartabia non fanno che intascare la loro quota della rendita politica che quella non-decisione ha generato. E la “pena retributiva” sostituisce, per molti parenti delle vittime di un tempo, quel “risarcimento” che lo Stato avrebbe dovuto offrir loro con un processo di “riconciliazione”. Condivido il dolore dei parenti delle vittime (tutte) del terrorismo, a partire dalla moglie e dalle figlie di Pinelli, vittime del terrorismo di Stato; e senza escludere la vedova e i figli del commissario Calabresi: so che cosa significa crescere senza un padre, anche se il mio è morto in circostanze meno drammatiche. Ma avendo seguito giorno per giorno gli 8 (anzi 10) “gradi di giudizio” del processo per l’omicidio del commissario, ritengo impensabile che se ne potesse ricavare il minimo indizio di colpevolezza degli imputati, Marino compreso; come aveva giustamente concluso la sentenza assolutoria del secondo processo di appello. Mentre capisco benissimo come possano essersi convinti del contrario tutti coloro che ne sono stati informati solo dai media (solo il manifesto, allora come oggi, ha trattato con spirito critico quella vicenda). La maggior parte dei giudici togati si è dimostrata determinata a priori a quella condanna, accettando che il processo, più che alla ricerca dei veri colpevoli, fosse indirizzato alla punizione della campagna con cui Lotta Continua aveva costretto a portarla in tribunale il commissario, che poi se ne sarebbe ritirato con una ricusazione. D’altronde nessuno tra magistrati, giornalisti o familiari aveva sollevato obiezioni anche quando, per dimostrarne la natura criminosa, era stato sostenuto che a uccidere Rostagno, per farlo tacere, era stata una rediviva Lotta Continua. Sofri e Bompressi sono stati condannati in base a ricostruzioni false di Marino, contraddette dai fatti e da tutti i testimoni. Per Pietrostefani, invece, nessuna ricostruzione di eventi specifici per accusarlo di aver ordinato l’omicidio: una condanna a 22 anni solo perché membro di un “comitato esecutivo” che avrebbe deciso l’omicidio: un anno prima. Ma Marino aveva indicato anche altri membri di quel comitato: Rostagno, Boato, Morini, Brogi e altri; l’accusa li ha subito dimenticati, consapevole, dopo l’iniziale entusiasmo, della debolezza, basata solo su un “pentito” dalle molteplici versioni. Così è successo ad altre sue accuse assurde contro Paolo Liguori, Luigi Bobbio o Luigi Noia. Avevo aggiunto allora, con una raccomandata alla Procura di Milano, che di quel comitato avevo fatto parte anche io, che ero stato, con Sofri e Pietrostefani, al vertice di quella organizzazione per 7 anni. Nessuna reazione. Per questo ritengo quel processo una delle più grandi patacche della storia giudiziaria italiana. Processi basati solo su pentiti, sia veri che falsi, ben giustificano i dubbi di Mitterrand sul modo in cui era gestita la giustizia in Italia. Oggi comunque si sa che nella Questura della defenestrazione di Pinelli erano presenti ben 13 funzionari dell’Ufficio Affari Riservati mandati da Roma per costruire, con tutta evidenza, la montatura contro Valpreda. Una presenza che la Procura di Milano aveva evitato di scoprire e di cui il commissario Calabresi non ha mai fatto parola. Ma è sensato pensare che nel corso del processo che lo vedeva imputato e non più querelante, Calabresi avrebbe potuto parlarne. Non ne ha avuto il tempo: la sua uccisione lo ha trasformato in un irreprensibile servitore dello Stato, esonerandolo post mortem da ogni responsabilità con la grottesca sentenza sul “malore attivo dell’anarchico Pinelli”. Detenzione domiciliare per chi è affetto da patologie a rischio di complicanza Covid di Lucia Izzo studiocataldi.it, 7 maggio 2021 L’Ufficio di Sorveglianza di Foggia concede la detenzione domiciliare provvisoria al reo affetto da patologie a rischio di complicanza per infezione da Covid-19. Nel corso dell’ultimo anno, a causa dei rischi legati alla diffusione del Covid-19 anche in ambienti particolarmente vulnerabili al contagio come quelli delle carceri, in diverse occasioni i Tribunali e gli Uffici di sorveglianza si sono trovati a dettare provvedimenti che, tra l’altro, prevedono la detenzione domiciliare in sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere per coloro che presentano una serie di patologie o appaiono in condizioni di fragilità tali da porli più a rischio di altri. Tra i più recenti, particolarmente interessante, soprattutto alla luce della terza ondata pandemica che ha travolto il paese, appare l’ordinanza n. 941/2021 (sotto allegata) emessa in data 2 aprile 2021 dell’Ufficio di Sorveglianza di Foggia, a seguito dell’istanza presentata per ragioni sanitarie da parte dell’avv. Antonio Andrisano del Foro di Brindisi, difensore del detenuto assieme all’avv. Giulio Treggiari del Foro di Foggia. L’Ufficio ha deciso di concedere la detenzione domiciliare provvisoria per la durata di sei mesi, proprio in funzione dell’emergenza sanitaria in corso, a un cinquantenne recluso presso la Casa Circondariale di Foggia in espiazione della pena per una serie di reati (truffa ed altri reati soprattutto contro il patrimonio, tutti di natura non ostativa). La decisione giunge a seguito di una puntuale analisi del magistrato, a partire dalla valutazione del certificato penale e dei carichi pendenti, con contestuale valorizzazione di una serie di elementi e dell’insussistenza di cause ostative: dall’intero contesto informativo non emerge una personalità del reo connotata da un livello di pericolosità sociale non contenibile mediante una misura domiciliare e anche dalla relazione comportamentale della Casa Circondarle emergono linearità di condotta e assenza di criticità nello svolgimento della detenzione. Condizioni di salute e grave rischio di contagio - Rilevanti per la decisione sono le condizioni di salute dell’uomo, affetto da “broncopatia cronica asmatiforme in soggetto allergico a polvere e polline”. Per il sanitario dell’I.P. “trattasi di patologia a rischio di complicanza per infezione da Covid-19 come da nota del D.A.P. del 19/3/2020”. Tale situazione, si legge nel provvedimento, “rende opportuna l’applicazione della detenzione domiciliare ex art. 47-ter, commi 1-ter e 1-quater o.p. e 147 n. 2 c.p. in quanto il prevenuto si trova esposto a grave rischio per la salute in caso di eventuale contrazione di infezione da Covid-19”. La decisione dell’Ufficio foggiano si inserisce in un contesto in cui sono state adottate misure analoghe proprio in virtù dell’attuale situazione di rischio determinata dalla diffusione del virus Covid-19 in ambienti come quelli carcerari dove, oltre a essere ben note le criticità in tema di sovraffollamento, è stato necessario predisporre maggiori distanze tra detenuti e familiari. In realtà, alcune categorie di persone, tra cui gli anziani e coloro che risultano affetti da alcune patologie (come quelle cardiache, respiratorie o croniche rilevanti) sono più a rischio di altre, sicché si è ritenuta l’incompatibilità con il regime detentivo in virtù dell’elevato rischio di contagio, da ciò consentendo di presentare istanza di detenzione domiciliare ex art. 47 ter O.P. unitamente all’art. 147 del codice penale. “La droga favorisce la creatività”, così il giudice salva il rapper dal carcere di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 7 maggio 2021 È un musicista e frequenta contesti e “ambienti artistici” nei quali vi è “un uso piuttosto disinvolto delle sostanze stupefacenti, soprattutto quelle leggere ritenute idonee a favorire la creatività artistica”. La musica, e di conseguenza la necessità di sviluppare il proprio lato creativo, salva così un giovane rapper dal carcere. Lui si chiama Sofian Naich, ma nel circuito musicale è noto come “Kaprio”. È accusato di aver preso parte, lo scorso 26 ottobre, all’assalto ai negozi del centro di Torino: durante una manifestazione contro le misure anti-Covid, vennero devastate e saccheggiate le vetrine degli store di lusso. Quando il 9 marzo la squadra mobile gli ha notificato il fermo per le vetrine spaccate, nella sua abitazione gli agenti hanno scoperto 134 volte la quantità massima consentita di stupefacente. Per la precisione, 2.005 dosi medie singole di hashish e 678 di marijuana. Ovvero, “221,84 grammi di marijuana, in tre sacchetti di cellophane trasparente e sei bustine nere” si legge negli atti del procedimento. E sul tavolino in salotto “un bilancino di precisione, una busta trasparente con dentro altre bustine con chiusura ermetica, altri 291 grammi di hashish in due panetti e 16 bustine di cellophane nere”. E così “Kaprio”, difeso dagli avvocati Fulvio Violo e Alice Abena, è finito davanti al Tribunale di Torino per essere giudicato per direttissima. Il rapper ha ammesso le proprie responsabilità, spiegando che lo stupefacente era per uso personale, ma che qualche volta lo ha offerto agli amici, artisti anche loro, che andavano a trovarlo: “Non l’ho mai venduto”, ha spiegato. Inoltre, ha raccontato che aveva acquistato la droga il giorno precedente a Porta Palazzo: “Una scorta prima del lockdown”. Il giudice gli ha creduto e a quel punto la musica e la creatività si sono trasformate per lui in un’ancora di salvezza. “Naich risulta comporre musica rap con il nome d’arte di “Kaprio” - scrive il Tribunale nelle motivazioni - ed è noto come in certi contesti e ambienti artistici vi sia un uso piuttosto disinvolto delle sostanze stupefacenti, soprattutto quelle leggere ritenute idonee a favorire la creatività artistica. Deve dunque ritenersi plausibile che il giovane detenesse lo stupefacente tanto per uso personale quanto per le cessioni finalizzate a un consumo di gruppo”. A suo favore ha giocato anche il fatto che in casa non ci fosse del denaro. Il giudice ha quindi ritenuto di trovarsi di fronte a un “quinto comma”, che si applica per l’uso personale e la modesta entità. E così la pena si è fatta lieve: 10 mesi di reclusione, doppi benefici di legge (sospensione condizionale e non menzione della condanna) e immediata liberazione. “Si tratta di detenzione a fine di cessione di una sola parte, verosimilmente a titolo gratuito, comunque non a fine di lucro”, sottolinea il Tribunale nel verdetto. Contro la sentenza, il pubblico ministero Paolo Scafi ha presentato appello. Il reato di maltrattamenti non è escluso dall’assoluzione per violenza sessuale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2021 Ciò che non perde rilevanza è lo stato di timore e di annichilimento psicologico determinato dalle vessazioni subite o prospettate. Non è illogico per la Cassazione che il coniuge venga assolto dal reato di violenza sessuale e condannato per quello di maltrattamenti ai danni dell’altro coniuge sulle cui dichiarazioni poggiavano entrambe le imputazioni. La Corte con la sentenza n. 17359/2021 respinge infatti il ricorso che pretendeva un inevitabile effetto domino dell’assoluzione sulla credibilità della parte offesa per