L’effetto “zona rossa” sulla vita in carcere: è allarme suicidi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 maggio 2021 Sono 17 i detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio del 2021. L’ultimo caso a Vicenza: Angelo Dalla Rosa, 46 anni, era appena entrato in carcere e non ha retto l’isolamento dovuto al Covid. Mentre noi, del mondo libero, cominciamo a respirare più libertà di movimento, andare al bar, frequentare finalmente un ristorante, c’è il carcere che è ancora in “zona rossa”. Precauzione doverosa visto che il Covid 19 è ancora in agguato. E nei penitenziari, luoghi chiusi e affollati, il virus trova l’ambiente ideale per poter sopravvivere contagiando più persone. Ma il problema nasce, causa mancanza di spazi, quando i detenuti sono costretti a rimanere in isolamento precauzionale o in quarantena se contagiati. Nessuna ora d’aria, nessuna possibilità di farsi una doccia, di poter fare qualsiasi cosa utile anche per evitare che la depressione - male che attraversa anche il mondo libero - si amplifichi, si totalizzi, fino a indurre al suicidio. Allarme suicidi in carcere, l’ultimo caso a Vicenza - C’è il caso, drammatico, che riguarda il carcere San Pio X di Vicenza dove, domenica scorsa, un detenuto di 46 anni si è tolto la vita. Si chiamava Angelo Dalla Rosa e si è impiccato nel bagno della cella di isolamento dove stava facendo, appunto, la quarantena. Angelo, prima di esser arrestato, lavorava ed era ben inserito, e per questo aveva chiesto una misura alternativa. Misura che gli è stata rigettata perché pare che per un mese, non rientrasse nei limiti stabiliti dalla legge. Sulla finestra di quella celletta, Angelo ha lasciato un ultimo messaggio per i familiari. Era da poco entrato in carcere, il 20 aprile scorso, per scontare una pena relativa a un vecchio reato. Il dramma è evidente per un motivo ben preciso. Chi fa il primo ingresso in carcere è più soggetto al suicidio. Avviene nelle prime fasi dell’entrata in carcere, spesso proprio nelle prime ore a causa dell’improvviso isolamento, dello shock dell’incarcerazione, della mancanza di informazioni e delle preoccupazioni per il futuro. Ecco perché esiste una prassi per evitare ciò e c’è un percorso di accoglienza in carcere da svolgere. Già è critico di suo applicare tale percorso, ma la pandemia ha aggravato la questione. Entrare per la prima volta in carcere e finire in quarantena da subito, isolato da tutti e tutto, senza assistenza di uno psicologo, il suicidio è un dramma annunciato. Parliamo del 17esimo suicidio che avviene dall’inizio dell’anno, per un totale di 53 persone detenute morte nei primi 5 mesi del 2021. Un numero altissimo e destinato a crescere. Il rapporto Antigone sulle misure anticovid in cella - Come si è detto, la “zona rossa” che attraversa le carceri ha creato maggiore isolamento e stop delle attività trattamentali, la messa in discussione delle celle aperte. Ma non tutti i direttori delle carceri si son uniformati. Dobbiamo rispolverare l’ultimo rapporto di Antigone dove ha premiato, ad esempio, tre carceri dell’Emilia Romagna: Rimini, Ravenna e Forlì. “Le misure di prevenzione dei contagi adottate nei tre istituti - si legge nel rapporto - sono uniformi e hanno permesso di tenere sotto controllo l’emergenza sanitaria in maniera efficace. Il regime a celle aperte ha continuato ad essere in vigore regolarmente, anche se, nella strutturale ristrettezza degli spazi, la sospensione delle attività sicuramente ha avuto un forte impatto sulla quotidianità detentiva, anche perché in tutti e tre i casi si tratta di carceri in cui l’offerta di trattamenti (reinserimento sociale, ndr) prima della pandemia era piuttosto ampia”. Antigone si sofferma sul carcere di Forlì registrando un accento molto forte della direzione e del comando di polizia penitenziaria sulla prontezza che hanno avuto nell’anticipare le necessità dei detenuti allo scoppio della pandemia, rendendo possibile effettuare frequenti colloqui a distanza e diffondendo informazioni sul virus fin da subito. “L’efficacia delle misure adottate è stato frutto di una positiva collaborazione con il comparto sanitario. Sono stati anche mantenuti regolarmente i permessi di uscita assicurando alle persone interessate il pernottamento in celle singole”, osserva Antigone. Quindi, nonostante la pandemia, ci sono stati esempi virtuosi tanto da conciliare la sicurezza con la possibilità di non rimanere soffocati dalla chiusura totale. Ma sono eccezioni che però confermano la regola. In attesa del completamento della campagna vaccinale, il problema sovraffollamento rimane. Nulla è cambiato, se non prorogando le misure deflattive che secondo vari giuristi, associazioni e attivisti politici come Rita Bernardini del Partito Radicale, sono del tutto insufficienti. Ciò non aiuta a compensare la problematica delle “zone rosse” che attraversano le nostre patrie galere. Guida al reinserimento: se il fine pena si trasforma in un percorso a ostacoli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 maggio 2021 Il progetto dell’associazione Antigone Emilia Romagna a Bologna. Parlare del “dopo”, di quando il cancello si chiude dietro le loro spalle e i detenuti sono fuori, nel mondo “libero”, è un argomento complicato per il quale è facile scoraggiarsi e perdersi fra tutti i problemi che si riscontrano nel fine pena, cioè in quella fase della vita di un detenuto che dovrebbe rappresentare invece la fine del “problema dei problemi”, la carcerazione. Quello che manca, in diversi casi, è una rete di sostegno che individui tutti i bisogni di queste persone, dall’affiancamento nei primi passi fuori, alla ricerca di un alloggio, all’aiuto quando piombano addosso multe, divieti, cancellazioni di residenze e tutto quello che fa assomigliare il “Dopo carcere” a un percorso a ostacoli, dove è più facile rischiare di sfracellarsi che superare le tante barriere che si incontrano. Proprio per questo, a Bologna, c’è l’associazione Antigone che ha redatto un opuscolo, un guida che nasce con l’obiettivo di fornire uno strumento volto a sostenere le persone in uscita dal circuito penitenziario in una fase particolarmente delicata del loro percorso biografico. ll progetto intende fornire un vademecum dettagliato a partire dai bisogni e dalle necessità maggiormente avvertite dai dimittendi. Lo strumento è destinato in particolare alle persone detenute nel reparto maschile del carcere di Bologna: si tratta di una scelta voluta, sapendo come le esigenze, i desideri, le aspettative siano legate anche alla specificità di genere. L’Associazione Antigone Emilia Romagna ha infatti in programma di realizzare analogo strumento dedicato alle donne in uscita dai circuiti penitenziari della Regione. In considerazione dell’articolata offerta di servizi presente sul territorio bolognese, la guida si propone di essere d’ausilio anche per i diversi operatori penitenziari e del sociale che si occupano a vario titolo dei percorsi di reinserimento. Il progetto rappresenta una novità rispetto alle ordinarie attività dell’Associazione Antigone Emilia Romagna. Annualmente il Ministero della Giustizia concede le autorizzazioni per l’ingresso all’interno delle carceri regionali e, a seguito di ogni visita, gli osservatori autorizzati si impegnano a compilare delle apposite schede che vengono pubblicate sul sito di Antigone. L’associazione fa parte inoltre della Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia e periodicamente promuove diverse iniziative pubbliche volte a sensibilizzare la cittadinanza sui temi delle garanzie e dei diritti nel sistema penale. In ragione dell’importanza di guardare alla pena sempre più all’esterno delle mura del carcere, Antigone ha scelto di realizzare la presente ricerca che gli ha permesso di conoscere approfonditamente l’offerta della realtà bolognese sul fronte del reinserimento e di realizzare uno strumento che, lungi dall’essere una mera elencazione dei servizi attivi sul territorio, si ponga come guida commentata sui percorsi di uscita dal carcere, a partire dai percorsi biografici di quanti vivono o hanno vissuto la restrizione della libertà Scontro sulla giustizia fino all’ultimo emendamento di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 5 maggio 2021 Maggioranza. Oltre 700 proposte di modifica al disegno di legge delega Bonafede che riforma il processo penale. Centrodestra con Iv e Cambiamo e Pd e 5 Stelle e Leu tirano in direzioni opposte. Lunedì il tavolo tecnico con la ministra Cartabia tenterà una prima, difficile mediazione. La commissione tecnica nominata dalla ministra Cartabia per provare a uscire dal ginepraio della riforma del processo penale aspettava gli emendamenti dei partiti di maggioranza per leggervi un segnale politico su quale direzione prendere. Ieri con la chiusura dei termini (più volte rinviati) e il deposito di ben 718 emendamenti in commissione alla camera - l’80% del centrodestra (contando anche i 96 di Fratelli d’Italia, forza di opposizione) e il 20% di 5 Stelle, Pd e Leu - quel segnale è arrivato. Ed è un annuncio di battaglia interna alla maggioranza, visto che praticamente tutti i temi si tira in direzione opposta. A cominciare dal nodo della prescrizione, istituto praticamente cancellato dal governo gialloverde, rattoppato da quello giallorosso e in attesa di una soluzione definitiva. Forza Italia e Cambiamo +Europa propongono di cancellare del tutto la riforma voluta da Bonafede nella cosiddetta spazza-corrotti. Iv concorda, ma i renziani avanzano anche la proposta più blanda di una sospensione di un anno. Per il Pd sarebbe invece il caso di cambiare completamente prospettiva e introdurre la prescrizione processuale, in modo da allontanare il rischio di impunità ma anche quello di avere processi eterni. A tutto questo i 5 Stelle reagiscono con un salto all’indietro, provando a cancellare anche l’accordo stretto con Pd e Leu e passato alla cronaca come “lodo Conte bis” per recuperare l’originale nettezza di Bonafede. Un chiaro tentativo di alzare la posta in vista di una mediazione che si annuncia assai difficile. Lunedì prossimo la ministra Cartabia riunirà attorno al tavolo del ministero i capigruppo delle commissioni giustizia che per la prima volta, dopo settimane di contatti solo informali, avranno modo di confrontarsi con le proposte alle quali ha lavorato la commissione tecnica, presieduta dall’ex presidente della Corte costituzionale Lattanzi affiancato dall’ex primo presidente della Cassazione Lupo e dal consigliere della ministra Gatta e composta da quattro magistrati, quattro avvocati e quattro accademici. La strada per arriva a emendamenti condivisi di maggioranza, o del governo, è in salita, almeno sulla prescrizione. Meno difficile lavorare a intese sul fronte dell’incentivazione dei riti alternativi al processo, idea contenuta in tutti i pacchetti emendativi anche se con soluzioni diverse. Spazio anche a mediazioni per una possibile forte limitazione dell’appellabilità delle sentenze di assoluzione, ma si parte da estremi opposti. Forza Italia vuole reintrodurre il divieto secco di appellabilità per le sentenze di assoluzione, cioè la legge Pecorella del 2006 successivamente bocciata dalla Corte costituzionale (con sente però assai discusse). I 5 Stelle voglio invece abrogare un caposaldo dell’ordinamento che è il divieto di riforma in peggio della sentenza di primo grado, quando a impugnarla è solo l’imputato. La ministra Cartabia ha fatto inserire nel Pnrr la previsione che questa riforma, una legge delega ai nastri di partenza ma indispensabile per abbreviare i tempi dei processi, sarà approvata dal parlamento entro la fine dell’anno. Vedremo. “Processi, assoluzioni non impugnabili”. La proposta per azzerare gli arretrati di Emilio Pucci Il Messaggero, 5 maggio 2021 Eliminare o comunque ridurre drasticamente l’impugnabilità della sentenza di assoluzione. Quando si viene assolti in primo grado la partita è finita, il pm in molti casi non potrà più procedere, il cittadino - nel momento in cui viene riconosciuto innocente dopo le indagini preliminare e il processo - chiude i conti con la giustizia. È una delle misure allo studio del governo, frutto del lavoro messo in piedi dalla commissione interna del dicastero di via Arenula sulla riforma del processo penale. Nel merito le forze politiche sono d’accordo. E potrebbe essere questa la prima novità, riferiscono sempre fonti parlamentari, che emergerà il 10 maggio, giorno in cui il ministro della Giustizia Cartabia, ha convocato gli “sherpa” della maggioranza per discutere soprattutto della prescrizione. In realtà il Guardasigilli, proprio in virtù del suo ruolo precedente alla formazione del governo, ha spiegato di voler agire all’interno del perimetro costituzionale, considerato che a gennaio del 20071a Corte costituzionale bocciò la cosiddetta legge Pecorella (dal nome del deputato di FI che la propose al Parlamento), ovvero la legge sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento. Ma l’obiettivo delle forze politiche - da FI a M5s - e anche dell’esecutivo è di fare in modo che si trovi un meccanismo che non possa essere oggetto di controversie da parte della Corte. L’esecutivo procederà con un emendamento ma interverrà solo dopo il confronto con le forze politiche della maggioranza. Tante le novità allo studio, con l’obiettivo dichiarato di arrivare ad un taglio dei tempi del processo. Il Pd, FI e Azione chiedono al ministro di stringere i tempi sulla legge delega. Tre mesi per i dem. Ma non sarà facile trovare un’intesa nella maggioranza. Sono oltre 700 gli emendamenti presentati in commissione Giustizia della Camera. Il pacchetto più corposo è stato presentato da Forza Italia (183 in tutto), a seguire 127 dalla Lega e 126 da Italia viva. Sono invece 96 gli emendamenti a firma FdI, 63 Azione-Più Europa, 45 gli emendamenti di M5s, 9 di Leu e 311e proposte di modifica targate Pd. Il nodo principale è quello della prescrizione. Il Movimento 5 stelle (con il presidente Perantoni e diversi membri della Commissione, tra cui Salafia, Ascari e Saitta) propone di lasciare in vigore la norma della legge cosiddetta Spazza-corrotti, che ha stabilito il blocco della prescrizione dalla data di pronuncia della sentenza di primo grado, sia di condanna che di assoluzione. Viene cancellato dunque il cosiddetto lodo “Conte bis”, dal nome del deputato Leu, che prevedeva il blocco della prescrizione per le sole sentenze di condanna di primo grado. Mai pentastellati puntano ad un’intesa con i dem che hanno datò l’altolà agli alleati della vecchia maggioranza rosso-gialla. Il Pd mira a introdurre un limite per fasi, riproponendo il meccanismo della prescrizione processuale. Ovvero se il processo di secondo grado dura più di due anni, per il condannato, scatterebbe una riduzione della pena di 45 giorni ogni 6 mesi di durata extra. “Bisogna accelerare al massimo l’entrata in vigore della riforma”, afferma il dem Bazoli. Ritorno della prescrizione e via all’utilizzo del trojan, tra le proposte di FI. “Vogliamo riportare il processo all’interno delle aule giudiziarie, eliminando le patologie del processo mediatico e valorizzando la presunzione costituzionale di non colpevolezza”, osserva l’azzurro Zanettin. Oblio per gli assolti, dibattimento trasferito in un’altra sede se il processo mediatico compromette l’imparzialità dei giudici, estensione del segreto istruttorio, interrogatorio prima della custodia cautelare, via i tempi morti dalle indagini, no intercettazioni tra giornalisti e fonti, alcuni dei punti del deputato Costa (Azione). Iv, invece, con la renziana Annibali punta a sospendere di un anno la riforma Bonafede o a spostare la sospensione della prescrizione a decorrere dalla sentenza di appello. La palla infatti ora passa al governo che, tra le varie proposte, sta studiando come ampliare la casistica dei riti alternativi. Con il criterio della “giustizia riparatrice”: si andrà in carcere in “extrema ratio”, a patto che il condannato avvii un percorso di “risarcimento”. E si agirà sui criteri di priorità per i pubblici ministeri, i pm potranno chiedere il rinvio a giudizio solo in presenza di chiari elementi probatori. Ma il percorso per un accordo in maggioranza è lungo, il pressing dei partiti è appena iniziato. Ddl penale, parte “la stretta garantista”: “Trojan solo per reati gravi e sanzioni in caso di fughe di notizie” di Davide Varì Il Dubbio, 5 maggio 2021 Il deputato di Azione Enrico Costa presenta il pacchetto di emendamenti al ddl penale: “Cancellare lo stop alla prescrizione di Bonafede, prescrizione del processo, oblio per gli assolti, dibattimento trasferito in un’altra sede se il processo mediatico compromette l’imparzialità dei giudici, estensione del segreto istruttorio, interrogatorio prima della custodia cautelare, via i tempi morti dalle indagini”. “Cancellare lo stop alla