Covid, vaccinato quasi il 30% di detenuti e oltre la metà di agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 maggio 2021 Dal monitoraggio settimanale del ministero della Giustizia emerge che sono 397 i detenuti positivi, 400 gli agenti e 46 tra il personale amministrativo. Prosegue a passo spedito la campagna di vaccinazione nelle carceri. Sono 18.619 i detenuti finora vaccinati contro il Covid, su un totale di 52.638 presenti nei penitenziari italiani. Il dato emerge dal report settimanale del ministero della Giustizia su coronavirus e carceri. Tra gli agenti, su un totale di unità in servizio pari a 36.939, sono 20.178 quelli avviati alla vaccinazione. Per quanto riguarda infine il personale dell’Amministrazione penitenziaria, su un totale di 4.021 dipendenti risultano essere 2.151 gli avviati alla vaccinazione. Per quanto riguarda la diffusione del contagio, sono 397 (di cui 10 nuovi giunti) i detenuti attualmente positivi al Covid, su un totale di presenze in carcere, come già detto, pari a 52.638 unità. Calo di contagi nei penitenziari - Dal monitoraggio settimanale pubblicato dal ministero della Giustizia emerge ancora il calo dei contagi nei penitenziari: sette giorni fa, infatti, il numero di detenuti positivi era pari a 492. Tra gli agenti, si contano invece 400 attuali contagiati (la scorsa settimana erano 424), mentre tra il personale amministrativo e dirigenziale dell’Amministrazione penitenziaria i positivi risultano essere 46, uno in meno rispetto al report del 27 aprile scorso. Andando sullo specifico, tra i 397 detenuti positivi, 375 sono asintomatici, mentre 2 hanno sintomi ma sono gestiti all’interno degli istituti. Venti, invece, i detenuti ricoverati. Per quanto riguarda gli agenti, 388 positivi sono in quarantena a casa e 3 degenti in caserma, mentre 9 sono ricoverati. Nessun ricoverato in ospedale, infine, tra i 46 dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria attualmente positivi al Covid. La nota dolente arriva dalla Sardegna - Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale, rende noto, dopo un colloquio con il Dap, che nelle carceri sarde la vaccinazione stenta a decollare. In attesa del nuovo aggiornamento sulle presenze in carcere, c’è da ricordare che il sovraffollamento persiste e ciò mette comunque in difficoltà l’attuazione del protocollo sanitario. La vaccinazione non basta, deve essere comunque accompagnata da misure deflattive più efficaci. Ad esempio, tra le linee guida emerso dal documento Stato Regioni di agosto scorso, viene indicato di favorire lo svolgimento delle attività trattamentali, educative e lavorative intramurarie nel rispetto delle disposizioni ministeriali e regionali, “adibendo - si legge - locali idonei allo scopo, che permettano il distanziamento sociale e l’applicazione delle misure di prevenzione e igiene, e che possano essere opportunamente arieggiati e sanificati; anche in questi casi, ove possibile, privilegiare le modalità a distanza (es. attività scolastica in videoconferenza, ecc..)”. E poi, si legge ancora, “identificare luoghi idonei all’isolamento sanitario all’interno degli istituti e adeguarne costantemente la disponibilità di posti, in base all’andamento epidemiologico locale del contagio, garantendone la regolare sanificazione”. Oppure, sempre nelle linee guida, “garantire che l’accesso di visitatori, volontari, fornitori avvenga nel rispetto delle norme di distanziamento sociale e di igiene personale, del corretto uso dei Dpi e del tracciamento dei contatti, in base alle indicazioni ministeriali e regionali in riferimento alle diverse fasi dell’epidemia”. Altro punto indicato è “favorire e promuovere le istanze di misure alternative o di sostituzione delle misure cautelari restrittive, soprattutto per i soggetti a maggior rischio di sviluppo di complicanze da Covid-19”. Sappiamo che tutto questo, nelle carceri sovraffollate, è utopia pura. Così come è sempre più difficile ottenere il differimento pena per i detenuti anziani e con patologie pregresse, soprattutto se rientrano nei reati ostativi. Ma ridurre il numero delle presenze in carcere, dovrebbe essere una prospettiva proiettata oltre il discorso covid. Bambini che crescono in carcere e affidamento di Carla Forcolin* Ristretti Orizzonti, 6 maggio 2021 Martedì 4/5, mentre in Commissione Giustizia della Camera si discuteva di riforma della L. 62/11, il Tavolo per l’Affido discuteva assieme alla Garante nazionale dei diritti dei bambini, alla Ministra Bonetti e ad altre personalità importanti di affidamento. Non di sottrazioni indebite di bambini messe in atto violentemente, ma di separazioni temporanee, finalizzate a dare ad un bambino che non può stare nella sua famiglia una famiglia sostitutiva dove crescere bene. Insomma di affidamenti concepiti per il bene del minore. Uno degli ambiti in cui l’istituto dell’affidamento potrebbe essere utilizzato con grande vantaggio dei bambini è quello carcerario. Non sto scherzando, ma quando una madre detenuta ha davanti a sé un periodo lungo di pena da scontare e i Magistrati di Sorveglianza non ritengono opportuno farla uscire per andare in casa-famiglia o agli arresti domiciliari, quale dev’essere la vita dei figli? Stare dentro il carcere, magari in un Istituto a custodia attenuata fino a 10 anni, vivendo in simbiosi con la madre, senza acquisire mai una vera autonomia, uscendovi solo se qualche volontario viene a prenderli per una passeggiata, perdendo tutte le opportunità di sviluppo intellettivo, sociale, culturale, che la vita potrebbe dare loro? Fino ad oggi non è scritto da nessuna parte che i bambini che vanno in carcere hanno diritto a frequentare la scuola materna e quindi ad esservi accompagnati. La scuola materna non é ancora dell’obbligo. Ma anche se la stessa fosse garantita, i figli delle detenute non hanno diritto a divertirsi nei giorni di festa e di vacanza come tutti gli altri bambini e, così facendo, ad imparare a conoscere il mondo esterno? I bambini potrebbero avvalersi di forme di affidamento per imparare mille cose e per stare con i coetanei, senza per questo essere separati dalla madre. Non penso solo all’affidamento a tre anni, com’era un tempo e dovrebbe essere ancora oggi, perché più si cresce più la vita in carcere diventa dura per i bambini; penso soprattutto all’affidamento diurno, che potrebbe anche, se fosse attuato, rendere inutile quello a tempo pieno, dopo i tre anni. Uscire per andare a scuola e poi con il proprio affidatario/educatore/persona solidale (come vogliamo chiamarlo/a?), andare al parco o ad imparare qualcosa di bello e divertente. Oppure semplicemente andare a casa della “persona solidale” con il compagno di scuola preferito e giocare lì insieme, per poi tornare verso sera dalla mamma e raccontarle la propria giornata. La mamma nel frattempo avrà a sua volta studiato e lavorato nella prospettiva di imparare bene un lavoro. Il carcere ha l’obiettivo della rieducazione, non dimentichiamolo. La mamma come potrebbe rapportarsi a chi porta fuori suo figlio? Intanto lo dovrebbe conoscere prima, assieme ad altre persone entrate nell’Istituto a giocare con i bambini, poi dovrebbe poter dare il suo parere sulla persona prescelta. Infine questa persona dovrebbe essere un educatore-amico/a anche per lei, non un affidatario che le ruba il figlio. La cosa è possibile, se viene fatta coinvolgendo la madre e non escludendola. Niente fa meglio ad un bambino di un rapporto individualizzato con una persona cara, che gli permette di fare tante esperienze ed imparare mille piccole e grandi cose, che lui, a sua volta, può cercare di trasmettere alla mamma. Un sogno? Esiste la gelosia, la voglia di crescere secondo la propria visione del mondo i figli, di insegnare loro magari ad avere “la mano lesta”, invece che a scrivere o a conoscere le fiabe… ma esiste anche il piacere, l’orgoglio materno, di vedere che il proprio figlio/a ha già imparato a parlare con ricchezza di vocaboli, che sa andare in bicicletta o nuotare, come la mamma non ha mai potuto imparare a fare, che la scuola gliene parla bene. Su questo si deve puntare e, lavorando sulla formazione culturale del bambino, si lavorerà anche sul recupero di sua madre. E poi madri e figli, se non hanno nessuno fuori ad aspettarli, quando usciranno, avranno così già degli amici nella “persona solidale” e nella sua famiglia, nei compagni di scuola e nelle loro famiglie e non è cosa da poco. *Associazione La gabbianella e altri animali Giustizia, le riforme di Cartabia per ottenere i fondi del Recovery di Liana Milella La Repubblica, 6 maggio 2021 Il contenuto e l’iter delle future leggi sul processo civile, penale, Csm e sulla magistratura onoraria. Tempi, contenuti e le prossime scadenze. Tre riforme che valgono 2,3 miliardi di euro. Quelli del Recovery plan. Riforme strategiche di cui la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha detto il 25 aprile in un’intervista alla Stampa: “Deve essere molto chiaro che senza riforme della giustizia, niente fondi del Recovery”. E sulle divergenze tra i partiti ha aggiunto: “Proprio la giustizia deve diventare il terreno sul quale ritrovare lo spirito di unità nazionale. Le diversità resteranno, come nella stagione che portò alla nascita della Costituzione, ma come allora si può provare a ricomporre le fratture su progetti precisi in nome di uno scopo più grande”. Se questa è la sfida, vediamo quali sono le riforme e i prossimi appuntamenti. Tenendo però ben presente che il governo Draghi è composto da partiti che, storicamente, sono sempre stati divisi sulla giustizia. Da una parte il centrodestra (Lega, Forza Italia, Azione), dall’altra il Pd e M5S, che a loro volta molto spesso non l’hanno pensata allo stesso modo. La sfida di Marta Cartabia è proprio quella di fare goal armonizzando le differenze e portandole a sintesi. Ma prima di affrontare i singoli capitoli delle prossime riforme una premessa è d’obbligo.Tutte e tre - processo civile, processo penale, revisione dell’ordinamento giudiziario e delle regole di elezione del Csm, nonché quelle per i futuri magistrati che vorranno entrare in politica - erano state già presentate dall’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, durante i governi gialloverde (M5S-Lega) e giallorosso (M5S-Pd), nei quali è stato il primo inquilino di via Arenula. Si tratta di leggi delega, che cioè “delegano” al governo i “decreti legislativi”, approvarti dal consiglio dei ministri, e che necessitano solo del parere delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, senza però tornare in aula per un ultimo voto. Dai 12 mesi di tempo iniziali concessi al governo per approntare le deleghe, adesso si è scesi a tre mesi. Proprio per rispettare l’urgente road map del Recovery. Marta Cartabia, divenuta ministra, ha deciso di partire da quei testi, adottandoli come base per andare avanti. Non solo per armonizzare le differenti visioni della nuova maggioranza, ma anche per dare il suo imprinting da giurista ed ex presidente della Corte costituzionale, nonché esperta proprio di legislazione europea. Per evitare strappi, Cartabia ha istituito al ministero cinque gruppi di lavoro, che non ha voluto neppure chiamare “commissioni”, per elaborare le modifiche. È presieduto dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi il gruppo che segue il processo penale. Il costituzionalista Massimo Luciani segue la riforma del Csm. Francesco Paolo Luiso, docente di diritto processuale civile, ha già presentato le modifiche al processo civile. Mentre il presidente della Corte di appello di Brescia Claudio Castelli si occuperà della riforma della magistratura onoraria che avrà un ruolo molto importante per smaltire l’arretrato e quindi per ottenere i fondi del Recovery che ovviamente chiede proprio di accelerare i tempi della giustizia. Mentre tutto il capitolo della crisi d’impresa è stato affidato a Ilaria Pagni, ordinaria di diritto processuale civile a Firenze. La riforma del processo civile - Viene considerata l’architrave del Recovery. Perché proprio l’accelerazione dei processi civili, nonché il recupero dell’arretrato oggi esistente, potrà incidere in maniera determinante sulla nostra economia, attraendo in Italia investimenti stranieri. È la prima riforma che prenderà il via. Già da lunedì prossimo nell’aula del Senato, dove il testo di Bonafede è stato incardinato due anni fa. È quello più avanti di tutti. Lo stesso Bonafede voleva trasformarlo in un decreto legge. Poi la crisi di governo ha fermato tutto. In sintesi, la riforma - che è stata rivista e integrata in via Arenula dove il 30 aprile c’è già stato un confronto nella maggioranza - punta a potenziare il processo da remoto, che è stato sperimentato durante la pandemia. Nonché a sfruttare tutte le vie alternative che permettono di evitare processi che durano anni. Come per il penale un “ufficio del processo” consentirà al giudice di non essere solo ad affrontare le cause, potendo contare invece su uno staff che istruisce il lavoro. La riforma del processo penale - Quanto tempo deve durare un processo penale? Come deve incidere la prescrizione e quando deve partire? Può essere interrotta, come prevede la legge di Bonafede? Per quanto tempo può indagare un pubblico ministero? Devono cambiare le regole della discovery delle carte del processo? Deve sopravvivere o deve essere ridimensionato o addirittura eliminato il processo di appello come propone Forza Italia? A tutti questi interrogativi deve rispondere la riforma del processo penale. Prevista a giugno per la discussione in aula alla Camera. Attualmente si trova già da oltre un anno nella commissione Giustizia. Dove adesso siamo giunti alla presentazione degli emendamenti. Ne sono stati depositati 721. E sono già sul tavolo di Giorgio Lattanzi, il giurista che presiede il gruppo di studio di Cartabia. La road map prevede che, messi insieme gli emendamenti e le proposte elaborate dal gruppo di lavoro ministeriale, si possa giungere a formulare la soluzione definitiva della ministra Cartabia su cui giungere a un compromesso nella maggioranza. Il piatto più forte è la durata del processo. E con esso la prescrizione. Gli emendamenti dei partiti segneranno il destino della riforma Bonafede - stop alla prescrizione per i condannati dopo il primo grado - anche se M5S, proprio con gli emendamenti presentati, rifiuta compromessi al ribasso. Sembra prevalere l’ipotesi di una prescrizione “processuale”, legata ai tempi del processo. Se dura troppo, come dice il Pd, l’imputato ha diritto a uno sconto di pena. La riforma del Csm - Come devono essere eletti i componenti del Csm? Quanti devono essere i membri laici e quanti i membri togati? Quale sistema elettorale può bloccare lo strapotere delle correnti? Il sorteggio, come chiede la destra e come vorrebbe anche Articolo Centouno, l’ultima corrente - ma non vuole essere chiamata così - che fa parte dell’Associazione nazionale magistrati? È possibile ipotizzare un rinnovo parziale, ogni due anni, del Csm, in modo da evitare un ricambio totale garantendo una maggiore continuità? La sezione disciplinare deve restare dentro il Csm? Deve essere composta da consiglieri che fanno solo quel lavoro e non partecipano alle altre commissioni? I componenti delle commissioni devono essere sorteggiati per garantire la casualità e non il correntismo? Sono questi i problemi posti dalla riforma che secondo il calendario d’aula della Camera dovrebbe essere esaminata a giugno. Anche se è quasi certo che i tempi slitteranno per via del processo penale che sarà trattato prima. Ovviamente, il caso Palamara prima, e adesso il caso Amara, rendono la riforma del Csm politicamente molto sensibile. Perché viene interpretata come lo strumento per spezzare definitivamente le correnti. Il destino dei magistrati in politica - Può una toga che è divenuta sindaco, o presidente di Regione, o deputato, o senatore, o sottosegretario, o ministro, tornare a svolgere, come se niente fosse, il suo lavoro? Finora è stato così. Ma non sarà più così. In questo sono tutti d’accordo. Le cosiddette “porte girevoli” si bloccheranno per sempre. La magistratura onoraria - Bistrattati. Considerati giudici di serie B. O forse anche meno. Pagati a sentenza. Cinquemila anime all’insegna della precarietà. Senza pensione. Senza assistenza sanitaria. Senza ferie. Eppure il Recovery plan conta su di loro per recuperare l’arretrato della giustizia. Al Senato è ferma la riforma. Anche questa poteva diventare un decreto legge, ma si è fermata. Nonostante le proteste dei giudici onorari fuori dei palazzi di giustizia in pieno Covid, con tanto di scioperi della fame. Del tutto ignorati dal palazzo della politica. Adesso tocca a un magistrato di grande esperienza come il presidente della Corte di appello di Brescia Claudio Castelli presiedere il gruppo di studio in via Arenula. Vedremo che riforma verrà fuori e se accontenterà le toghe onorarie che hanno sempre bocciato la riforma dell’ex Guardasigilli Andrea Orlando. Prescrizione e soliti