Nove morti senza verità di Pierfrancesco Albanese L’Espresso, 3 maggio 2021 La strage del carcere Sant’Anna di Modena. A un anno dalla rivolta, un recluso forse picchiato a morte, altri otto ufficialmente uccisi dal metadone. ma familiari e legali non ci stanno. Nove morti senza un perché. Il silenzio che si allunga sui corpi, nei luoghi dove un tempo è stato tumulto. Ingoia i dubbi. E rigurgita certezze. Quelle della Procura, che per uno dei tre rami dell’indagine sulle rivolte del carcere di Modena chiede l’archiviazione. Per otto dei nove morti - questa la tesi - la causa del decesso è overdose da metadone o altri psicofarmaci. Senza responsabilità terze, senza elementi che corroborino l’ipotesi di ulteriori concause. Ma a un anno di distanza non è tutto chiaro sulla “Strage del Sant’Anna”. Quella definita dal garante dei detenuti, Mauro Palma, come l’evento più drammatico degli ultimi decenni del carcere. E che è costata la vita a nove dei tredici detenuti morti nelle sommosse dei penitenziari italiani. Cinque al Sant’Anna di Modena: Erial Ahamadi, Hafedh Chouchane, e Slim Agrebi a qualche ora dalle rivolte, Lofti Ben Mesmia e Ali Bakilia nei due giorni successivi; altri quattro nelle carceri di destinazione dopo il trasferimento: Ghazi Adidi a Verona, Artur Iuzu a Parma, Abdellha Rouan ad Alessandria e Salvatore Piscitelli ad Ascoli. Per questo - per illuminare le zone grigie della vicenda - si oppongono all’archiviazione i legali dei familiari, dell’ufficio nazionale del garante dei detenuti e dell’associazione Antigone. Sono tre i filoni d’indagine aperti sui fatti di Modena: uno sui reati commessi dai reclusi durante la sommossa, un altro sui presunti pestaggi delle forze dell’ordine culminati secondo l’esposto di cinque di loro nella morte di Salvatore Piscitelli, e infine quello sul decesso di otto dei nove detenuti, Piscitelli escluso, per cui l’ipotesi di reato è omicidio colposo. È su questo che ricade la richiesta d’archiviazione. Perché, per il procuratore Giuseppe Di Giorgio, “non sono emerse responsabilità di singoli, non rispetto alle morti”. “La Procura”, dice a L’Espresso, “ha svolto una ricostruzione completa sui fatti, ed è in corso il fisiologico contraddittorio davanti al giudice. Attendiamo le sue decisioni, rinviando all’esito ogni ulteriore commento”. In buona sostanza, per la Procura, i reclusi avrebbero saccheggiato l’infermeria, assunto il metadone e ingrossato le fila dei rivoltosi. I medici, i sanitari e il personale di polizia penitenziaria avrebbero poi fatto il possibile per salvarli. Non è così, però, per i legali dei familiari. Molti sarebbero i nodi ancora da sciogliere. Tra tutti, quanto accaduto negli attimi successivi alla rivolta, quando viene allestito un presidio medico per visitare i detenuti in condizioni peggiori. E quando, soprattutto, sarà disposto il trasferimento di 417 dei 546 reclusi per l’inagibilità di gran parte della struttura. Senza che vi siano riscontri documentali sulle visite effettuate nelle prime ore, né sui nulla osta sanitari imposti dalla legge per i trasferimenti. “In questa fase bisognava vagliare le condizioni dei detenuti e per i più gravi bisognava disporre un ricovero in loco e d’urgenza”, dice a L’Espresso l’avvocata Simona Filippi di Antigone, tra gli autori dell’opposizione. “Non bisognava trasferirli, perché c’era la probabilità che si sentissero male”. La morte di nove persone, per la legale, sarebbe sintomatica di una cattiva gestione clinica dell’emergenza. “Anche perché”, continua, “il metadone non provoca effetti immediati. Intorno alle 13-14 dell’8 marzo 2020 si è capito che c’era stata questa dispersione di metadone e psicofarmaci. Tant’è che nel giro di qualche ora i detenuti hanno portato il primo deceduto davanti ai cancelli. I sanitari e la polizia penitenziaria avrebbero dovuto disporre subito i controlli necessari su chi aveva assunto farmaci. Non è stato fatto e alcuni sono stati trasferiti, poi sono morti”. Vista la mancanza di carteggio, abbondano gli interrogativi: “Che linea di comando c’era per disporre i trasferimenti? Come venivano visitati i pazienti? E dove si è attestata la loro condizione?”. In definitiva: potevano essere salvati? Se lo chiede anche Luca Sebastiani, promotore dell’opposizione e legale di Hafedh Choucane, tra i deceduti di Modena. Per lui, tra i mille rivoli della rivolta, i dubbi si annidano sul tema della possibile responsabilità omissiva e sui ritardi nei soccorsi. “I detenuti”, spiega, “sono affidati alla custodia dello Stato, che si assume l’onere di privarli della libertà personale e deve perciò garantirne la tutela durante la detenzione. La polizia penitenziaria quel giorno ha affrontato una situazione delicata. Ma quando parliamo di sovraffollamento non possiamo meravigliarci che una situazione che poteva essere gestita sia esplosa”. Tra i punti fermi, al momento, solo le cause della rivolta: la paura del Covid-19, l’impossibilità di vedere i parenti e il sovraffollamento. All’8 marzo 2020, erano 546 i detenuti su un bacino di 360 posti disponibili. “Un fatto con cui bisognerà prima o poi fare i conti”, sostiene Roberto d’Errico, vicepresidente dell’Unione camere penali italiane. “Per i fatti di Modena è essenziale che continuino le indagini e si accertino le responsabilità: è impensabile che i detenuti muoiano per aver abusato di psicofarmaci nel carcere”. Le ricostruzioni della Procura non convincono neppure i membri del Comitato Giustizia e verità per i fatti di Modena, autori di un dossier che evidenzia le perplessità residue. Specie quelle imperniate sull’uso della forza da parte degli agenti. Legittima, in circostanze eccezionali, secondo l’ordinamento penitenziario; illegittima secondo l’esposto presentato da cinque detenuti in seguito alla morte di Salvatore Piscitelli, il cui fascicolo è in capo ad Ascoli. La denuncia racconta di spari ad altezza d’uomo, cariche degli agenti su persone in stato d’alterazione psicofisica e manganellate al volto e al corpo. Violenze che i cinque mettono in relazione proprio con “i detenuti morti successivamente a causa delle lesioni e dei traumi subiti, ma le cui morti sono state attribuite dai mezzi d’informazione all’abuso di metadone”. I pestaggi sarebbero proseguiti anche nei giorni successivi e nel penitenziario di Ascoli, dove sarebbe poi deceduto lo stesso Piscitelli. Tutti fatti, però, contenuti in un fascicolo separato rispetto al decesso degli otto per cui la Procura ha chiesto l’archiviazione. Un nonsense giuridico, secondo gli avvocati Luca Sebastiani ed Ettore Grenci. “In una situazione in cui muoiono nove persone e in cui ci sono degli esposti circa maltrattamenti e pestaggi le due cose dovrebbero essere trattate insieme”, afferma lo stesso Grenci, legale di uno degli autori dell’esposto. “Se e quando si scrive che un abuso di farmaci provoca un arresto respiratorio, l’arresto può essere provocato dai farmaci ma si provoca anche salendo con il corpo addosso a una persona. Credo che sia interesse di tutti accertarlo”. Sulle violenze si concentrano anche i membri del Comitato. “Su Piscitelli”, spiega la portavoce Alice Miglioli, “è uscito l’esposto che ha evidenziato fatti che non si potevano più ignorare. Per gli altri detenuti la versione è morte per overdose, che a noi è stata sempre stretta. Non diciamo che non sia così, ma che manchino dei punti importanti”. Le ombre, per loro, si allungano sui soccorsi, sui trasferimenti e sulle presunte violenze degli agenti. Alcune formalizzate nell’esposto, altre riferite solo ai familiari. “Molti detenuti ci hanno raccontato di essere stati portati dagli agenti nel campo di calcio del carcere a sommossa terminata, e lì son state botte da orbi”, racconta Miglioli. Eventi che, se accertati, potrebbero aiutare ad interpretare la grammatica delle rivolte, secondo Simona Filippi di Antigone. “Ricostruire con più attenzione il discorso delle violenze”, dice la legale, “aiuta a capire perché dopo se la siano presa così tanto con i detenuti: perché già prima c’era un clima di esasperazione e di violenza”. Clima che non sarebbe mutato successivamente. “Quando gli autori degli esposti sono stati trasferiti, sono stati messi in quarantena, ma per 60-70 giorni. Un regime d’isolamento”, racconta ancora Mignoli, evidenziando ulteriori ritorsioni che i firmatari delle denunce avrebbero subito. “I pacchi da casa non arrivavano, non avevano coperte e quando lo abbiamo segnalato sono arrivate coperte bagnate. Le repressioni a posteriori, così come i fatti del campetto, non possono essere giustificate dallo Stato italiano. Per questo occorre fare chiarezza”. Anche Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha, vicina ai detenuti autori dell’esposto, rimesta nel calderone dei dubbi. “La morte di nove persone dopo l’assalto all’infermeria, alcune delle quali senza un passato da tossicodipendenti, è uno schiaffo in faccia a chi segue queste vicende. Le testimonianze anche dalle altre carceri evidenziano dispositivi simili a Modena: vere e proprie spedizioni punitive a rivolte esaurite. Penso che ci sia stato una sorta di protocollo, ordini dall’alto perché le sommosse dovevano finire”. “La giustizia che umilia i detenuti è un pericolo per tutti noi” di Orlando Trinchi Il Dubbio, 3 maggio 2021 Intervista a Edoardo Vigna, co-autore del saggio “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia”. “Una pena che sia solo vendetta pubblica e null’altro ha fallito il suo scopo”. La necessità di opporsi al giustizialismo penale per un completo reinserimento del detenuto nella vita della società rappresenta l’essenza del saggio “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia” (Editori Laterza, 2020), del magistrato Marcello Bortolato e del giornalista del Corriere della Sera Edoardo Vigna. Vigna, a cosa dovrebbe realmente tendere l’esercizio della pena, considerando anche quanto sancito dalla Costituzione? L’articolo 27 stabilisce che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, che con il tempo la giurisprudenza ha interpretato in senso più ampio di “risocializzazione”. Ciò che sorprende è che, dopo 72 anni, quell’idea venga ancora messa in discussione. La propaganda del populismo penale fa continuamente leva sulla visione retributiva della pena, del “male per male” miope, che usa slogan vecchi ma sempre efficaci come “Lasciamoli marcire in carcere”. Presto o tardi, le condanne finiscono. Il primo interesse di tutti è ridurre la recidiva. “Buttiamo via la chiave”: questo il classico slogan del populismo penale. Cosa avviene, tuttavia, nel caso del detenuto cui non sono concesse misure alternative al carcere? Le statistiche ci dicono che la recidiva in Italia è in effetti a livelli record: sette ex carcerati su 10 tornano a delinquere, ma sono solo due fra quelli che hanno espiato la parte finale della pena in misure alternative. La percentuale crolla dal 70 all’uno per cento tra chi che negli anni da detenuto abbia avuto modo di lavorare. Come giudica le misure poste in essere durante l’emergenza Covid-19? Le misure adottate fin da subito sono state efficaci ma quanto ai provvedimenti di legge, sono stati invece insufficienti e non hanno consentito una vera deflazione. La diminuzione dei detenuti si è avuta solo grazie al lavoro dei magistrati di sorveglianza che hanno cercato di applicare al massimo gli istituti normativi già esistenti. Il carcere non assicura il distanziamento sociale e il problema del contagio nelle galere è molto serio. Perché si pensa che i tribunali italiani siano meno severi? Una delle ragioni principali è il problema dei problemi della giustizia italiana: la durata dei processi. Questo non è solo un problema per l’imputato e per le parti in causa per i ritardi nell’ottenere una sentenza. Lo è anche per la percezione dell’opinione pubblica, che vede chi è sotto accusa attendere spesso fuori dal carcere l’eventuale condanna, e quando questa arriva - dopo anni - non ne ha coscienza. Ma i dati dicono che in carcere in Italia si va più spesso che in Germania - per fare un esempio - e si rimane più a lungo della media europea. Altro aspetto spesso contestato: il diritto all’affettività dei detenuti... Anche qui c’è un equivoco di fondo. Il diritto all’affettività contiene quello al sesso ma non lo esaurisce. Il punto è che l’affettività non può essere considerata un eventuale premio per chi si comporta bene. È una dimensione naturale dell’essere umano. Parte essenziale del concetto stesso di dignità. In queste settimane e in questi mesi di pandemia tanto ci lamentiamo di non poter abbracciare i cari e gli amici, ma pensiamo agli effetti di una detenzione che non permette di abbracciare nemmeno chi va a trovare i carcerati. Che uomo uscirà, dopo una carenza prolungata? Un uomo migliore, più sereno? E qual è l’interesse dei cittadini, in termini di sicurezza: che esca un uomo incattivito, che abbia visto tagliati tutti i suoi legami? Sarebbe auspicabile, per superare le istanze punitive di un sistema carcero- centrico, adottare un paradigma di giustizia riparativa? È un modello che ha nei concetti di accoglienza e di recupero del condannato la sua dimensione più autentica. In prospettiva, credo sia una delle strade da percorrere e immagino che tra cento anni possa aver avuto una implementazione forte che ci farà guardare al tempo odierno come a una fase superata. Tre idee, una giustizia di Luciano Violante La Repubblica, 3 maggio 2021 C’è una grave questione morale nella magistratura, resa ancora più evidente dall’arresto nei giorni scorsi di un altro giudice, a Bari, e dalla circolazione di dossier giudiziari a fini intimidatori. Risponde all’interesse generale rimuovere le cause delle deviazioni; è quindi ragionevole che il Parlamento intervenga. Alcuni parlamentari hanno proposto una Commissione d’inchiesta. Sono prevedibili interferenze politiche nei confronti di processi in corso e dell’attività che sta svolgendo il Csm, inammissibili in uno Stato di diritto, politicamente inopportune per le conseguenze di screditamento reciproco che ne deriverebbero, costituzionalmente sterili perché non cambierebbero lo stato delle cose. Il Parlamento deve comporre i conflitti, non deve esasperarli. Servono incisivi interventi di riforma, accompagnati da rigorose audizioni delle commissioni parlamentari che facciano comprendere la causa, il carattere e l’entità delle deviazioni. Occorre innanzitutto applicare rigorosamente la Costituzione. È invalsa la prassi, per consolidare il potere delle correnti, che alla scadenza del quadriennio si debba rinnovare tutto il Csm. Ma la Costituzione non prevede l’elezione contestuale dell’intero Csm; prevede invece che i singoli componenti restino in carica per quattro anni. Oggi sei consiglieri sono stati eletti in sostituzione di coloro che si sono dimessi dopo la vicenda Palamara. Questi sei nuovi componenti dovrebbero restare in carica per quattro anni, sino al 2025. Gli altri, eletti nel 2018, decadranno nel 2022. Si avvierebbe così la rotazione dei singoli e le correnti non potrebbero più prendere accordi complessivi. La rotazione consentirebbe di superare lo squilibrio di conoscenze tra togati, che quando arrivano a Palazzo dei Marescialli sanno già tutto, e laici, che devono imparare tutto sin dal primo giorno. Un secondo intervento dovrebbe riguardare la sostituzione dei magistrati segretari e componenti dell’Ufficio studi del Csm, che oggi vengono scelti sulla base dell’appartenenza di corrente, con un corpo di funzionari del Csm, non magistrati, selezionati per concorso. Il terzo intervento riguarderebbe i rapporti tra magistrati e politici. Al momento dell’elezione del vicepresidente del Csm, primo atto di un nuovo Csm, i candidati, che devono essere laici, sono indotti a patteggiare il voto con i magistrati eletti e con ciascuna corrente, in cambio di impegni che riguardano il funzionamento e l’attività del Csm. I patti condizionano il quadriennio. Se il vicepresidente del Csm venisse nominato dal presidente della Repubblica, che è presidente del Csm, quei patti non avrebbero più ragion d’essere. I gruppi parlamentari, inoltre, potrebbero decidere, d’intesa tra loro, di non candidare parlamentari in carica. Sarebbe utile, infine, costituire un’Alta Corte, composta con gli stessi criteri della Corte Costituzionale, che decida sulle impugnazioni contro le decisioni disciplinari e amministrative del Csm. Alla stessa Corte, con alcune integrazioni, potrebbe essere affidato il compito di decidere sulle impugnazioni relative a tutte le decisioni dei Consigli di Presidenza della magistratura amministrativa, contabile e tributaria. La Nuova Ricostruzione, di cui ha parlato il presidente Draghi, richiede tanto l’impegno del Parlamento per un nuovo rapporto di fiducia tra giustizia, politica e società, quanto l’impegno di ciascun magistrato e dell’intera magistratura per un’etica della professione coerente con quell’obbiettivo. Giustizia, la riforma che non può attendere di Pierfrancesco De Robertis Il Giorno, 3 maggio 2021 L’immagine che l’ennesimo caos sul tema giustizia trasmette al Paese è quella di un intero settore dello Stato ormai fuori controllo. Al di là del merito specifico della vicenda che presenta tutti i classici del genere - guerra interna alla magistratura inquirente, corvi che svolazzano, verbali in fuga dai cassetti, veline recapitate a giornalisti reputati amici - la sensazione è che si sia sceso un ulteriore scalino verso il baratro della sfiducia, oltre al quale sarà davvero difficile riacchiappare quel minimo di legame tra il Paese e uno dei suoi