prescrizione di Bonafede, prescrizione del processo, oblio per gli assolti, dibattimento trasferito in un’altra sede se il processo mediatico compromette l’imparzialità dei giudici, estensione del segreto istruttorio, interrogatorio prima della custodia cautelare, via i tempi morti dalle indagini, no intercettazioni tra giornalisti e fonti, trojan solo per reati gravi. Sono alcuni dei punti qualificanti del pacchetto di emendamenti che Azione ha depositato al ddl sul processo penale. Si tratta di proposte che traducono in norma il nostro obiettivo di garantire un giusto processo. Il nostro lavoro è a disposizione del governo e della Commissione ministeriale”. A spiegarlo è Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia del partito di Carlo Calenda. “Sull’oblio per gli assolti - prosegue - i nostri emendamenti prevedono la cancellazione dal web dei dati personali della persona che è assolta o prosciolta. Prevediamo, inoltre, l’istituzione dell’autorità Garante per la tutela della presunzione di innocenza. Con gli emendamenti chiediamo quindi di vietare la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, nonché garantire il più stretto segreto istruttorio fino alla conclusione delle indagini preliminari”. “A tal proposito, prevediamo - dice ancora - una sanzione per i giornalisti che pubblicano arbitrariamente atti relativi a un processo in corso, con una pena pecuniaria che va da un minimo di 50mila ad un massimo di 150mila euro. È fondamentale che non vengano rilasciate copie di atti relativi ad indagini, salvo che non ci sia un interesse diretto nel procedimento penale, e che eventuali fughe di notizie siano giudicate da una procura diversa rispetto a quella dove la fuga stessa si sarebbe verificata”. “Uno degli scopi dei nostri emendamenti è quello di prevedere l’estinzione del processo se la durata del primo grado supera i 3 anni, se quella del giudizio di appello è superiore a 2 anni e se quella del giudizio in Cassazione è superiore a un anno. Questi termini possono essere aumentati di un quarto nel solo caso in cui reso necessario da un numero più elevato degli imputati o se dettato dalla complessità degli accertamenti”, prosegue. “Chiediamo - spiega ancora Costa - che fino alla approvazione di una disciplina organica in materia di installazione e utilizzo dei trojan, questo mezzo di ricerca della prova sia utilizzabile solo per reati gravi e gravissimi. Si prevede una pena da 6 mesi a 4 anni per chiunque richieda, autorizzi o non interrompa le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche, ambientali o a mezzo di trojan nei confronti di soggetti per i quali la legge non le consenta”. “Rafforziamo i divieti di intercettazione tra difensore e assistito e introduciamo il divieto di intercettazione delle conversazioni tra i giornalisti e le loro fonti. Salvo che per i reati di più grave allarme sociale e salvo che sussista il pericolo di fuga - continua Costa - prevediamo nei nostri emendamenti che l’interrogatorio preceda la custodia cautelare. In molti casi, con l’interrogatorio c’è il chiarimento della vicenda ed il ritorno in libertà: proponiamo quindi di sentire la persona prima che entri in carcere preventivo. E ancora: archiviare i procedimenti che non consentano di ritenere altamente probabile l’accoglimento della prospettazione accusatoria nel giudizio. Introduciamo, di conseguenza, la valutazione di professionalità di Pm e Gip sulla base della percentuale di assoluzioni nei procedimenti. Non si possono mandare a processo “allegramente” le persone. Oggi abbiamo 120.000 assolti l’anno in primo grado”. “Infine, abbiamo calcolato che nel 2020 ci sono state solo 65 avocazioni da parte delle procure generali a fronte di 34.375 reati prescritti durante le indagini preliminari. Quindi le indagini sono troppo lente e troppo lunghe. Proponiamo, quindi, l’estinzione dell’azione penale in tutti i casi in cui siano esauriti i tempi doppi di durata massima delle indagini preliminari (da sei mesi per i piccoli reati a due anni per i più gravi), con tutte le possibili proroghe, e la soppressione dello stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio, vigente dal 1 gennaio 2020”, conclude l’esponente di Azione. Via al balletto prescrizione. Cartabia: si decide insieme di Errico Novi Il Dubbio, 5 maggio 2021 A giorni il vertice a via Arenula: confronto tecnici- politici, poi la sintesi della ministra. Cambiamo! cancella le norme che offendono gli avvocati. Intanto va detto che Marta Cartabia ha studiato bene le tappe. Ieri ha lasciato che si consumasse la gara di fuochi pirotecnici fra partiti, cioè la corsa agli emendamenti. Ebbene, le proposte di modifica al ddl penale depositate sono 718. Non una quisquilia, se si pensa che una quota notevole, 76, proviene da Pd e M5S, pilastri della maggioranza in cui era guardasigilli Bonafede, autore del testo base. Ora, è inutile girarci intorno: la prescrizione resta l’epitome del conflitto. Tutte le forze politiche hanno depositato ipotesi per modificarla. Ma appunto la ministra non resterà a guardare. Perciò, la settimana prossima celebrerà un vertice di maggioranza che, fanno sapere da via Arenula, terrà in conto non solo le proposte parlamentari ma pure quelle degli esperti ministeriali, coordinati da Giorgio Lattanzi, che a loro volta “si accingono a concludere i lavori”. Alla riunione, i “tecnici” illustreranno le loro idee ai partiti, le confronteranno con gli emendamenti depositati ieri in commissione Giustizia a Montecitorio. Da lì, la guardasigilli trarrà le proprie personali conclusioni e deciderà quali modifiche presentare a nome del governo. In altre parole, formalizzerà la “sintesi”. E poi, dopo, si passerà alle votazioni, che in teoria sarebbero in calendario già la settimana prossima ma che dovrebbero slittare un po’. Sembra una quadriglia. Ma è il minimo dell’arabesco necessario. Provateci voi a trovare una mediazione fra i seguenti punti. Da una parte ci sono le forze del cosiddetto schieramento garantista, che propongono più o meno tutte il superamento della norma Bonafede sulla prescrizione, da Forza Italia a Italia viva. Lucia Annibali, capogruppo renziana in commissione, ipotizza un inatteso compromesso: far slittare lo stop all’estinzione del reato a dopo la sentenza d’appello. Ma la Lega di fatto sopprime il blocca-prescrizione pentastellato, come pure Azione, of course. Come noto il Pd si è sforzato di disegnare un equilibrio sottilissimo, che ha tutta l’aria di potersi candidare alla soluzione preferita dalla ministra: norma Bonafede intonsa, perché così non si corre il rischio che muoiano quei processi in cui il reato si scopre così tardi da veder divorata la prescrizione ancor prima che inizi l’indagine, ma via libera a una “prescrizione processuale” delicatissima. Che per i condannati in primo grado scatta sì, in appello, ma solo dopo un termine più lungo di quello indicati da Bonafede come tempo limite di fase. Termine più lungo che, si badi, non è neppure enunciato: sarebbe Cartabia a doverlo precisare nei decreti attuativi. Ora però, per capire come siamo messi, si pensi che il M5s risponde con una simpatica minaccia: cari garantisti se forzate la mano, “la nostra posizione sarà quella di sopprimere il lodo Conte bis, così rimarrà in vigore la legge sulla prescrizione così com’è. Cioè interruzione dopo la sentenza primo grado”. Spauracchio risibile? Cartabia non vuole ridere di nessuno. Casomai, si pensi che il sempre armatissimo Enrico Costa (Azione) somma al ripristino della prescrizione del reato “ante Bonafede” l’inedita prescrizione processuale. Cartabia dovrà fare sintesi. Certo che dovrà. E non potrà ignorare interessanti idee su altri passaggi della riforma. Ad esempio il dem Carmelo Miceli propone “l’improcedibilità”, cioè la prescrizione processuale, persino nella fase delle indagini preliminari, se il pm non esercita l’azione nonostante l’istanza acceleratoria dell’indagato. Tante cose ottime sulla presunzione d’innocenza da FI (no a foto dei pm-star sui giornali) e da Costa, che impone pure l’interrogatorio prima e non dopo la custodia in carcere in modo che quest’ultima non diventi un ricatto. Da Forza Italia “giuste rivendicazioni delle nostre antiche battaglie”, come le chiama Zanettin, incluso il divieto di ricorso del pm sull’imputato assolto in primo grado, perché si deve “evitare la pena “eterna” nei confronti di chi si è visto liberare da ogni addebito in un processo rispettoso del contraddittorio”. E per fortuna c’è anche chi si ricorda delle tante obiezioni sollevate in audizione dall’avvocatura. E il caso della deputata di Cambiamo! Manuela Gagliardi, che propone di cancellare la norma per cui le notificazioni successive alla prima vengono scaricate direttamente sul difensore in via telematica. E, soprattutto, quella secondo cui “il difensore può impugnare la sentenza solo se munito di specifico mandato, rilasciato successivamente alla pronuncia”. Un’implicita offesa alla correttezza deontologica dei penalisti, offesa giustamente censurata da Gagliardi. Bene. Però alla fine tanto si può fare solo se si trova la formula magica sulla prescrizione. Cartabia ha approntato un rito. Ma alla fine ci vorrà un colpo da maestro, per pacificare i convenuti. Csm, chi provoca il Quirinale di Carlo Bonini La Repubblica, 5 maggio 2021 Nelle richieste che la destra muove al Capo dello Stato c’è l’obiettivo dichiarato di prepararsi alla imminente stagione di riforme sulla giustizia con un armamentario di argomenti e veleni che hanno a che fare con la resa dei conti. In un copione liso e dalla grammatica costituzionale sgangherata - modi che le sono propri quando si parla di giustizia e di rapporti tra politica e magistratura - la destra ha afferrato l’affaire Amara e l’inchiesta sui corvi del Csm per tornare a chiedere al Capo dello Stato Sergio Mattarella (lo aveva già fatto nei giorni della tempesta del caso Palamara) quello che neppure uno studente al primo anno di giurisprudenza chiederebbe. “Un intervento” che dovrebbe azzerare l’attuale Consiglio superiore della magistratura o accompagnare le inchieste penali e disciplinari in corso dando conto di se ed eventualmente cosa il Quirinale sapesse di ciò che bolliva nel pentolone del conflitto interno alla Procura di Milano e della diffusione dei verbali segretati di Amara all’interno del Consiglio superiore. Ebbene, come prevede la legge istitutiva del Csm, lo scioglimento dell’organo di autogoverno della magistratura non è un atto discrezionale, né politico. È un atto dalla procedura complessa, che richiede il coinvolgimento dei presidenti delle Camere e dell’ufficio di presidenza del Consiglio e che, soprattutto, ha quale suo presupposto l’impossibilità del Consiglio di assicurare le sue funzioni per ragioni legate alla decadenza o alle dimissioni della metà più uno dei suoi membri togati. Di più: il provvedimento di scioglimento - che è un atto eccezionale - spetta al presidente della Repubblica non in quanto presidente del Csm, ma in quanto Capo dello Stato. Non diversamente, chiedere al Capo dello Stato di infilarsi - non si capisce bene come e a che titolo - nell’inchiesta sulle responsabilità nella circolazione e diffusione dei verbali segretati di Milano, significa sollecitare una mossa che farebbe a pugni con il principio di autonomia dell’accertamento penale e disciplinare. Un’altra castroneria, insomma. Dunque, perché tirare per la giacca il Capo dello Stato, accusandolo di aver tenuto e tenere in vita un organo costituzionale delegittimato agli occhi del Paese? E perché rimproverargli un “silenzio” su una questione come quella della giustizia e della riforma dell’ordinamento giudiziario su cui, non più tardi del 23 marzo scorso, proprio Mattarella, era intervenuto al Csm, con a fianco la ministra di Giustizia Marta Cartabia? “La guida del ministero della Giustizia - ebbe a dire il Capo dello Stato in quella circostanza - è sempre di primaria importanza nella vita delle istituzioni del nostro Paese e lo è particolarmente in questo periodo, sia per gli adempimenti nell’ambito del Recovery plan nel settore giustizia, sia per quanto riguarda le attese di necessari e importanti interventi riformatori oggetto di confronto in Parlamento”. Piuttosto chiaro. “Necessari e importanti interventi riformatori”. Quel giorno, altrettanto esplicito fu il vicepresidente del Csm David Ermini. “Si avverte impellente l’urgenza, nel rispetto delle prerogative costituzionali dell’autogoverno della magistratura, di una riforma del Csm. Perché la gran parte dei magistrati ha bisogno di riscatto e il Consiglio deve agire con ancora più determinazione per riconquistare un prestigio incrinato dal discredito”. La verità è che nella provocazione che la destra muove al Quirinale c’è l’obiettivo dichiarato di prepararsi alla imminente stagione di riforme sulla giustizia (a cominciare dal disegno di legge di riforma del Csm e da quello del processo penale) con un armamentario di argomenti e veleni (quelli di cui sono gonfi i verbali di Amara) che nulla hanno a che vedere con riforme non più rinviabili, ma molto con il redde rationem, con la sete di vendetta, che una parte significativa della destra non ha mai smesso di coltivare nei confronti del controllo di legalità esercitato dalla magistratura nei confronti della Politica, delle sue classi dirigenti. Di più: chiedere a gran voce che l’apertura del vaso di Pandora della fantomatica “loggia Ungheria” entri nell’agenda politica come se stessimo parlando della scoperta degli elenchi della P2 di Castiglion Fibocchi (scomodati in questi giorni nello spericolato tentativo di paragonare l’inchiesta di Colombo e Turone al gioco in cui Amara ha tirato la Procura di Milano) non ha nulla a che vedere con la richiesta di verità o trasparenza. Significa semplicemente voler consegnare ancora una volta un passaggio delicato della vita politica del Paese a una stagione di ricatti capaci di sequestrare o comunque confondere la volontà del Parlamento. A far deragliare la possibilità di una riforma. E, incidentalmente, condizionare la non banale nomina del futuro Procuratore di Milano. Il veleno iniettato dall’avvocato Amara nel dicembre del 2019 nel sistema terremotato della nostra giustizia penale e di un Csm fragile, segnato da due anni di guerra per bande, ha da questo punto di vista già raggiunto il suo scopo. E afferrarsi al Quirinale in questo passaggio non è altro che la conferma della spregiudicatezza di chi, da due anni ormai, gioca sulla giustizia una sola partita. Quella al massacro. Quella di cui il Paese non ha bisogno. Magistratura e politica divise sulla commissione d’inchiesta sulle toghe di Giulia Merlo Il Domani, 5 maggio 2021 Sullo scandalo della loggia Ungheria ci sarebbe stata una telefonata tra la ministra Cartabia il procuratore Salvi. I gruppi parlamentari hanno chiesto un intervento urgente della ministra Marta Cartabia, perché riferisca sulle ultime vicende che hanno investito il Csm. La maggioranza di governo torna a dividersi sulla giustizia, in particolare sulla commissione parlamentare d’inchiesta sulla magistratura. La proposta avanzata nelle commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera era partita da Forza Italia e Lega qualche settimana fa, sostenuta anche da Italia viva e Azione. L’obiettivo era quello di indagare le cause dello scandalo Palamara e del cosiddetto mercato delle nomine, allargando poi l’indagine all’”uso politico della giustizia”. Alla proposta si erano invece opposti Partito democratico, Movimento 5 stelle e Leu con una motivazione soprattutto tecnica: l’incostituzionalità di una commissione parlamentare che si occupi di un altro potere dello stato, con il rischio di generare un conflitto di attribuzione. La questione sembrava quasi archiviata ma lo scandalo di questi giorni, dalla divulgazione di verbali secretati della procura di Milano all’esistenza di una presunta loggia segreta “Ungheria”, ha rianimato il dibattito, polarizzando ulteriormente lo scontro. Soprattutto dopo che il presidente della commissione Giustizia, Mario Perantoni (M5s), ha scelto come relatori per la proposta di legge di istituzione della commissione Stefano Ceccanti del Pd e Federico Conte di Leu. La scelta è stata letta dal centrodestra come un tentativo di far fallire l’operazione, proprio nel momento in cui le novità di questi giorni, al contrario, renderebbero ancora più necessario un approfondimento in tal senso. La capogruppo al Senato di Forza Italia, Anna Maria Berinini, ha definito la commissione “ineludibile” per tutelare “la stragrande maggioranza dei magistrati”. FI si è compattata dietro al deputato della commissione Giustizia ed ex membro del Consiglio superiore della magistratura, Pierantonio Zanettin, che ha definito “struzzi” con la testa sotto la sabbia Pd e Movimento 5 stelle e ha contestato anche la scelta dei due relatori del centrosinistra, “entrambi già dichiaratisi contrari alla nostra proposta di legge”. L’accusa di parzialità è stata respinta da Conte, che ha sottolineato che quello di relatore è un compito istituzionale: “Non mi impedirà di esprimere le mie opinioni, ma lo svolgerò nel rispetto delle posizioni di tutti”. Le ultime notizie, infatti, non hanno per ora influenzato la posizione del Pd e del Movimento. In particolare Perantoni, ha detto a Repubblica che “la commissione d’inchiesta sulla magistratura non può diventare un tribunale politico in stile inquisizione sul lavoro dei giudici”. La posizione dell’ex maggioranza giallorossa è quella di dire no a una commissione d’inchiesta dai confini troppo generici, mentre ci sarebbe margine di dialogo per una commissione su fatti “determinati e precisi” come il caso Palamara. Su questa linea si muovono anche le correnti associate della magistratura. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia, in un’intervista alla Stampa, ha definito “inaccettabile” l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulla magistratura. La toga non lascia margini di possibilità. “Su quali fatti dovrebbero indagare?”, si chiede aggiungendo una nota polemica: “Forse vorrebbero riscrivere alcune sentenze sgradite? Il parlamento non ha bisogno di alcuna indagine per legiferare”. Il contrasto interno alla maggioranza è aspro e, come sempre negli ultimi mesi, a venire chiamata in causa è la ministra della Giustizia, Marta Cartabia. La necessità di un suo intervento è l’unico fatto su cui tutti i gruppi - compreso quello di minoranza di Fratelli d’Italia - hanno trovato convergenza, chiedendole di riferire alla Camera sulla vicenda dei verbali secretati degli interrogatori dell’avvocato Piero Amara trasmessi al Csm e alle redazioni di alcuni giornali. Quello che tutti definiscono un “opportuno chiarimento” su una “vicenda dai contorni oscuri”, come l’ha definita il deputato del Pd, Alfredo Bazoli, potrebbe arrivare presto. L’attesa è solo che la polvere sollevata in questi giorni si depositi. Dal ministero di via Arenula si sa che Cartabia sta “seguendo con attenzione gli sviluppi della vicenda” e nei giorni scorsi ci sarebbe stata anche una telefonata con il procuratore generale di Cassazione, Giovanni Salvi. Oggetto della conversazione: ottenere chiarimenti sulla situazione e appoggio del ministero all’iniziativa della procura generale di valutare iniziative disciplinari nei confronti del pm di Milano Paolo Storari, che ha portato i verbali segreti al Csm da Piercamillo Davigo. Novità potrebbero arrivare con la deposizione di Davigo, che verrà sentito il 6 maggio come teste nell’udienza al tribunale del Riesame di Roma nell’ambito dell’indagine contro Marcella Contrafatto, accusata di aver diffuso in forma anonima ad alcuni giornali i verbali secretati. Flick: “Commissione sulle toghe? Macché, è inutile: pensino a riformare il Csm” di Errico Novi Il Dubbio, 5 maggio 2021 Intervista al presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, che diffida della possibilità di risolvere i problemi della magistratura grazie a “clamorose quanto improbabili rivelazioni nascoste nei verbali”. “Sono passati due anni dalla vicenda rivelata dai trojan nel 2019, anche se già allora a molti nota. Qualcuno vede per caso maturare una autoriforma, tra i magistrati? Non credo ci si possa ancora illudere in una rigenerazione endogena, né del Csm né dell’ordine giudiziario nel suo complesso. Lo conferma l’ultima, deprimente questione dei “verbali avvelenati”. È chiaro che la magistratura ha bisogno di un intervento normativo capace di riformarne l’autogoverno, e l’intervento non può che provenire dall’esterno, dunque dal Parlamento. L’importante è che non si risolva in una commissione d’inchiesta, che invece ridurrebbe tutto a un inutile e forse pericoloso regolamento di conti politico”. Il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick, oltre a sollecitare un’accelerazione sull’ormai leggendaria riforma del Csm, si rifiuta di “fare il pur minimo sforzo per comprendere come siano andate le cose in quest’ultimo conflitto fra il Consiglio e un suo ex componente, o cosa ci sia di attendibile nei verbali. Non mi interessa e non vale la pena di inoltrarsi nell’intrigo, di capire se è una vendetta, o una calunnia, o un maldestro tentativo di intorbidire le acque per difendersi. Di sicuro la gran parte delle persone resta smarrita e confusa come il sottoscritto. Credo basti. Aggiungo solo che insistere nella curiosità febbrile per l’investigazione dei presunti segreti, per l’attesa di una clamorosa rivelazione nascosta nei verbali, tutto questo, al di là delle strumentalizzazioni, di cui anche i media fanno un uso disinvolto, mi pare riproponga l’errore di guardare al dito anziché alla luna. L’unica cosa sicuramente vera è che due anni dopo la vicenda del 2019 qualcuno infligge un ulteriore, grave colpo alla credibilità e autorevolezza della magistratura. Compromette ancora di più la fiducia dei cittadini nella giustizia. Ce n’è abbastanza per smettere di soffermarsi sui dettagli e guardare alla luna anziché al dito”. Perché è un errore dare importanza al caso dei verbali? Intanto perché la cosiddetta verità su quei verbali potrebbe rivelarsi assai deludente. Non so se vi sia granché, ma non mi aspetto rivelazioni sconvolgenti. È uno scontro di potere, ed è proprio questo il problema. Il Csm rischia di non riflettere più il modello disegnato dai costituenti. Che avevano immaginato un organismo di alta amministrazione dell’ordine giudiziario, dotato di un proprio spazio di discrezionalità e di un potere anche politico definito da limiti rigorosi, ma reso poi indeterminato dalla mancanza di una legge rinnovata sull’ordinamento giudiziario. Da quel modello siamo passati a una crescita abnorme. Siamo passati a un gigante malato? In un certo senso sì. Intanto è il caso di sottolineare la crescita della disinvoltura rispetto all’inosservanza delle regole. Negli ultimi due anni trascorsi dal noto caso del trojan non si è percepito un cambiamento. Mentre per quasi un terzo la componente togata del Consiglio è stata sostituita. Parlo di un potere che nella sostanza è politico e in quanto tale rischia di diventare anomalo. Una distorsione che cresce di pari passo perché strettamente connessa alla crisi di legalità e alla crisi del ruolo del giudice. Assistiamo al continuo ingigantirsi dell’autoreferenzialità della categoria e dei singoli magistrati. Nel segno della correntocrazia, mi pare il termine più congruo. Ma il fenomeno non è comprensibile se non si aggiunge un tassello decisivo. Quale sarebbe? Oggi il Csm è un luogo di potere che ha mutuato alcuni aspetti assai negativi dalle prassi della politica. Si pensi alle nomine per gli uffici doppie o triple per accontentare tutti: uno a me, uno a te e il terzo a lui. La scarsa chiarezza nei rapporti fra centro e periferia, la gestione personalistica che prevale sul mandato istituzionale, quando non il vero e proprio abuso. Aspetti che sembrano emergere anche con l’ultima vicenda dei verbali. Certo che un pm è tutelato dalle norme, anche nel senso di potersi rivolgere al Consiglio superiore, ma certo le modalità per ottenere quella tutela non coincidono con quando sembra essere avvenuto. Però lei dice che il vizio è importato dalla politica... La patologia si alimenta anche nel rapporto altrettanto anomalo con la politica. E uno dei fattori dell’anomalia è proprio nella scelta dei consiglieri non togati. Secondo la Costituzione devono essere individuati in base all’alto profilo, alle competenze e invece spesso sono scelti fra chi è sì avvocato o professore, ma è innanzitutto organico alla politica tout court. Al di là della composizione dell’attuale Consiglio, a cui non intendo riferirmi in modo specifico, sta di fatto che la parziale elusione del dettato costituzionale ha finito negli anni per trasmettere appunto alcune cattive prassi dalla politica alla gestione della magistratura. Il mancato rispetto delle regole non si può spiegare solo col cattivo esempio... Trae origine infatti anche dalla scarsa applicazione della giustizia interna, anche se parzialmente e lentamente migliorata negli ultimi tempi. Già il rispetto dei princìpi deontologici, che attengono alla legalità sostanziale dei comportamenti, potrebbe cambiare le cose. Accanto alla giustizia disciplinare e a quella penale, alcuni comportamenti andrebbero prima ancora sanzionati sul piano deontologico, della cultura della vergogna e della reputazione. Aiuterebbe. Si riferisce all’ultimo caso dei verbali? Assolutamente non mi riferisco ad alcunché di specifico tra le vicende che emergono con preoccupante frequenza. Non mi interessa e non spetta a me indicare colpevoli o distribuire torti e ragioni su casi che oltretutto non conosco. Mi interessa l’impressione di un potere eccessivo e di una sua gestione anomala e autoreferenziale che se ne può trarre da parte dell’opinione pubblica. Mi interessa anche far notare come l’ultima vicenda segnala la difficoltà che la correntocrazia guarisca da sé. La magistratura da sola non ce la può fare. Ma la politica non è messa meglio: come ci si può attendere che il risanamento arrivi da lì? Deve arrivare per forza da una riforma approvata in Parlamento, semplicemente non ci sono alternative. A due anni dalla vicenda della primavera 2019 non mi pare che possa ancora esserci chi abbia il coraggio di scommettere sull’autoriforma del Csm. E se invece lo sdegno suscitasse una risposta dalla base della magistratura? Certamente la maggior parte dei magistrati italiani lavora con dedizione ed è disgustata dai fenomeni di cui parliamo. D’altra parte non mi pare saggio sperare che l’ordine giudiziario nel suo complesso riesca a rinunciare al grande potere che ha raggiunto. Serve il sorteggio dei togati? Serve probabilmente un meccanismo elettorale che riduca il più possibile l’estensione delle circoscrizioni in modo da favorire chi gode della personale fiducia dei colleghi piuttosto che della sponsorizzazione delle correnti. Intendiamoci, non tutte le attività del Csm sono compromesse dalla patologia dell’eccesso di potere, ma quella distorsione, nell’immagine pubblica, appare prevalente sulle tante attività svolte nel rispetto delle regole. È utile una commissione d’inchiesta parlamentare sulla magistratura? No. Sa solo di regolamento di conti, alimenta la confusione e nient’altro. Accresce, se possibile, l’anomalia politica in cui versa la magistratura. Crea conflitto fra i gruppi in Parlamento, che ovviamente hanno fra loro idee diverse sul passato dei rapporti fra politica e giustizia. Insomma, complica il quadro. Dal Parlamento dovrebbe invece venire semplicemente una riforma seria dell’ordinamento giudiziario. Qual è la ricetta? Guardare al futuro della giustizia anziché al passato dei conflitti. Diffondere un’idea di giustizia basata sulla ricerca paziente della verità, attraverso il dubbio, la consapevolezza dei propri limiti e il bilanciamento degli interessi. Ricordarsi della favola dei porcospini, trovare cioè la giusta misura che consenta di confrontarsi senza farsi male. Di scaldarsi un po’ senza pungersi troppo. Infine, guardarsi dalle suggestioni tecnologiche. A cosa si riferisce? Alla cosiddetta giustizia predittiva, all’intelligenza artificiale. Strumenti essenziali ma non valori fini a se stessi. In molti di fronte alla crisi del giudice pensano ci si possa rifugiare negli algoritmi. Ma la funzione giurisdizionale deve sempre tener conto di variabili innanzitutto umane non ripetibili. Proprio perché non ci sono alternative robotiche alla crisi del giudice, essa va risolta in altro modo. Il Parlamento sarà all’altezza? Credo si possa intanto riporre fiducia nell’attuale ministra. Non conosco gli esiti della commissione Luciani, non è un compito facile ed è chiaro che il lavoro del Parlamento sarà decisivo. Ma se una cosa buona si può fare subito, è la rinuncia alla commissione d’inchiesta. Confonderebbe solo le idee. E di confusione, sul ruolo e sul potere del Csm ce n’è già così tanta che aggiungerne ancora sarebbe controproducente. Caso Cerciello Rega: è stato omicidio o legittima difesa? di Giulia Merlo Il Domani, 5 maggio 2021 Il 26 luglio 2019 il carabiniere moriva per mano di un ragazzo americano, nel corso di un’operazione di recupero di uno zaino rubato. La vicenda ha molte zone oscure: la difesa ha chiesto l’assoluzione, l’accusa l’ergastolo. La notte tra il 25 e 26 luglio 2019, il vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega muore nel quartiere Prati a Roma, dopo essere stato colpito da 11 coltellate, di cui due fatali. A impugnare il coltello è Finnegan Lee Elder, un diciannovenne americano in vacanza in Italia, mentre è in corso anche un’altra colluttazione tra il collega di Cerciello Rega, Andrea Varriale, e Gabriel Natale Hjorth, italoamericano amico di Elder. Lo scontro è l’epilogo tragico di un “cavallo di ritorno” andato male: quella che in gergo è l’operazione che le forze dell’ordine conducono per recuperare l’oggetto di un furto. Oggi si dovrebbe concludere il processo di primo grado davanti alla corte d’Assise di Roma. I difensori dei due ragazzi, che sono detenuti in carcere a Regina Coeli dal momento dell’arresto, però, non escludono che la camera di consiglio possa proseguire ancora. Dopo oltre trenta udienze, le conclusioni della pubblica accusa e della difesa sono state opposte. Il pubblico ministero Maria Sabina Calabretta ha chiesto la condanna per omicidio volontario in concorso e dunque l’ergastolo con isolamento diurno di un mese per entrambi i giovani. Le difese hanno chiesto l’assoluzione per legittima difesa putativa, perché i ragazzi non avrebbero riconosciuto i due come carabinieri. Nel 2019 Natale ed Elder sono due ragazzi di diciannove anni in vacanza. Vengono da San Francisco e si conoscono dalla scuola superiore, anche se non sono amici stretti e non sono arrivati insieme a Roma. Il padre di Natale è italiano e il figlio, iscritto al primo anno della facoltà di Architettura in America, viene spesso in Italia a trovare i nonni e lo zio, che vivono sul litorale romano a Fregene. Elder invece è in vacanza a Roma da solo, ha problemi di tossicodipendenza ed è in cura da uno psichiatra perché un anno prima ha tentato il suicidio. I due si incontrano a Roma il giorno prima della tragedia e la sera del 25 luglio, dopo una giornata da turisti, decidono di acquistare della cocaina. Vanno in uno dei luoghi della movida romana, piazza Trilussa a Trastevere, dove sperano di trovare immediatamente uno spacciatore. Qui incontrano uno dei personaggi chiave della vicenda: Sergio Brugiatelli. L’uomo spiega che lui non ne ha, ma dopo alcune telefonate si offre come mediatore, per accompagnarli da uno spacciatore della zona. La trattativa viene condotta da Natale che parla italiano e concorda l’acquisto di un grammo di cocaina al costo di 80 euro. Preleva dal bancomat la somma. I due americani seguono Brugiatelli a piazza Mastai, in una zona meno affollata di Trastevere, perché lo scambio è fissato in una via laterale lì vicino. La ricerca di un pusher a piazza Trilussa, però, non passa inosservata. A notarla sono quattro carabinieri non in servizio della caserma Farnese, che fotografano la trattativa tra Brugiatelli e i ragazzi, avvisano i loro colleghi in servizio Cerciello Rega e Varriale e seguono il gruppo che si avvia verso piazza Mastai. Lì Brugiatelli lascia la bicicletta e il suo zaino insieme a Elder, che si ferma in piazza, mentre lui e Natale si avviano nella via laterale per incontrare il pusher Italo Pompei e comprare la cocaina. Pompei prende gli 80 euro e Natale un pacchetto mal confezionato che lo fa insospettire, ma in quel momento arrivano due dei carabinieri in libera uscita a bordo di un motorino. Brugiatelli scappa verso la piazza, Pompei getta l’involucro sotto una macchina e, a richiesta dei carabinieri che si sono qualificati, Natale mostra cosa ha in tasca, poi fugge. La morte - A questo punto inizia la sequenza di eventi che porta alla morte di Cerciello Rega. Natale torna da Elder a piazza Mastai e insieme scappano verso il Lungotevere, portando con loro lo zaino di Brugiatelli. L’intento è di usarlo per uno scambio, per riavere gli 80 euro dati al pusher. Brugiatelli si fa prestare un cellulare e chiama il suo numero, visto che il suo telefonino è nello zaino, e così contatta i ragazzi per riavere le sue cose. Contemporaneamente, però, denuncia il furto ai carabinieri presenti. Dopo una lunga serie di telefonate tra la centrale operativa e i carabinieri in servizio, nasce l’ipotesi di organizzare il cosiddetto “cavallo di ritorno”: l’operazione per cui la vittima di estorsione si reca sul luogo dell’incontro accompagnato dalle forze dell’ordine in incognito che, al momento dello scambio e dunque della consumazione del