bavagli. Riparte l’assalto alla riforma della giustizia di Clemente Pistilli La Notizia, 6 maggio 2021 Se c’è in Parlamento una missione che sembra davvero impossibile è quella di una riforma della giustizia finalizzata a rendere il sistema più efficiente. Non è forse un caso che alcune materie siano ancora disciplinate da regi decreti. Una giustizia che si inceppa costantemente, che lascia sempre qualche scappatoia, a quanto pare ai più fa comodo. Ecco dunque che ieri, come da buona tradizione italiana, al disegno di legge penale sono stati presentati ben 700 emendamenti, con l’eterogenea maggioranza che sostiene il Governo di Mario Draghi nuovamente divisa e divisa soprattutto sul tema della prescrizione. Il pacchetto più corposo di emendamenti presentati in Commissione giustizia alla Camera è quello di Forza Italia, con 183 proposte di modifica del testo base, il ddl promosso dall’ex guardasigilli Alfonso Bonafede (nella foto). Altri 127 emendamenti li ha poi presentati la Lega, mentre sono 126 quelli di Italia Viva, 45 quelli dei 5 Stelle e 31 quelli del Pd. Tutto insomma piuttosto scontato. Prima delle votazioni previste per la prossima settimana, si attende così un difficile vertice tra i capigruppo di maggioranza e il guardasigilli Marta Cartabia. Si arriverà in particolare sul tema della prescrizione a quelle soluzioni condivise più volte auspicate dalla ministra della giustizia? L’impresa non sembra semplice. I pentastellati non mollano sul cosiddetto lodo Conte bis, una misura bandiera per M5S, ma si dicono pronti a trovare una mediazione sulla durata dei processi. In caso di scontro assicurano però anche di essere pronti a tornare al testo originario sulla prescrizione, stoppando il decorrere della stessa dopo la sentenza di primo grado, senza distinzione alcuna tra sentenza di condanna o di assoluzione. Tanto che nel pacchetto di proposte di modifica dei 5S c’è un emendamento che chiede di sopprimere l’articolo proprio sul lodo Conte bis, che stabilisce una distinzione tra condannati e assolti con lo stop del decorrere della prescrizione solo per i primi. Oltre alle destre, sulla prescrizione a dare battaglia c’è poi Italia Viva. “Abbiamo presentato emendamenti per preservare le garanzie costituzionali su temi fondamentali”, ha dichiarato Lucia Annibali. Tra gli emendamenti vi sono inoltre i 96 presentati da FdI, i 63 di Azione-Più Europa e i 9 di Leu. Senza freni. Scatenatissimo sulle modifiche del ddl soprattutto Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia del partito di Carlo Calenda. Le sue idee sono “cancellare lo stop alla prescrizione di Bonafede, prescrizione del processo, oblio per gli assolti, dibattimento trasferito in un’altra sede se il processo mediatico compromette l’imparzialità dei giudici, estensione del segreto istruttorio, interrogatorio prima della custodia cautelare, via i tempi morti dalle indagini, no intercettazioni tra giornalisti e fonti, trojan solo per reati gravi”. Qualcosa che sembra alla fine rendere difficile la celebrazione di un processo e anche eseguire un arresto. Ma per Costa sono “punti qualificanti del pacchetto di emendamenti che Azione ha depositato al ddl sul processo penale”. E come se non bastasse Azione punta pure a un Garante per la tutela della presunzione di innocenza e a imbavagliare definitivamente l’informazione, con il divieto di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare e il più stretto segreto istruttorio fino alla conclusione delle indagini preliminari. In pratica cittadini lasciati all’oscuro di fatti e misfatti fino a quando gli stessi non sono ormai più di attualità e dunque non disturbano più. La giustizia Amara riguarda anche Draghi di Claudio Cerasa Il Foglio, 6 maggio 2021 C’è un filo tanto sottile quanto importante che permette di legare all’interno di un’unica e appassionante storia il passo falso commesso da Davigo sul caso Amara e i passi futuri che il governo dovrà compiere per trasformare in realtà le promesse contenute all’interno del Recovery plan, a partire dai temi legati alla giustizia. La vicenda Davigo-Amara è utile da studiare non solo per provare a illuminare le ormai ordinarie sconcezze del circo mediatico (circo che considera giustamente Davigo un punto fortissimo di riferimento di tutte le forze manettare d’Italia) ma anche per provare a illuminare un problema altrettanto importante che è quello che riguarda una grave patologia del sistema giudiziario italiano: la sostanziale irresponsabilità di cui gode il mondo della magistratura. In questo senso, la vicenda Davigo-Amara è piuttosto educativa. E se mai ce ne fosse bisogno, dimostra che i criteri che i magistrati usano per determinare la colpevolezza degli indagati sono del tutto spropositati rispetto ai criteri che i magistrati usano per giudicare se stessi e rispetto ai criteri che lo stato usa per giudicare ogni altro dipendente pubblico che svolga una funzione diversa dall’essere un giudice o un magistrato. Succede così che di fronte a un ex consigliere del Csm come Davigo che ammette di non aver fatto quello che un qualsiasi altro consigliere del Csm dovrebbe fare quando riceve un verbale coperto dal segreto istruttorio - ovvero trasmettere con un atto formale le carte al comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura per non essere accusato di violazione del segreto istruttorio - il Csm non trovi di meglio da dire che in casi come questi no, niente, il Csm non può fare proprio nulla. Succede così che di fronte a un magistrato accusato di aver violato il segreto istruttorio gli organi addetti alle sanzioni disciplinari dei magistrati non facciano trapelare nulla di diverso dall’idea di trasferire quel magistrato in un’altra procura per incompatibilità ambientale (il problema è l’ambiente, o il traffico direbbe Johnny Stecchino, non il magistrato che tenta di fottere il capo della propria procura). Succede così che di fronte a giornali che commettono reati pubblicando notizie coperte dal segreto istruttorio nessuno alzi il dito per dire che la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale è un reato punibile dall’articolo 684 del codice penale; e questo non succede per la semplice ragione che in Italia il circo mediatico gode di una sorta di scudo penale che gli permette di fare anche quello che non si potrebbe fare (con una piccola oblazione si sana ogni violazione). Succede così che di fronte a una procura che, come scritto due giorni fa da Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera, decide di rallentare le indagini sul caso Amara per “non esporre inutilmente le istituzioni alla prova di verità o falsità di Amara su Ungheria” considerando “la prospettiva di dover gestire, in caso di radicale sbugiardamento di Amara, le potenziali ricadute sulla sua attendibilità nei procedimenti Eni” risulti evidente più che mai quanto il nostro paese abbia a che fare con un sistema giudiziario perfettamente tarato per allungare a proprio piacimento ogni indagine giudiziaria. La sostanziale irresponsabilità di cui gode il mondo della magistratura (ieri il deputato di Azione Enrico Costa ha ricordato la percentuale di valutazioni di professionalità con esito positivo sul lavoro dei magistrati fatta dal Csm, e si rasenta la perfezione: anno 2010, 97,73 per cento; 2011: 98,40; 2012: 97,15; 2013: 98,18; 2014: 97,13; 2015: 99,5%; 2016: 99,30) diventa ancora più lampante se si ha il coraggio di confrontare la disparità di trattamento che esiste tra un dipendente pubblico impegnato in magistratura e un dipendente pubblico impegnato in un altro genere di lavoro. A differenza dei dipendenti pubblici, i magistrati non rispondono alla Corte dei conti, non hanno un equivalente dell’Anac che indaga contro di loro, hanno un organo di disciplina composto in misura prevalente da magistrati, non hanno categorici doveri di trasparenza, possono usare a proprio piacimento le categorie del segreto e della riservatezza. Devono rispondere verso terzi e verso lo stato non in maniera diretta e senza limiti ma in maniera indiretta (il soggetto danneggiato agisce contro lo stato che poi può rivalersi verso il magistrato) soltanto una volta esauriti tutti i mezzi di tutela processuale del soggetto danneggiato (dopo i ricorsi) e in modo sempre limitato (i dipendenti pubblici per il danno causato possono vedersi intaccato il patrimonio, i magistrati per il danno causato possono pagare al massimo metà dell’annualità che il magistrato percepiva quando l’azione è stata proposta). L’effetto di tutto questo non riguarda solo un diffuso senso di impunità, come direbbe forse Davigo parlando di un qualsiasi cittadino diverso da un magistrato non condannato dopo essere stato indagato, ma riguarda un problema che è insieme di carattere politico ed economico e che si trova alla base di un fenomeno spesso denunciato dalla politica: la fuga dalla firma da parte dei dipendenti pubblici. Gli “effetti paralizzanti della fuga dalla firma” sono stati affrontati a febbraio da Mario Draghi all’apertura dell’anno giudiziario della Corte dei conti. Il tema sta certamente a cuore al presidente del Consiglio ma un governo che vuole essere ambizioso nella programmazione dei prossimi anni non può far finta che l’irresponsabilità di cui gode il circo mediatico-giudiziario non abbia qualcosa a che fare con la fuga del paese dalle sue responsabilità. E la prima occasione utile per misurare il coraggio che avrà il governo su questo tema coincide con il prossimo decreto sulle semplificazioni. Il Recovery Italia, caro Draghi e cara Cartabia, passa prima di tutto da qui. La Commissione su toghe e politica naufraga tra le polemiche di Errico Novi Il Dubbio, 6 maggio 2021 Il centrodestra contesta i relatori e ferma l’iter. Si è fermato ancora prima di partire l’iter della proposta di legge per costituire una commissione d’inchiesta sull’uso politico della magistratura. Si è fermato ancora prima di partire l’iter della proposta di legge per costituire una commissione d’inchiesta sull’uso politico della magistratura. Nella riunione congiunta delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia, Forza Italia ha chiesto che vengano cambiati i relatori della proposta ovvero il dem Stefano Ceccanti e Federico Conte di Leu, indicati dai presidenti Giuseppe Brescia e Mario Perantoni. Una polemica che si trascina da giorni perché secondo gli azzurri, supportati da Lega e Fdi, i due relatori non sarebbero adatti in quanto non sarebbero favorevoli all’istituzione della commissione d’inchiesta sulla magistratura. Commissione fortemente chiesta dal centrodestra e calendarizzata grazie al sostegno di Italia Viva. Ceccanti e Conte avrebbero dovuto svolgere le loro relazioni introduttive. Relazione che non si è svolta proprio per le polemiche sollevate nella seduta. “C’è stato una sorta di auto-ostruzionismo del centrodestra”, si riferisce, in quanto i tempi oggi erano stretti per via della riunione, già fissata, dell’ufficio di presidenza della commissione. “Polemiche su di me? No, non rispondo. Io parlo sui contenuti. Sulla nomina dei relatori rispondono i presidenti”, dice Ceccanti. E i presidenti Brescia e Perantoni non ravvisano la necessità di rivedere le loro scelte. “Legittime” scelte, si fa notare in ambienti parlamentari. La prossima settimana ci sarà una nuova riunione congiunta delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia e l’intenzione è quella di procedere, dopo lo stop di oggi, con la relazione sulle diverse proposte di legge (tutte presentate dal centrodestra) per l’istituzione della commissione d’inchiesta sulla magistratura che abbracciano sia più in generale il tema dell’uso politico della giustizia sia le vicende legate al caso Palamara. Così Perugia diventa il termovalorizzatore della malagiustizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 6 maggio 2021 Una nuova ondata di accuse, denunce e sospetti si è riversata negli ultimi giorni sulla magistratura italiana, travolta dallo scandalo della fantomatica loggia “Ungheria” e dalla singolare vicenda del passaggio dei verbali secretati tra il pm milanese Paolo Storari e l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Anche stavolta il compito di smaltire le scorie e dare una ripulita all’ambiente spetterà a Raffaele Cantone, capo di quella procura di Perugia diventata da due anni a questa parte una sorta di grande “termovalorizzatore d’Italia”: un po’ per ragioni di competenza (spettano alla procura perugina i procedimenti che riguardano la magistratura romana), un po’ per caso e un po’ per destino, la procura guidata da Cantone si è trasformata nel crocevia di tutti i principali “scandali” che attraversano il Paese. Il primo scandalo a esplodere, nel maggio 2019, è stato quello sulle cosiddette nomine pilotate al Consiglio superiore della magistratura, che vede come protagonista l’ex pm romano Luca Palamara. Il caso sconvolge il mondo togato, sei consiglieri del Csm si dimettono, decine di magistrati sono oggetto di procedimenti disciplinari. Il procuratore capo di Perugia, Luigi de Ficchy, fa solo in tempo ad avviare l’indagine su Palamara per corruzione in atti giudiziari, andando in pensione pochi giorni dopo. Cantone, nominato nuovo dirigente dell’ufficio, eredita il fascicolo e fa svolgere nuove indagini per sostanziare le accuse contro l’ex pm (anche utilizzando alcune dichiarazioni rese dall’avvocato Piero Amara). Lo scorso novembre è cominciata l’udienza preliminare. Ma non è solo la competenza sui magistrati romani ad attirare le scorie a Perugia. Anche la sorte fa la sua parte. Nel settembre 2020, infatti, esplode il “caso Luis Suarez” e la procura perugina è di nuovo al centro delle cronache. La notizia dell’indagine aperta dai pm sull’”esame farsa” svolto dal calciatore per ottenere la cittadinanza italiana e cercare di approdare alla Juventus fa il giro del mondo. Certo, nel frattempo avvengono fatti anomali, come la pubblicazione sui giornali di notizie relative all’indagine coperte da segreto, o come il rilascio di interviste da parte dell’ufficiale di polizia giudiziaria responsabile dell’inchiesta, ma si sa, l’opera di giustizia e di pulizia non bada alle sottigliezze. Anche la pandemia non poteva passare indenne dall’attivismo della procura perugina, così ecco a inizio anno l’indagine su un tentativo di truffa nella vendita di vaccini alla Regione Umbria. Anche in questo caso non si va per il sottile e a febbraio il procuratore Cantone decide di spedire i carabinieri del Nas del capoluogo umbro direttamente presso la struttura del Commissario straordinario per l’emergenza Covid, Domenico Arcuri, e l’Aifa, per acquisire quanti più documenti possibile. Si giunge ai fatti degli ultimi giorni, alle rivelazioni dell’avvocato Amara circa l’esistenza di una fantomatica loggia massonica denominata “Ungheria”, di cui farebbero parte anche alcuni magistrati in servizio a Roma. La procura di Perugia avrebbe aperto un fascicolo ipotizzando il reato di associazione segreta, anche se l’indagine sembra puntare soprattutto a trovare riscontri o smentite ai presunti rapporti tra i personaggi indicati da Amara. Insomma, dopo aver vestito per cinque anni i panni di indefesso presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, con un interventismo istituzionale e mediatico senza precedenti, anche nel suo nuovo incarico Cantone si ritrova a svolgere suo malgrado il ruolo di supremo giustiziere del Paese. Curiosamente, tutto ciò avviene mentre il governo nel “Piano nazionale di ripresa e resilienza” cerca di delineare interventi per semplificare la materia dei contratti pubblici e - indirettamente - rendere anche meno invadente il ruolo dell’Anac, preferendo lo sviluppo economico e la libertà delle imprese agli eccessi della burocrazia e del controllo (cioè proprio al “modello Cantone”). Terremoto giustizia, il procuratore Greco pronto a lasciare? di Simona Musco Il Dubbio, 6 maggio 2021 Dopo lo “scandalo verbali” e il caso Eni, voci interne al Tribunale di Milano riferiscono di un possibile addio del procuratore. Il procuratore di Milano, Francesco Greco, starebbe valutando di dimettersi prima della scadenza naturale del suo mandato, a novembre prossimo. È quanto emerso da fonti del Tribunale meneghino, dove la tensione, dunque, rimane alta dopo lo scandalo dei verbali secretati consegnati dal pm milanese Paolo Storari all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Caso che ora apre una “guerra” tra procure: oltre all’apertura di un fascicolo a Roma, che indaga su Storari per rivelazione di segreto d’ufficio e che ieri ha sentito Davigo come persona informata sui fatti, anche la procura di Brescia indaga per lo stesso reato, con un fascicolo attualmente a carico di ignoti. Parallelamente, è Perugia ad indagare sui contenuti di quei verbali, nei quali l’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara ha parlato di una fantomatica loggia, la cosiddetta “Ungheria”, composta da magistrati, avvocati, alti funzionari e politici in grado di controllare