organi fondamentali. Con i chiari di luna degli ultimi giorni sorprendono poco i recenti sondaggi secondo i quali la magistratura non è mai stata così in basso nella considerazione comune. Le prospettive peraltro non sono rosee. Che una riforma vera, una riforma delle regole che governano il comparto giustizia, sia indispensabile l’hanno capito anche i sassi. E anche sulle cose da fare le idee sono abbastanza chiare. Separazione delle carriere, fine del sistema correntizio, riforma delle nomine del Csm, responsabilità civile. In molti casi sono gli stessi settori meno oscurantisti della magistratura a chiedere una svolta. Il punto però è che la politica cui fino a prova contraria spetta cambiare le regole del gioco non ha la forza di imporre una svolta. I tacchini non amano il Natale, si sa, e così chi si fa carico di qualche tentativo di riforma finisce prima o poi ad avere un guaio. La giustizia è come i tralicci della luce elettrica: chi tocca muore. Eppure bisogna uscirne, e un modo andrà trovato. L’unico modo è probabilmente che la politica avverta l’urgenza di un intervento, la smetta di farsi la guerra usando le inchieste come maglio per colpire l’avversario, e con spirito repubblicano, quasi costituente e certamente non punitivo verso nessuno, magistratura in primis, detti nuove norme. Ascoltando tutti, anche i giudici, ma non facendosi dettare le regole da nessuno. Scandalo Csm, magistrati indagati e lista dei nomi. Le verifiche sulla “loggia Ungheria” di Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 3 maggio 2021 Le parole di Amara. I magistrati verificheranno se c’è un’associazione segreta o è calunnia. Un’associazione segreta in grado di condizionare nomine e affari oppure una gigantesca macchina del fango alimentata da dossier e file audio. È questo il nodo che dovrà sciogliere la Procura di Perugia titolare dell’inchiesta sulla loggia “Ungheria”, descritta in oltre dieci verbali dall’avvocato Piero Amara, condannato e inquisito per i depistaggi contro l’Eni e svariati episodi di corruzione in atti giudiziari. Una presunta consorteria della quale - sostiene il legale che prova a trasformarsi in una sorta di “pentito” - farebbero parte politici, magistrati, vertici delle forze di polizia, avvocati e imprenditori. Ma sulla quale mancano ancora riscontri, a partire dalla lista degli affiliati, l’eventuale sede degli incontri, gli accordi illeciti tra gli iscritti. Amara è stato interrogato a più riprese dai magistrati di Milano e già due volte da quelli di Perugia guidati dal procuratore Raffaele Cantone. Tornerà nei prossimi giorni e sarà richiamato anche il suo socio Giuseppe Calafiore (altro avvocato già condannato) che ha annunciato la volontà di collaborare. Magistrati indagati - Amara è stato iscritto nel registro degli indagati di Perugia per associazione segreta. L’inchiesta riguarda anche alcuni magistrati di cui ha fatto i nomi, nei confronti dei quali sono state avviate verifiche. Accertamenti che si intrecciano con quelli avviati a Roma per scoprire chi e perché, sei mesi fa, abbia cominciato a diffondere con spedizioni anonime quei verbali che il pubblico ministero milanese Paolo Storari (uno degli assegnatari del fascicolo su Amara) aveva consegnato all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Tra questi quello recapitato al componente del Csm Nino Di Matteo, con le accuse nei confronti del suo collega Sebastiano Ardita, che l’ex pm antimafia ha già bollato come “palesemente calunniose, perché la loro falsità è facilmente riscontrabile; si tratta di un vero e proprio dossieraggio volto a screditare Ardita e a condizionare l’attività del Csm”. La lista con i nomi - L’intrigo comincia nel 2019 quando Amara, assistito dall’avvocato Salvino Mondello, comincia a parlare con i magistrati milanesi e dichiara di avere “una lista di 40 nomi che fanno parte della loggia “Ungheria”. Subito dopo precisa però: “La lista completa potete trovarla a casa di un giudice, oppure chiederla a Calafiore che la custodisce all’estero”. Il giudice, inquisito per un’altra vicenda, subisce una perquisizione ma della lista non si trova traccia. Riferimenti alla loggia “Ungheria” vengono invece trovati nel computer di Amara, appunti scritti da lui che sono alla base degli interrogatori milanesi. L’avvocato dichiara che sono annotazioni sugli accordi per le nomine negli uffici giudiziari e per la conclusione di alcuni affari in cui avrebbe fatto da mediatore: fatti veri o dossier preconfezionati ad uso futuro? I colloqui registrati - Ai magistrati Amara consegna pure alcuni files audio con la registrazione di colloqui “che - spiega - io stesso ho avuto e che provano l’esistenza della loggia”. E per dimostrare la propria attendibilità aggiunge: “Ho materiale, anche video, per dimostrare i rapporti tra persone che pubblicamente negano addirittura di conoscersi”. Mentre tramava con i presunti complici, insomma, registrava e filmava quelle stesse trame. I pm della Procura di Milano si dividono sull’opportunità di procedere con deleghe d’indagine per verificare ciò che l’avvocato racconta, e così Storari decide di muoversi in maniera autonoma. Il ruolo di Davigo - Siamo ormai tra la fine di marzo e gli inizi di aprile 2020. Il magistrato contatta Davigo e gli consegna le copie di lavoro estratte dal proprio computer. “Lo faccio a mia tutela, perché i capi non vogliono andare avanti”, si giustifica. Davigo ne parla informalmente con il vicepresidente del Csm David Ermini e con il procuratore generale della Corte di Cassazione Giovanni Salvi, ma né lui né Storari compiono alcun passo ufficiale. Non ci sono esposti, nessuna pratica può essere aperta. Salvi chiede però conto al procuratore di Milano Francesco Greco di eventuali dissidi. Le carte rimangono nell’ufficio di Davigo. E pochi giorni dopo il suo pensionamento quei verbali vengono spediti in forma anonima ad alcuni giornali. Non sono firmati, non ci sono timbri (a conferma che escono direttamente da un computer di uno degli inquirenti). I giornalisti che li ricevono si insospettiscono e denunciano la ricezione del plico. La Procura di Roma avvia un’inchiesta e accusa la segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto di essere la “postina”. La donna viene perquisita, nella sua abitazione vengono trovate copie di quei verbali. Chi l’ha incaricata di diffonderli? Lei si avvale della facoltà di non rispondere. Per questo nei prossimi giorni Davigo sarà chiamato a spiegare come mai li avesse la sua segretaria. Per un interrogatorio potrebbe essere convocato pure Storari, nei confronti del quale il procuratore generale Salvi ha già annunciato accertamenti ipotizzando “gravi violazioni dei doveri di un magistrato”. Commissione d’inchiesta sui magistrati, Zanettin: “Tentativo di sabotaggio” di Errico Novi Il Dubbio, 3 maggio 2021 I relatori saranno Ceccanti (Pd) e Conte (LeU). Un tentativo di “far abortire” l’iniziativa, secondo il forzista. Ma lo stesso sta accadendo con la legge Zan, il cui relatore è Ostellari (Lega). “I presidenti delle Commissioni riunite prima e seconda di Montecitorio hanno nominato relatori della proposta di legge per la istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sull’uso politico della Giustizia gli onorevoli Ceccanti e Conte. Entrambi i parlamentari, appartenenti al gruppo del Partito Democratico e di Liberi ed Uguali, si sono già espressi nelle scorse settimane contro tale commissione di inchiesta. Pare evidente l’intento di far abortite la nostra iniziativa. Di fronte ai gravissimi scandali che coinvolgono la magistratura italiana, c’è chi continua a fare lo struzzo e guarda altrove. Con queste premesse il cammino verso riforme condivise sulla Giustizia appare sempre più arduo e complicato”. È quanto afferma in una nota Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione giustizia a Montecitorio. La sua paura, dunque, è che sia in atto un tentativo di ammorbidire, se non di cancellare completamente, l’iniziativa di Maria Stella Gelmini, prima firmataria della proposta forzista per indagare sull’uso politico della Giustizia, con particolare riferimento ai processi che hanno riguardato l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Ma le accuse rivolte ora da Zanettin a Pd e LeU sono le stesse che, nei giorni scorsi, M5S, Pd e LeU hanno rivolto alla Lega, a causa della scelta del presidente della Commissione Giustizia al Senato, il leghista Andrea Ostellari, di autonominarsi relatore del ddl Zan, la legge contro l’omotransfobia che tanto sta facendo discutere e che il centrodestra ha tentato di ostacolare, ritardando la sua calendarizzazione al Senato a colpi di polemiche. La Commissione sulla magistratura, nel fine settimana, è tornata a far discutere dopo la notizia del dossieraggio interno al Csm. Si tratta dei verbali delle testimonianze rese dall’avvocato Piero Amara, il principale accusatore a Perugia dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, consegnati dal pm milanese Paolo Storari all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e poi, dalla sua segretaria, Marcella Contrafatto, a Repubblica e Fatto quotidiano, che hanno consegnato i plichi anonimi ricevuti in Procura. Amara, ascoltato alla fine del 2019 dall’aggiunto milanese Laura Pedio e da Storari nell’indagine sui depistaggi nel procedimento Eni-Nigeria, aveva descritto l’esistenza di una superloggia segreta - la loggia Ungheria - composta da magistrati, alti esponenti delle Forze di polizia e dell’imprenditoria, finalizzata a pilotare le nomine al Csm e a gestire gli incarichi pubblici. Storari, però, non vedendo riscontri concreti alle testimonianze di Amara, a marzo del 2020 aveva deciso di consegnare a Davigo questi verbali, non firmati, in formato word, cercando così una tutela. La legge istitutiva della Commissione d’inchiesta verrà calendarizzata la prossima settimana in Commissione giustizia alla Camera. Ma M5S e Pd saranno disponibili a trattare soltanto a patto che non si tratti di una revisione degli ultimi 25 anni di storia politica, riletti con la lente delle vicende giudiziarie che hanno scandito ascesa e crollo dei vari governi. “Abbiamo espresso la nostra preoccupazione soprattutto alla luce della proposta Gelmini - ha spiegato al Dubbio Alfredo Bazoli, capogruppo del Pd in Commissione Giustizia. È un testo che si presta a molti rischi, perché più che una Commissione d’inchiesta sembra una Commissione di natura inquisitoria nei confronti della magistratura, destinata ad una verifica dei rapporti tra politica e magistratura degli ultimi 20- 30 anni, con la malcelata volontà di rimettere in discussione anche alcune vicende giudiziarie che hanno colpito alcuni esponenti politici”. Una cosa pericolosa, secondo il Pd, sia per la necessità di rispettare in maniera rigorosa il principio di separazione dei poteri, ma anche per il rischio di innescare un “conflitto” tra politica e magistratura, anziché disinnescarlo. “In questo momento, tornare indietro alle lacerazioni che ha conosciuto il nostro Paese sotto questo profilo non ci pare una cosa utilissima”, aggiunge Bazoli. A preoccupare è soprattutto la relazione introduttiva della proposta Gelmini, di natura “provocatoria”, in quanto rappresenta quasi “un atto d’accusa nei confronti della magistratura che avrebbe fatto fuori i leader di centrodestra. Quella relazione rappresenta in modo molto evidente l’uso politico della giustizia”. Zan: “La mia legge non è liberticida, tutela la dignità delle persone” di Alessandro Zan Il Dubbio, 3 maggio 2021 In Italia esiste un enorme fenomeno di under-reporting sui reati a sfondo omotransfobico, proprio perché non esiste fattispecie di reato ad hoc. Il valore che le madri e i padri costituenti hanno impresso nella Costituzione non è solo quello di atto fondamentale per tutta la struttura normativa su cui si basano le nostre vite, ma anche di manifesto programmatico, che tutte le sensibilità politiche condivisero, per creare una società realmente democratica e plurale, dopo gli anni del totalitarismo e della catastrofe. In particolare, all’articolo 3 la Costituzione affida alla Repubblica, e quindi al legislatore, il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Dunque anche la tutela di tutte le condizioni e i caratteri insiti in ogni essere umano, in quanto tale. Proprio seguendo il percorso indicato dalla Costituzione, la legge Reale-Mancino già contrasta i crimini d’odio per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. Tuttavia negli ultimi anni i maggiori osservatori europei per i diritti umani hanno relegato l’Italia agli ultimi posti delle loro classifiche per inclusione sociale della comunità lgbt+. Hanno disegnato una vera e propria mappa dell’odio, che ci consegna una situazione critica e d’emergenza: i crimini d’odio e le discriminazioni colpiscono in particolare le donne, le persone lgbt+ e le persone con disabilità. Ovvero individui colpiti per il loro sesso, per il loro genere, per il loro orientamento sessuale, per la loro identità di genere o per la loro disabilità. Ed è esattamente utilizzando questi termini che il ddl, di cui sono stato relatore alla Camera, intende emendare la legge Reale-Mancino, estendendo anche a queste categorie (che sono pure condizioni ascritte all’essere umano, come l’etnia o la nazionalità) l’efficacia della norma. Una volta emendati, gli articoli 604 bis e ter del codice penale - che hanno codificato la legge citata poco fa - diverrebbero dunque non solo uno strumento in più di denuncia da parte delle vittime, ma anche un aiuto alle forze dell’ordine per perseguire e prevenire questi crimini. Come è stato più volte sottolineato anche da dirigenti Oscad (Osservatorio della Polizia di Stato contro le discriminazioni) in Italia esiste un enorme fenomeno di under-reporting sui reati a sfondo omotransfobico, proprio perché non esiste fattispecie di reato ad hoc, dunque i dati in nostro possesso sono decisamente parziali e arrivano tutti dai casi che finiscono sulla stampa o sui social media, perché denunciati pubblicamente dalle vittime. Dunque, da un punto di vista tecnico-giuridico, la nostra volontà (nostra per indicare l’ampia volontà comune di tutte quelle forze politiche che hanno contribuito alla formulazione e all’approvazione alla Camera del testo) è quella di estendere una legge che esiste da più di 40 anni, con una giurisprudenza - anche costituzionale - consolidata, che ne ha chiarito ogni aspetto potenzialmente critico. Mi riferisco agli attacchi pretestuosi e infondati di chi definisce questo provvedimento “liberticida”, e che ha creato nell’ultimo anno massicce campagne di fake news. Questa è una proposta di legge che poggia sul bilanciamento tra la libertà di espressione e la tutela della dignità delle persone. Il Presidente della Repubblica stesso, in occasione dell’ultima giornata internazionale contro l’omofobia, ha chiarito che “le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale costituiscono una violazione del principio di eguaglianza e ledono i diritti umani necessari a un pieno sviluppo della personalità umana”. Insomma la libertà di espressione non può mai degenerare in discriminazione o incitamento all’odio. Per essere chiari, un esempio: un prete in Chiesa sarà sempre libero di affermare che l’unica famiglia possibile può essere tra un uomo o una donna. È ovviamente una libera opinione, che non condivido, ma che deve essere tutelata. Ma una persona non può liberamente augurare il rogo alle persone omosessuali o auspicare che si riaprano i forni crematori per le persone trans, come purtroppo spesso accade soprattutto sui social. Uno stato che si definisce civile deve contrastare con tutta la sua forza questi fenomeni. C’è inoltre un ulteriore aspetto che mi preme sottolineare. Più volte nel corso di questi mesi mi è stato chiesto chi ha paura di questo ddl, e perché spesso chi si oppone ricorre a bufale, in totale malafede. Sono convinto che l’approvazione di questo provvedimento sancirebbe il posizionamento dell’Italia nell’Europa dei diritti, della libertà e della democrazia, tra Paesi come Francia, Germania, Belgio, Spagna, rompendo definitivamente ogni ammiccamento a derive sovraniste come quelle di Ungheria e Polonia. Lega e Fratelli d’Italia guardano ancora a quei modelli, che hanno creato profonde fratture all’interno dell’Unione Europea e che tutt’ora conducono campagne d’odio istituzionalizzate contro la comunità lgbt+ e contro i diritti delle donne. Questa non può diventare una battaglia ideologica o di parte, ma una battaglia per un patrimonio comune. In Francia fu la destra di Chirac ad approvare una norma contro l’omotransfobia nel 2004. Infatti non ci può essere alcun europeismo dove esiste esitazione o, peggio, opposizione ai diritti, ed è tempo per il nostro Paese di definire il suo modello di futuro, di definire la sua collocazione in un contesto europeo che proprio su questi temi si sta dividendo tra paesi avanzati e paesi arretrati. Dopo ben cinque tentativi falliti dal 1996, l’Italia non può più permettersi di perdere questa occasione di civiltà e tutelare ogni sua cittadina e suo cittadino semplicemente per chi è. Ma io dico: l’omofobia non si combatte soltanto col codice penale di Valeria Valente Il Dubbio, 3 maggio 2021 La replica a Zan della presidente della Commissione sul femminicidio: “: “Una legge contro l’odio è tanto più efficace quanto più si propone anche finalità culturali e di promozione del cambiamento e quanto meno ricorre al solo Codice penale”. L’avvio dell’esame del ddl Zan, dopo l’ostruzionismo inaccettabile