Istruzione in carcere, la laurea dà una seconda possibilità ai detenuti di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2021 In un anno cresce del 30% il numero di detenuti che sceglie di prendersi la laurea durante la reclusione - In rialzo la componente femminile. Una laurea in carcere per una seconda chance. Dall’area politico sociale alle materie artistiche e letterarie passando per l’economia, la giurisprudenza e le discipline ambientali. È in crescita il numero dei detenuti che si iscrivono ai corsi universitari in carcere. I dati elaborati dalla Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari parlano chiaro: si è passati passato dai 796 dello scorso anno agli attuali 1.340, che significa una crescita del 29,9 per cento. Di questi, 896 sono gli studenti che frequentano corsi di laurea triennale (87%), mentre 137 frequentano corsi di laurea magistrale (pari al 13% del totale). Tra gli iscritti spicca l’incremento della componente femminile che, seppure con numeri ridotti, passa da 28 studentesse nel 2018-19 a 64 nel 2020-21, quindi con un incremento del 128 per cento. Crescono le adesioni ai poli penitenziari - A coordinare l’attività la Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari che nell’ultimo triennio ha visto crescere le adesioni: gli atenei che aderiscono alla Conferenza sono passati dai 27 di tre anni fa agli attuali 32 mentre gli istituti penitenziari in cui operano i poli universitari sono passati dai 70 del 2018/21019 agli attuali 82. E presto ne apriranno altri in Puglia e in Sicilia. All’interno 196 dipartimenti universitari, che corrispondono al 37% dei dipartimenti presenti nei 32 atenei coinvolti. “È chiaro che c’è un incontro tra una domanda e un’offerta - commenta Franco Prina dell’università di Torino e presidente della Conferenza - e la domanda è sollecitata anche dal fatto che gli atenei vanno nelle carceri a fare orientamento e questo fatto suscita l’interesse delle persone che si incontrano”. Le scelte degli iscritti - Le aree disciplinari più frequentate dagli studenti in regime di detenzione sono quella politico-sociale (25,4%) seguita dall’area artistico-letteraria (18,6%), dall’area giuridica (15,1%), dall’area agronomico-ambientale (13,7%), dall’area psico-pedagogica (7,4%), dall’area storico-filosofica (7,3%), dall’area economica (6,5%). Coronavirus, in un anno oltre 7.500 detenuti in meno nelle carceri. Lavora uno su quattro - In questo contesto nasce poi, soprattutto nei territori, quello che viene definito “l’interscambio tra università e carcere”. “In Toscana, dove da dieci anni i poli penitenziari si sono consorziati nel polo regionale - dice Andrea Borghini, docente all’università di Pisa - si portano avanti diverse iniziative che riguardano i progetti per il miglioramento delle condizioni di studio degli studenti detenuti”. Attività che prevedono la “figura dello studente-tutor, le cui finalità sono quelle di sviluppare un rapporto peer-to-peer con gli studenti detenuti”, le giornate di orientamento per gli immatricolandi, “che stanno diventando una consuetudine particolarmente gradita per la popolazione penitenziaria e per gli stessi operatori carcerari”. Oppure, è il caso dell’università di Sassari che recentemente ha elaborato una parte specifica del Regolamento carriere studenti sotto il titolo Regolamento studenti con esigenze speciali. Il giustizialismo non è stato inventato dai grillini di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante Il Domani, 31 maggio 2021 Le polemiche di questi giorni seguite alla piena assoluzione del sindaco di Lodi Simone Uggetti, arrestato con accuse di corruzione nel 2016 e allora fatto oggetto di una violenta campagna di odio personale nella quale si distinse il Movimento cinque stelle, investe un tema assai serio: l’urgenza di rimettere al centro dell’idea di giustizia penale i diritti degli imputati a cominciare dalla presunzione di innocenza, principio che tutti - politici, giornalisti - devono riconoscere e rispettare. Uggetti, così ha detto la sentenza, è per l’appunto innocente, per cinque anni è stato vittima due volte: di un’accusa infondata, di una vulgata giornalistica e politica che venendo meno a princìpi elementari di etica dei rispettivi ruoli, ne ha rappresentato e poi archiviato il caso come quello di un corrotto. Ma la discussione che si è aperta sul tema presenta un limite vistoso: un limite che si può sintetizzare come negazione della storia. Il ritornello letto e ascoltato (quasi) dappertutto sui danni culturali e civili del cosiddetto giustizialismo suona più o meno così: l’Italia paga il prezzo di anni nei quali lo Stato diritto è stato ripetutamente sfigurato da una modalità di azione giudiziaria e da un clima di opinione che nel primo caso persegue e nel secondo racconta le ipotesi di reato, in particolare di reati connessi a ruoli politici, come delitti conclamati e gli imputati chiamati a risponderne come criminali accertati, e il copyright di questa deriva è dei Cinquestelle. Ecco, grande assente di questa ricostruzione è la storia. Perché questo piano inclinato comincia molto prima della nascita dei grillini, che ne sono stati recentemente i principali beneficiari. Nasce trent’anni fa con le inchieste di Mani Pulite su Tangentopoli: segnate indiscutibilmente da vistose cadute “giustizialiste”, prima fra tutte l’abuso ricorrente della carcerazione preventiva e il suo utilizzo del tutto incostituzionale come mezzo coercitivo per ottenere ammissioni di colpevolezza dagli imputati. D’altra parte, anche qui è utile affidarsi alla storia, Mani Pulite non fu l’invenzione a tavolino di un gruppo di magistrati. Fu la reazione, almeno originariamente più che sana, a una profonda e diffusa degenerazione del costume politico: erano fatti, non astratti teoremi del procuratore Borrelli e compagnia che i partiti italiani si finanziassero illegalmente, che in Italia si fosse consolidato nel tempo uno stretto e sistematico legame corruttivo di reciproca convenienza tra politica ed economia. Dunque una prima verità da ristabilire è che l’”antipolitica” esplosa trent’anni fa tra gli italiani e poi durata per decenni, alimento principale di innumerevoli inchieste giudiziarie e processi contro politici finiti in nulla di cui il caso Uggetti è solo un esempio vistoso, nacque come risposta punitiva, e a sua volta rapidamente degenerativa, verso una politica divenuta impresentabile. La seconda verità è che non sono stati i Cinquestelle gli “allevatori” iniziali di questa abbuffata giustizialista. Sono stati, accanto a molti magistrati, i media di allora, e sono stati due partiti politici con nome e cognome - la Lega Nord di Bossi e il partito postcomunista - che quel terremoto cavalcarono e che di esso si avvantaggiarono abbondantemente. I Cinquestelle sono arrivati molto più tardi, e certo hanno poi superato in furia giustizialista questi loro “maestri”. Ma ad esaltare come atto “di liberazione” il lancio di monetine contro il capo dei socialisti Craxi nei giorni caldi in cui moriva la “prima Repubblica” non furono i grillini: a quel tempo - questa non è storia, è cronaca anagrafica - Di Maio e Di Battista frequentavano la scuola dell’obbligo. M5S e giustizia, Conte frena la svolta garantista di Liana Milella La Repubblica, 31 maggio 2021 “Superare i toni del passato, ma legalità ed etica valori inossidabili”. In un post su Facebook l’ex premier replica a Di Maio e tende una mano agli ortodossi del suo partito. E sui fondi alla Lega attacca Durigon. Dopo l’intervento di Luigi Di Maio al Foglio con le scuse all’ex sindaco pd di Lodi Simone Uggetti, assolto in appello da una condanna per turbativa d’asta, è il capo politico del M5S Giuseppe Conte a intervenire sulla svolta “garantista” impressa al Movimento dal ministro degli Esteri ma male accolta dalla base. In un post su Facebook l’ex premier tende una mano agli ortodossi e chiarisce che, va bene cambiare i toni, ma i valori fondativi del M5S non possono essere messi in discussione: “Il Movimento 5 Stelle sta completando un processo di profonda maturazione collettiva al fine di presentare al Paese una proposta politica fortemente innovatrice, mirata a realizzare una società più equa e solidale, che consenta il pieno sviluppo della personalità di ognuno e garantisca migliori opportunità di vita a tutti. Una società ‘a misura d’uomo’, integralmente ecologica, in grado di garantire condizioni effettive di benessere equo e sostenibile a tutti i suoi membri”. Sui principi del M5S non si tratta - “In questo nuovo corso - afferma ancora Conte - riconoscere come errori alcuni toni e alcuni metodi usati in passato - come ha fatto Luigi Di Maio - vuol dire segnalare, anche all’esterno, alcuni fondamentali passaggi di questo importante processo di maturazione collettiva, che avrà al suo centro, sempre e comunque, il rispetto della persona, nella sua dimensione individuale e sociale, perché non ammettiamo una “ragione” superiore alla quale sacrificare la dignità dell’essere umano e la tutela effettiva dei suoi diritti e libertà fondamentali”. “È fondamentale ricordare - prosegue il capo politico del Movimento - che il rispetto della persona e della sua dignità va coniugato con i principi della trasparenza, della lealtà, del rigore etico, da sempre fondamentali per il M5S. Perché il Movimento sta maturando, certo, ma non archivierà la forza e il coraggio delle sue storiche battaglie per cambiare il Paese. Saremo una forza aperta, accogliente. Ma anche intransigente nella misura in cui non ci renderemo disponibili a negoziare i nostri principi e a scolorire i nostri valori”. Fondi Lega, l’attacco a Durigon - “Il principio di legalità e il valore dell’etica pubblica per la nostra comunità politica sono valori inossidabili. Lo dimostrano i provvedimenti approvati al Governo, come lo Spazza-corrotti e le riforme sulla giustizia che oggi sono all’esame del Parlamento, le posizioni assunte in tema di legalità e di contrasto alla criminalità, come in occasione dell’ultimo decreto Semplificazioni. Continuiamo a considerare non tollerabile, ad esempio, quanto detto da un esponente di governo come Claudio Durigon, ancora al suo posto nonostante le gravi affermazioni divulgate. Riteniamo vada fatta chiarezza: anche fosse solo millanteria, saremmo comunque di fronte a esternazioni che restituiscono un’idea marcia delle istituzioni, lontana anni luce dai concetti di “disciplina e onore” che l’articolo 54 della nostra Costituzione richiama nell’esercizio delle funzioni pubbliche”, scrive ancora l’ex premier. “Aggiungo che i nostri Costituenti sono stati lungimiranti: quei concetti non sono vuoti orpelli, ma designano lo spazio dell’etica pubblica dove si sviluppa la ‘responsabilità politica’, che va tenuta distinta dalla responsabilità giuridica, penale in particolare. La nostra Costituzione è stata progettata come il testo fondamentale per lavorare alla ricostruzione non solo economica, ma anche sociale e morale di un Paese duramente prostrato dal conflitto bellico e dagli anni bui della dittatura. Tanto più oggi che finalmente iniziamo a vedere la luce dopo una dura pandemia che lascia macerie paragonabili a quelle del secondo dopoguerra, non possiamo trascurare di lavorare a una ricostruzione anche “morale” della nostra comunità, per renderla più salda nei valori e nei principi”, sostiene Conte. E aggiunge: “L’etica pubblica è uno di quei valori che il M5S non ha solo portato nelle piazze e scritto nei programmi, ma reso tangibile con scelte forti e di rottura, per arginare condotte errate e operare secondo il più alto senso dello Stato. La linea del Movimento su questo non può generare alcuna confusione: garantiremo il massimo rispetto della dignità di ogni persona, ma tenendo sempre fermo il massimo rigore nel pretendere il rispetto dei più alti principi di etica pubblica, del più alto senso civico e delle Istituzioni. Per questo oggi chi pensa che il nuovo Movimento possa venire meno a queste convinzioni o pensa di strumentalizzare questo percorso di maturazione, rimarrà deluso”. Riforma della giustizia e processi più veloci - “Sul tema più ampio della giustizia - conclude l’ex premier - il Movimento ha le competenze e le capacità per esprimere una cultura giuridica solida e matura. Continueremo ad assicurare il nostro massimo impegno per realizzare le riforme già avviate, nel segno di un “sistema giustizia” più celere, più efficiente, ma anche più equo e giusto. Ci faremo scrupolo di applicare tutti i principi costituzionali che coinvolgono i cittadini sottoposti a indagini e agli accertamenti giudiziali, a partire dalla presunzione di innocenza e dal principio della durata ragionevole dei processi. Ma sia chiaro: la via maestra è realizzare un sistema che offra risposte chiare e certe alla domanda di giustizia, non scorciatoie nel segno della denegata giustizi”. E alla fine lo Stato riconobbe agli assolti un ristoro da 63 euro di Errico Novi Il Dubbio, 31 maggio 2021 Dopo aver dato l’Ok all’emendamento di Costa, il governo stanziò una cifra ridicola. E ora via Arenula non sa come evitare che una norma sacrosanta si riduca a una beffa. È una legge giusta. Lo sanno tutti. Lo riconoscono tutti. Quando nel novembre 2020 il deputato di Azione Enrico Costa, primo firmatario dell’emendamento sui rimborsi agli assolti, ne parlò con l’allora guardasigilli Alfonso Bonafede, non si trovò affatto dinanzi a un interlocutore distante e scettico. “Caro Enrico”, rispose l’ex ministro del Movimento 5 Stelle, “sono assolutamente d’accordo con te sull’opportunità che lo Stato ristori, nei limiti del possibile, le spese legali sostenute da chi sia stato imputato in un processo penale e abbia poi ottenuto il proscioglimento, perché si tratta di una norma di civiltà. Abbiamo però un problema”. “Quale?”, chiese preoccupato il parlamentare noto per le proprie battaglie garantiste e che, inizialmente, aveva proposto di approvare l’ipotesi formulata anni addietro dal Cnf, cioè