I volontari fuori dal carcere: situazione in peggioramento di Ilaria Sesana Avvenire, 4 maggio 2021 Poche le visite consentite in cella. L’allarme delle associazioni. Teresa Michiara è una veterana della “Sesta Opera”: da 27 anni è volontaria nel carcere di San Vittore e oggi è una dei pochi volontari che accede alla struttura: “Tutto è più lento e più difficile rispetto a prima - racconta. La condizione dei detenuti è peggiorata, si sentono abbandonati e questo alimenta la depressione”. Prima dello scoppio dell’epidemia di Covid-19 la “Sesta Opera” era presente con una cinquantina di volontari a San Vittore, altri 45 a Bollate e una trentina nella casa di reclusione di Opera. Durante i mesi di chiusura totale tra marzo e aprile 2020 è riuscita a mantenere solo una presenza a San Vittore, con una volontaria impegnata nella distribuzione del vestiario. La scorsa estate i volontari hanno ricominciato ad affacciarsi nei corridoi e nelle rotonde, ma con numeri decisamente inferiori rispetto al passato. “Oggi riusciamo a fare entrare solo 7-8 persone a San Vittore, una decina a Bollate e meno di dieci a Opera - spiega il presidente dell’associazione, Guido Chiaretti. Comprensibilmente, tutte le attività di gruppo sono ferme: niente gruppi di lettura o di preghiera. Mai bisogni dei detenuti sono tanti e con la crisi economica causata dalla pandemia sono anche aumentati”. Da Roma a Milano, da Bologna a Palermo sono pochi i volontari che entrano nelle carceri per portare conforto e aiuto materiale ai detenuti. La situazione è estremamente variabile: le possibilità di svolgere attività di volontariato dipendono dalle decisioni direttori dei singoli istituti, dall’andamento dei contagi all’esterno e da quello della campagna vaccinale, dai cambiamenti dei colori delle singole regioni. E quando in un carcere si accende un focolaio, tutto si ferma di nuovo. “Il volontariato è ancora fuori da tante realtà - conferma Ornella Favero, direttrice della rivista “Ristretti Orizzonti” del carcere Due Palazzi di Padova e presidente della Conferenza nazionale Volontariato e Giustizia. A Padova, dopo la chiusura dei primi mesi dell’emergenza, abbiamo lottato per rientrare e lo scorso luglio ce l’abbiamo fatta. Poi ci sono stati altri due stop e adesso siamo di nuovo fermi per il focolaio scoppiato al Due Palazzi. Ma sospendere all’infinito le attività dei volontari rende le carceri un deserto”. Senza le attività organizzate dai volontari le giornate in cella sono molto più lunghe da trascorrere. Ai detenuti vengono a mancare preziosi momenti di incontro, di supporto e confronto sulla situazione fuori dal carcere. Oltre alla possibilità di ricevere aiuto materiale: un elemento non secondario dal momento che a molti mancano persino beni di prima necessità come il sapone. A Roma, i volontari della Comunità di Sant’Egidio hanno ripreso a lavorare nelle carceri a fine luglio 2020: “Stiamo entrando poco e questo lo trovo saggio, in un certo senso. Riusciamo a fare i colloqui con i detenuti mantenendo le distanze, per portare sostegno umano e psicologico. Ma il tempo è sempre molto poco - spiega Stefania Tallei, responsabile del servizio carcere-. In alcuni momenti abbiamo la sensazione di essere tornati a prima della riforma dell’ordinamento penitenziario: dobbiamo stare attenti affinché questo non succeda”. “Un carcere senza volontari è un carcere più carcere - aggiunge Francesco Moggi, volontario e presidente di Vic-Volontari italiani in carcere. Visti i limiti all’ingresso, nel corso dell’ultimo anno l’associazione ha potenziato l’accoglienza all’esterno e oggi gestisce due strutture. Una è nata appositamente su spinta della Caritas diocesana e con l’aiuto dell’elemosiniere del Papa; l’obiettivo è accogliere le persone che lavorano fuori dal carcere in regime di semilibertà e i detenuti che, non avendo domicilio, non potevano accedere alle misure alternative”. Non mancano le preoccupazioni per il futuro: “Avevamo attivato dei progetti rivolti ai figli di detenuti, per aiutarli a gestire il difficile momento dell’ingresso in carcere. Abbiamo dovuto interrompere tutto dall’oggi al domani e non sarà facile rimettere in piedi quelle iniziative. Con il carcere si ricomincia sempre da zero - chiarisce Paola Cigarini, referente del Gruppo Carceri Città di Modena. In futuro il volontariato dovrebbe essere maggiormente coinvolto nella progettazione e nella costruzione delle politiche della pena. Dentro e fuori dalle carceri. Ma questo presuppone un volontariato preparato, che riflette sul suo operato per non fermarsi alla pur importante e necessaria azione quotidiana”. Incontro dei laboratori di scrittura e delle attività di informazione e sensibilizzazione Ristretti Orizzonti, 4 maggio 2021 Ai responsabili dei laboratori di scrittura e delle attività di informazione e sensibilizzazione dal carcere e dall’area penale esterna. Gentili tutti, abbiamo ricevuto da Francesco Lo Piccolo, giornalista, direttore del periodico “Voci di dentro”, realizzato con i detenuti delle Case circondariali di Chieti e Pescara, un invito a promuovere una videoconferenza per rilanciare le nostre attività. Noi della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ci occupiamo da anni di informazione e comunicazione, in particolare con il Festival della comunicazione dal carcere e sul carcere, e quindi accogliamo volentieri questo invito e vi chiediamo di manifestarci il vostro interesse a partecipare a un incontro web (indicativamente da tenersi tra il 15 e il 28 di questo mese) e a contribuire a rilanciare queste complesse attività, anche in considerazione dell’uso delle tecnologie, che riteniamo vada promosso con forza negli istituti di pena. Segnalare la propria adesione alla mail ornif@iol.it. Per la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Ornella Favero, presidente Carla Chiappini, responsabile della comunicazione Da Voci di dentro Onlus Da un anno tutte le attività delle associazioni di volontariato sono sospese o in casi più fortunati sono ridotte al minimo. In tutte le carceri anche i laboratori via web, compresi quelli di scrittura e per la realizzazione dei giornali, hanno subito drastiche battute d’arresto. In molti casi sospeso anche il servizio di prenotazione e distribuzione dei libri e altrettanto è stata ostacolata la stessa comunicazione dentro-fuori. Per motivi di sicurezza a causa dell’emergenza Covid, dal carcere è stata così estromessa la società civile, che comunque già prima della pandemia era spesso considerata come subalterna all’Istituzione. A titolo di esempio diciamo solo che nel carcere di Pescara era in piedi un progetto in un’area non utilizzata e da noi trasformata in uno spazio aperto con laboratori quotidiani di scrittura, teatro, fotografia, computer, musica, sartoria tenuti da 15 tra volontari e studenti tirocinanti per una quarantina di detenuti. Progetto chiuso dopo tre anni nel 2019 e trasformato in un unico laboratorio di scrittura due volte a settimana e limitato a soli 5 detenuti. Poi il Covid ha fatto il resto. Nel ritenere che oggi spesso nelle carceri non venga rispettato il dettato della Costituzione (art. 27) e le norme e le osservazioni-indicazioni della Comunità Europea, proponiamo al più presto un incontro di tutte le associazioni impegnate nelle carceri italiane con laboratori di scrittura, con la realizzazione di riviste e/o giornali del carcere e con altre attività di questo tipo. L’incontro oltre a fornire il quadro esatto della situazione nelle varie carceri, deve essere occasione di confronto e dibattito per giungere anche alla definizione di una linea comune di risposta rivolta al superamento di questa grave situazione, che di fatto ha trasformato le carceri italiane in luoghi di sempre maggior sofferenza per oltre 50 mila persone, e spesso al di fuori della legalità. Francesco Lo Piccolo Cosa ve ne fate? Gli arresti in Francia e due scuole a confronto di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 4 maggio 2021 Pena “giusta” e pena “utile”. È giusto punire a molti anni distanza persone che non risulta abbiano continuato a delinquere? La richiesta italiana di estradizione di autori di violenze politiche rifugiatisi in Francia per sfuggire all’esecuzione della condanna ripropone, sotto una angolazione problematica, la questione del senso e degli scopi della pena. Perché punire a distanza di 30 o 40 anni dalla commissione dei fatti criminosi persone che, oltretutto, non risulta abbiano continuato a delinquere e avrebbero anzi da tempo adottato uno stile di vita normale? La complessità dell’interrogativo è accresciuta dal tendenziale sovrapporsi, in questa vicenda che certo esula dai casi fisiologi della giustizia penale, di più dimensioni: storica, politica, morale, giuridica e psicologica (per i forti riflessi emotivi perduranti, in particolare, nelle vittime dirette e indirette delle azioni violente). In linea teorica, per fare maggiore chiarezza, questi diversi piani - come ha ad esempio suggerito Gustavo Zagrebelsky su Repubblica il 30 aprile) - andrebbero tenuti analiticamente distinti. Ma è possibile farlo sino a un certo punto, e per più ragioni. I reati di terrorismo, o comunque politicamente motivati, si distinguono dai reati comuni proprio perché - piaccia o non piaccia - non hanno una genesi puramente criminale. E c’è poi da considerare che le distinzioni analitiche, tipiche dello studioso di mestiere, non sono pane quotidiano per l’uomo comune. Ancora, non va trascurato che una divergenza di approccio tra chierici e laici può ben emergere anche nel tentare di dare risposta al problema relativo al senso di una punizione molto ritardata nel tempo. Come studioso di diritto penale incline a mettere il naso fuori dall’accademia, sono infatti non da ora consapevole che esiste una tendenziale divaricazione tra la pena teorizzata nei manuali destinati agli studi di giurisprudenza e la pena sentita nel cuore della maggior parte delle persone digiune di diritto. Per dirla con approssimativa sintesi, le trattazioni libresche, argomentando anche in base al dettato costituzionale (art. 27, comma 3), fanno ormai a meno di includere l’idea o valore della giustizia tra le attuali ragioni giustificatrici della sanzione penale, prendendo così anche le distanze dalla tradizionale concezione cosiddetta retributiva (secondo la quale si punisce perché è giusto contraccambiare col dolore sanzionatorio il male insito nel reato commesso). Fuori dal riferimento ad astratti obiettivi di giustizia, la pena contemporanea rinvenirebbe la sua principale legittimazione nel perseguire l’obiettivo socialmente utile, ancorché di incerto conseguimento, di prevenire i reati - e ciò mediante la duplice tecnica della prevenzione cosiddetta generale e della prevenzione cosiddetta speciale, entrambe a loro volta articolabili in varie forme su cui qui devo sorvolare. In questa ottica pragmaticamente orientata, suona in effetti tutt’altro che privo di senso l’interrogativo sollevato giorni fa su questo giornale da Adriano Sofri e rivolto, in forma forse sgradevolmente provocatoria, a registi ed esecutori dell’operazione politico- giudiziaria parigina: “Bravi! E adesso cosa ve ne fate?”. Infatti, che l’incarcerazione di autori di delitti politico- terroristici commessi negli “anni di piombo” possa, oggi, apparire giustificata dalla preoccupazione di prevenire il rischio concreto di future violenze analoghe da parte degli stessi soggetti o di potenziali imitatori, non sembra seriamente sostenibile: se così è, viene meno allora quel basilare fondamento giustificativo del punire sul quale fa leva la teoria della pena attualmente dominante tra i giuristi teorici e pratici. Ma la pena, come istituzione sociale storicamente stratificata e polivalente, presenta volti e aspetti che trascendono la sua concettualizzazione tecnica nei testi di diritto e nei repertori di giurisprudenza. Essa in realtà, nella mente e nei cuori degli uomini comuni, continua di fatto ad assumere significati e valenze che la teorizzazione giuridica ufficiale si sforza addirittura di cassare o bandire, anche se - a quanto pare - senza soverchio successo. Com’è facile constatare, un senso comune e un orientamento psicologico ancora presumibilmente diffusi (ancorché non sia quantificabile con precisione il corrispondente coefficiente odierno di diffusione) tendono - in maniera più o meno indistinta - a proiettare sul castigo dei colpevoli aspettative generiche di giustizia e giudizi di disapprovazione morale, nonché sentimenti ed emozioni (quali rabbia, indignazione, avversione, rancore o risentimento) riconducibili a registri emotivi non agevolmente distinguibili da quello della pulsione vendicativa: per cui quando la persona offesa dall’azione criminosa o un suo familiare pronuncia la consueta frase “non voglio vendetta, ma giustizia”, la verità o credibilità di questa distinzione non può essere dimostrata in modo attendibile; riconoscerla o meno, implica un atto di fede o una generosa concessione. Comunque sia, a volere sposare l’ottica del senso comune, per giustificare la punizione tardiva non dobbiamo andare lontano: abbiamo ancora una volta a portata di mano il vecchio principio di giustizia in chiave retributiva, per cui in ogni caso è giusto pagare il debito contratto con la società a causa della commissione di un delitto, a maggior ragione se grave. Ecco che, in tal modo, la pena recupera il suo antico legame con l’idea di giustizia: e la pretesa di giustizia finisce altresì col prevalere nettamente rispetto all’utilità sociale sottesa all’obiettivo della prevenzione, della quale appunto in questo caso non sembra esservi effettiva necessità. Possiamo senz’altro tornare ad avallare, ai nostri giorni, questa supremazia della pena “giusta” rispetto alla pena “utile”? Siamo davvero sicuri che, nel contesto accentuatamente pluralista in cui viviamo, il paradigma retributivo rispecchi ancora un’idea di giustizia punitiva suscettibile di essere fatta oggetto - per dirla con Rawls - di un ampio “consenso per intersezione”? Certo, si può obiettare che neppure la tradizionale pena retributiva sia priva di concreta utilità, rilevando che essa - tra l’altro - è in grado di dare sollievo psicologico alle vittime sopravvissute o ai loro familiari. Pur comprendendo le gravi sofferenze provocate dagli autori delle violenze politiche e manifestando il massimo rispetto per quanti continuano a patirle, dovremmo tuttavia senza falsi pudori chiederci: fino a che punto la punizione del colpevole attenua le sofferenze e rimargina le ferite psicologiche causate dagli atti criminosi? Gli studi di psicologia della vittima in realtà evidenziano che il cuore delle vittime è attraversato da sentimenti confusi e contraddittori, come è normale che sia, e che il castigo anche rigoroso dell’autore del crimine reca loro un beneficio psicologico tutt’altro che univoco e duraturo: per questo, da parte di alcuni studiosi non si è mancato di prospettare l’esigenza di dar vita in futuro a un nuovo binario di “rieducazione delle vittime”, da affiancare al preesistente binario della rieducazione dei rei e da attribuire alla competenza (piuttosto che della giustizia penale in senso stretto) di esperti psicologi e di operatori socio-assistenziali. Ai limiti della giustizia penale propriamente detta ha accennato, in verità, anche la ministra Marta Cartabia in un’intervista rilasciata l’indomani del blitz parigino (cfr. la Repubblica del 29 aprile). Oltre ad avere espresso comprensibile soddisfazione per l’atto di fiducia verso la democrazia italiana finalmente manifestato dalla Francia, il guardasigilli ha tenuto a esplicitare che la richiesta di estradizione nasce non solo da sete di giustizia, ma anche dal bisogno di fare chiarezza e da una “reale possibilità di riconciliazione”; sottolineando, nel contempo, che “non ci può esserci riconciliazione senza verità”. Cartabia ha così inteso, nel complesso, fornire una giustificazione politico-culturale della cattura di Pietrostefani e degli ex brigatisti incentrata sull’interazione di tre importanti valori: giustizia-verità- riconciliazione. In linea di principio, si tratta di un approccio nobilmente intenzionato, che lascia altresì trasparire una convinta apertura verso i paradigmi della giustizia cosiddetta riparativa. Ma possiamo ritenere che vi sia effettiva congruenza tra un simile approccio politico-culturale, in sé apprezzabile e le caratteristiche del caso concreto di cui discutiamo? Come è stato già rilevato, sul piano storico-ricostruttivo non ci sono grosse novità da acquisire, avendo i processi già celebrati in Italia accertato quasi tutto e, comunque, molte cose (lo riconosce, ad esempio, Luciano Violante nel Corriere della Sera del 30 aprile). Se così è, l’enfasi posta sul fare chiarezza e verità si ridimensiona non poco. Non meno problematico appare, a ben vedere, il riferimento alla riconciliazione. Riconciliarsi con chi e in che modo? È da escludere che la ministra abbia voluto alludere ad una riconciliazione con lo Stato o con la società concepibile come idealmente implicita - nel solco di una vecchia filosofia idealistica - nel semplice fatto che il reo sconti una pena. Piuttosto, Cartabia alludeva - come emerge dalla parte finale dell’intervista - a una riconciliazione concepita nel senso appunto della giustizia riparativa, cioè da cercare di perseguire mediante il modello della cosiddetta mediazione invero già sperimentato in alcuni casi pure tra autori e vittime (o loro familiari) di violenze inquadrabili nella lotta armata degli anni 70 Senonché si tratta del richiamo di un percorso che, per quanto suggestivo, non può che rimanere allo stato vago e assai incerto. Non solo perché l’avvio degli incontri riparativi, lungi dal poter essere imposto, presuppone una volontaria adesione psicologica di tutti i protagonisti del potenziale dialogo mediativo che non può essere data per scontata. Ancor prima, non sappiamo se tutte le procedure di estradizione giungeranno a buon fine considerati i numerosi ricorsi annunciati dalle agguerrite difese (che prevedono di ricorrere anche alla Corte europea di Strasburgo) e, soprattutto, non ne conosciamo i tempi che potrebbero anche risultare lunghi. Se si dovessero attendere alcuni anni, come qualcuno prevede, gli autori dei delitti in questione diventerebbero ancora più anziani e crescerebbe il loro rischio di incorrere in condizioni patologiche poco compatibili con la reclusione carceraria, per cui l’esecuzione della pena potrebbe in definitiva essere per lo più destinata a svolgersi nelle forme alternative alla detenzione (semilibertà, detenzione domiciliare ecc.) previste dall’ordinamento penitenziario. Trattandosi di modalità sanzionatorie ben più miti e tollerabili di una vera e propria detenzione, la loro valenza finirebbe con l’essere più simbolica che afflittiva; la pena, insomma, fungerebbe soprattutto da medium comunicativo di una censura pubblica volta a veicolare o ribadire questo duplice messaggio: i crimini politico-terroristici producono gravissime ingiustizie e, nello stesso tempo, contraddicono profondamente la logica democratica. Ma c’è davvero bisogno di una eventuale punizione tardiva e attenuata per replicare questo messaggio o renderlo più credibile? Se è ragionevole dubitarne, sembra anche legittimo ritenere che l’aspetto più significativo dell’intera vicenda riguardi, piuttosto che la giustizia punitiva o riparativa strettamente intese, il più generale versante delle relazioni politico-istituzionali tra due importanti paesi europei: in altre parole, non è senza importanza che la Francia sia ormai disposta a riconoscere che pure l’Italia ha le carte in regola come stato di diritto. Prorogate fino al 31 luglio le misure anti Covid-19 in ambito penitenziario regione.lazio.it, 4 maggio 2021 Il Garante, Anastasìa: “Programmare la ripresa e le attività come prima della pandemia”. Sono state