il Paese. Sarebbero circa 40 i nomi in lista - mai consegnata da Amara ai pm -, ma attualmente tutte le persone tirate in ballo hanno smentito categoricamente la loro partecipazione a qualsiasi associazione segreta, reato contestato dal procuratore Raffaele Cantone. Già prima del caos verbali si vociferava della possibilità che Greco lasciasse la procura in estate. L’ultima frattura interna alla procura - la precedente si era manifestata dopo le assoluzioni nel processo a Eni, a marzo - potrebbe averlo portato dunque ad accelerare ulteriormente i tempi. E secondo una fonte che conosce bene le dinamiche interne alla magistratura, “le dimissioni sono assolutamente possibili”. Il Csm sorvola la questione - “È un momento difficile per la magistratura”, ha detto David Ermini in apertura del primo plenum dopo il nuovo caos che ha terremotato il Csm. Poche parole, quelle del vicepresidente, che sfiora appena la questione. La novità, ora, è che dalle dichiarazioni di Davigo è emerso che la consegna dei verbali è avvenuta a Milano. E ciò sposterebbe la competenza delle indagini nelle mani dei magistrati di Brescia, titolata a indagare sui colleghi milanesi. In attesa delle mosse del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che valuterà un possibile procedimento disciplinare, concordato con la ministra della Giustizia Marta Cartabia, il plenum di ieri ha evitato di affrontare l’argomento. Gli unici accenni sono stati quelli di Ermini, che ha evidenziato come la magistratura abbia “voglia di grande riscatto”. L’indagine a Brescia - L’indagine avviata a Brescia servirà a fare luce su come siano andate le cose tra Greco e il sostituto Storari, che si è rivolto a Davigo a causa “dell’inerzia” da parte dei vertici della Procura nell’avviare le indagini sulle rivelazioni di Amara, a suo dire come forma di autotutela in caso di provvedimenti disciplinari. Ma come chiarito dal Csm, l’unica strada che il pm avrebbe potuto seguire è quella della segnalazione ufficiale alla procura generale, che avrebbe poi dovuto girare il “fascicolo” al Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura, per poi spedire il tutto, eventualmente, alla Prima Commissione, responsabile dei procedimenti disciplinari. Il pm milanese verrà ascoltato sabato prossimo alle 11. “Prendo atto della convocazione, alla quale noi ovviamente parteciperemo - ha dichiarato al Dubbio il suo legale, Paolo Della Sala - dopodiché la questione deve risolversi all’interno del contesto istituzionale. Di più non possiamo dire”. Tensioni a Milano - Secondo quanto affermato da Storari, la scelta di consegnare i verbali aveva lo scopo di far arrivare la questione, tramite Davigo, al Csm, affinché intervenisse per chiarire la situazione. Il pm ha dichiarato nei giorni scorsi di aver inviato almeno dieci mail a Greco per chiedere l’avvio di indagini sulle dichiarazioni di Amara. Ma tra fine 2019 e i primi mesi del 2020 non arrivò mai alcuna comunicazione alla Procura Generale milanese, che svolge funzioni di sorveglianza, né al Consiglio giudiziario del capoluogo lombardo. Storari, dunque, non segnalò i contrasti con Greco e la collega Laura Pedio, che ha raccolto insieme a lui le dichiarazioni di Amara. E ora la procuratrice generale Francesca Nanni, che ha preso funzione a fine gennaio, ha chiesto all’ufficio di Greco una relazione sulla vicenda per capire cosa sia successo, per poi eventualmente riferire al Procuratore generale Salvi, relazione che dovrebbe essere pronta nei prossimi giorni. Tra le possibili conseguenze anche quella che la procura generali avochi a sé il fascicolo sul cosiddetto “falso complotto Eni”, nell’ambito del quale si svolsero gli interrogatori di Amara. Mi: il Csm sia parte civile - A intervenire nel dibattito è anche la corrente Magistratura Indipendente, secondo cui il Csm è “oggetto di una inquietante e oscura attività di dossieraggio e delegittimazione, volta, da un lato, ad influenzare l’organo, indebitamente e dall’esterno, nell’esercizio delle proprie prerogative costituzionali e, dall’altro, a screditarne l’autorevolezza e il prestigio presso l’opinione pubblica e la cittadinanza”, sostengono i consiglieri Loredana Micciché, Paola Braggion, Antonio D’Amato e Tiziana Balduini. I quattro hanno proposto al comitato di presidenza di costituire il Csm come parte offesa per “tutelare e salvaguardare l’istituzione consiliare da indebite interferenze esterne e difenderne così l’autonomia in ogni sede”. Gigliotti sapeva dei verbali - Intanto anche il consigliere laico Fulvio Gigliotti - la cui segretaria, Marcella Contrafatto, prima al fianco di Davigo, ha consegnato i documenti alla stampa ed è ora indagata per calunnia - ha ammesso di aver saputo dall’ex pm di Mani Pulite di quei verbali. Davigo gliene avrebbe parlato in termini “molto generici”, ha riferito all’Adnkronos, “nella primavera- estate del 2020”. E in quell’occasione fece il nome del consigliere e suo ex amico Sebastiano Ardita, indicato erroneamente come componente della loggia - in realtà Amara parla di una sua presunta partecipazione ad un incontro, collocandolo a Catania nel 2006, anno in cui si trovava però al Dap. Davigo, da Mani pulite ai dossier misteriosi: ascesa e caduta del “duro” delle toghe di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 6 maggio 2021 Ora che l’ex pm deve sedere sul banco dei testimoni, è il primo a sapere quanto sia scomodo. Ecco come è diventato uno dei magistrati più detestati. Una volta confessò di non poter essere davvero certo della propria virtù, non essendo mai stato indotto in tentazione da nessuno nella sua carriera da inquisitore. Ovvio: con quella faccia un po’ così, da Javert padano, quell’espressione un po’ così, da trangugiatore di Maalox, solo un pazzo avrebbe potuto immaginare di corromperlo. Piercamillo Davigo più che un magistrato (in pensione, senza requie) è una metafora: della giustizia periclitante, delle umane contraddizioni, delle nostre ipocrisie. E ha la dannazione di parlare per metafore e iperboli venendo preso quasi sempre alla lettera, spesso per stupidità o malafede. Il suo famoso siparietto su quanto fosse più conveniente, tra sconti e abbuoni di pena, uccidere la moglie piuttosto che divorziarne, apologo iperbolico su storture e lentezze di un sistema, venne chiosato da autorevoli garantisti come “l’uxoricidio delle garanzie” o “l’infernale paradosso”. Forse più per bulimia provocatoria che per eccesso di custodia cautelare, Davigo è diventato così uno dei magistrati più detestati, pur vantando meriti non comuni. Per lungo tempo se n’è quasi dilettato: deve essere stata una seduzione irresistibile épater le bourgeois, stupire i borghesi, per un borghese piccolo piccolo venuto dalla natia Candia Lomellina, minuscola provincia Pavese, rigidità militaresca e perbenismo familiare. “Non esistono innocenti ma colpevoli non ancora scoperti” può apparire l’odioso manifesto di uno sgherro dello Spielberg o l’ammissione quasi evangelica della nostra umanissima debolezza, dipende dal cuore di chi ascolta, ma in entrambi i casi scandalizza (ed è bene che gli scandali avvengano, si sa). “Rivolteremo l’Italia come un calzino” pare sia invece un apocrifo, oggetto di contestazioni anche nelle aule giudiziarie: perché, se il dipietrese si nutre di sbuffi e strafalcioni, il davighese è fatto di finezze giuridiche ma anche di ferocie non sempre autentiche. Poi la ruota gira e i capelli già radi e impomatati diventano zucchero filato: il resto è oggi. Oggi, che il “Dottor Sottile” è chiamato a sedere sullo scomodo scranno del testimone, molti nei social esultano manco lo avessero colto a fare una rapina (“godo”, “se lo merita”, “chi la fa…”). Lui per primo, del resto, sa benissimo quanto sia scomoda quella posizione, nella quale (a differenza dell’indagato) la persona informata sui fatti non ha facoltà di mentire, avendo fatto arrestare proprio per questo, un 4 marzo di 28 anni fa, il portavoce di Forlani, Enzo Carra, che nicchiava sulla maxitangente Enimont non volendo inguaiare il suo capo e fu poi sottoposto (non per volontà di Davigo) all’umiliazione di un passaggio in manette tra fotografi e telecamere. Mani pulite è stata un’esperienza così potente da far quasi scolorire il prima e il dopo di molti. Eppure, il prima di Davigo ne spiega l’approdo. Ecco il maestro di prima elementare — giustizialista ante litteram - che mette alla gogna un lungagnone pluriripetente, ammonendo: “In Italia l’istruzione è obbligatoria per almeno otto anni, questo significa che potete fare otto volte la prima elementare: come accade a lui”. Ecco gli Anni di piombo che gli portano lo stigma ingiusto del fascista, derivato dall’occuparsi di sindacato dalla parte degli imprenditori, con le scritte “Davigo fascista sei il primo della lista” per le quali lui non si scompone finché quelli cambiano scritta: “Davigo abbiamo perso la lista ma tu sei sempre il primo” (“pensai che nessuno con quel senso dell’umorismo poteva davvero spararmi”, ha poi raccontato lui a Silvia Truzzi de Il Fatto quotidiano). In quegli anni, da giovane magistrato, il primo incontro con Borrelli, rientrato in servizio con una gamba ingessata per condannare il terrorista Alunni mentre tanti colleghi se la squagliavano. L’inchiesta più famosa nascerà con quel procuratore (“coraggioso e con il senso delle istituzioni”), ispirata dall’idea forse crudele che la corruzione sia “un reato seriale” (una volta corrotto, sempre corrotto) e che l’unico modo per spezzare il circolo sia la confessione, perché rende inaffidabili per i complici. Decisivo nel dissuadere Di Pietro dall’accettare il Viminale offertogli da Berlusconi neopremier (avendo a sua volta rifiutato la poltrona da Guardasigilli), Davigo è forse il più magistrato dei magistrati del vecchio pool (Tonino ha avuto mille identità, Borrelli si sognava pianista, Colombo divulgatore di cultura). Ma proprio questa immedesimazione nel ruolo è diventata il punto di frattura, ciò che spiega il dopo: quando si trattava di alzarsi dal tavolo con grazia. Di colpo, alcune ovvietà che scandalizzavano (“la politica dovrebbe riformarsi prima delle sentenze per non ripetere la propria legittimazione dai magistrati”) diventano bandiere del neogiustizialismo. Quando a prenderlo alla lettera sono i grillini, lui non se ne rammarica, anzi finisce per farsene acclamare padre nobile, catapultato al Csm dall’onda lunga del 2018. Seguono polemiche sempre più feroci, la battaglia infelice per non lasciarsi pensionare, la voglia di stupire che diventa sovraesposizione nei talk dove tutto è frullato e banalizzato: Davigo mette in scena Davigo. E siamo al triste epilogo, all’intruglio di liquami sgorgato da una fonte che ha il destino nel nome (Amara) e all’incapacità del nostro di tenersene lontano, di godersi una panchina, un ricordo, persino un rimpianto. In questo gracchiar di corvi, Davigo si ritrova teste su una poltrona di spine, per via del fuorisacco di un collega incontinente e di una ex segretaria sospettata di aver fatto da postina di atti secretati. L’augurio, per chi lo ha conosciuto quando il bene e il male sembravano ancora entità separate, è che gli venga risparmiato almeno il noto broccardo “non poteva non sapere”: che tanta fortuna portò alla sua indagine più famosa e tanta angoscia ai suoi più famosi indagati. Boom di errori giudiziari, ma il Csm promuove i magistrati di Viviana Lanza Il Riformista, 6 maggio 2021 Nel Paese dove gli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni raggiungono numeri alti al punto da ritenere patologiche alcune criticità del sistema giustizia, si scopre che i magistrati con una valutazione professionale negativa non arrivano al 2% ogni anno. Confrontare i due dati (errori giudiziari e valutazione dei magistrati) non può e non vuole servire a puntare indiscriminatamente il dito contro la categoria delle toghe. Di fronte a questi dati, però, è inevitabile porsi degli interrogativi. “Come si spiegano i 207 errori giudiziari e le 29.500 ingiuste detenzioni negli ultimi trent’anni? Coincidenza, casualità, congiunture astrali?”, è la riflessione sollevata da Errori giudiziari, l’associazione creata dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone che da 25 anni raccoglie storie e traccia bilanci sul fenomeno degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni. Possibile che le migliaia di casi registrati ogni anno siano soltanto coincidenze? “O magari anche incapacità, superficialità, sciatteria, distrazioni”, ipotizzano. Una riflessione che a Napoli fa i conti con un triste primato a livello nazionale: da oltre dieci anni Napoli è in cima alle classifiche delle città italiane per numero di ingiuste detenzioni, cioè di innocenti finiti in carcere. Ora, noi sappiamo quanti bravi e scrupolosi magistrati lavorano negli uffici giudiziari, con quanto zelo e quanta dedizione si occupano di casi spesso complessi e in contesti che, come quelli napoletani, sono appesantiti da una particolare mole di procedimenti e da croniche carenze di risorse all’interno degli uffici. Ma sappiamo anche che ci sono numeri elevatissimi di indagini che finiscono in archiviazioni e ancor di più in prescrizioni, di processi che si sarebbero potuti evitare, di innocenti finiti in galera. Come mai? Se non è mai responsabilità dei magistrati, allora perché si verificano così tanti casi di malagiustizia? Può davvero essere solo colpa di testimoni che prima denunciano e poi, una volta in aula, ritrattano? Il Riformista si è già occupato di errori giudiziari e di ingiuste detenzioni, riportando le statistiche più aggiornate sul fenomeno. Attraverso i dati raccolti dal deputato di Azione Enrico Costa, prova ora ad analizzare un altro aspetto della questione: di chi è la responsabilità di tanti fallimenti giudiziari? Per il Csm non dei magistrati italiani, valutati quasi come infallibili. Se si osservano, infatti, i dati che l’onorevole Costa ha raccolto per presentare una serie di emendamenti alla riforma del processo penale, si nota che il Consiglio superiore della magistratura, organo di autogoverno delle toghe, negli anni ha sempre valutato più che positivamente il lavoro di giudici e pubblici ministeri, tanto che le valutazioni hanno avuto esito positivo nella quasi totalità dei casi: 97,73% nel 2010, 98,40% nel 2011, 97,15% nel 2012, 98,18% nel 2013, 97,13% nel 2014, 99,56% nel 2015, 99,30% nel 2016. I dati raccolti, sebbene non attualissimi, spiccano rispetto ai numeri che in quegli stessi anni chiudevano i bilanci su errori giudiziari e ingiuste detenzioni. Nel 2012, per esempio, la media era addirittura di un errore o un innocente in carcere ogni giorno e, alla data del 31 maggio 2012, delle 144.650 cause pendenti dinanzi alla Corte di Strasburgo, 14.150 provenivano dal nostro Paese e, in particolare, dinanzi alla Corte di appello napoletana pendeva il 9,53% dei casi nazionali. “La valutazione della professionalità dei magistrati denota che c’è una sorta di sei politico dato a tutti indifferentemente - commenta Costa - rispetto a una valutazione puntuale sul lavoro svolto. Questo crea un appiattimento che svilisce chi si impegna e premia chi non lo fa e dove c’è appiattimento, dove c’è valutazione come atto burocratico e non come sindacato puntuale di merito, ci sono meno stimoli per coloro che sono in condizione e si sentono di poter dare di più”. “Ed è un peccato perché il merito va premiato - aggiunge Costa facendo poi riferimento alla questione delle correnti interne alla magistratura - Quando si sta tutti sullo stesso piano, a decidere è la corrente”. “Assolti in sei dopo 2 anni di galera. Il settimo si è impiccato in cella” di Simona Musco e Valentina Stella Il Dubbio, 6 maggio 2021 Giuseppe Gregoraci era in carcere nonostante fosse gravemente invalido e depresso, inutili le richieste del suo avvocato. Ma ora sono due le indagini aperte sul caso. Si era impiccato in cella nel gennaio 2020 Giuseppe Gregoraci, detto “Pino”: aveva solo 51 anni ed era detenuto nel carcere lombardo di Voghera. Era stato arrestato a luglio del 2019 nell’operazione “Canadian ‘ndrangheta connection”, scattata su impulso della Dda di Reggio Calabria per colpire la ramificazione della ‘ndrangheta calabrese in Canada. L’uomo era accusato di fare parte di una ‘ndrina di Siderno e ritenuto anche responsabile di esercizio abusivo del credito, con l’aggravante di aver agevolato la ‘ndrangheta. Pino era un marito, un padre, un pasticcere ma fu etichettato dai giornali come un boss. Se fosse ancora vivo, se avesse potuto beneficiare dei domiciliari forse oggi sarebbe stato scagionato. Proprio due giorni fa, infatti, il Tribunale di Locri ha assolto dalle accuse di associazione mafiosa “per non aver commesso il fatto” i sei co-imputati del processo che avrebbe dovuto giudicare anche Pino. “Non esiste una ‘ndrina, non esiste un’associazione mafiosa - si è sfogata la moglie Rosamaria su Facebook - quindi mi chiedo se questi eclatanti arresti, con tanto di titoloni come “boss mafiosi”, “la nuova ndrina di Siderno” ecc. ecc. era proprio il caso di farli? Questo arresto è stato fatto per uccidere un uomo?”