il reato residuo. L’esclusione del reato di stupro si fonda obiettivamente sull’asserita capacità di autodeterminazione della moglie. Autodeterminazione che può essere affermata come esistente solo conoscendo tutte le valutazioni di merito fatte dal giudice della cognizione e sol o in parte riportate dalla sentenza di legittimità. La Cassazione riporta il ragionamento del giudice di merito che ha ravvisato come libera scelta al congiungimento carnale quella operata dalla moglie al fine di evitare conseguenti episodi di maltrattamento. Anzi specifica la Cassazione che la donna si sarebbe prestata a quello che lei aveva però denunciato come stupro per l’esplicito fine di non venire picchiata. Ma proprio dall’avvenuto accertamento di merito di tale circostanza che aveva determinato il consenso al rapporto sessuale la Cassazione afferma che non si può argomentare come priva di fondamento probatorio l’accusa e la condanna per i maltrattamenti. Anzi da tale circostanza - che ha determinato il consenso della donna - risulta pienamente provato lo stato di soggezione fisica e soprattutto psichica derivante dai maltrattamenti del marito. La difesa del ricorrente non esclude che la condanna per i reati contestati possa poggiare esclusivamente sulle dichiarazioni della parte offesa senza bisogno di riscontri esterni, ma pretende di vedere travolta la credibilità della vittima dal fatto che sia intervenuta assoluzione per uno dei delitti di cui ha accusato l’imputato. Nel caso concreto la Cassazione per smentire la prospettazione difensiva sottolinea che la credibilità della vittima sia rafforzata anche dalla sua mancata costituzione come parte civile nel processo in quanto ciò prova l’assenza di qualsiasi finalità lucrativa su una così triste vicenda. Marche. Il Garante dei detenuti: necessaria una ricognizione “Covid” nelle carceri dire.it, 7 maggio 2021 Riprende l’attività di monitoraggio messa in atto periodicamente dal Garante regionale dei diritti, Giancarlo Giulianelli, per fare il punto sulla situazione degli istituti penitenziari marchigiani. In prima istanza Giulianelli ha chiesto informazioni precise, sia alla direzione del carcere che al responsabile della polizia penitenziaria, su quanto accaduto nei giorni scorsi a Marino del Tronto di Ascoli Piceno, dove l’azione di protesta di alcuni detenuti è stata contenuta proprio dall’intervento degli agenti in servizio. Oltre ai consueti colloqui con gli stessi detenuti, che per il momento saranno ancora effettuati da remoto, il Garante ha intenzione di attivare alcuni incontri con i rappresentanti dei diversi settori che operano all’interno degli istituti penitenziari. “Sarà necessaria una ricognizione generale sul versante sanitario- sottolinea Giulianelli- per verificare la situazione determinata dalla pandemia, che già sappiano aver creato problemi presso la struttura di Villa Fastiggi a Pesaro, e per avere una fotografia più precisa sulle misure di contenimento e prevenzione messe in atto, non ultime quelle collegate alle vaccinazioni”. Da parte dell’Autorità di garanzia è inoltre intenzione porre in atto un’interlocuzione con la polizia penitenziaria, che in diverse circostanze ha evidenziato criticità significative, nonché con le realtà di volontariato che hanno un ruolo importante all’interno degli istituti. Emila Romagna. “Audizione delle associazioni di volontariato che operano nelle carceri” gruppopdemiliaromagna.it, 7 maggio 2021 Roberta Mori (Pd): “Ascoltiamo le associazioni di volontari che operano nelle carceri per valorizzare impegno, progettualità e umanità anche al tempo della pandemia”. La relazione annuale delle attività del Garante regionale per i detenuti Marcello Marighelli, svolta in Commissione Parità e Diritti delle persone, è sempre un’occasione preziosa per verificare le condizioni di vita, la tutela dei diritti fondamentali, le criticità che riguardano tutti coloro che sono privati della libertà personale. “L’emergenza della pandemia si è sommata alle criticità già presenti nelle carceri e ha aggravato le condizioni di isolamento e disagio dei detenuti, rendendo ancora più difficile la funzione di rieducazione della pena che la Costituzione ci consegna. - sottolinea la consigliera regionale Pd Roberta Mori, intervenuta in commissione, ricordando come - le stesse drammatiche rivolte verificatesi in alcuni istituti e in particolare a Modena a marzo 2020, hanno evidenziato un’inadeguatezza strutturale e organizzativa che riforme e investimenti nazionali devono concorrere a superare al più presto”. “Grazie ad uno sforzo enorme dell’Amministrazione penitenziaria e della Sanità regionale e allo straordinario impegno di accudimento del volontariato, il Garante ci rappresenta oggi una situazione gestibile, pur nella complessità di affollamenti e carenza di case protette di accoglienza per le madri detenute con i loro bambini. - commenta sinteticamente la consigliera - Di grande importanza è il progresso della campagna vaccinale con il completamento del primo ciclo di vaccinazioni in alcuni istituti e somministrazioni a buon punto anche dove, come a Reggio Emilia, si sono evidenziati recenti focolai di Covid ora sotto controllo”. “Il Garante ha accolto con grande favore la proposta che abbiamo avanzato come Gruppo Pd di sentire in audizione le associazioni di volontariato e i progetti di integrazione in corso, coinvolgendo anche le consigliere e i consiglieri regionali in visite nelle carceri emiliano-romagnole appena la situazione sanitaria lo consentirà, per conoscere e tenere alta l’attenzione su un mondo che è parte integrante del nostro sistema democratico di convivenza” rimarca in conclusione. Torino. Detenuto si tolse la vita in cella: tre agenti penitenziari alla sbarra di Sarah Martinenghi La Repubblica, 7 maggio 2021 Al via l’udienza preliminare: il Garante nazionale dei detenuti si costituisce parte civile. Era il 10 novembre 2019, mezza Italia era incollata agli schermi tv per vedere la partita Juventus-Milan, e lo erano anche tre agenti della polizia penitenziaria che invece avrebbero dovuto sorvegliare cosa stava accadendo nella sezione Sestante del carcere delle Vallette. In una cella, alle 21.05, il detenuto Roberto Del Gaudio si toglieva i pantaloni del pigiama e li utilizzava per togliersi la vita. Un paio di pantaloni lunghi che non avrebbe nemmeno dovuto avere dato che l’uomo era considerato ad alto rischio di suicidio: era infatti rinchiuso in quella sezione dedicata a una più attenta sorveglianza, per via delle sue condizioni mentali, dopo essere stato arrestato per aver ucciso la moglie Brigida De Maio nell’appartamento in cui abitavano, in corso Orbassano 255. Le immagini delle telecamere di videosorveglianza interne al carcere avevano mostrato il lungo tempo, almeno 20 minuti, impiegato dal detenuto per togliersi il pigiama, annodarlo alla finestra e togliersi la vita, inchiodando così le tre guardie penitenziarie impegnate ad osservare il gol di Dybala anziché i detenuti. Ed è con l’accusa di omicidio colposo che ieri per loro è iniziata l’udienza preliminare. Per uno dei tre c’è anche l’ipotesi che abbia falsificato i verbali di quella notte per occultare le responsabilità e nascondere quanto effettivamente accaduto. Gli imputati sono difesi dagli avvocati Bussolino e Feno. Il garante nazionale dei detenuti si è costituto parte civile nel procedimento patrocinato dall’avvocato Davide Mosso, così come i familiari del detenuto: la madre e il fratello di Del Gaudio sono assistiti dall’avvocato Riccardo Magarelli che ha chiesto e ottenuto che venisse citato il Ministero della Giustizia come responsabile civile. Ed è per questo che il giudice ha rinviato l’udienza al 30 giugno. “Si auspica, con l’inizio del processo di poter accertare quanto accaduto effettivamente quella notte e di poter sollevare il velo di omertà che sin dall’immediatezza è calato sulla vicenda, celando le condizioni che hanno consentito l’atto suicidario di Del Gaudio”. “Agli agenti è contestato di non aver vigilato come di dovere - ha spiegato l’avvocato Mosso - e di non aver quindi impedito che avvenisse il suicidio. Una consulenza disposta dalla procura ha peraltro concluso anche nel senso che non corrisponderebbe al vero quanto attestato da uno degli imputati e cioè che il mancato controllo sarebbe dipeso dalla rottura accidentale del video che monitorava la stanza di Del Gaudio. Si sarebbe invece trattato di una rottura successiva al suicidio montata ad arte per evitare ogni responsabilità”. Airola (Bn). Diritto allo studio per i ragazzi dell’Ipm, l’intervento della direttrice Adanti ilcaudino.it, 7 maggio 2021 Ringrazio il Garante dei detenuti per la visita in istituto. Ma al contempo non posso non esimermi dal ringraziare il Preside del Cipia di Benevento dottor Gaita e tutto il personale docente per la preziosa collaborazione che da sempre offre all’istituto airolese. Lo scrive al nostro giornale il direttore dell’istituto penale minore di Airola Marianna Adanti, rispetto alla visita di Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della regione Campania. Voglio tuttavia precisare, continua la dottoressa Adanti, che il diritto allo studio ha risentito fortemente il peso di una pandemia che ha colpito il mondo intero. Ivi compresi coloro che risultano essere studenti in qualità di “liberi cittadini” nella società civile esterna. Questa Direzione ha subito altresì le ulteriori restrizioni derivanti dalle specifiche ordinanze del Comune di Airola necessarie per arginare i molteplici contagi da Sars Cov19 sul territorio. E, che hanno inevitabilmente impedito la didattica in presenza all’interno del penitenziario. Ritenere violato il diritto allo studio attraverso la mancata attivazione della didattica a distanza risulta essere non soltanto fuorviante per l’opinione pubblica, ma riduttiva rispetto a chi all’interno dell’istituto dedica impegno, dedizione e professionalità. Opportune e necessarie precisazioni, incalza la direttrice Adanti, ben potevano essere chiarite nella opportuna sede di Direzione. Fermo restando che attraverso il proficuo intervento del Preside e del personale docente del Cipia questa Direzione ha ricevuto in prestito molteplici computers per l’effettuazione della DaD. Pur tuttavia, soltanto grazie agli innumerevoli sforzi e sacrifici di tutto il personale dell’IPM di Airola, soltanto di recente questa Direzione è riuscita finalmente ad ottenere la installazione della rete LAN a cura dei Superiori Uffici. Trattasi di un intervento fondamentale non soltanto per garantire la didattica a distanza, ma soprattutto necessaria per la tutela della sicurezza interna rispetto a possibili eventuali violazioni che una rete non protetta avrebbe potuto determinare con conseguenti possibili effetti mediatici devastanti per l’immagine dell’Istituto. Infine, si precisa che tutti i giovani ristretti risultano essere in possesso del titolo di terza media che