prorogate al 31 luglio le misure anti Covid-19, per i detenuti con licenza speciale, per semiliberi e lavoranti all’esterno, con permessi premio straordinari e in detenzione domiciliare fino a 18 mesi dal fine pena. Le misure per l’emergenza Covid-19 in ambito penitenziario, in scadenza il 30 aprile con il decreto legge 7 dello scorso gennaio, sono state ulteriormente prorogate con il decreto legge approvato questa mattina dal Consiglio dei ministri. La proroga è stata accolta con soddisfazione dal Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, il quale ha ricordato che “le misure erano state varate per alleggerire l’affollamento nelle carceri”. “L’assessore alla Sanità, Alessio D’Amato, ha fatto sapere che sono state ultimate le somministrazioni dei vaccini in tutti gli istituti di pena del Lazio, sia per la polizia penitenziaria sia per i detenuti. Con questa ottima notizia il cerchio si chiude nel migliore dei modi. Adesso, però - ha concluso Anastasìa -, bisogna cominciare a discutere della ripresa dei colloqui e delle attività in carcere, così come si svolgevano prima dell’inizio della pandemia”. Più nel dettaglio, si proroga la durata delle licenze premio che possono essere concesse ai condannati ammessi al regime di semilibertà, superiore a quella di 45 giorni, salvo che il magistrato di sorveglianza ravvisi gravi motivi ostativi. Inoltre, viene prorogata la possibilità di concedere permessi premio, anche in deroga ai limiti temporali ordinariamente previsti, in favore di detenuti condannati per reati diversi da quelli di maggior allarme sociale, i quali abbiano già fruito di permesso premio o siano stati già ammessi al lavoro all’esterno, all’istruzione o alla formazione professionale all’esterno. Infine, si proroga la possibilità di accesso alla detenzione domiciliare per i detenuti, condannati per reati diversi da quelli di maggior allarme sociale, che debbano scontare una pena detentiva di durata non superiore a 18 mesi, anche se parte residua di maggior pena e la cui condotta carceraria non sia stata oggetto di rilievi disciplinari. I permessi premio non sono concessi ai soggetti condannati per alcune fattispecie di reato come: maltrattamenti contro familiari e conviventi; atti persecutori; atti di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza; associazione di tipo mafioso e, inoltre, delinquenti abituali, professionali o per tendenza; detenuti che sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare; detenuti sanzionati per disordini, sommosse, evasione, fatti previsti dalla legge come reato, commessi in danno di compagni, di operatori penitenziari o di visitatori; detenuti privi di un domicilio effettivo e idoneo anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato. Chi è e cosa fa il Magistrato di Sorveglianza: intervista a Giovanna Di Rosa di Sergio Nazzaro leurispes.it, 4 maggio 2021 Il magistrato di sorveglianza è una figura di cui poco si conosce e si parla in Italia. Un lavoro complesso che incomincia quando un detenuto inizia il suo percorso di espiazione della pena. Per la pubblica opinione, bastano la condanna e il carcere, ma dopo che cosa accade, e quanto è complesso, ma anche gratificante, rendere reale il dettame della Costituzione che la pena sia espiazione ma anche percorso per il reinserimento nella società? Viviamo in un tempo in cui basta il titolo di un giornale per definire un colpevole, emettere una sentenza e voltare pagina. Eppure, esistono mondi complessi che sono propri della legge e della Costituzione che, insieme, definiscono il concetto di Giustizia. Cosa fa, dunque, il Magistrato di Sorveglianza? L’Eurispes, attraverso le pagine elettroniche del suo magazine di approfondimento, affronta il tema della Magistratura di Sorveglianza con la dott.ssa Giovanna Di Rosa, Presidente del tribunale di Sorveglianza di Milano. Dal 2010 al 2014, è stata eletta componente togata del Consiglio Superiore della Magistratura. Autrice di numerosi articoli sui temi della detenzione, è stata nominata relatrice alla Scuola Superiore della Magistratura. Chi è e cosa fa il Magistrato di Sorveglianza Presidente, che cosa fa e chi è il Magistrato di Sorveglianza? Una domanda secca e diretta per cercare di comprendere uno dei ruoli della Magistratura di cui meno si parla. Il Magistrato di Sorveglianza è un giudice togato come tutti gli altri, i cui compiti primari sono definiti nella legge di Ordinamento Penitenziario n.354 del 1975, che disciplina con puntualità regole e diritti nella vita detentiva. Decide in alcuni casi da solo, per esempio sui permessi premio e sui permessi di necessità dei detenuti, sulle applicazioni provvisorie delle misure alternative, sui risarcimenti richiesti dai detenuti in caso di carcerazioni contrarie all’art.3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, tutela i diritti dei detenuti in carcere, decidendo i reclami relativi alla loro violazione, vigila sul carcere e sul rispetto delle norme all’interno, segnalando al Ministro della Giustizia eventuali esigenze e carenze organizzative, si occupa delle misure di sicurezza. Il Tribunale di Sorveglianza è l’organo collegiale, competente sulle questioni più delicate e giudice di secondo grado delle decisioni del Magistrato di Sorveglianza, che in quest’ultimo caso non potrà personalmente comporre il collegio per evidenti problemi di incompatibilità. Nel collegio sono presenti, oltre a due Magistrati di Sorveglianza - uno dei quali presiede il collegio stesso - anche due componenti esperti, nominati tra sociologi, psicologi, criminologi, medici, quali figure che potranno fornire il loro contributo professionale per la decisione da assumere. Il suo compito è decidere la più opportuna modalità di esecuzione della pena in tutti i suoi risvolti e declinazioni, seguendo il principio costituzionale posto dall’art.27, comma 3 della Costituzione, secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. La pena non è solo quella detentiva, rientrandovi anche la pena pecuniaria; inoltre, il Magistrato di Sorveglianza decide le istanze dei condannati che riferiscono di versare in condizioni economiche disagiate e di non poter pagare le spese processuali, anche milionarie, del loro processo, oltre alle spese di mantenimento in carcere. Il panorama delle competenze del Magistrato di Sorveglianza è, dunque, molto ampio e riguarda l’intero settore dell’esito del processo penale, arrivando fino alla riabilitazione, di competenza del Tribunale di Sorveglianza, che consente la cancellazione dei reati dal certificato penale della persona che è stata condannata. Il Magistrato di Sorveglianza, dunque, e non l’Autorità amministrativa decidono del percorso di un detenuto... Esattamente. Il sistema legislativo ha voluto affidare a un giudice togato, e non all’Autorità amministrativa, ogni aspetto decisionale che riguarda il contenuto delle sentenze di condanna, nessuna esclusa, e ciò fa comprendere il significato profondo che il Legislatore dell’epoca ha attribuito a questa funzione. Il ruolo del Magistrato di Sorveglianza è dunque fondamentale nel dare senso e contenuto alla pena irrogata e a tutti i contenuti nella sentenza penale, che non ha infatti concluso il percorso del condannato, perché deve essere eseguita. Le pene detentive sotto i quattro anni possono, sostanzialmente, essere espiate in misure alternative, ma occorrono condizioni esterne positive (un domicilio e talvolta un lavoro, o comunque un’autonomia economica) e valutazioni prognostiche, da parte del Magistrato di Sorveglianza, perché la misura possa essere concessa. Le altre pene, più consistenti, contengono limiti legali di tempo di espiazione per l’accesso alla possibilità di fruire dei cosiddetti benefici penitenziari. Una volta superati questi limiti, si tratta allora di verificare il percorso trattamentale concreto effettuato dalla persona condannata, alla luce anche del tempo trascorso dalla commissione del reato, per pervenire a un giudizio di esclusione della pericolosità sociale e di meritevolezza di quanto richiesto. Si tratta di una valutazione molto complessa, essendo evidente quanto sia difficile valutare in maniera oggettiva il percorso interiore di una persona per comprendere se abbia compiuto dei progressi o meno, al fine di avviare il recupero esterno. Quindi è il Magistrato di Sorveglianza che sovraintende al percorso di rinserimento del detenuto nella società, la pena espiata è solo una parte del percorso... Senso della funzione di sorveglianza, ricordiamolo, è il reinserimento della persona attraverso la rieducazione, in modo che la pena serva e sia utile per restituire una persona diversa alla società. Per svolgerla, ci si avvale allora della lettura di tutti i documenti presenti, a partire dalla sentenza di condanna, dal certificato penale e dei carichi pendenti, dalle informazioni di Polizia, di quanto altro previsto dalla legge, pervenendo poi, però, alla lettura e allo studio dei documenti che tracciano il percorso interiore della persona, compreso l’eventuale percorso realizzato per la vittima e a titolo di riparazione, oltre che di risarcimento, del danno. Il carcere redige relazioni di osservazione scientifica della personalità con la presenza di esperti anche al suo interno, che svolgono colloqui ripetuti con i detenuti e li osservano durante il loro percorso. Il complesso di questi elementi, accompagnato dalla conoscenza e verifica diretta, da parte del Magistrato di Sorveglianza cui è affidato il singolo caso del detenuto, porta alla decisione che, ripeto, è davvero molto complessa. Perché si sceglie questo ruolo in Magistratura? Quali sono le motivazioni che muovono verso un mondo così complesso? Ho personalmente fatto questa scelta dopo aver svolto, a lungo, altre funzioni giudiziarie perché ero stata attratta dall’esperienza che avevo avuto in occasione di un’applicazione, ossia di una chiamata, al Tribunale di Sorveglianza, alla quale mi sono molto interessata. Si tratta di un ruolo che richiede una continua sfida, legata proprio all’impegno che assorbe e che riguarda il raggiungimento di un ideale di giustizia effettiva, quella che porta a cancellare il male, anche gravissimo, arrecato, ripristinando la vittoria dello Stato senza la perdita di una ulteriore vita, quale è quella del condannato. L’interconnessione con le altre scienze umane come la psicologia, la criminologia, ecc. è poi una caratteristica che motiva ulteriore grande interesse. Si parla molto, soprattutto recentemente di 41 bis, ergastolo ostativo; quali sono le difficoltà quotidiane che un Magistrato di Sorveglianza si trova a vivere in questo contesto? La maggiore complessità è legata alla verifica della situazione soggettiva per comprendere davvero il percorso rieducativo compiuto dal singolo condannato. Le norme vigenti in alcuni casi non consentono l’ammissibilità delle istanze, sul cui merito quindi non si può entrare. In prospettiva, l’acquisizione di tutti i documenti istruttori fornisce un contributo significativo, ma si potrebbe affidare anche alla giustizia riparativa un canale di possibile risposta per la decisione sull’effettivo cambiamento dell’uomo, oltre naturalmente alla più attenta osservazione compiuta in carcere. Il tema vero riguarda la strategia che il legislatore intende seguire per queste situazioni, tenuto conto del confronto culturale sulla capacità effettiva della rieducazione in alcuni casi e della sussistenza della previsione costituzionale di cui ho parlato. La possibilità della rieducazione è una chimera, oppure è la concreta possibilità che uno Stato democratico deve dare innanzitutto a sé stesso prima ancora che al condannato? La seconda, senza dubbio. Lo impone la Costituzione, ed è uno strumento che garantisce, essa sola, la pace sociale dopo un reato. Affidare alla mera detenzione la risposta della società al reato, senza curarsi di dare una alternativa che si impegni a tutto campo per impedire la reiterazione del reato, è non risolvere un problema, ma rimuoverlo e basta. Occorre pensare nell’ottica della rieducazione anche per dar pace alle vittime dei reati: le nuove risposte della giustizia riparativa potranno consentire anche alle vittime la riappacificazione con la stessa società, che così si impegna verso di loro, e un’attenzione duratura da parte dello Stato, che non è quella della vendetta. Certo, occorrono anche impegno, investimenti, e risorse, sia negli uffici di sorveglianza sia negli Istituti penitenziari e presso l’Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna). Dalla sua lunga esperienza in materia, qual è la storia che più l’ha colpita sia in positivo sia in negativo nel mondo delle carceri italiane e cosa possiamo fare perché questo mondo non sia dimenticato? Le belle storie sono moltissime, ma sono sconosciute perché il bene non si vuole ascoltare, non fa rumore e dunque non fa notizia, non viene pubblicato sui giornali. È questo il motivo per il quale la nostra funzione di sorveglianza, che rappresenta “il volto buono” della giustizia, quello della ricostruzione, quello che nella raffigurazione classica della giustizia viene dopo la spada che taglia, è così poco conosciuta. Eppure, i recuperi sono davvero numerosi, le revoche delle misure alternative bassissime (nell’ordine del 3-4% annuale circa, e alcune per eventi non colpevoli), l’assenza di recidiva molto alta (circa l’80%), ma solo se è stata data la possibilità di espiare la pena in misura alternativa, in sostanza proponendo un modello di vita legale. È recentissima la storia di un detenuto di Bollate che ha inventato un modo di tracciare i rifiuti, per incentivare la raccolta differenziata, dimostrando un talento e fornendo un’utilità alla società che quindi, da tutti i suoi componenti e sempre, trae arricchimento. Partendo dal riconoscimento della natura buona dell’uomo e dalla ricerca di questa natura, sta allora all’impegno delle Istituzioni assicurare un sistema che garantisca a tutti, anche a chi non ne ha avuto la possibilità ed ha per questo sbagliato, di poter vivere onestamente del proprio lavoro e in condizioni umane dignitose. Le storie negative sono quelle che vedo quando, in occasione di contatti e incontri con detenuti, mi accorgo di comportamenti di persone esterne e terze, che si mostrano prevenute, per il solo fatto di essere a contatto con una persona detenuta. Questo dimostra che esiste un preconcetto che deve essere ancora sconfitto. Come si potrà altrimenti far reinserire le persone che hanno commesso reati, una volta espiata la loro pena? Commissione toghe-politica, Cartabia dovrà mediare di Armando Mannino Il Riformista, 4 maggio 2021 La lunga intervista della Ministra Cartabia da parte del direttore de La Stampa, Massimo Giannini, conferma l’atteggiamento di mediazione attiva che il Governo intende tenere sulla riforma della Giustizia, auspicando il ritrovamento di un rinnovato spirito di unità nazionale, oggi necessaria per soddisfare le condizioni poste dall’Unione europea per la concessione del credito del Recovery Plan, essenziale per il rilancio dell’economia. La convergenza auspicata tende alla elaborazione di una “mappa di principi in cui tutti possano riconoscersi”: principi che non possono non essere quelli costituzionali, nel cui ambito e nel cui reciproco contemperamento deve coagularsi la mediazione tra istituzioni e partiti, tenendo conto dei “dati di realtà… Principi costituzionali e dati di fatto sono le coordinate da non perdere mai di vista” al fine di pervenire allo scopo: “una giustizia rapida e di qualità”. Se si tiene presente lo stato di profonda crisi in cui si trova l’amministrazione della giustizia in Italia per la lentezza dei processi civili e penali, per l’imprevedibilità delle decisioni, per le connessioni tra politica e magistratura, per l’autoreferenzialità dei magistrati, per la mancanza di procedure effettive che ne sanciscano la responsabilità, per le degenerazioni delle correnti e per la conseguente perdita di legittimazione dei magistrati di fronte all’opinione pubblica, il richiamo a principi e valori comuni sanciti dalla Carta costituzionale esprime una volontà, se effettivamente attuata, di forte cambiamento. Essa sembra però arrestarsi di fronte alla questione cruciale che condiziona tutto il resto: la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm), organizzato in correnti che ne condizionano tutte le decisioni: di assegnazione delle sedi, di attribuzione degli incarichi direttivi, sulla responsabilità disciplinare, ecc. La Ministra Cartabia ritiene che le correnti non si possano e non si debbano eliminare in quanto “espressione di un pluralismo culturale che c’è nella nostra magistratura”; non considera però, in difformità dal metodo delineato, che i dati giuridici devono essere sempre correlati con i “dati di realtà”, che nella specie attestano invece inequivocabilmente che gli orientamenti culturali delle correnti sono spariti da decenni, sostituiti dalla tutela degli interessi di carriera; limita infine l’intervento sul Csm alla definizione di nuove norme sull’elezione dei suoi componenti togati, nella speranza che siano sufficienti a renderlo impermeabile ai condizionamenti delle correnti, e sulla assegnazione degli incarichi direttivi. L’indirizzo della Ministra sulla Magistratura e sul Csm è quindi allo stato riduttivo, perché non affronta il problema principale: la trasformazione della Magistratura da Potere diffuso a Potere organizzato, che con le inchieste è capace di condizionare la politica, la carriera dei magistrati e con essa la loro autonomia e indipendenza. La sua prudenza tuttavia è pienamente giustificata dalla situazione politica, economico- finanziaria e sociale del Paese. Compito essenziale e preminente del Governo è quello non soltanto di presentare all’Unione europea il programma di riforme e di interventi economici del Recovery Plan, ma anche di realizzarli rapidamente e senza intralci. Incidere sulla struttura organizzativa della Magistratura (l’Associazione nazionale magistrati e le sue correnti interne), vero e proprio Potere politico costituzionalmente non legittimato, implica l’assunzione di un rischio che il Paese non può correre. L’esperienza di Berlusconi, e non solo, sta a dimostrarlo. Il problema sussiste ed è molto serio, ma affrontarlo è compito delle forze politiche presenti in Parlamento, in cui si sta avviando la procedura per la approvazione di una legge per la istituzione di una commissione d’inchiesta sulle disfunzioni della magistratura. Il suo testo finale, che presumibilmente sarà diverso da quello depositato dai relativi proponenti, dovrebbe accertare le degenerazioni del sistema giudiziario italiano per renderlo finalmente rapido, efficace e pienamente conforme ai principi costituzionali. Ciò non implica necessariamente che il Governo, e quindi la Ministra Cartabia, debbano rimanere estranei e passivi di fronte a questa iniziativa legislativa; anzi, un intervento di mediazione tra gli opposti interessi potrà risultare al momento opportuno non solo auspicabile, ma addirittura necessario per evitare possibili ma negativi contraccolpi sul piano istituzionale. La Giustizia fa acqua ma nessuno interviene di Carlo Valentini Italia Oggi, 4 maggio 2021 Quante volte abbiamo ascoltato ovvie disquisizioni sul fatto che la giustizia sia uno dei pilastri su cui si fonda una democrazia? A una giustizia malata corrisponde una società in cattiva salute. Perciò sorprende che un tassello tanto delicato della vita civile inanelli una serie di cadute rovinose senza che si cerchi di rimettere in sesto il paziente agonizzante, nonostante al capezzale vi siano istituzionalmente il presidente della Repubblica, il ministro alla Giustizia e il suo presidente del Consiglio. Neppure un siffatto gotha (con protagonisti che si sono avvicendati negli anni) è riuscito finora a trovare il bandolo della matassa. Il bello è che tutti concordano che si tratta di