. A spiegare il calvario di Gregoraci è il suo difensore Giuseppe Calderazzo. Gregoraci finisce in manette nonostante i gravi problemi fisici. L’uomo ha infatti perso una gamba a causa di un grave incidente stradale, all’età di 18 anni, al seguito del quale ha dovuto indossare, fino alla fine, una protesi. “Gregoraci è entrato in carcere con una patologia depressiva, derivante dalla sua condizione - spiega Calderazzo. Immediatamente, il carcere di Reggio Calabria è risultato inadeguato, come certificato nero su bianco dai medici, che hanno ammesso di non essere in grado di prendersene cura”. La cartella sanitaria, dunque, è chiara sin dall’inizio. Gregoraci viene così trasferito nel carcere di Voghera, dove non solo non ci sono le condizioni per assistere adeguatamente l’uomo, ma, mancando le attrezzature adeguate per far fronte ad una situazione del genere, cade n bagno, durante la doccia. “Questo perché non poteva utilizzare la protesi - prosegue Calderazzo - perché senza fisioterapia ordinaria e manutenzione della protesi il risultato è il restringimento del moncone. E ciò avrebbe reso necessario un intervento fisioterapico più incisivo”. Dopo le cadute, che gli provocano un trauma cranico importante, Calderazzo chiede la concessione dei domiciliari, portando come documenti le relazioni di due consulenti, una sulla protesi e una sulla sua condizione psicologica. “I due consulenti, che lo hanno visitato in carcere, hanno certificato l’assoluta incompatibilità di Gregoraci con il carcere - spiega ancora il legale -. Il moncone era ritirato e la protesi ormai inservibile. Solo quattro ospedali in Italia potevano eseguire quelle terapie, figuriamoci se ciò poteva avvenire in carcere. Il rischio era che potesse perdere l’utilizzo anche della restante parte della gamba”. L’istanza viene depositata il 18 dicembre del 2019. Il gip chiede subito a Voghera una relazione sanitaria, ma non succede nulla. Il procedimento passa però lo stesso giorno ad un altro giudice, che riceve la relazione, datata il 24 dicembre, soltanto il 3 gennaio. E sulla base di quella, dopo una settimana, l’istanza viene rigettata. “Tutto ciò senza disporre alcuna perizia, ma ordinando al Dap di individuare una struttura dove fare fisioterapia. Il Dap - aggiunge -, a stretto giro, ha chiesto a Voghera di verificare se ciò fosse possibile a Busto Arsizio. Ma non è successo più niente”. Otto giorni dopo il Dap riscrive a Voghera, al gip e per conoscenza al pubblico ministero, evidenziando di non aver avuto più riscontri dal carcere di Voghera. “Malgrado il gip abbia avuto conoscenza di questa nota del Dap, dunque, non ha preso provvedimenti”, aggiunge Calderazzo. Il 20 gennaio 2020 Gregoraci si toglie la vita, impiccandosi nella sua cella. E ora sul caso sono aperte due inchieste: una a Pavia, contro ignoti, e uno a Salerno, dove ad essere indagati sono i due giudici che hanno seguito il caso. I pm hanno però chiesto l’archiviazione. “Per il primo giudice ho chiesto io stesso che venisse scagionato”, specifica l’avvocato, che però è convinto delle responsabilità del secondo. E aggiunge un dato: l’uomo non aveva colloqui con gli psicologi, nonostante le richieste del suo legale e malgrado il suo stato depressivo, che sarebbe stato “curato” soltanto con tranquillanti. La famiglia, conclude, ora è disperata. “E oggi, con l’assoluzione verticale di tutti i soggetti con una posizione simile alla sua - conclude - ci possiamo rendere conto della disperazione che lo affliggeva e di quanto la sua depressione sia aumentata in maniera esponenziale in quella cella”. Ex terroristi arrestati, Petrella: “Ho già fatto 10 anni di carcere e 30 di esilio” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 6 maggio 2021 A Parigi processo per l’estradizione, primo atto. Sono arrivati davanti al giudice verso le 18, dopo che l’udienza era stata spostata due volte. Inizia oggi, davanti alla Corte d’Appello di Parigi il processo per l’estradizione dei nove ex terroristi rossi arrestati a fine aprile in Francia. Sono tutti stati condannati in via definitiva per reati di sangue e hanno dimorato finora in Francia grazie alla dottrina Mitterrand. La svolta il 28 aprile, dopo una serie di contatti tra il governo italiano e quello d’Oltralpe. Sono arrivati prima gli arresti e, nel giro di 24 ore, la libertà vigilata. Per nove dei dieci terroristi per cui era stato emesso il mandato d’arresto - sono Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Patrella, Sergio Tornaghi, Giorgio Pietrostefani ai quali si aggiungono Luigi Bergamini e Raffaele Ventura, ancora in fuga Maurizio Di Marzio, per il quale oggi scatta la prescrizione - si apre ora un lungo iter che potrebbe durare anni. E culminare, se il giudice riterrà che ce ne siano le condizioni, con l’estradizione in Italia. Oggi è solo il primo atto. E una parte di questo si consuma fuori dall’Aula. Non mancano i momenti di tensione, quando vengono insultati sono stati insultati in romanesco da una donna che si trova nel gruppo degli ex terroristi che stava entrando nel corridoio che porta l’aula del tribunale: “Pezzi di merda”, avrebbe urlato. Gli ex terroristi arrivano in mascherina, con i loro avvocati. Gli scatti dei fotografi immortalano Raffaele Ventura, che inizialmente era sfuggito agli arresti e poi si è costituito, e Giorgio Pietrostefani, condannato per l’omicidio Calabresi, il più anziano di tutti, quasi ottantenne. Le ultime immagini che si hanno di lui, così come degli altri arrestati, risalgono a tanti anni fa. Anni trascorsi in Francia, mentre l’Italia ne chiedeva il ritorno per far loro scontare le pene. Arriva anche Marina Petrella, ex Br oggi 66enne condannata all’ergastolo, e si ferma qualche secondo a parlare con i cronisti: “Vi rendo partecipi del mio dolore, sono sconvolta”, dice in francese. Sessantasette anni, anche lei brigatista e condannata all’ergastolo, sostiene: “Stiamo arrivando verso la fine. Stiamo raschiando il fondo del barile. Io ho vissuto tutti questi anni con un grande dolore. Dolore e compassione per le vittime, per tutte le vittime. Per le famiglie coinvolte, compresa la mia. Da parte mia, ho fatto 10 anni di carcere, fra Italia e Francia. E 30 di esilio, una pena senza sconti e senza grazie. Che ti impedisce di tornare nella tua terra”. Parole che, forse, faranno discutere. In aula, intanto, si celebra il rito. Il primo a entrare è Sergio Tornaghi, ex brigatista. La corte comincia leggendogli le condanne subite - in questo caso l’ergastolo - e le richieste dell’Italia. Lo stesso procedimento verrà fatto poi anche con gli altri. Le prime formalità, che preludono a un processo che non sarà breve né semplice. Intanto, mentre i familiari delle vittime in Italia chiedono giustizia - chiarendo che non cercano vendetta - gli intellettuali francesi continuano con le iniziative a sostegno degli ex terroristi. Il quotidiano Liberation ha dedicato questa mattina due pagine all’appello di un gruppo di intellettuali al presidente Emmanuel Macron contro la concessione dell’estradizione. Nell’appello si ricorda la concessione dell’accoglienza durante la presidenza di Francois Mitterrand, negli anni Ottanta, la nuova vita in Francia degli ex militanti italiani, che hanno rinunciato alle armi e alla violenza, le loro nuove famiglie. Viene invocata l’amnistia in Italia, un gesto che - secondo loro - consentirebbe al Parlamento di “voltare pagina e di guardare al futuro”. A controbilanciare l’intervento, nella seconda pagina c’è un testo dell’ex presidente della Camera, Luciano Violante: “Anche le vittime delle Brigate rosse avrebbero voluto rifarsi una vita”, è il titolo. Nell’intervento si legge: “Insorgere contro l’arresto di ex militanti di estrema sinistra italiani che da 40 anni vivono in Francia, significa misconoscere i crimini terroristici di cui sono stati autori in passato”. Gli ex terroristi dai giudici: “Dolore per tutte le vittime” di Francesca Pierantozzi Il Messaggero, 6 maggio 2021 “Ho vissuti questi anni con grande dolore” dice Marina Petrella arrivando alla Corte d’Appello di Parigi. Nell’aula 5, quella della Chambre de l’Instruction, comincia ufficialmente la procedura di estradizione per gli “ultimi latitanti” di Francia. Arrivano alla spicciolata, Giorgio Pietrostefani, Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Sergio Tornaghi, Luigi Bergamin, Narciso Manenti, Raffaele Ventura. Arrivano per sentirsi ripetere i capi di accusa che pesano su di loro in Italia, omicidi, associazione sovversiva, concorso morale, banda armata. Arrivano quasi tutti accompagnati: chi le figlie, chi la moglie, chi un amico. Un gruppetto - c’è anche Oreste Scalzone - sono venuti a sostenerli “silenziosamente” fuori, sulla piazza davanti al palazzo di Giustizia sull’Ile de la Cité. I nove vanno dritti dagli avvocati che li aspettano davanti all’aula, cercando di evitare i giornalisti. Il decimo nome sulla lista di quelli per cui l’Italia chiede l’estradizione continua a essere latitante: Maurizio Di Marzio (ex brigatista, 14 anni per tentato sequestro) ha fatto perdere le tracce dal 28 aprile. Per lui la prescrizione sta per arrivare: scade il 10 maggio. Roberta Cappelli (ex Brigate Rosse, ergastolo per associazione con finalità di terrorismo, concorso in omicidio e rapina) non cede ai cronisti, sussurra: “è impossibile parlare adesso, non si può spiegare tutto con poche parole, con una dichiarazione”. Marina Petrella (ex Brigate Rosse, ergastolo per concorso in omicidio) si ferma prima di entrare a palazzo di Giustizia. Ci sono le figlie, una “collega” che lavora con lei come assistente sociale nel 20simo arrondissement. Cerca le parole, preferisce il francese, anche se dopo trent’anni resta forte l’accento italiano, anzi romano: “So che ogni mia parola varrà l’accusa di essere arrogante, che arriveranno invettive. Siamo alla fine: tengo a dire che ho vissuto tutti questi anni con grande dolore. Dolore e compassione per le vittime, tutte le vittime, per tutte le famiglie coinvolte, compresa la mia”. “Sono stata condannata sulla base dell’assunzione di responsabilità collettiva - spiega a qualche giornalista Petrella - quest’assunzione di responsabilità resta, ma alla giustizia spetta condannare in base a chi ha fatto cosa, e questo non è stato fatto. Gli ergastoli erano a palate. Ci sono state tante vittime, e ci sono stati tanti compagni che hanno pagato con l’ergastolo per quelle vittime, che non sono rimaste impunite, senza memoria. È stato uno scontro duro per tutti”. “Da parte mia, ho fatto 10 anni di carcere, fra Italia e Francia E 30 di esilio, un’espiazione quotidiana che dura tutta la vita, una pena senza sconti e senza grazie. Che ti impedisce di tornare nella terra natale, di dare sepoltura ai tuoi morti. Anche qui un passaggio nel dolore e nella lacerazione”. Trovare finalmente “un linguaggio comune”, le sembra ancora “impossibile”. C’è una sfera “intima” per il perdono - della quale, dice, “non parlerà mai” - e poi c’è quella della vita pubblica, dell’impegno civico. “Forse non è un caso se faccio il lavoro che faccio, un lavoro in cui posso essere utile socialmente, fare qualcosa di bene, una sorta di riscatto simbolico”. In compenso, le parole del ministro della Giustizia francese Dupont Moretti, che ha paragonato i fuoriusciti italiani in Francia ai terroristi del Bataclan, le sembrano “oscene”: “il paragone semmai lo poteva fare con piazza Fontana, Brescia, Bologna, Reggio Calabria”. Davanti all’aula dell’udienza, che dà il via a una procedura che - su questo sono tutti d’accordo - sarà lunga, forse addirittura lunghissima, c’è anche William Julié, che rappresenta lo stato italiano: chiede al magistrato di poter essere presente durante tutta la causa. Questo darà all’Italia la possibilità di pesare di più sull’intero iter giudiziario. Davanti al magistrato sfilano uno per uno gli ex latitanti: tutti con le stesse risposte, no, non accettano la richiesta di estradizione, e sì, si dichiarano innocenti. Gli ex terroristi italiani in aula a Parigi: “Non ci pentiremo mai” di Anais Ginori La Repubblica, 6 maggio 2021 Alla prima udienza sull’estradizione, i nove condannati a sorpresa parlano dopo anni di silenzio. “Mi sono sempre dichiarato innocente e continuerò a farlo”. Giorgio Pietrostefani cammina a fatica nella Chambre d’Instruction della Corte d’appello. Loden verde, capelli bianchi cortissimi, l’ex dirigente di Lotta Continua condannato per l’omicidio Calabresi, va a sedersi nel piccolo banco davanti ai tre magistrati. Sono le cinque del pomeriggio di una giornata piovosa e insolitamente fredda quando, dopo aver esaminato una dozzina di altre domande di estradizione, tra un pappone moldavo e un rapinatore rumeno, l’Avvocato dello Stato, Clarisse Taron, fa entrare gli italiani. “Ora passiamo al non ordinario” premette Taron davanti ai pochi giornalisti autorizzati ad assistere all’udienza. Tutto è eccezionale nella procedura cominciata ieri sull’Ile de la Cité e che dovrebbe riportare in Italia nove ex terroristi degli anni di Piombo condannati con sentenze definitive e mai applicate. La prima chiamata è per l’ex brigatista Sergio Tornaghi che quando gli chiedono se accetta l’estradizione risponde un “assolutamente no”. Uno dei magistrati gli propone di aggiungere una dichiarazione. A sorpresa Tornaghi, condannato all’ergastolo per omicidio, decide di parlare. “Le accuse che mi sono rivolte sono infondate e la mia condanna è eccessivamente punitiva” commenta Tornaghi, giacca scura e camicia beige, l’aria un po’ spaesata. Enzo Calvitti, magro e in cardigan azzurro, mette a verbale una laconica frase. “Sono sorpreso da quello che sta succedendo” dichiara l’ex brigatista con voce tremolante. Dopo anni di silenzio, cercando di farsi dimenticare, ora tutti vogliono dire qualcosa, cominciare a difendersi anche se in teoria quella di ieri era una prima udienza solo tecnica per la notifica della procedura avviata con gli arresti del 28 aprile, seguiti al via libera politico dato da Emmanuel Macron. Uno dei più spavaldi è Luigi Bergamin che si dilunga per vari minuti. “Con tutto il rispetto per la Corte - esordisce l’ex militante dei Pac - non si capisce la legittimità della cosiddetta operazione Ombre Rosse che ha portato all’arresto di dieci italiani in Francia da decenni”. Uno di loro, Maurizio Di Marzio, è ancora in fuga e conta i giorni in vista della prescrizione prevista lunedì prossimo. Marina Petrella, che già nel 2008 stava per essere estradata, appare in cappotto blu, spilla e orecchini. L’ex brigatista si dice “sconvolta” dalla nuova procedura e ricorda di aver già passato otto anni in carcere in Italia per quella che definisce una “responsabilità collettiva”. Prima dell’udienza aveva premesso su un eventuale pentimento: “Non ne voglio parlare e non parlerò mai”. Come gli altri, a cui è stata concessa la libertà vigilata, parla di “esilio” e lo paragona a “una forma di espiazione permanente che non prevede né riduzione di pene né grazia”. “È qualcosa che mi porterò dentro fino alla morte” aggiunge. Quando ha finito, aspetta di sentire l’altra ex brigatista, Roberta Cappelli. Un po’ più giovane, chioma rossa, anche lei condannata all’ergastolo, Cappelli sceglie di fare un riferimento alla Dottrina Mitterrand. “Vorrei esprimere la mia gratitudine per l’accoglienza che ho ricevuto in Francia e per chi ha capito la nostra storia, non in modo compiacente come dicono alcuni, ma immaginando una traiettoria diversa da quella unicamente penale”. In fondo alla sala c’è un vecchio orologio. Il tempo qui non è uguale per tutti. Non è quello delle vittime per cui quei fatti “lontanissimi”, come ripetono gli avvocati della difesa, alimentano un dolore che non conosce prescrizione. E non è quello di questi sette uomini e due donne, tutti sopra ai sessant’anni, che insistono sulla loro seconda vita in Francia da onesti lavoratori e bravi padri di famiglia. “Ho tre figli, una nipotina” racconta Narciso Manenti, condannato all’ergastolo. Raffaele Ventura legge un foglietto. Vuole precisare che non faceva parte delle brigate rosse ma di un gruppo extraparlamentare. E poi racconta con orgoglio di aver rinunciato alla nazionalità italiana quando gli è stata concessa nel 1986 quella francese. “Ho giurato di rispettare i principi della République quindi ho fiducia e mi rimetto a voi” è il messaggio ai magistrati. Pietrostefani non nasconde l’emozione di trovarsi di nuovo in aula a settantotto anni. “Ci sono stati molti processi, sette gradi di giudizio. A volte abbiamo vinto, altre perso” spiega ricordando le varie tappe del percorso giudiziario in Italia. “Ero già in Francia quando ho deciso di tornare per affrontare il processo” dice sul suo rientro a Pisa nel 1997 in solidarietà con Adriano Sofri e Ovidio Bompressi. “Quando ho capito che la decisione sarebbe stata negativa - prosegue - ho pensato a mia figlia”. La bambina aveva nove anni. “Ora è cresciuta, si è sposata, sta