la detraibilità delle spese di difesa. “Qual è l’ostacolo?”, ripeté Costa a Bonafede. L’ex guardasigilli spiegò: “Non esiste una statistica sul numero dei cittadini che ogni anno escono assolti nell’ambito di un processo con una delle formule ampiamente liberatorie per le quali tu proponi giustamente di prevedere il rimborso. All’ufficio statistico di via Arenula”, rivelò Bonafede, “non è mai stato condotto un rilevamento su questa casistica così particolare. E visto che non sappiamo quanti sono, sarà complicato approvare la norma, perché dovremmo andare al buio sulle coperture”. Come ben capite, già in quella fase “prodromica” all’approvazione della norma (di cui vi diamo conto in modo dettagliato in altro servizio di questa edizione, nda) era chiaro quanto poco si pensasse di poter sacrificare, finanziariamente, per risarcire gli innocenti della pena loro inflitta con l’indebita sottoposizione a un processo. Era implicitamente pacifico quanto limitato potesse risultare lo “sforzo” che eravamo disposti a fare noi cittadini, noi amministrazione pubblica, noi maggioranza o ex maggioranza, per ristorare chi è stato costretto per anni al supplizio dell’accusa ingiusta, dell’infamia che ne deriva, della perdita del lavoro, e dell’onore, che spesso a quell’accusa si accompagna. Ma fino a che punto quella “concessione” sarebbe stata “risicata”? Primo dato: il numero degli assolti interessati - Lo si capisce dai numeri che ora abbiamo a disposizione. Numeri che parlano chiaro, perché poi la norma è stata sì approvata (con la legge di Bilancio per il 2021), ma prevede che, per cominciare già quest’anno a restituire almeno una frazione delle spese legali sostenute dal malcapitato, è necessario che il guardasigilli, di concerto col ministro dell’Economia, adotti un decreto ministeriale attuativo. Il decreto ancora non c’è, quindi niente rimborsi. Ma non solo. Perché proprio pochi giorni fa si è scoperto anche per quale raggelante motivo il decreto non è stato ancora predisposto, nonostante la presenza a via Arenula di una ministra della Giustizia, come Marta Cartabia, attentissima alla tutela delle garanzie. Lo si è scoperto perché sempre il deputato Enrico Costa ha presentato martedì scorso, in commissione Giustizia a Montecitorio, un’interrogazione urgente alla guardasigilli, e già il giorno dopo ha ottenuto risposta dal sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Nel lungo documento di replica, Sisto ha dovuto esporre l’amara verità: va innanzitutto segnalata “la estrema complessità delle attività e dei relativi adempimenti da eseguire, segnatamente con riferimento alle opportune verifiche concernenti la congruità delle risorse annuali stanziate rispetto alla platea dei possibili beneficiari”. Soprattutto, ha spiegato il sottosegretario Sisto, “vanno necessariamente sottolineati alcuni profili critici derivanti dalla esiguità del fondo appostato in bilancio” che è di “8 milioni di euro all’anno al massimo”. Mentre invece è “potenzialmente molto ampio” il numero “dei soggetti aspiranti alla elargizione del beneficio” pari a “oltre 125 mila domande”. E il secondo dato: quanto spetterebbe a ciascun assolto - Ecco quindi, finalmente, il dato di cui qualche mese prima Bonafede ancora non poteva disporre. Ma è da brividi il risultato della divisione: ne deriva “un rimborso medio nella esigua misura di 63 euro”. Adesso, ci potremmo anche dilungare sulla micro-ingegneria contabile del problema, non elusa da Sisto nella propria replica. Ad esempio, sul fatto che “non poche difficoltà comporta la locuzione per cui l’elaborazione dei “criteri” e delle “modalità di erogazione dei rimborsi” deve essere effettuata “attribuendo rilievo al numero di gradi di giudizio cui l’assolto è stato sottoposto e alla durata del giudizio”. Come ha detto ancora il sottosegretario alla Giustizia nella risposta all’interrogazione, il ministero dovrà sforzarsi di offrire una “ragionevole interpretazione del dato normativo”. Il che potrebbe anche voler dire che si eviterà l’elemosina dei 63 euro e si assicurerà il rimborso solo a chi è rimasto sotto processo per un numero particolarmente elevato di anni, oltre che per tutti i gradi di giudizio possibili. Ma c’è innanzitutto un evidentissimo problema, che induce lo stesso Costa a dichiararsi “per nulla soddisfatto della risposta ricevuta”. Il rischio che tutto si riduca a un’integrazione della “Pinto” - Il paradosso è nel fatto che, seppure si riuscisse ad assicurare un rimborso, per esempio, di 1.000 euro solo a chi abbia visto il proprio processo sforare soglie temporali assurde, dai 7 anni in poi, ci si ridurrebbe in pratica a una mera integrazione dell’indennizzo già previsto dalla legge Pinto per l’irragionevole durata del processo. E non erano certo questi l’obiettivo e la ratio della norma, che invece voleva far risaltare un altro aspetto: la drammatica condizione di chi deve difendersi da un’accusa ingiusta, anche con il sacrificio necessario a sostenere le spese per la difesa. Costa ha controreplicato con un’obiezione di significato politico: considerata la “continuità dell’azione amministrativa e governativa”, il ministero non può, sostiene il deputato di Azione, “giustificare il proprio ritardo negli adempimenti richiesti sulla base di una presunta criticità della disposizione”. Se il governo considera la norma inadeguata, “dovrebbe ricorrere nuovamente al Parlamento per la sua opportuna modifica”. L’ennesima sottile offesa al lavoro dell’avvocato - Va detto che Sisto, nella risposta, ha più volte ribadito come sia “fermo l’impegno del ministero al pronto adempimento di quanto previsto” e dunque a emanare il prima possibile il decreto attuativo. Ma forse c’è un risvolto sottile, anzi un doppio risvolto che ci pare di poter intravedere. Relativo innanzitutto al fondo stanziato che, come ricordato, è di appena 8 milioni. Nella sessione di Bilancio ci si è dovuti accontentare. E oltretutto, si trattava pur sempre di una proposta emendativa proveniente da un parlamentare come Enrico Costa che all’epoca non faceva parte della maggioranza. E quando in legge di Bilancio vengono approvate modifiche o richieste presentate dall’opposizione, non si largheggia mai. Va pure detto che, per esempio, l’allora ministro dell’Economia Roberto Gualtieri non è che abbia fatto uno sforzo particolare, in modo da assegnare a via Arenula qualche risorsa in più per poter assicurare il ristoro degli assolti. Ecco, ma a ben vedere, dietro tanta “ristrettezza”, che un po’ stona in un’epoca in cui a ogni piè sospinto si approvano decreti emergenziali da 40 miliardi, viene anche da pensare che non si sia avuta grande considerazione per il lavoro dell’avvocato. Quando c’è un cittadino accusato, processato e poi assolto, se ne passa qualche anno; e qualche anno di lavoro, anche per il difensore, non può certo essere monetizzato in una mancia buona per una seratina al pub. L’altra considerazione è più sottile, forse perfida, amara ma in fondo aperta a un’inopinata speranza: visto che un decreto lo si dovrà pur approvare, e che dunque a breve un criterio di assegnazione dei ristori andrà stabilito, e visto che dati i numeri esigui, in un modo o nell’altro il risultato sarà deludente, il giorno in cui si scoprirà che ci si è dovuti accontentare magari di concedere un ristoro da un migliaio di euro a una percentuale ristretta dei 125mila assolti, e che dunque in decine e decine di migliaia resteranno senza alcun rimborso, e si capirà che il tutto dipende dal fatto che per le persone ingiustamente accusate non si è stati capaci di andare oltre cifre simili, ebbene quel giorno forse sarà chiaro anche all’opinione pubblica meno garantista quanta sadica indifferenza noi, come Stato, siamo capaci di provare per le vittime della malagiustizia. E se pure solo una piccola parte del Paese sarà convinta, da tale constatazione, che quelle vittime meritano un po’ più di rispetto, oltre che di soldi, si sarà forse ottenuto un risultato prezioso, non quantificabile, capace di assicurare un “ritorno morale”, con tanto di interessi, per il futuro. Sentenze già scritte, Anm sconfitta ma i penalisti si dividono di Viviana Lanza Il Riformista, 31 maggio 2021 Il caso della bozza di sentenza trovata nel fascicolo di un processo in Corte d’appello a Napoli spinge l’Anm a riconoscere le ragioni dell’avvocatura ma divide le posizioni dei penalisti sulle iniziative da intraprendere. Dopo due giorni di riunioni e confronti serrati, la Camera penale di Napoli ha deciso di non proclamare astensione mentre le altre sei Camere penali del distretto (Napoli Nord, Nola, Torre Annunziata, Santa Maria Capua Vetere, Benevento e Irpina) si asterranno dalle udienze il 16 giugno prossimo e per quella data hanno indetto un’assemblea pubblica per una riflessione sui temi che il caso della sentenza in Corte d’appello solleva: la giurisdizione in appello, il ruolo dell’avvocato, le garanzie e i pregiudizi nei confronti del cittadino. Più neutra la posizione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli che ha espresso solidarietà all’avvocato Gerardo Rocco di Torrepadula, il penalista che ha denunciato la presenza della bozza nel fascicolo prima ancora che il processo venisse discusso, e rimarcato “con decisione”, si legge nel verbale del Consiglio, il danno che si crea, per tutti e non solo per l’imputato di turno, “quando la funzione difensiva risulti svilita, quando l’intervento del difensore è ridotto al mero simulacro di un rito privo di contenuti”. A Napoli, dunque, non ci sarà alcuno stop delle udienze: i processi saranno celebrati regolarmente anche il 16 giugno. “Dobbiamo prendere atto che l’Anm è tornata sui suoi passi, si è formalmente e incondizionatamente scusata con il collega coinvolto e ha preso atto che questo episodio ha fortemente compromesso, agli occhi dei cittadini, l’imparzialità della magistratura - afferma il presidente Marco Campora spiegando la posizione della Camera penale di Napoli - Non sono affermazioni di scarso rilievo quelle dell’Anm poiché, oltre a denotare la capacità dell’estensore di quella nota di ammettere l’errore commesso, dimostrano che ancora esistono le condizioni per un dialogo serio e onesto nell’interesse della giurisdizione”. Quindi nessuna astensione per il momento, ma si resta vigili: “Vi è il rischio concreto che quanto accaduto possa, proprio perché ritenuto fisiologico da una parte non irrilevante dei giudici, ripetersi ancora. In tal caso è evidente che l’apertura di credito che abbiamo mostrato in questa occasione verrebbe del tutto meno”, conclude l’avvocato Campora annunciando per il prossimo mese, appena saranno consentite manifestazioni in presenza, un’assemblea degli iscritti per discutere della cultura della giurisdizione nel Tribunale di Napoli. Diversa la posizione delle altre Camere penali del distretto, per le quali proprio alla luce del dietrofront dell’Anm, urge un’iniziativa più dura e un momento di riflessione. Di qui la decisione di proclamare un giorno di astensione dalle udienze e indire un’assemblea che sarà organizzata nella sede di una delle Camere penali del distretto e sarà aperta anche a giudici, pubblici ministeri e rappresentanti dell’Anm. Tra i sostenitori dell’astensione c’è l’avvocato Felice Belluomo, presidente della Camera penale di Napoli Nord: “Qui non c’è nulla di personale. I temi e i valori in gioco sono altri - spiega - Il tema è la giurisdizione in appello e se il ruolo dell’avvocato, complice la legislazione emergenziale che subordina la presenza dell’avvocato a una sua espressa richiesta in termini di ammissibilità, sia da ritenere quello di orpello coreografico per esercitare uno ius figurandi et murmurandi, come diceva il mio Maestro trent’anni fa”. “Sono in gioco i valori della oralità, la sacralità della camera di consiglio, della pubblicità, del pregiudizio nel senso etimologico del termine. Quindi - aggiunge l’avvocato Belluomo - senza puntare l’indice nei confronti di nessuno perché non è nostro costume, questi segnali preoccupanti devono costituire davvero l’inizio di un confronto sereno e leale, di una nuova cultura della giurisdizione che, prima ancora che tra noi tecnici, io porterei nelle scuole, nelle università, nelle piazze, per creare una nuova coscienza di legalità”. Giudici, cosa succede quando sbagliano: magistratura, processi e carriere di Milena Gabanelli e Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 31 maggio 2021 Carriere che avanzano anche in casi di minacce e lesioni a cittadini e forze dell’ordine. Come funzionano le sanzioni disciplinari. le responsabilità del Csm. Credibili e capaci di riscuotere fiducia. Così il capo dello Stato, vorrebbe i giudici. Senza ombre e sospetti. E pronti ad affrontare le proprie responsabilità. Ma chi sbaglia, ora, paga? I magistrati che commettono reati affrontano i tre gradi di giudizio, come tutti i cittadini. Ma nel frattempo è il Consiglio superiore della magistratura a decidere se trasferirli, sospenderli, radiarli, o lasciarli al loro posto fino a sentenza definitiva. Ed è sempre il Csm a decidere se, e come, sanzionare i comportamenti che non onorano la toga. Vediamo come funziona il sistema. Rimozione: chi decide e quando - In casi gravi la rimozione arriva anche in tempi brevi. Silvana Saguto, presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo è stata radiata nel marzo 2018 per l’uso della “posizione di magistrato per ottenere vantaggi ingiusti”, 2 anni prima della condanna a 8 anni per il “patto corruttivo permanente” con avvocati, funzionari e ufficiali sulla gestione dei beni sequestrati ai mafiosi. Per rimuovere Luca Palamara, accusato di “manovre occulte” per condizionare il Csm, sono bastate 9 sedute. Ma in altri casi, altrettanto gravi, si viaggia più lenti. La legge Castelli concede al ministro della Giustizia e al Procuratore generale della Cassazione un anno di tempo dalla notizia del fatto per promuovere l’azione disciplinare; un altro anno al Pg