consente loro di poter accedere al biennio delle scuole superiori per il prossimo anno. Marianna Adanti. Reggio Calabria. I giovani con Maria Chindamo: “Cara ‘ndrangheta la storia siamo noi” di Giulia Melissari e Mario Nasone ilreggino.it, 7 maggio 2021 Con il progetto di educazione civica del Centro Comunitario Agape mettiamoci una croce sopra, dodici scuole hanno in questi mesi aiutato gli studenti a prendere coscienza della importanza della partecipazione attiva. Giovedì saremo in tanti a Limbadi davanti al cancello dell’azienda agricola dove è stata sequestrata e fatta scomparire cinque anni fa Maria Chindamo. Una donna, una imprenditrice che sta diventando sempre più una icona di quella Calabria che non vuole piegare la testa davanti ai soprusi ed alle violenze. Quest’anno saranno soprattutto i giovani i protagonisti dell’evento, accanto alla famiglia, alle associazioni alle forze dell’ordine per mandare un duplice messaggio. Alla ‘ndrangheta ed ai comitati di affare che opprimono la nostra regione per dire che non accettano che la storia della Calabria sia scritta da loro, con il sangue versato dalle loro vittime, alle istituzioni, che saranno presenti con tanti autorevoli rappresentanti, perché si impegnino ancora di più di quanto stanno già facendo in modo encomiabile per fare verità e giustizia per Maria chiediamo per i suoi due figli una solidarietà concreta prevedendo, in quanto familiari di vittima di ndrangheta, l’aiuto da parte dello stato e per questo si auspica un intervento della prefettura e della procura di Vibo. Con il progetto di educazione civica del Centro Comunitario Agape mettiamoci una croce sopra, dodici scuole hanno in questi mesi aiutato gli studenti a prendere coscienza della importanza della partecipazione attiva alla vita delle nostre comunità, iniziando dal voto come diritto e dovere di scegliere chi deve governare la Calabria, un modo per onorare la memoria di Maria Chindamo che nella sua vita non ha accettato di subire ma ha scelto, pagando un prezzo pesante, da donna libera. Per questo i colori del sit-in di domani saranno quelli della primavera, delle piante e dei fiori di quelle terre che Maria ha coltivato con amore e che in tanti si sono impegnati a proteggere. Alessandria. La cappella del carcere scrigno d’arte dei detenuti di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 7 maggio 2021 Nel carcere di Alessandria i detenuti della sezione Collaboratori di giustizia durante il corso di formazione professionale, a cura della Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, hanno decorato la cappella dell’Istituto penitenziario. Questa storia nasce dall’entusiasmo degli allievi e di Adamo Demetri, docente del corso di “Tecniche di decorazione e stucco” gestito dalla Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri all’interno della Casa di Reclusione San Michele di Alessandria, ente che da anni si occupa di formazione per i detenuti nelle carceri del Piemonte. Al piano terra dell’Istituto c’è una cappellina aperta al culto in cui si celebra la Messa per i reclusi che lo desiderano. Dopo alcuni lavori edili l’edificio presentava muri scrostati e “sapeva di vecchio”. “I destinatari del corso del prof. Demetri sono una decina di ristretti della sezione Collaboratori di giustizia” ci spiega padre Beppe Giunti, francescano dei minori conventuali del Convento Madonna della Guardia di Torino, teologo, formatore della cooperativa sociale “Coompany & C” che opera per reinserire i detenuti nel penitenziario alessandrino. Padre Beppe, avviate le lezioni, ogni settimana ha incontrato i collaboratori di giustizia, quei “fratelli briganti”, come san Francesco chiamava chi era caduto nelle maglie del crimine, con cui il frate ha scritto il libro “Padre nostro che sei in galera” (Edizioni Messaggero, Padova). “Sono i detenuti - alcuni non avevano mai preso un pennello in mano - che hanno proposto al docente di decorare la cappella” precisa padre Giunti “è così si è articolato il corso, concluso nei giorni scorsi con il sostegno della direzione e dell’educatrice della sezione e che si è rivelato, oltre ad un percorso professionale, un vero e proprio itinerario di fede per molti allievi”. Padre Beppe racconta che ogni settimana in cui incontrava i detenuti “restauratori” quel luogo finora anonimo via via cambiava aspetto: pareti decorate con cura, una Via Crucis, angeli, santi, una Madonna, un Crocifisso come pala d’altare, una Croce tabernacolo con foglia d’oro, quadri con rappresentazioni di brani della Scrittura. Il professore mi raccontava di come non si è mai sentito a disagio in mezzo a persone con alle spalle reati molti pesanti e che si è creato un bel clima di collaborazione. Ogni lezione per il docente finiva con una preghiera in quella cappellina che, come un miracolo stava diventando un gioiello, nonostante i corsisti non si fossero mai cimentati con l’arte sacra”. E così i detenuti si documentano, leggono la Bibbia, chiedono a padre Beppe spiegazioni e, sotto gli occhi increduli del docente, avviene quasi un miracolo. “C’è chi ha deciso di dipingere un quadro su un brano dell’Apocalisse dopo aver letto quel libro molto complicato. E poi un altro recluso si è cimentato con la rappresentazione della stazione della via Crucis in cui Gesù cade sotto il peso della Croce perché mi ha confessato “anche io ho sperimentato il peso della Croce cadendo a causa della mia colpa”. Le lezioni di decorazione diventano così lezioni di vita, attraverso l’arte i ristretti riscoprono talenti nascosti ma anche ricchezze che hanno dentro e che, attraverso disegno e pittura possono esprimere. “Dentro ogni scena rappresentata, ogni avvenimento della vita di Cristo, ogni parola c’è la loro vita cambiata, la loro nuova vita” riflette Adamo Demetri. E davvero torna alla mente l’etimologia della parola educare, che sta per tirare fuori, far emergere”. La scuola che educa, anche dietro le sbarre. Ora padre Beppe ha un obiettivo: far conoscere “questo scrigno di arte e di umanità, di speranza e di fede che certo non è la Cappella Sistina ma ha un valore inestimabile perché ci dice che, attraverso la bellezza anche in un luogo come il carcere si può riacquistare fiducia. E molti degli allievi decoratori loro sono tornati a pregare e a leggere la Bibbia. È l’esempio di come “anche per chi ha commesso delitti e reati gravi c’è sempre una seconda possibilità e di come” conclude padre Giunti “sia fondamentale l’applicazione dell’art. 27 della nostra Costituzione che recita che le pene ‘devono tendere alla rieducazione del condannato’ anche attraverso l’educazione alla bellezza”. Firenze. “Luoghi d’estate”, il carcere di Sollicciano apre il giardino Corriere Fiorentino, 7 maggio 2021 Lavori in corso per un cartellone che coinvolgerà tantissimi spazi, alcuni inediti L’assessore Sereni: “Tra le sorprese anche Castelpulci e il parcheggio di Villa Costanza”. La direttrice del carcere Tuoni: “Non dobbiamo fare notizia solo per le cose brutte”. Nella Notte Bianca di sei anni fa, il carcere di Sollicciano si fece “americano” per una sera, celebrando il testamento artistico di Johnny Cash, Folsom Prison Blues. Una serata che fiorentini liberi e detenuti condivisero nel segno della grande storia del rock. Questa estate la magia si ripeterà. Non con Johnny Cash, con un altro tipo di spettacolo. Ma la magia dell’incontro tra chi sta fuori e chi sta dentro la casa circondariale. Perché il Giardino degli Incontri di Sollicciano, mirabile opera di Giovanni Michelucci pensata proprio per una sua funzione sociale, si è offerta di far parte dei 16 luoghi dell’estate di Scandicci Open City, il cartellone di eventi. Insieme ad altri due luoghi simbolo e unici nel loro genere: la Scuola Superiore della Magistratura di Castelpulci e il parcheggio scambiatore di Villa Costanza. “Lo scorso anno, con la pandemia, abbiamo dovuto cambiare completamente approccio all’estate - spiega l’assessore alla cultura Claudia Sereni. Riuscendo a garantire un’offerta culturale ma gestendo le attività in un modo sostenibile per quanto riguarda proprio la concezione dello spazio sociale. L’esperienza ci ha insegnato a usare meglio gli spazi per questo quest’anno abbiamo pensato a una chiamata rivolta a realtà private del territorio comunale e tra le risposte positive sono arrivate queste tre sorprese: il carcere, Castelpulci con il suo portato storico legato a Dino Campagio”. Zehra Dogan, fumetti dal carcere di Andrea Voglino Il Manifesto, 7 maggio 2021 In una graphic novel “Prigione N. 5” l’odissea dell’artista, attivista e giornalista curda. Due anni, nove mesi e ventidue giorni di reclusione. Il prezzo da pagare per un Tweet sotto il regime “democratico” di Tayyip Erdogan. Ma anche l’occasione per raccontare la vita nelle galere turche. Zehra Dogan l’ha fatto nel suo Prigione N. 5, romanzo grafico edito da Becco Giallo che alza l’asticella del “graphic journalism” oltre ogni portata attraverso la sua prospettiva unica. Dogan, però, minimizza: “M’interessano tutte le tecniche artistiche e di volta in volta scelgo il mezzo più consono al momento e alle mie capacità. Ma non riesco a pensare a me stessa come a un’autrice di romanzi grafici. Ho scelto questo mezzo solo perché pensavo che attraverso di esso avrei potuto raccontare nel modo migliore la mia prigionia. Non pensavo di farne un libro”. Chapeau, dunque, ai “veri” fumettisti che per tutto il periodo della detenzione e anche dopo hanno sostenuto l’autrice oggi trentaduenne per far sì che Prigione n. 5 trovasse una casa: il Jacques Tardi di Adele Blanc-Sec e i nostri Zerocalcare e Gianluca Costantini. E chapeau a chi durante la prigionia iniziata nel 2016 tra Diyarbakir e Tarso ha continuato a scriverle usando sempre la stessa carta da lettera e lasciando intonso il retro di ogni foglio per lasciar spazio a questa lettera dal carcere di 128 pagine. Un supporto prezioso su cui Dogan ha lavorato con il poco a sua disposizione: qualche mozzicone di matita, fondi di tè o caffè, fluidi corporei, pennelli ricavati da capelli o piume d’uccello… “Materie prime e tecniche che utilizzo ancora oggi. Difficoltà, divieti, pressioni e scarsità di risorse mi hanno stimolato nella mia ricerca, influenzando inevitabilmente tutto ciò che utilizzo nel mio lavoro. Le mie creazioni continuano a prender forma dalla mia esperienza di vita”. E accanto agli attrezzi del mestiere, il formidabile flusso di coscienza condiviso con le compagne di cella. “Erano tutte sempre presenti, non solo con le rispettive esperienze, riflessioni e storie di vita, ma anche con la loro partecipazione al processo creativo vero e proprio. A volte, semplicemente facendo gruppo intorno a me e guardandomi lavorare. Altre volte, con un contributo diretto. Durante la pausa caffè settimanale, ad esempio, stendevo un panno sul pavimento perché ognuna di noi imprimesse l’impronta della sua tazza su di esso. Ne scaturivano cerchi perfetti ma anche forme