bene. Ma poi ho avuto una brutta malattia, mi hanno trapiantato il fegato, ogni tre mesi devo fare ricovero in ospedale”. È curvo sul banco, s’interrompe. “Scusatemi ma sono molto stanco”. La verità storica non si conquista con le manette di Paolo Persichetti Il Riformista, 6 maggio 2021 La richiesta di una verità ancora mancante è stata una delle giustificazioni più richiamate nell’orgia di commenti che hanno accompagnato la notizia della retata degli esuli degli anni 70 a Parigi. Tra le voci più autorevoli si è distinta quella della nuova ministra della Giustizia Cartabia. La pagina storica degli anni 70 non può ancora essere chiusa - sostengono questi nuovi soldati della verità - senza che prima non sia fatta chiarezza sui fatti della lotta armata. Di pari passo questo accertamento della verità non può essere separato dalla esecuzione della pena, unico modo - par di comprendere - per arrivare alla verità. Affermazione dalla portata inquietante: ritenere che la verità sia ontologicamente legata alla punizione apre scenari totalitari che non sembrano tuttavia aver creato allarme. Chi chiede verità in questo modo non sta promuovendo un percorso di conoscenza ma semplicemente una conferma, per giunta autoritaria, del proprio pregiudizio. Una verità precostituita a cui i colpevoli dovrebbero adeguarsi. L’esatto contrario della verità storica che invece è un processo libero da condizionamenti, dove si scava alla ricerca di fonti nuove e si rielaborano e si confrontano nello spazio pubblico quelle note. Quello che invece viene proposto dalle milizie della verità punitiva è un mercato della verità, il mercato delle verità contrapposte, verità che cambiano col cambiar delle maggioranze e dei colori politici. La cosa più assurda è vedere la massima autorità della Giustizia promuovere la richiesta di estradizioni, per giunta utilizzando tutti i sotterfugi possibili per aggirare le prescrizioni lì dove l’inesorabile decorso del tempo le ha già sancite (vedi l’invenzione della delinquenza abituale), sulla base di sentenze che ricostruiscono una verità giudiziaria con pesanti conseguenze penali, e subito dopo sentir dire che quei colpevoli devono ancora dire la verità, una verità che dunque non può che essere diversa da quanto sancito nelle sentenze. Ma se così stanno le cose, che legittimità hanno delle richieste di estradizione fondate su sentenze che non dicono il vero? In carcere, dopo la mia estradizione, rivolsi la stessa domanda al magistrato di sorveglianza che erigendosi a quarto grado di giudizio mi chiedeva la verità, altrimenti si sarebbe sempre opposta alla concessione di qualsiasi misura alternativa. “Se lei mi fa questa domanda - risposi - vorrei sapere in base a quale verità giudiziaria sono stato condannato?”. Sembrava una di quelle pagine di Lewis Carrol in “Alice e il paese delle meraviglie”, “prima la condanna poi l’accertamento dei fatti”. Ovviamente finì nel peggiore dei modi. Chi dice che ci sono ancora misteri abbia almeno la coerenza di pretendere l’annullamento delle vecchie condanne e dei vecchi processi. Non può al tempo stesso chiedere una nuova verità e confermare quelle vecchie colpe. Foggia. Coronavirus in carcere: 69 tra agenti e detenuti contagiati foggiatoday.it, 6 maggio 2021 69 positivi nel carcere di Foggia: è il cluster più grande della Puglia. In ospedale quattro dei 58 detenuti contagiati. A lanciare l’allarme nelle scorse settimane sono stati i sindacati di polizia, i cui timori trovano conferme nei dati del report nazionale del Dipartimento di amministrazione penitenziari. Il Coronavirus continua a propagarsi nelle carceri italiane, tra detenuti e personale di polizia penitenziaria. A lanciare l’allarme nelle scorse settimane sono stati i sindacati di polizia, i cui timori trovano conferme nei dati del report nazionale del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Secondo i dati aggiornati al 3 maggio, sono 69 le positività al virus accertate nel carcere di Foggia: si tratta di 11 agenti e 58 detenuti (di questi, quattro sono in ospedale). Un solo caso Covid accertato nel carcere di San Severo, che ha dovuto fare ricorso alle cure ospedaliere. I dati sono rilanciati dall’agenzia Dire. Meno grave la situazione negli altri istituti penitenziari pugliesi, dove si contano 18 casi a Bari, 10 a Lecce, 5 a Taranto e 4 ad Altamura. Nel complesso del panorama nazionale carcerario, si contano 397 detenuti positivi su oltre 52mila. Di questi, solo 20 sono ricoverati. Per quanto riguarda, invece, il personale di polizia penitenziaria, si contano 400 agenti positivi su circa 37mila (9 sono ricoverati). Brescia. In Regione il caso di Canton Mombello: “L’unica soluzione è ampliare Verziano” bsnews.it, 6 maggio 2021 “Bene cercare una soluzione alternativa a Canton Mombello ma necessario agire anche sull’assistenza sanitaria e il reinserimento dei detenuti”, commenta Girelli. “Da troppi anni aspettiamo la costruzione di un nuovo carcere a Brescia, che possa finalmente porre fine all’agonia di Canton Mombello, che è notoriamente un tugurio invivibile per detenuti e poliziotti”. Così Federica Epis, vice presidente della Commissione speciale Carceri, commenta la sua mozione sulle strutture detentive bresciane, approvata ieri nel Consiglio regionale della Lombardia, sottolineando in una nota che “l’nica soluzione percorribile oggi è il nuovo padiglione a Verziano”. “Chiedo il serio impegno e l’attivo interessamento della nostra Regione affinché il Governo dia finalmente piena attuazione al Piano Nazionale Carceri, che è datato 2016, ma non ha mai visto sorgere alcuna opera sul territorio, particolarmente in provincia di Brescia”, spiega l’esponente del Carroccio, “Troppi incidenti, tentati suicidi e innumerevoli episodi di violenza hanno ormai esasperato il personale e gli operatori del più grande carcere bresciano, non è più tollerabile che la casa circondariale Nerio Fischione - prosegue Epis - resti tra le più affollate d’Italia, con ben 357 detenuti, cioè quasi il doppio rispetto ai 186 reclusi che sono formalmente indicati come capienza accettabile per una struttura costruita più di un secolo fa, con una media nazionale dove il tasso di sovraffollamento è pari al 119,8%, ossia il più alto nell’area dell’Unione Europea. “Canton Mombello è invivibile, non ha i parametri minimi per garantire la sicurezza al suo interno, per questo altre soluzioni proposte in mozione prevedono l’attivazione di nuovi posti psichiatrici presso la Rems di Castiglione delle Stiviere, a rischio non vi è solo l’incolumità del personale in servizio, ma anche e soprattutto le attività di reinserimento sociale dei detenuti che, se non attuate, espongono ancor più l’intera comunità bresciana agli atti criminali di chi esce di prigione senza aver fatto un serio percorso di recupero”. Sul voto è intervenuto anche il consigliere regionale Pd Gianantonio Girelli. “Bene cercare una soluzione alternativa a Canton Mombello ma necessario agire anche sull’assistenza sanitaria e il reinserimento dei detenuti - scrive Girelli, - Abbiamo votato sì alla mozione - afferma Girelli - emendata in più parti dai contributi raccolti in aula, perché è evidentemente necessario intervenire sullo stato di enorme criticità di Canton Mombello. Da un lato si auspica l’impiego delle risorse stanziate a suo tempo per creare una soluzione alternativa all’attuale sede di Canton Mombello. Ma dall’altro si deve anche pensare a adeguare azioni sul piano del servizio sanitario regionale nel carcere e del reinserimento delle persone detenute”. “Rimane - conclude Girelli - inoltre, la necessità, anche per il consiglio regionale, di attivarsi per aprire una seria discussione a livello nazionale affinché si parli di pene alternative, nonché dell’attuazione della Convenzione di Strasburgo, così come aggiornata dall’allora ministro Orlando. Da sempre, e non solo da ora, il Pd è impegnato sui temi del carcere. Fa piacere che anche altre forze politiche abbiano maturato una adeguata sensibilità in merito”. Enna. Progetto Rechance, per il reinserimento sociale degli ex detenuti di Alice Marchese blogsicilia.it, 6 maggio 2021 La rieducazione degli ex detenuti nella società è un obiettivo che prende vita nel progetto Rechance. “Rehabilitation Approaches for providing former prisoners with personal development and society entry” Rechances ha avuto inizio nel novembre 2020. In Italia Prism Impresa Sociale, di Enna, si occuperà della gestione. Cos’è Rechance - Inclusione e abbassare il rischio di emarginazione sociale sono i pilastri di Rechance. Il fine di questa iniziativa è quello di contribuire a migliorare partecipazione, a livello educativo, degli ex detenuti nella società. Si vuole promuovere e diffondere quella conoscenza che permetta di abbattere gli ostacoli l’ingresso in società agli ex detenuti. Viene conferito loro uno sviluppo personale e garantita la partecipazione nelle comunità in cui vivono. È un’opportunità formativa per confrontarsi con chi lavora sia all’interno del sistema carcerario che nel terzo settore. Tra le svariate risorse e materiali educativi a disposizione, si potrà usufruire di un’app. Chi sono i partecipanti - I partecipanti di questa iniziativa sono sei Stati Membri dell’UE: Repubblica Ceca, Cipro, Grecia, Italia, Irlanda e Bulgaria. Al loro interno operano partner con diversi profili, tra cui centri di ricerca, università, imprese sociali, organizzazioni non governative, che forniscono supporto educativo e sociale ad ex detenuti per prevenire il rischio di esclusione ed emarginazione sociale. In Italia Prism Impresa Sociale si occuperà della gestione del progetto. Le parole della coordinatrice del progetto - Katerina Kubrichtová di Romodorm (Repubblica Ceca) è la coordinatrice del progetto. Afferma: “Ci stiamo imbarcando in questo progetto per capire i bisogni degli ex-detenuti da un lato e per sviluppare materiali educativi innovativi che siano adatti ai loro bisogni dall’altro”. Nel corso dei prossimi due anni, i partner svilupperanno e scambieranno idee e conoscenze su approcci e pratiche educative da portare avanti, con l’obiettivo di promuovere percorsi educativi e di apprendimento a favore di ex detenuti in tutta Europa, per sostenere il reinserimento nella società. Trento. Le ipotesi di utilizzo del terreno incolto attiguo al carcere a Spini lavocedeltrentino.it, 6 maggio 2021 Attiguo al parcheggio del carcere di Spini, c’è un terreno incolto recentemente bonificato per il quale si è aperta la partita di un’eventuale assegnazione. La Provincia è la proprietaria, ma non ha progetti immediati di utilizzo e col lasciarlo incolto e abbandonato si correrebbe il rischio che si riempisse nuovamente di rifiuti abbandonati. A questo punto ci vuole un progetto. L’idea arriva dalla Circoscrizione e dall’Associazione Amizi del Ponti dei Vodi ed è quella di trasformare quest’ampia superficie in orti urbani che potrebbero essere assegnati alle famiglie delle Guardie Carcerarie che risiedono poco distanti. Ma lo spazio sarebbe sufficiente anche per assegnarli alle famiglie di Spini che sono state escluse dall’assegnazione degli orti di Via Monaco. Potrebbe andare bene anche un uso promiscuo destinando una parte ad orti urbani ed una seconda ad uso diverso. Delle istanze dei residenti se ne è fatta portavoce l’assessore Mariachiara Franzoia che ha aperto un confronto con la Provincia. Di certo qualsiasi tipo di destinazione d’uso dovrebbe essere temporanea nella prospettiva di un possibile futuro ampliamento dell’area carceraria ed in tutti i casi non sarebbe possibile realizzare strutture che in qualche modo potrebbero creare problemi per la sicurezza del carcere col quale il terreno in questione confina. Grosseto. “Ripigliàti”, un podcast che parla del mondo carcerario di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 6 maggio 2021 La diocesi di Grosseto dà voce agli esclusi che si sono “Ripigliàti” con una serie di podcast, il primo dei quali parla del mondo carcerario. Storie senza schegge, “ripigliate” per imparare, almeno un po’, come rinascere. L’idea è di un gruppo di ragazzi, tra cui un sacerdote e un frate francescano, dell’ufficio comunicazioni della diocesi di Grosseto che hanno voluto produrre una serie di podcast i cui protagonisti hanno vissuto l’emarginazione ma sono riusciti a reinventarsi, a superarsi e a rimarginare le ferite. “Abbiamo un po’ giocato con le parole perché “Ripigliàti” è un termine tipico toscano. La scelta dell’espressione locale è anche per dare un tocco di leggerezza a temi molto importanti” racconta il direttore, Giacomo D’Onofrio, sottolineando che “l’obiettivo è quello di raccontare storie di speranza e di ripartenza, tutte diverse tra loro, che spiegano passo dopo passo il percorso virtuoso dei protagonisti grazie al quale sono tornati a vivere”. Il primo dei sette podcast preparati dalla redazione grossetana parla di carcere: “Si è partiti da qui perché il pensiero della società verso chi ha commesso un delitto, e che poi viene condannato, è quello di dire: giustizia è fatta, dimenticando conseguentemente le persone che stanno dietro le sbarre”, riprende D’Onofrio. Mentre invece “è quanto mai necessario costruire quel ponte da tanti parti evocato tra istituti di pena e territorio, attivando reti istituzionali e sociali in grado di non abbandonare a se stessi sia i ristretti, che coloro sono tornati in libertà”. Paolo, uno dei protagonisti di “Ripigliàti” ne è una testimonianza: “Ha avuto problemi con la tossicodipendenza ed è stato diversi anni dentro”, continua il direttore dell’ufficio comunicazioni della diocesi di Grosseto. “Oggi è un punto di riferimento della stessa struttura che lo ha aiutato ad uscire dalla droga ma ci ha raccontato che l’esperienza detentiva è dura e molto dipende dagli incontri e dalle relazioni che si stringono all’interno della casa di reclusione. Ciò dimostra che il carcere dovrebbe essere in grado di rieducare i suoi ospiti, ma così non è”. Secondo D’Onofrio, per Paolo, come per altri, è stata fondamentale la fede. “Si è riavvicinato a Dio proprio nel periodo più buio. Nel momento di disperazione cercava un’ancora di salvezza e l’ha trovata grazie al cappellano del carcere. Una volta uscito, ha proseguito, con don Enzo Capitani, direttore della nostra Caritas che da anni lavora a contatto con i tossicodipendenti. In questo circuito virtuoso di reinserimento ha avuto modo di riscoprire il valore della famiglia”. La voce di Paolo al microfono dei ragazzi di Grosseto è ancora più chiara in questo senso: “Quando si varca il muro sei consapevole che hai davanti a te due prospettive: uscire meglio, oppure peggio, di come sei entrato. L’esperienza nella struttura di massima sicurezza di Prato è stata di forte impatto”, racconta. “Ho conosciuto gente con “fine pena mai” ed è proprio qui che ho aperto gli occhi. Sono stati i compagni ergastolani a convincermi che, data la mia giovane età, avrei avuto altre occasioni nella vita, sicuramente migliori rispetto a quelle che mi avrebbe offerto un’esistenza da ristretto”. Quanto alla sua rinascita, Paolo spiega che è solito ripetere ai ragazzi che segue ogni giorno: “grazie a voi scopro sempre cose nuove. Ognuno ha un bagaglio personale inestimabile che va valorizzato”. “Ripigliàti” è una esperienza professionale, ma al tempo stesso umana, molto forte. Ne è convinto la mascotte del team, Giovanni Cerboni, 18 anni, il più piccolo del gruppo che ha offerto il suo contributo sia per la parte redazionale, che per la produzione dei podcast: “Per me ha voluto dire inserirsi in una storia che viene da lontano e darle voce coi linguaggi di oggi”, racconta il giovane volontario. “Per questo abbiamo voluto chiamare il prodotto finale “Dare voce alle parole”. Ci si accorge subito, infatti, che le parole nella nostra città, nella nostra Chiesa ci sono, a volte bisogna avere solo un po’ di pazienza e impegno per dar loro voce. Questo è meraviglioso, così come è stimolante dal punto di vista professionale”, continua Cerboni. “Lavoro con cose nuove, che non conosco e da un lato sono chiamato a seguire le mie intuizioni, come ad esempio il linguaggio del podcast per arrivare alle nuove generazioni, e al tempo stesso confrontarmi con altre persone, che hanno altre competenze e altre sensibilità e insieme trovare una sintesi, sempre legati da questa prospettiva unica del servizio e del dare voce”. Vaccini, la diseguaglianza del freddo di Linda Laura Sabbadini* La Repubblica, 6 maggio 2021 Se non investiamo su dosi accessibili, intere zone del mondo resteranno escluse e non potranno fermare la diffusione del Covid. Vaccini per tutti. Un diritto fondamentale è l’accessibilità. Ma sono garantiti veramente a tutti? È una questione profonda di giustizia. L’articolo 32 della nostra Costituzione tutela la salute come diritto per ogni individuo, un diritto fondamentale. E sottolinea come la salute sia un bene comune, interesse della collettività. Il nostro servizio sanitario nazionale, varato nel 1978, si ispira al