una riforma indispensabile. Che però non esce dal cassetto. I danni, materiali e morali, sono gravissimi. Le iniziative imprenditoriali si ritrovano spesso con le ali tarpate, gli investitori stranieri sono disincentivati a operare, i cittadini non trovano una giusta conclusione alle loro controversie, si producono falle nell’argine alla piccola e grande criminalità, gli intrecci con la politica sprigionano veleni. Si è andata così riducendo al minimo la fiducia in un sistema che nell’antica Grecia era affidato addirittura a una dea, Dike, rappresentata con la bilancia in mano per proteggere i giusti, punire gli ingiusti e mantenere l’ordine. Luca Palamara, ex membro del Csm ed ex presidente dell’Anm, indagato per corruzione e per questo intercettato mentre in combutta con le correnti interne alla magistratura e con la politica gestiva carriere e trasferimenti, è stato espulso ma tutto s’è fermato lì. In queste settimane è la volta dell’avvocato Piero Amara, o meglio dei verbali dei suoi interrogatori (indagato per depistaggi e corruzione di giudici) consegnati da uno dei pm a Piercamillo Davigo (era consigliere del Csm) e che poi sono stati distribuiti in forma anonima ad alcuni giornali. Ci sono dubbi sulla veridicità delle deposizioni dell’avvocato (che parla di una loggia massonica in cui si sarebbero ritrovati magistrati e politici) ma il tentativo del loro uso mediatico coinvolge una parte della magistratura. Se il sistema fa acqua non c’è da stupirsi neppure del magistrato milanese travolto dai debiti (s’è messo in aspettativa) o di quello barese (arrestato) che per soldi liberava i mafiosi. Magagne e infedeltà possono succedere, quello che è inammissibile è che non vi si ponga rimedio. A luglio saranno due anni, passati inutilmente, dal caso Palamara. La commissione su toghe e politica? Che bella, inutile, idea… di Aldo Varano Il Dubbio, 4 maggio 2021 La maggioranza si divide sulla commissione d’inchiesta che deve indagare su magistratura e politica. Ma le commissioni parlamentari non hanno mai, mai, mai risolto nulla. Prosegue, anche se comincia a prendere colpi come fosse già stanco, il dibattito sulla richiesta d’istituire di una Commissione parlamentare d’indagine sulla magistratura per uscire dal caos crescente in cui s’è ficcata. Caos esaltato dal doppio pugno in faccia dei casi Palamara e Amara, ma già evidente da molto tempo con tendenza al peggioramento. A sostegno della Commissione sono intervenuti giuristi prestigiosissimi come Cassese (sul Corsera) e politici con lunga esperienza parlamentare come l’avvocato Giuseppe Gargani (sul Dubbio). Ma non sfugge a nessuno che la proposta, apparsa ormai su molti giornali, sia mescolata a una stanchezza che nasconde male la convinzione che anche questa volta, pur di fronte a una crisi verticale e inquietante, potrebbe non farsene nulla. Sia chiaro, una Commissione parlamentare è sempre legittima. Ma, purtroppo è altrettanto noto e storicamente verificato che quasi sempre è inutile. Sulle circa novanta Commissioni, di Camera, Senato e/o Bicamerali, che abbiamo conosciuto dalla nascita della Repubblica pochissime hanno lasciato tracce decisive sui temi affrontati se si escludono montagne di documenti, spesso preziosi per storici e studiosi ma mai utilizzati per risolvere i problemi in discussione. Ogni Commissione si è conclusa (quando si è conclusa: il fine legislatura, talvolta improvviso, ne decreta comunque la fine e l’automatico scioglimento) con un documento di maggioranza e uno di minoranza dove gli estensori consegnano ai posteri (che difficilmente andranno a leggerle), le proprie posizioni politiche e culturali sull’argomento trattato. E se è vero che ci sono stati casi di Commissioni utilissime che hanno inciso sulla storia del paese facilitando soluzioni e strategie politiche di ampio respiro, come le Commissioni “Sulla disoccupazione”, “Sulla miseria”, “Sulle condizioni dei lavoratori” (rispettivamente di Camera, Senato e Bicamerale) tutte tra il 51 e il 52 del secolo scorso) non si ricordano molti altri analoghi casi positivi. Le Commissioni su P2, disastro del Vajont, terrorismo e stragi, delitto Moro e altre decine ancora hanno lasciato tracce interessanti, ma non hanno mai offerto soluzioni. Un caso a parte è poi quello della Commissione parlamentare antimafia che viene ininterrottamente rieletta a ogni inizio di legislatura diventata appannaggio di politici sul viale del tramonto. Giuseppe Pisanu non può far più il ministro dell’Interno di Fi? Diventerà Presidente della Commissione dell’Antimafia sostituendo Francesco Forgione, Bertinottiano doc eletto per uno strapuntino a Rifondazione comunista. Dopo, avendole giurato guerra Matteo Renzi che pose un veto a qualsiasi suo ingresso al governo, l’Antimafia verrà rifilata a Rosy Bindi. Avrà come successore l’on. Morra del M5s, lì spedito per bloccargli l’aspirazione a ministro dell’istruzione. Diego Gambetta, uno dei più autorevoli studiosi di mafia del Novecento, firmando da Oxford la prefazione a una sua ristampa della Mafia Siciliana (Einaudi) già nel 1993, dopo aver salvato la presidenza di Violante, avvertiva: “Si ha l’impressione che questo istituto, di cui pure fecero parte Cesare Terranova e Pio La Torre, che hanno pagato con la vita la lotta alla mafia, sia servito come una palestra in cui le forze al governo permettevano all’opposizione di sinistra di menare pugni antimafia purché rigorosamente nel vuoto”. Insomma, pare sbagliato pensare che una commissione d’inchiesta sulla magistratura, possa risolvere il problema. O interviene direttamente il legittimo potere della politica o la questione continuerà ad aggrovigliarsi sempre più. Perantoni (M5S): “Commissione non potrà essere tribunale sui giudici in stile inquisizione” di Liana Milella La Repubblica, 4 maggio 2021 Mentre oggi si apre la partita sugli emendamenti al processo penale, il presidente M5S della commissione Giustizia della Camera respinge le accuse del centrodestra per aver scelto Stefano Ceccanti del Pd e Federico Conte di Leu come relatori. “La commissione d’inchiesta sulla magistratura non può diventare un tribunale politico. E né io, né Brescia abbiamo fatto politica scegliendo i due relatori”. Il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni, esponente di M5S, rimanda al mittente le accuse del centrodestra per aver scelto assieme al presidente della commissione Affari costituzionali della Camera Giuseppe Brescia, anche lui di M5S, i deputati Stefano Ceccanti del Pd e Federico Conte di Leu come relatori della futura commissione. E sugli obiettivi che avrà Perantoni è netto: “Non può diventare un tribunale in stile Inquisizione sul lavoro dei giudici”. E il caso Amara? “Mi auguro proprio che non venga usato per creare dissidi nella maggioranza”. Per una coincidenza parte proprio oggi, nella sua commissione, il confronto sulla riforma del processo penale. Saranno presentati gli emendamenti e decollerà la grande trattativa sulla giustizia, dalla prescrizione ai tempi del processo alle garanzie per gli imputati, che vede la ministra Marta Cartabia come figura di mediazione. L’impressione dall’esterno però è che la maggioranza sia fortemente divisa, come dimostra la querelle sulla commissione d’inchiesta sulla magistratura... “Effettivamente c’è una grande diversità di vedute e di approccio nella maggioranza. Perché un arco politico che va da Leu alla Lega non può avere una visione omogenea sui punti della riforma. È evidente che un risultato si può raggiungere perché c’è un arbitro come la Cartabia che riuscirà a raggiungere una sintesi politicamente accettabile tra le varie tendenze”. Oggi è davvero possibilista su un risultato positivo? “Me lo auguro, perché se si raggiunge questo risultato in questo momento, presumibilmente potremo giungere non dico a una pacificazione sulla giustizia, ma almeno a mettere uno stop alle polemiche per un po’ di tempo”. Proprio per le difficoltà che ci sono, era proprio necessario inasprire gli animi con la scelta dei due capigruppo di Pd e Leu per la commissione d’inchiesta? “Non credo proprio che siamo stati io e Brescia a inasprire gli animi. Semmai lo ha fatto quella parte della maggioranza che ha insistito per calendarizzare una proposta divisiva come quella della Gelmini sulla commissione d’inchiesta sulla magistratura”. Questa è una maggioranza molto composita e con posizioni del tutto opposte sulla giustizia. Per dirla con un’immagine, c’è Giulia Bongiorno ma c’è anche Alfonso Bonafede. E proprio Pd e M5S erano contrari alla commissione. “Bisogna chiarire i termini della questione. Pd, M5S e tutti i partiti non hanno espresso alcuna contrarietà su una commissione d’inchiesta sul caso Palamara, cioè su fatti determinati e precisi. Invece questa è una commissione d’inchiesta sull’uso politico della giustizia. Che è tutt’altra cosa. Perché una cosa è dire indaghiamo su un fatto, un’altra è un potere dello Stato che indaga su un altro potere, con il rischio, messo nero su bianco, di un conflitto tra poteri dello Stato”. È stato evidente sin dall’inizio che questa commissione sarebbe divisiva... “No, non lo era la proposta di una commissione sul caso Palamara, ma la divisione è nata sul testo della Gelmini, in cui Palamara è citato solo incidentalmente nella relazione. Le parole contano, non è pignoleria”. Lei sta dicendo che il centrodestra vuole aprire un processo contro tutta la magistratura? “Presentare una proposta di legge sull’uso politico della giustizia equivale proprio a perseguire questo scopo”. Lei e Brescia però, come presidenti delle due commissioni, avete un ruolo istituzionale oltre che politico. Per una coincidenza siete tutti e due di M5S. Scegliere un relatore del Pd e uno di Leu non significa dare un schiaffo a un pezzo della maggioranza? “Sono assolutamente convinto che tutte le forze politiche hanno pari dignità, quindi non intendo dare uno schiaffo a chicchessia. In armonia con la discussione che c’è stata in commissione, in cui tutti i gruppi hanno convenuto sul fatto che la commissione dovesse occuparsi del caso Palamara, abbiamo scelto due relatori che potessero rappresentare al meglio la commissione e fare un lavoro di sintesi più efficace rispetto a quello che avrebbero potuto fare altri. Tant’è che non ci sono relatori M5S”. Considerato il clima difficile e il momento particolare per i provvedimenti che dovranno fare da spalla al Recovery non sarebbe stato meglio scegliere un esponente della sinistra e uno della destra? Avete considerato questa ipotesi? “Con Brescia abbiamo fatto valutazioni a 360 gradi e siamo giunti alla conclusione che i due relatori scelti rappresentano una garanzia per tutti i gruppi politici perché sono estremamente competenti e quindi saranno perfettamente in grado di assicurare equilibrio e la ricerca della sintesi necessaria sia per la commissione che per gruppi stessi”. Politicamente questa scelta non rischia di spaccare la maggioranza in vista di provvedimenti così delicati? “Operiamo su piani del tutto diversi. Qui stiamo parlando di una proposta di legge di iniziativa parlamentare, mentre gli altri provvedimenti riguardano la maggioranza, e quindi si viaggia su piani diversi. La responsabilità sul percorso delle riforme è differente rispetto alle dinamiche delle proposte di legge parlamentari”. La decisione di far partire la legge sulla commissione d’inchiesta cammina parallela al nuovo caso che si è aperto al Csm sui verbali di un pentito come Amara che parla di una loggia massonica. Questa coincidenza non rischia di acuire ancora di più lo scontro tra politica e magistratura? “Il caso Amara è ancora sulla carta perché va verificato se e in quale misura le sue affermazioni siano fondate. Se questo argomento, seppure molto grave, dovesse essere usato politicamente per far venir meno la coesione della maggioranza è evidente che si creeranno dissidi ancora maggiori tra le forze politiche. Ma mi auguro che ciò non avvenga proprio in vista delle riforme che stiamo poter affrontare”. Invece, anche leggendo dichiarazioni come quelle del forzista Gasparri, l’impressione è che la commissione d’inchiesta potrà diventare una sorta di tribunale politico rispetto all’azione della magistratura. “Non può assolutamente diventare questo. Non potrà che essere una commissione che indagherà solo su fatti determinati, altrimenti qui andiamo a riaprire il processo a Sacco e Vanzetti”. “Dossieraggio contro Ardita, qualcuno vuole condizionare la magistratura” di Simona Musco Il Dubbio, 4 maggio 2021 Caos Csm, l’accusa di Autonomia & Indipendenza: chi ha spinto il “corvo” a rendere pubblici i verbali? Un atto “illegale” e “vile”. Il coordinamento di Autonomia & Indipendenza, la corrente di magistrati creata da Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, etichetta così il dossieraggio interno al Csm, che ha portato nei giorni scorsi ad un’indagine a carico di un’impiegata (ora sospesa) del Csm, Marcella Contrafatto, prima membro della segreteria dell’allora consigliere Davigo e fino a qualche giorno fa in forza alla squadra del laico M5S Fulvio Gigliotti. Un complotto, secondo A&I, che avrebbe come obiettivo proprio Ardita. Una sorta di regolamento di conti, con lo scopo di “confinare finalmente il potere giudiziario in un angolo inoffensivo”. La vicenda, si legge in una nota dai toni tutt’altro che sobri, riporta indietro nel tempo, ad un passato “durante il quale i migliori uomini di questa istituzione venivano calunniati, fatti oggetto di oscuri dossieraggi, isolati e purtroppo anche uccisi. Si trattava - ricordano le toghe - di condotte atte a garantire a poteri oscuri, annidati nei gangli delle istituzioni di questo paese, di agire indisturbati per condizionarne le scelte e i destini”. Ad indicare nome e cognome della vittima è Alessandra Tasciotti, esponente del gruppo di Coordinamento e membro del direttivo dell’Anm. “È indubbio che vittima di questo dossieraggio è, tra gli altri, il consigliere del Csm Sebastiano Ardita - ha dichiarato. La sua storia professionale parla per lui”. Il fatto ormai è noto: il pm Paolo Storari, sostituto procuratore di Milano, ha consegnato all’allora consigliere del Csm Davigo alcuni verbali in formato word, contenenti le dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara, ascoltato nell’inchiesta sul presunto depistaggio ai danni del processo a carico di Eni sul giacimento nigeriano Opl245, conclusosi qualche settimana fa con l’assoluzione dei vertici della società. Verbali segreti, redatti a fine 2019, nei quali Amara racconta dell’esistenza di una presunta loggia segreta, denominata “Ungheria”, della quale farebbero parte magistrati, politici, ufficiali delle forze dell’ordine e vertici delle istituzioni. Centinaia di persone, unite dagli stessi interessi e, soprattutto, intenzionate a gestire le nomine a proprio piacimento. Tra queste, dunque, anche Ardita, che però avrebbe già smentito tutto davanti al procuratore di Perugia Raffaele Cantone. Il punto, ora, è capire chi e perché abbia voluto colpire Ardita. I verbali, infatti, sono stati inviati anonimamente a Repubblica e Fatto Quotidiano, con lo scopo di rendere pubbliche le informazioni contenute in esse. E se è vero, come ipotizza la procura di Roma, che a spedirli è stata Contrafatto, rimane da chiarire a nome e per conto di chi ha inviato quegli atti, violando il segreto istruttorio. Ma c’è anche un altro interrogativo: poteva Storari consegnare quei documenti a Davigo? Sembrerebbe di no: il Consiglio superiore della magistratura, infatti, “opera soltanto sulla base di atti formali e secondo procedure codificate, essendo qualsiasi suo intervento inibito a fronte di atti non identificabili come la sommaria comunicazione verbale da parte dell’allora consigliere Piercamillo Davigo in merito a indagini della procura di Milano”, riferiscono fonti del Csm, secondo le quali, “in presenza di notizie in sé irricevibili perché estranee ai canali formali e istituzionali, ogni iniziativa del Csm sarebbe stata scorretta e avrebbe potuto amplificare voci non riscontrabili”. I fatti - La vicenda inizia a dicembre 2019. Storari, che raccoglie le dichiarazioni di Amara assieme alla collega Laura Pedio, non è contento di come la procura di Milano gestisce la vicenda. Convinto di un eccessivo lassismo e intenzionato ad iscrivere i primi nomi sul registro degli indagati, incalza il procuratore Francesco Greco per velocizzare l’indagine e accertare se quanto dichiarato da Amara sia vero o falso. Tra fine 2019 e inizio 2020, dunque, Storari invia una decina di mail ai vertici dell’ufficio, sostenendo la necessità di fare in fretta e iniziare ad indagare. Richieste che rimangono inevase, stando al racconto di Storari. Che in primavera decide, così, di consegnare tutto in mano a Davigo, con lo scopo di informare il comitato di presidenza e tutelarsi in caso di azioni disciplinari. Si tratta, dunque, dell’anteprima di quegli scontri registrati all’interno del Palazzo di Giustizia a marzo scorso, al termine del processo contro Eni. La consegna a Davigo - Secondo quanto sostenuto ieri dal Corriere della Sera, l’ex pm di Mani Pulite avrebbe consegnato quei verbali anche al vicepresidente del Csm, David Ermini. “Quello che ho da dire lo dirò, prima, nelle sedi istituzionali in cui verrò ascoltato”, ha sottolineato Davigo, che nei prossimi giorni verrà sentito dalla Procura per chiarire come mai quei file fossero nel computer della sua segretaria. Ermini, dopo aver affermato di essere stato solo “marginalmente” informato da Davigo, ha poi affermato che lo stesso gli parlò della vicenda in più colloqui. Solo ad un certo punto, dunque, avrebbe compreso che Davigo era in possesso dei verbali secretati. L’ex pm di Mani Pulite informa anche il procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi, titolato a interloquire con le Procure su indagini in corso, e a maggio 2020 ne parla con il presidente della Cassazione Pietro Curzio. Nessuno dei due, però, sarebbe stato a conoscenza del fatto che Davigo avesse i verbali. Quel che è certo, dunque, è che da dicembre 2019 a maggio 2020 nessuno ha svolto alcuna indagine a riscontro di quanto affermato da Amara sulla loggia “Ungheria”. Tutto regolare, secondo l’ex pm - Sul passaggio di verbali segreti dalla Procura al Csm, Davigo è chiaro: “Il segreto non è opponibile ai consiglieri del Csm”. E dà ragione a Storari: “Cosa deve fare un pm se non gli fanno fare ciò che deve, cioè iscrivere la notizia di reato e fare le indagini per sapere se è fondata?”