della Lega, è stato un successo del Pd, che si è impegnato con il segretario Letta ad approvare finalmente una legge contro l’omotransfobia, che è assolutamente necessaria. Ora la parola passa alla Commissione Giustizia del Senato. Proprio per arrivare ad approvare al più presto un testo con il più ampio consenso possibile (ricordo che in gran parte Fi alla Camera ha votato il testo, mentre al Senato si è espressa, con il resto del centrodestra, contro la calendarizzazione), credo che sia necessario cogliere l’opportunità di una seconda lettura per migliorare il disegno di legge e votarlo definitivamente, blindandone il percorso con i deputati, entro l’apertura della sessione di bilancio. Sono due i motivi politici che mi spingono su questa posizione, condivisa da tanta parte delle associazioni femminili e femministe, da giuristi e voci autorevoli nel campo dei diritti umani. Il primo è noto: il riferimento al ‘sesso’ e al “genere” e quindi alle donne va cancellato dalla legge contro l’omotransfobia. Le donne non sono una minoranza, né una categoria o un gruppo sociale (ai quali fa riferimento la legge Mancino), sono la maggioranza della popolazione; la discriminazione e la violenza contro le donne hanno una matrice culturale diversa dall’omotransfobia, originano non dall’odio per il diverso, ma dall’idea patriarcale della donna soggetta al potere maschile e quindi albergano per lo più nelle relazioni di coppia; la definizione di ‘identità di genere’, introdotta tra le altre all’inizio del ddl Zan alla Camera, si presta a interpretazioni poco definite e certe, avrebbe bisogno di un richiamo ad una nuova legge sulla transizione di identità, finisce per introdurre nel nostro ordinamento un’identità sessuale fluida che, anche suo malgrado, rischia di cancellare la differenza sessuale e così i diritti e gli spazi faticosamente acquisiti dalle donne. Infine: esiste già un patrimonio legislativo specifico, con un impianto adeguato allo scopo, contro la discriminazione e la violenza di genere, al quale questa legge si sovrapporrebbe generando solo confusione. Questi argomenti sulle donne sono sostanziali e non formali e nulla hanno a che vedere, né possono essere confusi, con le motivazioni strumentali di una Lega che si scopre persino “femminista”, ma in realtà vuole solo spingere il ddl Zan su un binario morto. Il secondo motivo: una legge contro l’odio è tanto più efficace quanto più si propone anche finalità culturali e di promozione del cambiamento e quanto meno ricorre al solo Codice penale (che peraltro richiede determinatezza e tassatività). Inserire donne, disabili e persone omo e transessuali dentro un elenco di categorie sociali discriminate e da tutelare e all’interno del Codice penale (gli articoli 604-bis e ter, richiamati dalla legge Mancino) rappresenta un oggettivo arretramento culturale e un passo di sicuro foriero di incertezze applicative e interpretative. Si presta inoltre al rischio di tenere fuori altri gruppi e categorie, che pure potrebbero rimanere prive di tutela, visto che il Codice penale non è suscettibile, come è noto, di applicazioni analogiche. Per tutte queste ragioni, se fossimo all’anno zero e dovessimo concepire ex novo una legge contro l’odio omotransfobico, affronterei la questione con un’impostazione giuridica diversa. Non utilizzerei la legge Mancino, che storicamente è nata per contrastare i crimini, l’istigazione e la propaganda di odio, con l’espressa finalità di evitare la nascita di movimenti fondati sull’ideologia della superiorità. Avrei scelto invece di introdurre in maniera semplice e chiara l’aggravante delle ragioni di odio omotransfobiche tra quelle previste dall’articolo 61 del Codice penale (circostanze aggravanti dei reati). Ma ormai siamo qui e non sarebbe né giusto né rispettoso ignorare un lavoro importante e faticoso svolto alla Camera. Ecco perché vorrei provare ora a lavorare ad alcune modifiche: cancellare il riferimento al ‘sesso’ e al “genere” e sostituire ‘l’identità di genere’ con ‘l’identità sessuale’. In questo modo escluderemmo le donne dall’applicazione della legge contro l’omotransfobia, riuscendo però a ricomprendere coloro che, pur avendo i caratteri di un determinato sesso biologico, percepiscono diversamente la propria identità sessuale e, aderendo a comportamenti e orientamenti sessuali non conformi liberamente scelti, divengono bersaglio di atti di odio. Per tutti i motivi finora espressi, sarei per evitare anche il riferimento alla disabilità, rinviandone l’oggetto ad altra normativa. Ciò che propongo, in sintesi, è quasi un ritorno all’origine del ddl Zan. Evitiamo di fare del ddl, così com’è ora, un totem intoccabile e ad alto rischio di impantanamento al Senato, per i diversi rapporti di forza presenti. Facciamo di necessità virtù e miglioriamo ancora la legge, togliendo alibi pretestuosi ma insidiosi ai nostri avversari politici, soprattutto alla Lega. Stringiamo sulle modifiche un patto di ferro anche con i deputati e approviamo tutto e subito: per me è un risultato possibile e alla nostra portata. Se poi i fatti mi dimostreranno che il ddl Zan può essere approvato solo così com’è e che il rischio sarebbe quello di non avere una legge contro i crimini di odio per ragioni omotransfobiche io, da senatrice del Pd sempre dalla parte di chi rischia di essere discriminato e meno tutelato, non potrò mai prestare il mio voto a questa prospettiva. Ma finché ci sarà spazio e margine per migliorare una legge tanto importante, lavorerò tenacemente per questo, con la forza di argomentazioni e ragioni non solo mie ma di tante e tanti dentro e soprattutto fuori dalle aule parlamentari. Violenza sessuale: il gioco dell’oca della Giustizia di Giusi Fasano Corriere della Sera, 3 maggio 2021 Una vittima è stata chiamata ripetutamente a testimoniare per nove anni nei vari gradi di giudizio. Quando aveva cominciato a subire le violenze aveva 13 anni. La prima volta che gli inquirenti la sentirono come testimone aveva 13 anni. L’altro giorno, a 22 anni, era di nuovo lì, davanti alla Corte, a raccontare come andò quand’era ragazzina. Lei è la vittima, il reato è violenza sessuale e lo sfondo è Genova. Per nove anni - nove - le complicazioni del processo sono cresciute assieme a lei in una specie di gioco dell’oca dove un passo avanti non è mai stato definitivo. Ne sono sempre seguiti due indietro, poi uno stop, poi un passaggio dal via, e ancora avanti temendo di retrocedere. E di tanto in tanto il sistema Giustizia ha preteso che lei si presentasse in aula a testimoniare. Anche se lo aveva già fatto altre volte, anche se agli atti c’era una prova audio che lei stessa aveva registrato per incastrare l’autore degli abusi. Niente è sembrato bastare nemmeno nell’ultima tappa della sua storia processuale: l’hanno richiamata di nuovo in aula. E lei, con la pazienza di Giobbe, ha spiegato una volta ancora dettagli che vorrebbe soltanto dimenticare. Nel 2012, quando a scuola e a casa si accorsero che non era più la stessa, il danno era ormai fatto; il papà di una sua compagna di scuola, si scoprì, aveva a lungo abusato di lei e quella ragazzetta di 13 anni riuscì a registrare un audio nel quale lui, in sostanza, ammetteva gli abusi. In primo grado l’uomo fu condannato per una parte dei reati e assolto per un’altra, così il pubblico ministero fece ricorso per ottenere la condanna piena e ci riuscì. Ma a quel punto fu la difesa a fare ricorso in Cassazione: “C’è un difetto di motivazione”, dissero gli avvocati di lui. La Cassazione decise che stavolta avevano ragione loro, il processo tornò in aula e lei fu chiamata di nuovo a testimoniare. Finì che lo condannarono anche stavolta “ma il giudice ha fatto domande suggestive”, lamentarono fra le altre cose i legali dell’uomo. Altro ricorso in Cassazione che confermò: domande suggestive. Tutto annullato e ritorno in Corte d’appello. Solo che, appunto, fra un passo avanti e uno indietro lei è diventata pellegrina delle aule di Giustizia e a 22 anni ha ricevuto un’altra convocazione: presentarsi in aula, prego. Ed eccola lì, di nuovo, a raccontare tutto daccapo. L’hanno condannato (è la terza volta) ma siamo ancora in appello ed è scontato un nuovo ricorso in Cassazione. Quindi nulla è detto, salvo una cosa: lei non ne può più. Processo Ilva. A Taranto 30 morti all’anno, la difesa attacca le perizie di Michele De Lucia Il Domani, 3 maggio 2021 Gli avvocati di Rebaioli e Pastorino contestano i dati dell’accusa: “Nessuna prova che i veleni vengano dall’Ilva”. L’ipotesi che fossero altre imprese o l’arsenale militare a inquinare. Il pm Buccoliero: “Giochi di prestigio”. Al processo Ilva si avvicina il momento in cui i giurati della Corte d’Assise entreranno in camera di consiglio per emettere la sentenza e si fa sempre più duro il duello tra le opposte verità di accusa e difesa. Per Rebaioli e Pastorino l’accusa ha chiesto venti anni di carcere ciascuno per gli stessi reati degli imputati principali, a partire dall’associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale. Il cuore dell’accusa è costituito dalle due perizie ordinate nel 2011 dalla gip Patrizia Todisco. Quella epidemiologica stima gli effetti dell’inquinamento in 30 morti all’anno. La difesa confuta questi dati con numerose consulenze di parte. “Il pm ha posto un dogma: “Io vi dico che questa cosa è vera. Non ve la posso provare, ma credeteci, è così, ve lo dico io”. Invece tutto quello che noi difensori vi stiamo dicendo ha le sue radici in evidenze probatorie ancorate nelle carte”. Al processo all’Ilva dei Riva per il presunto disastro ambientale provocato dall’acciaieria negli anni dal 1995 al 2013 si avvicina il momento in cui i giurati della Corte d’Assise entreranno in camera di consiglio per emettere la sentenza e si fa sempre più duro il duello tra le opposte verità di accusa e difesa: lo dimostrano le parole dell’avvocato Daniele Convertino nel corso della sua arringa in difesa dell’imputato Giovanni Rebaioli. L’avvocato Carmine Urso, difensore di Agostino Pastorino, non era stato da meno quando, un attimo prima, aveva concluso il suo intervento, parlando senza mezzi termini di “accuse completamente infondate, perché prive di rigore scientifico e delle minime evidenze scientifiche”. Rebaioli e Pastorino, sconosciuti al grande pubblico, sono tra i principali imputati: per ciascuno di loro l’accusa ha chiesto venti anni di carcere. Devono rispondere degli stessi reati di cui sono accusati gli imputati principali - Nicola Riva, Fabio Riva, l’ex responsabile relazioni esterne Girolamo Archinà e l’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso - a partire dall’associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale. Tra le condotte criminose contestate, le più gravi sono riconducibili all’articolo 439 del codice penale - avvelenamento di acque o sostanze alimentari - con riferimento al bestiame (capo H dell’imputazione) e ai mitili allevati nel primo seno del mar Piccolo (capo I). Il cuore dell’accusa è costituito dalle due perizie ordinate nel 2011 dalla gip Patrizia Todisco. Lo stabilimento avrebbe riversato nell’ambiente una valanga di sostanze tossiche: Peacelink, l’associazione ambientalista dalle cui denunce tutto è partito, ha riassunto i dati contenuti in quello studio in 210 chili di veleni per ogni tarantino. La perizia medico-epidemiologica ha stimato gli effetti dell’inquinamento in 30 morti all’anno, senza contare decine di diagnosi infauste e di ricoveri ospedalieri per tumori, eventi coronarici e disturbi respiratori. Tutto questo, hanno detto i pubblici ministeri nelle loro requisitorie, “in nome della produzione e del profitto”. La difesa degli imputati riconducibili al gruppo Riva ha risposto a questi dati con numerose consulenze di parte, e su questo terreno accusa e difesa sono destinate a darsi battaglia fino all’ultimo istante: nella sua requisitoria, il pm Mariano Buccoliero è andato apertamente all’attacco dei consulenti della difesa, parlando di “formule magiche”, “alchimie” e “giochi di prestigio”. Solo la sentenza dirà se questa strategia avrà funzionato, dopo che in dibattimento le difese hanno fatto a loro volta fuoco e fiamme contro le perizie del gip. Per esempio, secondo i consulenti Marco Novelli e Francesco Saverio Violante, quella medico-epidemiologica sarebbe viziata da tali e tanti errori metodologici da renderla completamente inattendibile. Stesso discorso per la perizia chimica, la cui confutazione è stata affidata a diversi altri esperti, tra cui Dino Musmarra, professore di impianti chimici all’Università Vanvitelli, Giuseppe Pompa, ordinario di tossicologia a Milano, e Leonardo Tognotti, ordinario di impianti e processi chimici industriali all’Università di Pisa. Musmarra si è occupato della contaminazione dei terreni dei nove allevamenti nei quali si è proceduto all’abbattimento dei capi di bestiame, in quanto le loro carni superavano i Tma (Tenori massimi ammessi) previsti dal Regolamento europeo 1881 del 2006. Secondo l’accusa, l’avvelenamento degli animali è direttamente correlato all’attività del siderurgico; invece Musmarra, utilizzando gli stessi rapporti di prova allegati alla perizia del gip, dopo aver rilevato marchiani errori di calcolo è giunto a conclusioni opposte: secondo il suo studio, le “impronte” degli inquinanti rilevate dai campionamenti non possono essere ricondotte all’Ilva, perché il rapporto tra Pcb e diossine è “totalmente inverso”: prevale il Pcb sulle diossine, quando, se avesse ragione l’accusa, dovrebbe essere il contrario. Ma allora di chi sarebbero quei veleni, che comunque sono stati trovati? Le analisi del consulente rivelano correlazioni con le emissioni del cementificio Cementir e soprattutto della Matra, un grosso produttore di Pcb commerciale che nel frattempo ha cessato le attività. Il sito Matra è stato completamente contaminato dal Pcb, e dal processo è venuto fuori che alcuni allevatori portavano i loro animali a pascolare a dieci metri dal confine di quello stabilimento. Pompa ha escluso che le impronte di Pcb e altre sostanze trovate nel latte e nel fegato degli ovicaprini siano riconducibili a Ilva: i profili sarebbero totalmente diversi e mai sovrapponibili con quelli dell’acciaieria. Tognotti non è stato nemmeno nominato dai pm nelle oltre quaranta ore di requisitorie: è come se nel processo non fosse esistito, hanno stigmatizzato le difese. Il motivo? La sua consulenza doveva stabilire dove vanno a finire le emissioni dell’agglomerato e se le deposizioni di inquinanti all’esterno dello stabilimento fossero imputabili a Ilva - “un lavoro che avrebbe dovuto fare la procura e che invece abbiamo dovuto fare noi”, ha ironizzato l’avvocato Convertino - e le conclusioni a cui è giunto il professore “consentono di escludere qualsiasi tipo di impatto su Quaranta, Fornaro e Deledda, cioè sugli unici terreni con CSC (concentrazione soglia di contaminazione, ndr) superiori alla soglia rinvenuti nel corso di tutte le indagini”, fermo restando che in ogni caso il superamento di un valore soglia di per sé “non basta a provare la sussistenza del disastro”. Mare al veleno - Anche per quanto riguarda il primo seno del mar Piccolo, i veleni non sarebbero di Ilva, che lì non ha scarichi ma solo una presa a mare in cui l’acqua entra per gravità, e infatti le rilevazioni effettuate tutto intorno hanno restituito dati inferiori ai livelli di bonifica: nel febbraio 2020 la deposizione di Fernando Severini, ispettore del lavoro in pensione, collaboratore per quarant’anni della Procura, aveva chiamato pesantemente in causa l’arsenale militare, denunciando come la pista di indagine che portava in quella direzione, condotta nel 2010 dal magistrato Petrocelli, sarebbe stata improvvisamente stoppata, il gruppo di indagine disperso, il relativo fascicolo e trenta scatoloni di documenti spariti nel nulla. Se non che, documenti di enti pubblici come Arpa, Cnr e Ispra attestano sin dal 2005 che nei bacini di carenaggio dell’arsenale “si supera fino a 24 volte il valore di bonifica per Pcb fino alla profondità di tre metri”. Ci sarebbero anche altre possibili fonti di contaminazione del mar Piccolo: oltre alla solita Matra, l’azienda San Marco Metalmeccanica, attiva dal 1972 al 1995, una cava colmata con rifiuti fangosi di natura industriale. Secondo un documento Arpa del 2011, “Rapporto sintetico sullo stato di inquinamento ambientale dei mari di Taranto”, nella falda sottostante alla San Marco è stato trovato “Pcb libero con spessore pari a circa un metro”, dato peraltro confermato in udienza da un teste dell’accusa, Vittorio Esposito dell’Arpa, esperto in microinquinanti organici, che ha parlato di “diossine e Pcb in quantità elevatissime”. Ma secondo un ulteriore studio Arpa, datato aprile 2014, “con il tasso di sedimentazione attuale, le concentrazioni medie di Pcb nei primi 50 centimetri di sedimento supererebbero i valori di intervento Ispra per le bonifiche (…) solo dopo qualche migliaio di anni”. Insomma, dice la difesa, quei livelli di inquinamento si spiegano solo con un’attività di sversamento diretto in mare, e la risposta alla domanda “chi è stato?” l’ha suggerita Severini con la sua testimonianza. La difesa sta cercando di convincere i giurati che le prove a carico portate dall’accusa non sono in grado di sostenere il peso dei lunghi e minuziosi capi d’imputazione sottoposti alla loro decisione: le perizie del gip, che dovevano essere la “pistola fumante” della procura, sono state messe in crisi dai consulenti della difesa e in più di un caso l’esame dei testi dell’accusa ha finito per