diritto costituzionale. Noi, Paese avanzato, democratico, garantiamo il vaccino per tutti. In questo caso contro il Sars-CoV-2, ma anche in altri casi. Ci voleva una pandemia come quella che abbiamo vissuto direttamente per capire profondamente il valore dei vaccini. Morti a non finire, dolore di chi rimane, uno tsunami economico e sociale. Esplosione della povertà. C’erano state avvisaglie. Una decina di virus hanno bussato alla nostra porta in 20 anni. Ma ci sembravano lontani. Eravamo tutti più o meno convinti che la cosa non ci riguardasse più di tanto. E invece è arrivata anche da noi. E abbiamo potuto sperimentare come i vaccini siano veicolo e garanzia di libertà di vivere. Libertà di muoversi. Libertà di studiare e lavorare. Libertà di relazionarsi. Libertà di abbracciare e baciare i propri cari. I propri amici. Lo hanno dimostrato per primi Israele e il Regno Unito. E dovremmo propagandarlo di più agli indecisi. La vaccinazione di massa ha fatto crollare i casi gravi e ha azzerato le morti. Ma è dappertutto così? Purtroppo no. Le diseguaglianze tra Paesi sono enormi. E anche all’interno di ciascun Paese. Abbiamo il “privilegio” della nostra democrazia che ci tutela. Ma proprio per questo, noi e gli altri Paesi democratici dovremmo fare qualcosa per chi questo diritto non lo ha. E non può accedere al vaccino. Così come lo dovrebbe fare chi ha le possibilità economiche, mettendo in campo le sue risorse per una causa giusta. Abbiamo potuto sperimentare come l’investimento in ricerca sia fondamentale. Ma esiste un problema nella produzione e distribuzione dei vaccini che crea una grande diseguaglianza tra Paesi e tra zone diverse all’interno degli stessi Paesi. La catena del freddo. Pensate alle popolazioni che vivono in Africa o in Asia in zone con l’elettricità a singhiozzo o addirittura senza. Come fanno a conservare i vaccini a temperature così alte? Come fanno a trasportarli senza che si rovinino? Le donne sono costrette a caricarsi i loro bambini e a spostarsi per chilometri, senza mezzi di trasporto adeguati per vaccinarli. E quanti non si vaccinano? E allora perché non si producono vaccini termostabili e magari autosomministrati? Non solo per il Sars-CoV-2 ma per tutto quello che serve. Sarebbe una vera rivoluzione se si investisse nella ricerca per produrre vaccini che possano essere spediti e conservati anche a temperature elevate. Hanno posto apertamente il problema Ilaria Capua direttrice del One Health Center dell’Università della Florida e Carlo Giaquinto sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet. La ricerca non si è mai sviluppata in questa direzione perché il problema è che i Paesi avanzati non ne hanno bisogno. Ma non investendo nella ricerca sui vaccini innovativi e accessibili intere zone del mondo saranno escluse dalla libertà di vivere. Non potranno combattere la diffusione dei virus. E il mondo più avanzato ne riceverà ricadute negative, come già stiamo vedendo, perché siamo ormai tutti interconnessi. Investire su questo adesso salverà tante vite umane dalla morte. Sarà un atto di giustizia. Un servizio all’umanità intera. Possiamo farlo ora o aspettare la prossima pandemia. *Direttora centrale Istat Brevetti, rischioso intervenire considerandoli “beni comuni” di Stefano Passigli Corriere della Sera, 6 maggio 2021 Contro la pandemia si deve puntare all’immunizzazione, ma la ricerca richiede investimenti enormi: colpirne i ricavi potrebbe disincentivare le industrie farmaceutiche più avanzate. Nel mondo i morti da Covid-19 registrano nuovi massimi. Nuove nazioni si aggiungono alla lista della pandemia. Nuove varianti si manifestano, di diversa contagiosità e letalità, contro le quali gli attuali vaccini forse non hanno la stessa efficacia che hanno contro il ceppo originario. In attesa di valide terapie, le sole risposte restano secondo la scienza vaccinazioni e lockdown. Contro la pandemia sono in campo le grandi società farmaceutiche - spregiativamente chiamate Big Pharma - e gli Stati. Big Pharma la sua parte l’ha fatta: la sua capacità di ricerca ci ha dato vaccini efficaci in tempi brevissimi, senza precedenti nella storia della ricerca. L’azione degli Stati ha avuto invece risultati diversi: hanno fatto meglio quelli che negli anni hanno investito maggiori risorse in istruzione e ricerca, e che hanno quindi industrie farmaceutiche più innovative. Molto naturalmente è stato dovuto alla qualità delle rispettive classi politiche: il caso degli Stati Uniti, con la diversa impostazione data alla lotta contro il virus da Biden rispetto a Trump, lo dimostra, ma - come in ogni guerra - la variabile fondamentale è la capacità produttiva di un Paese e la qualità della sua amministrazione pubblica. Inutile quindi, nel caso italiano, affannarsi a ricercare meriti e demeriti di questo o quel governo o commissario: è quanto un Paese ha investito in ricerca, quanto la sua struttura amministrativa è in grado di rispondere prontamente a sollecitazioni eccezionali, e infine quanto i suoi cittadini hanno fiducia nella cultura scientifica a fare la differenza. La pandemia è oramai mondiale; e se la vaccinazione è lo strumento essenziale per impedirne una ulteriore diffusione, allora è evidente la necessità di estendere le vaccinazioni a tutti i Paesi il più rapidamente possibile. Come risposta a questa necessità molti propongono di intervenire sui brevetti, considerandoli “beni comuni” di cui poter usufruire liberamente. È una soluzione errata. La ricerca richiede investimenti enormi e aleatori, e colpirne i frutti rischia di limitare la propensione delle industrie farmaceutiche più avanzate a impegnarsi in ricerche. Il caso delle malattie rare ne è un esempio. L’obiettivo di mantenere i profitti derivanti dalla ricerca entro termini accettabili, evitando ogni forma di speculazione, può essere conseguito senza impedire alle imprese un giusto beneficio tassando adeguatamente gli utili derivanti dai brevetti piuttosto che ponendo limiti al loro utilizzo. Inoltre, i prezzi dei farmaci sono in ogni sistema soggetti ad autorizzazione da parte di organismi pubblici. Tutte le grandi imprese farmaceutiche hanno contabilità analitiche che possono permettere di valutare gli investimenti effettuati in ricerca e la quota gravante su di un singolo farmaco, e di stabilire così prezzi equi e differenziati per i paesi poveri, vie queste sicuramente preferibili ad interventi che ledessero il principio della brevettabilità della ricerca. Se un insegnamento può venire dalla attuale vicenda dei vaccini, questo è che un Paese non può non destinare una adeguata percentuale del suo Pil alla ricerca senza perdere la capacità di difendere i propri cittadini. L’Italia ha oggi con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza l’occasione di colmare il suo ritardo. Questo, ben più che il calendario o gli orari delle riaperture, dovrebbe preoccupare chi guida forze politiche con responsabilità di governo. Chi aspira a futuri ruoli di governo e guida numerose Regioni dovrebbe piuttosto avanzare concreti progetti per portare a compimento il piano vaccinale. I problemi incontrati in numerose Regioni suggeriscono, ad esempio, di riproporre l’idea - che avanzai venti anni fa con l’allora ministro Bassanini - di unificare carta d’identità e carta sanitaria immettendo sul chip tutta la storia medica del titolare (gruppo sanguigno, eventuali patologie pregresse o croniche, etc.) per renderla disponibile in caso di urgenza in condizioni di riservatezza tramite un centro nazionale di riferimento. Questa idea cadde perché il ministro della Salute del tempo ritenne che poteva ledere la privacy e la volontà dell’eventuale paziente. Non trattandosi di un trattamento sanitario, che a norma di Costituzione non può essere imposto, ma di una tutela dell’interessato in caso di suo stato di incoscienza, l’idea andrebbe ripresa anche perché un centro nazionale permetterebbe - come è avvenuto in Israele - di modulare le priorità di una campagna vaccinale non solo per classi di età, ma per condizione patologica: malati oncologici, afflitti da patologie cardiovascolari, diabetici e via dicendo, assicurando ai cittadini uniformità di accesso al trattamento vaccinale sull’intero territorio nazionale, evitando le scandalose priorità accordate da talune Regioni ad alcune categorie. Tutto si tiene: dal grande tema della pandemia alle piccole innovazioni, tutto passa - nel caso italiano - dalla capacità di riformare la pubblica amministrazione. Dal dibattito politico in corso non mi sembra che questa sia la preoccupazione di chi continua solo a cavalcare lo spontaneismo e il corporativismo della nostra società. Il ddl Zan e le radici delle discriminazioni di Chiara Valerio La Repubblica, 6 maggio 2021 Le discussioni sul disegno di legge contro l’omotransfobia mostrano la debolezza della nostra dialettica e della nostra democrazia. Non ci arrocchiamo, parliamo, leggiamo, esercitiamo la differenza. Le discriminazioni, come i desideri, sono difficili da controllare ed estirpare perché affondano radici nei gesti, nel corpo e nell’educazione. È uscito Spatriati, nuovo romanzo di Mario Desiati, che, come tutti i grandi romanzi, è uno strumento. Come le grandi teorie, come la democrazia stessa, riguarda il quotidiano, singolare e collettivo. Le discussioni sul ddl Zan, che limita l’espressione di opinioni omotransfobiche e misogine e sanziona violenze per orientamento sessuale, identità di genere e abilismo, mostrano, per esempio, la debolezza, se non della nostra cultura, della nostra dialettica. Ddl Zan sì o no, attuabile sì o no. In fondo, anche la debolezza della nostra democrazia: perché un cittadino omosessuale o transgender, con o senza ddl Zan, ha tutti i doveri di un cittadino eterosessuale, ma non tutti i diritti, visto che diritti e doveri sono l’uno il rovescio dell’altro? Tendiamo ad arroccarci e tifare, poniamo domande a risposta chiusa. Non parliamo, mettiamo una spunta. La figura e il modo del tribuno ci convincono e ci affascinano. L’immediatezza ci salva, sollevandoci dalla responsabilità della memoria. Se il tribuno fosse una figura nella grammatica italiana sarebbe il parlare per proposizioni coordinate. Privi di subordinate - senza modali, causali e temporali - dichiariamo, a casa, al bar, nei luoghi della democrazia, il nostro disinteresse, di certo la paura, per consequenzialità di parole e azioni, e per comprendere. Non vogliamo capire, vogliamo non essere contraddetti. Quasi tutti. In questa polarizzazione non solo noiosa ma agita a detrimento della democrazia come istituto ed esercizio, e della discussione come pratica e divertimento, i romanzi rimangono l’unico luogo in cui esercitarsi nelle ragioni e nei torti degli altri. E nei nostri. Quando Spatriati si apre, Francesco Veleno è un adolescente la cui madre tradisce il padre con un uomo che è padre a sua volta di Claudia Fanelli “la spatriata, come qui chiamano gli incerti, gli irregolari, gli inclassificabili, a volte i balordi o gli orfani, oppure celibi, nubili, girovaghi e vagabondi, o forse, nel caso che ci riguarda, i liberati”. Sull’aggettivo spatriati ha detto Desiati, sull’aggettivo liberato non dico nulla perché questo romanzo è una mappa in fondo e durante la quale c’è un tesoro di cui a nessuno voglio negare la caccia, ma sull’aggettivo balordo sì. In Caro Michele (1973) Natalia Ginzburg scrive: “Ognuno di noi è sbandato e balordo in una zona di sé e qualche volta fortemente attratto dal vagabondare e dal respirare niente altro che la propria solitudine, e allora in questa zona ognuno di noi può trasferirsi per capirti”. I romanzi sono la prosecuzione uno dell’altro. E i lettori e le lettrici mi piacciono perché, pur con pezzi autentici, ricostruiscono ognuno la statua a modo loro. E gli scrittori che sono lettori, come di certo è Desiati, riannodano. Chi scrive esercita una potestà contraria a quella tribunizia (apre invece di chiudere, esercita la possibilità), e Desiati per raccontare e riannodare - è un romanzo di famiglia in senso verista ma le famiglie si sono allargate e il sangue si è fatto parola, una transustanziazione laica; mantiene le unità di tempo e luogo e azione classiche ma dentro c’è la sospensione del tempo e del genere sessuale, del desiderio, in club berlinesi epici e quotidiani come il Kit Kat e il Berghain e della vita degli altri, - sceglie la balordaggine. Come Ginzburg. Ma oggi, nel 2021, racconta la fluidità non solo delle strutture familiari, ma di quelle culturali. Non servono schieramenti e arrocchi, siamo vicini, dalla stessa parte, perché balordi. “Sanerà la piaga un dì chi l’aprì chi l’aprì” canta un’aria dell’Almira di Händel e forse ci voleva uno scrittore maschio bianco, di estrazione borghese, nato in una provincia del Sud Italia per raccontare - nuova Sirenetta di Andersen - che non si cambia la propria forma culturale senza dolore, e senza lasciarsi dietro qualcosa che ci era caro e ritenevamo identitario, per raccontare la vertigine buona né cattiva, ma vitale, dello spaesamento rispetto a una idea di sé stessi, dentro e fuori di noi, nelle intenzioni, insomma, e nelle aspettative. “Chi te lo ha fatto? - le chiesi un pomeriggio indicando il segno scuro nascosto dietro gli occhiali da sole. Sapevo già la risposta. - Lasciatemi stare, - rispose lei. E in quel plurale c’era la sua verità”. Ciascuno è balordo a modo proprio e ciascuno ha la sua verità, non ci arrocchiamo, non mettiamo le spunte, parliamo, leggiamo, esercitiamo la differenza. La guerra dei testi sull’omofobia. Oggi la proposta Lega-FI di Andrea Colombo Il Manifesto, 6 maggio 2021 Pd e 5 Stelle accantonano l’idea di andare direttamente in aula Si cercherà di discutere in commissione solo il ddl Zan. Calma, gesso e un passo alla volta. Il Pd frena i 5 Stelle, che hanno raccolto le 33 firme necessarie per portare subito il testo del ddl Zan in aula, dribblando la commissione. Sarebbe una forzatura, in assenza di un vero ostruzionismo e senza neppure aver provato ad avviare la discussione in commissione. Ma sarebbe soprattutto una mossa perdente. Nell’aula del Senato, senza relatore e senza testo base, arriverebbero infatti tutti e cinque i progetti di legge contro l’omofobia: il caos assumerebbe i pieni poteri anche perché, a quel punto, si può dare per certo l’ostruzionismo della Lega e nessuno si stupirebbe se il leghista Roberto Calderoli presentasse non migliaia ma milioni di emendamenti. Di solito le manovre ostruzionistiche di questo tipo si superano con il voto di fiducia, che in questo caso è però impraticabile perché il governo non può mettere la fiducia su un provvedimento non suo spaccando in compenso la propria maggioranza. Lo stesso Zan, ancora prima che nel pomeriggio i partiti della ex maggioranza Conte si riuniscano, frena: “Le firme per andare in aula ci sono. Se la commissione Giustizia diventa una palude per l’ostruzionismo, allora ci sono gli strumenti previsti dal regolamento”. Gli strumenti, cioè il passaggio diretto in aula oppure la scelta da parte della conferenza dei capigruppo di fissare comunque una data, ci sono. I voti per approvare la legge nella succitata aula invece no. Non senza Italia viva, che però non vuole la prova di forza ma la mediazione: “C’è bisogno di uno sforzo per trovare un testo condiviso e stabilire tempi certi per l’approvazione”, conferma Ettore Rosato. La realtà è che la Zan è diventata per tutti una bandiera, nonostante le richieste di modifica vengano anche da una parte non secondaria della sinistra e del mondo Lgbt, incluse Arcilesbica e la presidente della commissione femminicidio Valente, del Pd. Ma bandiera o non bandiera alternativa alla mediazione non c’è. Ma appunto, un passo alla volta e il primo passo è far sì che la commissione discuta solo il ddl principale, quello appunto di Alessandro Zan, e non tutti e cinque quelli depositati. Sulla carta dovrebbe essere facilissimo: basterebbe ritirare tutti gli altri progetti. Non è detto che ci si riesca e a quel punto a decidere sarebbe il voto. Essendo Iv in questo caso d’accordo la maggioranza a favore della discussione solo sul testo Zan dovrebbe essere certa. A parte la bizzarria di senatori che non ritirano il loro testo e poi magari votano per non discuterlo. Cose che possono capitare quando ideologia e propaganda prevalgono su tutto il resto. Una volta fatto il primo passo e sgombrato il campo dagli altri ddl si passerà a verificare la possibilità di una mediazione con la destra. Non solo quella di maggioranza, che oggi presenterà un suo ddl condiviso da Lega e Forza Italia, ma anche FdI. “Ci sono cose nella Zan che non aiutano a combattere discriminazione e violenza, come il gender nelle scuole. Togliendole è più facile trovare una sintesi”, assicura Giorgia Meloni. Anche il testo della Lega e di Fi andrà in questa direzione. “Il tema è molto importante e Zan non deve temere trappole del centrodestra. Vogliamo combattere ogni discriminazione e risolvere il nodo della libertà d’espressione”, promette la ministra