. Il ritardo della Procura di Milano è infatti, secondo l’ex pm, “non conforme alle disposizioni normative”. Storari sostiene di aver seguito la procedura prevista da una circolare del Csm risalente al 1994, secondo la quale “il pubblico ministero che procede deve dare immediata comunicazione al Consiglio con plico riservato al Comitato di Presidenza di tutte le notizie di reato nonché di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio”. La regola, spiega un membro del Consiglio, prevede però che per investire il Csm di qualsiasi comunicazione o richiesta la stessa vada trasmessa al Comitato di presidenza. Una vicenda parallela a quella che riguarda il caso Palamara-Fava: all’epoca Stefano Fava, in forza alla procura di Roma, aveva presentato un esposto contro il procuratore Giuseppe Pignatone, sostenendo la necessità di approfondire le dichiarazioni di Amara. Interpellato da Fava, Palamara suggerì al collega di presentare un esposto in prima commissione, che ha il compito di esaminare gli esposti contro i magistrati. Ma quell’esposto rimase senza risposta. Tornando ai verbali di Amara, della questione viene investito anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il fascicolo d’indagine, intanto, viene aperto a maggio 2020, quando la Procura dispone l’iscrizione di tre persone sul registro degli indagati per l’ipotesi di associazione segreta. Ovvero poco dopo che Salvi informa il procuratore di Milano, il quale “il 16 giugno” riferisce “per grandi linee le iniziative assunte”. L’indagine a Milano - Il 9 maggio 2020, dunque, la Procura di Milano iscrive per associazione segreta Amara, il suo ex collaboratore Alessandro Ferraro e il suo ex socio Giuseppe Calafiore. Il fascicolo, a dicembre scorso, viene poi trasmesso per competenza alla Procura di Perugia, dopo una riunione dopo l’estate con Raffaele Cantone. Greco, intanto, sta preparando una relazione per riscostruire la vicenda, relazione che potrebbe arrivare anche al Csm in vista di eventuale procedimento sulla vicenda. Secondo quanto sostiene la Procura, dopo i verbali di Amara sarebbero stati fatti diversi accertamenti, coordinati dal procuratore aggiunto Laura Pedio e dal procuratore Francesco Greco, per verificare le dichiarazioni dell’avvocato siciliano. Un’altra indagine sarebbe stata poi avviata per comprendere come l’ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, indagato e grande accusatore nel processo Eni Nigeria, sia entrato in possesso di alcune pagine dei verbali secretati, dei quali ha chiesto conto ai pm Storari e Pedio nel corso di un interrogatorio. L’indagine sulla loggia “Ungheria” è ora in mano a Cantone, che a settembre, assieme a Greco, ha interrogato Amara a Perugia, prima del passaggio, a gennaio 2021, dell’intero fascicolo a Perugia. Le carte finiscono ai giornali - Ad ottobre del 2020, intanto, Davigo va in pensione. Ed esattamente due mesi dopo, a dicembre, i verbali consegnati da Storari vengono inviati a Repubblica e Fatto quotidiano, che decidono, però, di informare le procure di Roma e Milano per evitare strumentalizzazioni. Un terzo plico viene inviato al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ne parla con Ardita e consegna tutto alla Procura di Perugia, titolare del caso Palamara e competente per le indagini sui magistrati di Roma. E la bomba scoppia quando, nel corso del plenum della scorsa settimana, Di Matteo svela tutto ai colleghi, parlando di vere e proprie “calunnie” ai danni di un collega (Ardita) e denunciando un possibile “tentativo di condizionamento dell’attività del consiglio”. Così come Ermini parla di “opera di delegittimazione e condizionamento tesa ad alimentare la sfiducia dei cittadini nei confronti della magistratura” e ribadendo l’estraneità del Csm ai fatti in questione. Intanto la Procura di Brescia sta acquisendo notizie e informazioni su quanto avvenuto a Milano. Il fascicolo conoscitivo, spiega il procuratore Francesco Prete, non è ancora formalmente aperto, ma è questione di giorni. Articolo 101: “Sciogliamo il Csm” - I componenti della corrente ribelle, Articolo 101, chiedono intanto lo scioglimento del Csm, “per ridare credibilità alla giustizia”. E ciò perché il Csm ormai sarebbe “un ambiente da tempo inquinato dall’acquisizione privata di atti giudiziari segreti relativi a fosche vicende e dalla circolazione irrituale e de-formalizzata di notizie relative a tali vicende, aggravano ulteriormente la situazione. È così ancor più evidente che sono venute meno le condizioni minime del normale funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura nella sua attuale composizione. Riteniamo, dunque, che lo scioglimento di questo Csm sia la via obbligata per il ripristino della normale funzionalità dell’organo e, al contempo, la condizione indispensabile per ridare un minimo di credibilità e autorevolezza al complesso delle istituzioni giudiziarie”. L’avvocato di Amara: “Il mio assistito è credibile” - Interpellato dal Dubbio, Salvino Mondello, difensore di Amara, ribadisce la credibilità del suo assistito. “I soggetti accusati da Amara sono sempre stati condannati e quindi la sua attendibilità è sempre stata riscontrata - spiega. Chi dice oggi che non è un soggetto credibile è mosso da una volontà di screditare che non aderisce al vero”. Mondello non è attualmente in possesso dei verbali incriminati. Ma la sua impressione è che la procedura seguita da Storari non sia del tutto corretta, a livello formale. “La circolazione dei verbali - dice con riferimento alle pubblicazioni di stampa - è illecita, in quanto secretati. Al punto che nemmeno io ne avevo copia come difensore. Se quanto spiegato dai giornali sulla consegna dei verbali a Davigo risponde al vero, è un comportamento che mi pare al di fuori di qualunque norma ordinamentale”. Secondo Mondello, i tempi della Procura per accertare se la vicenda Ungheria abbia abbia i connotati previsti dalla legge Anselmi non sarebbero anomali. “Ma in caso, sarebbe stato doveroso fare un esposto formale”, sottolinea. Per quanto riguarda le dichiarazioni di Amara, “ha riferito un insieme di fatti che vanno necessariamente verificati. Io ritengo che dica la verità, nei limiti di quel che conosce, e qualche riscontro c’è già”. Per quanto riguarda la cosiddetta loggia Ungheria - della quale il Gran maestro del Grande Oriente Stefano Bisi disconosce l’esistenza - “si tratta di cose che ha appreso direttamente. Si tratta di legami e relazioni indiscutibili, se poi queste hanno i connotati dell’associazione segreta sarà compito della Procura accertarlo. L’unica cosa che però voglio ribadire è che, finora, è sempre stato ritenuto credibile”. Lombardia. Il 60% dei detenuti ha ricevuto il vaccino Covid milanotoday.it, 4 maggio 2021 I contagi da Covid negli istituti penitenziari lombardi sono sotto controllo. Lo spiega Letizia Moratti, vicepresidente e assessore al Welfare di Regione Lombardia. Ad oggi, su 7.700 detenuti, tutti asintomatici, 28 risultano positivi. “Regione Lombardia in ambito penitenziario - dice Letizia Moratti - ha utilizzato azioni di diagnosi e contact tracing molto avanzate. Esse hanno consentito un immediato avvio della campagna vaccinale”. La campagna infatti procede in modo efficace. Oltre il 60% dei detenuti ha ricevuto la prima dose, con punte dell’80% in istituti strategici come: Milano Opera, San Vittore, Bollate, Monza, Brescia. Sono invece circa il 30% quelli che hanno ricevuto anche la seconda dose. Al carcere San Vittore il tampone salivare - Inoltre a San Vittore, a Milano, in via sperimentale, è stato testato l’utilizzo dei tamponi salivari. Un’indagine condotta in collaborazione col gruppo di lavoro del professor Gianvincenzo Zuccotti, preside della facoltà di Medicina dell’Università Statale di Milano. I risultati presentati per la pubblicazione alla rivista ‘Frontiers in Public Health’ hanno mostrato un’affidabilità del 98-99%. “Era importante porre la massima attenzione all’interno di strutture come le carceri - conclude Letizia Moratti - per evitare la diffusione del virus e l’insorgere di pericolosi focolai. Regione Lombardia l’ha fatto, da una parte attraverso un’azione di monitoraggio e di contact tracing con i tamponi; dall’altra procedendo alla vaccinazione del personale di Polizia penitenziaria e detenuti con percentuali significative”. Reggio Calabria. Chiesto il rinvio a giudizio per la morte in carcere di Roberto Jerinò di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 maggio 2021 Un medico del carcere e il direttore dell’Unità di Neuroradiologia dell’ospedale avrebbero omesso di prestare assistenza sanitaria a Roberto Jerinò. La procura di Reggio Calabria ha chiesto il rinvio a giudizio e il Gup ha fissato per il 25 maggio l’udienza preliminare nei confronti di un medico e del direttore facente funzione dell’Unità operativa di Neuroradiologia. Riguarda la morte di Roberto Jerinò, detenuto al carcere calabrese di Arghillà e morto a dicembre del 2014 presso l’ospedale di Reggio Calabria. L’iter giudiziario è stato tortuoso. Tra richieste di archiviazioni, opposizioni presentate dagli avvocati dei famigliari di Jerinò e il gip che dispose la riapertura delle indagini, siamo arrivati alla richiesta di rinvio a giudizio per i due sanitari per il reato di omissione d’atti d’ufficio in quanto il medico in servizio presso la struttura penitenziaria di “Arghillà”, e l’ altro indagato quale direttore facente funzione dell’Unità di Neuroradiologia dell’azienda Ospedaliera B.M.M., avrebbero “omesso” “di adottare un atto dovuto” del rispettivo ufficio “che doveva essere compiuto senza ritardo non prestando la necessaria assistenza sanitaria al detenuto Roberto Domenico Jerinò”. Il medico ometteva di disporre il suo immediato ricovero - Nello specifico, il medico in servizio presso il carcere di Arghillà - si legge nella richiesta di rinvio a giudizio -, “in data 14.12.2014, dopo avere sottoposto a visita, alle ore 14:15 ed alle ore 18:00 Jerinò, che gli riferiva difficoltà deambulatorie e tremori agli arti inferiori”, con successivi episodi di “nausea”: “ometteva di disporre il suo immediato e urgente ricovero in ospedale, nonostante i sintomi rappresentati, i precedenti anamnestici patologici prossimi e le importanti comorbolità del detenuto, ritardando così il tempestivo e specifico intervento sanitario sul detenuto che veniva rinvenuto il giorno dopo nel letto della propria cella privo di coscienza e trasportato all’ospedale con ambulanza del 118, ivi giungeva alle ore 13:45 del 15.12.2014 in grave stato di coma da ischemia cerebrale in imminente pericolo di vita aggravandosi, fino alla data del decesso avvenuto il 23.12.2014”. Il direttore di Neuroradiologia ometteva di dare positivo riscontro alle richieste di tac con Mdc - Nei confronti dell’altro indagato, si legge sempre nella richiesta di rinvio a giudizio, la Procura rileva che: “Dopo aver ricevuto dal direttore sanitario della Casa Circondariale “Arghillà” la richiesta del 5.11.2014 di esecuzione con urgenza della Tac con Mdc sul detenuto Jerinò, esame peraltro prescritto dagli stessi sanitari del nosocomio in data 3.11.2014, e nonostante i successivi solleciti inoltrati dal direttore della Casa Circondariale ad effettuare urgentemente detto esame strumentale, ometteva di dare positivo riscontro alle plurime richieste di effettuazione dell’esame tac con Mdc sul detenuto, sottoponendolo all’esame tac cranico con Mcd solo in data 9.12.2014, così ritardando gli opportuni e necessari interventi sanitari di oltre un mese”. Parliamo di una delle tante, troppe brutte storie, che possiamo definire di “ordinaria amministrazione”. Parliamo del diritto alla salute violato in carcere. Jerinò ebbe un’ischemia e rigettarono la richiesta di domiciliari - L’allora sessantenne Jerinò, durante la detenzione, cadde per terra perché la sua gamba perse la memoria dei movimenti, poi il braccio e infine la bocca. Venne portato di corsa in ospedale: ischemia, fu la diagnosi, con paresi facciale degli arti. L’avvocato, come logico, chiese la concessione dei domiciliari. Rigettato. Subito riportato in carcere, nonostante la diagnosi. Secondo la testimonianza di alcuni detenuti, alle 3 di notte del 12 dicembre del 2014, Roberto sentì assottigliarsi e allargarsi una vena in testa; era un movimento continuo, lievemente doloroso. Chiamò un suo compagno di cella chiedendogli una camomilla; credeva avesse bisogno di tranquillizzarsi. Non riuscì a dormire quella notte. La mattina si segnò in elenco per l’infermeria: gli misurarono la pressione, nessuna anomalia. Fu così per l’intera giornata: un dolore costante, ritmato; la pressione era stabile. Il 13, tutto uguale: dolore e pressione, stabili. Non facevano altro che misurargli la pressione e riportarlo in cella. Stava impazzendo Jerinò, sentiva quella vena come se fosse una sanguisuga. Lamentava dolore. Dopo aver trascorso tre giorni di lamenti, e richieste di soccorso, rimase paralizzato nel letto. Lo portarono in ospedale che era già in coma. Non si risvegliò più. Morì il 23 dicembre del 2014. Cassino (Fr). Mistero nel carcere per giovane detenuto morto dopo un’iniezione di Clementa Pistilli La Repubblica, 4 maggio 2021 A insospettire i familiari del 32enne Mimmo D’Innocenzo il foro di una siringa che risale a 24 ore prima del decesso. Secondo un testimone un altro detenuto avrebbe ceduto alla vittima una dose di Subotex, una sostanza simile al metadone. Ci sono un detenuto sospettato di aver ceduto sostanze stupefacenti alla vittima, un medico e un’infermiera che gli inquirenti ritengono non abbiano detto la verità su quanto accaduto prima del dramma, testimonianze contrastanti e accuse, persino il registro dell’infermeria del carcere sparito, ma per la Procura della Repubblica di Cassino si tratta di tanti indizi che non fanno una prova. Sulla morte di Mimmo D’Innocenzo, 32 anni, romano di Pietralata, avvenuta il 27 aprile del 2017 nella casa circondariale del basso Lazio, il sostituto procuratore Roberto Bulgarini Nomi ha chiesto l’archiviazione. Un giallo destinato a restare tale. A non arrendersi è però la mamma del 32enne, Alessandra Pasquire, che da tempo chiede verità e giustizia e che, tramite l’avvocato Giancarlo Vitelli, si è ora opposta alla richiesta della Procura. A decidere dovrà essere un gip. Il giovane romano all’età di 20 anni rimase vittima di un grave incidente motociclistico sulla Tiburtina e ottenne un risarcimento di 250mila euro. Finì ben presto nel tunnel della cocaina e, dopo aver tentato la strada del recupero in comunità, mise a segno una rapina in un supermercato. Condannato, finì in isolamento nel carcere di Cassino, dove quattro anni fa morì in circostanze mai chiarite. E qui inizia il giallo. Sulla salma del 32enne i consulenti medico legali del sostituto procuratore Bulgarini Nomi hanno trovato il foro di una siringa, stabilendo che alla vittima era stata fatta un’iniezione non più di 24 ore prima del dramma. La polizia penitenziaria ha quindi raccolto le confidenze di un detenuto, il quale ha riferito che un altro detenuto aveva ceduto a D’Innocenzo il Subotex, un farmaco equivalente al metadone, in cambio di sigarette, calando la sostanza stupefacente con una corda dalla cella sovrastante quella dove la vittima era in isolamento. Il detenuto aveva inoltre specificato che, dopo l’assunzione di quel medicinale, il 32enne era stato male. Il presunto responsabile della cessione del Subotex è stato quindi indagato con le accuse di spaccio e morte come conseguenza di altro delitto. Ipotesi che hanno preso corpo alla luce della stessa consulenza medico legale, in base alla quale il giovane era deceduto per “insufficienza cardiorespiratoria conseguente ad intossicazione acuta da sostanza esogena di tipo stupefacente”, ovvero da buprenofrina. Ed era stato ipotizzato pure che tale sostanza fosse stata somministrata endovena. Ma di siringhe nella cella del 32enne non era stata trovata traccia. Il 3 dicembre 2018 un colpo di scena. La madre di D’Innocenzo ha denunciato di aver ricevuto un inquietante messaggio da un detenuto: “So come è andata con Mimmo, gli hanno fatto una puntura la sera prima che morisse, da quel momento è stato sempre peggio e poi e morto”. Un assistente capo della polizia penitenziaria ha inoltre riferito agli investigatori del commissariato di Cassino, a cui il sostituto procuratore Bulgarini Nomi aveva delegato le indagini, che la sera prima del decesso aveva accompagnato D’Innocenzo in infermeria. Circostanza smentita sia dal medico di turno, successivamente trovato dalla Polizia di Roma in possesso di cocaina, che da un’infermiera, indagati entrambi con l’ipotesi di omicidio colposo. Del registro di entrata e uscita dall’infermeria relativo al mese di aprile 2017 non è stata tra l’altro trovata traccia. Sparito. Un altro detenuto ha poi riferito agli investigatori che il pomeriggio prima della tragedia D’Innocenzo era stato portato in infermeria e al rientro in cella gli aveva detto di aver strappato dalle mani di un’infermiera “una boccetta contenente un farmaco e di averne ingerito il contenuto”. Sentiti anche altri testimoni, il sostituto procuratore Bulgarini Nomi ha ritenuto che gli elementi non siano sufficienti a chiedere un processo. “L’attività di indagine - ha specificato il magistrato avanzando la richiesta di archiviazione - non consente allo stato di esercitare l’azione penale nei confronti degli indagati”. Ancora: “Pur essendo emersi elementi indiziari nei loro confronti, gli stessi elementi non sono sufficienti ai fini di un proficuo esercizio dell’azione penale”. La mamma della vittima non molla. Opponendosi all’archiviazione il legale della donna, l’avvocato Vitelli, ha battuto sulla piaga delle morti nelle carceri. “Sempre più spesso - ha sottolineato - si assiste ad episodi di morti nelle carceri con dinamiche mai pienamente chiarite o in circostanze sospette, che inevitabilmente diventano oggetto di riapertura di indagini”. La decisione sull’inchiesta relativa alla morte di D’Innocenzo spetta ora al giudice per le indagini preliminari. Alba (Cn). Confronto tra i soggetti coinvolti nell’avvio del progetto Casa Lavoro cuneodice.it, 4 maggio 2021 L’amministrazione comunale albese ha convocato l’incontro lo scorso venerdì 30 aprile. Presente anche il garante regionale dei detenuti Mellano. L’amministrazione albese ha convocato venerdì 30 aprile un primo incontro di confronto tra tutti i soggetti coinvolti a vario titolo nell’imminente apertura della Casa Lavoro all’interno del carcere albese G. Montalto. Alla riunione erano presenti, oltre al sindaco Carlo Bo e all’assessore alle Politiche sociali Elisa Boschiazzo, Catia Taraschi, responsabile Ufficio detenuti e trattamento Prap Piemonte-Liguria-Valle d’Aosta, Domenico Arena, direttore Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna, Laura Bottero, direttore Ufficio Esecuzione Penale Esterna Cuneo, Bruno Mellano, Garante regionale dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, Alessandro Prandi, Garante comunale dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, Marco Bertoluzzo, direttore Consorzio socio-assistenziale Alba Langhe Roero, Giuseppina Piscioneri, direttore Casa di reclusione G. Montalto, con le educatrici del carcere Valentina Danzuso e Samantha Tedeschi e l’Ispettore capo della Polizia penitenziaria Alessandro Chiavazza. Per il terzo settore sono intervenuti Domenico Albesano, presidente Associazione Arcobaleno, Elena Saglietti e Daniela Chiesa, rispettivamente presidente e operatore area Servizi lavoro Consorzio Cooperative Sociali Cis, Pier Mario Guia e Claudia Ducange, direttore e project manager Casa di Carità, Arti e Mestieri. Tutti gli attori - anche quelli che non hanno potuto presenziare tra cui l’Asl Cn2 e Cpia 2 Cn Alba Mondovì - hanno manifestato la volontà di collaborare alla riuscita del progetto. La riunione è stata organizzata dopo l’incontro avvenuto alcune settimane fa in Comune con Pierpaolo d’Andria, Provveditore di Piemonte-Liguria-Valle d’Aosta del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Oltre ad annunciare l’avvio dei lavori di ristrutturazione del carcere albese per il prossimo autunno, il Provveditore ha confermato l’intenzione di istituire una Casa Lavoro, con l’inserimento di alcune persone ora ospitate nella Casa circondariale di Biella. L’avvio del progetto è stato ipotizzato già nel mese di giugno. La maggior parte dei 43 detenuti della Casa di reclusione albese saranno trasferiti in altre strutture, fatta eccezione per una decina di persone addette ai servizi del carcere e alla gestione dei progetti agricoli. La Casa Lavoro accoglierà internati che hanno già scontato la pena, ma che sono ritenuti ancora socialmente pericolosi e quindi vincolati, prima di riottenere la libertà, a un ulteriore percorso riabilitativo. Il sindaco di Alba Carlo Bo e l’assessore alle Politiche sociali Elisa Boschiazzo: “Ringraziamo tutti per la disponibilità a collaborare fattivamente alla realizzazione della Casa Lavoro a cui è stata adibita la nostra struttura. Un progetto complesso e delicato, la cui buona riuscita è possibile solo attraverso il coinvolgimento e il lavoro di squadra tra realtà pubbliche e private, con l’obiettivo di mettere a punto percorsi di inclusione e reinserimento utili ed efficaci. Come Amministrazione abbiamo proposto