più curiose che utilizzavo come base per i miei disegni”. Nel volume, l’odissea del popolo curdo è scandita da alcune date simbolo: il 1978, anno della fondazione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan. il 12 settembre 1980, giorno del colpo di stato che porta alla carcerazione, alla tortura e alla morte di centinaia di militanti e cittadini da parte della giunta militare di Evren. gli Anni ‘90, con le persecuzioni da parte di servizi segreti turchi e hezbollah. E infine, gli Anni duemila, con l’avvento di quello che Mario Draghi ha definito “un dittatore con cui però bisogna collaborare”. Parole forti, ma inutili. “Il vostro Primo ministro ci ha visto giusto. Ma quando si tratta di firmare contratti, la sua vista peggiora. Se non fosse per le sue conseguenze, questa ipocrisia farebbe sorridere. Ma il Rojava conosce il prezzo dell’indifferenza. E rispetto alla condizione femminile non basta deplorare la fine della “Convenzione di Istanbul”, è necessario intraprendere passi concreti perché la Turchia sia sanzionata. Quindi, come dice la canzone “parole, parole…”. Se per l’Europa la questione curda resta un clamoroso rimosso, per la sceneggiatrice e disegnatrice curda la ferita è rimasta aperta anche dopo il suo rilascio, avvenuto nel febbraio 2019. L’inizio di un’esistenza itinerante densa di opportunità artistiche, politiche e mediatiche che l’ha portata a Londra, in cui però la distanza da casa si fa sentire. “Mi tengo in contatto con la mia famiglia, gli amici, i compagni di carcere rilasciati ma anche quelli ancora dietro le sbarre”, sottolinea Dogan. A volte, addirittura arrivando a rimpiangere il luogo che dà il titolo al libro. “Sogno spesso di ritrovarmi di nuovo in prigione. Ma quando mi sveglio, a colpirmi è la nostalgia per i rari momenti di serenità con i miei amici in carcere. Non è strano sentire la mancanza di un luogo tanto terrificante?”. Nel frattempo, tutto si tiene: la testimonianza, la militanza, l’arte. E per fortuna, anche il fumetto. “Tra il 2015 e il 2016, mentre seguivo gli abusi turchi nelle città curde come giornalista, avevo iniziato un progetto a fumetti che precede Prigione N° 5. Prima del mio arresto, avevo inviato diversi disegni a un amico, ma in prigione il lavoro era rimasto in sospeso. Ora ho trovato la documentazione e le testimonianze che mi mancavano per completarlo, e intendo farne uno dei miei prossimi impegni”. Il suicidio assistito apre un altro scontro nella maggioranza di Serena Riformato Il Domani, 7 maggio 2021 Ieri, in una seduta congiunta delle commissioni Giustizia e Affari sociali alla Camera, il centrodestra ha bloccato la presentazione del testo base sul fine vita perché i due relatori, Alfredo Bazoli del Pd e Nicola Provenza del M5S, sono solo espressione della precedente maggioranza giallorossa. L’opposizione al provvedimento, per ora, sarebbe quindi sul metodo e non sul merito. Intanto il 20 aprile i rappresentanti dell’Associazione Luca Coscioni hanno depositato in Cassazione un quesito referendario sulla depenalizzazione dell’eutanasia. La proposta di legge sul suicidio assistito apre un nuovo fronte di scontro in parlamento. Ieri, in una seduta congiunta delle commissioni Giustizia e Affari sociali alla Camera, il centrodestra ha bloccato la presentazione del testo base sul fine vita perché i due relatori, Alfredo Bazoli del Partito democratico e Nicola Provenza del Movimento 5 stelle, sono solo espressione della precedente maggioranza giallorossa. Un copione che si è ripetuto identico nei giorni passati per l’istituzione della commissione d’inchiesta sulla magistratura. “Scriveremo al presidente della Camera Fico affinché spieghi, a chi fosse sfuggito, che l’attuale maggioranza è composta anche dalla Lega e da Forza Italia”, dice Roberto Turri, capogruppo della Lega in commissione Giustizia. L’opposizione al provvedimento, per ora, sarebbe quindi sul metodo e non sul merito. Dall’altra parte, il relatore del Pd, Bazoli, apre alla condivisione e sottolinea che il testo è solo “un’ipotesi di partenza, senza la pretesa di essere conclusivo”. Sul percorso della legge, però, pesano già oltre due anni e mezzo di ritardo del legislatore rispetto alla prima sollecitazione della Corte costituzionale. Nell’ottobre 2018, la Consulta, chiamata a decidere sul caso Dj Fabo-Cappato, aveva lasciato alle camere un anno di tempo per compensare il vuoto legislativo sul tema dell’aiuto al suicidio. Scaduto il termine senza che il legislatore fosse intervenuto - all’epoca, la maggioranza Lega-Movimento 5 stelle - a novembre 2019, la Corte costituzionale, con una sentenza storica, ha stabilito che l’aiuto al suicidio non è punibile, dal punto di vista penale, in presenza di quattro condizioni: il trattamento deve riguardare una persona tenuta in vita “da trattamenti di sostegno vitale” (per esempio, l’idratazione e l’alimentazione artificiale), “affetta da una patologia irreversibile”, “fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche”, ma che sia ancora “pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Il testo base presentato da Partito democratico e Movimento 5 stelle ripete - con la stessa terminologia - le indicazioni della Consulta, né più né meno, restringendo solo a queste circostanze i casi in cui l’aiuto al suicidio verrebbe depenalizzato. Nella proposta, la procedura viene definita “morte medicalmente assistita”. In più, si specifica, sempre nel solco tracciato dalla Consulta, il paziente deve già essere assistito “dalla rete di cure palliative” o averle rifiutate. In altri termini, al malato terminale sarà prima richiesto di valutare la sedazione palliativa continua profonda - già oggi legale - che lo porterebbe a uno stato di incoscienza perenne, ma non alla morte. La proposta di legge provvede a indicare la procedura che le Asl o gli ospedali dovrebbero seguire. Il punto è ancora oggi il problema principale anche dopo la decisione dalla Corte costituzionale, che infatti concludeva la propria sentenza sollecitando una “compiuta disciplina da parte del legislatore”. La domanda di suicidio assistito di un paziente verrebbe valutata da un Comitato per l’etica nella clinica competente dal punto di vista territoriale. Questo organismo sarebbe multidisciplinare, composto da “professionisti con competenze cliniche, psicologiche, sociali e bioetiche”. Un altro aspetto importante: se dovesse essere approvata, la legge sarebbe anche retroattiva e renderebbe non più punibile chiunque sia stato condannato, anche con sentenza passata in giudicato, per aver aiutato a morire un paziente che presentasse le condizioni delimitate dal provvedimento (e dalla Consulta). Non è eutanasia - Il suicidio assistito o “morte medicalmente assistita” non è equivalente all’eutanasia. Nel primo caso, infatti, il paziente avrebbe solo la possibilità di auto-somministrarsi il farmaco letale. Nel secondo, invece, l’intervento di accompagnamento alla morte avverrebbe per mano di terzi. La differenza è enorme dal punto di vista giuridico, e non solo. Infatti, il 20 aprile i rappresentanti dell’Associazione Luca Coscioni - Marco Cappato, Mina Welby e Filomena Gallo - hanno depositato in Cassazione un quesito referendario sulla depenalizzazione dell’eutanasia in cui si chiede la parziale abrogazione dell’articolo 579 del Codice penale sull’”omicidio del consenziente”. Secondo Cappato, se sul fine vita il “parlamento dovesse limitarsi a fare una legge per ripetere quello che ha già stabilito la Corte costituzionale, sarebbe un’occasione persa” per affrontare in maniera davvero efficace il tema. Suicidio assistito, relatore (medico) sostituito e testo base in stand-by di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 maggio 2021 Camera dei deputati. Caos nelle commissioni Giustizia e Affari sociali. Il M5S rimuove il fuoriuscito Trizzino. Lega e FI spaccano la maggioranza. Dopo tre anni quasi di lavoro, il testo base della legge sul suicidio assistito era pronto, ieri mattina, per essere consegnato nelle mani della presidente della commissione Affari sociali della Camera, Marialucia Lorefice, avvisata già la scorsa settimana dai due relatori, il dem Alfredo Bazoli, di area cattolica, e l’ex M5S Giorgio Trizzino, medico, tra i fondatori della Società italiana di cure palliative. “Un testo già insoddisfacente, un compromesso al ribasso”, lo definisce Marco Cappato che con l’Associazione Luca Coscioni ha portato avanti la battaglia culminata nella sentenza con la quale la Corte costituzionale ha già di fatto depenalizzato l’aiuto al suicidio. Ma mentre, in seduta congiunta con la commissione Giustizia, il centrodestra e la Lega alzavano il polverone chiedendo di sostituire uno dei relatori con una formazione più in linea con l’attuale maggioranza di governo, un accordo al vertice aveva già disposto la sostituzione di Trizzino con un 5 Stelle doc, Nicola Provenza. Prima ancora che avesse il tempo di depositare il testo base. Risultato: si ricomincia da capo o quasi, anche se ora il dito è puntato contro le forze di destra e i due presidenti di commissione, Lorefice e Mario Perantoni, entrambi pentastellati, assicurano che, con il placet a tempo record del nuovo relatore, “la prossima settimana sarà presentato il testo base sul fine vita”. Una decisione “incomprensibile” agli occhi dell’onorevole Trizzino tanto più perché, spiega al manifesto, “abbiamo fatto un lungo lavoro, anche di mediazione. Ma un provvedimento così complesso merita sicuramente il confronto di più persone, esperte in materia”. Si sarebbe potuto quindi aggiungere un relatore, anziché sostituirlo a lavori così avanzati, come invece chiedeva il capogruppo della Lega in commissione Giustizia, Roberto Turri, già relatore del testo durante il governo gialloverde, che invoca ora l’intervento del presidente Fico. E invece, commenta amaro Trizzino che ha abbandonato il movimento grillino poco più di un mese fa, “chi ha la vera competenza in materia viene tirato fuori”. Proprio dai partiti della “meritocrazia”: “Anche il Pd deve abbandonare la sua equivoca posizione - aggiunge il medico palermitano, deputato al primo mandato - La sensazione netta è che non si voglia arrivare ad una buona legge, come indicato dalla Consulta. Ma sarebbe davvero estremamente grave se il Parlamento ignorasse il richiamo della Corte costituzionale. In questo caso, troveranno personalmente me sul loro cammino”. Anche il relatore dem Bazoli si dice “sorpreso”: “Gli accordi presi in Ufficio di presidenza non sono stati rispettati - accusa puntando il dito contro il centrodestra -. Siamo in ritardo di un anno nell’approvazione. E nonostante questo, bloccano tutto. Spero - conclude - che la prossima settimana si possa depositare il testo base che, ribadisco, è una ipotesi, aperto ai contributi”. Getta acqua sul fuoco, così come fa il suo collega Provenza, che si dice disposto ad accettare il testo base messo a punto da Trizzino perché, spiega, “sul