Maria Stella Gelmini. Il testo Lega-Fi, ancora in preparazione ieri sera, si baserà sull’emendamento presentato dalla senatrice azzurra Ronzulli e dovrebbe prevedere l’aggravante “per chi commette violenza in ragione di” atteggiamenti discriminatori. La notizia del testo unificato della destra di maggioranza ha provocato una vera sollevazione dell’altra metà della maggioranza che lo vede, giustamente, come ennesima manovra dilatoria. In realtà non è affatto detto che il testo appena presentato sia poi automaticamente messo in discussione in commissione: anche questo potrebbe diventare un ennesimo braccio di ferro. Ma di certo sarà sulla base di quella proposta che si capirà se ci sono i margini per una mediazione, sul modello di quella che portò nel 2016 all’approvazione della legge sulle unioni civili stralciando il punto critico della stepchild adoption, o se tutto finirà in una battaglia campale tra le due anime della maggioranza che, con qualunque esito, sarebbe in ogni caso devastante. Clima, il diritto dei figli di Luigi Manconi La Repubblica, 6 maggio 2021 La sentenza della Corte costituzionale tedesca impone la questione ambientale come assoluta priorità dell’agenda politica e tutela le prossime generazioni. Per una volta, il termine “epocale”, di cui si fa un indecoroso abuso, non suona eccessivo se accostato alla sentenza della Corte costituzionale tedesca del 24 marzo scorso. La pronuncia, radicalmente innovativa, salva la questione climatica dal rischio di perdersi nella retorica unanimistica e nella leziosità mondana: e la impone - grazie alla sua autorità di più alta giurisdizione - come assoluta priorità dell’agenda politica. La Corte, infatti, ha dichiarato parzialmente incostituzionale la legge del 2019, che prevede una riduzione del 55% delle emissioni di CO2 entro il 2030: ciò risulterebbe insufficiente rispetto all’obiettivo, voluto dagli Accordi di Parigi (2015), della neutralità climatica per il 2050. Secondo la Corte la normativa ha l’effetto di scaricare sulle generazioni future gli impegni più onerosi per portare quasi a zero le emissioni di anidride carbonica, rendendo necessari tagli molto più gravosi nei vent’anni successivi al 2030. E quelle misure si tradurrebbero in un sacrificio eccessivo e sproporzionato dei diritti fondamentali dei cittadini dei prossimi decenni. È una novità davvero rivoluzionaria (così l’hanno definita i media tedeschi). Prendiamo un topos letterario di gran successo - al quale, lo confesso, ho fatto ricorso anche io - come: “La Terra non ci è stata lasciata in eredità dai nostri padri, ma ci è stata data in prestito dai nostri figli”. Il Tribunale costituzionale tedesco fa suo quello che pare fosse in origine un motto dei nativi d’America, rielaborato da Alex Langer per un convegno dei primi Verdi italiani nel 1985: e lo incarna nella materialità dell’esperienza della vita sociale, facendo i conti, prendendo le misure, calcolando le percentuali. Traduce, cioè, quella antica saggezza in obiettivi e tempi, vincoli e obblighi. E in precise responsabilità per governi e assemblee rappresentative. E, così, per la prima volta in Europa il principio della “responsabilità intergenerazionale” assume prescrittività giuridica, riconoscendo a quelle stesse nuove generazioni la titolarità di diritti esigibili già oggi. Dunque, la tutela del clima viene affermata come diritto fondamentale, e l’argomentazione è, anch’essa, innovativa: le drastiche riduzioni delle emissioni nocive, afferma la Corte, “riguardano potenzialmente qualsiasi libertà, dal momento che tutti gli aspetti della vita umana sono collegati al peggioramento del clima e quindi minacciano forti limitazioni dei diritti fondamentali dopo il 2030”. È il rovesciamento radicale di tutte le declamazioni di ambientalismo abborracciato, udite negli ultimi mesi, in particolare, dopo l’istituzione del ministero della Transizione ecologica. In una sorta di euforia new age, l’ecologia sembra spuntar fuori in qualsiasi discorso pubblico, ma con il ruolo che ha il richiamo alla fame nel mondo quando si parla di ristoranti stellati: un ornamento, una paillette, una decorazione sbrilluccicante. E invece, dice la Corte costituzionale tedesca, e dice il pensiero ambientalista più accorto, l’ecologia è fondamento di qualunque idea di ben essere e di ben vivere. L’ecologia è, deve essere, strettamente intrecciata a ogni progetto di economia capace di ribaltare i criteri meramente quantitativi e consumistici dei sistemi produttivi contemporanei; ed è correlata intimamente, appunto, a “tutti gli aspetti della vita umana”. Di conseguenza, l’ecologia non è un obiettivo da aggiungere a un tradizionale programma politico - cambia poco se in capo o alla fine di esso - bensì un punto di vista qualificante l’intera attività sociale: dall’organizzazione dei trasporti alla tutela del paesaggio, fino alla cura per la bellezza naturale e per quella realizzata dalle mani dell’uomo. Infine, di questa vicenda, due elementi, propri dell’ordinamento giuridico tedesco e assenti in quello italiano, vanno sottolineati. Nella Costituzione tedesca si trova scritto che “lo Stato tutela, assumendo con ciò la propria responsabilità nei confronti delle generazioni future, i fondamenti naturali della vita e gli animali”. Una proposta per inserire nella nostra Costituzione una specifica previsione a tutela dell’ambiente e della fauna è attualmente in discussione nella Commissione Affari costituzionali del Senato, ma il suo cammino è pesantemente insidiato da quasi 250.000 emendamenti presentati dalla Lega. Il secondo fattore di differenza riguarda le modalità attraverso le quali si attivano le rispettive Corti costituzionali. In Germania gli individui e le associazioni possono chiedere alla Corte di pronunciarsi sulla costituzionalità di una legge. Ed è ciò che è avvenuto in questo caso, su iniziativa di quattro cittadini, sostenuti da Fridays For Future, Bund e Greenpeace. Il che la dice lunga su quanto, in Italia, la qualità della partecipazione democratica sia tuttora assai mediocre. Giochi di guerra della NATO, 28mila soldati nei Balcani in piena pandemia di Gregorio Piccin Il Manifesto, 6 maggio 2021 Ieri ha aperto i battenti la più grande esercitazione militare a guida Usa dalla “fine” della guerra fredda con ciò lasciando ben intendere che la versione 2.0 di essa è in pieno svolgimento ed è molto più “calda” della prima. Defender Europe 2021 (DE 21) che vede la partecipazione di 28 mila effettivi di 26 Paesi (non solo membri Nato) avrà un costo annunciato di mezzo miliardo di dollari. Ampiamente sottostimato se si considera che l’esercitazione, che proseguirà fino a giugno, prevede operazioni simultanee in 30 diverse località di 12 Paesi coinvolgendo una vasta area geografica dai Balcani al Baltico, dal Mar Nero al Nord Africa, il trasferimento di migliaia di soldati dagli Stati uniti e lo spostamento di mezzi militari pesanti da Italia, Germania e Olanda. L’edizione del 2020 che di effettivi ne prevedeva 37.000, è stata ridimensionata dallo scoppio della pandemia lasciando praticamente a “bocca asciutta” gli alti comandi Usa-Nato che intendevano testare in maniera massiccia tutte le capacità operative di una “Shengen militare” in fase di costruzione e perfezionamento anche attraverso il Military Mobility Project, uno dei 47 progetti europei in ambito Pesco (Permanent Structured Cooperation) a cui gli Stati uniti hanno chiesto espressamente di partecipare. Verranno finalmente testate le capacità logistiche dell’Alleanza ma soprattutto le capacità dei Paesi ospitanti di sostenere la pressione esercitata da una enorme movimentazione di mezzi militari, materiali e uomini attraverso strade, autostrade, ferrovie, aeroporti ma soprattutto porti. Il generale americano Tod Walters, alla guida del comando Usa in Europa, nel suo intervento alla cerimonia inaugurale di DE 21 al porto albanese di Durazzo non a caso ha tirato in ballo proprio lo sbarco alleato in Normadia nel giugno 1944: “Il D-Day ci fa ricordare quanto sia difficile questo test” sottolineando come “l’obiettivo è dimostrare la nostra capacità in contemporanee operazioni in differenti paesi, sfruttando tutte le nostre forze contro un rivale in un simulato conflitto di alto interesse”. Walters si trovava a Durazzo perché l’Albania ospiterà il comando dell’esercitazione ed è proprio sulle sue coste che è previsto il maggiore sbarco militare avvenuto in Europa dalla Seconda Guerra mondiale. Il premier albanese Rama, gongolante per la “prestigiosa” ribalta atlantica, ha voluto spavaldamente sottolineare come oltre all’obiettivo indicato da Walters, DE 21 servirà “anche a dare a tutta la regione, e persino oltre, un messaggio molto chiaro a chi ha bisogno di risposte dirette sulla nostra ferma posizione all’interno dell’Alleanza”. La NATO torna all’attacco nei Balcani, mettendo a sistema gli ultimi decenni di espansione verso Est (arrivando a bussare direttamente alle porte della Russia) e la relazione molto speciale con la “grande Albania” conquistata bombardando la ex Jugoslavia e staccandone un pezzo, il Kosovo, che infatti parteciperà all’esercitazione sia con propri effettivi che mettendo a disposizione il suo territorio - dov’è già attiva la base Usa di Camp Bondsteel - per le operazioni. DE 21 fa parte di quelle grandi e costosissime esercitazioni di “alto profilo” che la Nato ha deciso di mettere in campo in Europa per contenere la presunta aggressività della Russia come la Trident Juncture in Norvegia e nel Mar Baltico e la Dynamic Manta nel Mediterraneo. Gli Stati uniti, tra l’altro, imbastiscono analoghe esercitazioni anche nel Pacifico in funzione anti-cinese. Come avviene per qualsiasi cosa faccia la Nato anche la scelta di cimentarsi in manovre continentali risponde alle esigenze strategiche degli Stati uniti che hanno da tempo sostituito il nemico di turno: se prima eravamo tutti coinvolti nella guerra permanente contro il terrorismo oggi dobbiamo tutti fronteggiare la grande minaccia russa e cinese. Eppure, secondo il Sipri, chi tira la carretta della corsa agli armamenti è proprio il blocco euro-atlantico che con le sue multinazionali di bandiera controlla l’80,4% del mercato mondiale delle armi e dei sistemi d’arma. Chi minaccia chi? Secondo Chomsky gli Stati Uniti sono “il più pericoloso Stato canaglia e la più grave minaccia alla pace e alla distensione”. Stati Uniti e Cina. Due superpotenze al mercato militare di Danilo Taino Corriere della Sera, 6 maggio 2021 Il calcolo a parità di potere d’acquisto - che paragona non solo quanto realmente si può comprare ma anche quanti stipendi si possono pagare in due diversi Paesi - è significativo e può smentire convinzioni e statistiche radicate. Per esempio quelle secondo cui la Cina investe enormemente meno degli Stati Uniti in spesa militare. Una cosa è una mazzetta di dollari, un’altra è quello che ci puoi comprare. Se negli Stati Uniti ti dà la possibilità di acquistare X, in Cina, dove il costo della vita è inferiore, l’opportunità è X-plus. È diverso quello che puoi comprare e pagare con lo stesso importo di banconote nei due Paesi. A Pechino, con la stessa somma hai un potere d’acquisto più alto che a New York. È per questo che l’economia americana è maggiore di quella cinese a prezzi correnti (cioè quelli di mercato) ma è più piccola se misurata a parità di potere d’acquisto (ppa), 22 mila miliardi di dollari contro i 26 mila della Cina (Fondo monetario internazionale). Il calcolo a parità di potere d’acquisto - che paragona non solo quanto realmente si può comprare ma anche quanti stipendi si possono pagare in due diversi Paesi - è significativo e può smentire convinzioni e statistiche radicate. Per esempio quelle secondo cui la Cina investe enormemente meno degli Stati Uniti in spesa militare. Peter Robertson, professore di Economia della University of Western Australia (citato dall’Economist) ha calcolato un “ppa militare” tenendo conto di quanto costano realmente gli equipaggiamenti, le spese di funzionamento e i salari negli eserciti. Il risultato è illuminante. A prezzi correnti - quelli che si citano di solito quando si parla di bilanci militari - Washington ha speso l’anno scorso 778 miliardi di dollari (più 4,4% sul 2019) mentre Pechino “solo” 252 miliardi (più 1,9%), un terzo del rivale americano, secondo il Centro studi Sipri (la cifra ufficiale data dal governo cinese è 184 miliardi ma è unanimemente ritenuta bassa dagli analisti). Ma se il calcolo lo si fa a parità di potere d’acquisto la spesa cinese arriva attorno a 520 miliardi, due terzi di quella americana, calcola Robertson. È che, per dire, il salario d’ingresso di un soldato è sui dieci dollari al mese in Cina e 1.773 dollari negli Usa. E la produzione interna di armamenti costa meno nel Paese asiatico, come i prezzi di manutenzione. Si vede così che la sfida cinese all’Occidente non è solo economica, tecnologica e di modello: è anche militare. Oltre a innovare, gli Stati Uniti hanno il vantaggio di una capacità accumulata superiore: un sommergibile e una portaerei funzionano per decenni. Ma la Cina può contare su uno stock di armamenti più recente e tarato su una realtà militare in cambiamento. Mai fermarsi alla prima statistica. Irlanda del Nord. A quarant’anni dalla morte l’eredità di Bobby Sands è ancora divisiva di Enrico Terrinoni Il Manifesto, 6 maggio 2021 B Puntualmente assistiamo a polemiche su chi prese davvero la decisione sulla sua fine. I detrattori della leadership storica di Sinn Féin ritengono che il partito l’abbia sacrificato per il proprio tornaconto politico e per accrescere il consenso. I compagni di partito e di cella parlano invece, in gran parte, di una sostanziale unione di intenti. All’una circa del mattino, il 5 maggio del 1981, Bobby Sands moriva dopo 66 giorni di sciopero della fame nell’ospedale del carcere di Long Kesh - detto The Maze, “il labirinto” - nella zona di Lisburn, a sudovest di Belfast. Vi era entrato il 1 marzo, e in quelle nove settimane e mezzo di calvario erano successe tante cose. Tra queste, il 9 aprile Bobby era stato eletto al parlamento di Westminster. Quando arrivò la notizia della straordinaria quanto inaspettata vittoria elettorale, il detenuto Robert Sands era già quasi immobile su un letto, avvolto in un pigiama imbottito per evitare che le ossa gli uscissero dalle articolazioni. Sands fu solo il primo di una serie di compagni dell’Ira (Irish Republican Army) e della Inla (Irish National Liberation Army) a unirsi a quella protesta estrema, e nove di loro lo seguirono nella morte. Una morte divenuta, nel tempo, il simbolo di una lotta generale per la fine di ogni oppressione, per l’uguaglianza e contro ogni ingiustizia, ma che resta la battaglia di un gruppo di ragazzi animati dall’ideale di una repubblica socialista, che volevano vedere riconosciuti alcuni diritti basilari. La lotta dei dieci che morirono nel 1981 nasceva infatti da una richiesta ragionevolissima, persino banale: il riconoscimento del diritto a non essere considerati criminali comuni, ma prigionieri politici. Chiedevano, ad esempio, di non dover indossare l’uniforme carceraria o di potersi riunire e organizzare attività culturali all’interno del carcere, e persino quello di ricevere una visita, una lettera, e un pacco a settimana. Tutti diritti negati dalla strategia della “criminalizzazione” e “ulsterizzazione” del conflitto voluta dall’allora iron lady, Margaret Thatcher, fino all’escalation dello sciopero della fame. Bobby Sands, un proletario di nord Belfast unitosi all’Ira a diciotto anni, in concomitanza con l’eccidio del Bloody Sunday - quando i parà inglesi aprirono il fuoco su una folla che manifestava pacificamente per i diritti civili, uccidendo 14 persone - durante gli anni duri della prigionia aveva scritto che “soltanto la maggioranza della nazione irlandese potrà permettere la realizzazione della repubblica socialista”, e che per questo “sarà indispensabile lavoro duro e sacrificio”. Era più che consapevole, Sands, che sarebbe stato lui il primo a doversi sacrificare. E il senso di quella scelta, a distanza di quarant’anni, non è soltanto un’eredità morale enorme, ma anche la visione di un lungo e annoso processo di pace, ancora in fieri per quanto oggi in evidente stallo. Tuttavia, quella di Bobby, la cui tomba è stata spesso, negli anni passati, vandalizzata da slogan e scritte fasciste, resta un’eredità per molti divisiva: anche in Irlanda, e anche nel fronte repubblicano. Puntualmente assistiamo a polemiche su chi prese davvero la decisione sulla sua fine, ad esempio. I detrattori della leadership storica di Sinn Féin ritengono che il partito l’abbia sacrificato per il proprio tornaconto politico e per accrescere il consenso. I compagni di partito e di cella parlano invece, in gran parte, di una sostanziale unione di intenti. Gli scritti stessi di Sands, composti spesso in maniera precaria su cartine di sigaretta, pezzi di carta igienica o brandelli di Bibbia, e fatti poi uscire dal