di riunire il Tavolo periodicamente, sia per lavorare al meglio in rete sia per un monitoraggio costante del progetto”. “A partire da giugno - dichiara il Garante comunale Alessandro Prandi - la vocazione dell’istituto albese cambierà radicalmente; sarà totalmente dedicata a mettere le persone internate nella miglior condizione per dimostrare il venir meno della cosiddetta pericolosità sociale sancita dalla Magistratura di sorveglianza. Sull’adeguatezza dell’istituto di aderire a questa nuova mission si concentrerà in modo particolare l’attenzione del Garante. Quello di oggi è stato un primo importante momento di confronto che ha visto la partecipazione della maggior parte degli enti pubblici e del terzo settore interessati. Sono emersi spunti di riflessione e disponibilità che sarà determinante tenere in considerazione”. Siena. Il carcere al tempo del virus: oltre un anno di Covid-19 nella Casa circondariale di Margherita Marchini Gazzetta di Siena, 4 maggio 2021 La vita in carcere al tempo della pandemia. Sergio La Montagna, direttore della Casa Circondariale di Siena, racconta la struttura e fa il punto a oltre un anno dall’inizio dell’emergenza sanitaria. Più di un anno fa registravamo i primi, duri segnali dell’inizio dell’emergenza pandemica. Oltre un anno dalle prime chiusure e dalle iniziali paure, da quelle lunghe distanze e dalle innumerevoli misure prese che hanno così stravolto l’aspetto dei nostri luoghi e delle nostre vite da renderle irriconoscibili. Ma in questo anno, in cui l’isolamento ha fatto da padrone, qual è il volto del Covid-19 dietro le sbarre di un carcere? Quanto e come è cambiata la vita dentro le case di reclusione mentre l’emergenza sanitaria, fuori, ha messo in ginocchio l’intero pianeta? “Sin dall’inizio della pandemia sono state adottate, d’intesa con le autorità sanitarie locali, rigorose misure di prevenzione che hanno inciso in maniera significativa sulle abitudini di vita dei detenuti e sulle modalità di lavoro degli operatori penitenziari”. A parlare è Sergio La Montagna, direttore della Casa Circondariale senese che, nell’intervista a Gazzetta di Siena, racconta della struttura penitenziaria e dalla vita al suo interno ad un anno dall’inizio dell’emergenza sanitaria. “Nella Casa Circondariale di Siena è attualmente in corso la campagna vaccinale dei detenuti e degli operatori e, allo stesso tempo - specifica il direttore - continuiamo a mettere in pratica tutte le misure necessarie al contenimento del contagio: dal contingentamento degli accessi in Istituto, al ridotto dimensionamento degli ambienti comuni che sono oggetto di frequenti sanificazioni, fino agli screening di massa eseguiti periodicamente. In ossequio al vigente protocollo sanitario - continua La Montagna - tutti i detenuti che fanno ingresso nella nostra struttura sono posti in isolamento precauzionale per 10 giorni e vengono ammessi a vita in comune solo dopo che i tamponi molecolari cui vengono sottoposti all’inizio e alla fine del periodo di isolamento hanno dato esito negativo. Un ulteriore aspetto è quello degli incontri dei detenuti con i loro familiari che vengono modulati in base all’andamento epidemiologico: quando Regione Toscana è collocata in fascia rossa - dice il direttore - i colloqui non avvengono in presenza, ma esclusivamente a distanza mediante le videochiamate whatsapp”. Nella casa Circondariale di Siena, quello del presente è un tempo sospeso ma, al futuro, si guarda con la stessa tenacia di sempre. Non si ferma, infatti, lo sviluppo di attività pensate per dotare i detenuti di nuove competenze professionali favorendo il loro reinserimento una volta tornati in libertà. È il caso di ‘IN.SI.d.E - Interventi e soluzioni idraulici ed edili’, “il progetto formativo - specifica Sergio La Montagna - realizzato con il concorso finanziario dell’Unione Europea, della Repubblica Italiana e della Regione Toscana che prenderà il via a breve”. “Sono stati selezionati i 10 detenuti ammessi alla formazione professionale e al successivo stage pratico. Purtroppo - racconta il direttore - anche questa attività, come le altre di tipo rieducativo e finalizzate al reinserimento sociale, dovrà essere strutturata in relazione all’andamento epidemiologico e, almeno nella prima fase, si dovrebbe svolgere con lezioni a distanza, come sta accadendo per i corsi scolastici che da tempo si tengono in gran parte con questa modalità secondo le linee guida dettate dal Ministero dell’istruzione. ‘Inside’, ad ogni modo - afferma La Montagna - è un progetto che ha incontrato il favore dei partecipanti che sono pronti a cogliere con entusiasmo questa opportunità formativa che in futuro potrebbe anche tradursi in uno sbocco occupazionale”. “Tutte le attività culturali - continua il direttore della Casa Circondariale di Siena - hanno subito nell’ultimo anno una drastica riduzione ma non si sono mai interrotte del tutto. In particolare i corsi scolastici di tutti i livelli sono proseguiti, grazie all’encomiabile professionalità del corpo docente, alternando la didattica a distanza alle lezioni in presenza. Auspico una piena ripresa a breve anche delle altre attività: quelle pertinenti all’arte in generale come il teatro, la musica e la scrittura creativa che da marzo 2020 si sono svolte a fasi alterne, subendo un’inevitabile sospensione nei momenti in cui l’accesso in Istituto degli operatori volontari che gestiscono questi laboratori è stato precluso dalle disposizioni di legge emergenziali”. L’umanità, che in questi casi eccezionali resta fuori dal carcere, viene comunque ricordata dal direttore: “Il coinvolgimento della comunità esterna nel processo di rieducazione dei detenuti è uno dei tratti qualificanti la Casa Circondariale di Siena. La gran parte delle innumerevoli iniziative della nostra struttura, finalizzate al reinserimento sociale dei reclusi, ha preso corpo proprio grazie alla collaborazione di soggetti istituzionali terzi all’amministrazione penitenziaria. Parlo degli enti, delle associazioni di volontariato e persino di privati cittadini, senza dimenticare le Contrade - sottolinea Sergio La Montagna - il cui contributo ha suggellato l’osmosi tra il carcere e il contesto territoriale”. Firenze. I detenuti cucinano per i senzatetto gonews.it, 4 maggio 2021 I detenuti preparano il cibo per i senzatetto. Succede a Firenze, grazie alle attività sociali dell’istituto Madonnina del Grappa, la storica struttura religiosa, con sede nel capoluogo toscano, che si occupa di servizi di accoglienza. Nello specifico, quattro detenuti che scontano una pena alternativa a Casa Caciolle, una villa del Settecento dove si trovano i reclusi in uscita da Sollicciano, cucinano ogni sera in grandi quantità generi di prima necessità. Oltre trenta pasti al giorno nella cucina della struttura, con tanto di padelle e pentoloni, dove i reclusi si impegnano per aiutare chi si trova emarginato. “Ogni volta che cuciniamo per i senzatetto della città - racconta uno di loro - è come se fosse una terapia di redenzione che in qualche modo ci ricorda il nostro passato marginale e randagio, dove anche noi avremmo avuto bisogno di un pasto caldo”. Ogni sera intorno alle 20, il cibo preparato dai detenuti viene prelevato dalla Protezione Civile, della Misericordia e dalla Croce Rossa, che poi portano immediatamente il cibo ai senza dimora che vivono all’addiaccio sul territorio fiorentino. “Pensare che attraverso il nostro lavoro di volontariato possiamo aiutare i più bisognosi per noi è come una rinascita” dicono all’unisono i reclusi che vivono a Casa Caciolle. Che poi aggiungono: “In questo periodo di pandemia e sofferenza collettiva, essere partecipi di questo movimento di solidarietà è altrettanto importante per noi”. Promotore del progetto, come detto, è la Madonnina del Grappa. Spiega il presidente don Vincenzo Russo: “I detenuti che escono dal carcere spesso si trovano in condizioni peggiori di quando sono entrati perché durante la permanenza in cella non sono stati realizzati progetti di recupero socio professionale. Noi, a Casa Caciolle, ospitiamo i detenuti a fine pena che scontano pene alternative e li seguiamo in un percorso di reinserimento nella società anche attraverso opere di volontariato”. Napoli. Nisida è l’isola “che c’è” di Rossella Grasso Il Riformista, 4 maggio 2021 Nel carcere minorile i sogni possono diventare realtà attraverso il calcio. A Napoli c’è un’”isola che c’è”, non come quella di Peter Pan e dei suoi bambini smarriti. Sulla sua cima rocciosa c’è il carcere minorile di Nisida, un luogo dove non si guarda agli errori fatti, ma si cerca di trovare uno sprono a guardare avanti per creare un futuro migliore partendo dalle competenze e abilità di ciascuno. E anche da quello che più piace ai ragazzi come il calcio. Ed è proprio per questo motivo che è stato inaugurato un campo regolamentare di Calcio a 5, con annessi spogliatoi, per i giovani ristretti dell’Istituto Penale Minorile di Nisida. È il progetto realizzato nell’ambito del Piano Azione Giovani “Sicurezza e Legalità” - Linea di Intervento 1 “Sport e Legalità” del Ministero dell’Interno - Dipartimento Pubblica sicurezza, che ha come obiettivo la diffusione del rispetto delle regole e del fair play, dell’osservanza della disciplina e dell’adozione di comportamenti improntati alla legalità tra i giovani, attraverso la realizzazione di impianti sportivi in aree ad alto tasso di dispersione. Una cerimonia di inaugurazione del campo di gioco che ha assunto un significato e un messaggio forte per i ragazzi dell’Istituto Penale Minorile di Nisida con la presenza del Prefetto di Napoli Marco Valentini, accanto al Capo Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità Gemma Tuccillo, al Presidente del Tribunale dei Minori di Napoli Patrizia Esposito, al Magistrato di Sorveglianza del Tribunale dei Minori di Napoli Ornella Riccio, al Procuratore della Procura dei Minori Maria de Luzenberger e al direttore Gianluca Guida, quotidianamente impegnato in un luogo dove cerca dialogo e opportunità per gli ospiti dell’istituto. “Nisida è stato uno dei primi luoghi che ho visitato un anno fa, quando sono arrivato a Napoli - dichiara Marco Valentini -. Quello dei minori, in questa città, è un tema molto delicato e importante. Bisogna lavorare tanto proprio nella direzione del progetto che presentiamo questa mattina; un progetto che ha una dimensione comunitaria, perché realizzato con il coinvolgimento di realtà diverse, confluite in un’unica direzione. La consegna del campo di calcio a 5 e la formazione tecnica sono premesse di un bell’avvenire per i ragazzi e per chi lavora con i ragazzi”. Interpretando il calcio come espressione di vita sana e come sport che esercita un grande fascino sui ragazzi, il direttore Guida ha accolto con favore anche il progetto “Zona luce”, sviluppato dalla FIGC e dalla Fondazione Scholas Occurrentes, nell’ambito della collaborazione avviata nel 2020 per favorire attività finalizzate all’integrazione e alla riabilitazione per quelle categorie in condizioni di disagio o emarginazione. Un’iniziativa destinata agli operatori di polizia penitenziaria e ai detenuti del carcere minorile di Nisida, che si colloca all’interno della macro area Rete Social Football della Federazione, e si è articolata attraverso un percorso per la formazione di istruttori sportivi, con l’obiettivo di trasferire ai destinatari le necessarie competenze per poter proseguire un’attività nel mondo del calcio a fine pena. La parte più bella del progetto è che il corso di formazione è stato seguito insieme sia dai ragazzi sia dai poliziotti penitenziari. “Abbiamo veramente fatto squadra, ci siamo conosciuti e confrontati sotto una luce diversa. Siamo fieri di aver preso parte a questo progetto”, raccontano orgogliosi i poliziotti penitenziari. Dopo i dieci incontri, svolti sotto la guida dello staff tecnico FIGC-Scholas, attraverso un programma mirato e condiviso, e in piena sinergia con la struttura carceraria, ha avuto luogo la consegna degli attestati di partecipazione alla presenza di Vito Tisci, presidente del Settore Giovanile e Scolastico FIGC, Carmine Zigarelli, presidente del Comitato Regionale LND, Mario Del Verme, coordinatore Scholas Occurrentes Sport, Giuseppe Marmo, presidente Kodakon e Giuseppe Madonna, coordinatore SGS Campania. “Una giornata come questa vede gratificato il grande lavoro fatto ogni giorno - dichiara Gemma Tuccillo -. Questa giornata è stata più volte rinviata a causa della pandemia. Oggi celebriamo tutte le componenti che danno un senso al nostro lavoro e spezzano la paura del momento. Io ho tanti difetti e una grande malattia: il calcio. Qua esprimo la speranza che possa venir fuori qualche grande talento. C’è bisogno di chi lo scopre il talento, di chi possa insegnare ad utilizzarlo al meglio. Il talento, con il rispetto degli altri e delle regole, può portare al successo. Ai ragazzi di Nisida auguro un triplete: Coppa Italia, Scudetto e Champions”. “Il calcio è un’occasione di incontro e di crescita - dichiara Patrizia Esposito -. Favorisce la nascita e il consolidamento di legami di solidarietà e fratellanza. Quello che stiamo presentando oggi è un processo di inclusione che fornisce strumenti per il concreto inserimento. È una testimonianza della reale funzione rieducativa ai sensi dell’art 27 della Costituzione. Oggi raccontiamo una bella storia. Cari ragazzi, il tribunale dei minori è sempre accanto a voi e tiferà sempre per voi”. “Questa giornata è attesa da più di sette anni - dichiara Gianluca Guida. Oggi inauguriamo il campo grazie all’intervento della Prefettura e diamo un senso a questo luogo che va ben oltre il ludico con il programma di inserimento sociale del progetto “Zona Luce”. Con l’attestato che ricevono oggi, i ragazzi di Nisida potranno andare nelle scuole di calcio con il ruolo di aiuto allenatori”, ha concluso il direttore. Dopo il taglio del nastro, ragazzi e formatori, sono scesi in campo. Si sono ritrovati prima in cerchio con un rito “‘A capa, ‘o core, ‘e cosce, ‘e pier, ‘a cazzimma”, ovvero “La testa, il cuore, le gambe, i piedi e la cazzimma (l’arte di sopravvivere con astuzia)” e poi hanno mostrato la loro forza, la loro bravura e la loro preparazione con il pallone. Anche il teatro è stato protagonista al Carcere di Nisida. Sulla terrazza del Ceus di Nisida, i ragazzi e le ragazze di Nisida, che hanno partecipato al corso di recitazione, hanno messo in scena “T’Appò munno?!”, un progetto di Puéca Celidònia; un percorso di necessità che parte dai ragazzi di Nisida, dalle loro esigenze e dalla loro natura nello stimolo dell’immaginazione come senso di libertà altro, insegnando loro che in teatro tutto è possibile, con rispetto, gioco e ascolto ma soprattutto se lo si fa insieme. Modena. Sognalib(e)ro, incontro con l’autore Fabiano Massimi per i detenuti adnkronos.com, 4 maggio 2021 Nell’ambito delle attività legate al Premio letterario per le carceri italiane “Sognalib(e)ro” si è tenuto nei giorni scorsi un incontro tra lo scrittore Fabiano Massimi e i detenuti di tre Istituti penitenziari: Milano Opera, Modena e Castelfranco Emilia. Massimi ha presentato il suo libro “Il Club Montecristo”, edito da Mondadori. L’iniziativa è stata promossa da BPER Banca e dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Modena per coinvolgere i detenuti, già partecipanti al Premio Sognalib(e)ro, nella lettura e nel confronto su un romanzo nato proprio tra le mura del carcere Sant’Anna di Modena, quando l’autore vi ha svolto un periodo di volontariato. Mondadori e BPER Banca, inoltre, hanno donato diverse copie del libro ai tre penitenziari per consentire agli educatori di preparare l’incontro. Le pagine del volume raccontano la storia di un gruppo di ex detenuti e affrontano il tema del riscatto sociale di chi ha scontato la propria pena e aspetta un’opportunità di reinserimento nel lavoro e nella società. Proprio questo è lo scopo del Sognalib(e)ro, il premio letterario ideato da Bper Banca, Comune di Modena e dal presidente della giuria, Bruno Ventavoli di “Tuttolibri”, in collaborazione con la Direzione Generale del Ministero della Giustizia - Dipartimento amministrazione penitenziaria e con la finalità sociale di coinvolgere i detenuti nella lettura e nella scrittura. La terza edizione del Premio si avvia alla conclusione. Nelle prossime settimane si conoscerà il nome dell’autore, scelto dai detenuti, fra i tre in concorso per la sezione narrativa: Gianrico Carofiglio con “La misura del tempo”, Valeria Parrella con “Almarina” e Maria Attanasio con “Lo splendore del niente e altre storie”. Verrà inoltre premiata un’opera inedita sul tema “Il mio lato positivo”, scritta da un detenuto di uno dei 17 carceri partecipanti. Nel frattempo è già stata annunciata per l’estate la pubblicazione del bando per la quarta edizione di “Sognalib(e)ro”. Voci dal manicomio che fendono l’umano di Vinzia Fiorino Il Manifesto, 4 maggio 2021 “Ci chiamavano matti”, un libro di Anna Maria Bruzzone per Il Saggiatore. La riedizione di un classico fuori commercio, frutto di interviste tra Arezzo e Gorizia tra il 1968 e il 1977. L’indagine dell’autrice, insegnante e ricercatrice morta nel 2015, non squarcia la tela delle soggettività offese, ma illumina il travaglio del risveglio per la loro liberazione. Le due curatrici Marica Setaro e Silvia Calamai hanno dato vita a un nuovo fondo archivistico composto da dattiloscritti, quaderni con le trascrizioni, interviste, diari e dalle registrazioni Ingresso dell’Ospedale neuropsichiatrico di Arezzo (Amministrazione provinciale di Arezzo, L’Ospedale provinciale neuropsichiatrico nei suoi nuovi sviluppi: padiglione per neuropatici, colonia agricola femminile, villa per pensionarie, Arezzo, Sinatti. Foto tratta da “Cartedalegare. Archivi della psichiatria in Italia”. Una storica brillante, sensibile e piena di talento nel 1968 a Gorizia e nel 1977 ad Arezzo registra le voci di donne e di uomini ancora reclusi nei rispettivi manicomi cittadini. Era Anna Maria Bruzzone, classe 1925, docente negli istituti superiori di Torino e ricercatrice non accademica. Ci chiamavano matti, quell’indagine, originale e irriverente, pubblicata in una memorabile edizione Einaudi nel 1979, viene ora riproposta dal Saggiatore con una attenta e competente curatela di Silvia Calamai e Marica Setaro (pp. 416, euro 29). Non solo. Adesso le due studiose dispongono di nuovi e importantissimi materiali. Il tutto ha inizio da una domanda semplice ma cruciale: se Bruzzone nel 1977 aveva raccolto le voci dei degenti di Arezzo con un mangianastri, dove saranno mai finite quelle cassette? Grazie alla generosa mediazione della nipote, Paola Chiama, le due studiose - con Lucilla Gigli (archivista e bibliotecaria nella sede aretina dell’università di Siena) - hanno quindi dato vita a un nuovo fondo archivistico composto da dattiloscritti, quaderni con le trascrizioni, interviste, diari e, soprattutto, dalle registrazioni delle voci dei matti. Parole forti, che squarciano; ora argomentano, ora si interrogano, spesso sono urla contro le ingiustizie. Flebile e potente è al tempo stesso il grido in cerca di libertà. Immergersi nella lettura di queste “voci dell’interiorità”, così le chiamerei, è un viaggio nella vivisezione dell’umano, non certo del patologico. Dispute e conflitti acerrimi, ostilità tra familiari, con i datori di lavoro, contrasti all’interno delle comunità, renitenti alla leva, comportamenti irrispettosi della morale corrente: sempre questi i contesti di provenienza per chi ha vissuto vite recluse. La rottura realizzata da Basaglia - che è stata al tempo stesso epistemologica, storica e politica - è qui restituita in quella fase intermedia in cui si avvia la trasformazione del manicomio in comunità terapeutica e, soprattutto, in cui si opera affinché i ricoverati possano cominciare a pensarsi come soggetti liberi. Non si può, tuttavia, restituire né imporre