per le richieste; un altro ancora alla sezione disciplinare per pronunciarsi. In più, tra ricorsi e contro-ricorsi, in Cassazione, il meccanismo si inceppa. E intanto la toga infangata resta indosso. Da processato, processa gli altri - La sospensione da funzioni e stipendio è obbligatoria solo in caso di arresto. È facoltativa, invece, per chi è sotto procedimento penale. Così c’è chi, anche con accuse gravi pendenti, continua ad esercitare. Come Maurizio Musco, pm di Siracusa, accusato di favorire nelle indagini l’amico avvocato Piero Amara e i suoi amici. Il Guardasigilli, Paola Severino, aveva chiesto e ottenuto “con urgenza” il suo trasferimento cautelare a Palermo già a fine 2011. Nel 2014 il Gup lo assolve, la Procura impugna, ma il Csm lo rimanda a Siracusa, dove 8 magistrati su 11 denunciano il “rischio di inquinamento dell’azione della Procura”. Viene ritrasferito, a Sassari. Intanto fioccano le condanne in Appello, in Tribunale a Messina (concussione da cui poi sarà assolto) e alla Corte dei conti. Il Csm lo radia solo nel 2019. La Cassazione conferma nel 2020. In quegli 8 anni Musco ha continuato a processare gli altri. O come Ferdinando Esposito, accusato per le pressioni improprie fatte tra il 2012 e il 2014 per avere un attico a due passi dal Duomo di Milano a canone stracciato. Per lui ci fu solo il trasferimento per abuso dei poteri. Chi avrebbe potuto chiederne la sospensione da funzioni e stipendio era la Procura generale della Cassazione, dove a capo, fino al 2012 c’era lo zio Vitaliano. Ma non lo fece, e Ferdinando Esposito ha esercitato fino alla radiazione, avvenuta tre mesi fa. Il problema è che se una pratica arriva istruita male, il Csm non può che archiviare. Per questo dovrebbero esserci magistrati senza ombre. Ecco perché ha fatto scalpore che il Pg Mario Fresa dopo aver sferrato, durante il lockdown, un pugno alla moglie, non sia stato trasferito dal Csm lo scorso 19 maggio (9 voti pro, 8 contro, 8 astenuti). Lei ritira la querela e ritratta. Ai magistrati del Tar e Consiglio di Stato invece la legge Castelli non si applica. La Procura di Catania nel 2020 ha chiuso le indagini accusando il giudice del Tar Dauno Trebastoni di corruzione in atti giudiziari. Ma la richiesta di sospensione al Cpga, l’omologo del Csm, è stata respinta. Andrea Migliozzi, presidente Tar di Bologna, non viene sospeso, malgrado sia indagato, in quanto il suo nome compare nella condanna per sentenze pilotate del consigliere di Stato Nicola Russo, come presunto responsabile di concorso negli stessi reati. E infatti continua a fare il giudice amministrativo. Quando infine le sentenze disciplinari arrivano, e sono pubblicate, non si possono leggere. Gli omissis oscurano nomi e luoghi. Il giudice che sbaglia può nascondersi dietro una privacy negata ai comuni cittadini. Al magistrato sono richieste “imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio, e rispetto della dignità”. Ma spesso si chiude un occhio, come con Nicola Mazzamuto. Nel 2005 va in farmacia, e se la prende con due poliziotti che facevano portar via le auto in doppia fila, come la sua. Ne afferra uno per il collo procurandogli lesioni. Il Csm gli commina la censura, ma nel 2013 lo promuove presidente del Tribunale di sorveglianza di Messina. Comprensione anche per Federico Sergi, che ne 2009, ubriaco, ha un incidente e prende a calci e pugni due carabinieri. Lo arrestano (sarà assolto). Scatta la sospensione cautelare per 2 anni. Rientrato in Tribunale viene trovato dai colleghi in bagno sotto effetto di sostanze. Il Pg di Cassazione ne chiede la rimozione. Il Csm gli dà solo la sospensione perché ravvisa una “cesura” col passato. Ora è giudice a Potenza. Anche Luciano Padula, ex pm di Reggio Emilia, viene fermato alla guida della Bmw “in piena notte, barcollante, vestito da cavallerizzo”. Insulta i vigili e ne strattona una minacciandola. Due condanne per lesioni aggravate, poi prescritte in Cassazione. Ma la carriera non viene bloccata, e va a fare il giudice penale a Spoleto. Lo scorso anno (10 anni dopo i fatti) dal Csm arriva la sospensione per due anni. Persino la valutazione negativa viene assegnata con tormento, visto che chi ne riceve due viene espulso. Giulio Cesare Cipolletta, giudice di Pisa, squarcia le gomme dell’auto di una collega nel parcheggio del Tribunale. Condannato per danneggiamento e porto ingiustificato d’arma, nel 2009, se la cava con una censura. Tre anni dopo riperde le staffe, sempre con una signora. Per un alterco sul traffico le dice: “Maledetta”, e calciando lo sportello dell’auto da cui lei stava scendendo, la ferisce al ginocchio. La risarcisce con 3mila euro. Il Csm, nel 2017, lo censura di nuovo. Ma pochi mesi fa la valutazione per l’avanzamento di carriera è positiva “anche in ordine al prerequisito dell’equilibrio”. Francesco Mollace, ex pm di Reggio Calabria di valutazione negativa ne aveva già una. Imputato di corruzione in atti giudiziari per i rapporti con Luciano Lo Giudice, accusato di ‘ndrangheta, viene assolto per insufficienza di prove. Ma i giudici definiscono alcune sue scelte investigative “censurabili in altra sede”. Ovvero al Csm, dove arriva il fascicolo con la confessione del fratello, che si autoaccusa degli attentati ai magistrati di Reggio, e racconta l’amicizia tra i due. Viene trovato il numero di Mollace (mancante di una cifra), appuntato come “Don Ciccio”, in casa di Luciano che, intercettato, in carcere dice all’avvocato “mandagli un bacetto a don Ciccio”. Alla fine il “no” alla promozione passa, ma solo a maggioranza. C’è anche chi, come l’ex pm dei reati sessuali Davide Nalin, sotto inchiesta al Csm per un ruolo nello scandalo Bellomo (il consigliere di Stato destituito che imponeva la mini alle aspiranti magistrate) tenta il piano “B”: il concorso al Tar. Scritto superato, orali a luglio. Le colpe del sistema - C’è infine chi la passa liscia. Come la giudice del Tribunale Civile di Rovigo che ai suoi ospiti al party di compleanno aveva proposto come regalo una “lista di viaggio”: loro versavano denaro e lei sognava mari caldi. Peccato che fra gli invitati c’erano anche avvocati o periti: potenziali controparti in giudizio che avevano interesse a compiacerla. Pagando. Finisce sui giornali ma non al Csm. Le riforme, che il presidente Mattarella auspica rapide, partono anche da qui. Il Csm e i titolari dell’azione disciplinare non offrono sempre una risposta veloce ed adeguata, ed è un errore grave, perché contribuendo alla perdita di credibilità della magistratura aiutano chi “lavora” per ridurne l’autonomia e l’indipendenza. Oltre ad essere un danno per i tanti magistrati integerrimi e uno sfregio per quanti sono morti onorando la toga. La tragedia di Stresa e il cortocircuito tra stampa e procura di Giulia Merlo Il Domani, 31 maggio 2021 La fase preliminare delle indagini è sempre oggetto di grande attenzione da parte dei media. Nel caso di Stresa, però, il diritto di cronaca è spesso esondato in una morbosità che viola i principi deontologici. Preoccupa il cortocircuito che si è generato tra procura e stampa. In questi giorni la pm che sta indagando sul disastro della funivia ha rilasciato interviste a buona parte dei quotidiani nazionali. A indagini appena avviate e dunque senza prove circostanziate ancora in mano, è necessario e soprattutto auspicabile che il pm parli con la stampa? Per fortuna a difesa di tutti i cittadini opera il sistema delle garanzie processuali. In questo caso, un giudice terzo che supervisiona la fase delle indagini preliminari, verificando i presupposti e controllando l’operato del pm. I tre indagati della tragedia della funivia di Stresa-Mottarone sono stati scarcerati. Tutti erano stati fermati e portati in carcere nel cuore della notte di quattro giorni fa, ma la gip di Verbania Donatella Banci Buonamici non ha convalidato il fermo disposto dalla pm Olimpia Bossi. Il gestore dell’impianto Luigi Nerini e il direttore d’esercizio Enrico Perocchio sono liberi. Il caposervizio Gabriele Tardini, che ha ammesso di aver inserito il blocco ai freni della funivia, è ai domiciliari. Breve e inesaustivo quadro di come funziona questa fase processuale: siamo nel corso delle indagini preliminari, durante le quali il pubblico ministero è chiamato a indagare i fatti, formulare ipotesi di reato e individuare eventuali indagati. Il pm può disporre il fermo degli indagati, nel caso in cui esistano le condizioni previste dal codice di procedura penale: i gravi indizi di colpevolezza e le esigenze cautelari, che sono il pericolo di fuga, di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove. La misura, però, deve essere confermata dal giudice delle indagini preliminari, che valuta se sia proporzionata e sufficientemente motivata dal pm. Questa fase preliminare delle indagini è sempre quella oggetto di maggiore attenzione da parte dei media: si analizzano i dettagli, si cercano i colpevoli, si delimitano le circostanze. Spesso, i media invadono questo delicatissimo momento processuale, ma è il complesso equilibrio tra diritto di cronaca, diritto di difesa degli indagati, principio di segretezza delle indagini penali. Nel caso della tragedia di Stresa, però, questo diritto di cronaca è spesso esondato in una morbosità che viola i principi deontologici della nostra professione, che prevedono per esempio di non offrire elementi non utili al racconto della notizia che violino la privacy delle persone. Invece, su molti giornali sono state pubblicate le foto della villa del proprietario della funivia, esponendo i suoi familiari e chiunque lì vivesse a subire una violazione della loro dimensione privata. A far preoccupare di più, tuttavia, è il cortocircuito che si è generato tra procura e stampa. La gip, infatti, ha scarcerato i tre indagati sulla base di motivazioni precise: il fermo per i tre “è stato eseguito al di fuori dei casi previsti dalla legge”. Non esisterebbe il pericolo di fuga indicato dalla pm come presupposto dell’esigenza cautelare nemmeno “tenendo conto dell’eccezionale clamore anche a livello mediatico nazionale e internazionale”. “Suggestivo ma assolutamente non conferente è il richiamo al clamore mediatico”, ha scritto il gip nell’ordinanza, definendo “di totale irrilevanza” questo dettaglio. Questo che sembra un dettaglio, invece, è l’epicentro del problema. Il crollo della funivia è avvenuto il 23 maggio e nel corso della settimana da poco trascorsa la pm ha rilasciato interviste a buona parte dei quotidiani nazionali, oltre che molte dichiarazioni alle agenzie di stampa di cui sono stati riportati ampi stralci. Questo produce alcune domande. A indagini appena avviate e dunque necessariamente senza prove circostanziate ancora in mano, è davvero necessario e soprattutto auspicabile che il pm parli con la stampa? Soprattutto nel caso in cui la stessa pm motiva, tra le altre ragioni, la richiesta della misura cautelare maggiormente afflittiva - quella del carcere - con il “clamore mediatico”? Un clamore mediatico che lei stessa ha contribuito a generare con le sue dichiarazioni. Dettaglio amaro: in fondo ad alcuni articoli che tracciano il profilo della pm, come quello del Corriere della Sera del 27 maggio, si legge che Bossi “non ama il clamore della stampa, anche se in questi giorni non si è sottratta ai cronisti”, che hanno anche dato conto dei suoi due figli, del suo amore per i viaggi e del suo sogno di fare una “lunga crociera intorno al mondo”. Per fortuna a difesa di tutti i cittadini - soprattutto gli indagati che si trovano davanti all’autorità giudiziaria - opera il sistema delle garanzie processuali. In questo caso, un giudice terzo che supervisiona la fase delle indagini preliminari, verificando i presupposti e controllando l’operato del pm. Un sistema forse imperfetto, ma che va difeso dagli attacchi di chi vorrebbe sbilanciarne l’equilibrio, considerando le garanzie agli indagati un inutile orpello che allunga i tempi della giustizia. Soprattutto oggi che il processo non si svolge più solo nelle aule di giustizia, ma anche e spesso prima di tutto sulle pagine dei giornali. Giustizia mediatica. Le cautele da adottare se si limita la libertà di Carlo Nordio Il Messaggero, 31 maggio 2021 Cominciamo dai fatti. Dopo il disastro della funivia del Mottarone, la Procura della Repubblica di Verbania ha disposto il fermo, cioè la carcerazione, di tre indagati: l’amministratore unico Luigi Nerini, il direttore di esercizio Enrico Perocchio e il responsabile del servizio Gabriele Tadini. Era un provvedimento assai ardito, perché l’arresto di una persona può avvenire solo quando è colta in flagranza di reato oppure quando vi è la probabilità che reiteri il delitto, o inquini le prove o predisponga la fuga. Ma in questi tre casi la custodia cautelare deve essere disposta dal Giudice delle indagini preliminari: soltanto eccezionalmente, se proprio l’indagato ha le valigie in mano, il fermo può essere disposto dal Pubblico Ministero, che però deve chiederne subito la convalida al Gip. Nel caso in questione, il Gip ha dichiarato illegittimo il fermo, ha mandato Tadini agli arresti domiciliari e ha disposto la liberazione degli altri due indagati, perché nei loro confronti non c’erano né indizi di colpevolezza né tantomeno sospetti di fuga. Nella lunga motivazione, il Gip critica in modo severo l’iniziativa del Pm, che aveva spedito tutti in galera “anche in considerazione dell’eccezionale clamore mediatico suscitato dalla vicenda”. Una circostanza che il Giudice considera “irrilevante e inconferente”. E ora il commento. Giuridicamente parlando, la decisione del Gip è ineccepibile. Piuttosto è da domandarsi come un Procuratore della Repubblica abbia potuto esprimersi con espressioni così eccentriche, del tutto estranee alla lettera del codice. E qui le questioni sono molte, ed è bene che siano emerse in un procedimento di “eccezionale clamore mediatico” perché fanno emergere alcuni dei tanti difetti del nostro sistema penale. Primo. Il Pm