avvantaggiare gli imputati. Le “irruzioni” fatte dal pm nel dibattimento, con il ricorso alle attività integrative di indagine ex 430 cpp dopo che era già iniziato l’esame dei testi a discarico, sarebbe “la prova lampante” di questa difficoltà, ha detto Convertino, prima di chiedere, come il collega Urso, l’assoluzione del suo assistito. Campania. Riuscirà il Covid a svuotare le carceri campane? di Viviana Lanza Il Riformista, 3 maggio 2021 Sono prorogate dal 30 aprile al 31 luglio le “misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 in ambito penitenziario”. È così che nelle carceri campane si prova a fronteggiare la minaccia del virus. È vero che da giorni è stato avviato un piano di vaccinazioni anche per i detenuti: fino a ieri erano 646 tra Santa Maria Capua Vetere, Salerno, Eboli, Vallo della Lucania, Poggioreale, Secondigliano e Nisida, mentre da martedì saranno immunizzati i primi 115 reclusi tra Sant’Angelo dei Lombardi, Bellizzi e Ariano Irpino. Altrettanto vero è, tuttavia, che il rischio resta alto. La proroga riguarda i detenuti in semilibertà, quelli che possono beneficiare di permessi premio e quelli che possono chiedere la detenzione domiciliare laddove la pena non sia superiore a 18 mesi, anche se si tratta di un residuo di una condanna di durata maggiore. Il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello accoglie con soddisfazione la decisione di prorogare le misure straordinarie nelle carceri, ma ritiene che non si stia facendo abbastanza per svuotare le carceri in considerazione dell’emergenza in atto. Per il garante l’ambito applicativo della norma è troppo limitato: “Perché chi ha meno di quattro anni di reclusione da scontare per reati non ostativi - spiega - ha già la possibilità di uscire dal carcere”. Inoltre “quello dei 18 mesi e dei reati ostativi sono limiti che riducono notevolmente la platea dei beneficiari delle misure”, dice Ciambriello proponendo di “portare il limite dei 18 mesi ad almeno 24”, “far cadere quello dei reati ostativi”, “incentivare i permessi premio anche perché il numero dei detenuti vaccinati è in aumento”. Ma qual è lo stato attuale nelle quindici carceri della Campania? Secondo i più recenti dati diffusi dal Ministero della Giustizia, in Campania si contano 6.458 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 6.085. Le donne sono 319, gli stranieri 862. Le misure straordinarie, da oggi prorogate fino alla fine di luglio per fronteggiare la minaccia del Covid, riguardano dunque una piccola percentuale della popolazione carceraria: basti pensare che i detenuti in semilibertà in Campania sono 152, secondo il report aggiornato al 31 marzo. Osservando i dati relativi all’ultimo bilancio annuale, quello del 2020 che è stato l’anno dell’esplosione della pandemia e l’anno del primo lockdown, si rileva invece che il numero dei permessi premio concessi ai detenuti in Campania è stato pari a 865 su un totale nazionale di 13.672. E colpisce che il dato sia sensibilmente inferiore a quello del 2019, quando in Campania risultano concessi ai detenuti 2.469 permessi premio in un anno a fronte di un totale nazionale pari a oltre 40mila. E il 2019 si rivela un’eccezione se si considera che, nel bilancio annuale del 2018, i permessi premio concessi ai detenuti sono stati 17.205 in tutta Italia e 1.187 quelli concessi ai detenuti delle carceri in Campania. Tornando ai giorni più attuali, è proprio nelle celle che il Covid continua a rappresentare una minaccia visto che gli spazi sono ridotti e il distanziamento è una misura di prevenzione difficile da rispettare. Attualmente i detenuti positivi sono undici, dei quali dieci a Poggioreale e uno a Santa Maria Capua Vetere. Perciò avvocati, associazioni e garanti chiedono misure straordinarie per intervenire in maniera più incisiva sul sovraffollamento delle carceri e un’accelerazione sul piano vaccinale. “Una vaccinazione massiccia e non a macchia di leopardo- conclude Ciambriello - allevierà le sofferenze che il Covid ha procurato in questo luogo chiuso e rimosso”. Vicenza. Dramma in carcere: detenuto si toglie la vita Giornale di Vicenza, 3 maggio 2021 Tragedia ieri al carcere San Pio X di Vicenza dove un detenuto di 46 anni si è tolto la vita. Inutile, quando è scattato l’allarme, qualsiasi tentativo di soccorrerlo. Per lui non c’era ormai più nulla da fare. Padova. Protocollo Questura - Istituti penitenziari per tutelare le vittime di violenza di genere padovaoggi.it, 3 maggio 2021 Firmato dal questore Isabella Fusiello e dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto Maria Milano, il protocollo prevede una più stretta collaborazione: la vittima sarà immediatamente avvisata della scarcerazione del suo aguzzino Prevenire e tutelare. Sono queste le parole d’ordine alla base del protocollo d’intesa firmato dal questore di Padova, Isabella Fusiello, e dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto, Maria Milano. Un protocollo che permetterà alla polizia di essere ancora più vicino alle vittime di violenza di genere. Il protocollo - Firmato nella mattinata di giovedì 29 aprile, il protocollo prevede che al momento dell’uscita dal carcere di una persona autrice di reati di genere (che possono andare dai maltrattamenti agli abusi fino allo stupro e al femminicidio, ma anche la pedofilia), l’istituto penitenziario lo comunichi tempestivamente alla sezione Anticrimine della polizia di Stato. “Questo ci permetterà di darne notizia alla vittima, innanzitutto, e poi di attenzionare la situazione anche a seconda del caso - spiega Fusiello - Ci sono stati casi, non a Padova, di uomini che una volta usciti dal carcere sono tornati dalla vittima la quale non aveva idea che la persona che le aveva fatto del male fosse tornata in libertà. Nel caso in cui si tratti di una persona particolarmente violenta o ci siano dei bambini coinvolti si può pensare di spostare la donna in un luogo protetto. Sapendo che c’è questa situazione gli agenti possono agire di conseguenza”. Finora il carcere notificava alle varie questure di riferimento quando usciva un detenuto ma poteva capitare che la notizia si perdesse. Ora c’è un interlocutore preciso, la sezione Anticrimine. La situazione a Padova. “In questo momento al Due Palazzi ci sono 70 uomini colpevoli di reati di genere - riferisce Milano - Queste persone vengono tenute separate dagli altri carcerati per la loro protezione e sono da subito coinvolti in attività rieducative. Questa è un’iniziativa importante perché mette l’accento sulla prevenzione, si cerca di evitare che accada il peggio”. Sono aumentate in città e provincia le segnalazioni di liti familiari nell’ultimo periodo. E se fino a poco tempo fa arrivavano quasi solamente da donne italiane, ora cominciano a chiedere aiuto anche le straniere, soprattutto maghrebine. Trento. Dialoghi sul carcere, un webinar per approfondire la situazione carceraria di Laura Gaggioli ildolomiti.it, 3 maggio 2021 La situazione carceraria trentina risulta diversa dal contesto nazionale? Con un webinar su zoom che si terrà lunedì 3 maggio alle 17 verrà offerta una visione di insieme sulla situazione penitenziaria in Italia e a Trento a cura della comandante della Polizia Penitenziaria di Trento ?e della professoressa di diritto penale di Unitn. “Dialoghi sul carcere, Trento e Italia a confronto” è l’evento organizzato dalla sezione locale di Trento della European Law Students’ Association (Elsa), un’associazione di studenti che si occupa di diritto, allo scopo di contribuire all’educazione e alla formazione giuridiche dei suoi membri e di quanti vogliano partecipare alle iniziative. Il webinar in oggetto si inserisce in un ciclo di più eventi che hanno affrontato, sotto più punti di vista, la funzione della pena e, principalmente, la pena detentiva. Obiettivo dell’evento è quello di fornire ai partecipanti una visione d’insieme della situazione penitenziaria italiana e trentina. La situazione carceraria trentina risulta essere peculiare, infatti, come spiega Leonardo Lenzi, referente dell’iniziativa, soprattutto per quanto riguarda l’attuale composizione della popolazione carceraria, tra stranieri e italiani, e i numerosi suicidi che hanno interessato la casa circondariale di Spini di Gardolo. Ospite del webinar sarà la dott.ssa Ilaria Lomartire, comandante della Polizia Penitenziaria di Trento e precedentemente della P.P. di Brescia e Brindisi. Interverrà Antonia Menghini, professoressa associata di diritto penale dell’Università di Trento, docente di diritto penitenziario e garante per i diritti fondamentali dei detenuti della Provincia Autonoma di Trento. L’incontro si terrà lunedì 3 maggio, sulla piattaforma zoom, alle 17 tramite link: https://linktr.ee/elsatrento La libertà è garanzia di non essere esclusi di Ezio Mauro La Repubblica, 3 maggio 2021 Il governo e la sinistra dovrebbero rispondere allo sbandamento dei ceti disarcionati dalla crisi. E spiegare la responsabilità di agire individualmente ma in un sistema sociale, dove si decide in autonomia ma secondo la legge, scritta guardando all’interesse generale e al bene comune. Siamo entrati nella pandemia tutti uguali davanti alla minaccia, rischiamo di uscirne profondamente divisi. Improvvisamente, ci accorgiamo che è finita la fase in cui ci sentivamo affratellati dall’unico assedio universale del virus, esposti allo stesso male, disarmati dalla medesima fragilità inedita di fronte al contagio. Tutti esposti, senza distinzioni e senza riserve: tutti candidati. La coscienza comune di condividere con gli altri la stessa condizione è stata per lunghi mesi alla base della coesione sociale del Paese e dell’assoggettamento volontario dei cittadini alle misure di necessità decise dai governi, anche se comportavano una limitazione dell’autonomia individuale, degli spazi, dei movimenti e delle relazioni. Il sentimento collettivo era dominato dalla paura, e spingeva verso un trasferimento di potestà allo Stato, in cambio di un’interpretazione della crisi che il cittadino non poteva fare da solo, e dell’indicazione di una tecnica di difesa e di contrasto al male, con una politica di protezione. Anche l’angoscia era in comune, per il passaggio epocale che coinvolgeva ognuno di noi da soggetto sovrano a preda. Questo insieme si è spezzato. In parte era prevedibile, perché la tensione dell’emergenza regge per la fase più acuta, poi si allenta. Non si può vivere psicologicamente in uno stato d’eccezione permanente. E materialmente, non si può sopravvivere in eterno nell’auto-ricatto della necessità. Il tempo dunque ha fatto il suo lavoro, convincendoci che il virus può durare più a lungo della nostra subordinazione alla paura. L’arrivo dei vaccini, il contenimento relativo del contagio e dei decessi hanno riaperto una prospettiva concreta. L’avvicinarsi dell’estate ha fatto il resto. Ma appena un’intera comunità nazionale sotto scacco rialza la testa e torna a ipotecare il domani, rinascono inevitabilmente le differenze e si fa il calcolo delle disuguaglianze. Il virus ci ha abituati a cercare ogni sera nei numeri dell’infezione un saldo complessivo, totale, della sfida in atto. Adesso ogni pezzo di società presenta i suoi conti particolari, il dare e l’avere, e fa un confronto naturale con gli altri gruppi concorrenti. Nel Paese delle corporazioni, ogni interesse organizzato misura ciò che ha perso in assoluto con la pandemia, e ciò che ha ceduto rispetto agli altri. Il sentimento nazionale, com’era prevedibile, si frantuma in una serie di risentimenti privati. Il punto di rottura naturalmente è il lavoro, perché è la condizione umana più scoperta e vulnerabile subito dopo la salute. Da un lato si è esposto nella fase più acuta dell’infezione, per garantire materialmente la sopravvivenza del sistema, con la schiera dei lavoratori “strumentali” che rischiavano il contagio per consentire al resto della cittadinanza di proteggersi dal male: quindi il lavoro come bene indispensabile e addirittura come strumento solidale. Dall’altro lato la contrazione inevitabile del mercato ha penalizzato la produzione e l’impresa cancellando posti di lavoro, le misure di difesa hanno fermato l’universo diffuso del piccolo commercio, delle aziende familiari, della ristorazione, degli alberghi. È soprattutto questo mondo che si è sentito soffocare e che oggi reagisce cercando di sottrarsi alla regola comune di precauzione. Il fenomeno nasce da un disagio di categoria, ma chiama in causa questioni più generali. La prima è il rapporto tra salute e lavoro, che va affrontato anche in termini di principio, perché è un tema antico che la modernità torna a riproporre con urgenza, a cominciare dall’Ilva. Poi c’è la necessità di capire che nel profondo della crisi il lavoro sta ancora una volta reinventando se stesso, a partire dallo smart working, e cambia sotto i nostri occhi la sua morfologia e la sua organizzazione. Infine bisogna considerare che se dalla pandemia uscirà una nuova interpretazione del progresso, questa riguarderà inevitabilmente anche una diversa relazione tra capitale e lavoro: siamo quindi sulla soglia di una reinvenzione virale del lavoro, che per forza di cose comporterà una riconsiderazione del rapporto tra lavoro e diritti, e quindi una reinvenzione della democrazia. La protesta di piazza per le riaperture e contro il coprifuoco, infatti, non può essere letta soltanto in chiave corporativa. In realtà è lo smottamento di un pezzo rilevante del ceto medio instabile che si sente penalizzato nelle strette della pandemia rispetto al reddito fisso del dipendente statale, chiede tutela ma soprattutto riconoscimento sociale, nel timore di perdere con il lavoro anche un ruolo collettivo e una proiezione di futuro. Dopo la Grande guerra, di fronte alla massa dei reduci sbandati, spostati, trascurati e senza lavoro, l’ordinovista Angelo Tasca usò il termine di “fuori classe”. Ecco, oggi si sta formando una classe di “fuori classe”, che si sentono dimenticati, esclusi, tagliati fuori, ribelli a tutto: proprio nel momento in cui la stratificazione sociale del Paese si scompone, si aprono i cancelli dei ceti sociali, saltano le appartenenze culturali e le identificazioni tradizionali. Da tempo il sovranismo nazional-populista è alla ricerca di una classe di riferimento e di sostegno. Può trovarla in questo pezzo di piccola borghesia in cerca di rivincita sociale, in questo mondo del lavoro che misura quotidianamente la sua crisi ed è già un soggetto politico anonimo soffocato nel misconoscimento, mentre si sta inabissando tra gli sconfitti, ribellandosi. La trasposizione politica e ideologica, da parte della destra estrema, del mix di interessi risentiti e propositi frustrati di questa massa in movimento è in corso, all’insegna del concetto di “libertà”. È la parola che domina la battaglia politica contro il coprifuoco, dalla fiaccolata di Giorgia Meloni all’accostamento (che in realtà è una contrapposizione) di Salvini tra la Liberazione del 25 aprile e la libertà del lavoro “da restituire agli italiani”. Per un’ora di coprifuoco in più, a termine, il governo viene così schiacciato sul dogma della regola, vissuta come un’imposizione, presentata come un abuso, denunciata come un vincolo di soggezione invece che una misura di tutela. È presentandosi come il nemico di tutto questo che il sovranismo chiama ad una battaglia “di libertà” - come se ci fosse qualcuno contrario alla libertà e al ritorno alla normalità - scaricando l’onere scomodo della sicurezza sulle spalle altrui, e proponendosi come vendicatore del ceto medio minuto e abbandonato, trasformato nel nuovo Dio sconosciuto d’Italia. Governo e sinistra dovrebbero rispondere con un’operazione politica, sociale e culturale, intercettando concretamente lo sbandamento dei ceti disarcionati dalla crisi, e dimostrando che il lavoro e non solo i fondi europei sono la leva del piano di ricostruzione dell’Italia. Per spiegare, poi, che la vera libertà è garanzia, costruzione della sicurezza, emancipazione dal risentimento e dalla paura, ma anche dall’egoismo: è la responsabilità di agire individualmente ma in un sistema sociale, dove si decide in autonomia ma secondo la legge, scritta guardando all’interesse generale e al bene comune. Le false libertà, le libertà sterili, sono le altre: quelle che non puntano a un cittadino che dispiega autonomamente le sue facoltà e i suoi diritti, ma a un individuo che si sente libero perché liberato da ogni vincolo nei confronti degli altri e della società. Libero di pensare soltanto a se stesso, rinunciando ad agire come un animale sociale. Più equità e giustizia per rilanciare il progetto europeo di Iratxe García Pérez, Simona Bonafé, Brando Benifei Corriere della Sera, 3 maggio 2021 Le proposte dei Socialisti & Democratici europei che il 3 maggio si incon trano a Roma, in vista della Conferenza sul Futuro dell’Europa, del prossimo 9 maggio voluta dalla Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen e dal Parlamento Europeo. Il 9 maggio partirà ufficialmente la Conferenza sul Futuro dell’Europa, un’iniziativa proposta dalla Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, e fortemente supportata dal Parlamento Europeo, che da subito ne ha visto l’occasione per un essenziale e ambizioso cambio di passo nell’agenda europea. Lo stesso giorno, settant’anni fa - più uno -, veniva firmata la Dichiarazione Schuman che impegnava i Paesi fondatori a mettere in comune i propri sforzi, istituendo la Comunità del Carbone e dell’Acciaio. Una realizzazione concreta per creare quella solidarietà di fatto tra i popoli europei, necessaria a