tema del fine vita è importante che la politica dia risposte concrete a tutti quei cittadini che aspettano da tempo questa legge di civiltà”. Sta di fatto che, come il giorno prima nel caso della commissione d’inchiesta sulla magistratura, la maggioranza che sostiene il governo di unità nazionale mostra di nuovo tutte le sue crepe. E che, a sette anni e mezzo dal deposito della legge di iniziativa popolare promossa dall’associazione Coscioni e da Radicali italiani, il Parlamento sia ancora impantanato sul tema, sembra incredibile. “Attendiamo ora di sapere se ci saranno reazioni da parte dei capi dei partiti, per capire se in particolare Enrico Letta e Beppe Grillo o Giuseppe Conte continueranno a ignorare la questione - commenta Marco Cappato - Da parte nostra ci prepariamo a raccogliere le firme sul Referendum Eutanasia Legale, con l’obiettivo di una piena e non discriminatoria legalizzazione dell’eutanasia sul modello olandese”. Omofobia. La mia legge non è liberticida: tutela la dignità delle persone di Alessandro Zan Il Dubbio, 7 maggio 2021 Il valore che le madri e i padri costituenti hanno impresso nella Costituzione non è solo quello di atto fondamentale per tutta la struttura normativa su cui si basano le nostre vite, ma anche di manifesto programmatico, che tutte le sensibilità politiche condivisero, per creare una società realmente democratica e plurale, dopo gli anni del totalitarismo e della catastrofe. In particolare, all’articolo 3 la Costituzione affida alla Repubblica, e quindi al legislatore, il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Dunque anche la tutela di tutte le condizioni e i caratteri insiti in ogni essere umano, in quanto tale. Proprio seguendo il percorso indicato dalla Costituzione, la legge Reale- Mancino già contrasta i crimini d’odio per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. Tuttavia negli ultimi anni i maggiori osservatori europei per i diritti umani hanno relegato l’Italia agli ultimi posti delle loro classifiche per inclusione sociale della comunità lgbt+. Hanno disegnato una vera e propria mappa dell’odio, che ci consegna una situazione critica e d’emergenza: i crimini d’odio e le discriminazioni colpiscono in particolare le donne, le persone lgbt+ e le persone con disabilità. Ovvero individui colpiti per il loro sesso, per il loro genere, per il loro orientamento sessuale, per la loro identità di genere o per la loro disabilità. Ed è esattamente utilizzando questi termini che il ddl, di cui sono stato relatore alla Camera, intende emendare la legge Reale- Mancino, estendendo anche a queste categorie (che sono pure condizioni ascritte all’essere umano, come l’etnia o la nazionalità) l’efficacia della norma. Una volta emendati, gli articoli 604 bis e ter del codice penale - che hanno codificato la legge citata poco fa - diverrebbero dunque non solo uno strumento in più di denuncia da parte delle vittime, ma anche un aiuto alle forze dell’ordine per perseguire e prevenire questi crimini. Come è stato più volte sottolineato anche da dirigenti Oscad (Osservatorio della Polizia di Stato contro le discriminazioni) in Italia esiste un enorme fenomeno di under-reporting sui reati a sfondo omotransfobico, proprio perché non esiste fattispecie di reato ad hoc, dunque i dati in nostro possesso sono decisamente parziali e arrivano tutti dai casi che finiscono sulla stampa o sui social media, perché denunciati pubblicamente dalle vittime. Dunque, da un punto di vista tecnico- giuridico, la nostra volontà (nostra per indicare l’ampia volontà comune di tutte quelle forze politiche che hanno contribuito alla formulazione e all’approvazione alla Camera del testo) è quella di estendere una legge che esiste da più di 40 anni, con una giurisprudenza - anche costituzionale - consolidata, che ne ha chiarito ogni aspetto potenzialmente critico. Mi riferisco agli attacchi pretestuosi e infondati di chi definisce questo provvedimento “liberticida”, e che ha creato nell’ultimo anno massicce campagne di fake news. Questa è una proposta di legge che poggia sul bilanciamento tra la libertà di espressione e la tutela della dignità delle persone. Il Presidente della Repubblica stesso, in occasione dell’ultima giornata internazionale contro l’omofobia, ha chiarito che “le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale costituiscono una violazione del principio di eguaglianza e ledono i diritti umani necessari a un pieno sviluppo della personalità umana”. Insomma la libertà di espressione non può mai degenerare in discriminazione o incitamento all’odio. Per essere chiari, un esempio: un prete in Chiesa sarà sempre libero di affermare che l’unica famiglia possibile può essere tra un uomo o una donna. È ovviamente una libera opinione, che non condivido, ma che deve essere tutelata. Ma una persona non può liberamente augurare il rogo alle persone omosessuali o auspicare che si riaprano i forni crematori per le persone trans, come purtroppo spesso accade soprattutto sui social. Uno stato che si definisce civile deve contrastare con tutta la sua forza questi fenomeni. C’è inoltre un ulteriore aspetto che mi preme sottolineare. Più volte nel corso di questi mesi mi è stato chiesto chi ha paura di questo ddl, e perché spesso chi si oppone ricorre a bufale, in totale malafede. Sono convinto che l’approvazione di questo provvedimento sancirebbe il posizionamento dell’Italia nell’Europa dei diritti, della libertà e della democrazia, tra Paesi come Francia, Germania, Belgio, Spagna, rompendo definitivamente ogni ammiccamento a derive sovraniste come quelle di Ungheria e Polonia. Lega e Fratelli d’Italia guardano ancora a quei modelli, che hanno creato profonde fratture all’interno dell’Unione Europea e che tutt’ora conducono campagne d’odio istituzionalizzate contro la comunità Lgbt+ e contro i diritti delle donne. Questa non può diventare una battaglia ideologica o di parte, ma una battaglia per un patrimonio comune. In Francia fu la destra di Chirac ad approvare una norma contro l’omotransfobia nel 2004. Infatti non ci può essere alcun europeismo dove esiste esitazione o, peggio, opposizione ai diritti, ed è tempo per il nostro Paese di definire il suo modello di futuro, di definire la sua collocazione in un contesto europeo che proprio su questi temi si sta dividendo tra paesi avanzati e paesi arretrati. Dopo ben cinque tentativi falliti dal 1996, l’Italia non può più permettersi di perdere questa occasione di civiltà e tutelare ogni sua cittadina e suo cittadino semplicemente per chi è. *Deputato Ddl Zan, dibattito serio oppure minestrone? di Mario Di Carlo* e Vincenzo Miri** Il Dubbio, 7 maggio 2021 Abbiamo una paura, una grande paura. Il dibattito pubblico sul disegno di legge per l’introduzione di misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità, noto come ddl Zan, si sta allontanando clamorosamente dal reale contenuto della proposta normativa. L’abbiamo purtroppo visto anche sulle colonne di questo giornale in alcuni brani dell’articolo “Ddl Zan, quando lo scontro ideologico uccide il dibattito” a firma di Paolo Delgado, pubblicato ieri. Lungi dal riportare il dibattito ad un confronto pragmatico ed intellettualmente onesto fra opinioni divergenti assistiamo alla diffusione di informazioni non vere. È sconfortante leggere che, in base al ddl, “bast(erebbe) registrarsi all’anagrafe come donna per essere tale” e che “una volta stabilito che un uomo si dichiara donna è donna a tutti gli effetti diventerebbe difficile, se non impossibile, negare il diritto all’utero in affitto”. Nulla di tutto ciò è vero. È sufficiente una lettura del testo del ddl per rendersene conto: non un solo comma è capace di introdurre nell’ordinamento quanto appena riferito. D’altra parte è noto che l’ordinamento anagrafico e dello stato civile, la disciplina della rettificazione di sesso, di cui alla legge n. 164/ 82, e le sentenze della Corte costituzionale n. 221/2015 e 180/2017, per stare ai formanti principali, prevedono procedure giurisdizionali estremamente complesse, approfondite e spesso logoranti per il riconoscimento della identità di genere, benché quest’ultima sia “elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona” e, come tale, sia meritevole della massima garanzia di piena attuazione. “Va escluso che il solo elemento volontaristico possa rivestire prioritario o esclusivo rilievo ai fini dell’accertamento della transizione”: così si legge nell’ultima sentenza citata. Tutt’altro che una semplice dichiarazione all’anagrafe. Quanto, poi, alla gestazione per altri, essa resta vietata nel nostro ordinamento dall’art. 12 della legge n. 40/ 2004, ed anche in questo caso il ddl Zan non modifica alcunché. Leggere per credere. Ci pare, allora, che questa variante del dibattito si risolva in una distrazione assai nociva, che solleva paure su previsioni inesistenti finendo per oscurare la reale necessità di tutela di persone in carne ed ossa. Necessità, ormai, divenuta urgenza, perché i reati d’odio sempre più frequenti presentano una più grave lesione dei beni tutelati dall’ordinamento e della dignità umana. Va poi detto, in un confronto sereno, che il tentativo di leggere ideologicamente e assiomaticamente le definizioni normative proposte all’art. 1 del ddl trascura la prospettiva del diritto penale e dello specifico disegno di legge. Tali definizioni, da un lato, sono funzionali alla tipizzazione della fattispecie, proprio a tutela delle libertà, e dall’altro sono necessarie a individuare il bene protetto ed il comportamento vietato dall’ordinamento. Basti rammentare che quando la legge Mancino parla di razza, essa non sostiene o valorizza l’esistenza della razza, contro ogni evidenza scientifica ed antropologica. Al contrario, intende vietare e sanzionare particolarmente l’odio e la violenza che su quel concetto fanno leva. Veniamo quindi alla vexata quaestio della libertà di espressione. Il ddl Zan non introduce una fattispecie nuova ma estende ad ulteriori fattori di discriminazione le fattispecie già esistenti nel codice penale all’art. 604 bis, ovvero l’istigazione ed associazione a delinquere per motivi di discriminazione, escludendo però il reato di propaganda, ed all’art. 604 ter, ovvero l’aggravante della finalità di discriminazione. La libertà di espressione è presidio fra i più alti dell’ordinamento democratico. Tuttavia l’istigazione al reato d’odio non viola tale libertà, come riconosciuto dalla Corte di Cassazione, dalla Corte europea dei diritti umani (sent. Lielliendahl v. Iceland, 11 giugno 2020) e, sia pur in contesto non penalistico, dalla Corte di Giustizia (causa C-507/18). La libertà di espressione, come le altre, non è illimitata e non può violare la dignità umana. Il nostro ordinamento conosce una serie di reati connessi all’espressione non lecita del pensiero. L’istigazione, poi, richiede un livello di materialità, un invito a tenere una condotta illecita, che la