di Verbania ha messo inavvedutamente per iscritto quello che i suoi colleghi fanno assai spesso senza dirlo: incarcerare gli indagati non perché stiano scappando o inquinando le prove, ma per placare l’allarme sociale. Ci sono cioè dei delitti che suscitano una tale reazione emotiva da stimolare il superamento della legge formale. Si pensi al caso di un uxoricidio dovuto a un impeto di gelosia: il (la) colpevole si costituisce e confessa. In teoria non potrebbe essere arrestato, perché non può reiterare il reato - avendo ammazzato l’unico coniuge - né inquinare le prove (perché ha confessato) né tantomeno scappare, perché si è, appunto, costituito. Ma potrebbe la società sopportare la liberazione immediata di una persona che ha strangolato la moglie, o sparato al marito? Evidentemente no. E allora si ricorre a un surrogato di motivazione, e si inventa qualcosa. Nel caso di Verbania, il Pm ha assecondato l’ira funesta del popolo che chiedeva la consueta libbra di carne di un colpevole purchessia. Fortuna ha voluto che trovasse, come si dice, un giudice a Berlino. Ma oltre a Berlino c’è anche Mosca, o Il Cairo. Secondo. Se il Pm ha commesso un grave errore, molti dei mass media ne sono stati gli ispiratori. Quando, nell’immediatezza del fatto, scrivemmo su queste pagine che la tragedia poteva anche imputarsi all’affrettata riapertura di impianti paralizzati dalla parentesi del Covid, avevamo messo in conto anche quella che si chiama “colpa con previsione”: cioè la violazione di norme anti-infortunistiche per recuperare introiti perduti. Ma proprio perché la responsabilità penale è cosa seria, avremmo auspicato maggiore prudenza nell’individuare le cause del disastro e le relative responsabilità. E invece si è subito scatenata una caccia crudele, nella peggior tradizione di voler trovare, subito e ad ogni costo, un capro espiatorio. Ancora una volta la presunzione di innocenza ha ceduto all’emotività popolare, e mentre persino Di Maio recita un salmo penitenziale per il suo regresso giacobinismo, questo vizio della condanna a mezzo stampa ritorna sotto altre sembianze. Terzo e ultimo. Anche un solo giorno di galera ingiustificata è un trauma indelebile che condiziona la vita, la salute e l’onore. Se il Pm di Verbania ne ha fatto un uso improprio, è stato perché la legge glielo consentiva. E poco importa se un Gip entro poche ore, o il tribunale del riesame entro pochi giorni, o la Cassazione entro alcuni mesi vi pongono riparo. Il danno è fatto, ed è irrimediabile. Ebbene non è possibile, non deve essere possibile che - salvo i casi di flagranza - questo nostro bene primario possa essere affidato alla discrezionalità di un singolo magistrato. La carcerazione preventiva deve essere l’eccezione dell’eccezione, e come tale deve essere affidata a un organo collegiale, meglio se distante anche topograficamente dall’Ufficio che la richiede. Ad esempio una sezione presso la Corte d’Appello, composta da tre giudici esperti. Una modesta proposta per la ministra Cartabia, che purtroppo sta cercando di curare il cancro del nostro sistema fallito con modeste cure palliative. Gli inquirenti non possono fare il processo da soli in mondovisione di Osservatorio Ucpi sull’informazione giudiziaria Il Dubbio, 31 maggio 2021 L’Ucpi: la tragedia di Mottarone diventa un altro caso emblematico di come le distorsioni del processo mediatico nuocciano all’accertamento della verità, alla giustizia, ai cittadini e alle stesse vittime. Quella di Mottarone è una catastrofe immane. Nessuno può accettare che si possa morire così, non è giusto, non dà pace. È giusto iniziare immediatamente la ricerca di un nesso causale e del responsabile e quando si muove la macchina della giustizia si ha la pretesa di seguirne i passi e anticiparne i tempi, per l’esigenza di placare angoscia, rabbia, dolore, paure. Come si fa a mettere in discussione il diritto dei cittadini di essere informati su una tragedia come questa? Mentre la domanda più diffusa su Google era: “come funzionano le funivie?” gli inquirenti, in sole 48 ore, hanno affermato pubblicamente di aver individuato e fermato i primi (ma non gli unici) responsabili della tragedia. Non solo: diffondono le loro dichiarazioni che portano a proclami di responsabilità in quanto “la cabina era a rischio. E lo sapevano”. Articoli di testate locali online vengono postati su Facebook con tanto di commento: “La svolta”: 8,8 mila visualizzazioni e 4568 condivisioni in poche ore. C’è modo e modo di dare le notizie. Ma soprattutto ci sono circostanze che non devono essere diffuse, pena la commissione di un illecito penale. Gli inquirenti non possono fare il processo da soli, in mondovisione, per direttissima, con le indagini ancora in corso. Non si possono pubblicare gli esiti degli interrogatori degli indagati. Non ha senso ed è nocivo per l’accertamento della verità declamare i prossimi programmi investigativi, esprimere giudizi sulle condotte degli indagati, anticipare le ipotesi di reato contestabili e le richieste cautelari addirittura prima di celebrarne gli interrogatori, soprattutto quando la ricerca principale è quella di una prova scientifica, in mano a tecnici veri, chiamati a dare un contributo essenziale in Tribunale e non al bar. Eppure, accade lo stesso a dispetto di direttive europee, circolari del Consiglio superiore della magistratura, codici deontologici, in un clima di odio diffuso alla velocità della luce che richiede risposte punitive immediate condite da tempestive reazioni. Ed è così che se il Pubblico ministero riversa il materiale istruttorio nel fascicolo de Il Corriere della Sera e de “La Stampa” e decide di disporre il fermo dei primi indagati per chiederne la misura cautelare quando i presupposti per l’adozione di tali misure sono insussistenti agli occhi di qualsiasi studente di giurisprudenza, nessuno si adombra ed anzi scatta con ancora più violenza il linciaggio morale collegato alla pretesa “logica del profitto”. Gli inquirenti annunciano infatti alla stampa anche l’odioso movente senza operare alcun raffronto tra le dichiarazioni dei vari soggetti provvisoriamente coinvolti: “è stato subito evidente, chiaro, categorico che vi sia stata colpa dell’uomo a causa della sua avidità”. “Le tre persone arrestate nella notte per il disastro alla funivia del Mottarone, infatti, hanno ammesso le responsabilità loro contestate”, come ha spiegato il comandante provinciale dei Carabinieri di Verbania, tenente colonnello Alberto Cicognani. “Il freno non è stato attivato volontariamente? Sì, sì, lo hanno ammesso”. “C’erano malfunzionamenti nella funivia, - ha spiegato l’ufficiale - è stata chiamata la manutenzione, che non ha risolto il problema, o lo ha risolto solo in parte. Per evitare ulteriori interruzioni del servizio, hanno scelto di lasciare la “forchetta”, che impedisce al freno d’emergenza di entrare in funzione”. Lo show continua: il titolare delle indagini viene presentato dalla stampa come un eroe infallibile che, indomito, si batte per ottenere giustizia e si ripercorrono i passi salienti della sua carriera. Gli indagati sono tutti consapevoli e quindi colpevoli, criminali, mostri, avidi, con buona pace dei principi che informano il nostro sistema penale, ma anche i codici deontologici di ogni soggetto protagonista delle numerose e continue esternazioni e pubblicazioni. E finisce che il “clamore mediatico” assurge a presupposto per la privazione della libertà personale. Strano paese l’Italia. Un paese in cui il recente recepimento di una direttiva europea - quella in tema di presunzione d’innocenza - viene salutata urbi et orbi come un ulteriore, importante, puntello nell’architettura di fondamentali principi di civiltà giuridica, per essere un attimo dopo messa da parte come un fastidioso orpello. Alla prima prova sul campo abbiamo assistito nuovamente - e se possibile con forza ancora maggiore - al solito canovaccio: la telecronaca - minuto per minuto - dello sviluppo delle indagini con rivelazione di segreti istruttori, in un clima di progressiva ingravescenza delle “contestazioni”, il linciaggio mediatico e la folla plaudente per l’individuazione dei responsabili, da mettere subito in galera. Invece no! Oggi due dei tre indagati sono stati scarcerati dal giudice per le indagini preliminari. Ed infatti si apprende che non è vero che tutti e tre gli indagati abbiano ammesso le proprie responsabilità e che, anzi, agli atti vi sono elementi di tutt’altro segno. Ecco che la tragedia di Mottarone, da occasione per correggere il tiro, diventa un altro caso emblematico di come le distorsioni del processo mediatico nuocciano all’accertamento della verità, alla giustizia, ai cittadini e alle stesse vittime. Vediamo per una volta di far sì che quel soggetto terzo di cui tutti si sono dimenticati, il giudice, non diventi per l’opinione pubblica un “morbido lassista del cazzo”, come si legge in qualche post su Facebook che meriterebbe anch’esso un’iniziativa onde far comprendere a certe persone che c’è un limite a tutto. Il processo mediatico non è e non deve prevalere sul processo vero. Qualcuno deve destarsi e prendere provvedimenti perché domani, potrebbe capitare a chiunque di noi di finire nel tritacarne. Noi, naturalmente, speriamo mai. Perché per lui, come per chiunque altro, sarebbe troppo tardi per invocare garanzie e principi di salvaguardia. Non gli resterebbe che affidarsi al televoto. Con questi auspici l’Osservatorio Informazione Giudiziaria, ancora una volta, censura le modalità di diffusione e di comunicazione di notizie espressione di un’ottica inquisitoria ormai superata da anni ed auspica che -in ossequio alle direttive europee- il Parlamento possa finalmente intervenire per fissare una volta per tutte delle regole a tutela delle indagini oltre che di coloro che vi sono sottoposti. Garantisti, unitevi! La ricetta Nordio per riformare la Giustizia di Francesco Bechis formiche.net, 31 maggio 2021 Ben vengano le conversioni garantiste della politica, ma è sulla riforma della Giustizia che si passa dalle parole ai fatti. Prescrizione Bonafede, reati contro la Pa, processo civile e penale, Csm. Ora mettiamoci all’opera, sul serio. Parla l’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio. Carlo Nordio è come San Tommaso, vedere per credere. L’ex procuratore aggiunto di Venezia si rallegra della svolta garantista annunciata dal volto di punta del Movimento Cinque Stelle, Luigi Di Maio. Ora, dice a Formiche.net, è il momento della prova del nove. Conversione un po’ tardiva? Meglio tardi che mai. Mi sembra sia una conversione sincera, che sia anche operosa. Ora bisogna passare ai fatti. Come? Aderendo al nuovo referendum sulla separazione delle carriere. Riformando la giustizia. Enunciando un proclama contro l’uso dell’informazione di garanzia e dell’esercizio dell’azione penale per estromettere una persona dalla vita politica. Poi la ciliegina sulla torta. Sarebbe? Una radicale riforma delle intercettazioni. Perché hanno devastato la dignità personale e la carriera politica di centinaia di persone che con le indagini non avevano nulla a che fare. Il caso Guidi dovrebbe aver insegnato qualcosa. Sulla riforma della giustizia è al lavoro la ministra Marta Cartabia. Che idea si è fatto del rapporto della commissione Lattanzi? La riforma della Cartabia deve avere come oggetto primario il processo civile. Da questo dipendono i fondi europei, è una priorità assoluta. E il processo penale? Mi accontenterei di una riforma minima che abolisce il reato d’abuso d’ufficio e il traffico di influenze. Cioè i due reati che più impattano sulla Pubblica amministrazione, ne rallentano l’attività, compromettono l’economia. Pensa al caso di Chiara Appendino? Ce ne sono tanti. Appendino è vittima di un sistema avallato dal suo partito. I Cinque Stelle sono i primi a voler mantenere in piedi un modello repressivo e anche evanescente, perché, a parte la corruzione e la concussione, i reati contro la Pa come l’abuso d’ufficio consentono di incriminare chiunque. Non hanno nessun effetto pratico, né deterrente. E rendono meno appetibile il ruolo. Sarà per questo che si fatica a trovare candidati per le prossime amministrative? Temo che lì intervengano altre dinamiche (ride, ndr). Di certo questi reati, così disegnati, danno vita a un’amministrazione difensiva. Infatti i sindaci non firmano più nulla. Non toccherebbe altro del processo penale? La verità è che gli interventi settoriali non servono a nulla. Il sistema penale è fallito, il codice di procedura penale è ancora quello di Vassalli, tutta la parte generale del codice penale risale al 1930 e porta la firma di Mussolini. Queste riformine sono solo pillole palliative, è come curare il cancro con l’aspirina. Nel rapporto Lattanzi viene rilanciata una vecchia proposta delle Camere Penali: deve essere il Parlamento a dare ogni anno agli uffici inquirenti l’indirizzo delle priorità d’indagine. È d’accordo? Sono perfettamente d’accordo. Oggi l’azione penale non è né obbligatoria né discrezionale, è semplicemente arbitraria. Ogni Pm indaga quando e come vuole, spesso inventandosi le indagini. Quindi? Quindi o togli l’obbligatorietà dell’azione penale, ma per farlo devi prima cambiare la Costituzione, oppure inserisci dei criteri di discrezionalità vincolata o di precedenza della trattazione. Solo un organo politico come il Parlamento può assumersi questa responsabilità. Vent’anni fa la bicamerale D’Alema fece una proposta non molto diversa... Certo, faceva parte della bozza Boato. La magistratura ha posto il veto. La politica, con il solito cuor di leone, si è chinata di fronte alle toghe, perché ne aveva paura. E ne ha ancora molta. Sulla scia della riforma di Gaetano Pecorella, il testo della commissione Lattanzi rafforza il divieto del ricorso in appello del pm ma limita anche il diritto di impugnazione da parte dell’imputato... Il diritto di impugnazione per l’imputato è sacro, tant’è che esiste in tutti i Paesi civili. È altresì