reato, arrestano gli autori dell’estorsione. Per organizzare la cosa, la centrale chiama la volante di Cerciello Rega e Varriale, che quella sera sono in servizio in borghese e dunque sono perfetti per l’operazione. Qui però iniziano le versioni divergenti dell’accaduto. I due fanno salire Brugiatelli in macchina e vanno in via Gioacchino Belli, nel quartiere Prati, dove i ragazzi hanno dato appuntamento per lo scambio, a cui aggiungono la richiesta anche di un grammo di cocaina. I carabinieri non comunicano il cambio di zona alla centrale e, secondo le difese, anche il protocollo dell’azione viene violato. A effettuare lo scambio, infatti, vanno i due carabinieri in borghese e non Brugiatelli, che rimane in auto. Intanto i ragazzi passano dall’hotel dove alloggiano e, prima di uscire per lo scambio, Elder prende con sé un coltello simil-militare con una lama di 16 centimetri che infila nella tasca della felpa. I due si recano all’incontro ma non portano con sé lo zaino, che viene nascosto in una fioriera poco lontana. I ragazzi si aspettano di veder arrivare Brugiatelli, a cui hanno raccomandato di venire solo. Invece, nella via deserta (sono le 3 del mattino) compaiono i due carabinieri in borghese. Inizia la colluttazione: Varriale racconta che sia lui che Cerciello si identificano come carabinieri, i ragazzi invece negano di averlo sentito e anzi li avrebbero scambiati per due malviventi assoldati da Brugiatelli. Varriale va verso Natale e, dopo uno scontro a mani nude, il giovane si divincola e fugge. Cerciello invece attacca Elder: la dinamica viene ricostruita diversamente da accusa e difesa (secondo l’accusa lo scontro avviene in piedi e Elder colpisce al torso il carabiniere con il coltello; secondo la difesa Cerciello è sopra a Elder, il ragazzo usa il coltello per liberarsi della presa e fuggire). Particolare determinante: i due carabinieri, pur essendo in servizio, non hanno con loro la pistola di ordinanza. Dopo lo scontro, i due ragazzi scappano e tornano in hotel, nascondono il coltello nel controsoffitto della stanza e vanno a dormire. Vengono poi arrestati il giorno dopo e l’arma del delitto ritrovata. L’omicidio provoca subito una forte eco mediatica, ma le notizie sono confuse e contraddittorie, in particolare rispetto alla dinamica dei fatti. Inoltre, pochi giorni dopo l’arresto viene pubblicata dai giornali italiani e poi viene ripresa da quelli americani la foto di Natale bendato e ammanettato in un ufficio della caserma dove è stato portato dopo il fermo, contro ogni regola di condotta. Violata consegna - Il processo si fonda tutto sulle dichiarazioni di Varriale e dei due ragazzi, determinante è il dettaglio dei tesserini: i due carabinieri li hanno o no mostrati, come sostiene Varriale? Francesco Petrelli e Fabio Alonzi, che difendono Natale, e Renato Borzone e Roberto Capra, avvocati di Elder, hanno sostenuto entrambi la linea dell’inaffidabilità del racconto del carabiniere, definito “un bugiardo”. Proceduralmente le parole di Varriale, che è imputato nel procedimento militare connesso per “violata consegna”, perché era disarmato durante il servizio, devono essere non solo attendibili ma anche riscontrate con prove, invece questi riscontri mancano. Il carabiniere, inoltre, mente almeno in due occasioni: all’inizio sostiene di aver avuto con sé la pistola, invece viene dimostrato che i due militari si sono presentati disarmati all’appuntamento; poi sorgono irregolarità nella compilazione dell’ordine di servizio, compilato in ritardo e con lacune e falsi, rispetto all’identificazione di Brugiatelli. Inoltre, rimane poco chiaro il ruolo di Brugiatelli: individuato come mediatore di una transazione per l’acquisto di droga, perché avrebbe chiesto l’aiuto dei carabinieri per recuperare lo zaino e come mai l’azione si sarebbe svolta senza coordinamento con la centrale e in modo così irrituale? Su questi punti hanno dibattuto le difese, sostenendo che i ragazzi aspettavano l’arrivo di Brugiatelli e invece sono stati colti di sorpresa da due uomini che non riconoscevano come carabinieri e si sarebbero difesi. Inoltre, la difesa di Natale ha sostenuto che la sua posizione sia diversa: lui si è limitato a divincolarsi e fuggire dopo la breve colluttazione con Varriale e non è stato provato che sapesse dell’arma di Elder. Per Elder, che ha materialmente colpito Cerciello Rega, la difesa ha invece chiesto prima di tutto l’inimputabilità per vizio di mente, viste le certificate condizioni psicologiche del ragazzo, e in subordine la legittima difesa putativa. L’accusa, invece, si è concentrata sulla dinamica dell’omicidio: la premeditazione si giustificherebbe con la pianificazione di un vero e proprio agguato da parte dei due americani, oltre che dal possesso dell’arma da parte di Elder. Sempre secondo l’accusa, dell’arma era al corrente anche Natale che avrebbe dato un contributo “consapevole e pianificato” e dunque avrebbe concorso non solo nell’omicidio, ma anche nell’occultamento dell’arma. Whistleblowing, cosa cambia con l’implementazione della direttiva UE 2019/1937 di Roberto Tirone Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2021 PA, imprese e associazioni dovranno implementare canali dedicati, oltre a procedure e modalità di scambio di informazioni. Il 23 ottobre 2019 l’UE ha emanato la Direttiva 2019/1937 (di seguito la “Direttiva”) sulla protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione. Entro il 17 dicembre 2021 l’Italia dovrà implementare la Direttiva rendendola, così, applicabile alle società con almeno 250 lavoratori (mentre per le imprese con più di 50 dipendenti e meno di 250 le norme potranno entrare in vigore entro il 17 dicembre 2023). L’Italia, con la Legge 179/2017 (di seguito la “Legge”), aveva già regolamentato le segnalazioni, disponendo un differente regime per gli enti pubblici e gli enti privati. Esaminando la Direttiva e comparandola con la Legge con riferimento al solo settore privato, si notano numerosi e rilevanti differenze, che andremo ora ad esaminare brevemente.Innanzitutto, ciò che emerge chiaramente dalla lettura delle due normative è che l’ambito di applicazione della disciplina sulle segnalazioni e piuttosto differente. La Legge prevede l’applicazione della disciplina sulle segnalazioni solamente per violazioni del Modello o del DLGS 231/2001, mentre la Direttiva si applica solo a segnalazioni relative a violazioni del diritto dell’Unione. Inoltre, la Direttiva si applica indistintamente al settore pubblico ed al settore privato, mentre la Legge distingue i due settori, regolandoli in maniera differente. Ancora, tra le differenze di maggiore rilievo troviamo che mentre la Legge non specifica chi può segnalare (ma sembrerebbe essere rivolta ai soli dipendenti dell’ente coinvolto nella violazione), la Direttiva considera segnalatori coloro che hanno acquisito informazioni sulle violazioni in un contesto lavorativo, gli azionisti e i membri dell’organo di amministrazione, direzione o vigilanza di un ‘impresa, compresi i membri senza incarichi esecutivi, i volontari e i tirocinanti retribuiti e non retribuiti, nonché qualsiasi persona che lavora sotto la supervisione e la direzione di appaltatori, subappaltatori e fornitori, facilitatori, terzi connessi con le persone segnalanti e c he potrebbero rischiare ritorsioni in un contesto lavorativo, quali colleghi o parenti delle persone segnalanti. È differente anche la risposta che le due normative forniscono alla domanda “quando si ha la tutela del segnalante?”. In base alla Legge, il segnalante beneficia della relativa tutela quando le segnalazioni di condotte illecite sono (i criteri sono cumulativi) circostanziate, rilevanti ai sensi del DLGS 231/2001 od in base al Modello Organizzativo, fondate su elementi di fatto precisi e concordanti e quando il segnalante ha appreso la condotta illecita in ragione delle funzioni dallo stesso svolte. Come si vede, il segnalante, in base alla Legge, deve - prima di effettuare la segnalazione - verificare attentamente se la segnalazione che intende effettuare ha tutte le caratteristiche per permettergli di ottenere la relativa tutela. La Direttiva, invece, ha una struttura profondamente diversa e concede tutele al segnalante se questi: (a) aveva avuto fondati motivi di ritenere che le informazioni segnalate fossero vere al momento della segnalazione e che tali informazioni rientrassero nell’ambito di applicazione della direttiva; (b) ha effettuato una segnalazione attraverso i canali indicati dalla direttiva stessa (di cui si tratterà successivamente). Anche i canali di whistleblowing sono individuati in maniera differente dalla Legge e dalla Direttiva: la Legge prevede uno o più canali, purché almeno uno di essi sia informatico, mentre la Direttiva individua 3 canali di segnalazione: interno, esterno e pubblico. Quando il soggetto ricevente la segnalazione acquisisce la segnalazione, in base alla Legge deve svolgere l’attività ritenuta necessaria, senza particolari regole. In base alla Direttiva, invece, il ricevente deve inviare entro 7 giorni al segnalante una comunicazione di ricevimento della segnalazione ed entro 3 mesi dal riscontro della segnalazione deve comunicare al segnalante un “esito” della segnalazione. L’obbligo di riservatezza in capo al ricevente è, poi, disciplinato diversamente nelle due normative, seppur si possa affermare che vi siano forti punti di contatto: la Legge afferma sinteticamente che deve essere garantita la riservatezza sull’identità del segnalante mentre la Direttiva è più chiara sostenendo che non solo deve essere garantita la riservatezza sull’identità del segnalante ma anche su quelle informazioni che possano farne scoprire l’identità, fatto salvo il diritto di difesa del segnalato (purché il segnalante sia avvertito anticipatamente della comunicazione dell’identità ed i motivi di tale scelta). Ci si domanda, a questo punto: una volta che il segnalante ha effettuato la segnalazione, quali strumenti di protezione ha? In base alla Legge, non possono essere adottate misure discriminatorie nei confronti dei soggetti che effettuano le segnalazioni, né tantomeno può essere posto in essere un licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto segnalante o disposto nei suoi confronti un mutamento di mansioni ai sensi dell’articolo 2103 del codice civile, nonché qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria Anzi, è onere del datore di lavoro, in caso di controversie legate all’irrogazione di sanzioni disciplinari, o a demansionamenti, licenziamenti, trasferimenti, o sottoposizione del segnalante ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, successivi alla presentazione della segnalazione, dimostrare che tali misure sono fondate su ragioni estranee alla segnalazione stessa. Anche la Direttiva fornisce al segnalante una serie di protezioni: sono, infatti, vietati nei confronti del segnalante: a) il licenziamento, la sospensione o misure equivalenti; b) la retrocessione di grado o la mancata promozione; c) il mutamento di funzioni, il cambiamento del luogo di lavoro, la riduzione dello stipendio, la modifica dell’orario di lavoro; d) la sospensione della formazione; e) note di merito o referenze negative; f) l’imposizione o amministrazione di misure disciplinari, la nota di biasimo o altra sanzione, anche pecuniaria; g) la coercizione, l’intimidazione, le molestie o l’ostracismo; h) la discriminazione, il trattamento svantaggioso o iniquo; i) la mancata conversione di un contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro permanente, laddove il lavoratore avesse legittime aspettative di vedersi offrire un impiego permanente; j) il mancato rinnovo o la risoluzione anticipata di un contratto di lavoro a termine; k) danni, anche alla reputazione della persona, in particolare sui social media, o la perdita finanziaria, comprese la perdita di opportunità economiche e la perdita di reddito; l) l’inserimento nelle liste nere sulla base di un accordo settoriale o industriale formale o informale, che possono comportare l’impossibilità per la persona di trovare un’occupazione nel settore o nell’industria in futuro; m) la conclusione anticipata o l’annullamento del contratto per beni o servizi; n) l’annullamento di una licenza o di un permesso; o) la sottoposizione ad accertamenti psichiatrici o medici. La Direttiva, poi, aggiunge alle misure di protezione nei confronti del segnalante, anche delle misure di sostegno. Al segnalante devono essere, così, fornite: a) informazioni e consulenze esaustive e indipendenti titolo gratuito sulle procedure e i mezzi di ricorso disponibili in materia di protezione dalle ritorsioni e sui diritti della persona coinvolta; b) un ‘assistenza efficace da parte delle autorità competenti per la protezione dalle ritorsioni, c) patrocinio a spese dello Stato nell’ambito di un procedimento penale e di un procedimento civile transfrontaliero; d) assistenza finanziaria e sostegno, anche psicologico, nell’ambito dei procedimenti giudiziari. La Direttiva, dunque, appare essere più organica, più precisa e garantista nei confronti dei segnalatori e soprattutto ha una specificità, anche tecnica, ben maggiore della Legge. L’entrata in vigore della Direttiva, dunque, comporterà la necessità da parte della pubblica amministrazione, delle imprese ed anche da parte delle associazioni che gravitano attorno al mondo del lavoro e dell’impresa di adeguarsi, implementando canali di whistleblowing, procedure, modalità di scambio di informazioni e così via. Insomma, l’aspettativa è che con l’implementazione della Direttiva si raggiunga un sistema di whistleblowing integrato, con una efficacia concreta ben maggiore di quella attuale. Modena. Carcere di Sant’Anna non ancora del tutto agibile, interventi di ripristino in corso modenatoday.it, 5 maggio 2021 “Dopo la rivolta del 2020, lavori in corso per ripristino completo e per migliorare i livelli di sicurezza”. Il sindaco ha risposto a un’interrogazione di Stella (Sinistra per Modena). Dopo i danneggiamenti di marzo 2020 nel carcere di Sant’Anna, “non ancora del tutto agibile, sono in corso importanti interventi edili e si è concluso il ripristino dei principali impianti elettrici e idraulici, collaudati di recente”, con l’obiettivo di riportare la struttura al 100%; sono in corso, inoltre, importanti lavori per migliorare i livelli di sicurezza della struttura stessa. Lo ha spiegato il sindaco Gian Carlo Muzzarelli rispondendo, grazie alle informazioni fornite dalla direzione della Casa circondariale che dipende direttamente dal Ministero della Giustizia, a un’interrogazione di Vincenzo Walter Stella (Sinistra per Modena) nella seduta di giovedì 29 aprile del Consiglio comunale di Modena. L’istanza, in particolare, chiedeva un aggiornamento sulle condizioni, in termini di agibilità, dell’istituto penitenziario a un anno dalla rivolta dei reclusi. Inoltre, il consigliere domandava informazioni sugli sviluppi giudiziari della vicenda, sul numero di detenuti presenti nella casa circondariale e sulle visite dei familiari, anche in relazione alle restrizioni connesse all’emergenza Covid; sull’organico e sulle figure a supporto dei detenuti presente nella struttura; sui percorsi sviluppati nel carcere, a partire da quelli di inserimento sociale e lavorativo a favore dei detenuti, e sulle attività di volontariato, sportive e formative. Precisando innanzitutto che l’indagine giudiziaria sulla rivolta “è ancora in corso” e non potendo perciò fornire informazioni in merito nell’attesa dell’esito dell’iter della magistratura, il sindaco Muzzarelli ha spiegato che, in occasione della rivolta, l’istituto è stato “seriamente danneggiato” e che prima di renderlo completamente operativo “devono essere risolte importanti carenze strutturali e criticità che incidono sia sulla sicurezza sia sui servizi e sul trattamento dei detenuti”. Oltre agli interventi principali, infatti, sono stati eseguiti lavori per l’innalzamento dei livelli di sicurezza (sistema di videosorveglianza nei complessi detentivi, ripristino dell’impianto d’illuminazione interno ed esterno al muro, installazione di grate metalliche nei posti di servizio); il prossimo passo sarà l’installazione dell’impianto antiscavalcamento e antitrusione (lavori già assegnati) e l’automazione di porte e cancelli in alcune aree. Inoltre, per quanto riguarda i servizi per i reclusi, dovrà essere completato “il rifacimento della copertura dei tetti di alcune parti della struttura, per rendere agibili cucina principale, cappella, sala teatro, palestra e magazzino”. Alla data del 26 aprile nel carcere erano presenti 303 detenuti, di cui 24 donne, e, come comunicato dalla direzione della struttura, con cui la collaborazione istituzionale “è continua e positiva”, ha sottolineato il sindaco, nell’istituto “le condizioni sanitarie sono soddisfacenti e