rendono perseguibile giacché il soggetto non si limita all’espressione di opinioni o convincimenti. A scanso di ogni equivoco, il ddl Zan, nel testo approvato dalla Camera dei Deputati, all’art. 4 prevede che “ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”, in coerenza con l’articolo 7 della Decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale. Tale inserimento, che alla luce dell’art. 21 della Costituzione può apparire perfino ultroneo e criticabile, chiarisce ampiamente che lo spazio di libera e lecita espressione delle idee non è compresso. L’istituzione in ambito nazionale della giornata contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, traspone in Italia una ricorrenza già presente nell’Unione Europea e costituisce un importante momento per affrontare a livello educativo e culturale il problema della violenza motivata dall’odio, come già si affronta o si cerca di affrontare il tema della violenza xenofoba. Lo strumento penale, infatti, non può che essere l’ultima risorsa ed è certamente necessario partire dall’educazione. Ci sono opinioni divergenti ma il nostro auspicio è che il dibattito possa tornare ad un confronto sui temi reali in discussione, senza essere inquinato da fake news, fantasmi, tatticismi politici o posizioni di comodo. Una legge di tutela contro i crimini d’odio e di discriminazione, volta a introdurre anche misure preventive, costituirebbe un significativo passo avanti per la nostra civiltà giuridica e per la capacità del nostro Paese di includere e tutelare tutte le persone, offrendo parità di trattamento ed il migliore contesto di sviluppo anche a chi guarda all’Italia per decidere se venirci a vivere e lavorare. *Presidente Edge **Presidente avvocatura per i diritti Lgbti Rete Lenford Cosa c’è di sbagliato nella legge Zan? Nulla. Chi la critica ha altri obiettivi di Roberto Saviano Corriere della Sera, 7 maggio 2021 Se dire a due gay “fate schifo” o prenderli a calci sarà un crimine (non una bravata) ci penseranno tutti bene prima. Predisporsi all’ascolto, contro la prospettiva di diventare marci di cinismo, è un pregio enorme e ripara dal rischio di non dare più credito a chi ti parla. Persino alla politica che, invece, può ancora condizionare l’opinione pubblica. Non solo dividerla, ma proprio condizionarla. Ciò che non è consentito, contemplato e sanzionato per legge è rispettivamente valutato dall’opinione pubblica come illegale, inesistente e lecito. Prendiamo la legge Zan - votata alla Camera a novembre 2020 e calendarizzata in Senato dopo quasi sei mesi -: attraversa quel momento difficile tipico di tutte le leggi che estendono diritti a costo zero, le quali, in fase di dibattimento, offrono l’opportunità - vitale per i partiti - di polarizzare l’opinione pubblica, sollecitare la propria base elettorale ed eventualmente provare ad allargarla. Ma anche di dividere, spesso paventando pericoli in agguato. I caveat, in questo caso, passano da concetti assai semplici (Attenti! Che per difendere i gay finirete per essere criminalizzati voi! Attenti! Plageranno i vostri figli nelle scuole!) ad altri più complessi, che forse meritano una riflessione ancora più attenta. Il punto chiave della critica, per parte della galassia femminista, sta nel concetto di “identità di genere”, così nell’articolo 1 della Legge Zan: “Per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifesta di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”. Il rischio è - sostengono - che uomini transgender possano accedere a politiche di pari opportunità o sentirsi discriminati nel non essere considerati pienamente donne. Giusto parlarne, ma la legge Zan mi pare abbia una prospettiva diversa: fungere da deterrente per atteggiamenti e comportamenti discriminatori di quanti credono di poterla fare franca se insultano o malmenano due persone dello stesso sesso che si tengono per mano o si baciano. Sì, certo, gli atti di violenza sono già sanzionati: che senso ha una legge tanto specifica? Il senso sta nelle aggravanti che già esistono per altre forme di violenza e discriminazione, come per i motivi religiosi o etnici. Posso dire che mi sento a disagio davanti a persone con un orientamento sessuale diverso dal mio (chi si sogna di censurare un sentimento?), ma non posso dir loro che mi fanno schifo o prenderle a calci. Ecco, con una legge che ritiene questi comportamenti un’aggravante, è probabile che, prima di insultare o usare violenza, si avrà il buon senso di pensarci. Per il fatto - fondamentale - che il Parlamento ha detto che non è bravata ma crimine. La foto che ho scelto descrive un momento di intensa dolcezza: due ragazze giovanissime uniscono i loro profili e sorridono. Sono a un gay pride: si sentono al sicuro. Fa male pensare che altrove si sentirebbero in imbarazzo a mostrare quella felicità: per paura di essere insultate, discriminate. A questo servono la politica e leggi come quella di Alessandro Zan: a sentirsi parte di una comunità che non minaccia ma protegge. Lega, FI e FdI paventano pericoli in modo strumentale, non tanto per bloccare la legge ma per occupare spazio sui media. C’è chi vuole farsi largo nel partito o in coalizione. Bisognerebbe imparare a non farlo sulla pelle degli altri. Le critiche hanno motivazioni che con la legge non c’entrano. Cosa c’è di sbagliato nell’inserire nel codice penale “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”? Cosa nel voler progettare, a scuola, percorsi di consapevolezza? O nel dedicare una giornata al tema? Nulla. Siamo ottimisti! Ci sono buone possibilità che la legge passi anche al Senato. Allora, forza: un diritto non è mai per pochi: quando è riconosciuto, poi è di tutti. Consiglio d’Europa: allarme su condizioni vita detenuti per ripercussioni pandemia Covid ansa.it, 7 maggio 2021 Il Comitato anti-tortura mette in guardia dall’impatto delle misure di austerità sulle condizioni di detenzione nelle prigioni. Il Comitato per la prevenzione della tortura (CPT) del Consiglio d’Europa ha emesso una raccolta di requisiti minimi che riguardano le condizioni di detenzione nelle prigioni europee, esprimendo preoccupazione per gli effetti negativi causati dalle misure di austerità preesistenti in alcuni paesi, che potrebbero essere esacerbati da possibili restrizioni di bilancio ancora più sostanziali, dovute alle ripercussioni a lungo termine della pandemia del Covid-19. Nel suo rapporto annuale per l’anno 2020, il CPT ricorda che in numerose delle sue visite nel corso degli anni ha riscontrato un mancato soddisfacimento dei bisogni fondamentali dei detenuti all’interno di alcuni stabilimenti, il che potrebbe sfociare in un’esposizione dei detenuti a trattamenti inumani o degradanti. Il Comitato evidenzia che in diversi Stati del Consiglio d’Europa la pandemia si sta verificando nel quadro di una crisi di bilancio dei sistemi penitenziari che colpisce i bilanci e il personale delle carceri. Nel corso delle sue visite, il CPT ha riscontrato sempre più spesso che tagli significativi hanno inciso sulla qualità della vita dei detenuti, riguardo a questioni come il cibo, il riscaldamento, il regime delle attività, l’accesso al lavoro e il tempo trascorso fuori dalle celle. Il Comitato osserva che le misure di austerità possono aumentare la povertà tra i detenuti, rendere gli articoli più scarsi o più costosi, e limitare i contatti telefonici dei detenuti con le loro famiglie o la loro possibilità di fare piccoli acquisti alla mensa del carcere. Questo problema può colpire in particolare i prigionieri che non ricevono alcun reddito dalle loro famiglie o da fonti esterne, i quali costituiscono una porzione significativa della popolazione carceraria in molti paesi. “Le persone private della loro libertà nelle prigioni o in qualsiasi altro istituto hanno il diritto di godere di condizioni di vita adeguate. È fondamentale sottolineare che alcuni dei diritti sociali ed economici fondamentali delle persone detenute sono indivisibili dal loro diritto ad essere trattati dignitosamente. Una soglia di decenza dovrebbe sempre essere rispettata nelle prigioni, anche nel contesto delle misure di austerità innescate dalle crisi economiche”, ha dichiarato il presidente del CPT Alan Mitchell. Inoltre, il rapporto annuale ricorda che il 20 marzo 2020 il CPT è stato il primo organismo del Consiglio d’Europa a pubblicare una guida sostanziale per gli Stati membri sulla pandemia: la Dichiarazione dei Principi relativi al trattamento delle persone private della libertà personale nell’ambito della pandemia del coronavirus (Covid-19), disponibile per gli Stati membri in 26 lingue. Per adempiere al suo mandato durante questo periodo, il CPT ha sviluppato una guida pratica interna relativa alle misure di protezione necessarie contro il Covid-19, per continuare a visitare i luoghi di privazione della libertà. Nel 2021, il CPT ha già effettuato delle visite periodiche in Serbia, Svezia, Svizzera e Turchia, e sono previste visite anche in Austria, Bulgaria, Lettonia, Lituania, Regno Unito e Russia. Vaccini senza brevetto, la strategia di Biden per mettere un freno a Cina e Russia di Federico Rampini La Repubblica, 7 maggio 2021 Il presidente statunitense guarda all’India e al Sudafrica per contrastare la diplomazia del farmaco di Pechino e Mosca. Il ruolo dell’ala sinistra del partito democratico. In vista dell’immunità di gregge Washington è pronta a donare dosi ai Paesi emergenti. La svolta di Joe Biden che promette l’accesso libero ai brevetti di Pfizer, Moderna, Johnson & Johnson, inaugura una nuova diplomazia americana dei vaccini. Destinatari sono i Paesi emergenti, India e Sudafrica in testa, che chiedono questa sospensione della proprietà intellettuale da tempo. Il gesto politico ha grande risonanza nel mondo, ma va contro gli interessi di Big Pharma che ne contesta l’utilità. Non avrà comunque effetti immediati, e sarà temporaneo. I dettagli giuridici vanno ancora negoziati a Ginevra in seno alla World Trade Organization, dove la delegazione Usa è guidata dalla segretaria al Commercio, Katherine Tai. Lei stessa ha avvertito che ci vorrà tempo. Ma i negoziati avranno un’accelerazione visto che fino a ieri la principale opposizione veniva dagli Stati Uniti. L’annuncio di Biden è stato seguito da un coro di approvazioni: dall’Unione europea alla Russia. A Washington questa è una vittoria per l’ala sinistra e la lobby terzomondista all’interno del partito democratico. Tra i fautori dell’accesso libero ai brevetti sui vaccini figura Bernie Sanders, senatore socialista che fu rivale di Biden nella corsa alla nomination un anno fa. Da tempo l’ala più radicale del partito faceva una campagna molto visibile sui media, riuscendo a sovrastare voci contrarie e pur autorevoli come quella di Bill Gates. Tra le spinte decisive c’è stata una telefonata fra Biden e il premier indiano Narendra Modi. La Casa Bianca punta su un rapporto strategico con l’India, per contenere