assurdo dare la possibilità al Pm di impugnare una sentenza di assoluzione, a meno che non intervengano nuove prove di colpevolezza, ma in quel caso si deve rifare il dibattimento. E poi c’è un principio costituzionale a garanzia: la condanna viene erogata solo al di là di ogni ragionevole dubbio. Nordio, non ci staremo dimenticando la prescrizione? Ci sono le condizioni politiche per cambiare il modello Bonafede? Una certa discontinuità è necessaria, altrimenti la coalizione di governo esplode. Temo che non sarà radicale, una crisi di governo sulla giustizia ora non è politicamente tollerabile. Sarà una discontinuità edulcorata. Chiudiamo sul Csm. Da dove si parte per riformarlo? Serve un intervento radicale. Da vent’anni sostengo l’idea del sorteggio. All’epoca ero un eretico isolato, ora di fronte agli ultimi scandali in tanti, anche fra i giuristi di sinistra, si sono accodati. Hanno capito che non c’è altro rimedio: la magistratura non si può autoriformare attraverso le correnti. Chi dovrebbe essere sorteggiato? Io immagino un canestro fatto di persone competenti. Composto da magistrati di Cassazione, docenti universitari di materie giuridiche, presidenti dei Consigli forensi e delle Camere penali, avvocati. Ma la Costituzione prevede l’elezione del Csm... Per evitare di metterci mano si può prevedere un’elezione ex post, fra i sorteggiati. In qualche modo si deve arginare il potere delle correnti. Spero che i fatti recenti abbiano convinto anche gli ultimi scettici. Alla Scuola Sant’Anna di Pisa si allena l’algoritmo che prevede le sentenze di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2021 Si chiama “giustizia predittiva” ma con i giudici-robot e le decisioni automatizzate che il nome sembra evocare non ha (per ora) nulla a che vedere. Piuttosto l’obiettivo, a cui stanno lavorando più menti, con collaborazioni tra uffici giudiziari e Università, è quello di usare l’intelligenza artificiale per aiutare la giustizia, creando una banca dati della giurisprudenza aperta non solo ai tecnici ma anche ai cittadini, che potrebbero consultarla per valutare le chance di successo e i tempi di un contenzioso. Un progetto - con ricadute in termini di accelerazione dei processi, riduzione delle liti e impulso a soluzioni concordate - a cui la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa prova ora a far fare un passo (scientifico e tecnologico) in avanti. “Stiamo annotando semanticamente una serie di decisioni negli ambiti del danno alla persona e dell’assegno di separazione e divorzio”, spiega Giovanni Comandé, docente di diritto privato comparato e responsabile scientifico del Lider-Lab, laboratorio interdisciplinare diritti e regola del Sant’Anna, che dal 2019 lavora al progetto con il Tribunale di Genova e ora anche con quello di Pisa. “Lo scopo è allenare un algoritmo ad annotare in modo automatico le decisioni in quelle materie, per poi estendere la tecnologia ad altri ambiti”. Ma cos’è l’annotazione semantica? Si tratta di individuare delle espressioni-chiave (non singole parole ma frasi o formule), che permettano di “etichettare” una pronuncia, di modo che il sistema possa distinguere, ad esempio, un decreto ingiuntivo per l’affitto non pagato da un altro per gli alimenti non versati. “Entro fine anno - prosegue Comandé - intendiamo validare la tecnologia dell’algoritmo per l’annotazione semantica automatica. L’obiettivo è costruire una base dati semanticamente annotata, ricercabile con linguaggio naturale, consultabile da tutti”. Una piattaforma che è la materia prima per poi elaborare gli algoritmi predittivi. Ma già di per sé può avere applicazioni pratiche significative: “Intanto - osserva Comandé - facilitala gestione dei flussi del contenzioso e l’assegnazione di un caso a una sezione del tribunale o all’altra. E poi dalle pronunce, che fotografano i problemi della vita reale, possono emergere indicazioni peri decisori”. Nella stessa direzione va il progetto portato avanti a Brescia da Corte d’appello, Tribunale e Università sotto la regia del Presidente della Corte d’appello, Claudio Castelli, da sempre sensibile ai terni che incrociano diritto e tecnologia. Sul sito dell’Università di Brescia è online da novembre una piattaforma che raccoglie in due categorie, economia e lavoro, poi articolate in titoli e sottotitoli, le sentenze più significative degli uffici giudiziari di Brescia. Online ci sono gli abstract delle pronunce: non solo le massime per giuristi, ma anche elementi del caso concreto, che rendono il messaggio comprensibile a tutti. Ma si tratta “di un’esperienza artigianale - ragiona Castelli - e con un numero limitato di pronunce. La base dati va creata a livello centrale con la banca dati nazionale di tutte le sentenze, a cui tutti devono poter accedere. E sarebbe necessario creare un laboratorio sulle applicazioni dell’intelligenza artificiale alla giustizia mettendo in rete le diverse esperienze”. Napoli: Detenuto suicida a Poggioreale. “Mai più tossicodipendenti in carcere” di Vito Califano Il Riformista, 31 maggio 2021 Quello del detenuto 25enne che si è tolto la vita nel carcere di Poggioreale, a Napoli, è il terzo caso dall’inizio del 2021 nelle carceri della Regione Campania. Luca E. era originario Pollena Trocchia, provincia di Napoli. A Poggioreale era arrivato lo scorso 7 marzo. Era passato per i reparti Firenze e Roma, quest’ultimo dedicato ai tossicodipendenti, prima di arrivare il 19 al padiglione Salerno. Poggioreale ospita (dati di fine 2020) 1.991 reclusi, 286 stranieri, a fronte di 1.571 posti disponibili. È considerato il carcere più sovraffollato, in termini assoluti, d’Europa. In tutti gli Istituti della Campania sono ristrette 6.403 persone a fronte di una capienza di 6.052, con un tasso che oscilla tra il 119 e il 120%. Nel 2020 le persone che si erano tolte la vita nelle carceri campane erano state otto, due a Poggioreale e uno a Secondigliano. I detenuti che invece hanno tentato il suicidio sono stati invece 47, delle quali 33 a Poggioreale. “Lacerati dall’angoscia e dal senso di colpa, siamo entrati in mattinata nel padiglione Salerno del carcere di Poggioreale, dove Luca E. 25 anni si è suicidato. Era arrivato a marzo a Poggioreale. Era accusato di maltrattamenti in famiglia e lesioni. Domenica scorsa era andato anche a messa ed aveva parlato con un cappellano. Il dolore, come la morte, sono la grande scuola della vita. Lo capiscono anche i politici che pensano al carcere solo come luogo di custodia?”, questa la nota diffusa da Samuele Ciambriello, Garante campano dei detenuti, e Pietro Ioia, Garante dei detenuti di Napoli. “Quando arrivano le denunce per maltrattamenti occorre subito non trascurare che questi atteggiamenti, come nel caso di Luca, possono essere procurati da disturbi psichici e dalla tossicodipendenza. L’accertamento immediato sulla capacità di intendere e volere è prioritario per evitare il carcere, ma qualora si arrivasse a questa estrema ratio occorre fare di più. Ci vogliono più figure sociali nel carcere per ascoltare, capire, amare, liberare”. Il Garante campano Ciambriello ricorda inoltre che: “Dall’inizio dell’anno siamo già a tre suicidi nelle carceri campane (a santa Maria Capua Vetere, Avellino e Poggioreale), più un adolescente in una comunità residenziale in provincia di Caserta. I suicidi in Italia dall’inizio dell’anno sono già 22. Parliamo di uomini che in carcere dovevano ricevere una prestazione rieducativa. Tutti dobbiamo lavorare per far crescere più fili d’erba tra i sassi delle carceri”. Bologna. Il Garante: “Deterioramento condizioni del reparto giudiziario, servono attività” dire.it, 31 maggio 2021 Nel carcere bolognese della Dozza “c’è una percezione di complessivo deterioramento delle condizioni al secondo piano del reparto giudiziario”, già focolaio della rivolta dello scorso anno e teatro, nelle ultime settimane, di vari episodi di violenza, culminati nella violenza sessuale denunciata da un giovane detenuto poco meno di due settimane fa. A dirlo, intervenendo in una seduta di commissione in Comune, è il Garante comunale dei detenuti, Antonio Ianniello. Per quanto riguarda i fatti di violenza più recenti, in primis la violenza sessuale dello scorso 14 maggio, Ianniello spiega che “la mattina dopo mi sono recato a colloquio con il detenuto, e la sera stessa ho inviato una nota a tutte le autorità e le istituzioni competenti, anche riguardo ad altri episodi che si sono verificati recentemente al secondo piano del reparto giudiziario”. Sempre lì, ricorda infatti il Garante, nelle scorse settimane “un detenuto ha subito un pestaggio da parte di altri detenuti ed è finito in ospedale”, e non mancano i casi di distillazione in cella di alcolici, il cui abuso “porta ad atteggiamenti aggressivi o auto-aggressivi”. Infine, spiega Ianniello, “risultano domande di colloquio pendenti da parte di detenuti di quel piano, che chiedono di incontrarmi, e sarà mia premura dare un riscontro al più presto, anche per capire meglio che clima si respira in quell’ambiente”. Per far sì che la situazione migliori, il Garante è convinto che serva “un consolidamento del regime delle “celle aperte” e della sorveglianza dinamica”, regime a cui, invece, vengono spesso imputati “in maniera potenzialmente molto fuorviante, gli episodi critici”. Tuttavia, riconosce Ianniello, per far funzionare al meglio questo sistema occorrerebbero “ampliamenti dell’offerta trattamentale e il miglioramento delle condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari, attraverso investimenti in strumentazioni tecnologiche”, mentre “per varie ragioni questo processo non ha ancora raggiunto la sua pienezza, anche a Bologna”. Ad esempio, dettaglia il Garante, “a causa del sovraffollamento manca un’adeguata offerta trattamentale, gli spazi detentivi sono inadeguati, e ci sono carenze di organico, specialmente tra gli educatori”. Come se non bastasse, non ci sono nemmeno stati “i necessari investimenti nei sistemi di videosorveglianza, che potrebbero agevolare il lavoro degli operatori penitenziari”, e sarebbe auspicabile “anche un’intensificazione delle visite in istituto da parte dei magistrati di Sorveglianza, che però soffrono a loro volta di carenze di organico”. Infine, Ianniello ritiene “necessaria un’intensificazione degli interventi multidisciplinari, in particolare nei confronti dei detenuti che manifestano più accentuate problematiche personali”: in particolare, conclude, sarebbe opportuno “attivare incontri sull’uso responsabile delle sostanze alcoliche”. Taranto. Progetto Fuori dall’orto, dal carcere le insalate per Banco Alimentare laringhiera.net, 31 maggio 2021 Giunge a conclusione il progetto “Fuori dall’orto”, promosso all’associazione “Noi e Voi” onlus insieme all’Amministrazione penitenziaria di Taranto. Il percorso, iniziato nell’estate del 2019, ha coinvolto 15 detenuti del carcere Magli in misura alternativa che, per l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, hanno potuto svolgere attività formativa all’esterno della struttura. E così un primo cancello lo hanno varcato, andando a piantare cipolla, insalata, finocchi, sedano, nel terreno che circonda il carcere. Il raccolto poi lo hanno donato al Banco Alimentare, per aiutare chi non ce la fa. Una storia di successo, nonostante le complicazioni logistiche causate dal Covid19. “Si è trattato di un corso teorico-pratico su come si realizza un orto - spiega il presidente dell’associazione Noi e Voi Onlus, don Francesco Mitidieri - dalle tecniche di impianto ai sistemi di irrigazione, le stagioni, i tempi di semina e di coltura. Nella parte teorica, che ha coinvolto 4 docenti, sono stati fatti anche piccoli esperimenti nei vasi. Poi quanto imparato è stato riportato alla pratica, proprio sul terreno messo a disposizione dalla direzione penitenziaria. Nonostante la pandemia, siamo riusciti ad arrivare alla fine e siamo contenti che pur essendo stato pensato per una decina di persone, il progetto in realtà sia riuscito ad appassionarne 15, andandosi ad integrare con altre attività, portate avanti già autonomamente dall’istituto penitenziario”. “Fuori dall’orto” rientra nel bando “Puglia capitale sociale 2.0” e ha coinvolto professionisti del settore, come Marcella Candelli, dottore agronomo, uno dei 4 docenti. Un progetto con una finalità anche solidale: donare il raccolto a chi ne ha bisogno. “Da tempo abbiamo iniziato una collaborazione con la casa circondariale di Taranto - spiega Luigi Riso, responsabile regionale del Banco Alimentare - perché a tanti venga data la possibilità di reintegrarsi all’interno della società”. Il progetto porta a casa altri due importanti risultati: la possibilità per uno dei partecipanti di ottenere una borsa lavoro finanziata dall’Uepe (Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna, ndr) per lavorare in agricoltura nella cooperativa omonima “Noi e Voi” e l’acquisto di attrezzature per proseguire l’attività dell’orto, oltre i tempi dettati dal finanziamento regionale. “Abbiamo acquistato pompe che portano l’acqua - ha spiegato don Francesco Mitidieri - ripristinato l’impianto di irrigazione, un lavoro svolto dagli stessi corsisti sulla base delle conoscenze acquisite, comprato macchinari e tutto il necessario per proseguire e ringraziamo vivamente la direttrice della casa circondariale di Taranto, Stefania Baldassari, per aver creduto in noi e aver sposato con entusiasmo il progetto”. Cagliari. Teatro, al via laboratorio gratuito destinato ad ex detenuti di Giampaolo Cirronis sardegnaierioggidomani.com, 31 maggio 2021 La compagnia Cada Die Teatro apre le porte del Centro d’Arte e Cultura la Vetreria di Pirri a ex detenuti che hanno da poco scontato la pena e che desiderano, anche attraverso il teatro, riprendere in mano i fili della loro vita sociale. Parte martedì 1 giugno il nuovo laboratorio gratuito ideato e diretto dagli attori e registi Alessandro Mascia e Pierpaolo Piludu che parallelamente alle esperienze artistiche vissute dentro le carceri (anche in questo anno di pandemia), hanno deciso di fare un passo ulteriore partendo da una semplice domanda “che ne sarà di loro finito il percorso detentivo?”