incentrate a contrastare la diffusione del Covid”, aggiungendo che “le visite dei familiari sono consentite con le modalità e le misure precauzionali anti-contagio”. Sempre in ambito sanitario, l’Ausl “svolge nel carcere un servizio di promozione e tutela della salute h24”. Nel dettaglio, a Sant’Anna sono operativi otto medici dell’assistenza primaria, 13 infermieri, tre psicologi, due psichiatri, due tossicologi e quattro tecnici di riabilitazione psichiatrica, oltre agli specialisti che intervengono a cadenza regolare e all’attività dei servizi Sert e di Salute mentale. Per quanto riguarda l’organico impiegato nell’istituto, si registra, “in linea con la situazione nazionale”, una mancanza di personale rispetto alle piante organiche. In particolare, infatti, gli agenti di polizia penitenziaria presenti sono 227 (anziché 257) e il personale del Comparto funzioni centrali conta 11 operatori anziché 22; gli educatori presenti sono quattro (su cinque), con due psicologi preposti all’osservazione e trattamento. Parlando dei detenuti, il Covid ha rallentato i percorsi di inserimento sociale e lavorativo all’esterno, “come i lavori di pubblica utilità svolti alla biblioteca Delfini e per il Comune di Sassuolo”, mentre 12 soggetti semiliberi lavorano in aziende sul territorio, grazie a licenze straordinarie, e per l’Amministrazione penitenziaria. All’interno della struttura, invece, non si sono verificati stop alle attività destinate ai reclusi, come quelle scolastiche proseguite regolarmente, sia in presenza sia a distanza. Attualmente l’organizzazione didattica prevede quattro corsi di alfabetizzazione ed ex scuola media per le sezioni maschili e un corso per la sezione femminile; sei corsi di istituto professionale e tre periodi didattici per ciascuna categoria di detenuti. Sulla formazione, inoltre, nei mesi scorsi sono stati avviati diversi colloqui di orientamento al lavoro e a breve partiranno due corsi, teorici con tirocinio, sull’agricoltura biologica e l’apicoltura e sulla sartoria. Nella sezione femminile, infine, di recente è stato presentato il progetto “T-essere: da donna a donna”, finanziato dalla Chiesa Valdese e proposto dal Centro documentazione donna, in collaborazione con associazione Casa delle donne contro la violenza, Gruppo Carcere città e associazione Donne nel mondo, per promuovere azioni di relazioni e conoscenza che favoriscano l’inclusione e il reinserimento delle detenute. Il dibattito in Consiglio Comunale - Dopo la trasformazione in interpellanza dell’interrogazione del consigliere Stella (Sinistra per Modena), Barbara Moretti, per Lega Modena, ha richiamato la visita al carcere del proprio gruppo “per constatare le condizioni del ripristino”, mettendo in evidenza “l’angoscia ancora presente negli agenti e negli operatori che furono presi in ostaggio: ci vuole una vocazione particolare per approcciarsi alle persone in condizioni di restrizioni di libertà. Per loro la riabilitazione è fondamentale, ma gli operatori devono essere messi in condizione di lavorare. È giusto - ha concluso - considerare il carcere come parte integrante della nostra città e non come un corpo estraneo”. Giovanni Bertoldi ha auspicato che “tutte le condizioni di sicurezza, anche dell’edificio, siano ripristinate rapidamente per migliorare la qualità della vita sia dei detenuti sia delle persone che in carcere lavorano, anche per poter riportare vicino alle loro famiglie i detenuti che sono stati trasferiti”. Vittorio Reggiani (Pd) ha affermato che il carcere, la sua struttura e la sua organizzazione “sono competenza dello Stato”. Ma il carcere “ci interroga, come amministrazione, per il reinserimento che la città deve offrire: una volta usciti, i detenuti sono cittadini come tutti gli altri e noi dobbiamo chiederci se i servizi sociali, formativi, abitativi che offriamo loro sono gli stessi che offriamo agli altri cittadini”. Camilla Scarpa (Sinistra per Modena) ha sostenuto la necessità “di una riflessione politica che è stata assente nell’anno trascorso dai fatti: la politica, infatti, tende troppo spesso non occuparsi delle carceri e delle condizioni in cui vi si vive. Non si può - ha proseguito - ignorare le responsabilità politiche rispetto al fatto che le carceri sono sovraffollate e che non sia assegnato il personale necessario dell’area educativa”. La consigliera ha concluso che il tema centrale è domandarsi “se il carcere debba avere una funzione solo punitiva o se si recupera la funzione rieducativa prescritta dalla Costituzione”. Giovanni Silingardi (M5s) ha concordato sul fatto che “la politica ha mancato molti degli obiettivi imposti dalla Costituzione: il carcere è impostato sul modello della sorveglianza permanente che però non funziona, come dimostrano anche i tassi di recidività altissimi. Uno Stato che vuole risolvere il problema deve decidere di metterci delle risorse. Poi, il Comune può ragionare su cosa possono fare le istituzioni locali per favorire il reinserimento”. Enrica Manenti (M5s), ricordando di aver visitato il carcere dopo la rivolta, ha sottolineato la “devastazione” ma anche “gli sforzi degli operatori e dei volontari per mettere i detenuti nelle condizioni di fare qualcosa per il reinserimento, anche se i detenuti che poi riescono a trovare un lavoro sono pochi”, affermando di “avere particolarmente a cuore la situazione nonostante il ruolo dell’amministrazione sia limitato”. In replica, il consigliere Stella ha sottolineato che l’obiettivo dell’interrogazione era “tenere aperto il dibattito su un luogo importante della città e accendere i riflettori sul rapporto tra il carcere e la città: il Sant’Anna non deve diventare un corpo estraneo rispetto a Modena”. Il consigliere ha concluso affermano che la funzione dell’istituto penitenziario “non deve essere solo punitiva ma deve avere obiettivi di integrazione, inclusione, educazione, formazione e inserimento lavorativo in modo che i detenuti, una volta rientrati nella società, possano migliorare le proprie condizioni”. Genova. Muro della Giunta Bucci sull’Odg per i malati psichici in carcere: insorge il Pd lavocedigenova.it, 5 maggio 2021 Il Partito Democratico: “Per l’amministrazione civica l’ordine del giorno è inammissibile, in Regione è stato approvato la scorsa settimana con voto unanime”. “Inammissibile. Così l’amministrazione ha giudicato l’ordine del giorno fuori sacco presentato dal Gruppo PD dedicato al tema dei malati psichici in carcere. Nel documento si chiedeva al sindaco e alla giunta di farsi parte attiva presso il Ministro della Salute affinché il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Grazia e Giustizia) mettesse a disposizione i dati necessari nei portali istituzionali per completare la fotografia reale della situazione della patologia psichica in carcere, e affinché venissero adottate con la massima urgenza misure per il trasferimento dei malati psichici in strutture e servizi territoriali/residenziali curativi alternativi al regime detentivo”, si apre così il comunicato stampa del Gruppo in Comune del Partito Democratico. “Questo rifiuto è un’occasione persa su un tema la cui importanza dovrebbe essere ben chiara alla giunta e all’assessore comunale alla Sanità: un problema profondo che necessita di interventi urgenti nel segno della legalità costituzionale e del rispetto dei diritti umani. Questo giudizio di inammissibilità risulta ancor più inspiegabile considerato che lo stesso documento, la scorsa settimana, è stato approvato all’unanimità in Regione - si legge ancora nel documento -. L’iniziativa del PD risponde all’appello lanciato pochi giorni fa dal Partito Radicale NonViolento Transnazionale Transpartito. L’appello, sottoscritto da molte personalità del mondo della politica di diversi schieramenti, dello spettacolo, della scienza, del giornalismo e della cultura oltre che da centinaia di cittadini, dice che “nei 109 istituti di pena italiani il 78% dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui per il 41% da una patologia psichiatrica e i dati ci dicono che i detenuti con dipendenze da sostanze psicoattive rappresentano il 23,6%, con disturbi nevrotici il 18%, il 6% con disturbi legati all’abuso di alcol e il 2,7% con disturbi affettivi. Inoltre, dall’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone del 2020 risulta che, nei 98 istituti visitati, il 27% dei detenuti è in terapia psichiatrica (Spoleto il 97%, a Lucca il 90%, a Vercelli l’86%) e il 14% è in trattamento per dipendenze. Ed ancora “nel 2020 si sono registrati 61 suicidi in carcere mentre nel 2019 ne sono avvenuti 53 e che la modalità principale del suicidio è l’impiccamento e l’Italia è al di sopra della media UE per numero di suicidi in rapporto alla popolazione carceraria: il tasso italiano di suicidi per 10 mila detenuti è di 10,1 nel 2018, il tasso medio UE è di 7,2 mentre sono oltre 10 mila i casi di autolesionismo che si registrano ogni anno”. “Di fronte a questa situazione - conclude il Partito Democratico -, ancora una volta la destra dimostra tutta la sua incoerenza e l’incapacità di assumere posizioni chiare e univoche su temi fondamentali dal punto di vista sociale e sanitario, arrivando all’assurdità di respingere in Comune proposte che invece in Regione vengono accolte con il voto favorevole dell’intero consiglio”. Benevento. Niente DaD, i detenuti dell’Ipm di Airola perdono l’anno scolastico ilcaudino.it, 5 maggio 2021 Il Garante regionale Ciambriello denuncia: “Nel carcere minorile negato diritto allo studio”. “Sono grato all’amministratore dell’ASL di Benevento per il fatto che per i detenuti del carcere di Benevento abbia utilizzato la monodose. Accompagnato dal direttore Gianfranco Marcello, ho assistito personalmente alle prime vaccinazioni e ho potuto anche apprezzare la maturità e la responsabilità dei detenuti per come stanno vivendo questo periodo di emergenza causato dal Covid. Ho incontrato anche un detenuto in infermeria che aveva iniziato, sebbene malato, uno sciopero della fame di protesta, a suo dire, per la poca attenzione dei sanitari nei suoi confronti, che, dopo il colloquio con me, ha deciso di interrompere. Così Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti all’uscita del carcere di Benevento dove sono iniziate oggi, e che continueranno nei prossimi giorni, le vaccinazioni a dose unica Johnson & Johnson per detenuti che volontariamente ne hanno fatto richiesta. Oggi il carcere di Benevento conta 358 detenuti, di cui 52 donne. Il garante si e’ poi recato nell’Istituto penale per minorenni di Airola per incontrare i ragazzi appena vaccinati, accompagnato dalla direttrice Marianna Adanti. Dopo la visita Ciambriello ha detto: “Ho trovato i ragazzi sereni e consapevoli del diritto - dovere della vaccinazione, che li rende anche piu’ liberi all’interno dell’Istituto, nei colloqui con i familiari, per ottenere i permessi dalla magistratura competente e anche per poter iniziare un percorso di reinserimento sociale attraverso il lavoro all’esterno del carcere. Peccato per un grande neo, una grande ingiustizia: Il diritto allo studio per questi adolescenti a meta’ e’ negato. I ragazzi mi hanno riferito che solo da 2 giorni hanno ripreso l’attivita’ scolastica in presenza, e che gli insegnanti gli hanno annunciato che a causa del Covid, avrebbero perso l’anno scolastico. Eppure per questi ragazzi, che sono alunni BES (bisogni educativi speciali), bastava trovare la stessa soluzione e la stessa sensibilita’ adottate per i reclusi del carcere minorile di Nisida, dove da gennaio fino ad adesso, compreso il periodo di zona rossa, gli insegnanti si sono recati nel carcere. Ma io mi chiedo perche’ non e’ stata effettuata la didattica a distanza per queste persone che hanno vissuto quindi una doppia reclusione? Piu’ che indignato, mi sento mortificato e corresponsabile di questa ingiustizia. Eppure proprio con queste giovani generazione le istituzioni ai vari livelli (in primis la scuola) dovrebbero fare un patto educativo per poterli cosi’ allontanare concretamente dalla malavita e dal malaffare.” Ad oggi nell’Istituto penale per minorenni di Airola ci sono 25 detenuti. Massa Marittima (Gr). Con “Pulmino contadino” quindici detenuti ottengono l’Haccp La Nazione, 5 maggio 2021 L’attestato Haccp che permette di lavorare con gli alimenti si può conseguire anche in carcere. È quanto accaduto nella casa circondariale di Massa Marittima dove si è da poco concluso un progetto finanziato con il Bando sociale 2019 della Regione Toscana e messo in atto dall’associazione Pulmino contadino, grazie alla quale 15 detenuti hanno conseguito l’Haccp. L’importanza dell’ottenimento dell’attestato è funzionale alle esigenze dei detenuti, sia in vista di un loro reinserimento sociale, sia perché permette loro di lavorare da subito all’interno della struttura penitenziaria che dispone di propri locali per la preparazione dei pasti. L’associazione Pulmino contadino, sorta dalle ceneri dei Gruppi di Acquisto Solidale presenti in Maremma, collabora attivamente da quattro anni col carcere di Massa Marittima. Risale infatti al 2017 l’affidamento di un detenuto volontario che contribuì alle attività associative provvedendo alla distribuzione nel territorio tra Grosseto e Piombino di prodotti con valore etico ed ambientale oltre che nutrizionale. Tale collaborazione si è poi arricchita con il progetto appena concluso, della durata complessiva di due anni, il cui bilancio ha risentito pesantemente, a partire dal febbraio 2020, della situazione pandemica. Firenze. A Casa Caciolle i detenuti preparano la cena per i senzatetto Corriere Fiorentino, 5 maggio 2021 A Firenze, grazie all’istituto Madonnina del Grappa, alcuni reclusi alla sera cucinano oltre trenta pasti per i clochard della zona. “La nostra terapia di redenzione”. I detenuti preparano la cena per i senzatetto e così si sentono utili alla società. “Non siamo scarti, ma esseri umani in cerca di redenzione”. Succede a Firenze, grazie alle attività sociali dell’istituto Madonnina del Grappa, la storica struttura religiosa, con sede nel capoluogo toscano, che si occupa di servizi di accoglienza. Quattro detenuti che scontano una pena alternativa a Casa Caciolle, una villa del Settecento dove si trovano i reclusi in uscita da Sollicciano, cucinano ogni sera in grandi quantità generi di prima necessità. Oltre trenta pasti al giorno nella cucina della struttura, con tanto di padelle e pentoloni, dove i reclusi si impegnano per aiutare chi si trova emarginato. “Ogni volta che cuciniamo per i senzatetto della città - racconta uno di loro - è come se fosse una terapia di redenzione che in qualche modo ci ricorda il nostro passato marginale e randagio, dove anche noi avremmo avuto bisogno di un pasto caldo”. Ogni sera intorno alle 20, il cibo preparato dai detenuti viene prelevato dalla Protezione Civile, dalla Misericordia e dalla Croce Rossa, che poi portano immediatamente il cibo ai senza dimora che vivono all’addiaccio sul territorio fiorentino. “Pensare che attraverso il nostro lavoro di volontariato possiamo aiutare i più bisognosi per noi è come una rinascita”, dicono all’unisono i reclusi che vivono a Casa Caciolle. Che poi aggiungono: “In questo periodo di pandemia e sofferenza collettiva, essere partecipi di questo movimento di solidarietà è altrettanto importante per noi”. Promotore del progetto, come detto, è la Madonnina del Grappa. Spiega il presidente don Vincenzo Russo: “I detenuti che escono dal carcere spesso si trovano in condizioni peggiori di quando sono entranti perché durante la permanenza in cella non sono stati realizzati progetti di recupero socioprofessionale. Noi, a Casa Caciolle, ospitiamo i detenuti a fine pena che scontano pene alternative e li seguiamo in un percorso di reinserimento nella società anche attraverso opere di volontariato”. Napoli. Una maglia autografata da Papa Francesco per i detenuti dell’Ipm di Nisida di Marco Melli agenziadire.com, 5 maggio 2021 Con il progetto “Zona Luce” giovani detenuti e agenti di polizia penitenziaria saranno coinvolti in un corso di formazione per allenatori di calcio. Una nuova luce per i ragazzi di Nisida, una luce che possa illuminare il loro futuro una volta usciti dal carcere. È questo, si legge nel comunicato della Federcalcio, lo scopo del progetto ‘Zona Luce’, sviluppato dal Settore giovanile e Scolastico Figc in collaborazione con la Fondazione Scholas Occurrentes, che ha coinvolto giovani detenuti e agenti di polizia penitenziaria in un corso di formazione per allenatori di calcio. La cerimonia conclusiva si e’ svolta nella struttura carceraria napoletana alla presenza dei tecnici e dirigenti Figc, che hanno consegnato gli attestati di partecipazione in un clima di entusiasmo ed emozione. Nel corso dell’evento è stato inoltre inaugurato un campo di calcio in erba sintetica dal prefetto di Napoli, Marco Valentini. Fan