l’espansionismo cinese in Asia. Venire in aiuto a Delhi nell’acuta emergenza della pandemia è un gesto obbligato, e contribuisce a contrastare le altre diplomazie dei vaccini dispiegate da superpotenze rivali come Cina e Russia. La stessa Amministrazione Biden però smorza le aspettative sulle conseguenze pratiche di questo annuncio. Avere accesso libero e gratuito ai brevetti serve a poco, se per fabbricare vaccini su vasta scala mancano le capacità industriali, i macchinari, il know how e la manodopera qualificata, nonché l’accesso agli ingredienti di base che scarseggiano: tutti requisiti che possono richiedere molti mesi se non anni. L’India è un caso a parte, paradossale e sconcertante, perché quelle capacità produttive le ha già, è una superpotenza farmaceutica, uno dei leader mondiali nella produzione di vaccini, in grado di esportarne nel mondo intero. Molte aziende farmaceutiche indiane stanno già producendo da mesi su licenze americane, compresa quella concessa gratis da Moderna. La ragione per cui l’India ha vaccinato solo il 2% della sua popolazione (contro il 50% degli americani) non sembra quindi legata alla proprietà privata dei brevetti, bensì ad altre inefficienze interne: burocrazia incompetente e corrotta, logistica al collasso, fanno sì che quel paese debba chiedere aiuto all’America pur avendo riserve cospicue di vaccini già prodotti, e sui quali il premier Modi ha decretato il blocco dell’export. Questo spiega una delle critiche più velenose da Big Pharma: che Biden avrebbe fatto un gesto da “teatro politico” per accontentare Delhi e la propria lobby terzomondista. Alle critiche si è unita la voce della scienziata Luciana Borio che dirigeva l’authority dei farmaci (Fda) durante la presidenza Obama: “Questa decisione non aiuterà ad avere più vaccini disponibili nel mondo. Noi non avremmo i nostri straordinari vaccini, senza l’innovazione dell’industria privata americana”. È la tesi di Bill Gates: il modello della proprietà intellettuale sui brevetti ha dato risultati eccellenti, nell’incoraggiare prima la ricerca e poi la sua applicazione su scala industriale in tempi rapidissimi. Prevale l’argomento di politica estera. La Cina e la Russia hanno bruciato le tappe per offrire i loro vaccini all’estero, sia pure con risultati abbastanza deludenti. Biden è incalzato da chi teme che l’America perda consensi preziosi nei paesi emergenti. Lo stesso presidente continuerà a perseguire un’altra strada dagli effetti molto più veloci: via via che la popolazione americana si avvicina alla “immunità di gregge” (prevista a luglio) la Casa Bianca potrà accelerare le donazioni di vaccini già prodotti e disponibili in eccesso nelle scorte acquistate dal governo federale. Egitto. Madre di detenuto racconta le torture subite dal figlio: arrestata di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2021 Cinque organizzazioni egiziane per i diritti, tra cui quella dei consulenti della famiglia Regeni, Ecrf, e l’Eipr di Patrick Zaki, inviano ad al-Sisi un dossier con 7 richieste, tra cui la liberazione immediata di tutti i prigionieri politici e il termine di detenzioni senza fine. Ma dal governo tutto tace. E gli episodi di repressione proseguono. Cinque organizzazioni per la tutela dei diritti umani presentano un dossier ufficiale al governo con 7 richieste e il regime ricambia continuando a perseguire la strada della repressione. Il via libera, nelle recenti settimane, ad una serie di scarcerazioni ‘eccellenti’ di prigionieri politici e per reati di coscienza sembrava aver creato una breccia e un cambio di passo da parte delle autorità egiziane. I rilasci, dopo quasi due anni di detenzione, dei giornalisti Solafa Magdy e suo marito Hossam el-Sayyad, del collega Khaed Daoud ed altri, apparivano come atti distensivi. Su questa fenditura, apparsa evidente ai più, le ong egiziane, tra cui quella dei consulenti della famiglia Regeni, Ecrf, e l’Eipr di Patrick Zaki (hanno firmato il dossier anche l’Afte, l’Anhri e il centro anti-tortura el-Nadeem), hanno voluto inserirsi presentando un piano composto da 7 punti specifici. Un dossier costituito dalle richieste ritenute più stringenti: la liberazione immediata di tutti i prigionieri politici, compreso un taglio delle procure criminali dedicate agli attivisti dei diritti umani, il termine di detenzioni senza fine continuamente rinnovate in attesa di processo, lo stop ai continui casi riciclati per non liberare i prigionieri, la revoca dello stato di emergenza imposto nel 2017 e infine sbloccare i siti di informazione oscurati durante gli ultimi anni. Al momento, ufficialmente il governo non ha reagito alla presentazione del dossier con una presa di posizione ufficiale, continuando nel suo percorso repressivo. A tal proposito sta suscitando reazioni di sdegno la storia di Abdul Rahman al-Shuweikh, un giovane detenuto del carcere di massima sicurezza di Minya, città 250 chilometri a sud del Cairo. Alla fine di aprile il giovane, durante un incontro in carcere, ha raccontato alla madre di aver subìto torture e violenze, anche di carattere sessuale. La madre del ragazzo, dopo aver fatto formale reclamo in procura, ha segnalato l’episodio attraverso un post sui social media raccontando quanto accaduto al figlio. Una scelta dalle conseguenze drammatiche. Pochi giorni dopo, il 26 aprile scorso, uomini della Nsa, la sicurezza nazionale, hanno fatto irruzione di notte nell’abitazione della famiglia di al-Shuweikh arrestando tutti i membri presenti, a partire dalla madre, Hoda Abdul Hamid, 55 anni, il padre Jamal al-Shuweikh, 65 anni, e l’altra figlia Salsabil, appena maggiorenne. La famiglia è stata svegliata di soprassalto e portata via ancora in pigiama, senza che nessuno potesse neppure prendere gli effetti personali. Padre e figlia sono stati rilasciati nei giorni successivi, mentre la madre del detenuto è stata arrestata e chiusa in carcere con l’accusa di aver aderito ad un gruppo terroristico e diffuso notizie false: per lei è scattata l’istruttoria del caso 900 del 2021. L’incubo per la famiglia al-Shuweik non è finito qui. Lo stesso giorno del blitz un altro fratello di Abdul Rahman, Abdulaziz, anch’egli in carcere, nella famigerata prigione di Tora al Cairo, è stato trasferito da un’area ordinaria alla sezione più temuta e di massima sicurezza Skorpio I: “L’unica colpa della madre del detenuto è stata quella di denunciare quanto accaduto al figlio - attacca un funzionario del centro anti-tortura el-Nadeem che parla a che a nome delle altre ong egiziane -, delle violenze subite. Addirittura l’autorità giudiziaria ha fatto in modo che alcuni detenuti del carcere di Minya testimoniassero che Abdul Rahman al-Shuweik era pazzo e che si era inventato tutto. In realtà il detenuto non soffre di alcun problema psichiatrico. È l’ennesimo sopruso del regime nei confronti di quella famiglia, con tre figli in prigione. Riteniamo le autorità egiziane responsabili per la sicurezza e la salute dei membri della famiglia al-Shuweik attualmente in prigione. Chiediamo inoltre che la procura ordini un’indagine approfondita sulle torture e sulle violenze subite da Abdul Rahman al-Shuweik”. Più di recente, lunedì scorso per l’esattezza, il governo del Cairo, nello specifico il Ministero dell’Interno da cui dipende la Nsa, si è reso protagonista di un altro episodio censurabile. Uomini dell’agenzia per la sicurezza egiziana hanno fatto irruzione nella casa di una famiglia residente nel governatorato di Sharqiya prelevando una donna e i suoi tre figli piccoli. Un’azione decisa per spingere il marito della donna, latitante, a consegnarsi alla polizia. Per due giorni di lei e dei suoi tre bambini, tutti sotto i 10 anni, non si è saputo nulla, ma per fortuna nel pomeriggio del 5 maggio sono stati rilasciati. Uzbekistan. Una piccola donna sconfitta che ha cambiato la storia di Adriano Roccucci L’Osservatore Romano, 7 maggio 2021 Un ricordo di Tamara Chikunova, fondatrice dell’associazione “Madri contro la pena di morte e la tortura”. Una testimone della vita contro la pena di morte. Lo è stata Tamara Chikunova, una donna russa, spentasi alla fine di marzo, che, colpita da un dolore lacerante e animata da una fede profonda, ha lottato a mani nude perché nel Paese dove viveva, l’Uzbekistan, nessuno fosse più condannato alla pena capitale. A Tashkent Tamara era nata, dopo che la sua famiglia, originaria del Sud della Russia, vi si era trasferita al termine delle repressioni staliniane, durante le quali il nonno, prete ortodosso, era stato ucciso. Nella capitale uzbeka Tamara era tornata a vivere nel 1993 con il figlio Dmitrij, dopo anni trascorsi con il marito, ufficiale dell’armata rossa, in diverse sedi, da Berlino a San Pietroburgo. In Uzbekistan la vita di Tamara si è imbattuta nella violenza disumana di un sistema giudiziario iniquo. Nel 1999 suo figlio Dmitrij fu arrestato, torturato e ingiustamente condannato a morte. Il 10 luglio del 2000 fu fucilato: aveva 29 anni. La madre non fu avvertita dell’esecuzione e non riuscì a salutarlo un’ultima volta. Non le fu restituito nemmeno il corpo del figlio, come previsto dalla legge uzbeka. Nel marzo 2005 Dmitrij fu riabilitato post mortem, riconosciuto innocente, e il suo processo fu dichiarato iniquo. Dopo questa tragedia familiare, Tamara scelse di lottare perché non si ripetessero casi analoghi. Fondò l’associazione “Madri contro la pena di morte e la tortura” assieme ad altre donne che avevano perduto i propri figli in seguito a un’esecuzione capitale. Ebbe inizio un impegno coraggioso e intelligente per la difesa legale dei condannati - era laureata in legge oltre che in ingegneria - e per l’abolizione della pena di morte in Uzbekistan. La sua associazione ha contribuito a salvare la vita di 23 condannati alla pena capitale, riuscendo a far commutare la loro sentenza di morte in ergastolo o condanne alla reclusione. Il suo impegno, sostenuto dalla Comunità di Sant’Egidio a livello internazionale, ha condotto all’abolizione della pena capitale in Uzbekistan, il 1° gennaio 2008. Così Tamara ha ricordato la sua scelta: “Io una piccola donna sconfitta, lavoravo per far vincere la vita. All’inizio del 2002 scrissi una lettera alla Comunità di Sant’Egidio, cercavo aiuto per me e per la mia missione: liberare i condannati a morte. Ringrazio il Signore perché da quel giorno non ci siamo più lasciati! Con gli anni si sono compiuti dei miracoli, abbiamo potuto salvare la vita di tanti giovani condannati a morte nel mio Paese. Veramente ho ricevuto il segno dell’amore di Dio! Così Dio mi ha donato la forza di perdonare tutti i responsabili dell’esecuzione di mio figlio! E trovando la forza di perdonare sono diventata più forte!”