garantirne la prosperità. Secondo la Dichiarazione, servivano sforzi creativi da parte dei Paesi per preservare la pace e proteggere i popoli europei dai pericoli che li minacciavano. Abbiamo perso un anno. La Conferenza sarebbe dovuta infatti partire già nel maggio 2020, celebrando un settantesimo anniversario che avrebbe permesso di iniziare una riflessione sul futuro del nostro progetto politico comune in maniera probabilmente più serena, sicuramente meno urgente. Non è stato così, perché la pandemia ha lasciato il mondo sospeso, attonito dinnanzi allo stravolgimento causato da un virus che ha causato, solo in Europa, quasi settecentomila vittime. Ma se da un lato l’Unione europea si è dimostrata in grado di reagire, con una risposta forte delle sue istituzioni, con il lancio di misure straordinarie a sostegno dell’economia ed espressioni davvero concrete di solidarietà tra gli Stati - sul fronte delle donazioni reciproche di apparecchiature mediche, di cure transfrontaliere e di condivisioni di medici e di expertise - dall’altro ha mostrato tutte le contraddizioni di un progetto ancora incompleto, inadatto a intervenire pienamente in difesa degli interessi dei suoi cittadini. La mancanza di piene competenze sul fronte sanitario è stata alla base della difficoltà di intervenire rapidamente sul fronte dei vaccini, quando invece la straordinaria capacità dell’UE di finanziare la ricerca medica ha permesso lo sviluppo in tempi record del siero che oggi viene distribuito in tutto il mondo. Il Piano di ripresa da quasi due trilioni di euro, Next Generation EU, il “Piano Marshall” della nostra generazione, ha prodotto uno storico balzo in avanti nel processo di integrazione europea, con l’emissione di titoli comuni di debito europei e di nuove risorse proprie per il suo finanziamento, ma non possiamo dimenticare come sia stato tenuto in ostaggio dai ricatti dei governi euroscettici, forti della regola dell’unanimità in Consiglio necessaria per la sua approvazione, e che è causa continua della debolezza europea su svariati fronti, dalla politica fiscale alle politiche sociali, fino alla politica estera. Si pensi infine alla sospensione del Patto di Stabilità e Crescita, che se da un lato ha permesso agli Stati di disporre nel breve periodo di risorse straordinarie per affrontare l’emergenza sanitaria e sociale e dare sostegno alle imprese colpite dalle chiusure, allo stesso tempo obbliga oggi a una rapida e significativa revisione del sistema della governance economica europea per ribilanciare i gravissimi squilibri esistenti tra e nei Paesi, siano essi economici e sociali, geografici, di genere, intergenerazionali. La Conferenza sul Futuro dell’Europa non può limitarsi ad essere una conferenza. -Deve essere un dialogo tra i cittadini e le istituzioni, un processo veramente inclusivo che permetta a tutte le categorie di persone di esprimere il loro parere sull’orientamento futuro dell’Europa. Noi riteniamo che il quesito di fondo a cui rispondere sia il seguente: “Ritenete che per affrontare le grandi sfide dell’innovazione tecnologica, del cambiamento climatico, dello sviluppo delle nuove tecnologie e degli scenari geopolitici globali sia necessario fare uno sforzo per avvicinare i Paesi europei, proseguendo sul cammino di quell’Unione sempre più stretta come definita dai Trattati - magari riformandoli -, oppure ritenete che serva preservare lo status quo?” Noi Socialisti e Democratici non abbiamo alcun dubbio: bisogna rilanciare il progetto europeo, reindirizzandone le politiche verso un nuovo modello sociale, per creare nuovi e più ampi diritti civili e sociali per tutti; per dare alle prossime generazioni un futuro migliore, redistribuendo in maniera più equa i benefici e i profitti dell’economia globale; “per affrontare la questione dell’uguaglianza di genere in tutti i suoi aspetti, dalla parità salariale alla lotta alla violenza contro le donne e per un’agenda europea che garantisca loro pieno ed effettivo accesso, senza condizioni, ai servizi per la salute sessuale e riproduttiva”; per innalzare la qualità della democrazia europea e riguadagnare sovranità. Proporremo il nostro progetto confrontandoci con i panel dei cittadini all’interno della Conferenza e negli Stati membri, partecipando alla Plenaria, discutendo sulla piattaforma online della Conferenza e su quella creata appositamente dal nostro Gruppo, per raccogliere idee proposte e, ovviamente, per promuovere le nostre. Il 9 maggio si apre un processo importante per definire i prossimi passi del progetto europeo, un processo aperto e partecipativo. Le forze progressiste lo affronteranno con grande determinazione, nella piena consapevolezza della centralità delle istituzioni e della politica nei processi di cambiamento di una grande democrazia rappresentativa, l’Unione europea. A Roma, il 3 maggio, si incontrano i rappresentanti del progressismo europeo, un fronte ampio e allargato per porre le basi di un lavoro comune per una nuova visione d’Europa condivisa, da immaginare, da proporre, da dibattere, per cui battersi. *Iratxe García Perez è presidente del gruppo Socialisti & Democratici al Parlamento europeo, Simona Bonafé è la vice presidente, Brando Benifei è il capo delegazione italiana S&D La giornata dell’Unesco per la libertà di stampa di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 3 maggio 2021 La dedica al martire Giulio Regeni, massacrato dalle squadracce dell’egiziano Al-Sisi. Il ricordo di Samir Kassir, il collega libanese ucciso perché cercava di difendere la verità. Oggi, 3 maggio 2021, è una giornata importante per noi giornalisti, almeno per coloro che vogliono difendere la libertà di stampa, costi quel che costi, a volte anche al prezzo della vita. La Giornata e la celebrazione sono state decise dall’Unesco, che ha inteso proteggere un bene pubblico preziosissimo, anzi essenziale. Va bene che i giornali sono in crisi, ma tra le piattaforme per sostenere il diritto di tutti ad essere informati vi sono il web e i social, che naturalmente vanno seguiti con attenzione, scrupolo, selettività e onestà intellettuale. Voglio dedicare questo giorno a Giulio Regeni, il ricercatore italiano massacrato su ordine dei servizi segreti egiziani, che volevano punirlo per il lavoro che deve essere quello di ogni giornalista e ricercatore onesto e curioso: rivolgere domande e annotare espressioni e risposte. Parlo con cognizione di causa perché ho seguito l’Egitto per oltre 40 anni, ed ho trascorso laggiù, soprattutto al Cairo, molti mesi interi. È vero che non erano ancora i tempi più recenti, con l’elezione del presidente Al Sisi, che gli egiziani -soprattutto il celeberrimo “partito del sofà” - avevano accolto con favore, pensando che fosse finito il breve incubo del presidente Mohammed Morsi, prigioniero degli islamici più intransigenti. Ma prima di Morsi, il capo dello Stato era Hosni Mubarak, per me un vero galantuomo. I giornalisti erano abbastanza liberi, pur osservati da lontano, ma senza intervenire. Oggi Al Sisi si è trasformato in un dittatore pericoloso e il povero Regeni ne è rimasto vittima. Per fortuna l’Italia ha alzato la voce, e la magistratura ha scoperto i funzionari dei servizi segreti che hanno massacrato il nostro giovane collega, facendo ritrovare il cadavere lungo una strada della capitale. Segno evidente di guerre intestine fra servizi di intelligence. Ma ora che cosa succede? Mentre comincia il processo in Italia l’ineffabile Al Sisi e i suoi scherani fanno mandare in onda un documentario televisivo in molte puntate per dimostrare che l’Egitto è innocente e che gli italiani mentono. Operazione orrenda. Fa bene la famiglia di Giulio Regeni a combattere per quel ragazzo stritolato da agenti senza scrupoli. A Giulio, dovunque sia, mando un abbraccio con un messaggio brevissimo: “Ciao, eroe della nostra libertà”. Oggi anche io ho accettato di fare un gesto simbolico al Giardino dei Giusti del Montestella di Milano, per onorare un mio caro amico, un collega valoroso, Samir Kassir, un libanese forte e fiero, figlio di un palestinese e di una siriana, e giornalista con la schiena dritta. Il Libano è il Paese del mio cuore, e gli anni di Beirut, durante e dopo la guerra civile, non li dimenticherò mai. Ho scritto un libro sull’esperienza vissuta con il mio tassista druso, Sami Kazzaz, che mi salvò da un sequestro, minacciando le famiglie dei quattro biechi estremisti, mitra in pugno, che mi volevano portare via. Mi salvò proprio l’autista. Nel mio libro “Sami, una storia libanese”, tradotto anche in arabo dalla bravissima Joumana Haddad, racconto la composizione di quella società, dove i poteri non cambiano, i personaggi sono sempre gli stessi, anche se gli equilibri sono mutevoli, come le posizioni politiche e le alleanze. Con Samir, più giovane di me, parlavamo di tutto: lui a difendere l’arabità del Libano, assai più forte del nazionalismo, e io a sfiancarlo di domande, chiedendo retroscena e fumando assieme pacchetti di sigarette. Allora, assieme alla passione per l’avventura, era anche il mio vizio-sfogo, che ora non ho più. Quando Samir Kassir cominciò la sua carriera di giornalista, entrò alla fine in An Nahar e nella sua versione francese “L’Orient-Le jour”, che era guidato da un altro caro amico, Ghassan Tueni, un vero liberale. Samir Kassir, con la sua indipendenza e il suo coraggio intrepido, era una voce forte e insieme scomoda, contro tutte le occupazioni. Ricordo il suo entusiasmo quando mi parlava degli intellettuali siriani che speravano di cambiare il loro Paese con la “primavera di Damasco”. Illusione. Il 14 febbraio del 2005, vi fu la strage che costò la vita al primo ministro Rafiq Hariri, che mi voleva bene al punto tale da chiedermi consigli ogni volta che tornavo in Libano. Poco più di tre mesi dopo, in quel tragico 2005, un’auto bomba uccise Samir. Lo ho ricordato, trattenendo la commozione. Gli ho fatto anche gli auguri di Pasqua. Il mio amico infatti era di religione cristiana ortodossa. Ieri per lui era il giorno della festa. “Christos Anesti”, come dicono in Grecia. “Cristo è risorto”. Da gay e ius soli alla cannabis, artisti all’attacco più dei politici di Concita De Gregorio La Repubblica, 3 maggio 2021 L’anomalia non è che un cantante dica certe cose, ma che arrivi a quei giovani cui la sinistra non sa parlare. Fedez ha ragione. Se la domanda semplice è questa la risposta semplice è sì: ha ragione su tutta la linea. L’anomalia non è che un cantante dica quel che la politica non dice. L’anomalia è la politica, incapace di fare quel che fa Fedez. Sull’omofobia, sullo ius soli, sulla cannabis legale, sui diritti civili e della persona. Sulla modernità, che è rispetto delle diversità tutto attorno realtà evidenti. Chiedete ai ragazzini, stateli a sentire almeno una volta come sempre dite di fare. Chiedete ai ragazzi cosa è “normale” e cosa è “diverso” per loro, perché fra qualche anno saranno per magia e all’improvviso adulti. Sceglieranno, voteranno. L’anomalia è un paese in cui la sinistra, per molti anni al governo (da Prodi a Conte, se vogliamo essere di manica larga sul finale) non ha saputo né voluto scrivere leggi che la qualificassero per quello che dice di essere. Sinistra, appunto. Così condannandosi a battaglie apparenti e di convenienza, un occhio sempre al centro, ai sondaggi, alle intenzioni di voto. Perdendo, di seguito, regolarmente, fino a che l’emergenza sanitaria (ed economica, certo) non è diventata il primo alleato e non c’è stato bisogno di andare al voto per andare al governo. L’anomalia è che la sinistra sia al governo con la Lega - una necessità, sì. Una buona notizia questa Lega europeista, figurarsi se non ci si crede. Anzi: un capolavoro politico, in archivio gli editoriali - e che la Lega di governo sia il partito che esprime chi dice “un figlio gay lo brucerei al forno”. Difficile, la convivenza a palazzo Chigi, consigli dei ministri complicati: come non capirlo. E d’altra parte la Rai è espressione diretta di questo condominio Frankenstein, la Commissione di Vigilanza che supervede è un organo politico: l’editore, in Rai, è chi governa in quel momento. Quindi certo che non puoi dire su una rete Rai che un leghista brucerebbe un omosessuale perché quello - la Lega - è il tuo editore: minaccia preventivamente di togliere i fondi al concerto se ti azzardi, perché i soldi sono i suoi. I nostri, sì: ma i suoi nel momento in cui al governo ci rappresenta. Dunque, tornando a Fedez. Dice una cosa giusta che tutti sanno: la Rai è terrorizzata dal dispiacere il suo editore, è questione di vita o di morte (di conferma, di cancellazione del programma). L’autocensura prevale ormai sulla censura: non c’è nemmeno bisogno, spesso, che qualcuno ti dica cosa conviene fare. Chi ci lavora lo sa da sé. È il Sistema, appunto. Quello di cui si parla nella telefonata che a quest’ora avrà raggiunto qualche milione di visualizzazioni. Bene. Il Re è nudo. Lo sapevano tutti anche prima ma ora Fedez, una superstar conosciuta nel mondo non solo ma anche in virtù della popolarità di sua moglie (non si offenderà, spero. È bello che per una volta sia ambiguo persino l’abituale ordine naturale delle cose), ora che Fedez lo ha detto chiaro. “Posso fare cose che per me sono opportune anche se per voi sono inopportune?”. La domanda sulla censura apre campi sconfinati. Non viviamo in una dittatura, la parola è libera. Il palco del Primo Maggio, per giunta, è per tradizione il luogo dove la parola è più libera che mai: non è ancora la rivoluzione ma non è neppure una cena di gala del Rotary. Da sempre gli artisti si sono espressi, fra una canzone e l’altra, e meno male. Quindi cade l’obiezione: eri a casa d’altri, dovevi rispettare le regole. Quella è casa di tutti, è la tv pubblica. Quali sono le regole? Chiariamolo una buona volta. Dipende dalla piattaforma, dipende dal contesto - sento dire. Certo. Ma - prendo in prestito le parole di Ricky Gervais, comico britannico vincitore di sette Bafta, due Emmy, un Golden e parecchio altro: se la disputa è fra la tua opinione e un fatto, non esiste il contesto sbagliato per un fatto. Un fatto è un fatto - una dichiarazione di un politico è un fatto, nel caso di Fedez - e non c’è palco, “contesto”, sbagliato per un fatto. Poi: Fedez ha diffuso il contenuto di una telefonata privata senza che gli interlocutori sapessero che li stava registrando. Sì, ma lo ha fatto solo dopo che gli interlocutori - la Rai - avevano negato di aver operato una censura preventiva sui testi. Hanno mentito, in un pubblico comunicato. La diffusione del video si configura come smentita pubblica di un falso pubblico. Ora, tornando a Gervais, si potrebbe discutere del politically correct, il fascismo di matrice progressista per cui gli Aristogatti sono fuori dal catalogo Disney perché i gatti siamesi hanno caratteri “caricaturalmente orientali”, e altre idiozie. Walter Siti ha appena scritto un libro illuminante, è breve e si può persino leggere tutto prima di commentarne solo il titolo, che è: “Contro l’impegno”. In quella che Guia Soncini chiama l’Era della Suscettibilità il nuovo mantra è “chiedi scusa”, e così persino Pio e Amedeo, comici foggiani, su Canale 5, hanno fatto il record di ascolti dicendo prima cose “irricevibili” - secondo protocollo - su negri ricchioni ed ebrei e poi chiedendo scusa. La parola definitiva sul body shaming e altre definizioni inglesi per dire quel che non sta bene dire l’ha scritta Checco Zalone, Luca Medici, col geniale video “La vacinada”, co-starring Helen Mirren, e fate silenzio. Sul perché siano i comici (e i cantanti, e gli influencer) a dire quel che nessun altro riesce a dire si dovrebbe scrivere la pagina più triste di questa storia. Consola ripetersi che è sempre stato così: dall’antica Roma. Preoccupa pensare ad altri comici che nel passato recente hanno iniziato col vaffanculo al potere e hanno finito come hanno finito. Di più la sinistra stenta a dire, pretendendo logiche conseguenze, poiché Di Maio è ministro degli Esteri e il partito del comico partito al governo. C’è la pandemia. C’è il Recovery. Ok. Si può forse concludere che i comici al potere diventano comici di governo, e di Sistema. Oppure che ciascuno è quello che è, e lo era dapprima solo che non si era capito bene. O anche che fare battaglie che conducono al proprio tornaconto non è esattamente rivoluzionario. L’estremismo di maggioranza punta al consenso, quello di minoranza ti taglia fuori: dove piove e fa freddo, ma almeno sei libero di dire. Fedez ha dalla sua il consenso, in partenza, ed è un fatto notevole che lo metta al servizio di una battaglia di civiltà. Non ha niente da temere, non deve essere rieletto, canta. La popolarità è più forte dell’opportunità, della convenienza. Il consenso vince, si sa. Ma il fatto è che il consenso si genera quando le tue ragioni sono autentiche, irriguardose, potenti. Il consenso si suscita, questo fanno i leader. Non si insegue. Una politica che ha paura di dispiacere i suoi elettori, e li insegue sulla base dei sondaggi, non va da nessuna parte. Un’informazione piegata al potere è sconfitta per definizione. La legge Zan, con tutti i suoi limiti, è un passo verso il mondo com’è. Che lo dica Fedez, che arriva dove la sinistra politica non arriva - ai ragazzi, a tutti là fuori - è una cosa bella e triste. Molto bella, e grazie. Molto triste, che peccato. Armando Spataro: “In nome della legge: soccorriamo i migranti!” di Simona Musco Il Dubbio, 3 maggio 2021 Parola di (ex) magistrato. L’ex procuratore di Torino: “Soccorrere i migranti è un dovere, lo dice la legge. E