d’eccezione Papa Francesco, che attraverso il coordinatore sportivo della Fondazione Scholas Occurrentes, Mario Del Verme, ha voluto donare una maglia autografata da consegnare allo staff della struttura penitenziaria. “Quando gli abbiamo parlato del progetto- ha ricordato Del Verme - il Pontefice si è mostrato subito entusiasta, dal momento che anche lui, in Argentina, aveva portato avanti diverse iniziative per aiutare i giovani in difficolta’ attraverso lo sport. La vera novità di questo progetto- ha concluso il Coordinatore di Scholas- è la capacità di unire la parte interna della struttura carceraria, composta dai giovani detenuti e dagli agenti penitenziari, con la realtà esterna presente sul territorio, dove i ragazzi potranno poi rimettersi in gioco”. Dopo il taglio del nastro, il campo è stato inaugurato dai partecipanti al corso, che hanno colto l’occasione per fare qualche passaggio col pallone assieme ai tecnici federali, divenuti in questi mesi loro maestri e punti di riferimento. “Una giornata memorabile qui al carcere di Nisida- ha dichiarato il presidente Sgs Vito Tisci- perché grazie al progetto ‘Zona Luce’ abbiamo trasferito nozioni di carattere sportivo a ragazzi meno fortunati, che una volta scontata la pena potranno inserirsi nel mondo del calcio. Lo sport si conferma in questo modo grande strumento di inclusione e aggregazione, portatore di valori sani”. ‘Zona Luce’ è un progetto di cui “siamo molto orgogliosi- ha sottolineato il coordinatore regionale Sgs Campania, Giuseppe Madonna- perché attraverso il calcio, che è uno strumento di aggregazione universale e un linguaggio comune a tutti, siamo riusciti a mettere insieme ragazzi, agenti e istruttori di scuole calcio del territorio. È un’iniziativa che sicuramente verrà rinnovata nei prossimi anni e che siamo onorati di aver ospitato per la prima volta in Campania”. La regione Campania ha fatto da apripista per il progetto che coinvolgerà anche altre città, tra cui Roma, Torino e Milano. “La Campania - puntualizza il presidente del Comitato Regionale Lnd, Carmine Zigarelli - dimostra sempre di essere all’avanguardia, in particolare attraverso il calcio che ha un forte valore sociale, soprattutto per quanto riguarda i settori giovanili. Ripartiamo da Nisida, siamo in attesa del nuovo protocollo della Figc. Speriamo che l’inaugurazione di questo campo e la consegna degli attestati sia di buon auspicio per la ripresa del calcio giovanile”. Particolarmente soddisfatto dell’iniziativa il direttore del carcere di Nisida, Gianluca Guida: “È stato bello vedere la sinergia tra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria”. Con l’attestato che hanno ricevuto, i ragazzi di Nisida potranno, una volta scontata la pena, andare a lavorare nelle scuole di calcio con il ruolo di aiuto allenatore. Per questo siamo davvero orgogliosi del lavoro svolto grazie al programma di inserimento sociale del progetto ‘Zona Luce’“. Livatino, la vita per la giustizia. Un messaggio di Papa Francesco ai ragazzi Avvenire, 5 maggio 2021 Protagonisti del racconto sono due ragazzi di un piccolo paese della Sicilia, i quali rimangono profondamente affascinati dal carattere anti-eroico del giudice, che sarà beatificato il 9 maggio. Ancora una volta papa Francesco, che ha fatto delle scogliere di Lampedusa un avamposto della denuncia della globalizzazione dell’indifferenza, si fa presente in una delle periferie più marginali del Sud Italia chiamando in causa i più giovani perché nel nome di Rosario Livatino, primo magistrato ad essere proclamato beato, rifiutino la sopraffazione mafiosa e prendano in mano la loro vita dando il meglio di loro stessi per il cambiamento della loro terra. Il messaggio, che porta la data del 30 marzo scorso, apre il volume per ragazzi “Rosario Livatino, la lezione del giudice ragazzino” (collana “I giganti”, Di Girolamo editore) da oggi in libreria: una storia frutto dell’immaginazione dei due autori: Lilli Genco, giornalista e collaboratrice di Avvenire, e Alessandro Damiano, arcivescovo coadiutore di Agrigento. Protagonisti del racconto sono due ragazzi di un piccolo paese della Sicilia, i quali rimangono profondamente affascinati dal carattere anti-eroico del giudice che imparano a poco a poco a conoscere. L’esempio del magistrato - che verrà proclamato beato questa domenica ad Agrigento - offre loro gli strumenti per leggere l’ambivalente realtà che li circonda, li aiuta a scegliere di stare dalla parte dei giusti, generando quella speranza che è la linfa di ogni processo educativo. La speranza, che non risparmia dal male, ma dà la forza per affrontare gli ostacoli, anche quelli che appaiono insormontabili è, infatti, il filo conduttore del racconto e delle pagine di approfondimento dell’appendice in cui alla biografia del giudice agrigentino, a una raccolta delle sue frasi più importanti e a un “glossario della legalità”, fanno da cornice le testimonianze di altri protagonisti della vicenda. La prima è quella di Pietro Nava, il testimone oculare dell’omicidio del giudice, un agente di commercio che per lavoro transitava sulla statale Canicattì-Agrigento proprio mentre i killer inseguivano Livatino per finirlo in fondo ad una scarpata in contrada Gasena il 21 settembre 1990 e che per via della testimonianza ha dovuto cambiare generalità, paese e distruggere persino i ricordi di famiglia. Toccante anche quella di Gaetano Puzzangaro uno dei quattro killer del giudice, condannato all’ergastolo nel 1995, che da anni ha iniziato un percorso di revisione di vita. “Il giudice Livatino lavorava per tutti quei giovani che si erano persi nell’abbraccio mortale della criminalità. Lavorava, quindi, anche per me, per vedermi libero e vivo. Io non l’avevo capito”, ha scritto in un messaggio ai suoi concittadini in cui rivolgendosi ai giovani li ha invitati a dire “no” ad ogni forma di coinvolgimento mafioso. “È questa la storia recente del nostro Paese: segnata dalla corruzione della mafia, oggi non più fenomeno relegato al Sud, ma anche dalla luminosa testimonianza di uomini e donne coraggiosi, attori di una resistenza non violenta, semi e attivatori di un’altra cultura”, scrivono gli autori. “La giustizia che il giudice Livatino ha testimoniato non è solo quella umana che richiedono le leggi, ma quella di Dio che vuole rendere ogni uomo libero dalla schiavitù del male perché abbia la dignità che gli spetta - evidenzia il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento -. Livatino è una figura profetica perché, come dice il papa nel messaggio ai ragazzi, è l’uomo buono della porta accanto, senza nessuna voglia di protagonismo ma che davanti alla minaccia del potere mafioso non si è tirato indietro, mostrando la straordinarietà che si cela in molte esistenze ordinarie, martire di un sud libero ed esemplare, moderno modello di santità”. Protagonisti due studenti? - Due ragazzi di un piccolo paese della Sicilia, grazie ad un progetto scolastico si mettono sui passi di Livatino È lo stile narrativo che caratterizza il libro “Rosario Livatino, la lezione del giudice ragazzino” (Di Girolamo editore; 80 pagine; euro 9,90), biografia per ragazzi con materiali e pagine di riflessione. A firmarlo la giornalista Lilli Genco e l’arcivescovo coadiutore di Agrigento, Alessandro Damiano. Il documentario su Tv2000? - Tv2000 rende un omaggio supplementare alla figura di Rosario Livatino in occasione della beatificazione di domenica prossima. Nello stesso giorno in cui il giudice martire salirà all’onore degli altari, alle ore 21.20 verrà trasmesso il documentario “Picciotti, che cosa vi ho fatto?”, realizzato in collaborazione con il Centro per la cultura e la comunicazione dell’arcidiocesi di Agrigento, curato da Fausto Della Ceca, ideato e scritto da Giuseppe Cutrona, con la regia di Simone Di Tella e la produzione di Sara Brogi. Nel filmato la vita di Livatino e la sua straordinaria normalità vengono ripercorse attraverso la testimonianza di amici, compagni di scuola e colleghi magistrati. Tre vittime al giorno, il Covid non ha frenato la strage dei lavoratori di Marco Patucchi La Repubblica, 5 maggio 2021 Nel 2020 ci sono stati 1.270 decessi, quest’anno con l’economia ferma solo un lieve rallentamento. Ieri un uomo schiacciato dalla sua autocisterna. Natalino Albano si preparava a celebrare la sua prima Festa del Lavoro con un contratto stabile, conquistato da pochi mesi. Ma al Primo Maggio non c’è neanche arrivato: due giorni prima, nel porto di Taranto, è precipitato da venti metri di altezza mentre partecipava al carico di una pala eolica su un cargo. Più o meno nelle stesse ore, nel deposito Amazon di Alessandria, una trave ha travolto e ucciso un operaio. Dal Piemonte a Montebelluna, sempre giovedì scorso: un ventitreenne è morto sul colpo, investito da un’impalcatura. Tre vittime in un giorno, in perfetta media con la Spoon River italiana delle morti sul lavoro. Lunedì, poi, la vicenda straziante di Luana D’Orazio, mamma ventiduenne stritolata da un macchinario in una fabbrica di Prato. E ieri, ancora in provincia di Taranto, un trasportatore schiacciato dalla sua autocisterna. “Un crimine di pace”, lo ha definito il giudice Bruno Giordano, oggi magistrato di Cassazione e per vent’anni pretore, a Torino e a Milano, dei processi simbolo su quelle che un tempo venivano chiamate “morti bianche”, come a voler ridimensionare l’incommensurabile dolore di una vita che se ne va. Di una donna o di un uomo che escono di casa la mattina per andare al lavoro (al lavoro, non in guerra) e non fanno ritorno. Così, snocciolare i numeri è quasi una bestemmia, perché la contabilità della morte finisce per nascondere la ferita immensa di chi resta. I numeri, dicevamo: nel 2020 le denunce all’Inail per decessi sul lavoro sono state 1.270, ovvero 181 in più (+16,6%) rispetto al 2019. Oltre tre morti di media al giorno. E se da un lato a pesare su questo balzo sono stati i casi legati al Covid-19, dall’altro proprio la pandemia ha ridotto drasticamente l’attività nelle fabbriche, nei cantieri e la relativa circolazione stradale. Si spiega così l’inedito calo delle denunce di infortunio complessive, scese del 13,6%, così come quello dei decessi avvenuti nei trasferimenti per lavoro (-30,1%, mentre quelli sul posto sono cresciuti del 34,9%). E a ben vedere, la dinamica temporale di tutti i dati sembra ricalcare gli andamenti delle ondate del virus e dei relativi lockdown. Dunque Spoon River ha continuato a scorrere imperterrito. E lo sta facendo anche quest’anno: 185 morti nei primi tre mesi del 2021 (+11,4%). La media è di due decessi al giorno, ma bisognerà vedere cosa succederà quando l’attività produttiva del Paese riprenderà (si spera) a pieno regime. Senza dimenticare che alle statistiche ufficiali sfuggono i caduti del lavoro in nero. Ieri il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha annunciato un “confronto con tutte le associazioni coinvolte e con il sindacato, sull’attuazione del piano nazionale per la sicurezza”. Citando l’onnipresente Recovery Plan, ha aggiunto che l’obiettivo “è di arrivare a giugno con piano per la sicurezza sul lavoro, una normativa sull’amianto avviata e una ricognizione delle modifiche alla normativa su invalidità e prevenzione”. Niente di più e niente di meno di quanto promesso da ciascuno dei ministri del Lavoro succedutisi negli ultimi decenni. Il risultato? Un coacervo di proposte di riforma, tavoli tecnici, progettati accorpamenti tra i ruoli ispettivi di Stato, Regioni, Asl, Inail, Inps e chi più ne ha più ne metta. Il naufragio dell’Ispettorato nazionale, per dire, è l’ultimo capitolo nella retorica indignazione della politica di fronte alle morti sul lavoro. “Dramma inaccettabile”, “non si può morire così”, “basta con questa strage”: dopo la morte di Luana il cliché delle dichiarazioni politiche è andato in onda come sempre. Da domani si penserà ad altro, mentre Spoon River continuerà a scorrere inesorabile. Imputabilità penale e disturbo mentale, avanti con la riforma di Grazia Zuffa Il Manifesto, 5 maggio 2021 Se si pone l’alterazione psichica a movente del reato, si riconduce la violenza nell’ambito unicamente individuale, cancellando la importante componente sistemica. In Francia è sotto accusa la legge che stabilisce la non responsabilità penale per autori di reato che abbiano agito in condizioni di incapacità di intendere e volere (per alterazione psichica dovuta a malattia mentale o a ingestione di sostanze psicoattive). La polemica infuria su un delitto particolarmente efferato: nel 2017, Kobili Trahoré picchiò a morte e scaraventò dalla finestra una inerme direttrice di asilo in pensione, Sarah Halimi, sua vicina di casa ebrea, al grido di Allah u Akbar. Kobili Trahoré, è stato però ritenuto dalla giustizia francese non imputabile perché affetto da “psicosi delirante acuta” dovuta all’assunzione di hashish. Indignata è la denuncia di Bernard Henri Levy (Repubblica, 26 aprile) che scrive: “siamo in un paese in cui un uomo che getta il suo cane dal quarto piano viene condannato a un anno di prigione, ma se massacra una vecchia signora ebrea non può essere processato”. Dunque, è l’orrore di quel “massacro” unito all’altro orrore, del movente di odio antisemita, a scuotere le coscienze. In Italia, un turbamento simile ha suscitato qualche mese fa l’uxoricida di Brescia, assolto in primo grado per incapacità di intendere e volere in quanto affetto da “disturbo delirante di gelosia”. L’incapacità di intendere e volere è un escamotage della giustizia a favore dei colpevoli per chiudere gli occhi di fronte all’antisemitismo o al femminicidio? È una scusante offerta al colpevole che aggrava l’offesa alla vittima? Sono domande in linea con gli umori prevalenti, bisogna vedere se sono quelle giuste. Pur non conoscendo i particolari della sentenza francese, la “psicosi delirante acuta” da hashish invocata dai giudici ricorda tanto la famosa propaganda anti marijuana degli anni trenta di Harry Anslinger, di cui uno dei leit motiv era appunto: dopo uno spinello potresti uccidere tuo fratello. Nel caso italiano, l’idea dei giudici italiani che il “disturbo delirante di gelosia” escluda la definizione di femminicidio non sta in piedi. Il disturbo psichico non altera il fatto che la persona viva in un contesto di codice patriarcale in cui la gelosia legittima la violenza nei confronti della donna per riaffermarne il possesso. In altri termini il “delirio” non altera il significato, individuale e sociale, della gelosia come movente. Lo stesso vale per l’assassino di Sarah Halimi: il “delirio” invocato dai giudici non cancella il movente dell’odio antisemita. Se si pone l’alterazione psichica a movente del reato, si riconduce la violenza nell’ambito unicamente individuale, cancellando la importante componente sistemica, in questo caso dell’antisemitismo. Da qui la ingiustizia percepita, aggravata dal fatto che il colpevole viene esonerato dalla sanzione, il che rischia di essere interpretato come negazione dell’antisemitismo. Anche i colpevoli hanno molto da perdere: privarli della responsabilità delle loro azioni significa negare loro la soggettività, “confinandoli in una condizione di non-persona”, come ha scritto di recente Maria Grazia Giammarinaro. Il 12 maggio sarà presentata alla Camera dei Deputati una proposta di legge, n. 2939, a firma Riccardo Magi, per superare la non imputabilità per vizio di mente e prefigurare misure alternative alla detenzione per curare le persone con disturbi mentali. Nel Manifesto a sostegno della proposta, frutto del lavoro di molte associazioni, se ne ribadisce il senso: “Scegliamo la via del giudizio per le persone affette da gravi disabilità psicosociali, non per arrivare a una pena dura o esemplare, ma per riconoscere la loro dignità di soggetti, restituendo la responsabilità - e con ciò la possibilità di comprensione - delle loro azioni; e risparmiando lo stigma che il verdetto di incapacità di intendere e volere e l’internamento recano con sé”. Brigata Basaglia: è emergenza psicosociale, a Milano e non solo di Simone Scaffidi Il Manifesto, 5 maggio 2021 Salute mentale. In un contesto di restrizioni delle libertà personali, di mobilità e di socialità, la forbice delle disuguaglianze si è allargata ancora di più acuendo quell’“individualizzazione” e “depoliticizzazione” del disagio psicologico che tende a occultarne le cause sociali e le responsabilità collettive, come ha approfondito nelle sue opere il filosofo Mark Fisher. “Il nostro desiderio è quello di rimettere il lavoro psicologico al centro del dibattito politico”, raccontano gli attivisti e le attiviste della Brigata Basaglia, “il nostro lavoro è politico anche e soprattutto perché siamo coscienti che molti dei disagi psicologici sono causati dalla precarietà economica, abitativa, dal razzismo e dalle violenze patriarcali che si riproducono sia a livello della