la libertà. “La libertà che veniva data al malato dall’esterno, non era ancora il risultato di una sua conquista”, scriveva Basaglia nel 1965 rivelando una evidente traccia illuminista. E anche se l’internato aveva contribuito ad abbattere il recinto dell’istituzione, continuava a restare chiuso in una barriera che egli stesso si imponeva. L’indagine di Bruzzone non squarcia la tela delle soggettività offese, ma illumina il travaglio del risveglio per la loro liberazione. Le traiettorie percorse da queste individualità sono, ovviamente, innumerevoli e contraddittorie, ma si addensano su temi importanti: ripensare il proprio sé, elaborare la memoria rintracciando la propria esistenza prima della cesura manicomiale, testimoniare la violenza dell’internamento. Parlava poco Michela P. - più volte ricoverata a Gorizia negli anni Sessanta - anzi è proprio quello il suo problema: parlava poco e aveva poca vita; non le sembrava di avere disturbi nervosi, le pareva piuttosto di essere stata sottovalutata in manicomio come già dai suoi genitori, che dicevano che lei disubbidiva sempre; Michela pensava, invece, che avesse troppo ubbidito. Voleva vivere, era più viva fuori e comunque adesso, sotto la direzione di Basaglia, sente di reagire di più e di avere la sua personalità. Alta si alza la voce di coloro che respingono di essere identificati come malati e, per l’appunto, di essere chiamati matti: mi hanno lasciata qui perché non mi volevano, non perché fossi matta, dirà, come tanti altri, Filomena. Resta ampio il ventaglio di sperimentazione delle pratiche di violenza perpetrato dentro l’ospedale, che in tanti chiamavano carcere: non voleva fare il bagno Onorina T. e così le hanno fatto la maschera. Le maschere - una tecnica di contenzione detta anche strozzina - erano rettangoli di tele bagnate, che, applicate sui visi dei pazienti, non permettevano loro di respirare a sufficienza provocando asfissie e perdita di sensi. I vissuti legati alla pratica degli elettroshock sono poi poderosi: se non mangi ti faccio l’elettroshock, tuonavano gli infermieri; in molti ne avevano paura: mi addormentavano, poi ci si svegliava senza memoria, dicevano che sarebbe passato e invece non facevano bene. Poi, anche ad Arezzo, con la direzione affidata al basagliano Agostino Pirella, i pazienti diranno che si cominciava a star meglio. Fulcro importante di tutte le interviste è l’esperienza delle assemblee come momento collettivo di soggettivazione e di pratiche democratiche. Anche in questo caso sono ovviamente ricchi e variegati i percorsi individuali: le riunioni servono a sviluppare l’intelligenza e svagano l’ammalato; in fondo tutti hanno imparato qualcosa dalle riunioni, diceva Augusto M. Le riunioni di reparto erano più frequentate rispetto alle assemblee generali e molti si sono confrontati con le difficoltà di prendere la parola. Le prime sono le più sentite perché riguardano i problemi più minuti e tangibili (“servono perché ci lagniamo”, dirà Giuseppina Z. ved. P.). Servono a noi, migliorano il morale dei malati; le assemblee generali servono invece all’ospedale: qualcuno va per parlare e non riesce. Ermenegildo M. racconta di essersi stancato perché alla fine “le direttive le fanno i dottori; chiedono solo il nostro parere, ma poi, se faccio osservazioni, mi dicono di no”. In fondo, “le direttive partono sempre da quei due o tre fra i malati che capiscono qualcosa”. Nel tempo non sfuggiranno a Franca e Franco Basaglia queste difficoltà e a lungo si interrogheranno sulla riproduzione dei rapporti di forza tra i pazienti nei momenti assembleari. Perché davvero alta e difficile è stata la posta in gioco; variegate le pieghe delle disuguaglianze e delle fragilità umane. Nessuno dei protagonisti ha affrontato una sfida così difficile - la presa di parola dei soggetti istituzionalizzati - con ingenuità. Si è immersa nella quotidianità della vita ospedaliera e “sarebbe un errore credere che il lavoro di Bruzzone si sia limitato a una semplice trascrizione. Lei non esita a chiamarlo travaglio”, scrive infatti giustamente Marica Setaro. Ad Anna Maria Bruzzone interessava far emergere la voce degli individui stravolti da abbandoni e sofferenze nel processo impervio di una possibile liberazione soggettiva, così come nella scelta di divenire partigiane e di resistere nei campi di sterminio. Protagonista di uno degli innesti più fecondi della storiografica femminista, quando per l’appunto i temi della soggettività e della memoria avevano incontrato la storia orale, Bruzzone (che, si dica per inciso, non ha neppure una pagina su Wikipedia) ricerca non già l’io, ma le sue diverse epifanie dinanzi alle violenze più brutali. Nel 1976 d’altra parte - quindi tra Gorizia e Arezzo - dà alle stampe, con Rachele Farina, uno dei testi fondativi della storia delle donne in Italia: La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi (Bollati Boringhieri lo ripubblicherà nel 2003). Anche qui la scelta è molto perspicace: far raccontare non le partigiane tout court ma quelle “risospinte alla tradizionale condizione subalterne”, quelle che non hanno ricevuto neppure un modesto riconoscimento. Negli anni novanta raccoglie con un’altra bravissima storica, Anna Bravo, le testimonianze di donne che avevano vissuto il secondo conflitto e che soprattutto vi avevano resistito: la categoria di Resistenza civile conosce una nuova articolazione e un’ampia circolazione. Si avvieranno presto nuove ricerche e si ripenserà a quel vuoto incolmabile che sta nella difficoltà di tradurre l’intonazione di quelle voci incise su nastro, il senso delle pause, i molteplici usi della lingua; temi su cui da tempo lavora Silvia Calamai con grande competenza. L’archivio sonoro è ora tornato al Colle del Pionta di Arezzo, proprio lì, laddove ieri c’era il manicomio, oggi c’è il campus dell’università di Siena con un nuovo scrigno prezioso. Libertà di stampa. L’Italia è maglia nera d’Europa di Vincenzo Vita Il Manifesto, 4 maggio 2021 Informazione. Non si tratta di un temporale passeggero, bensì di una vera e propria tendenza. In un contesto che si tinge di moderni autoritarismi venati vuoi dai populismi vuoi dalle tecnocrazie, la libertà di comunicare senza censure è condannata al purgatorio o direttamente all’inferno. Ieri si è celebrata la giornata dell’Onu sulla libertà di stampa, chiamata ancora così dall’istituzione avvenuta nel 1993, in epoca analogica dominata dalla carta stampata. Purtroppo è stata una celebrazione amara. E tutt’altro che gioiosa. Nella stagione dei sovranismi, della compressione delle rappresentanze democratiche e della crisi del bilanciamento dei poteri, l’esercizio del diritto disegnato solennemente dalle Carte internazionali e dall’articolo 21 della Costituzione italiana è sotto attacco. Non si tratta di un temporale passeggero, bensì di una vera e propria tendenza. In un contesto che si tinge di moderni autoritarismi venati vuoi dai populismi vuoi dalle tecnocrazie, la libertà di comunicare senza censure è condannata al purgatorio o direttamente all’inferno. Per un verso, i condizionamenti di un mercato reso ancor più concentrato e brutale con l’entrata in scena delle piattaforme digitali. Gli oligarchi della rete fanno il resto. Per un altro dai colpi diretti al cuore della conoscenza. L’Italia è al quarantunesimo posto nella classifica mondiale ed è la maglia nera d’Europa. E’ stato ben sottolineato dalla federazione della stampa e dall’associazione Articiolo21 nell’incontro tenutosi ieri con il presidente della camera dei deputati Fico. Note dolorose: c’è ancora nell’ordinamento la pena del carcere per i giornalisti, il ricorso alle querele temerarie è una modalità utilizzata per imbavagliare croniste e cronisti impegnati in inchieste rischiose, le intercettazioni divampano, il precariato riguarda ormai ben oltre la metà della categoria e la pur timida leggina sull’equo compenso non è mai stata applicata. Non solo. Si è passati ormai alle minacce fisiche, come è accaduto in numerose occasioni, e numerosi sono coloro che si vedono costretti a chiedere la scorta. Insomma, difendere attivamente un così basilare principio di civiltà vuol dire mettere in gioco la propria vita. Basti ricordare, tra le tante e i tanti, Daphne Caruana Galizia, Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Peppino Impastato, Mauro rostagno, Giancarlo Siani, Antonio Megalizzi, Anna Politkovskaja. I casi terribili non si contano in Europa e nei paesi del villaggio globale. Almeno un centinaio, numero peraltro sottostimato. Ad aggravare definitivamente la situazione vi è, poi, il tema enorme della violenza online contro le donne giornaliste. Già ne hanno parlato Silvia Garambois e Paola Rizzi nel libro ‘#StaiZitta giornalista!’ uscito con le edizioni All Around nella collana Studi della Fondazione Murialdi nel generale contesto dell’odio e degli insulti maschilisti. Ed è stato reso noto il dettagliato rapporto dell’Unesco contro le croniste, cui segue la campagna Journalist too. Si legge nell’introduzione che non vi è nulla di virtuale nella violenza veicolata dai social. Anzi, si tratta della nuova frontiera di una lotta asperrima, che segna una stagione attraversata da misogenie, omofobie, volgarità inaudite. 2.500 postazioni analizzate, 15 paesi interessati, differenti tipologie indagate: bianche, nere, indigene, ebraiche, eterosessuali, bisessuali, lesbiche. Su queste ultime e sulle donne nere si riversa la grande maggioranza delle contumelie criminali. Ne spiega le caratteristiche una delle autrici, la minacciata professionista filippino-americana, Maria Ressa. Contro le donne, dunque, si esercita una doppia violenza: l’attacco alla libertà di espressione e l’oppressione di genere. Un rapporto agghiacciante, che dovrebbe essere letto e divulgato, divenendo la premessa per iniziative adeguate. I bimbi migranti traumatizzati che vanno in “letargo” per salvare il mondo di Walter Veltroni Corriere della Sera, 4 maggio 2021 I più piccoli vittime di traumi e testimoni di violenza soffrono di quella che in Svezia hanno chiamato sindrome della rassegnazione. Sembra una favola nera. Ma succede nella realtà. Uppgivenhetssyndrom. “Sindrome della rassegnazione”. L’hanno chiamata così, in Svezia. In quel Paese, chissà perché quasi solo in quel Paese, dall’inizio del nuovo millennio si è manifestata, con centinaia di casi, una sindrome fino ad allora sconosciuta. Una patologia, per ora chiamiamola così, che ha colpito centinaia di bambini tra gli otto e i quindici anni che cadono in una condizione prima di abulia e poi di letargo, di catatonia. E dormono, dormono per mesi o anni. Riguarda esclusivamente bambini e bambine che sono arrivati in Svezia dalle repubbliche dell’Ex Urss, dai Paesi balcanici e, più recentemente, ragazzi di origine yazida. Qualche caso è emerso in Australia, sempre tra bambini immigrati. Non è un virus, non è un problema genetico. È una reazione al dolore, alla paura. Un lungo articolo del New Yorkere il bel documentario “Sopraffatti dalla vita” hanno raccontato la natura del fenomeno. I bambini che si addormentano sono tutti figli di immigrati. Nella maggior parte dei casi, sono stati testimoni di violenze terribili avvenute nei loro Paesi e hanno vissuto il clima di terrore che ha spinto le loro famiglie a intraprendere un lungo e spesso spaventoso viaggio. La violenza è entrata nella loro vita nella forma di esperienza diretta - occhi di bambino che vedono morte - e nella condivisione di un’ansia, di un panico che stravolge un nucleo familiare e lo porta a lasciare la propria terra, le proprie relazioni sociali e a migrare verso luoghi sconosciuti: altri paesaggi, altra lingua, altre culture, altre persone. Ma, arrivati alla meta, l’ansia non smette di rincorrere i bambini e i loro genitori. L’attesa della cittadinanza, la Svezia ha molto ristretto l’accoglienza ai richiedenti asilo, è, per le famiglie dei migranti, un incubo. Terrorizza i bimbi il ritorno nella terra della violenza da cui sono fuggiti - spesso la madre è stata violentata o il padre picchiato davanti a loro - o il continuo cercare un luogo della terra dove avere il diritto di esistere. Il bambino non simula, lo hanno stabilito con certezza i medici e lo sanno i genitori che li alimentano con sondine e li trascinano nella stanza, per non fargli perdere il tono muscolare. Il bambino avverte un clima di paura in casa, sente il pericolo e fa scattare la sua estrema difesa, quella di fuggire in un sonno che è riparo, è fuga e conforto. E, dicono gli analisti, è anche l’unico contributo che un bimbo possa dare alla salvezza del suo nucleo familiare. Cosa può fare un bambino, di fronte alla paura del futuro, se non cristallizzare il presente nell’unica forma che gli è consentita? I bambini proteggono sempre i grandi, nei momenti più difficili. Lo fanno come possono, anche dormendo. Tamam, 5 anni: la foto fa parte del progetto “Where the children sleep”, sul sonno dei piccoli rifugiati, realizzato per “Aftonbladet” dal fotografo Magnus Wennman Tamam, 5 anni: la foto fa parte del progetto “Where the children sleep”, sul sonno dei piccoli rifugiati, realizzato per “Aftonbladet” dal fotografo Magnus Wennman Il documentario racconta due casi. In uno la richiesta di asilo è stata respinta. Alla prima bambina si è aggiunta allora la sorella più grande. E ora dormono insieme. La seconda famiglia ha invece ricevuto la lettera che concedeva il diritto a fermarsi e i genitori l’hanno letta alla figlia che dormiva da mesi. Pian piano la bambina è tornata a vivere. I medici sostengono che i piccoli, dal loro sonno, percepiscono il clima della famiglia. Lo avvertono dal tono delle voci, dai gesti di cura che ricevono. La serenità è la loro sveglia. Uno dei ragazzi che è “tornato” ha detto al New Yorker: “Non avevo più volontà, ero molto stanco. Mi sentivo come dentro una gabbia di vetro con pareti sottili nel profondo del mare. Parlando o muovendomi il vetro si sarebbe rotto e l’acqua mi avrebbe ucciso, ogni movimento avrebbe potuto uccidermi”. Protezione di se stessi e della propria famiglia, bisogno di sicurezza e di serenità. Questo chiedono i bambini che si addormentano. Non c’entra nulla Biancaneve. Non ci sono mele stregate e principi azzurri. Qui c’è il dolore squassante di vite stracciate da traumi prodotti non da calamità, ma da uomini. L’esperienza del trauma prodotto da altri esseri umani, specie se vissuta nel tempo giovanile, lascia un senso di irredimibile terrore. La minaccia non è un’alluvione ma è l’altro, l’umano, e, spesso, l’altro che detiene il potere. Il potere della forza, della violenza. Il potere di mutare il destino tuo e della tua famiglia. Ma forse è proprio il mondo degli adulti, quello del potere, che soffre di “sindrome della rassegnazione”, accettando ormai che elementari principi di umanità vengano calpestati da considerazioni di opportunità o, peggio, di volubile consenso. Elie Wiesel, sopravvissuto alla Shoah, di fronte ad un bambino impiccato che non riusciva a morire pensò: “Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva. Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca”. I bambini capiscono molto più di quanto i grandi pensino e la loro mente, specie in quel tempo della vita, è attraversata da una tempesta di sogni e mostri, di desideri e paure, tutte estreme. Quei bambini che dormono, senza saperlo, vogliono salvare il mondo. La loro “rassegnazione” è un grido. È un appello ai non rassegnati. Svegliatevi, per svegliarci. Migranti. Di Giacomo (Oim): “Non c’è nessuna emergenza sbarchi. Bisogna salvare più vite” di Giansandro Merli Il Manifesto, 4 maggio 2021 Mediterraneo. Il portavoce per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni: “Bisogna evitare che le persone anneghino o siano riportate in Libia”. Flavio Di Giacomo è portavoce per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Dopo i recenti naufragi ha criticato le autorità europee per l’assenza di soccorsi. “Bisogna evitare che le persone anneghino o siano riportate in Libia”, dice al manifesto. Negli ultimi 10 giorni sono morte 140 persone in fuga dalla Libia. Lei ha parlato di un “sistema di pattugliamento in mare insufficiente”. Che significa? La situazione è completamente cambiata rispetto a pochi anni fa. Non solo a Mare Nostrum, ma anche al 2015/6 quando c’era l’operazione Triton e i soccorsi di Guardia costiera, Guardia di finanza, marina militare e molte Ong. Oggi ci vogliono ore, a volte più di un giorno, prima che qualcuno risponda agli Sos. È inaccettabile: le imbarcazioni dei migranti possono affondare in ogni momento, ritardare i soccorsi significa mettere in pericolo vite umane. Il sistema non funziona soprattutto nelle acque internazionali davanti alla Libia, che è dove avvengono la maggior parte dei naufragi. Senza Ong, o con una loro presenza ridotta, è evidente che servono navi statali. Domenica scorsa 97 persone in pericolo in acque internazionali hanno chiesto aiuto. La Guardia costiera italiana ha coordinato l’invio di due navi che si trovavano nelle vicinanze. Queste invece di operare il soccorso hanno atteso l’arrivo della “guardia costiera” libica, che ha riportato indietro i migranti. È legale? Non posso dare un giudizio legale perché mancano troppi elementi. Andrebbero capiti i rapporti effettivamente intercorsi e chi ha avuto il comando delle operazioni. È comunque molto grave che due navi vicine a un barcone che può affondare non intervengano, ma attendano per ore l’arrivo dei libici, che poi sbarcano le persone in un porto non sicuro. I soccorsi vanno sempre fatti il prima possibile. Nel 2021 quasi 7.000 migranti sono stati riportati a Tripoli con la forza. Sono stati salvati o intercettati? Quando nel 2017 è stata creata la guardia costiera libica abbiamo sostenuto l’esigenza di un corpo che intervenisse nelle acque territoriali, dove le navi internazionali non arrivano. Ma ci sarebbe dovuto essere anche il miglioramento delle condizioni dei migranti a terra, cosa mai avvenuta. E comunque la guardia costiera libica interviene su segnalazioni, spesso in acque internazionali, dove altre navi potrebbero soccorrere i naufraghi con maggiore rapidità ed efficacia. Quindi nella maggior parte dei casi si tratta di intercettazioni. La Libia non è un porto sicuro. La sua “guardia costiera” a volte non risponde agli Sos. Altre picchia i migranti, come documentato venerdì da Sea-Watch. La Sar di Tripoli esiste davvero o è una finzione? È una contraddizione. L’Organizzazione marittima internazionale (Imo) ha creato una zona Sar, accettata dagli Stati contigui, che istituisce un onere di salvare vite, non un diritto esclusivo di intervento. Sono acque internazionali, non libiche. Ma una zona Sar richiede anche un porto sicuro di sbarco e la Libia non lo è. Perciò è una contraddizione dal punto di vista del diritto internazionale. Da maggio 2020 le autorità italiane hanno disposto otto fermi amministrativi di navi Ong. Che ne pensa? Bisogna garantire la sicurezza delle navi, anche di quelle Ong. Ma si deve anche avere buon senso. Le richieste amministrative non possono essere eccessive o troppo burocratiche, altrimenti si può pensare che abbiano il fine di bloccare la navigazione. Le Ong devono poter soccorrere. Non sono un pull factor? Il pull factor non esiste. È stato dimostrato già dopo la fine di Mare Nostrum, quando le partenze sono aumentate (insieme ai morti). Vale anche per le Ong. Esistono invece i push factor: i migranti partono spinti dalle violenze, dalle violazioni dei diritti umani, non attirati dalle navi di soccorso. Gli sbarchi stanno aumentando. C’è un’emergenza? Non c’è alcuna emergenza in termini numerici, va detto chiaramente. Tra il 2014 e il 2017 a maggio-giugno eravamo sui 70-90mila arrivi via mare. E già allora non era un’emergenza perché rappresentavano una piccola percentuale rispetto alla popolazione italiana. I 10.107 arrivi registrati ieri sono un numero