la solidarietà, come diceva Rodotà, non è un sentimento, ma un diritto. Parole che ripeto ovunque sia possibile”. Armando Spataro, ex procuratore della Repubblica di Torino, ha le idee chiarissime: fermare le navi con migranti che arrivano in Italia poiché tra loro potrebbero nascondersi dei terroristi è giuridicamente insensato. E le norme stesse, interne o sovranazionali, sono chiare sul punto: i porti possono chiudersi solo per precise ragioni di sicurezza, non per ipotesi indimostrate. Proprio per questo, spiega al Dubbio, al di là di tante incriminazioni rivelatesi infondate, voler limitare le attività delle Ong è “un’assurdità”. Dottor Spataro, nel Mediterraneo, pochi giorni fa, sono annegate 130 persone, nonostante i ripetuti allarmi lanciati da Alarm Phone. Ma come funziona il diritto del mare? La tragedia di cui parla è solo l’ultima in ordine temporale, speriamo lo sia anche in assoluto. La disciplina delle attività di soccorso è abbastanza lineare, ma è anche vero che il coordinamento tra Stati, che l’Europa dovrebbe promuovere, spesso non funziona o non funziona bene. La regola è questa: ogni Stato costiero ha un’area marittima di propria competenza che si chiama Sar - Search And Rescue - che è più ampia del limite del mare territoriale e deve dotarsi di un centro di coordinamento. Quando si manifesta un pericolo, viene lanciato un allarme e il centro del Paese che lo riceve, deve immediatamente avvertire quello del Paese nella cui area Sar l’evento si è verificato. In questo modo, il centro competente dà istruzioni alla nave che ha compiuto il salvataggio per trasportare i naufraghi, con la massima urgenza, nel porto sicuro, più vicino. E se non vi sono navi in zona, bisogna inviare immediatamente la segnalazione affinché un mezzo di soccorso si rechi sul posto. Nel momento in cui le persone vengono salvate e la nave che le trasporta giunge in un porto sicuro, scatta la normativa dello Stato di approdo, che in genere - come in Italia prevede l’identificazione, le visite sanitarie, il soccorso prioritario a minori, donne, malati, la selezione di coloro che richiedono asilo (per cui dovrà essere avviata la relativa procedura) e di quelli che dovranno eventualmente essere rimpatriati, e così via. Purtroppo questo sistema, che sulla carta sembra abbastanza semplice, per più ragioni non funziona. Perché non funziona? Perché manca un coordinamento efficace e spesso entrano in ballo anche questioni politiche. Ad esempio, se le Nazioni Unite e altre istituzioni umanitarie sostengono che la Libia non ha porti sicuri, è ovvio che le navi che soccorrono i naufraghi devono essere indirizzate altrove. Ma questo, politicamente, crea difficoltà. Nell’ultimo caso, stando a quanto riportano le cronache, pare siano trascorse oltre 24 ore tra la segnalazione d’allarme e il verificarsi della tragedia e in questo lasso di tempo sembra che non siano state avviate attività di soccorso. E questo è inaccettabile, perché come si legge in un bellissimo appello delle Ong a Draghi, che personalmente ho sottoscritto, il soccorso in mare non è affatto un optional, è un obbligo degli Stati, un obbligo giuridico che riguarda anche le navi militari. Non è solo una questione di etica. Lei ha parlato di “selezione”, che ovviamente non può essere fatta prima dell’arrivo. Gli allarmi sul rischio che tra i migranti si nascondano dei terroristi, dunque, non hanno fondamento? Nulla si può escludere a priori, ma sulla base dell’esperienza, questa è un’affermazione che non ha trovato alcun riscontro, a livello europeo, non solo italiano. Le varie inchieste aperte sono state chiuse con archiviazioni. Peraltro non è corretto, né logicamente né giuridicamente, fermare le barche con i migranti a bordo per il mero sospetto che trasportino terroristi. O la notizia è sicura e riscontrata o non è possibile chiudere i porti solo per un’ipotesi di pericolo. Se, però, la presenza di terroristi a bordo è sicura, la notizia dovrebbe essere inoltrata immediatamente all’autorità giudiziaria competente affinché venga aperta un’inchiesta. Quindi non tocca ad un ministro bloccare una nave perché “potrebbero esserci a bordo dei terroristi”. Sono stati diversi i casi in cui in Italia si è ritardato uno sbarco per questioni politiche e sulla base di norme interne in contrasto con quelle sovranazionali. In queste situazioni si può parlare di illegittima detenzione dei migranti a bordo? Senza entrare nel merito di specifici procedimenti penali in corso, bisogna ricordare che l’Italia è già stata condannata nel dicembre 2016 dalla Corte dei diritti umani di Strasburgo per ingiustificato ritardo nello sbarco: un trattenimento che la Corte qualificò come privazione della libertà personale senza base legale. Sulle opzioni politiche prevalgono dunque i principi affermati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dalla nostra Costituzione che riconoscono il diritto di lasciare il proprio Paese, di chiedere asilo politico altrove, di mutare a cittadinanza ed altro ancora. Stiamo parlando quindi di diritti umani fondamentali e internazionalmente riconosciuti. L’ eccezione riguarda chi è ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e principi della N.U. E numerose convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia prevedono l’obbligo di soccorso in mare. Talvolta ci si richiama allo Stato di bandiera per indicare chi ha tale obbligo... Non funziona così. La nave deve approdare nel porto sicuro più vicino e basta. Poi, che questo sia un problema molto delicato è chiaro: ecco perché serve un intervento dell’Europa. E bisognerà evitare di limitarsi alle belle enunciazioni di principio, si deve agire concretamente. È vero, a mio avviso, che gli obblighi di accoglienza non possono ricadere soltanto sugli Stati costieri. Ma quello del primo intervento, del soccorso, sì. Poi si dovrà in qualche modo disciplinare la distribuzione dei richiedenti asilo in Europa, ma salvare vite umane deve tornare ad essere una priorità e tragedie come quella recente non devono accadere più. Altro aspetto è la criminalizzazione delle Ong. I decreti sicurezza hanno introdotto sanzioni pesanti e vengono indagate perché impegnate a salvare i migranti in mare, nonostante sia un obbligo. Cosa ne pensa? Non è accettabile. Le ultime modifiche ai decreti sicurezza, per lo meno, hanno ridotto le sanzioni amministrative, che però sono ugualmente molto alte. Qualcuno afferma che le Ong agirebbero in concorso con i trafficanti di esseri umani, il che significa dividere gli utili e far parte di un’associazione a delinquere. Anche questa ipotesi non è mai stata dimostrata. Con l’ipotesi subordinata, collegata all’infelice e grave espressione “taxi del mare”, si afferma che, siccome i trafficanti conoscono le zone del Mediterraneo ove operano in genere le Ong, si recano proprio in quelle zone, dove abbandonano i naufraghi, sapendo che le Ong poi li prenderanno a bordo. Una sorta di concorso inconsapevole. È plausibile? I trafficanti di esseri umani vanno comunque perseguiti con fermezza. Ma una nave, in qualunque posto si trovi, deve assolutamente intervenire se vi sono persone in pericolo. Ed in questo caso si tratta di condotta non punibile poiché il nostro codice penale prevede lo stato di necessità (art. 54) e l’adempimento di un dovere (art.51). Dunque, in presenza di necessità di soccorso ai naufraghi in pericolo e dell’ovvio dovere di salvarli, non vi possono essere equivoci: non sussiste reato e la criminalizzazione delle Ong, non è in tali casi possibile. Ultimamente si è assistito anche ad un incremento dei fermi amministrativi... Questo è un problema delicatissimo, perché questo aumento dei fermi amministrativi, che spesso si protraggono troppo a lungo, ha determinato una minore presenza delle navi nel mar Mediterraneo. Non si può pensare che gli standard di sicurezza di una nave in una situazione di normalità possano valere anche in uno stato d’eccezione. Se salvo e porto a bordo centinaia di migranti non si può pretendere che la nave possa avere un numero di salvagenti pari a quello delle persone soccorse. Come ricordato da diverse Corti, il pericolo per i migranti impone certe condotte. E francamente non si può neppure dire che il pericolo inizi solo quando l’imbarcazione in difficoltà è avvistata, mentre basta che arrivi il messaggio con la richiesta di soccorso. Non si può ipotizzare di attendere una conferma visiva. Come giudica l’attuale normativa italiana? Va modificata. Ma soprattutto va modificata a livello europeo. Bisogna mettersi attorno ad un tavolo e lavorare senza ambiguità disciplinando modalità di accoglienza, distribuzione negli Stati europei ed eventuali rimpatri. La speranza è che questo sia possibile, altrimenti continuiamo a rimanere fermi sulle enunciazioni di principio. Sono aumentati i reati d’odio, soprattutto di matrice razzista. Cosa sta accadendo? Parti del ceto politico e dell’informazione hanno responsabilità nell’enfatizzare ed inventare presunti rischi che correrebbe l’Italia a causa dell’immigrazione. E facendo questo si fomentano ragioni di odio, vere e proprie xenofobie. L’immigrazione è un problema mondiale, non riguarda solo l’Italia. Abbiamo conosciuto recentemente atti di violenza nel foggiano e gravi reati anche altrove. Questi crimini d’odio sono indubbiamente favoriti, nella loro espansione, dall’additare il migrante come il nemico del quale ci si deve sbarazzare nel minor tempo possibile o impedire l’arrivo in Italia. Ma in realtà sono risultate false tante affermazioni, mentre, oltre quelle di Rodotà, devono ricordarsi le parole del Papa sul dovere di solidarietà. Ho apprezzato l’atteggiamento del nuovo segretario del Pd, Enrico Letta, che ha ripetutamente affermato la necessità di attenzione ed interventi in ordine al soccorso in mare, al soccorso ai migranti, oltre che dello jus soli, ciò senza alcuna accondiscendenza con gli umori peggiori del nostro Paese. Questo è importante, perché un partito, qualsiasi partito, deve affermare i suoi principi e andare avanti con coerenza, anche a rischio di perdere consensi. Così come certa stampa deve impegnarsi a dare notizie precise e riscontrate, altrimenti si finisce per alimentare l’odio. L’Italia che toglie i bambini alle madri straniere di Stefania Albanese e Cecilia Ferrara Il Domani, 3 maggio 2021 Arriva la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo: troppo spesso i tribunali italiani tolgono i figli piccoli a donne migranti, vittime di tratta, perché non sono considerate buone madri. In molti casi si tratta di equivoci dovuti alle differenze culturali. L’adozione internazionale è fallita, i bambini arrivano grandi e traumatizzati. Quindi le famiglie cercano altre vie. “Donne migranti, spesso nigeriane, vittime di tratta. Mamme single che vengono schiacciate dal sistema: ne ho visti a decine di casi così”. Cristina Cecchini è una degli avvocati di A., una ragazza come tante, costretta a prostituirsi sulle nostre strade, che si è vista togliere le figlie, affidate a famiglie italiane. Per il suo caso il nostro paese è stato condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. I numeri sono protetti dalla privacy, ma il suo caso non è isolato: è simile a quello di tante altre donne migranti, spesso vittime di tratta, cui vengono tolti i figli, dati in affidamento o adozione a famiglie italiane, perché non vengono ritenute dalla giustizia italiana buone madri. La storia di A. è simile a tante altre. Dopo alcuni anni di sfruttamento sessuale resta incinta, decide che la bambina deve avere un futuro diverso e trova la forza di affidarsi al sistema anti-tratta: denuncia la sua sfruttatrice, testimonia al processo contro di lei e ottiene il permesso di soggiorno. Ma il lieto fine non c’è. La donna trova un nuovo compagno e ha un’altra bimba che però, a un certo punto, si sente male. Viene portata in ospedale a Roma e intubata. A., ospite di un Cas, Centro di accoglienza straordinaria, è preoccupata e confusa, chiede spiegazioni, non capisce cosa succede. Scatta, fa una scenata di panico, vuole sapere cosa stanno facendo a sua figlia. Di mediatori culturali nemmeno l’ombra. E il servizio sociale dell’ospedale chiama la procura minorile. Ospedali pericolosi. “Gli ospedali sono un luogo critico per le madri straniere”, racconta Cecchini. È lì che comincia l’incubo di A. All’inizio dell’estate del 2014 una corte le sospende la potestà genitoriale, la macchina dei servizi sociali si mette in movimento, un tribunale dovrà giudicare se è una buona madre. La figlia più piccola viene messa in un istituto, l’altra va a vivere con la madre in una casa famiglia dopo essere passata a sua volta da un altro istituto. L’anno dopo mamma e bimbe vengono riunite, quello dopo ancora separate. A. ha diritto di visita una volta a settimana. Nel 2017 viene dichiarato lo stato di abbandono e le bambine vengono date in adozione a due famiglie diverse. Oggi A. ha quarant’anni e non smette di lottare per le figlie. Ha perso in appello, mentre la Cassazione ha ordinato al tribunale di adottare quella che oggi si chiama “adozione mite”: un istituto giuridico nuovo che permette di mantenere la relazione con il genitore biologico. La decisione della Cassazione sull’adozione mite è “una sentenza importantissima che ha suggellato la crisi di un modello di adozione”, dice Alida Montaldi, presidente del tribunale dei minorenni di Roma. “D’altronde non si può pensare che un sistema concepito negli anni 80 possa passare indenne a tutte le modifiche che ci sono state nelle relazioni umane, familiari e sociali”. Il caso di A. potrebbe essere quindi l’inizio di un cambiamento della giurisprudenza sulle adozioni: cambiamento che la presidente condivide. “Quello che non è giusto però è pensare che ci sia un giudice che cala sulle famiglie con l’accetta”, conclude. “Questa è un’idea consolatoria che solleva da tante responsabilità un po’ tutti”. Gli avvocati di A. hanno poi portato il caso presso la Corte europea dei diritti dell’uomo e il primo aprile scorso la Cedu le ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcire la donna per 15mila euro. Ma la possibilità di rivedere le bambine è ancora lontana. Come funziona il sistema - “Dall’inizio del procedimento di abbandono la donna è continuamente sotto giudizio in queste case famiglia che hanno il doppio compito di supporto e osservazione”, spiega l’avvocata Cecchini. “Qui qualcosa che non torna nella relazione mamma-bambino - soprattutto all’occhio occidentale - c’è sempre”. Se le donne non superano questo primo passaggio rischiano di venire separate dai figli: vengono buttate fuori dalla casa famiglia e possono andare in visita un’ora, al massimo due alla settimana, sempre sotto la supervisione di un operatore. “Ma il legame già si spezza e se la donna arriva tardi perché l’autobus non è passato, se non si informa sulle medicine che il bimbo prende, se porta del cibo senza chiedere se il figlio magari ha già mangiato, diventa un punto di giudizio sul suo comportamento. In quell’ora la madre non è lì per godersi del tempo con il figlio, ma per superare ogni volta un esame”, dice ancora Cecchini. Rischio giuridico - “Il problema è l’utilizzo di quella procedura che si chiama “adozione a rischio giuridico”, ovvero la collocazione nella famiglia adottiva subito dopo la sentenza di primo grado”, spiega Salvatore Fachile, veterano dell’Asgi, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, e nel collegio dei difensori di A. di fronte alla Cedu. “Da una parte ci sono famiglie adottive che per mia esperienza a volte non sanno neanche che c’è un ricorso in atto, dall’altra c’è la madre che continua a richiedere la potestà genitoriale. La Corte europea imputa all’Italia questo: non si può interrompere la frequentazione della madre con i figli fino alla fine del procedimento a meno che non ci siano abusi o pericolo per i minori”. Nel caso di A. per la Cedu l’Italia ha infranto l’articolo 8 della Convenzione europea, ovvero il “rispetto della vita privata e familiare”, in particolare per il fatto di aver interrotto le visite con la madre biologica prima dell’adozione definitiva nonostante il parere favorevole del consulente tecnico del tribunale, la separazione delle sorelle e la mancata attenzione alla vulnerabilità della madre in quanto vittima di tratta. “Dalla decisione del tribunale e della corte d’Appello è anche evidente che i tribunali nazionali hanno valutato le capacità genitoriali della ricorrente senza prendere in considerazione la sua origine nigeriana e il diverso modello di attaccamento tra genitori e figli che si può trovare nella cultura africana, come la relazione della consulente aveva chiarito abbondantemente”, scrive la Cedu. Ora il procedimento è tornato in corte d’Appello dove si dovrà valutare se applicare l’adozione mite, ovvero mantenere le bambine nelle famiglie adottive e ripristinando il rapporto con la madre biologica. “Il problema - dice Cecchini - è che nessuno ha lavorato adeguatamente sulla vulnerabilità che questa donna, a causa del suo vissuto, sicuramente ha”. E il processo rischia di andare avanti ancora anni, con la prosecuzione della separazione di madre e figlie se non vengono recepiti i princìpi dettati dalla Corte europea. Italiani che tolgono i figli - Oggi - secondo quanto emerge dalle inchieste del collettivo europeo di giornalisti Lost in Europe (lostineurope.org) tra le migranti che arrivano nel nostro paese gira una voce: quella che gli italiani possono togliere loro i figli. “Ho visto due bambini portati via di fronte ai miei occhi a