. Si cercherà di favorire l’acquisizione di tecniche e competenze teatrali in un contesto protetto dove tutti potranno mettersi in gioco e dove verranno incentivati la collaborazione e l’ascolto reciproco. Compagni di viaggio irrinunciabili per la realizzazione del progetto sono i docenti del Cpia 1 Karalis (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti di Cagliari), grazie ai quali sono coinvolti studenti e giovani e adulti che hanno avuto esperienze carcerarie, di affidamento, o che abbiano vissuto o vivano situazioni di particolare disagio. Sarà fatta una selezione tra le domande dei partecipanti per un massimo di sette allievi. Se in questa prima fase gli incontri si svolgeranno a Pirri, da settembre ci si sposterà all’interno di un edificio scolastico dove opera il Cpia e si concluderà a dicembre con un saggio finale. Il laboratorio sarà incentrato su un testo inedito della scrittrice sarda d’origine, danese d’adozione, Maria Giacobbe che suggella una volta di più la collaborazione con i Cada Die. Ci si concentrerà sulla realtà della Sardegna degli anni 60 e 70 quando, attraverso il Piano di Rinascita, venne finanziata l’industrializzazione dell’Isola e nacquero poli chimici e petrolchimici a Ottana, Porto Torres, Sarroch. In tanti si illusero che quei grandi investimenti sarebbe stati un’opportunità di crescita e di riscatto; altri, già da allora, temevano che un’improvvisa trasformazione della millenaria economia agropastorale in economia incentrata sul petrolio e i suoi derivati avrebbe avuto effetti devastanti sul territorio, sulla salute, sull’identità di un intero popolo. Firenze. Il carcere di Orkestra Ristretta, quelle canzoni la nostra libertà di Fulvio Paloscia La Repubblica, 31 maggio 2021 Massimo Altomare è musicista scafatissimo. Ma che, come un bambino, non finisce mai di entusiasmarsi. Il progetto Orkestra Ristretta, ensemble nato dai suoi laboratori musicali nel carcere di Sollicciano, è la luce emanata da quella inossidabile capacità di meraviglia; è entusiasmante, festosa energia nonostante le radici siano in un luogo di sofferenza e di espiazione, un’esplosione gioiosa di ritmo, di entusiasmo collettivo che fa da ricarica per chi ascolta, figuriamoci per chi vive nella libertà e si trova a fare arte con chi la libertà l’ha persa. Lo spiega chiaramente il nuovo album dell’Orkestra, realizzato in collaborazione con Tempo Reale: nelle dieci canzoni di In/Out (MP Records) i detenuti hanno rovesciato senza dubbi e remore l’orgoglio identitario, lo sguardo positivo verso il futuro (nonostante tutto), il desiderio di raccontarsi nel bene e nel male, con sincerità. Elementi che per un musicista sensibile come Altomare non possono essere che scintille creative benefiche. Sebbene nelle tracce circolino riverberi diversi che vanno dal rock più tradizionale al reggae, dal rap alle più differenti radici etniche (cuore pulsante è la cover di Ring of fire, classico del country già cavallo di battaglia di Johnny Cash, che fece della propria detenzione una svolta artistica), l’album ha un’omogeneità sonora farina del sacco di Altomare, che si è lasciato permeare e allo stesso tempo ha saputo dominare l’eccezionalità del materiale umano a disposizione. Chi suona con i detenuti e ascolta ciò che hanno da dire è, dice Altomare, «investito da una scossa elettrica impressionante, che ti tramortisce se non sei preparato». Lui questa preparazione la ha, ma anche l’umanità per canalizzare tanto carico emotivo in un suono che valica i tempi e gli spazi, che attraversa le ere e le terre per diventare assoluto, rappresentativo di un’idea atemporale di fare musica, immutabile nonostante cambi il mondo. Ovvero suonare per assoluta necessità, per urgenza espressiva; suonare come percorso di libertà creativa e civile. Non a caso libertà è la prima parola a risuonare in un album dove l’in e l’out, il fuori e il dentro si sono stretti la mano, hanno solidarizzato con il coinvolgimento di musicisti quali Andrea Gozzi, Lorenzo Lapiccirella, Michele Lombardi, Federico Pacini (Bandabardò), Stefano Rapicavoli (Zumtrio), il compositore Francesco Giomi (Zumtrio, direttore di Tempo Reale) e il coro CONfusion, formato da immigrati, rifugiati e cittadini italiani. Ne sono emerse canzoni contagiosissime nel loro vigore, ognuna contenente in sé il germoglio del “classico”: «La musica di Orkestra Ristretta - dice Altomare - è materica, fatta di carne e sangue, di sudore e lacrime, rabbia e amore disperato, voglia profonda di condividere e timore di essere incompresi o derisi. Caratterizzano i nostri pezzi, l’energia e l’urgenza di comunicare le emozioni compresse in un mondo chiuso da sbarre. In sostanza, si tratta di cantare e suonare per essere finalmente ascoltati con rispetto: non soltanto musicisti che hanno qualcosa da dire, ma esseri umani in grado di crearsi un nuovo destino». Quindi, artisti veri. Nell’ansia di ripartire non dimentichiamo la “lezione” del Covid: la vita prima del profitto di Giorgia Serughetti* Il Domani, 31 maggio 2021 La pandemia sembra già un ricordo. Basta una passeggiata nel centro di Roma o di Milano, in questi giorni di tarda primavera, per tastare l’intensità del desiderio di socialità, movimento, consumo. La frenesia da tempi nuovi, però, suscita allarme per la tenuta non solo economica e sociale, ma anche morale, di un paese sfinito. Lo raccontano tragedia di Stresa e l’aumento di morti sul lavoro. Accanto alla cautela cui invitano gli esperti sanitari, servirebbe la capacità di mantenere viva la “lezione” del Covid-19, con il sovvertimento che ha provocato nel rapporto tra difesa della vita e difesa del profitto. Con tre regioni che passano in “zona bianca” e le partenze per il ponte del 2 giugno, si comincia anche in Italia a parlare di ritorno alla “normalità”. Con la campagna vaccinale che procede a pieno ritmo, la scarsità di dosi, farmaci, dispositivi di protezione, respiratori, sembra già un ricordo. Basta una passeggiata nel centro di Roma o di Milano, in questi giorni di tarda primavera, per tastare l’intensità del desiderio di socialità, movimento, consumo. La frenesia da tempi nuovi, però, suscita anche allarme per la tenuta non solo economica e sociale, ma anche morale, di un paese sfinito. La tragedia di Stresa e l’aumento di morti sul lavoro nel 2021 raccontano il danno che può provocare la ricerca del profitto, nell’assenza di controlli di sicurezza. Non siamo usciti “migliori”, a quanto pare, dalla pandemia. Ne siamo usciti peggiori? Un anno fa, nello shock della prima ondata del virus, filosofi e intellettuali dipingevano scenari di mutamento radicale. Giorgio Agamben preconizzava l’avanzata di un nuovo totalitarismo, teso a ridurre gli esseri umani a corpi senza volto. Naomi Klein metteva in guardia contro l’avanzata del “capitalismo dei disastri”. Slavoj Žižek vedeva emergere dalla pandemia l’urgenza di una nuova organizzazione globale in grado di controllare e regolare l’economia, pena altrimenti la morte di massa: “comunismo o barbarie”. Cosa ne è oggi di queste visioni? Ognuna, si può dire, ha avuto in parte ragione ed è stata in parte smentita. Le garanzie costituzionali delle libertà fondamentali escono intatte dalla pandemia, ma esce anche aumentato il livello di sorveglianza digitale sulle nostre vite. Il Covid-19 ha arricchito i colossi della Silicon Valley e dell’industria farmaceutica, mentre ha causato la perdita di decine di milioni di posti di lavoro. Ma ha anche indotto, negli Stati Uniti, in Europa, in Italia, la crisi della dottrina neoliberista dell’austerità e un cambio di rotta rispetto all’investimento pubblico nell’economia. Non il comunismo, ma nemmeno la barbarie. Nella ripartenza, quindi, il quadro non è immutato. Eppure non è avvenuto quel rivolgimento radicale che qualcuno ha temuto, qualcuno sperato. Gli investimenti sociali - in Italia, i fondi del Next Generation Eu - potrebbero frenare gli impulsi verso la “restaurazione”, ma è ancora assai dubbio che il tempo a venire possa garantire un’effettiva riduzione delle diseguaglianze sociali, territoriali, di genere, e un nuovo rapporto tra umano e ambiente. Intanto, l’Italia torna al business as usual con i difetti di sempre, aggravati dall’incertezza sul futuro. Non è bastata una pandemia, con il sovvertimento che ha provocato nel rapporto tra difesa della vita e difesa del profitto, per modificare in profondità la scala dei valori collettivi. Ora, accanto alla cautela cui invitano gli esperti sanitari, servirebbe anche la capacità di mantenere viva la “lezione” del Covid-19 nella sfera pubblica. Perché la rimozione del nostro vissuto, nell’ansia di ripartire, lascia aperto l’interrogativo inquietante: verso dove? *Ricercatrice in Filosofia Politica all’Università di Milano-Bicocca Covid, tra i giovani aumentano i casi di autolesionismo di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 31 maggio 2021 Pochi posti letto in ospedale e servizi territoriali carenti. Una donazione salva il consultorio gratuito del centro fondato da Gustavo Pietropolli Charmet: “Seguiamo più di cento famiglie. Ma negli ultimi cinque mesi abbiamo preso in carico 31 nuovi casi”. Una ragazza si è tagliata l’altro giorno sulle braccia e sulle gambe nel bagno del suo liceo ed è stata portata via in ambulanza, la stessa cosa succedeva quasi in contemporanea in una scuola media, una terza adolescente si è voluta fare male in un istituto professionale e qualche settimana fa purtroppo un quindicenne è precipitato dal secondo piano dell’istituto dove frequentava il liceo scientifico. I casi di giovani che si abbandonano a gesti di autolesionismo “in preda all’ansia e allo stress” o “per sentirsi vivi”, come cercano di spiegare loro, continuano a moltiplicarsi. Nei reparti di neuropsichiatria infantile mancano in modo drammatico i posti letto, i servizi territoriali sono carenti e molte famiglie non possono permettersi di essere seguite da professionisti del settore privato, come hanno sottolineato nei giorni scorsi anche le consigliere del Pd Paola Bocci e Antonella Forattini in una mozione depositata in Regione. Il Minotauro, centro attivo dal 1985 con servizi a pagamento, dal 2012 con un suo consultorio gratuito ad hoc segue più di cento famiglie con Isee inferiore ai 20 mila euro. E in questo momento quel servizio, complici la povertà che cresce e gli scompensi psicologici derivanti dalla pandemia, è sommerso di richieste che arrivano da genitori, insegnanti o assistenti sociali. “Solo negli ultimi cinque mesi abbiamo preso in carico 31 nuovi casi che altrimenti non avrebbero potuto contare su altri aiuti tempestivi e a costo zero. Ma proprio in questa fase d’emergenza, rischiavamo di chiudere per mancanza di fondi”, spiega il fondatore, lo psichiatra e psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet. È corsa in aiuto muovendosi in modo deciso e generoso la Fondazione europea Guido Venosta presieduta da Giuseppe Caprotti: grazie alla donazione le attività gratuite potranno continuare per almeno un altro anno. “I 15 psicoterapeuti del consultorio per anni hanno aiutato i ragazzi e le loro famiglie, e ora si trovano in difficoltà perché a causa della pandemia non hanno potuto organizzare le tradizionali aste con cui si autofinanziavano - racconta Caprotti. La fondazione, onorando la memoria di mio nonno Guido Venosta, intende promuovere e contribuire ad elevare l’educazione del pubblico verso i più alti ideali culturali e di solidarietà e in generale si muove in due direzioni: la lotta alla povertà e la ricerca scientifica”. Del Minotauro, l’imprenditore aveva sentito parlare da Nicolò Fontana Rava e Francesco Niutta, gli amici con cui aveva ideato un altro progetto, allo Ieo, a maggio dell’anno scorso, in piena pandemia. “Un progetto importante, che ha visto l’allestimento di laboratori per l’esecuzione di tamponi e test sierologici a dipendenti e pazienti, facendo dello Ieo il primo istituto Covid free. L’esperimento è stato poi esteso ad altre strutture sanitarie lombarde e non”, ricorda Caprotti. Quanto al Minotauro, l’appello era stato lanciato una prima volta dalle pagine del Corriere della Sera in ottobre con Charmet che paventava il rischio concreto di interruzione delle attività gratuite: “Servono almeno 300 mila euro l’anno e per la prima volta nella nostra storia non li abbiamo”, diceva lo psichiatra. La richiesta di aiuto non era rimasta inascoltata. Decine di milanesi avevano mandato piccole donazioni, era stato avviato un crowdfunding, lo stesso Comune di Milano si era reso disponibile a promuovere raccolte di fondi. Una vera e propria staffetta solidale. Ma soprattutto, a regalare un aiuto sostanzioso che aveva permesso di tamponare l’emergenza, era stato il duo di stilisti più famoso al mondo, Domenico Dolce e Stefano Gabbana. “Senza politica non c’è privacy. Serve un accordo anti spie” di Francesca De Benedetti Il Domani, 31 maggio 2021 Max Schrems è l’icona delle lotte europee contro l’ingerenza di Big Tech e del governo Usa sui nostri dati Ma “non basta aver ottenuto più regole se non le facciamo rispettare, gli Usa ci sorvegliano ancora”. La nuova battaglia di Max Schrems inizia stamattina e ha l’aspetto di una pioggia di bozze di reclami - 500 ora, fino a 10mila in futuro - da far avere alle aziende che secondo lui usano cookie banner illegali sui loro siti. Tra quelle che ha individuato in Italia, Adecco, Mediaworld, Maggioli, Condé Nast, Novartis, Findus, Kijiji, Walt Disney. “Hai presente quella giungla di quiz e opzioni che compaiono quando proviamo a entrare in un sito e che ci portano all’esasperazione, oltre che a cliccare a caso pur di liberarcene?”, dice collegato in video da Vienna, con poche ore di sonno alle spalle perché “ho fatto la notte su queste carte”. Se entro un mese le compagnie non renderanno i loro siti rispettosi della privacy, Schrems e il team di Noyb, il centro per i diritti digitali da lui fondato, spediranno i reclami ai garanti per la privacy europei. Schrems ora vuole sollevarci la vita dai banner ingannevoli, ma in meno di dieci anni, mentre si trasformava da studente a icona della privacy d’Europa, è riuscito a fare ben altro. Per la sua tenacia nel proteggere i dati degli europei dalla sorveglianza di massa americana, ha fatto crollare come un castello di carta un accordo tra Stati Uniti e Unione europea; e poi un altro ancora. Due sentenze della Corte di giustizia europea portano il suo nome. Dietro il regolamento per la privacy europeo di ultima generazione c’è anche la sua spinta. Ma i nostri dati non sono ancora al sicuro. Siamo ancora sorvegliati - Tutto inizia con una domanda: “Quanto sa Facebook di me?”