residuale. La vera emergenza è umanitaria: troppe persone annegano o sono riportate in Libia. Cosa chiedete all’Ue? Un sistema di pattugliamento efficiente, sbarchi sicuri, chiarezza sui ricollocamenti interni. Ma prima di tutto di rafforzare la presenza di navi europee per ridurre il numero di chi viene riportato nell’inferno libico. Come Oim e Unhcr siamo in Libia e cerchiamo di alleviare le sofferenze, ma non abbiamo alcuna possibilità di garantire i diritti umani. Ddl Zan, quel no (inaspettato) alla legge sull’omofobia di femministe e Arcilesbica di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 4 maggio 2021 “Aver esteso il ddl Zan anche ai reati di odio per misoginia e disabilità fa regredire le donne nel passato”. Non soltanto la maggioranza, il ddl Zan divide l’universo femminista. E divide anche le famiglie: Cristina Comencini guida lo schieramento delle donne che il testo sull’omotransfobia vorrebbero emendarlo, mentre la sorella Francesca sta con le femministe che vorrebbero approvarlo così come è. Premesso che sono tutte ovviamente favorevole ad una simile legge, il ddl Zan ha tuttavia frantumato anche lo schieramento di “Se non ora quando” e adesso nella parte che si chiama “Snoq libere” è la voce di tante storiche femministe che si leva a chiedere cambiamenti alla legge. “Aver esteso il ddl Zan anche ai reati di misoginia e disabilità fa regredire le donne nel passato, le considera una categoria, una minoranza mentre siamo più della metà del paese”, commenta Francesca Izzo, storica del pensiero moderno e contemporaneo e storica femminista. E aggiunge: “Anche sull’identità di genere bisognerebbe fare dei cambiamenti”. È’ Marina Terragni a spiegarci quali cambiamenti per l’identità di genere. Storica femminista che ha fatto le battaglie accanto al Mit, Movimento italiano transessuali, Terragni dice: “L’identità di genere è un oggetto non definito e non puoi mettere in una legge penale un oggetto non definito. Nel testo si parla di identità autopercepita che è l’ambiguità che apre la porta alla “Self Id”, l’autopercezione del genere. Per capire: in California, dove il self-Id è diventato legge ci sono stati 270 detenuti che si sono dichiarati donne e hanno chiesto di andare nel carcere femminile, con il terrore delle detenute. In Gran Bretagna è successo lo stesso con uno stupratore che si è dichiarato donna. Non basta l’autocertificazione per cambiare sesso ci vuole un percorso”. Per Terragni è da modificare anche l’ingresso nelle scuole per parlare della Gravidanza per altri (l’utero in affitto): “Non si capisce per l’ora di religione ci vuole il consenso dei genitori e per questo no, perché lo decide una legge”. Sulla Gravidanza per altri, Gpa, si esprime anche la presidente di Arcilesbica Cristina Gramolini: “Bisognerebbe emendare il ddl Zan seguendo una legge approvata dall’Emilia Romagna: la regione non finanzia le associazioni che propagandano la Gpa. Con il ddl Zan criticare l’utero in affitto viene considerato omofobia”. A chiedere emendamenti al ddl Zan anche tante altre voci storiche del femminismo. Dice Terragni: “C’è l’Unione donne italiane, Udi, la libreria delle donne e anche una associazione di uomini come Equality Italia, guidata da Aurelio Mancuso. Legge Zan, Nichi Vendola: “Io vittima di omofobia nel 1996, presentai la prima pdl” di Giovanna Casadio La Repubblica, 4 maggio 2021 L’ex parlamentare ed ex governatore della Puglia si racconta: “Il centrosinistra allora non era pronto, non ebbe il coraggio necessario: qualcuno ora dovrebbe dire ‘Scusate il ritardo’. Ma sono ottimista”. “Era il 1996, ero il primo deputato dichiaratamente gay e presentai la prima proposta di legge per estendere la legge Mancino alle discriminazioni omofobe...”. Nichi Vendola, leader della sinistra, ex governatore della Puglia, si racconta. Ricorda le tappe della battaglia: “Il centrosinistra allora non era pronto, non ebbe il coraggio necessario: ci è voluto un quarto di secolo per arrivare all’appuntamento e qualcuno dovrebbe dire “Scusate il ritardo”. Di omofobia Vendola è stato vittima. Ma si dice ottimista: “Nessuno può fermare il sentimento che sta crescendo attorno a questa battaglia”. Vendola, sembrava quasi fatta per la legge contro l’omofobia con l’approvazione alla Camera nel novembre scorso, se lo aspettava uno scontro ancora così aspro? “Per secoli l’omosessualità è stata stigmatizzata, vietata, derisa, lapidata. E l’omofobia è stata un fondamento delle credenze religiose e dei costumi sociali. Dai roghi medievali comandati dalla Santa Inquisizione fino al confino alle Isole Tremiti comandato dal fascismo, dal carcere vittoriano per Oscar Wilde fino alla persecuzione giudiziaria di Aldo Braibanti o Pasolini, la paura e l’orrore per le diversità hanno prodotto ogni sorta di violenza. Una violenza che si è fatta senso comune, che si è radicata nel linguaggio e nella routine delle prassi discriminatorie. Non mi stupisce dunque la virulenza di questo scontro. Perché non è in gioco solo il diritto di una minoranza a non essere offesa e prevaricata, ma è in gioco il diritto di tutti e di tutte al rispetto e alla dignità”. La prima proposta di legge contro l’omofobia finì nel nulla? “Era il 1996, presentai la prima proposta per estendere la legge Mancino alle discriminazioni omofobe, ero il primo deputato dichiaratamente gay della storia italiana eletto con quel partito (Rifondazione comunista) che poi avrebbe portato in Parlamento anche una lesbica e una transgender. Ma il centrosinistra non era pronto: ci è voluto un quarto di secolo per arrivare all’appuntamento. Qualcuno dovrebbe dire come in quel bel film di Troisi: “Scusate il ritardo!” Che tempi erano? “Erano tempi di grandi speranze ma il centrosinistra non ebbe il coraggio necessario sia in termini di avanzamento sul terreno dei diritti civili, sia in termini di riforme sociali capaci di rompere l’egemonia liberista”. Di omofobia è stato vittima? “Basta una navigazione veloce nei siti dei tradizionalisti, una lettura fugace a certa pubblicistica che profuma di olio di ricino, e può farsene una idea. Quando è nato mio figlio si è scatenata la Vandea, con uno spettacolare capovolgimento dell’accusa: prima, da gay, ero un attentato alla riproduzione della specie; poi ero inevitabilmente un pedofilo (accusa per la quale ho vinto svariate cause in svariati tribunali); poi, da padre, diventavo un ladro di bambini. Se ci pensa, il repertorio di questi moralisti a luci rosse non cambia mai: già nel primo Parlamento del Regno d’Italia non si poteva parlare di diritto di voto alle donne perché così si minacciava la famiglia, come con il divorzio, con l’aborto, con le unioni civili e così via”. Ma molto è cambiato… “Si: è cambiato tutto e questi sepolcri imbiancati, le sentinelle della tradizione, sono furiosi perché hanno perso, perché quelli come me hanno detto: no, non ci accontentiamo di stare in un ghetto magari dorato, non chiediamo la vostra tolleranza, non abbassiamo lo sguardo, non saremo le icone del vostro disprezzo o della vostra pietà o delle vostre fobie. Siamo usciti alla luce del sole e nessuno più ci ricaccerà nell’ombra o dietro un filo spinato”. Salvini e Meloni non vogliono sentire parlare del ddl Zan. La destra è omofoba? “La Lega di Salvini ha sdoganato l’estremismo nero, il partito della Meloni una parentela con l’eredità del fascismo ce l’ha nel proprio Dna. Sono omofobi e razzisti. Magari nei talk show fanno le Dame di San Vincenzo ma le loro formazioni e le loro classi dirigenti sembrano roba da Anni Venti (non quelli in corso, i precedenti...)”. Gli artisti si mobilitano, la politica annaspa? O questa è una rappresentazione di comodo? “Diciamo che gli artisti hanno il dono della immediatezza e della passione civile: virtù che spesso latitano dentro i palazzi del potere”. Caso Fedez-Rai, che idea si è fatto? “La solita censura, la solita Rai, le solite indignazioni postume”. Una legge anti omofobia ci sarà alla fine? “Si, ci sarà. Nessuno può fermare il sentimento che sta crescendo attorno a questa battaglia”. Francia. Arrestare i rifugiati politici non ci fa chiudere i conti con la storia del terrorismo di Tiziana Maiolo Il Riformista, 4 maggio 2021 Gli arresti di Parigi e la nostra smemoratezza. Abbiamo lasciato aperto un capitolo tragico della nostra storia, quello degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, dopo aver chiuso a fatica, e non del tutto, quello del fascismo. Neppure quando fu arrestato e processato l’ex capitano delle SS Enrich Priebke, il nostro Paese e il nostro sistema giudiziario seppero dimostrare la capacità di fare i conti con la propria storia. Perché non si seppe capire né far capire che non si stava giudicando una persona responsabile (per ordini ricevuti o dati) di migliaia di morti, ma un vecchio di 84 anni che aveva già da solo dato un orientamento diverso della propria vita. Lo aveva capito e realizzato Palmiro Togliatti con l’amnistia del 1946. Dopo di lui non ci sarà più un ministro di Giustizia capace di tenere insieme il proprio vissuto soggettivo, la propria memoria e i conti con la storia. Il contrario di quel che fece Togliatti è stata - è ancora - la politica delle emergenze. L’Italia ha vissuto il fascismo e la resistenza (all’interno della quale ci furono anche atti individuali crudeli, violenti e ingiusti), e poi, negli anni Settanta, che, non dimentichiamolo, furono anche momenti di grandi iniziative riformatrici, la sovversione sociale, una cui parte divenne terrorismo. Non si possono trattare il rapimento e uccisione di Moro e della sua scorta, gli assassinii e ferimenti di decine di uomini politici, magistrati e giornalisti come singoli episodi da giudicare nei tribunali. Il terrorismo è stato un fenomeno tragico della politica e della società. Ripeto, della società. Lo ha capito bene uno che non è certo stato amico di coloro, in gran parte di sinistra, che avevano preso le armi, come Vittorio Feltri, che ha ricordato un tragico applauso in un’assemblea di lavoratori alla notizia del rapimento di Moro. Purtroppo ho anch’io un ricordo analogo, di singole persone, in un ambiente di sinistra non estremistica come era quella de il Manifesto. Fare i conti con il proprio passato, anche il più negativo, il più drammatico, vuol dire aiutare a ricucire lo strappo che qualcuno ha attuato nei confronti della propria comunità. Ricucire per ricostruire non c’entra niente con il perdono, che è un fatto individuale e intimo e che attiene alla relazione di una persona con un’altra. È anche il contrario della cancel culture, che è invece un gesto di violento revisionismo, portato solo a distruggere, a separare, quasi a straniare anche il proprio vissuto. La politica della ministra Marta Cartabia, nella sua attività di costituzionalista, la sua consapevolezza del fatto che non possa essere il carcere la soluzione di ogni lacerazione, fino al punto di dare battaglia all’ergastolo ostativo, è un insegnamento per tutti. Poi, certo, nella nostra memoria, esiste anche un fatto generazionale. Chi ha cinquant’anni o meno può essere indotto a pensare che la storia delle leggi speciali, la proclamazione di continui stati di emergenza siano iniziati con le stragi di mafia, con gli anni Novanta e con le uccisioni dei magistrati Falcone e Borsellino. Se così non fosse, forse la guardasigilli Cartabia non potrebbe dire che i rifugiati arrestati nei giorni scorsi in Francia, sulla cui estradizione lei stessa insieme al Presidente del consiglio Draghi si è particolarmente impegnata, sono stati giudicati con processi giusti e con tutte le garanzie. Purtroppo non è così. Il che non significa affatto che stiamo parlando di innocenti. Non lo era, dal punto di vista processuale, Cesare Battisti, e probabilmente non lo è la gran parte di coloro che sono stati fermati e poi rimessi in libertà vigilata in questi giorni in Francia. Il problema è un altro. E cioè che le leggi speciali non sono in grado di fare giustizia. E non l’hanno fatta con le lunghissime custodie cautelari nelle carceri speciali di persone che saranno poi assolte, né con le leggi sul pentitismo, che pure hanno aiutato a sconfiggere il terrorismo sul piano puramente militare. Ma è stato ben più significativo il gesto del cardinal Martini quando ha ricevuto le armi da Ernesto Balducchi, un militante dell’Autonomia che era stato protagonista di quel fenomeno di “dissociazione” dalla lotta armata con cui centinaia di ex militanti avevano preso le distanze dalla violenza, senza la necessità di denunciare i propri compagni. Un’altra forma di quella giustizia riparativa che sta a cuore alla ministra. E che sarebbe un ottimo programma di governo. È quello che stanno attuando, passo dopo passo, formazioni politiche come Nessuno tocchi Caino e che ha portato alla realizzazione del documentario Spes contra spem di Ambroglio Crespi nel carcere di Opera. E siamo arrivati alla seconda emergenza, quella dei reati di mafia. Non è cambiato molto, rispetto al metodo con cui si svolgevano le inchieste per i fatti di terrorismo. Leonardo Sciascia fu critico anche nei confronti del maxiprocesso di Palermo voluto da Giovanni Falcone. Chiariamo naturalmente che nessuno sta paragonando le persone, né i fatti, né le ideologie, laddove ci fossero. Ma processare i contumaci, contestare i concorsi morali (a Renato Curcio o a Totò Riina, il concetto è lo stesso), esibire come prove la sola parola dei pentiti: che cosa ha a che fare tutto ciò con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo? Se poi fosse per caso arrivata notizia in terra d’oltralpe delle raccapriccianti controriforme prodotte negli ultimi anni dalla subcultura dei grillini e dell’ex ministro Bonafede, tese a equiparare i reati contro la Pubblica Amministrazione a quelli del terrorismo e della mafia, si capirebbe a maggior ragione perché la giustizia italiana sia vista con tanto sospetto negli altri Paesi dell’occidente. Un’ultima osservazione desidero indirizzare alla ministra Cartabia, nel nome della grandissima stima che ho personalmente nei suoi confronti. Lei si è spesa molto perché le autorità francesi mettessero in qualche modo le manette molto rapidamente ai polsi di dieci persone (sulle duecento italiane ancora rifugiate a Parigi e dintorni) condannate per fatti di sangue, appena prima che i reati cadessero in prescrizione, dopo quaranta o cinquant’anni dagli accadimenti. Le domando se ciò abbia un senso. Le domando se ciò sia coerente con quella “possibilità di rieducazione e conciliazione” che lei giustamente vorrebbe concedere a chiunque, qualunque delitto abbia commesso. Ma quale miglior dimostrazione di rieducazione e conciliazione queste dieci persone (e tutte le altre) devono dare ancora, oltre al fatto di aver rispettato alla lettera per qualche decennio le condizioni poste dal presidente Mitterrand (e poi Chirac, Sarkozy e Hollande) non commettendo nessun reato e integrandosi perfettamente, mettendo su famiglia e lavorando, e sempre rigando diritto? O qualcuno pensa che deportare in Italia un gruppetto di pensionati e far loro assaggiare un po’ di galera serva a riparare il danno fatto e a far finta di niente su quei conti politici ancora aperti? Certo, signora ministra, sarebbe tutto più facile se anche noi del Riformista ci comportassimo come stanno facendo in questi giorni da una parte i quotidiani più schierati con il centrodestra che applaudono con gli occhi chiusi purché vengano mandati in galera quelli di sinistra. E dall’altra parte il quotidiano più forcaiolo della sinistra, cioè il manifesto che, con un bell’editoriale di Tommaso Di Francesco, bolla la retata parigina come “la vendetta”. E riscopre improvvisamente, ma solo nei confronti della sinistra, il garantismo di un tempo, ahimè, antico. Noi non siamo così. Noi siamo quelli del “metodo Cartabia”. Fino a tre giorni fa, e speriamo ancora per il futuro. Terroristi e giustizia. Troppi distratti in Europa di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 4 maggio 2021 Appena è stato annunciato l’accordo fra Francia e Italia per la riconsegna alle nostre autorità degli ex terroristi rifugiati in Francia, è accaduto quanto era prevedibile: è stato subito diffuso un manifesto di protesta di intellettuali francesi, alcuni di prestigio, in difesa degli ex brigatisti. La pubblicazione di quel manifesto si presta a due considerazioni. La prima, forse la meno interessante, riguarda gli atteggiamenti (sempre gli stessi) di certi intellettuali. La seconda, meno scontata, riguarda i sentimenti negativi che, da tempo immemorabile, ampi strati dell’opinione pubblica di ciascun Paese europeo nutrono nei confronti degli altri europei. Il pregiudizio anti-italiano a cui si ispira il manifesto di quegli intellettuali è presente in certi settori dell’opinione pubblica francese. Ma gli italiani non sono da meno, l’antipatia per la Francia non manca nel nostro Paese. E poi c’è ciò che i tedeschi o gli inglesi pensano degli italiani, gli italiani dei tedeschi, eccetera. Consideriamo prima di tutto il manifesto degli intellettuali. Alcune affermazioni si possono condividere. È vero che quegli ex brigatisti sono persone ormai anziane e che non possono essere giudicate oggi con lo stesso metro con cui avrebbero dovuto essere giudicate allora. Ma il tono generale del manifesto è al di là della ragionevolezza. La difesa, totalmente acritica, della scelta che fece Mitterrand di dare protezione ai brigatisti contiene una implicita, insultante e infondata, valutazione sull’Italia. Alcuni fra coloro che hanno firmato il manifesto sono recidivi: avevano firmato anche per Cesare Battisti. Forse è vero che tutti possono imparare dall’esperienza tranne certi intellettuali. Ovvero, non può essere accettata a scatola chiusa la tesi di Umberto Eco secondo cui una persona che legge, per ciò stesso, ne vale due che non lo fanno. Poiché ci sono anche infaticabili lettori incapaci di formulare giudizi sensati sul mondo che li circonda, la tesi di Eco, quanto meno, va meglio precisata. Certi che fanno un mestiere intellettuale (in Francia, in Italia e ovunque) possono essere troppo innamorati delle proprie idee - che sono spesso le idee di moda nei circoli che frequentano - per essere disposti a rivederle. Dal j’accuse di Émile Zola sull’affare Dreyfus al je me pavane (mi pavoneggio) dei tempi nostri. È la storia di molti manifesti - in favore della Pace, ma in versione sovietica, all’epoca della Guerra fredda, in favore della libertà del “perseguitato” Cesare Battisti, e in favore di tante altre sballatissime cause - firmati da intellettuali europei nel corso del tempo. Raramente chi firma ha approfondito l’argomento. Si firma per narcisismo, per farsi notare, per conformismo. Il gesto di una congrega di disinformati narcisi non meriterebbe tanto spazio se non fosse per il pregiudizio anti-italiano che rivela. In pratica quel manifesto fa apparire, implicitamente, l’Italia degli anni Settanta come qualcosa di simile al Cile di Pinochet e i brigatisti come dei perseguitati. Stupidaggini che possono però essere sostenute senza correre il rischio di perdere faccia e reputazione perché sono compatibili con certe credenze dell’opinione pubblica, non sono in contrasto con un diffuso pregiudizio anti-italiano. Con ciò però si cambia registro. Non si tratta più di stigmatizzare i comportamenti di certi intellettuali ma di riflettere sul futuro dell’Europa. Bisognerebbe valutare con più attenzione quanto radicati siano i pregiudizi, e i connessi stereotipi negativi, che certi europei coltivano gli uni nei confronti degli altri. Nonostante settantasei anni di pace in Europa e nonostante il processo di integrazione. Ciò spiega anche perché, a un certo punto, in diversi Paesi europei, siano diventati politicamente importanti i cosiddetti movimenti sovranisti. Certi leader italiani non parlerebbero della Germania nei termini negativi in cui ne parlano se non potessero fare leva su