società che delle famiglie”. La Brigata Basaglia ha preso forma all’indomani del primo lockdown, per rispondere alle carenze strutturali relative all’accoglienza e la cura del disagio sociale e psicologico esacerbate dall’emergenza sanitaria del Covid-19. “In Italia l’assistenza psicologica si fonda principalmente su percorsi privati con costi proibitivi per chi non ha un salario stabile” spiega Gianpaolo, attivista e psicologo della Brigata, “ovvero per quelle persone che più di tutte sono esposte ai fattori di stress psicologici”. In un contesto di restrizioni delle libertà personali, di mobilità e di socialità, la forbice delle disuguaglianze si è allargata ancora di più acuendo quell’”individualizzazione” e “depoliticizzazione” del disagio psicologico che tende a occultarne le cause sociali e le responsabilità collettive, come ha approfondito nelle sue opere il filosofo Mark Fisher. La Brigata Basaglia nasce anche per contrastare questa tendenza, che vede la depressione e la sua capillarità come una mera questione personale e clinica. “L’isolamento sociale e la paura del contagio hanno reso più evidenti molte delle fragilità dell’individuo all’interno della società capitalista”, racconta Gaia, attivista della Brigata ed esperta di arte e comunicazione, “prolungandosi nel tempo, questa nuova condizione sociale di precarietà economica e relazionale, ci scuote come individui e fa emergere le dinamiche di allontanamento sociale già in atto prima della pandemia”. La Brigata è conformata da persone con esperienze e professionalità diverse provenienti dal mondo della clinica, da quello dell’arte, dell’intervento sociale e della militanza. “Questa composizione variegata e multiforme è fondamentale, perché per noi “non è solo la clinica che cura”“, continua Gaia, “il benessere si costruisce insieme alle comunità, creando reti di solidarietà, uscendo dall’individualismo e rompendo le logiche escludenti del mercato”. Ad aprile 2020 è stato attivato un centralino di ascolto dove le operatrici e gli operatori orientano le persone secondo le loro esigenze e offrono a chi lo richiede un percorso clinico gratuito di quattro incontri. “Uno dei problemi principali che abbiamo riscontrato è che quattro incontri sono pochi, molte persone vorrebbero continuare e cerchiamo di indirizzarle verso sportelli e servizi con prezzi calmierati e un orientamento attento al sociale. Purtroppo molte delle persone che ci chiamano non possono permettersi nemmeno dei prezzi ammortizzati” spiega Gianpaolo, “a Milano molte persone si stanno trovando senza aiuto da parte delle istituzioni e in condizioni di salute precaria e povertà estrema. La logica del privato e i tagli alle strutture pubbliche non permettono di lavorare sulla prevenzione ma si focalizzano sui casi emergenziali andando ad alimentare il malessere e lo stigma sociale”. La Brigata si impegna anche in percorsi di formazione con altri collettivi e associazioni con il fine di poter offrire un sostegno integrale attraverso l’attivazione di una rete solidale intorno alla persona che lavori per riattivare le sue connessioni sociali e relazionali. Oltre al centralino d’ascolto e all’orientamento il gruppo si occupa anche di sensibilizzare sulla complessità della salute mentale attraverso incontri con realtà che si dedicano alla cura comunitaria, seminari in collaborazione con l’Università Bicocca di Milano e attraverso le reti sociali. La situazione a Milano è molto critica, le attiviste e gli attivisti della Brigata Basaglia segnalano l’estrema gravità di alcuni casi, considerati di alto rischio, che non hanno ricevuto attenzione dai servizi pubblici. “Si tratta di persone che sono state lasciate sole, a cui sono stati negati diritti”, spiega Gaia, “non solo il sistema sanitario ma anche i servizi sociali della città sono saturi e non riescono a gestire l’emergenza sociale. È uno scenario complicato e diffuso a cui bisognerebbe far fronte con una volontà politica”. Riconoscere le cause sociali ed economiche del disagio psicologico, identificare le responsabilità collettive della cura e ribadire anche in ambito psicologico che il “personale è politico” rappresentano per la Brigata le fondamenta da cui partire per offrire un sostegno psicologico degno e integrale. Le politiche pubbliche di assistenza al disagio psicologico sono fragili e tutt’oggi si basano su pratiche coercitive, individualizzate ed escludenti, che tendono a nascondere e non affrontare un malessere che ha assunto proporzioni strutturali. “La salute mentale dovrebbe essere un diritto garantito dalla società e non un privilegio per pochi” concludono le attiviste e gli attivisti, “crediamo sia importante che la salute mentale diventi una questione comunitaria e non venga trattata solo come un disturbo da risolvere nello studio di un professionista”. Effetto Covid su pedofilia e cyberbullismo, raddoppiano i casi. Boom di minori indagati di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 5 maggio 2021 I dati della polizia postale nella Giornata nazionale contro gli abusi sui minorenni. Il direttore Ciardi: “Adolescenti sempre più giovani si macchiano di reati di pedopornografia di solito imputati ad adulti”. Maggiore utilizzo della Rete nel corso della pandemia, anche con le lezioni in video e in dad, nonché per mantenere il contatto con gli amici, e più alto il rischio di finire vittime di pedofili. Secondo il Centro nazionale per il Contrasto alla pedopornografia online sono proprio i reati di sfruttamento sessuale dei minori commessi con social network, circuiti di file sharing e darknet quelli con gli aumenti percentuale più evidenti: +132% di casi trattati e +90% di indagati nel 2020, mentre già quest’anno il trend in non cala: fino ad aprile +70% di casi di pedopornografia e adescamento online rispetto all’anno precedente, con bimbi 0-9 anni agganciati su social, app di gioco e condotti “in relazioni tecnomediate di tipo abusante” da adulti senza scrupoli. In questo caso +372% per una fascia di età che dovrebbe essere invece sempre al sicuro, protetta dalla famiglia e guidata in ogni azione dalla supervisione adulta. In questo senso, nella Giornata nazionale contro la pedofilia, anche il cyberbullismo subisce l’effetto di innesco della pandemia e registra nel primo quadrimestre 2021 un incremento delle denunce del 96% (116 le denunce del 2020 contro 228 quelle del 2021) con una crescita pari al 126% per i bambini di età inferiore ai 13 anni. Negli ultimi 5 anni (2016-2020) il numero complessivo dei minori denunciati per aver commesso reati online è cresciuto ad un ritmo vertiginoso, con un incremento percentuale pari al 213% (dai 75 casi del 2016 ai 235 del 2020). L’età media dei ragazzi accusati di reati gravi come la pedopornografia si è abbassata di un punto, passando dai 16 ai 15 anni nel 2020 ed è in crescita l’interessamento di ragazzi anche non ancora imputabili. Nel 91% dei casi sono maschi che contribuiscono a far circolare materiale pedopornografico e che entrano nel circuito penale minorile con un’etichetta grave. Secondo il direttore del Servizio di polizia postale e delle comunicazioni Nunzia Ciardi “La pandemia ha investito le vite di tutti noi, ci ha cambiato profondamente in un tempo brevissimo. I bambini hanno subito uno stravolgimento del loro mondo: sono stati tutti obbligati ad avvicinarsi alle nuove tecnologie per poter seguire l’attività scolastica, mantenere i rapporti con i compagni, poter sentire vicini i nonni. Il bilancio che possiamo fare oggi non è purtroppo positivo: bambini sempre più piccoli sono vittime di varie forme di aggressione online, e adolescenti sempre più giovani si macchiano di reati di pedopornografia di solito imputati ad adulti, nessuna retrocessione del cyberbullismo e delle violenze online tra coetanei”. Più in generale +77% nel corso dell’anno passato di reati online in danno di bambini e ragazzi: pedopornografia, adescamento online e cyberbullismo ma anche estorsioni sessuali, revenge porn e truffe. “Per i più giovani socializzare, innamorarsi, litigare, partecipare alle lezioni passa, per un lungo anno, soprattutto attraverso smartphone, tablet e pc - spiegano gli investigatori -. Questo attrae l’attenzione di adulti interessati ad interazioni sessuali in rete con bambini e adolescenti ed aumenta la circolazione di immagini pedopornografiche”. “La noia, la mancanza di prospettive, l’isolamento sociale, la monotonia trovano in rete il modo di esplodere in casi di diffamazioni e dispetti in rete tra coetanei - aggiungono - senza contare l’influenza esercitata da un approccio sempre più precoce e massiccio alle nuove tecnologie, ai social, alla messaggistica rivela il suo lato oscuro anche in riferimento al rischio che i minori stessi siano autori di condotte gravi e lesive”. Come gli adolescenti “che fanno circolare immagini sessuali di ex-fidanzatine, si scambiano file pornografici e immagini di abusi sessuali di minori, insultano e denigrano compagni e conoscenti”. Migranti, 500 morti nel Mediterraneo da gennaio: triplicati rispetto al 2020 di Viola Giannoli La Repubblica, 5 maggio 2021 Carlotta Sami dell’Unhcr: “Arrivi totali in Europa in calo dal 2015, ma nei primi mesi del 2021 sono sbarcati in Italia in 10.400. Persone in fuga da prigionia e brutalità su imbarcazioni non sicure. La comunità internazionale deve fare di più”. Almeno 500 persone sono morte dall’inizio dell’anno mentre cercavano di attraversare il Mediterraneo centrale per scappare dall’Africa e raggiungere l’Europa. Le vittime sono più del triplo rispetto allo stesso periodo del 2020, quando si registrarono 150 morti. L’incidente più grave di quest’anno è avvenuto il 22 aprile: un naufragio che ha causato la morte di 130 persone. Lo riferiscono fonti dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr). “Siamo profondamente preoccupati per il bilancio delle vittime. Questa tragica perdita di vite umane sottolinea ancora una volta la necessità di ristabilire un sistema di operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale coordinato dagli Stati”, ha detto Carlotta Sami, portavoce Unhcr, che ha partecipato al briefing alla stampa del Palais des Nations di Ginevra dal porto di Trapani dove circa 455 persone sono sbarcate dalla nave della Ong tedesca Sea Watch che ha ottenuto l’assegnazione di un porto sicuro dopo i salvataggi in mare. Quattrocentocinquanta persone, tra cui circa 180 bambini. Dopo i tamponi, saranno trasbordati sulla nave ‘Splendid’, al largo di Trapani, per la quarantena. “Mentre gli arrivi totali in Europa sono in calo dal 2015, gli ultimi sbarchi portano il numero di arrivi via mare in Italia nel 2021 a oltre 10.400, un aumento di oltre il 170 per cento rispetto allo stesso periodo del 2020”, ha spiegato ancora Sami. “Dalle prime ore di sabato 1 maggio sono sbarcate in Italia circa 1.500 persone soccorse dalla Guardia costiera italiana e dalla Guardia di finanza o da Ong internazionali nel Mediterraneo centrale. La maggior parte delle persone arrivate è partita dalla Libia a bordo di imbarcazioni fragili e non sicure e ha lanciato ripetute richieste di soccorso”, aggiunge. “Unhcr era presente agli sbarchi. Abbiamo notato un’alta presenza di bambini e ragazzi, molti dei quali non accompagnati. La maggior parte delle persone arrivate proviene dal Mali e dal Sahel/Africa occidentale, dall’Eritrea e dal Nord Africa. Le ragioni di questi movimenti sono complesse - racconta Sami - Molti fuggono dalla guerra e dai conflitti, altri dalle persecuzioni, diventano vittime dei trafficanti e vengono venduti come merce. Tuttavia, i movimenti verso l’Europa rappresentano solo la punta dell’iceberg, l’80% delle persone che sono costrette a fuggire rimangono nella loro regione d’origine”. L’Unchr elogia l’Italia “per aver tenuto aperti i suoi porti durante la pandemia”. “È tuttavia urgentemente necessaria la solidarietà degli altri Stati membri dell’Ue, poiché il deteriorarsi della situazione in Libia continuerà a costringere le persone a ricorrere a misure disperate per cercare sicurezza.” L’Unhcr “sta lavorando con i suoi partner e con il governo italiano nei porti di sbarco per aiutare ad identificare le vulnerabilità tra coloro che sono arrivati e per sostenere il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo. Questa è una priorità chiave, poiché troppi fra coloro che tentano di raggiungere l’Europa hanno subito violenze e abusi indicibili lungo il loro viaggio: prigionia, brutalità inflitte, traumi con conseguenti gravi problemi di salute mentale”. “Sollecitiamo la comunità internazionale a fare di più per rafforzare la protezione delle persone che viaggiano lungo questa rotta - conclude Sami - e per fornire alternative sicure a questi viaggi pericolosi e disperati. I percorsi legali come i corridoi umanitari, le evacuazioni, il reinsediamento e il ricongiungimento familiare devono essere ampliati. Per le persone che non hanno bisogno di protezione internazionale, devono essere trovate soluzioni nel rispetto della loro dignità e dei diritti umani’’. Francia, Italia, Germania: la corsa ad armare Al Sisi di Gianluca Di Feo La Repubblica, 5 maggio 2021 I governi europei in gara tra loro per firmare contratti miliardari con l’Egitto: dai caccia ai sottomarini, dalle fregate ai missili. Aumentando il potere dell’apparato militare del Cairo. E’ una gara soprattutto tra europei, con Francia, Germania e Italia che sgomitano per arrivare primi nella grande corsa agli armamenti egiziana. L’America si è fatta da parte e solo la Russia sembra capace di prendere parte alla sfida. In palio ci sono contratti di valore stratosferico, inferiori solo a quelli assegnati dall’Arabia Saudita. La spesa militare del Cairo negli ultimi cinque anni infatti è più che raddoppiata: tra il 2016 e il 2020 gli investimenti sono aumentati del 136 per cento, finanziando l’acquisto di tecnologie avanzate e i piani per costruire un’industria bellica locale dominata dai generali. Nessuno dei governi occidentali ha minimamente tenuto presente la questione dei diritti umani: il dramma degli attivisti rinchiusi in carcere con accuse pretestuose, come Patrick Zaki, o le responsabilità degli apparati egiziani nell’omicidio di Giulio Regeni sono state ignorate nel momento di sottoscrivere commesse a nove zeri. L’ultima è quella di Parigi, che ha annunciato la vendita di trenta caccia Rafale. “Un successo cruciale - ha commentato su Twitter la ministra Florence Parly - che garantirà settemila posti di lavoro nei prossimi tre anni”. “Firmando un mega contratto con al Sisi mentre spiana i diritti umani - ha replicato Benedicte Jeannerod, direttrice di Human Rights Watch - la Francia incoraggia questa spietata repressione”. Lo Stato francese ha finanziato l’operazione con un prestito decennale: gli importi non sono stati comunicati ma si parla di 3,75 miliardi di euro, che saranno restituiti in più rate a un pool di banche. Gli aerei si aggiungeranno ai 24 dello stesso modello, frutto di un accordo risalente al 2015. Assieme ai velivoli, stando alle fonti egiziane, ci saranno le armi più moderne: missili aria-aria Mica Ng e Meteor, costruiti dal consorzio europeo Mbda per un valore di altri duecento milioni. La flotta del faraone - Lo scorso 18 aprile nelle acque di Alessandria c’è stata l’esibizione muscolare dello shopping di Al Sisi: una colossale parata navale, per mostrare la potenza della nuova flotta egiziana. In prima fila le due fregate Fremm made in Italy. Il governo Conte le ha passate direttamente dai ranghi della nostra Marina: per 991 milioni sono state fornite due navi pronte al combattimento, con la dotazione completa di radar, missili, cannoni, siluri, ricambi e munizioni. Nel pacchetto abbiamo incluso persino un assortimento di piccoli droni, alcuni volanti e altri naviganti. Anche in questo caso, la trattativa è rimasta nell’ombra praticamente fino al momento della consegna: soltanto la relazione annuale sull’export bellico ha permesso di conoscere cifre e dettagli. Aprendo un piccolo mistero. Inizialmente si era parlato di una commessa da 1.200 milioni. Si è ridotta strada facendo o i trecento milioni di differenza sono stati destinati ad altre mercanzie militari? Più fonti hanno parlato della vendita da parte di Leonardo di 24 elicotteri Aw149 e 8 Aw189: circolano anche foto di questi mezzi con i colori egiziani, ma l’opacità dei documenti ufficiali impedisce di fare chiarezza. Deutche uber alles - Le immagini della parata navale testimoniano la volontà di uguagliare i fasti dei faraoni, mostrando una flotta capace di dominare il Mediterraneo orientale fronteggiando l’espansione turca. E subito dietro le Fremm italiane c’erano tre sottomarini realizzati dai cantieri tedeschi: un quarto sta venendo completato nell’impianto di Kiel e sarà pronto tra pochi mesi. Sono figli di un contrattone voluto da Angela Merkel nel 2015, poi