. Dieci anni fa, nel 2011, durante un viaggio studio in California, Schrems si rende conto di quanto Zuckerberg abbia tracciato la sua vita: solo su di lui, 1200 pagine di dati personali. La sfida contro Facebook in nome della privacy nasce perché “ero uno studente insistente e non avevo nulla da perdere né nulla da guadagnarci”. Nel giro di un paio di anni, le rivelazioni di Edward Snowden sulla sorveglianza di massa a opera della National Security Agency trasformano la domanda degli inizi in: “Quanto sa Facebook di me, e quanto è venuto a sapere il governo americano?”. Nel 2015, con la sentenza Schrems, la Corte di giustizia europea dice che, vista l’attività di sorveglianza praticata dagli Usa, il sistema utilizzato fino a quel momento per spostare i dati verso gli Stati Uniti, e cioè l’accordo commerciale Safe Harbor, non è più valido. Si profila la paralisi: senza una soluzione alternativa, i dati non possono circolare. Cominciano i viaggi della commissaria Vera Jourova verso Washington, e si concludono con un nuovo accordo, il Privacy Shield. Che però a luglio scorso viene pure esso invalidato dalla Corte con la sentenza Schrems II. Sono stati inutili quei viaggi di Jourova? “La verità - dice Schrems - è che all’epoca Bruxelles e Washington non hanno negoziato proprio nulla. Il dipartimento del Commercio americano se ne è lavato le mani, ha detto che non poteva disporre di quel che faceva l’Nsa. In tema di sorveglianza Washington non ha cambiato nulla. Ha preso Safe Harbor, ha fatto copia-e-incolla, ha aggiunto la figura di un ombudsman inefficace. E Bruxelles ha annunciato un “nuovo” accordo”. Se dopo tanti anni siamo al punto di partenza è per mancanza di volontà politica? “Ci sono due cose che bisogna sapere. La prima è che l’industria tech ha una influenza fortissima anche nel mondo della privacy, tramite i consulenti legali e avvocati che istruiscono i lavori dei decisori. La seconda è che, per come è costruito l’impianto europeo, puoi approvare una legge anche se sai che è illegale: passano circa tre anni perché la Corte la invalidi. Ed è proprio questo che è successo: il Privacy Shield nasceva prevedibilmente debole, e infatti l’estate scorsa la Corte l’ha invalidato”. Mentre gli anni passavano, noi nel frattempo siamo più protetti di prima dalla sorveglianza di massa? “Assolutamente no”. Nella sentenza “Schrems II” di luglio scorso, la Corte di giustizia europea conferma che gli Usa, con i programmi di sorveglianza, possono ancora frugare tra i dati degli europei: non solo la protezione della privacy negli Usa è meno avanzata che nell’Ue, ma i non americani non godono neppure delle stesse tutele di base dei cittadini Usa. Nel tempo “le cose non possono che essere peggiorate”, dice Schrems. “Per quel che sappiamo, le richieste fatte dal governo americano alle corporation come Google sono semmai aumentate”. Dal 2010 al 2020, del 510 per cento. Ma due sentenze della Corte e due accordi invalidati non hanno fermato il trasferimento dei nostri dati verso la patria dell’Nsa. Né fermano Schrems: ad agosto, Noyb ha presentato 101 reclami contro siti europei che “continuavano a spedire i dati di noi europei a Google e Facebook”; il 6 maggio, si è mosso contro Google perché “continua a spedire quei dati verso gli Usa” e ha invocato una multa da sei miliardi. Questione di autorità - Per uscire dallo stallo, Max Schrems formula alcune ipotesi, che vanno dalla riforma del sistema di authority per la privacy a un cambiamento radicale di direzione politica che coinvolga Washington. Il dato di realtà da cui parte è che “in un contesto in cui le regole non vengono fatte rispettare, nessuna corporation si muoverà mai per prima per essere più rispettosa: farlo le creerebbe un danno competitivo. Lo chiamo “sistema mikado”: la prima che si muove è fottuta, come quando si sposta un bastoncino e il resto crolla”. Eppure in Ue le regole esistono eccome, c’è chi - come la giurista della Columbia Anu Bradford - ci definisce una “superpotenza regolatoria”, capace di estendere le sue norme al resto del mondo. “È vero, in Europa siamo attenti ai diritti, approviamo leggi nobili, ma tutto questo a cosa serve se poi manca l’enforcement, se non le facciamo rispettare? C’è chi ride di noi per questo, c’è l’industria che vìola deliberatamente quelle leggi...” dice Schrems. Quando ancora era un ragazzo - era il 2013 e aveva intrapreso la sua battaglia per la privacy contro Facebook - Schcrems si sentì rispondere che “non c’è proprio nulla da investigare”, che “esiste l’accordo Safe Harbor” e che “tanto la certezza di non essere controllati non c’è mai”. Parole pronunciate da Billy Hawkes, l’allora garante per la privacy irlandese: fosse per lui, il caso sarebbe finito lì. L’Irlanda era coinvolta perché Facebook Europa, alla luce dei vantaggi fiscali garantiti dal paese, ha stabilito lì la sede legale, dunque la competenza è di quel garante. Due anni dopo, la Corte di giustizia Ue ha smentito seccamente la tesi di Hawkes e ha invalidato Safe Harbor. Sembra una storia vecchia, invece si ripete. Questo 14 maggio l’alta corte ha dovuto chiedere al garante irlandese di far rispettare le sentenze Schrems: cosa aspetta a fermare il trasferimento dei dati da Ue a Usa? Giovedì 20 anche l’Europarlamento ha rincarato la dose: in una risoluzione, si rammarica per i ritardi del garante irlandese e la sua scarsa iniziativa. Di 10mila reclami ricevuti in un anno, Dublino ha chiuso solo sette casi. Gli eurodeputati chiedono alla Commissione una procedura di infrazione contro l’Irlanda per mancato enforcement del regolamento Ue sulla privacy (Gdpr). “Per far rispettare le regole serve un’agenzia europea”, dice Schrems. “L’Irlanda interviene nell’un per cento dei casi, ma l’Ue non può essere in balìa di inerzia e interessi nazionali, deve mettere in campo tutta la sua potenza di fuoco per far rispettare le regole”. Finché l’Irlanda ha il potere (o l’impotenza) di congelare tutto, e “il 99 per cento dei casi rimane inaffrontato, siamo come un popolo che ha diritto di voto ma non può esercitarlo”. Alcuni garanti - ha iniziato Roma con TikTok, poi Amburgo con Facebook - si stanno muovendo da soli: “motivazione di urgenza”. Parigi lavora a livello politico in Ue per non lasciare in mano a Dublino la lotta con Big Tech. Quale Internet - Se il trasferimento dei dati viene effettivamente bloccato, si rischia la “split internet”, la frammentazione della rete? “Non è certo questo il mio auspicio”, dice Schrems. Sì, ma come evitarlo? “Nell’immediato, una strada è quella di tenere i dati lontani dalle grinfie e dall’accesso degli Usa, ma per me la soluzione a lungo termine non è questa. Se vogliamo che l’Internet globale non resti solo un vecchio ricordo serve un no-spy agreement, un accordo anti-sorveglianza che coinvolga almeno i paesi occidentali che si definiscono democratici. Per fermare la sorveglianza sui nostri dati ci vuole una volontà politica. Sarebbe sciocco e anche noioso pensare che questo tema sia puramente tecnico, che lo si risolva con una privacy policy dettagliata meglio. Qui c’è un conflitto tra giurisdizioni e deriva da scelte politiche: è quelle che bisogna affrontare”. Responsabilizzando quindi l’amministrazione Biden perché “gli Usa negano diritti a noi cittadini non statunitensi”. Per Schrems il “conflitto tra leggi” riguarda non solo la privacy ma “anche i modi diversi di affrontare temi come la neutralità della rete o la libertà di parola”. Ai suoi esordi, “Internet era lasciata allo stato brado, nessuno la regolava. Nel decennio scorso sono state prodotte in gran rapidità molte regole, spesso mal fatte. È doveroso compararle e concepire un approccio condiviso”. Biscotti indigesti - Servono volontà politica e capacità di far rispettare le regole, altrimenti “avere diritti non implica di per sé ottenere giustizia”. Vale anche per le regole europee più d’avanguardia nel panorama globale, come il regolamento sulla protezione dei dati (Gdpr) di cui Schrems è considerato ispiratore e che ha festeggiato martedì il terzo compleanno. “Per decenni le aziende non ci avevano mai chiesto il consenso sui nostri dati anche se avrebbero dovuto. Con la Gdpr, sono state forzate a farlo. Ma la Gdpr dice che devono farlo in modo semplice, immediato, comprensibile: basta un sì o un no”. Prima di accedere ai contenuti di un sito, dovremmo semplicemente scegliere se dare o meno il consenso ai cookie e quindi al trattamento dei dati. Invece, rivela Noyb oggi, molte aziende “illegalmente usano dark pattern”, modelli disegnati apposta per essere ingannevoli e fuorvianti. Ecco perché ci ritroviamo quei format pieni di opzioni che ci rendono la vita complicata. “Così il 90 per cento di noi finisce per dare il consenso, mentre solo il tre lo vuole fare davvero. La gente finisce per odiare la Gdpr e la privacy, mentre questi aspetti nefasti sono dovuti alle aziende. Purtroppo chi ha il design delle piattaforme dà forma anche alle nostre interazioni, e quindi ha un potere enorme”. I cookie banner illegali sono così diffusi che Noyb ha sviluppato un software per individuarli e se i siti europei non rispettano in fretta le regole i reclami diverranno 10mila. Pena di morte. Negli Usa tornano il plotone d’esecuzione e la camera a gas di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 31 maggio 2021 Dopo che, due settimane fa, il governatore della Carolina del Sud ha firmato la legge che obbliga i condannati a morte a scegliere, in assenza dei componenti per l’iniezione letale, tra sedia elettrica e plotone d’esecuzione, c’è già la prima data. Brad Sigmon, condannato alla pena capitale nel 2002 per aver ucciso i genitori della sua fidanzata, verrà messo a morte il 18 giugno. Gli avvocati di Sigmon hanno presentato un ricorso, sostenendo che il loro assistito è stato condannato a morte quando la legge in vigore prevedeva l’esecuzione tramite iniezione letale a meno che il detenuto non optasse per la sedia elettrica. All’inizio di quest’anno, l’esecuzione di Sigmon era stata sospesa per la ormai cronica assenza dei medicinali usati per l’iniezione letale. Proprio questa decisione aveva spinto i legislatori della Carolina del Sud a votare la nuova legge. L’ultima esecuzione in questo stato è avvenuta nel 2011, mentre l’ultima esecuzione mediante plotone d’esecuzione negli Usa risale al 2010: quella di Ronnie Lee Gardner nello stato dell’Utah. Intanto, per gli stessi motivi per cui la Carolina del Sud ha cambiato la legge, in Arizona - dove non ci sono esecuzioni dal 2014 - si sta riallestendo la camera a gas, già prevista come metodo alternativo di esecuzione ma mai più usata dal 1999. Incurante del tremendo precedente storico - la sostanza usata nella camera a gas è l’acido cianidrico, utilizzato dai nazisti nel lager di Auschwitz - la direzione delle carceri dell’Arizona ha già individuato i primi due detenuti da mettere a morte in questo modo: due sessantacinquenni, Frank Atwood e Clarence Dixon, condannati alla pena capitale negli anni Ottanta. *Portavoce di Amnesty International Italia Bielorussia. Le piazze di tutta Europa contro il regime di Lukashenko di Rosalba Castelletti La Repubblica, 31 maggio 2021 Varsavia, Vilnius, Berlino, Milano, ma anche Stati Uniti e Australia. Centinaia di persone hanno manifestato ieri per la liberazione dei prigionieri politici. A cominciare da Roman Protasevich e Sofia Sapega, rapiti con il dirottamento del volo Ryanair. Presente anche Svetlana Tikhanovskaya. Dall’Europa agli Stati Uniti all’Australia, centinaia di persone sono scese in piazza ieri in solidarietà con chi in Bielorussia si oppone al regime di Alexander Lukashenko, da 27 anni al potere, e per chiedere la liberazione del dissidente Roman Protasevich e della sua compagna Sofia Sapega, arrestati domenica scorsa dopo che il loro volo Ryanair da Atene a Vilnius era stato fatto atterrare a Minsk, proprio per la loro presenza, da jet militari bielorussi: un clamoroso “dirottamento” di Stato difeso dalla Russia ma che ha fatto infuriare le cancellerie occidentali, con l’Ue che ha reagito all’affronto (il volo trasportava cittadini europei da una capitale all’altra dell’Unione) con nuove sanzioni verso Minsk. Le manifestazioni più partecipate sono state quelle svoltesi in Polonia e Lituania, Paesi confinanti in cui è consistente la presenza di esuli bielorussi, ma si è protestato anche a Berlino, a Milano, in Ucraina, Irlanda e Paesi Bassi. A Varsavia erano presenti anche la madre e il padre di Protasevich, Natalia e Dmitry, che si sono appellati ai Paesi dell’Ue e agli Stati Uniti perché si arrivi alla liberazione di Roman e Sofia e di tutti gli altri prigionieri politici, 421 in tutto secondo l’associazione per i diritti umani Viasna. Protasevich, che dal suo esilio lituano ha aiutato a organizzare le manifestazioni anti-regime in Bielorussia grazie a un popolare canale Telegram, rischia fino a 15 anni di carcere. “Passo dopo passo, stanno creando una Nord Corea” ha detto a Kiev il manifestante Syarhey Bulba. Dalla Lituania ha parlato invece la leader dell’opposizione, Svetlana Tikhanovskaya, anche lei