carcere in maniera clandestina (tra questi, molte bellissime poesie) ci raccontano di una decisione estremamente consapevole e di un fermo volere: la consapevolezza che gli inglesi non avrebbero mai mostrato pietà contro quanti erano da loro considerati criminali e terroristi, e il fermo volere di morire affinché un ideale potesse vivere, e perché un popolo unito potesse realizzarlo. Sui giornali di ieri, da un lato si riprende l’annosa polemica che dipinge Sands e i suoi compagni quali strumenti del cinismo machiavellico di un partito, mentre dall’altro si parla di alcuni ritrovamenti fortuiti, venuti alla luce proprio in occasione del quarantennale, che smentirebbero questa vulgata. Si tratta di una serie di comm (le comunicazioni dei carcerati composte e fatte circolare secondo la maniera sopra descritta) da parte di Sands e tanti altri, indirizzati a personalità politiche (tra cui l’attuale presidente irlandese) e religiose: comunicazioni mirate a far sostenere pubblicamente la lotta dei prigionieri politici. Una lotta che rimase de facto, prima dello sciopero della fame, silenziata nei grandi media; come anche erano silenziati, per legge, in quegli stessi anni, i membri di Sinn Féin. Che la linea dei prigionieri fosse relativamente autonoma dal partito è oramai assodato, ma che i loro obiettivi di lungo termine fossero complementari appare un dato di fatto confermato dalla storia successiva. Quel che resta di Bobby Sands e dei suoi compagni, oggi, è la eco del loro grido disperato in irlandese, Tiocfaidh ár lá (“il nostro giorno verrà”): un grido che continua a risuonare come monito, per un futuro incerto e tutto da immaginare. Myanmar, una generazione perduta tra arresti e sparizioni di Raimondo Bultrini La Repubblica, 6 maggio 2021 Manifestanti posano il 5 maggio accanto al ritratto di Wai Phyo, anche noto come Thiha Thu, ucciso dalle forze dell’ordine mentre protestava contro il regime a Hpakant, in Myanmar (afp) Migliaia di giovani sono finiti in galera per aver protestato contro il regime e chiesto la liberazione di Aung San Suu Kyi. Di centinaia di loro si sono perse le tracce. Così i militari mantengono la popolazione nel terrore. Quando scende il buio e inizia il coprifuoco, dalle case di Yangon come di molte altre città del Myanmar le pentole da cucina cominciano a suonare per protesta. Ma subito dopo cala un silenzio che è fatto di ansia e terrore. Dei 3.500 arresti compiuti dall’inizio del golpe del primo febbraio un numero imprecisato, incalcolabile, ma nell’ordine delle centinaia, è letteralmente scomparso dopo i raid notturni armati nelle case delle loro famiglie. Niente comunicazioni a genitori e parenti, che spesso li hanno visti portare via impotenti e non sanno dove trovarli o se siano ancora vivi. Secondo un’inchiesta dell’Associated Press, avvalorata da dati Unicef, tra queste migliaia di detenuti o “rapiti” quasi un terzo, più di mille, sono poco più che bambini e minorenni, in gran parte presi solo per un sospetto di una loro partecipazione al movimento della disobbedienza civile, che a rischio della vita sfida il regime dei militari golpisti. Più di 750 sono le vittime stimate sulle strade delle rivolte dalle organizzazioni umanitarie, che reagiscono con allarme alle notizie sempre più frequenti di scomparse tra i ribelli della Generazione Z birmana, quella che sta pagando il prezzo più alto per gli errori di quanti non sono riusciti prima a liberare il Paese dai crudeli generali. “Meglio martiri che vivi” - Qualcuno parla già di una “generazione perduta”, costretta troppo presto a confrontarsi con un potere che vuole toglier loro quella libertà appena goduta nei cinque anni di governo civile. Non a caso tra le prime misure prese dai golpisti c’era stata quella di chiudere le connessioni a Internet, spingendo i netizen della disobbedienza a rifugiarsi in sistemi alternativi di connessione e comunicazione. Scoperta con una certa sorpresa l’incredibile forza del movimento giovanile, che chiede la fine dell’emergenza e la liberazione della leader della Lega della democrazia Aung San Suu Kyi, i militari hanno puntato pesantemente a colpire proprio questi ragazzi e queste ragazze, per dare l’esempio agli altri. Ma finora senza riuscirci. Anzi. Le stesse famiglie li sostengono nonostante la paura che assale ogni notte, ma anche di giorno, chiunque senta bussare alle porte del palazzo o veda una camionetta militare. “Meglio martiri che vivi in una società dove non c’è libertà”, disse il padre di uno dei tanti giovani che sono stati arrestati e inghiottiti, se va bene, in qualche cella del regime. Il sangue degli adolescenti - Al di là delle statistiche presunte di quanti sono stati imprigionati, e quelle ancora più difficili da compilare dei torturati, le organizzazioni umanitarie temono che gli scomparsi siano più di quanto si possa immaginare. “Stiamo documentando e assistendo ad arresti arbitrari diffusi e sistematici”, ha detto Matthew Smith, cofondatore del gruppo per i diritti umani Fortify Rights. “Siamo decisamente entrati in una situazione di sparizioni forzate di massa”, come proverebbero le testimonianze raccolte dalla sua e da altre organizzazioni su diverse morti di detenuti avvenute in cella e tenute nascoste. I volti dei dispersi hanno del resto inondato da tempo internet, comprese le immagini di giovani detenuti ritratti coi volti tumefatti, insanguinati e lo sguardo di chi ha subito severe torture e umiliazioni. Secondo l’Associazione di assistenza per prigionieri politici, che censisce per quanto possibile morti e detenzioni, più di tre quarti di tutti gli arrestati sono uomini. Di 2.700 non si conosce il luogo di detenzione, e dei 419 nomi registrati nel database del gruppo quasi due terzi hanno meno di 30 anni. Gli adolescenti sono 78. L’esercito nega - Su richiesta dell’agenzia AP i militari hanno indetto una conferenza stampa su Zoom, e hanno negato l’attendibilità dei dati forniti dall’associazione dei prigionieri, “un’organizzazione senza basi”, hanno detto. “Le forze di sicurezza”, è stata la risposta del portavoce Aye Thazin Myint, “non effettuano arresti in base al sesso e all’età. Tratteniamo solo chi è in rivolta, protesta, causa disordini o qualsiasi azione in questo senso”. Ovvero una gran massa di giovani e attivisti che recentemente stanno abbandonando la via pacifica della ribellione e vanno in numero crescente a unirsi ai movimenti di guerriglia che sostengono i militanti anti golpe con le armi. In più di un’occasione negli ultimi giorni sono esplose bombe, come nella città di Myaing, nella regione di Magway, una delle più turbolente. Ma la stampa del regime militare, che teme una ribellione sempre più armata, ha detto che almeno cinque persone sarebbero rimaste uccise nell’ultima settimana, compreso un ex parlamentare della Lega per la democrazia di Suu Kyi, mentre stavano costruendo una bomba artigianale. Il Global New Light of Myanmar ha scritto che l’incidente è avvenuto a Bago, l’antica capitale del regno Mon, e che sul luogo sono stati trovati cavi, batterie e parti di telefonini. Il boicottaggio economico - Arrestare e far scomparire, soprattutto i giovani, è il metodo scelto dai soldati per mantenere la popolazione nel terrore e convincerla a interrompere il boicottaggio dell’economia e dei servizi sociali, messi in ginocchio dalla grande partecipazione agli scioperi proclamati in nome della disobbedienza civile. In tutto il Paese si organizzano turni di ronda e sorveglianza per avvertire dell’arrivo di una pattuglia. In qualche caso si verificano anche scontri tra residenti e soldati, che purtroppo finiscono con nuovi arresti e nuove vittime. Un circolo apparentemente senza fine che la comunità internazionale non è in grado di spezzare. Vite da italiani d’Abissinia di Valentina Giulia Milani La Repubblica, 6 maggio 2021 Il 5 maggio di 85 anni fa finiva la guerra d’Etiopia. I figli nati da donne locali e soldati e coloni fascisti hanno cercato per anni di farsi riconoscere dai padri. E chi c’è riuscito vive in un limbo. Curvo sul tavolino di un tipico caffè etiope, in un quartiere periferico della capitale Addis Abeba, Vittorio Biondi sfoglia un plico di documenti. Passa in rassegna ogni pagina alla ricerca di un dettaglio che, sfuggitogli negli ultimi decenni, possa alleviare il peso di quelle parole impresse proprio sul primo foglio: “Figlio della vergogna”. Cittadino etiope, Vittorio non ha mai saputo chi fosse suo padre, la cui nazionalità gli è però sempre stata nota: un italiano, probabilmente un soldato che, fermatosi a Massaua, in Eritrea, durante gli anni dell’occupazione italiana d’Abissinia, ebbe una relazione con una ragazza etiope, tigrina per la precisione, dalla quale nacque lui. “Mio papà è sparito subito dopo la mia nascita. Ho vissuto con mia mamma fino ai quattro anni, poi è morta e così mi prese in carico mia nonna. Avevo i capelli chiari, e i preti che gestivano il mio collegio mi diedero il cognome Biondi”. Vittorio si è poi trasferito ad Addis Abeba, ma ha di fatto trascorso la propria esistenza a fare il marinaio, a viaggiare e cercare suo padre nel tentativo, vano, di essere riconosciuto e acquisire i diritti sognati di cittadino italo-etiope. Alla fine delle ricerche tornava sempre lì, a quella dolorosa scritta sul suo certificato di nascita: “Nato un infante di sesso maschile che non è rappresentato dal padre”. Come lui, in Etiopia ma anche in Eritrea, tanti bambini e bambine sono cresciuti senza un padre ma con un fedele appellativo sempre accanto: “meticci”. Si tratta dei figli dell’occupazione, un’intera generazione che ha tentato di essere accettata dal genitore italiano il quale, nella maggior parte dei casi, ha fatto ritorno in patria non appena conclusa la campagna o al massimo qualche anno più tardi. Nati in seguito al fenomeno del cosiddetto madamato, l’ondata di relazioni fugaci tra occupanti e donne native, hanno trascorso una vita a rincorrere l’ombra di un papà assente. Quanti sono riusciti a farsi riconoscere hanno comunque vissuto in un limbo senza mai poter contare né su alcuni privilegi garantiti dallo Stato etiope né sull’appoggio delle istituzioni italiane presenti nel Paese. Un’intera generazione di persone che, giunta ormai agli anni della pensione e più, è vivace testimone di un’epoca della quale non si è mai parlato abbastanza, nonostante il 5 maggio di quest’anno cada ormai l’85° anniversario della fine del conflitto che vide contrapporsi il Regno d’Italia e l’Impero Etiope e che portò alla nascita dell’Africa Orientale Italiana con l’annessione dell’Etiopia alle già colonie italiane dell’Eritrea e della Somalia. Terminata con la proclamazione dell’Impero da parte di Benito Mussolini, la guerra consacrò l’inizio dell’occupazione italiana che si concluse ufficialmente nel ‘41. “In quel periodo tantissimi italiani si trasferirono nel Corno d’Africa. Molti come soldati ma tanti anche come civili, soprattutto operai e imprenditori, per prestare servizio in campo edile” spiega Francesco Morescalchi, mamma tigrina e papà italiano, indicando i palazzi e le infrastrutture italiane ad Addis Abeba che scorrono fuori dal finestrino dell’auto: Palazzo Lombardia, la casa del Fascio dove si svolgevano cerimonie ed eventi ufficiali, il quartiere con le case Incis, ossia le vecchie abitazioni dell’esercito, ma anche il cimitero militare dove l’uomo chiede di fermarsi per un saluto ai tanti amici italo-etiopi ormai perduti. Conquistata l’Etiopia, proprio contro i figli meticci e contro la pratica del madamato già in corso in Eritrea e diffusasi presto nella nuova colonia italiana, il regime impostò la propria battaglia per “preservare la razza italiana dai miscugli di sangue”. In questo contesto, il 19 aprile 1937 venne varata la prima norma di “tutela della razza”, il decreto legge n° 880 che puniva con la reclusione da uno a cinque anni il bianco sorpreso in “relazione di indole coniugale con persona suddita”. Di fatto vietava il madamato e il matrimonio con le donne di colore delle colonie africane. Una politica decisamente intransigente che portò, il 13 maggio 1940, alla proclamazione della legge numero 822 contro il meticciato: voluta da Mussolini stesso, definiva ufficialmente reato il riconoscimento da parte dei padri italiani dei figli meticci e accollava a carico delle sole madri il loro mantenimento. Erano leggi volte a scongiurare la nascita dei “figli di sangue misto” i quali, da parte loro, hanno sempre custodito e onorato la cultura italiana. “Sono stato cresciuto con amore da mia mamma nonostante mio padre sia andato via quando ero ancora piccolo, dopo aver trascorso solo i primi anni con noi” racconta Francesco, detto Franco, in un italiano perfetto. Lui e tanti coetanei, infatti, hanno frequentato le scuole italiane di Addis Abeba o Asmara perché, spiega fiero, “le nostre mamme erano convinte che crescerci mantenendo saldi i contatti con la cultura dei papà fuggiti in Italia fosse un modo per nobilitarci”. Ma questo, evidentemente, non è bastato per liberarli. Dopo la caduta del fascismo, il governo italiano abrogò la legge contro il meticciato e dal 1947 consentì ai discendenti degli italiani di fare domanda per il riconoscimento. “Fu una fregatura”, dice Antonio Grassi, nato da madre etiope e padre italiano. Spiega: “Stava a noi dimostrare un legame con il genitore italiano che spesso o era introvabile oppure rifiutava di collaborare”. Lui stesso non è mai stato riconosciuto dal papà che prese parte alla Campagna d’Etiopia come militare. Del resto, dice, “tanti soldati avevano già una famiglia in Italia, perché mai riconoscerci?”. Nonostante ciò, ha coltivato - come tanti altri figli dell’occupazione - una delle principali attività importate dagli italiani in Etiopia: oggi è infatti uno dei più bravi meccanici di Addis Abeba. Infelici, incompiuti ma anche forti e determinati, con la riforma della legge sulla cittadinanza italiana del 1992, fondata sullo ius sanguinis, questi figli “di nessuno” hanno tentato di reclamare la propria cittadinanza all’Ambasciata d’Italia in Etiopia, presentando le prove che avevano raccolto per testimoniare la paternità italiana. La maggior parte di esse venne rigettata e chi la ottenne si trovò a fare i conti con lo status di cittadino italiano di origini etiopi, un riconoscimento civile del governo di Addis Abeba che di fatto consacrava l’entrata nel limbo: “Nel concreto per lo Stato etiope esistiamo a metà. Non possiamo versare i contributi e non ci viene riconosciuta la pensione nonostante abbiamo passato la vita a lavorare, non abbiamo diritto alle cure mediche gratuite e non possiamo ricoprire cariche politiche. Però siamo nati e vissuti qua, quindi anche in Italia non siamo nessuno” fa notare Romano Pezzani, figlio di un militare italiano, reso ormai cieco da un glaucoma. Gli fa eco l’inseparabile amico Gaetano Pasqua: “Io ho il passaporto italiano ma la mia casa è ad Addis Abeba anche se qui mi sento un cittadino a metà. Per fortuna posso contare sui miei amici”. Condividono esistenze e origini, oltre a custodire la cultura italiana in Etiopia onorando al contempo le tradizioni locali. Lo testimonia Roberto Bassani: “Siamo integrati a livello sociale e abbiamo amici sia etiopi che italiani che hanno deciso di restare a vivere in Africa dopo l’occupazione”. Proprio come lui che, figlio di due italiani trasferitisi ad Asmara (Eritrea) come civili per poi raggiungere Addis Abeba, non ha mai più lasciato l’Etiopia e non manca mai di fare una visita allo Juventus Club della capitale, dove in tanti sentono di appartenere a una comunità. E forse, proprio quella comunità, unita ma non esclusiva, è il più grande lascito - inconsapevole - di quella che fu considerata una delle campagne coloniali più ingenti della storia: oltre al gran numero di soldati e mezzi coinvolti, impiegò infatti una grande quantità di strumenti propagandistici con lo scopo a lungo termine di orientare l’emigrazione italiana verso una nuova colonia popolata da italiani e amministrata in regime di apartheid sulla base di una rigorosa separazione razziale. Un obiettivo non raggiunto perché, come sottolinea Gianfranco Straioto, “il pregio degli etiopi è di aver saputo riconoscere e distinguere gli italiani dai fascisti”. Così, nonostante le difficoltà e una vita trascorsa “a metà”, la generazione dei figli dell’occupazione non ha mai smesso di sognare. Come Giorgio Maffi che, classe 1939, figlio di un militare giunto in Etiopia nel ‘36 al seguito dell’armata italiana, all’età di 28 anni ha deciso di partire per l’Italia alla ricerca del genitore scomparso, riuscendo addirittura a incontrarlo e a trascorrerci una giornata. O, ancora, come Straioto, costruttore in età da pensione alle prese con la progettazione di un luogo dove gli italo-etiopi che vivono in Etiopia “possano lavorare mettendo in luce le eccellenze italiane, per esempio in campo edile. Un luogo dove si lavorerebbe fianco a fianco con gli etiopi e dove i diritti di tutti sarebbero riconosciuti e rispettati”.