integrato nel corso degli anni: i quattro battelli del modello 209/1400 hanno equipaggiamenti elettronici allo stato dell’arte e dovrebbe poter lanciare missili americani Harpoon restando in immersione. Il costo resta imprecisato, ma è sicuramente superiore a un miliardo di euro. In teoria, la Germania ha le regole più rigorose nell’esportazione bellica. E infatti dal 2018 ha bloccato le vendite all’Arabia Saudita perché le sue forze armate sono impegnate nella guerra civile yemenita. Nello scorso novembre però dieci navi ordinate dalla monarchia saudita ai cantieri Lurssen - valore 130 milioni - sono state girate all’Egitto. Si tratta di pattugliatori per il controllo delle coste: mezzi acquistati proprio in vista dell’impiego in Yemen, dove le milizie filo-iraniane Houthi lanciano frequenti incursioni dal mare. L’opposizione tedesca ha criticato la transazione, temendo che comunque le navi finiranno per prendere parte al conflitto. E diversi analisti internazionali sostengono che comunque queste potenti vedette sarebbero state gestite dagli egiziani, visto che i sauditi non hanno personale sufficiente per mandare avanti tutti gli strumenti militari che acquistano. In sostanza cambia solo la bandiera, non la destinazione finale. Dimostrando quanto sia forte l’ipocrisia nell’export bellico. Meno chiara la sorte delle corvette Meko 200, un altro dei best seller dell’industria tedesca. Berlino nell’autunno 2018 ha annunciato di averne vendute ben sei alla marina di Al Sisi, per un importo di due miliardi e 300 milioni; poi il numero è stato ridotto a quattro e quindi l’intera questione si è inabissata. Nello scorso settembre però i Cantieri di Alessandria, interamente posseduti dal ministero della Difesa, hanno comunicato di avere cominciato la costruzione della prima Meko 200. Quindi l’operazione sembra essere proseguita, prevedendo però di realizzare le corvette in patria. In questo modo il sistema di potere del Cairo ne ha un duplice vantaggio: non solo accresce le sue forze armate, ma aumenta il radicamento della rete di imprese e affari nelle mani della nomenclatura militare. L’alternativa russa - Lo show della flotta comprendeva altri prodotti francesi. Sono le corvette Gowind, tre delle quali allestite dagli stessi Cantieri di Alessandria. In questo caso, l’operazione ha fruttato all’industria transalpina un miliardo e 400 milioni, inclusi ovviamente missili, radar e sonar mentre i cannoni sono gli Oto Melara italiana. E davanti ad Al Sisi ha sfilato anche la fregata “Tahya Misr” ossia “Lunga vita all’Egitto”: inizialmente si chiamava “Normandie”, ma è stata passata dalla marina di Parigi al Cairo nel 2015, parte dell’accordo da cinque miliardi di euro che comprendeva i primi 24 aerei da caccia Rafale. Pure le due navi portaelicotteri Mistral - somiglianti a portaerei in scala minore - vengono dalla Francia: originariamente erano state realizzate per la Russia, unico caso di navi da guerra europee acquistate da Mosca, ma l’occupazione della Crimea ha paralizzato la cessione. Allora si è fatto avanti l’Egitto e le ha ottenute per un miliardo d’euro, un prezzo d’occasione. I russi in fondo sono stati contenti, perché sono riusciti a piazzare al Cairo gli elicotteri da combattimento previsti per quelle unità: ben 46 Kamov Ka-52, subito ribattezzati “Coccodrilli del Nilo”. In questa inesauribile corsa agli acquisti, i generali egiziani sono sempre pronti a guardare a Mosca. Così dal 2013 sono arrivati 44 Mig 29 M, l’ultima versione del cacciabombardiere russo, e batterie di missili terra-aria S-300. Poi lo scorso anno di fronte alle resistenze statunitense di fornire aerei moderni come l’F-35, hanno speso due miliardi di dollari per ordinare 24 Sukhoi Su-35, il più potente velivolo russo. Adesso, la prima linea dell’aviazione schiera caccia francesi, russi e F-16 americani: una scelta che complica l’addestramento dei piloti e i costi di manutenzione, ma dà la certezza che nessun embargo potrà fermare le squadriglie del Cairo, visto che ci sarà sempre modo di trovare un Paese amico disposto ad aiutarlo. Shopping compulsivo - La frenesia egiziana nel fare incetta di armamenti non conosce limiti. Grande sorpresa ha destato la scorsa estate la decisione di comprare dalla Grecia cento veicoli blindati di terza mano: cingolati BMP-1, prodotti dall’Unione sovietica per la DDR e regalati da Berlino ad Atene dopo la caduta del Muro. Difficile capire a cosa servano macchinari così vetusti, visto che il Cairo dispone di mezzi molto più evoluti. Un’ipotesi è che siano destinati all’Uganda: uno strumento per la politica estera africana del nuovo Faraone. Anche in questo caso, ci sono state critiche al governo di Berlino, che ha risposto di non potersi opporre: “Li abbiamo dati ai greci ventitré anni fa, non possiamo influire sulle loro decisioni”. Che si tratti di residuati bellici o di intercettori hitech, le capitali europee non hanno remore. Lo ha detto con chiarezza Emanuel Macron, rispondendo a una domanda sulla repressione dei diritti umani in Egitto: “Non subordinerò accordi di cooperazione economica e militare a questi contrasti”. Per poi presentare la sua linea: “Penso che sia più efficace il dialogo che le sanzioni che ridurrebbero la capacità di uno dei nostri partner nella lotta al terrorismo e nella stabilità regionale”. Sono più o meno gli stessi argomenti usati dal governo Conte per giustificare la vendita delle fregate, superando di colpo l’assenza di collaborazione per avere giustizia sull’uccisione di Giulio Regeni e la mobilitazione per la scarcerazione di Patrick Zaki. Una realpolitik che privilegia la tutela dell’occupazione, permettendo a Fincantieri e Leonardo di aumentare il fatturato, e l’attenzione agli equilibri nel Mediterraneo orientale, dove le minacce di Erdogan alle concessioni petrolifere europee fanno più paura delle persecuzioni di Al Sisi. E la storia non è finita. Perché ci sono tante altre trattative aperte con il Cairo. In Germania, in Francia e pure in Italia. Se il decollo vincente dei caccia Rafale sembra cancellare l’ipotesi di piazzare gli Eurofighter, ci sono discorsi avviati per ulteriori fregate Fremm, per jet d’addestramento e persino per un satellite da spionaggio, tutto Made in Italy. Inutile aspettarsi trasparenza: se andranno in porto, si saprà a cose fatte. Anche nelle democrazie europee, i segreti del potere - quelli che nel medioevo si chiamavano “arcana imperii” - continuano a dominare le esportazioni di armamenti. Stati Uniti. Migranti, con Biden cambia la forma ma non la sostanza di Angela Nocioni Il Dubbio, 5 maggio 2021 Al confine con il Messico l’era Trump non è ancora finita. Migliora l’accoglienza solo per i nuclei familiari ma per i “single” ancora arresti e vessazioni. “C’è una qualità che vi accomuna tutti: il coraggio!”. Con queste parole il presidente degli Stati uniti Joe Biden ha salutato il mese scorso un centinaio di immigrati durante una cerimonia per la conquista della cittadinanza. Finiscono qua le belle notizie per le persone che premono alla frontiera meridionale degli Usa in attesa di entrare. Per il momento alla loro speranza di una inversione delle politiche sull’immigrazione suscitata dall’uscita di Donald Trump alla Casa Bianca non corrisponde una concreta apertura. È ancora incerta la sorte che toccherà ai beneficiari del Programma di protezione temporale (Tps nella sua sigla inglese), piano che aveva un vago spirito di programmazione dell’accoglienza. Varato in amministrazione dem, il Tps è sopravvissuto malconcio all’amministrazione Trump e per ora non si capisce bene cosa ne vorrà fare il governo Biden. Alcune cose son cambiate con l’arrivo dell’attuale presidente democratico, ma riguardano una percentuale minima dei tantissimi in attesa di ingresso. Chi si trova già in un processo avviato di riconoscimento del diritto di asilo può entrare negli Stati uniti, non è costretto ad aspettare oltre frontiera come accadeva con Trump. E le famiglie che hanno attraversato illegalmente il confine, una volta intercettate dalla polizia vengono arrestate, processate e poi liberate negli Stati uniti, non subito deportate. Purché, però - e questa condizione fa la grande differenza - possano vantare il formato famiglia. Se sono singoli individui è tutto come prima: vengono presi e sbattuti fuori. Succede infatti che moltissimi funzionari statunitensi continuano ad usare una regola d’emergenza adottata durante l’era Trump consistente nell’espulsione rapida di tutti gli adulti soli sorpresi come illegali oltre frontiera. Quindi a molti, anche con famiglia appresso, succede che, se vengono fermati da soli, non viene dato il tempo di dimostrare d’avere la famiglia in territorio statunitense perché vengono deportati alla svelta. Ovviamente gli adulti soli sono la gran maggioranza dei migranti, quindi il sistema spiccio di Trump continua a riguardare moltissime persone. Decine di migliaia di latinoamericano si stanno accalcando al confine. Per il dramma attuale ci sono spiegazioni di congiuntura politica: non solo l’illusione che un presidente dem alla Casa Bianca possa essere molto più accogliente di un presidente rep, ma anche la crisi economica aggravata dalla pandemia da coronavirus al sud del Rio Bravo, le disgrazie causate dal passaggio di uragani in Centro America (in Honduras c’è tanta gente che ha perso davvero tutto) e la crescente paura del crimine organizzato in molti Paesi vicini alla frontiera. Soltanto nel mese di marzo 9000 persone hanno chiesto asilo al governo messicano. Si tratta di un record. Mai c’erano state tante richieste in un mese solo, da notare che nell’ultimo trimestre la metà dei richiedenti asilo in Messico sono stati honduregni in fuga dalle macerie lasciate dagli uragani passati di lì nel 2020. Per i migranti il Messico è diventato un approdo finale, non più una tappa del viaggio verso il nord. La ragione essenziale è che in Messico è facile entrare e negli Stati uniti no. Ed e anche più facile essere accettati come rifugiati. Il governo Trump ha accelerato il processo di conversione del Messico in una tappa finale del viaggio verso il nord di molti migranti. La strategia più efficace è stata obbligare chi cerca asilo negli Stati uniti ad attendere in Messico l’esame della richiesta da parte delle autorità statunitensi. Aspetta e spera. Questo sistema, odiosamente chiamato “Protocollo di protezione ai migranti” (Mpp nella sigla inglese), ha fatto accampare in Messico una quantità sempre crescente di gente, molta della quale finisce per decidere per rimanere. Durante l’amministrazione Trump il numero delle domande di asilo in Messico è schizzata dalle 14.600 del 2017 alle 70.400 del 2019 secondo i dati del governo messicano. La pandemia da Corona virus ha frenato inizialmente i flussi, c’è stata una decelerazione in tutto il mondo e anche in Messico, dove l’anno scorso sono state presentate solo 41.200 richieste d’asilo. È aumentato perà di molto il numero negli ultimi tre mesi. La Commissione messicana di aiuto ai rifugiati (Comar) spiega che il Messico non è più una seconda opzione di rifugio per molti migranti attratti sia dalla possibilità di riunirsi con familiari e amici che, messisi in viaggio anni fa, non sono riusciti ad arrivare negli Usa e si sono fermati prima di varcare il confine, sia dal fatto che comunque anche in Messico esiste una grande domanda di manodopera a basso costo. Oltretutto il tasso di approvazione delle richieste di asilo in Messico è molto più alto che negli Stati uniti: 73% di richieste di asilo accolte nei primi tre mesi del 2021, e un altro 7% dei richiedenti ha ricevuto altri tipi di protezione umanitaria. Tra honduregni poi, in fuga dalla miseria post ciclone, il tasso di approvazione delle richieste di asilo ha sfiorato il 90%. Un capitolo a parte in questa storia riguarda le migliaia di minori centroamericani che arrivano da soli alla frontiera nord del Messico. Quasi tutti contano di poter raggiungere un loro genitore negli Stati uniti. Ma quelli fermati prima di attraversare il confine vengono deportati. Rispediti da dove vengono, da soli. Aspettano in ostelli in Messico per mesi che vengano completati i loro dossier e poi vengono rispediti indietro. La maggior parte dei minori in attesa di deportazione ha dagli undici ai quindici anni, ma ci sono anche bambini di cinque anni. Nel 2018 sono stati 1318 i bambini di cui si è registrata l’entrata negli ostelli per minori non accompagnati a Ciudad Juarez, la città limbo tra le due Americhe. Nel 2019 il numero è stato di 1510 ed è sceso sotto i mille l’anno scorso, causa coronavirus. Nei soli primi tre mesi del 2021 si sono già contati 572 ingressi di minori non accompagnati a Ciudad Juarez. Perché continuano ad arrivare se è noto che oltre l 70% dei casi di minori non accompagnati si conclude con un ordine di deportazione? Perché esiste la chimera della ultima chance: non presentarsi all’udienza. E’ quello che fanno quasi tutti gli adolescenti in attesa di verdetto. Scappano e si fermano in Messico. Senza documenti e senza protezione. Quarant’anni dalla morte di Bobby Sands, a Belfast veglia ad alta tensione di Enrico Franceschini La Repubblica, 5 maggio 2021 Irlanda del Nord, il 5 maggio 1981 il deputato 27enne divenuto il simbolo della lotta per l’Indipendenza moriva in carcere dopo 66 giorni di sciopero della fame. La ferita, che sembrava rimarginata alla fine di una guerra civile costata più di tremila vite, ora torna a riaprirsi. “Il sogno di Bobby continua e continua la lotta delle forze repubblicane per un’Irlanda unita, libera e egualitaria”. Mary Lou McDonald, leader dello Sinn Fein, il partito che si batte per la riunificazione dell’Irlanda britannica con quella già indipendente da un secolo, ricorda con queste parole la morte di Bobby Sands, il più celebre militante dell’Ira, l’Irish Republican Army, ovvero l’esercito clandestino che ha combattuto contro gli unionisti fedeli alla corona inglese nei trent’anni di guerra civile in Irlanda del Nord. Il 5 maggio 1981 Sands morì dopo 66 giorni di sciopero della fame nel “Maze”, il labirinto, com’era soprannominata la prigione di massima sicurezza di Belfast in cui erano rinchiusi i detenuti dell’Ira. Nei suoi confronti c’era una condanna a 14 anni di carcere per porto d’armi e prima ancora una lunga serie di accuse per partecipazione ad attentati. Aveva appena 27 anni ed era stato da poco eletto deputato del parlamento britannico in rappresentanza dell’Irlanda del Nord, un seggio che non avrebbe occupato nemmeno se fosse stato libero. Insieme a lui persero la vita nello sciopero della fame, dichiarato contro le condizioni in cui erano tenuti prigionieri i militanti, altri nove attivisti dell’Ira incarcerati a Belfast. Una protesta entrata nella storia dell’Irlanda del Nord e che ha fatto di Bobby Sands il simbolo più potente della lotta per l’indipendenza nord-irlandese, come testimonia il grande murale che lo raffigura su una parte vicino al muro che divide ancora in due il capoluogo della regione, da una parte i cattolici repubblicani indipendentisti, dall’altra i protestanti monarchici che vogliono restare parte del Regno Unito. Una veglia funebre davanti al monumento di Bobby a Belfast ricorderà stamane il momento del suo ultimo respiro, con la partecipazione dei più alti rappresentanti dello Sinn Fein, il partito che è stato il braccio politico dell’Ira durante i Troubles, come viene ricordato il lungo periodo della guerra civile, in cui hanno perso la vita più di 3 mila persone e ci sono stati decine di migliaia di feriti. La ferita sembrava rimarginata dagli accordi di pace del 1998, che avevano fatto scomparire il confine fra le due Irlande, dando l’illusione che il problema non esistesse più, o potesse essere rinviato a una data lontanissima, grazie al fatto che l’Irlanda repubblicana e il Regno Unito con l’Irlanda del nord britannica facevano entrambe parte dell’Unione Europea. Ma è stata riaperta dalla Brexit, che per non ricreare una frontiera tra le due Irlande ne ha costruita una commerciale fra Irlanda del Nord e Gran Bretagna, facendo risorgere le violenze nell’isola. A rammentare che il passato, in Irlanda, non è mai veramente passato, ha contribuito la sentenza arrivata ieri da un tribunale britannico che assolve due ex-parà britannici dall’omicidio di un militante dell’Ira. Ma è al futuro che ora guardano gli indipendentisti nord-irlandesi, un futuro non più tanto distante: crescono demograficamente, ormai sono più numerosi dei protestanti unionisti e i sondaggi predicono un referendum per la riunificazione dell’isola entro dieci anni. La Brexit ha fatto un favore postumo ai seguaci di Bobby Sands. “La nostra vendetta saranno le risate dei bambini”, afferma una delle poesie da lui scritte in carcere prima di morire. Ma c’è il timore di altre lacrime e altro sangue prima che il suo sogno possa realizzarsi.