antichi pregiudizi anti-tedeschi. I leader delle democrazie nordiche fanno la stessa cosa quando si riferiscono ai mediterranei (italiani e greci in primo luogo). I sovranisti potrebbero presto scomparire oppure no, potrebbero avere ancora più successo oppure no. Ma i pregiudizi negativi incrociati fra gli europei, essendo il prodotto di secoli e secoli di storia costellata di guerre e continui soprusi reciproci, di sicuro continueranno a condizionarci. La costruzione europea fu fin dall’inizio l’opera di minoranze, poche persone che nei vari Paesi avevano riflettuto sui disastri della prima metà del Novecento e ne avevano compreso la lezione. A quelle minoranze si devono le istituzioni europee. Istituzioni imperfette, imperfettissime, come ogni cosa umana. Ma anche preziose per tutti gli europei. Quelle minoranze si sono trascinate dietro le rispettive opinioni pubbliche. Ma hanno sempre dovuto fare i conti con quanto la storia ha depositato in Europa: antiche diffidenze dei vari gruppi nazionali gli uni nei confronti degli altri, ostilità che possono covare sotto la cenere per lungo tempo ma che in qualunque momento sono in grado di incendiare il paesaggio. Certo, non ci sono soltanto ostilità e pregiudizi negativi. Una parte del pubblico europeo se li è lasciati alle spalle. Ma una parte no. È poco consolante il fatto che ci siano settori dell’élite intellettuale che anziché contrastare quei pregiudizi li facciano propri e li alimentino. Per questo, soprattutto, l’Europa resta una costruzione fragile. Lo storico dell’impero britannico John Seeley pensava che l’impero fosse il prodotto di a fit of absence of mind, letteralmente un impulso dovuto a una “assenza della mente”, ossia a distrazione. L’idea era che l’impero fosse stato creato senza che gli inglesi ne avessero vera consapevolezza. Le minoranze che hanno costruito l’Europa sapevano per lo più (grosso modo) cosa stessero facendo e perché. Si ha talvolta l’impressione che molti europei, compresi certi intellettuali, le abbiano seguite per distrazione. Francia. “L’estradizione viola diritti, inaccettabile il paragone col Bataclan” di Anais Ginori La Repubblica, 4 maggio 2021 La replica dei nove estremisti rossi degli Anni di piombo al ministro della Giustizia Éric Dupond-Moretti, che ha li ha messi sullo stesso piano degli jihadisti che hanno fatto strage a Parigi. “Un paragone fuori posto”. “Una scorciatoia penosa”. “Disinformazione”. Rispondono così gli avvocati dei nove ex terroristi rossi degli Anni di piombo che il ministro della Giustizia Éric Dupond-Moretti ha messo sullo stesso piano dei giovani che compiono attacchi jihadisti. “Avremmo accettato che uno degli autori della strage del Bataclan se ne andasse tranquillamente a vivere per quarant’anni in Italia?” ha domandato in modo polemico il Guardasigilli, ex avvocato. “È un paragone totalmente fuori posto” ha risposto Michel Tubiana, presidente della Ligue des Droits de l’Homme che ha ospitato una conferenza stampa dopo gli arresti di mercoledì e a poche ore dalla prima udienza mercoledì presso la Corte d’appello. L’incontro con i giornalisti serviva a tracciare la linea difensiva in vista delle prossime tappe. “Si può essere d’accordo o meno con la scelta che aveva fatto allora la Francia, ma è stata mantenuta per trentasei anni” ha detto Irène Terrel. Parla di “tradimento” la storica avvocata degli ex terroristi che in questo caso difende Giovanni Alimonti, Luigi Bergamin, Roberta Cappelli, Narciso Manenti, Giorgio Pietrostefani e Marina Petrella. Gli avvocati continuano a ripetere quello che per loro era il senso originale della Dottrina Mitterrand, ovvero accogliere tutti gli italiani che “deponevano le armi” senza fare eccezione per chi aveva commesso i crimini di sangue. E non a caso è proprio durante un discorso davanti ai militanti della Ligue des Droits de l’Homme che François Mitterrand non menzionò questa distinzione, citata invece in un altro discorso all’Eliseo in presenza di Bettino Craxi (e a cui si riferisce ora l’Eliseo nel dare il via libera alla procedura di estradizione). “Sono state falsificate le dichiarazioni di un ex Presidente della Repubblica per scopi miserabili” attacca Tubiana. Al di là dell’ambiguità di questa dottrina solo basata su dichiarazioni dell’allora capo di Stato, con le varie interpretazioni fornite negli anni a seconda delle posizioni, l’avvocata Terrel ricorda che pur non essendoci una legge che concedeva asilo politico ci sono stati “effetti giuridici” concreti. Gli italiani condannati per reati di terrorismo hanno ottenuto permessi di soggiorno presso le Prefetture, sempre rinnovati e poi nel tempo diventati permanenti. In due occasioni, prosegue l’avvocata, le autorità francesi hanno proceduto ad aggiustamenti normativi per permettere che non venissero fermati i rifugiati: prima togliendo i loro nomi dagli archivi delle persone ricercate durante la creazione dello spazio Schengen e poi con la postilla che non prevede di applicare il Mandato di arresto europeo per i reati commessi prima del 1993. Quasi tutte le persone fermate hanno già avuto procedimenti e sentenze in Francia nelle stesse procedure di estradizioni, quasi sempre bloccate dai magistrati tranne in alcuni casi come Petrella e Cesare Battisti. “Il potere politico - commenta Terrel - si permette oggi di chiedere a dei giudici di modificare le loro sentenze del passato che, fra l’altro, hanno acquisito la forza del passato in giudicato”. Questa, ha aggiunto, “è una violazione dei diritti”. Come in passato la difesa solleverà il problema delle condanne in contumacia: secondo la legge francese le persone hanno diritto a un nuovo processo mentre in Italia le sentenze sono definitive. Un altro punto, che riguarda invece la Francia, è la situazione famigliare degli estradandi ormai molto radicata in Francia dopo oltre quarant’anni di vita Oltralpe. “L’ipotesi di estradizione - sostiene Terrel - viola la vita privata e famigliare secondo l’articolo 8 della convenzione europea dei diritti dell’uomo applicabile nel nostro ordinamento”. L’avvocata di Pietrostefani - che ricorda le condizioni di salute precarie del suo assistito vicino agli ottant’anni - spende anche una parola per le vittime del terrorismo in Italia, citando Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi Calabresi ucciso nel 1972. “Anche lui dice che cinquant’anni dopo i fatti, non è una riparazione buttare in prigione una decina di persone che hanno dimostrato di essersi reinserite nella società”. Antoine Comte, avvocato di Sergio Tornaghi, risale sino alla rivolta della Comune nel 1871, e alle parole che scrisse Victor Hugo in favore di un’amnistia per chi aveva commesso massacri durante l’insurrezione. “Soyez grands, soyez forts” scriveva Hugo ai deputati che poi votarano l’amnistia. La battaglia giudiziaria, come si capisce, spazierà dal piano tecnico a quello più storico-politico. E sarà comunque lunga: si parla di anni con i vari gradi di ricorso possibile. “Escludo che queste persone possa essere inviate in detenzione in Italia” dice convinta Terrel ricordando anche l’età degli estradandi, tutti sopra ai sessant’anni. “Faremo vernire in tribunale avvocati italiani che potranno spiegare alla Corte come funzionano le regole di detenzione in Italia dove, da quel che capisco, non ci sono riduzioni di pene per le persone più anziane come succede invece in Francia”. Uno dei legali, Jean-Pierre Mignard, difensore di Luigi Ventura, è già in queste ore nel nostro Paese per incontrare un collega italiano con il quale costruirà la linea difensiva. Stati Uniti. Carceri private: con lo stop di Washington l’America cambia rotta di Corrado Fontana valori.it, 4 maggio 2021 Lo Stato di Washington dice basta al business del carcere privato. La decisione segue le promesse e i primi ordini esecutivi del presidente Joe Biden. Per il carcere privato, luogo di pena che si trasforma in opportunità di business, non c’è più spazio. Almeno nell’America immaginata da Joe Biden, dove anche lo Stato di Washington ha appena recepito l’indirizzo della Casa Bianca in tal senso. Il 26 gennaio il presidente ha infatti posto la firma all’ordine esecutivo che impone al Dipartimento di Giustizia una riforma del sistema carcerario federale, con uno stop definitivo al ricorso alle prigioni private. E il governatore Jay Inslee, il 2 aprile 2021, ha firmato una legge che proibisce alla sua amministrazione di stipulare nuovi accordi di servizio con carceri private. Ad affermarlo è il Senate Bill 6442, provvedimento sponsorizzato dalla senatrice locale Rebecca Saldaña, che proibisce anche di inviare persone in altre carceri private fuori dallo Stato. Il provvedimento di Inslee diventa così un ulteriore tassello della rivoluzione tranquilla di “Sleepy Joe”. Il “sonnolento Joe”, come l’aveva soprannominato l’ex avversario Trump in senso denigratorio, invece di dormire prova a realizzare speditamente le promesse elettorali a colpi d’atto ufficiale. Un segnale chiaro che, a onor del vero, non è un caso isolato. Segue provvedimenti analoghi adottati da più di una ventina di Stati USA, intenzionati a ridurre per legge, limitare o vietare totalmente, l’operatività delle società che traggono profitto dal carcere. Aziende che quindi hanno tutto l’interesse che i reclusi aumentino. La particolarità di quanto approvato ad Olympia, capitale dello Stato di Washington, è però che questa legge - come già accaduto in Illinois e in California - include nel divieto anche strutture utilizzate dall’Immigration and Customs Enforcement (ICE). Ovvero l’agenzia che “gestisce” temi di sicurezza delle frontiere e immigrazione. Questa specificità mette al centro del dibattito il tema della detenzione dei migranti, fortemente contestata anche negli USA. E, nello Stato di Washington, apre una battaglia politica, mediatica e giudiziaria intorno all’istituto penitenziario di Tacoma: il Northwest Detention Center. La legge firmata da Inslee vieta, infatti, i centri di detenzione a scopo di lucro nello Stato. E questa, prigione per immigrati da 1.575 posti letto, è l’unica che soddisfa i requisiti del provvedimento. E allora è probabile che GEO Group chiamerà in giudizio la nuova legge. Come già accaduto in California, dove una misura simile è stata portata in tribunale nel 2019. E la sua legittimità è appesa ora ad una sentenza d’appello. GEO Group, una delle più grandi società del settore carcerario privato statunitense, gestisce anche la struttura di Tacoma. Si annuncia perciò una battaglia legale della compagnia per evitare che il contratto di servizio non venga rinnovato alla scadenza naturale, nel 2025. Da parte sua, il procuratore generale di Washington, Bob Ferguson, ha già dichiarato di essere pronto a difendere il provvedimento in aula, se fosse necessario. Stando ai dati del rapporto “Private Prisons in the United States”, la popolazione carceraria detenuta in strutture private americane nel 2019 era di 115.428 individui. Ovvero l’8% del totale dei reclusi in un carcere statale o federale. Un numero ancora importante per le società operanti in questo settore. Anche se la cifra è diminuita del 16% rispetto al picco del 2012, quando la quota raggiungeva i 137.220 detenuti. Il declino attuale corregge, quindi, parzialmente un vero boom di ingressi registrato nel corso del primo ventennio del 2000. Quando la popolazione nelle prigioni for profit era aumentata del 32% rispetto a una crescita complessiva dei carcerati USA che si era fermata al 3%. D’altra parte va detto che, tra i diversi Stati americani, ci sono variazioni significative nel loro ricorso a strutture correzionali private. Di fronte alla passione del Montana, con il 47% dei suoi detenuti in strutture penitenziarie di compagnie private, altri 20 Stati non ne avevano nemmeno uno. Nel 2019 c’erano 30 Stati che, come il governo federale, si avvalevano dei servizi penitenziari di strutture private. E le principali società fornitrici erano, oltre alla citata GEO Group, Core Civic (ex Corrections Corporation of America), LaSalle Corrections e Management and Training Corporation. Il Texas, primo Stato ad adottare prigioni private nel 1985, vi ha recluso il maggior numero di persone (12.516) sotto la sua giurisdizione. E, dal 2000, la popolazione delle prigioni private è più che raddoppiata in otto Stati: Arizona (480%), Indiana (313%), Ohio (253%), North Dakota (221%), Florida (205%), Montana (125 %), Tennessee (118%) e Georgia (110%). Stati Uniti. Prigioniero per vent’anni a Guantanamo bay senza un capo d’accusa di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 4 maggio 2021 Il caso del palestinese Abu Zubaydah, che ora ha denunciato il Governo americano. L’11 gennaio del 2002, nella base navale statunitense di Guantanamo a Cuba, venne aperto ufficialmente l’omonimo centro di detenzione. Qui finirono i prigionieri catturati in Afghanistan e in altre zone del mondo attraverso le famigerate “extraordinary rendition”, per essi si aprivano le porte di un inferno nel quale non avevano nessun diritto, per i reclusi venne coniato il termine di ‘ combattenti nemici illegali’, non contemplato nel lessico del diritto umanitario. Significava che non erano considerati né come prigionieri di guerra né come normali criminali condannati (che avrebbe garantito loro assistenza legale e un processo). Insomma si trattava di semplici detenuti senza alcun status giuridico. Nel corso degli anni a Guantanamo sono stati rinchiuse almeno 800 persone (ora ce ne sono una quarantina), solo per dieci di queste è stato formulato un capo d’imputazione. E’ ciò che è successo a Abu Zubaydah (palestinese di origine saudita, (vero nome Zayn al- Abidin Muhammad Husayn), oggi cinquantenne che da 19 anni si trova all’interno della struttura di detenzione dopo essere stato arrestato in Pakistan nel marzo 2002 perché sospettato di essere un membro influente di al- Qaeda. Gli stessi funzionari statunitensi però non hanno mai confermato l’accusa, inoltre secondo l’FBI Zubaydah avrebbe collaborato senza difficoltà e nonostante ciò venne sottoposto ad almeno dieci metodi di tortura incluso il waterbording (soffocamento attraverso l’acqua). Il trattamento sarebbe stato eseguito 83 volte. Venerdì scorso però l’avvocato dell’uomo, Helen Duffy, ha dichiarato venerdì che è stata presentata una denuncia al Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria, contro gli Stati Uniti e altri sei paesi (Regno Unito, Thailandia, Afghanistan, Lituania, Polonia e Marocco), chiedendo un intervento riguardo il caso e un impegno per la liberazione. Secondo il legale “la detenzione non ha basi legali nel diritto internazionale, offende tutti i principi del giusto processo”. L’Onu dovrà dunque decidere se gli Usa sono obbligati a rilasciare Zubaydah. Un’eventualità molto difficile anche se in gioco c’è altro. La Corte suprema americana infatti ha deciso di riesaminare una petizione presentata dallo stesso Zubaydah il quale ha chiesto di citare in giudizio due consulenti della CIA che hanno supervisionato le operazioni di tortura dopo l’11 settembre. Si tratta di James Mitchell e Bruce Jessen i quali avrebbero agito in una struttura segreta dell’Agenzia in Polonia. Quì Zubayda avrebbe subito le torture che la Corte Suprema descrive come “interrogatori rafforzati”, le pratiche d’interrogatorio sono riportate dettagliatamente. Oltre il waterboarding l’uomo sarebbe stato costretto a rimanere sveglio per 11 giorni consecutivi, quando si addormentava veniva investito da un getto di acqua fredda, a volte sarebbe stato rinchiuso in una scatola di piccole dimensioni e sospeso con dei ganci. Già nel 2019 la Corte d’Appello degli Stati Uniti per il Nono Circuito di San Francisco, aveva stabilito che i due consulenti Cia sarebbero potuti essere interrogati anche se in maniera limitata. La tortura dunque è stata ormai accertata da tempo, il governo ha dovuto declassificare una quantità significativa di informazioni riguardanti l’ex Programma della Cia, compresi proprio i dettagli del trattamento di Abu Zubaydah durante la custodia. Una circostanza che paradossalmente invece di fare luce e giustizia ha frapposto un nuovo ostacolo. Le informazioni che riguardano le identità dei partner dell’intelligence straniera e l’ubicazione delle ex strutture di detenzione nei loro paesi, riguardano la sicurezza nazionale che, secondo i funzionari governativi, potrebbe così essere messa a rischio se oggetto d’inchiesta. In ogni caso l’Alta Corte non si occuperà del caso se non poco dopo l’inizio del suo nuovo mandato in ottobre. Nel frattempo bisognerà capire come si muoverà la nuova amministrazione di Joe Biden rispetto la chiusura di Guantanamo (a suo tempo annunciata, ma mai realizzata, da Obama). Non a caso l’avvocato che assiste Zubaydah ha sottolineato che che il modo in cui il nuovo presidente degli Stati Uniti risponderà alla denuncia “sarà una prova del suo impegno recentemente dichiarato per lo stato di diritto internazionale e i diritti umani”. Iran. Giallo sulle trattative con Gb e Usa per il rilascio di prigionieri La Repubblica, 4 maggio 2021 “Sono determinato a riportare a casa ogni americano detenuto” in Iran. Lo ha ribadito il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, definendo però “errate” le notizie, circolate nel fine settimana, su un accordo tra Washington e Teheran per uno scambio di prigionieri e lo sblocco di fondi iraniani congelati. La notizia era stata già smentita ieri dal dipartimento di Stato. Blinken è a Londra per la ministeriale Esteri del G7 e ha avuto dei bilaterali, tra cui quello con l’omologo britannico, Dominic Raab, che aveva il dossier iraniano in cima all’agenda. Il sottosegretario agli Esteri britannico James Cleverly ha confermato che il Regno Unito e l’Iran sono in trattative sul debito da 400 milioni di sterline (460 milioni di euro) che il primo deve al secondo, ma ha negato che le trattative siano in relazione con la detenzione dell’operatrice umanitaria anglo-iraniana Nazanin Zaghari-Ratcliffe, detenuta nel Paese dal 2016 con accuse di intenti sovversivi e spionaggio. Accuse che la donna ha sempre respinto, e il suo arresto e il rifiuto di rilasciarla è stato spesso interpretato come un ricatto portato avanti dal Paese degli ayatollah per forzare la Gran Bretagna a risarcire il debito, formalmente riconosciuto ma non onorato dai britannici anche per via delle sanzioni. Il Regno Unito deve risarcire l’Iran per l’acquisto di carri armati pagati da Teheran negli anni ‘70 e mai consegnati. Zaghari-Ratcliffe ha in dichiarato in passato di essere stata arrestata per essere utilizzata come pedina di scambio per facilitare il risarcimento del debito. Il primo ministro britannico Boris Johnson tuttavia ha specificato che le due questioni sono “completamente separate”, affermando che il governo sta facendo “tutto il possibile” per assicurarsi la liberazione di Zaghari-Ratcliffe. Nel frattempo due cittadini con doppia nazionalità iraniano-americana, Morad Tahbaz e Siamak Namazi, sono stati trasferiti in celle usate in passato per detenuti che stavano per essere rilasciati. Secondo il Guardian, che cita fonti interne al carcere di Evin a Teheran, ciò fa ben sperare per la loro scarcerazione. Tabhaz è co-fondatore della Persian Wildlife Heritage Foundation e nel novembre 2019 è stato condannato a 10 anni di carcere per “intelligenza col nemico Usa”. Namazi è il prigioniero statunitense da più tempo detenuto in Iran, è stato condannato a 10 anni nell’ottobre del 2016. Gli sviluppi fanno seguito alle indiscrezioni del fine settimana da parte dei media iraniani secondo i quali sarebbe stato imminente uno scambio di prigionieri che coinvolgerebbe quattro cittadini stranieri non identificati. Ipotesi oggi smentita del portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Saeed Khatibzadeh, che ha detto che “come regola non confermiamo notizie e dichiarazioni di cosiddette fonti informate”.