due mie amiche”, racconta Mary (nome di fantasia) a Ismail Einashe di Lost in Europe. Mary è nigeriana, ex vittima di tratta e racconta con terrore quel periodo nel centro di accoglienza. “Dicono che li hanno portati via per come gli davano da mangiare”, racconta. Anche Mary dà da mangiare così a suo figlio, con le mani. Incoraggiandolo se non vuole, “forzandolo” secondo gli operatori. “Dicono che sia contro la legge”, dice. “Ero davvero spaventata che lo portassero via anche a me”. Il caso Zhou - “A Strasburgo di casi come quelli di A. dall’Italia ne arrivano decine”, dice Giulia Perin, avvocata che ha aperto la strada alle sentenze Cedu per violazione dell’articolo 8 da parte dell’Italia con il caso Zhou. Un caso che ha fatto scuola: quello di una donna migrante cinese, madre single con un lieve deficit intellettivo dovuto a un’ischemia avuta in gravidanza. Già seguita dai servizi sociali, il tribunale ha deciso di toglierle il figlio quando la donna ha affidato il bambino ai vicini mentre era al lavoro. Anche qui dopo un percorso di allontanamento il minore era stato dichiarato adottabile. La Cedu ha condannato l’Italia a pagare alla donna 40mila euro più 5mila di spese legali: secondo la Corte il nostro paese non ha fatto abbastanza per preservare la possibilità della madre di stare con il figlio nonostante la presenza di un legame affettivo e l’assenza di abusi o violenze. La donna non ha più visto il figlio. “Dopo la sentenza Cedu - dice Perin - siamo andate alla Corte costituzionale, ma ha risposto che è compito del legislatore italiano modificare la normativa”. “Il compito del tribunale dei minori dovrebbe essere quello di controllare che il bambino o bambina stia bene, ma spesso molte famiglie sono vulnerabili, fragili e povere”, continua Perin. E secondo la Corte europea - che ammette discriminazioni sistemiche - l’Italia fallisce nel far superare questi limiti alle famiglie. “È in gran parte un problema di servizi sociali che non hanno i mezzi e la formazione necessaria. In una situazione che poteva non sembrare così grave il sistema si inceppa e da un momento all’altro una madre si ritrova senza il figlio”, dice Perin. “Si può anche ricorrere e vincere a Strasburgo, ma questo non restituisce quei figli che nel frattempo si sono affezionati alle nuove famiglie”. Il tribunale “ha come oggetto della sua valutazione il benessere dei minori e spesso la condizione della sostenibilità economica svolge un ruolo preponderante”, conferma l’avvocata romana Elisabetta Pezzi. “Quando ti trovi ai margini della società per questioni materiali la tua strada è in salita. Se poi sei fragile per assenza di rete lo diventi ancora di più. Nella mia esperienza sicuramente le famiglie Cedu La Corte: non si può rompere il rapporto della madre con i figli a meno di abusi straniere sono penalizzate perché non hanno una rete familiare, amicale e sociale come quelle italiane. Spesso le persone hanno, dunque, delle effettive fragilità. I servizi sociali da cui dovrebbero ottenere supporto, svolgono esclusivamente un ruolo di monitoraggio e vigilanza, ed è proprio da qui che spesso emergono relazioni a loro discapito”. Quanti sono i casi? - Secondo il ministero della Giustizia sono stati 902 i bambini adottati nel 2016; 955 nel 2017; 850 nel 2018. Non è possibile ricostruirne la nazionalità, per privacy e per la segretezza che accompagna le adozioni. E il tema, come insegna il caso Bibbiano, è incandescente. Se un bambino è piccolo, ha meno di 7 anni - ancora più se ne ha meno di 3 - il procedimento di adozione è molto più veloce. Per i bimbi più grandi il destino è invece l’affidamento etero-familiare o la casa famiglia. “L’adozione internazionale è fallita, i bambini arrivano grandi e traumatizzati”, dice l’avvocato Fachile. “Mentre ci si è accorti che esiste un altro canale di bambini non traumatizzati perché nati in Italia: quello delle mamme migranti. C’è un interesse fortissimo da parte delle famiglie che registrano la loro disponibilità presso i tribunali minorili: famiglie progressiste, benestanti e influenti. Anche per questo è una storia che non viene raccontata”. A Torino da anni si è formato un gruppo di avvocati, antropologi, etno-psicologi, mediatori che lavorano per interrompere questa catena di adozioni o allontanamenti dei figli delle donne migranti. “Le separazioni in numerosi casi sono improvvise e ingiustificate sotto il profilo strettamente giuridico, non essendoci condizioni di abbandono né fisico né morale. C’è una profonda incomprensione su come questo possa essere il supremo interesse del minore”, dice Simona Taliani, antropologa e etno-psicologa. Il centro Fanon, dove lavora, aiuta donne e famiglie a ricomporre il proprio vissuto da un punto di vista clinico e familiare. Questione di classe - Tra le donne, conferma Taliani - tra le massime esperte di questi temi - la paura ormai c’è ed è forte. “Nei paesi d’origine di questi genitori non esiste spesso un tale ordinamento, non hanno dunque esperienze pregresse su cosa significhi tutelare un minore allontanandolo dai genitori. Sono madri, sole e capofamiglia nella maggior parte dei casi, che vengono letteralmente fatte a pezzi dal sistema”. C’è razzismo o colonialismo? “Diciamo che c’è ignoranza ed etnocentrismo. Si consolidano idee sul “fare famiglia” nutrite di stereotipi che introducono discriminazioni e arbitrarietà nella valutazione delle capacità genitoriali. Non posso dire ci sia un progetto razionale e intenzionale di razzializzazione della differenza, ma l’esito finale può comunque portare a una forte polarizzazione lungo “la linea del colore”, dice l’antropologa. “Per coloro che operano dentro il dispositivo istituzionale, c’è la convinzione di lavorare davvero per il supremo interesse del minore. Quando ti dicono durante le riunioni di Rete: “Questo bimbo è bellissimo, guarda quanto sta bene da quando l’ho messo nella famiglia italiana” è perché risponderà sempre di più al modello di bambino che l’operatrice desidera vedere”. Ma “quando lavori in questo complesso dispositivo di tutela e qualcuno dice “questo bambino è bellissimo” devi già sentire puzza di marcio. Tutti i bambini sono bellissimi, non altrettanto sono il loro genitori immigrati”. E c’è un altro non detto. “Durante gli incontri di Rete non si parla mai esplicitamente del tenore socio-economico della famiglia perché allontanare i minori per condizioni di precarietà economica o difficoltà sociali è anticostituzionale (il riferimento è agli articoli 30 e 31 della Costituzione ndr), ma quello che è in gioco in queste drammatiche vicende è anche il cambiamento di status di questi bambini. Con l’adozione diventano di fatto italiani e vengono accolti in famiglie la cui classe è tendenzialmente sempre più agiata di quella dei loro genitori biologici, mentre le loro madri e i loro padri si dissolvono dalla scena, anche sociale, con permessi di soggiorno che scadono e il rischio di scomparire nuovamente nella clandestinità”. Il centro Fanon ha 100 nuovi casi complessivi all’anno: 20 sono di nuclei familiari. In totale, tra situazioni pregresse e nuovi casi, segue 40-45 famiglie immigrate con minori sotto tutela o attenzionati dai servizi: le nazionalità sono diverse, con una prevalenza di madri sole provenienti dall’Africa occidentale (Nigeria, Gambia, Costa d’Avorio), ma anche da Marocco e Tunisia. “All’inizio erano casi semplici, poi con l’aumento dell’arrivo delle donne migranti è diventato un continuo di segnalazioni di allontanamento”, racconta l’avvocata di Torino, Alessandra Lanzavecchia. Il suo punto di vista è più positivo: “Ora c’è più comprensione anche da parte dei giudici, ma abbiamo dovuto lavorare tanti anni”. Madri diverse - I problemi, negli innumerevoli casi che ha seguito, sono principalmente due: “Da una parte non si riesce a valutare il modello di madre africana perché lo si assimila a quella italiana. Dall’altra per tanto tempo il sistema ha lavorato con l’idea che tutelare il minore voleva dire allontanarlo dalla famiglia piuttosto che fornire gli strumenti per farla diventare più forte”. “Leggevo le perizie in cui si accusavano le madri di non essere accudenti in ragione di comportamenti che io conoscevo. E come interprete non potevo intervenire”, racconta Precious Ugiabe, mediatrice culturale da 25 anni in Italia. “Ho lavorato al tribunale dei minori fino al 2001”. Poi non ce l’ha fatta più. “Prima che fosse una moda e che tutte le mamme e i papà italiani andassero a fare i corsi per mettersi la fascia, le madri africane che si legavano i figli sulla schiena erano ritenute delle incoscienti”, racconta Precious. “Come fanno ad accorgersi se il bambino rigurgita? - si pensava”. Il rapporto tra madre e figlio per gli occidentali “è essenzialmente basato sullo sguardo, ma per gli africani passa anche da molti altri canali. La madre africana dà da mangiare al figlio quando ha fame, non lo mette a tavola tre volte al giorno: non è mancanza di accudimento, è perché in famiglia e nel villaggio si fa così. E se una madre dà al figlio di pochi di mesi del peperoncino non è pazza: anche lei a pochi mesi lo prendeva”. Certo, il sistema può anche funzionare. Ma deve essere preparato. Come nel caso di Blessing (nome di fantasia). A raccontare la sua storia è Tania Castellaccio, responsabile dell’Area accoglienza donne della cooperativa Dedalus di Napoli. “Quando lei e i suoi tre figli sono arrivati alla casa per donne maltrattate Fiorinda sono apparsi subito fortemente danneggiati dai vissuti di violenza e bisognosi di molto supporto”, dice. Ma il fatto di essere stati “presi in carico” da un sistema anti-tratta preparato e da operatrici specializzate in violenza di genere ha permesso il lieto fine. Quello che troppo spesso invece non c’è. Cannabis, un tabù che genera dolore di Luigi Manconi La Stampa, 3 maggio 2021 Il Tribunale di Arezzo ha assolto il cinquantenne Walter De Benedetto dall’accusa di spaccio di sostanze stupefacenti “per non aver commesso il fatto”. Da 36 anni De Benedetto soffre di artrite reumatoide, una patologia autoimmune cronica che colpisce le articolazioni, causando invalidità e dolori lancinanti. Per lenire le sofferenze, al paziente venivano prescritti, dal proprio medico, farmaci a base di cannabis. Ma la difficoltà di approvvigionarsi degli stessi e il loro costo assai elevato lo hanno indotto a ricorrere alla coltivazione domestica. Il 23 settembre del 2019, una perquisizione dei Carabinieri nella sua abitazione di Ripa di Olmo ad Arezzo, e in una struttura vicina, porta al sequestro di piante e semi. A distanza di due anni, la sentenza dell’altro ieri assume una grande importanza perché libera una persona gravemente malata dall’afflizione del circuito giudiziario, e dal relativo stigma. E perché, allo stesso tempo, amplia e rafforza il diritto fondamentale alla salute, sancito dall’art. 32 della Costituzione, attribuendo al soggetto - il paziente - il potere di scegliere ciò che è bene o male per il suo corpo: a quali cure, di conseguenza, ricorrere e quali rifiutare. Non siamo, dunque, nel campo delle opzioni culturali: non viene riconosciuto, con quella sentenza, un particolare stile di vita, e nemmeno una concezione della libertà come piena autodeterminazione su di sé e sul proprio corpo. Il senso e il cuore di quella sentenza sono costituiti, piuttosto, dall’affermazione del diritto fondamentale alla salute e della libertà di accedere alle cure, a tutte le cure, che possano meglio tutelarla. In questo caso, la terapia oggetto della controversia è quella che si affida a farmaci cannabinoidi. Negli ultimi decenni, numerose ricerche hanno validato i benefici che la cannabis terapeutica può arrecare a chi soffre di sclerosi multipla, dolore oncologico e cronico, cachessia (in anoressia, HIV, chemioterapia), glaucoma, sindrome di Tourette. E si attendono i risultati di ricerche relative a patologie quali epilessia, malattie vascolari, metaboliche e gastro-infiammatorie. Il fatto che De Benedetto, per poter usufruire di quei benefici, sia stato costretto a coltivare la pianta nella propria abitazione e, per questo, abbia dovuto subire un processo, rappresenta, palesemente, qualcosa di grottesco. In Italia il suo comportamento è, sulla carta, perfettamente legale. E da quattordici anni. È stato nel 2007, infatti, che il THC, il principio attivo della cannabis, venne inserito nella lista delle sostanze consentite ai fini della produzione di medicinali. E, otto anni dopo, con il Decreto ministeriale del 9 novembre 2015, venne autorizzata la coltivazione destinata al medesimo scopo, previa autorizzazione del Ministero della Salute. Dunque, si può dire, che De Benedetto è stato processato perché privo di quella autorizzazione. D’altra parte, oggi, qualsiasi medico può prescrivere la cannabis per uso terapeutico; e il paziente può ricorrervi attraverso il Sistema sanitario nazionale o a pagamento. Nell’un caso come nell’altro, i tempi di attesa possono essere lunghissimi e la disponibilità, rispetto a una domanda crescente, assai limitata. E soprattutto, provvedere personalmente, e nello spirito della Costituzione e della norma, può comportare rischi seri, quali quelli nei quali è incorso De Benedetto. Due tra le persone più competenti in materia, come Antonella Soldo e Marco Perduca, hanno indicato puntualmente, su Il Manifesto di domenica scorsa, quali debbano essere i provvedimenti ministeriali capaci di ottenere - in questo caso per quanto riguarda la cannabis - che una legge abbia effettivamente valore di legge, che una norma presente nell’ordinamento sia applicata, che un diritto riconosciuto sia esigibile. Ecco le misure necessarie: “autorizzare altri enti privati e pubblici a produrre cannabis terapeutica” oltre lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, operante ma insufficiente; “informare e formare i medici, anche di famiglia, che già oggi possono prescrivere” farmaci cannabinoidi; “liberalizzare l’importazione” di tali farmaci. Se tutto ciò è ancora lontano dall’essere realizzato è perché un tenacissimo tabù pesa sulla cannabis. Uno stereotipo culturale e l’interdizione morale nei confronti di questa pianta fanno sì che non solo il suo uso ricreativo rimanga penalizzato, ma anche che la sua finalità medica sia sottoposta a divieti e proibizioni. Sembrerebbe una questione secondaria, pressoché insignificante, niente più che un residuo ideologico. Ma, a pagare una simile arretratezza culturale, sono persone - tante - come De Benedetto. Per decenni il loro dolore è stato messo a tacere dall’irriducibile peso di un insensato e crudele preconcetto. Egitto. La mamma di Regeni denuncia: “Ostruzionismo sul processo” La Stampa, 3 maggio 2021 “L’Italia non ti salverà”. Due nuovi testimoni raccontano di aver sentito questa frase, rivolta a Giulio Regeni, nei giorni terribili della sua detenzione e delle torture che lo hanno portato alla morte al Cairo. A parlarne, ieri sera dagli schermi di “Che tempo che fa” su Rai tre, l’avvocatessa dei genitori di Giulio, Alessandra Ballerini: “Si sono fatti avanti nuovi testimoni - ha spiegato - in particolare due persone che hanno assistito quando Giulio è stato condotto nella stanza delle torture. E hanno sentito alcune frasi come: “Chi ti ha insegnato a resistere così bene alle torture?”. Come ricorda mamma Paola, che insieme a papà Claudio porta avanti la battaglia per ottenere giustizia in nome del figlio, sono passati ormai 64 mesi dall’omicidio di Giulio. E l’udienza preliminare che doveva svolgersi pochi giorni fa, nei confronti dei quattro agenti egiziani peri quali la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio, è stata rimandata al 25 maggio a causa del legittimo impedimento di uno dei difensori d’ufficio: “Una manovra ostruzionistica”, la definisce la madre di Regeni. “Il procuratore egiziano è emanazione diretta del presidente al Sisi e si presuppone che faccia i suoi interessi. Oltre a continuare a offendere Giulio, noi e tutti gli italiani, hanno offeso la Procura italiana. Non c’è stata alcuna levata di scudi da parte della politica e questo è molto grave”, aggiunge. “Temiamo nuovi tentativi di depistaggio e delegittimazione del lavoro di investigazione fatto”, dice papà Claudio. Ma non solo, la moglie fa anche capire qualche timore per l’incolumità personale: “Quando attraverso la strada non guardo solo a destra e a sinistra, ma guardo due volte”. La famiglia Regeni ha anche annunciato querela per diffamazione contro il video egiziano comparso nei giorni scorsi che denigra Giulio. Francia. Il ministro della Giustizia Dupond-Moretti: “Gli ex br come i terroristi del Bataclan” di Anais Ginori La Repubblica, 3 maggio 2021 Risposta all’intervista al leader dell’estrema sinistra Mélenchon che, anche in una intervista a Repubblica, aveva difeso la dottrina Mitterrand adottata dalla Francia fino alla svolta di Macron che ha portato all’arresto degli ex terroristi italiani fuggiti Oltralpe. Il ministro della Giustizia francese, Eric Dupond-Moretti, ha paragonato gli ex terroristi italiani arrestati in Francia e per i quali comincerà la procedura di estradizione, ai jihadisti del massacro del Bataclan. Rispondendo a una domanda di RTL sulla difesa della dottrina Mitterrand da parte del leader dell’estrema sinistra Jean-Luc Mélenchon, Dupond-Moretti ha detto: “Noi avremmo accettato che uno dei terroristi del Bataclan, ad esempio, se ne fosse andato a vivere 40 anni, tranquillamente, in Italia? Sì o no? Cosa dice il signor Mélenchon? Questo è il vecchio gauchismo, con una moralità curiosa...”