. La battaglia di Tamara è andata avanti a lungo per diffondere una cultura della misericordia e della vita, e contribuire all’umanizzazione delle condizioni dei carcerati. Ha dato un apporto decisivo al processo che ha condotto all’abolizione della pena di morte in Kyrgyzstan, Kazachstan e Mongolia. Un suo cruccio era l’unico Paese europeo in cui ancora vige la pena capitale. Alla Bielorussia infatti sono state rivolte molte sue energie ed era stata nominata delegata del Consiglio d’Europa per la questione della pena di morte in quel Paese. Vulnerabile di fronte alla violenza della storia, Tamara è stata una donna credente, forte della sua fede, dell’amicizia di chi ha condiviso il suo impegno e di una umanità compassionevole levigata dal dolore. Piccola donna sconfitta, non è stata irrilevante e ha cambiato la storia: “Chi salva una vita salva il mondo intero”, si legge nel Talmud. Colombia. La rabbia dei giovani contro il governo: 24 morti in piazza. L’Onu condanna di Marta Serafini Corriere della Sera, 7 maggio 2021 Non si fermano le proteste di piazza, giunte all’ottavo giorno consecutivo e nate in dissenso con la riforma fiscale proposta dal presidente. Il Palazzo di Vetro: allarmati. “Siamo distrutti”. Un adolescente ucciso a colpi di arma da fuoco dopo aver preso a calci un poliziotto, un altro ragazzo travolto dalla furia dei manganelli mentre tornava a casa. Agenti che sparano sui manifestanti disarmati. Elicotteri che ronzano in cielo, carri armati che fanno tremare l’asfalto nei quartieri popolari, esplosioni che echeggiano nelle strade. Brucia la Colombia, dove il 28 aprile sono iniziate le proteste contro il governo di Iván Duque e dove nemmeno le piogge torrenziali di due giorni fa sono riusciti a fermare proteste e scontri durissimi nei quali hanno perso la vita fin qui 24 persone (17 secondo le autorità), con 89 dichiarate disperse. “Ci stanno uccidendo”, è una delle frasi che campeggiano sugli striscioni. Da Bogotà, passando per Cali, Medellin e Barranquilla ovunque si sono svolte marce. I camionisti bloccano le principali autostrade mentre le Nazioni Unite, l’Unione Europea e l’Organizzazione degli Stati americani (Osa) condannano il governo colombiano per l’”uso eccessivo della violenza”, con la portavoce dell’Alto commissariato dei diritti umani dell’Onu, Marta Hurtado, che si è detta “profondamente allarmata”. In prima linea negli scontri ci sono i giovani. “Qui non si muore di fame solo per il Covid, si muore di povertà”, è il grido di Isamari Quito, studente di giurisprudenza. “Ci stanno dando la caccia”, gli fa eco Luna Giraldo Gallego, studentessa universitaria della città di Manizales. La pressione sale sul partito conservatore del presidente Iván Duque mentre gli alleati gli chiedono di dichiarare lo stato d’assedio, atto che gli concederebbe ampi nuovi poteri. “Si ha la sensazione che questo governo, nonostante sia guidato dal presidente più giovane della storia colombiana (Duque ha 44 anni, ndr), insista su idee obsolete”, spiega al Corriere Jennifer Pedraza, 25 anni, rappresentante degli studenti dell’Università Nazionale e membro del Comitato per la disoccupazione, che raggruppa le organizzazioni che convocano le manifestazioni. A nulla dunque è servito ritirare la riforma fiscale, che prevedeva la rimozione delle esenzioni per l’imposta sugli scambi di beni e servizi (la nostra Iva) e avrebbe abbassato la soglia a partire dalla quale si inizia a pagare l’imposta sul reddito. “Andremo avanti a protestare contro la riforma sanitaria”, conclude Pedraza. L’esplosione di frustrazione in Colombia - dicono gli esperti - potrebbe presagire disordini in tutta l’America Latina, in un mix infiammabile di tensioni sociali causate dalla pandemia e dal calo delle entrate governative. Le manifestazioni sono, in parte, la continuazione di un movimento che ha travolto l’America Latina alla fine del 2019 dalla Bolivia passando per il Cile fino al Nicaragua. Poi è arrivato il Covid. La Colombia ha imposto uno dei lockdown più lunghi al mondo che ha causato enormi problemi economici, tra cui la chiusura di oltre 500mila attività, con il 43% della popolazione che vive in povertà (+7% rispetto all’era pre Covid) e 2,8 milioni di persone che vivono con meno di 145mila pesos al mese, circa 32 euro. E ora - dopo otto giorni di rabbia - tra le vittime delle proteste si conta anche Santiago Murillo, 19 anni, studente dell’ultimo anno di liceo. Sabato sera stava tornando a casa a Ibagué, mentre erano in corso gli scontri. A due isolati da casa gli hanno sparato e lui è caduto a terra. Domenica gli abitanti di Ibagué hanno tenuto una veglia in suo nome. “Ho chiesto loro di protestare civilmente”, dice sua madre, “in pace”. Colombia. La repressione di Duque colpisce anche l’Onu e diventa globale di Claudia Fanti Il Manifesto, 7 maggio 2021 Pestaggi e spari sui manifestanti, la polizia non ha più limiti e aggredisce anche la missione dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani. Il governo difende gli agenti e accusa le piazze di vandalismo. Poliziotti che sparano contro i manifestanti, attaccano pacifiche fiaccolate in onore delle vittime, usano gli idranti per impedire i soccorsi ai feriti, manganellano semplici passanti: tutto filmato in diretta e trasmesso sulle reti sociali e sui siti alternativi di innumerevoli gruppi e organizzazioni. È qui che si sta scrivendo la vera storia della brutale repressione delle forze dell’ordine colombiane contro le proteste popolari anti-governative che vanno avanti ininterrottamente dal 28 aprile. Il bilancio si aggrava di giorno in giorno: 24 le vittime accertate dalla Defensoría del Pueblo (23 civili e un poliziotto), 89 persone scomparse e oltre 800 feriti, mentre altre organizzazioni parlano di 37 morti. Tra le ultime vittime, il 27enne Lucas Villa, studente di Scienze dello Sport, artista e professore di yoga, uno dei volti più apprezzati e popolari della protesta, raggiunto da otto spari, la notte del 5 maggio, nel viadotto Cesar Gaviria della città di Pereira e ora in condizioni gravissime. È questa una storia completamente diversa da quella raccontata dalle autorità, che si scagliano contro gli episodi di vandalismo e violenza da parte di gruppi di manifestanti - che in ogni caso non bastano a mettere in ombra il carattere pacifico della protesta - ma non dicono una parola sulla carneficina in corso. E anzi sostengono, come fa il ministro della Difesa Diego Molano, che “la prima cosa che deve sapere la Colombia è che la polizia opera nel più stretto rispetto della legge e dei diritti umani”. Così, dopo essersi finalmente deciso a esprimere il proprio generico cordoglio per le “vittime di violenza”, intesa ovviamente come violenza vandalica, il presidente Duque ha dichiarato senza prove che dietro le “legittime aspirazioni” dei manifestanti si nasconderebbe “la minaccia di un’organizzazione criminale”, riferendosi alla presunta infiltrazione di “mafie del narcotraffico”. E fa un certo effetto sentirlo da colui che i colombiani chiamano “subpresidente”, cioè la marionetta dell’ex presidente Álvaro Uribe, i cui vincoli con il narcotraffico sono noti anche alle pietre. Ma Duque, che nel frattempo ha incassato l’appoggio degli imprenditori - convinti della necessità di “difendere il governo che ci piaccia o no, difendere l’esercito, la polizia, l’Esmad - si è spinto anche oltre, offrendo una ricompensa di 10 milioni di pesos per chi collaborerà all’identificazione e alla cattura dei responsabili di atti di vandalismo. Ma sulla repressione che si consuma per le strade della Colombia - 1.708 i casi di abuso della polizia registrati dalla piattaforma Grita - si sono finalmente accesi i riflettori internazionali, soprattutto in seguito alla violenza di cui è stata oggetto la missione di verifica costituita da funzionari della Defensoría del Pueblo, della Procura generale, delle organizzazioni sociali e dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani. L’inaudita aggressione è avvenuta a Cali la notte del 3 maggio, quando la missione umanitaria, giunta alla stazione di polizia Fray Damián per controllare le condizioni dei detenuti, era stata insultata, circondata, minacciata e infine cacciata da agenti della polizia che le avevano persino sparato contro, con gli abitanti del quartiere accorsi a soccorrerla facendo da scudo umano. “Siamo stati testimoni dell’uso eccessivo della forza da parte di agenti della sicurezza, con colpi di arma da fuoco, aggressioni e arresti”, ha denunciato la portavoce dell’Alto commissariato Marta Hurtado. Ma sulla violenza in atto si è pronunciato, attraverso il suo portavoce Stéphane Dujarric, lo stesso segretario generale Onu António Guterres, esprimendo “grande preoccupazione” per le violazioni dei diritti umani registrate durante le proteste, mentre centinaia di colombiani inondavano mercoledì il canale Youtube dell’Onu, durante la trasmissione in diretta di una serie di conferenze, di messaggi di un unico tipo: “S.O.S Colombia”. Hong Kong. Arrestato Joshua Wong: ricordava la strage di Tienanmen di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 7 maggio 2021 L’attivista e animatore delle proteste del 2019 è già in carcere nell’ex colonia dallo scorso dicembre: in cella gli è giunto un nuovo mandato d’arresto per le primarie dem, e un’altra condanna per una veglia il 4 giugno. Joshua Wong è in prigione a Hong Kong dallo scorso dicembre: condannato a 13 mesi e mezzo di reclusione per una manifestazione del 2019. In cella gli hanno notificato un nuovo mandato d’arresto a gennaio per aver partecipato alle primarie democratiche per le elezioni politiche. Ieri il giovane attivista è stato condannato ad altri 10 mesi di carcere per aver preso parte il 4 giugno dell’anno scorso alla veglia per commemorare la strage di Tienanmen (4 giugno 1989). Per trent’anni Hong Kong era stato l’unico lembo di Cina dove si poteva ricordare liberamente l’orrore perpetrato a Pechino. L’anno scorso però le autorità della City vietarono la manifestazione per “motivi di sanità pubblica”: l’epidemia di coronavirus. Joshua Wong e ventimila concittadini si radunarono comunque nel Victoria Park, accendendo candele nella notte. Erano distanziati, disciplinati e indossavano responsabilmente la mascherina. A Victoria Park quella notte non si sviluppò alcun focolaio di coronavirus. Ma la polizia pensò di selezionare quattro manifestanti, tutti ventiquattrenni, volti noti del movimento: Joshua Wong, Lester Shum, Tiffany Yuen e Jannelle Leung. Ora è arrivata la sentenza: 10 mesi a Joshua Wong per aver “deliberatamente e premeditatamente” violato il divieto, 6 mesi a testa per gli altri tre oppositori. Il giudice ha sentenziato che “hanno apertamente sfidato la legge” e che “aver indossato le mascherine e osservato il distanziamento sociale non riduce la loro colpa”. Dal primo luglio del 2020 a Hong Kong vige la legge sulla sicurezza nazionale cinese, che chiude il discorso sulla veglia per Tienanmen: in ogni parte della Cina ricordare la strage è reato e lo resterà anche dopo che tutta la popolazione sarà stata vaccinata contro il Covid-19. È il virus della democrazia che Pechino voleva debellare a Hong Kong.