. Con Emmanuel Macron, l’avvocato Eric Dupond-Moretti è stato il motore principale del cambio di marcia della Francia sulle estradizioni degli ex terroristi italiani. Oggi, a chi esprime dubbi sulla nuova politica di Parigi e lancia appelli per non abbandonare la “dottrina Mitterrand”, il ministro della Giustizia francese risponde: “Ricordate Cesare Battisti? Tutti erano in sua ammirazione... poi cosa disse lui? Di aver preso in giro tutti quelli che lo avevano sostenuto, e in particolare gli intellettuali francesi di sinistra”. E’ destinata a provocare nuove polemiche l’intervista che il Guardasigilli ha concesso, con la sua abituale verve polemica, alla radio RTL. Soprattutto perché, tenendo fede alla sua fama di irriducibile polemista, non ha risparmiato toni accesi e bordate ironiche a chi sottoscrive ora nuovi appelli alle autorità francesi a non concedere alla giustizia italiana i dieci ex terroristi individuati come estradabili. La domanda che fa “esplodere” Dupond-Moretti è quella sulle critiche del leader dell’estrema sinistra de La Gauche Insoumise, Jean-Luc Melenchon, e degli intellettuali francesi, alla decisione di Parigi, 40 anni dopo, di cambiare politica sugli ex terroristi italiani. Fra gli ex terroristi, alcuni hanno le “mani sporche di sangue” proprio come la “dottrina Mitterrand” escludeva come precondizione per concedere loro accoglienza: “E poi - ha incalzato Dupond-Moretti - cos’era questa dottrina Mitterrand? Era la residenza possibile per gli ex brigatisti, non lo status di rifugiato, ma non per chi avesse commesso reati di sangue. Se si guardano le condanne pronunciate in Italia, questi hanno le mani sporche di sangue”. A questo punto, il ministro riferisce un episodio che gli è stato “raccontato dalla ministra italiana”, Marta Cartabia: “Un commissario di polizia fu ucciso in uno studio medico, con 5 proiettili, davanti a suo figlio, un bambino di 5 anni. Questo bambino è diventato un uomo e un giorno è venuto a Parigi ad assistere a una partita. E sapete chi c’era allo stadio, a qualche metro da lui? L’assassino di suo padre”. L’episodio fa riferimento all’omicidio di Giuseppe Gurrieri, che non era commissario ma appuntato dei carabinieri, nel 1979 a Bergamo. Un “fatto di sangue” per il quale fu riconosciuto colpevole anche uno dei dieci ora “estradabili”, Narciso Manenti. “Anche l’Italia - ha sottolineato il ministro - ha il diritto di voltare pagina”. Poi, Dupond-Moretti apre il capitolo Cesare Battisti e “tutti quelli che lo sostenevano”: “Cosa disse appena arrivato in Italia? Fui io a commettere quei 4 omicidi. E qui era considerato un totale innocente, tutti erano in sua ammirazione. Poi ha detto anche che il processo italiano era stato equo. E infine, ha aggiunto di aver preso in giro tutti quelli che lo hanno sostenuto”. Libia. L’eritreo Welid colpevole per gli orrori di Bani Walid di Paolo Lambruschi Avvenire, 3 maggio 2021 In Libia dal 2013 al 2018, secondo la corte di Addis Abeba, ha stuprato, torturato e ucciso i profughi detenuti nel centro non ufficiale più famigerato. Colpevole, ma ancora latitante il socio Kidane. Il supertrafficante eritreo Welid, uno dei più crudeli assassini di profughi in Libia, uno degli organizzatori della nave della morte affondata il 18 aprile 2015 al largo di Malta è stato riconosciuto colpevole dalla corte di Addis Abeba. Tewelde Gojtom, alias Welid, che ha operato in Libia per 5 anni, imbarcando a forza almeno 400 eritrei sugli 800 disperati sulla nave della morte sovraccarica colata a picco il 18 aprile 2015 nel più grande naufragio del secolo nel Mediterraneo, è stato riconosciuto colpevole delle accuse a suo carico. Quindi, secondo il quotidiano inglese Guardian colpevole di aver torturato, estorto soldi, violentato le prigioniere, ridotto in schiavitù e ucciso migliaia di persone in un centro di detenzione non ufficiale della famigerata Bani Walid, ribattezzata in Libia dai migranti “la città dei fantasmi” per i tanti che vi hanno trovato la morte per gli stenti, le torture e le violenze inferte per estorcere i soldi del riscatto ai famigliari contattati al telefono. Per il naufragio non è stato processato. La magistratura italiana aveva chiesto a quella etiope l’estradizione per giudicarlo ricevendo, però, un rifiuto. La sentenza verrà emessa il 21 maggio e Welid, il cui avvocato era stato arrestato per tentata corruzione dei testimoni, l’attenderà in prigione. Giudicato colpevole in contumacia anche il socio di Welid, Kidane Zekarias Habtemariam, anch’egli eritreo, evaso indisturbato dal tribunale a metà febbraio durante un’udienza del processo e tuttora irreperibile. Il procuratore generale della capitale etiope ha disposto l’arresto dell’ufficiale di polizia a capo della sorveglianza e si è limitato a dichiarare che le indagini proseguono. Kidane e Welid portavano etiopi ed eritrei dal Sudan alla Libia e facevano proseguire verso il Mediterraneo chi pagava la seconda parte del viaggio, gli altri venivano imprigionati a Bani Walid. I due criminali, stupratori seriali, usavano crudeli metodi da lager, arrivando a organizzare partite di calcio tra squadre di prigionieri sfiniti in cui il trofeo in palio era la vita. Ironia della sorte erano stati arrestati nell’inverno 2020 grazie a una loro vittima, un etiope rimpatriato con un programma dell’Onu, il quale aveva riconosciuto Kidane per strada ad Addis Abeba a metà febbraio. Il mese successivo era stato arrestato Welid. Come lamenta l’attivista eritrea Meron Estefanos, testimone con la giornalista irlandese Sally Hayden, non sono state ammesse le testimonianze in remoto di molte vittime e il processo, nonostante i due fossero tra i criminali più ricercati dalle polizie europee, si è svolto nella disattenzione dei media occidentali. Siria. Assad concede amnistia a detenuti in vista elezioni ansa.it, 3 maggio 2021 Beneficeranno anche ribelli e dissidenti che non abbiano ucciso. A meno di un mese di distanza dalle elezioni presidenziali, il presidente della Siria, Bashar al-Assad, ha ordinato con un decreto un’amnistia per i detenuti, rilasciando non solo persone condannate per reati minori, ma anche chi è stato condannato per “complicità in atti di terrorismo”. Tra questi ultimi, nel gergo del regime siriano, rientrano le attività dei ribelli ma anche degli attivisti contro il governo di Damasco. Inclusi nell’amnistia anche i disertori dell’esercito che si siano costituiti entro tre mesi, o sei mesi se erano all’estero. Non beneficeranno invece della clemenza quei “terroristi” le cui azioni abbiano causato la morte. Quanto ai responsabili di alcuni reati come traffico di droga, contrabbando ed evasione fiscale, il rilascio sarà condizionato al pagamento di una multa. Dalle elezioni presidenziali del prossimo 26 maggio - le seconde dallo scoppio della guerra civile - non ci si aspettano grandi sorprese e Assad appare proiettato senza troppi ostacoli verso un quarto mandato. Dieci anni di guerra civile in Siria si stima abbia provocato almeno 380.000 morti e milioni di sfollati. Dzhemilev, capo dei Tatari di Crimea: “Oggi siamo più perseguitati che nei tempi sovietici” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 3 maggio 2021 Costretto a lasciare la penisola per la prima volta all’età di sei mesi, ha lottato per il diritto del suo popolo a tornare nella propria terra anche a costo dell’esilio, di sei detenzioni in un Gulag e del più lungo sciopero della fame al mondo: 303 giorni. Coronato il sogno di rimpatriare nel 1989, si è ritrovato di nuovo bandito per aver condannato l’annessione russa nel 2014: “Vogliono impedire che venga seppellito nella mia patria”. “Le persecuzioni subite oggi dai Tatari in Crimea sono peggiori rispetto a quelle dei tempi sovietici”, commenta amaro Mustafa Dzhemilev in collegamento Zoom con Repubblica da Kiev a sette anni dall’annessione russa della penisola ucraina. Costretto a lasciare la Crimea per la prima volta all’età di sei mesi il 20 maggio 1944, quando il regime di Josif Stalin deportò 200mila Tatari dalla loro patria, Dzhemilev, oggi settantottenne, è il presidente del Mejlis, il massimo organismo di rappresentanza della comunità tatara, e ha dedicato tutta la sua vita a lottare per il diritto del suo popolo a tornare nella propria terra. Anche a costo dell’esilio, di sei detenzioni in un Gulag e del più lungo sciopero della fame al mondo: 303 giorni. Coronato il suo sogno di rimpatriare nel 1989 all’età di 45 anni, si è ritrovato di nuovo bandito dalla sua terra: dopo aver condannato l’annessione nel 2014, gli è vietato l’ingresso in territorio russo e in Crimea. “Vogliono impedire che venga seppellito nella mia terra”. Signor Dzhemilev, aveva solo sei mesi quando la sua famiglia, come tutti i Tatari, fu deportata dalla Crimea nel 1944 dalle autorità sovietiche. Che cosa vuol dire per un popolo essere allontanati dalla propria terra? “Fu un tentativo di sterminio riconosciuto come genocidio sia dalla Rada ucraina che dai Parlamenti di altri Stati, tra cui i Paesi baltici e il Canada. Decine di migliaia di tatari furono deportati nei campi di concentramento. Circa il 46 percento della nostra popolazione morì. Furono distrutti tutti i nostri monumenti e persino i cimiteri. Tutti i nomi geografici storici tatari furono sostituiti con quelli russi. La Crimea fu russificata. Sotto Stalin, quando per ogni parola si ammazzava, era impossibile chiedere di rientrare. Ma grazie al disgelo iniziato da Krusciov, abbiamo iniziate a scrivere lettere. Siamo riusciti a rientrare solo mezzo secolo fa pur svolgendo una lotta non violenta”. Una lotta che le è costata molteplici arresti e un lunghissimo sciopero della fame... “Non importa la mia lotta personale, ma quello che è successo dopo l’annessione nel 2014 quando molti Tatari sono stati costretti di nuovo a lasciare la loro terra. Dopo aver lottato per anni per la democrazia e la libertà, ci siamo ritrovati sotto un regime peggiore di quello sovietico. Le autorità esercitano ogni pressione possibile sui Tatari affinché se ne vadano dalla propria patria”. Dopo che non ha riconosciuto la legittimità del referendum sull’annessione indetto il 18 marzo 2014, le autorità russe le hanno vietato di rientrare in Crimea, prima per cinque anni, per poi inserirla nella “lista nera” insieme a più di trecento altri cittadini ucraini. Con quale motivazione? “Non c’è alcun documento ufficiale. Le autorità russe sostengono che io attenti all’integrità territoriale della Russia. Il divieto d’ingresso inizialmente durava fino al 2019, ora il bando è stato prorogato fino al 2034. È evidente che non vivrò così a lungo e che quindi non potrò rientrare nella mia patria. L’obiettivo è chiaro: impedire che venga seppellito in Crimea. Ma la mia convinzione assoluta è che, prima d’allora, non ci saranno più occupanti in Crimea”. Nel marzo 2014, circa il 70% dei Tatari di Crimea boicottò il referendum sull’annessione russa della penisola. Quanti sono stati costretti per questo ad abbandonare nuovamente la propria casa? “Non esistono statistiche precise. Circa 25-30mila persone. In numeri assoluti può non sembrare tanto, ma si tratta del 10 percento della popolazione tatara. Da Kiev invitiamo tutti i nostri connazionali a non lasciare la terra per la quale abbiamo combattuto così tanto”. Un mese dopo il referendum, il presidente russo Vladimir Putin ha riconosciuto il tataro come lingua ufficiale in Crimea, insieme al russo e all’ucraino, e ha firmato un decreto sulla “riabilitazione politica del popolo tataro di Crimea”. È servito a qualcosa? “È la Russia a doversi riabilitare davanti alla comunità internazionale per i suoi crimini. Il decreto sulla riabilitazione non serve a nulla. Non serve a nulla riconoscere l’ingiustizia della deportazione dei Tatari di Crimea, se poi la propaganda anti-tatara nei media russi non fa che rafforzarsi. Oggi i media russi sui Tatari di Crimea scrivono offese che non si leggevano neppure ai tempi di Stalin. Neppure il decreto sulla lingua è efficace. Ufficialmente sono 15 le scuole in lingua tatara, ma la maggior parte delle materie è insegnata in lingua russa. La russificazione è totale”. Ci può parlare degli abusi che i Tatari di Crimea hanno iniziato a subire da quando la penisola è stata annessa? Il Mejlis è stato dichiarato un’organizzazione estremista e bandito. Sono in corso procedimenti penali contro i Tatari di Crimea, principalmente per l’appartenenza a Hizb ut-Tahrir, riconosciuta come organizzazione terroristica e bandita. I Tatari di Crimea vengono perquisiti, interrogati e arrestati. Quanti sono i prigionieri politici tatari oggi nelle carceri russe? Che differenza c’è tra le persecuzioni sovietiche e quelle odierne? “Secondo le statistiche di qualche settimana fa, i prigionieri politici in Crimea sono 119, di cui 87 Tatari. Dal momento che i Tatari sono il 13% della popolazione della penisola, sono l’80% dei prigionieri nelle carceri russe. È importante sottolineare che adesso la gente viene condannata a tempi di reclusione inimmaginabili sotto l’Urss. Io sono stato condannato sei volte in era sovietica, ma il massimo della pena erano tre anni di carcere. Adesso si viene condannati a oltre 15 anni di carcere solo per “sospetta attività terroristica”, tra l’altro in mancanza di qualsiasi prova reale. L’ultimo caso clamoroso è quello del cosiddetto “gruppo di Bakchisaraj”: sei persone sono state condannate al carcere da 15 a 19 anni per estremismo, solo sulla base di intercettazioni nella moschea di Bakchisaraj e di testimoni che probabilmente erano agenti Fsb. Di recente un giovane tataro è stato condannato a sei anni di reclusione non appena rientrato in Crimea perché aveva fatto parte del battaglione dei volontari tatari dall’altra parte del confine della penisola, benché non avesse mai combattuto”. Lei è tra i tre rappresentanti della comunità tatara di Crimea eletti nella nuova Rada nel partito dell’ex presidente Petro Poroshenko. A due anni dall’insediamento di Volodimir Zelenskij, come giudica la sua presidenza? “Penso che Zelenskij sia una persona onesta e per bene, ma che manchi di esperienza politica. È chiaro che fare il presidente subito dopo aver abbandonato il palcoscenico teatrale non sarà stato facile. Di conseguenza ha commesso qualche errore iniziale soprattutto nei confronti della Russia. Ma di recente ha lanciato la Piattaforma della Crimea con obiettivo la “dis-occupazione” dalla penisola. La Russia continua a ripetere che la Crimea è russa e che non intende liberare la penisola, ma per la comunità internazionale si tratta di un territorio annesso, occupato. L’idea della Piattaforma è riunire i Paesi che si pronunciano contro la presenza russa in Crimea, discutere con loro delle possibili misure da applicare contro la Russia. Abbiamo un proverbio: il potere degli sciacalli esiste solo finché i leoni non si alzano in piedi. È chiaro che tutta la comunità internazionale deve rendersi conto che, se uno Stato si permette di occupare il territorio di un altro Paese sovrano solo perché ha tanti carri armati, bisogna fare di tutto per mandargli un chiaro segnale”. Presto si dovrebbe tenere a Kiev il vertice della Piattaforma della Crimea. Chi coinvolgerà? “Il ministero degli Esteri ha invitato 119 Paesi. Il vertice si terrà nel 30° anniversario dell’indipendenza dell’Ucraina, il 23 agosto. Per noi è importante che partecipino capi di Stato e di governo. Noi Tatari cerchiamo di dare un contributo cercando di coinvolgere i Paesi arabi che si sono astenuti dal condannare l’annessione russa della Crimea. Cerchiamo di spiegare loro che l’Islam prevede la lotta contro le ingiustizie e qui ne è stata commessa chiaramente una”. Il neo presidente statunitense Joe Biden ha ribadito che l’annessione della Crimea è illegale. Che cosa vi aspettate dalla sua amministrazione? “Nutriamo tante speranze su un suo intervento, gliel’ho scritto pure nel mio messaggio di congratulazioni dopo la sua elezione, perché si e più volte pronunciato per il ritiro delle truppe russe e per la punizione dei crimini russi nel territorio ucraino”. La Ue continua a rinnovare le sanzioni per condannare l’annessione. Avete chiesto che nomini un rappresentante speciale per la Crimea. Che cosa potrebbe fare di più? “La Russia sostiene che le sanzioni non le nuocciano. È chiaro che non è così, ma è evidente che non bastino e vadano rafforzate. Mosca rivendica di essere una potenza, ma è una menzogna. il Pil russo è due volte e mezzo minore rispetto a quello dell’Italia, un Paese almeno cinquanta volte più piccolo. D’altro canto la Russia ha un esercito che conta un milione e mezzo di truppe, ma a soldato investe cinque volte di meno rispetto ai Paesi europei”. Ha detto più volte che la Crimea sarà presto liberata. Come sarà possibile a sette anni dall’annessione ritornare allo stato precedente? “Sarà difficile ovviamente, ma Mosca non doveva occupare il territorio di un Paese sovrano e rompere i rapporti con l’Ucraina e con il mondo intero. Purtroppo in Russia in quel momento dominava l’ambizione di Putin, che voleva dimostrare al mondo la sua grande potenza. Una canzone cecena dice più o meno: “Solo un uomo vero, può ammettere di avere torto una volta”. Nella dirigenza russa non esistono uomini veri capaci di ammettere di avere torto e di rinunciare a quest’occupazione. Per Putin rinunciare alla Crimea sarebbe un suicidio politico. Finché sarà al potere, non ci aspettiamo nulla, ma presto o tardi anche il suo regime finirà. Magari a causa della resa dei conti interna al Cremlino. O di un’ulteriore disintegrazione dell’impero russo dopo il crollo dell’Urss”.