in esilio. “Credo che molto presto ci saranno dei cambiamenti, ci saranno nuove elezioni”, ha detto, “non può essere altrimenti, la Bielorussia non cederà”. Intanto, nonostante le decine di migliaia di arresti degli ultimi mesi e il pugno sempre più duro del regime, ieri anche a Minsk c’è chi ha osato protestare, mostrando cartelli dell’opposizione in una via centrale, mentre Lukashenko si incontrava sorridente a Sochi con il presidente russo Vladimir Putin, suo grande protettore internazionale. Iran. Il sesto compleanno di Nasrin Sotoudeh in carcere Il Dubbio, 31 maggio 2021 Il marito dell’avvocata attivista per i diritti umani ricorda le condizioni di detenzione della donna. “Oggi, 30 maggio, è il compleanno di Nasrin. Questo è il sesto compleanno che trascorre in custodia negli ultimi dieci anni. Uno dei migliori regali che Nasrin ha ricevuto oggi è stata una serie di messaggi vocali dei bambini registrati per lei da un gruppo dei nostri carissimi amici e colleghi di Nasrin presso le Ong. Sentire la loro dolce voce l’ha fatta annegare nella gioia”. Sono le parole di Reza Khandan, marito di Nasrin Sotoudeh, avvocato e difensore dei diritti umani in Iran, in carcere dal 14 giugno 2016 e condannata, nel 2018, a 33 anni di prigione e 148 frustate. L’accusa è di “propaganda sovversiva” per aver difeso alcune donne che avevano sfidato il divieto di non portare l’hijab (il tradizionale velo femminile obbligatorio nella Repubblica sciita) in pubblico. Sotoudeh, che assieme al marito è fra i principali attivisti iraniani per i diritti umani, si è sempre detta innocente, dicendo di aver soltanto manifestato pacificamente per i diritti delle donne e contro la pena di morte. La situazione nelle carceri iraniane è disumana: “I prigionieri che hanno problemi fisici e malattie tollerano condizioni più difficili - ha spiegato Khandan. La prigione di Qarchak è un disastro per centinaia di donne prigioniere. La maggior parte delle stanze di Gharchak sono di 10 metri quadrati, compresa la stanza dove Nasrin e altri 40 prigionieri sono imprigionati in un salone chiamato “Counseling Hall 2”. Queste stanze della prigione definite “capanna” hanno 12 posti letto e mancano le finestre. Questa è la struttura progettata dai costruttori di questa prigione. L’orribile odore di questa prigione assomiglia al fetore dei cadaveri”. In un recente post su Facebook Khandan ha descritto ulteriormente la terribile condizione del carcere. “L ‘odore delle fognature è talmente forte che sembra di vivere dentro una fogna. Lettere e denunce diverse sulla situazione del carcere di Qarchak sono rimaste finora senza risposta. I servizi sanitari in carcere sono un’altra triste storia che non può essere descritta. Ho scattato una foto di un bagno con sede in un parcheggio della prigione di cui possono usufruirne soldati, autisti di servizio e avventori, compresi gli avvocati. Questo bagno (wc) è così sporco e distruttivo che non può essere immaginato. Un amico che ha avuto l’esperienza solitaria della prigione di Qarchak ha detto che i bagni solitari di Qarchaka sono molto peggiori di questo - ha scritto suo profilo. Il mese del Ramadan ha dato il pretesto di non concedere il pranzo ai prigionieri. I prigionieri non hanno mezzi per riscaldare il cibo. Il pranzo si mangia a mezzogiorno dalle 10 alle 12 ore dopo la consegna, senza possibilità di riscaldamento (se non è marcio). Naturalmente il cibo carcerario non è mangiabile nemmeno in condizioni normali”. Yemen. Scarcerati ma espulsi: questo è il destino di chi si oppone agli huthi di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 31 maggio 2021 Per chi si oppone al dominio del gruppo armato huthi nelle zone dello Yemen sotto il suo controllo, non c’è scampo: attivisti politici, giornalisti, credenti di religioni minoritarie vengono arrestati, condannati e, una volta rilasciati, espulsi o esiliati in altre zone del paese. Un rapporto di Amnesty International racconta le vicende di 12 yemeniti - sette giornalisti, un funzionario civile e quattro fedeli baha’i - rilasciati nell’ottobre 2020 dopo anni di carcere a seguito di un accordo politico con gli huthi negoziato dalle Nazioni Unite e dal Comitato internazionale della Croce Rossa che aveva riguardato 1056 detenuti, quasi tutti ex combattenti. I resoconti forniti ad Amnesty International dai 12 ex detenuti sono agghiaccianti: pestaggi, scariche elettriche, obbligo di rimanere a lungo in posizioni dolorose, minacce di morte, estenuanti periodi di isolamento, diniego di cure mediche. I baha’i sono stati espulsi dallo Yemen, gli altri sono stati obbligati all’esilio in altre parti del paese controllate dal governo riconosciuto a livello internazionale. Tutti separati dalle loro famiglie. Era già successo mesi prima. Il 30 luglio 2020, sei baha’i erano stati rilasciati dopo sette anni di carcere, portati direttamente all’aeroporto della capitale San’a e fatti salire a bordo di un aereo delle Nazioni Unite diretto in Etiopia. Non è ancora terminato l’incubo di un gruppo di giornalisti condannati a morte per avere, secondo un tribunale huthi, passato informazioni al nemico (la coalizione guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti che nel marzo 2015 ha avviato una campagna militare contro gli huthi). Potrebbero rientrare anche loro in qualche negoziato per lo scambio di prigionieri. *Portavoce di Amnesty International Italia Goli Otok, il carcere dimenticato di Tito di Matteo Carnieletto it.insideover.com, 31 maggio 2021 L’isola a due passi dall’Italia dove il maresciallo Tito imprigionò 30mila oppositori, tra cui centinaia di italiani. Da lontano Goli Otok sembra un’isola come tante, forse solo un po’ più brutta. Guardandola mentre solcavano il mare, gli uomini hanno iniziato a chiamarla “isola calva” perché su questo scoglio che sorge in mezzo all’Adriatico ogni forma di vita fatica a crescere. La natura infatti - fatta eccezione per alcuni arbusti ostinati - si spegne in poco tempo. D’estate il sole martella le rocce. D’inverno la bora le ghiaccia. Nessuno ha mai provato ad abitare qui. Nessuno ha mai osato restare più di qualche giorno a Goli Otok. Almeno fino al 1948. In quell’anno, infatti, ci furono insoliti viaggi verso l’isola. Moltissimi dissidenti - per lo più jugoslavi rimasti fedeli all’Unione sovietica, e pure centinaia di italiani - vennero portati nel campo di rieducazione che Josip Broz Tito, il Maresciallo, aveva allestito in fretta e furia con lo scopo di “rieducarli”. Che colpa avevano queste persone? Perché finirono in uno dei peggiori campi di concentramento che la storia ricordi? Erano comunisti di stretta osservanza che, per un tragico gioco del destino, si erano trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nel 1948, infatti, si era consumato lo strappo tra l’Unione sovietica e la Jugoslavia socialista e chi decise di stare con l’Urss venne internato da Tito perché percepito come un nemico del popolo. Scrive Orietta Moscarda Oblak: “La maggioranza, tra cui molti immigrati politici (in primis i “monfalconesi”) venuti in Jugoslavia a ‘costruire il socialismo’, si schierarono dalla parte di Stalin. (…) Nei confronti dei ‘cominformisti’ le autorità jugoslave avviarono una violenta epurazione, che lasciò ai comunisti italiani, schieratisi quasi compattamente con Stalin, la sola via dell’emigrazione, attraverso la richiesta d’opzione a favore della cittadinanza italiana prevista dalle clausole del Trattato di pace, quale possibilità di scampare ai processi, alle condanne al “lavoro socialmente utile” e alla deportazione nel campo di prigionia dell’Isola Calva (Goli Otok)”. Immaginare la vita in questo campo di concentramento è quasi impossibile, nonostante i ricordi di chi ha avuto la sventura di finire sull’isola siano più lucidi che mai. Una sorta di girone infernale dove tutto doveva esser fatto di fretta, come ricorda Silverio Cossetto: “Tutto il lavoro doveva esser fatto sempre di corsa. Chi, come me, non era abituato ai lavori pesanti se la passava veramente male. Per ogni minima infrazione erano pronte le più severe punizioni. Tutto era predisposto al fine di demolire, non solo fisicamente, ma soprattutto moralmente anche la più forte personalità. A questo scopo erano stati studiati ogni sorta di espedienti, tra i quali figurava anche la sete”. Ma non solo: le botte accompagnavano i detenuti. Si veniva accolti dal cosiddetto kroz stroj, ovvero “attraverso la fila”, un tunnel in cui coloro che si trovavano da più tempo sull’isola pestavano i nuovi arrivati. Il lavoro serviva ad annichilire non solo il corpo, ma anche l’animo dei detenuti, affinché si convertissero al socialismo jugoslavo. Gli anni del terrore furono sette e tutti in autogestione, come ricorda Eligio Zanini: “Si venne a sapere in seguito che tra i campi organizzati dai vari regimi totalitari i nostri erano di gran lunga i più efficienti, in quanto erano gli stessi detenuti a controllarsi, bastornarsi, denunciarsi e auto-amministrarsi, facendosi del male tra di loro”. Oggi Goli Otok è tornata ad essere l’isola calva, abitata solamente di arbusti e pietraie. Le baracche dove trovavano effimero riposo i detenuti sono ormai distrutte e le barche la guardano con diffidenza. Restano soltanto i fantasmi di un orrore dimenticato. Che però non è mai scomparso. Ruanda, il genocidio e il perdono di Michele Farina Corriere della Sera, 31 maggio 2021 Dopo 27 anni la Francia ha riconosciuto le sue “enormi responsabilità”. Il Ruanda applaude. Ferita chiusa? Emmanuel Macron depone una corona di fiori al Memoriale del Genocidio a Kigali il 27 maggio scorso. A sinistra in alto, François Mitterrand con il presidente ruandese Juvénal Habyarimana. Sotto, un soldato con i resti dell’aereo di Habyarimana, abbattuto con due missili la sera del 6 aprile 1994: ancora ignoti gli autori dell’attentato, che fu la scintilla per il genocidio. Cento giorni per compiere un genocidio, 27 anni per chiedere scusa. La Francia riconosce le sue “enormi responsabilità” nello sterminio di 800 mila persone (in stragrande maggioranza di etnia tutsi) avvenuto in Ruanda nel 1994. L’ammissione di colpa arriva ora, manco fosse una lettera smarrita per un quarto di secolo nei meandri dell’Eliseo. Quel messaggio mai scritto l’ha “consegnato” con voce commossa ai ruandesi Emmanuel Macron, giovedì 27 maggio. Con le parole pronunciate a Kigali, davanti al memoriale dove sono sepolti i resti di 250 mila vittime, Macron ha ammesso per la prima volta il ruolo svolto prima e durante lo sterminio, pur affermando che il suo Paese “non fu complice” del genocidio. Ma “volendo fermare un conflitto regionale o una guerra civile”, ha detto Macron, Parigi “sostenne di fatto un regime genocida”. Il gesto di Macron è diretta conseguenza del rapporto di 1.200 pagine presentato a fine marzo dalla commissione d’inchiesta da lui voluta. Dopo aver studiato ottomila documenti (rimasti troppo a lungo segreti) fra cui telegrammi, manoscritti, note diplomatiche, gli storici guidati da Vincent Duclert hanno puntato il dito contro la “cecità” dimostrata dalla Francia verso “il regime razzista, corrotto e violento” di Juvénal Habyarimana, il grande protetto di François Mitterrand. Fu l’allora inquilino dell’Eliseo a dare sostegno alla cerchia governativa dell’”Hutu Power” a Kigali. La missione militare francese supervisionò il potenziamento dell’esercito ruandese, che nell’anno precedente il genocidio passò da 5 mila a 30 mila effettivi, con l’aggiunta di miliziani che di lì a poco avrebbero guidato le stragi dei tutsi con mezzo milione di machete nuovi di zecca. Sostenendo “i razzisti” al potere, Mitterrand pensava di salvaguardare il ruolo della Francia in Africa contro l’espansionismo americano che a suo dire, attraverso il vicino Uganda, appoggiava i ribelli tutsi del Fronte Patriottico guidato da Paul Kagame. All’epoca dei fatti l’attuale capo dell’Eliseo, che oggi parla con il presidente Kagame in inglese, aveva 16 anni. Perché non ha chiesto chiaramente perdono ai ruandesi? “Solo coloro che hanno attraversato la notte possono forse perdonare - ha detto Macron davanti al memoriale delle vittime che ha nome Kwibuka (“Ricorda”). Io sono qui al vostro fianco oggi, umilmente, per riconoscere l’ampiezza delle nostre responsabilità”. Kagame, liberatore e dopo 27 anni ancora padre-padrone del Ruanda, ha definito il discorso di Macron “un atto di grande coraggio”, perché “più delle scuse è la verità che conta”. Il disgelo tra i due Paesi sul terreno duro e spaventoso della memoria è un evento significativo, non soltanto per la Francia. Come riconobbe molti anni dopo Kofi Annan, che nel 1994 da New York guidando le forze di peacekeeping dell’Onu non seppe fermare i massacri, “nell’ora del bisogno più grande, il mondo voltò le spalle al Ruanda”. Un fallimento internazionale, certo. Ma è pur vero che gli occhi del “mondo”, nell’ex colonia belga nel cuore dell’Africa, nei primi anni Novanta erano soprattutto quelli della Francia. E quando fu abbattuto l’aereo di Habyarimana il 6 aprile 1994 (da chi non si è mai saputo), prima di bruciare gli archivi in giardino e chiudere la sede diplomatica, fu l’ambasciatore di Parigi a seguire da vicino la nascita del governo che stava per scatenare un genocidio a lungo accarezzato. Già alla fine del 1990, il capo della missione di cooperazione militare francese a Kigali, il generale Jean Varret, fece rapporto all’Eliseo dopo i colloqui con il responsabile della polizia, colonnello Rwagafilita, che chiedeva alla Francia più mortai e mitragliatrici. Varret pensava servissero per contrastare i ribelli, ha raccontato il generale poche settimane fa a Le Monde. Ma il colonnello ruandese fu chiaro: “Le armi ci servono per risolvere il problema dei tutsi. Li spazzeremo via tutti dal territorio, non sono molti, sarà una cosa veloce”. Varret fece rapporto. E il suo mandato durò meno del previsto. Il colonnello Rwagafilita azzeccò le previsioni. Tre anni dopo, bastarono 100 giorni per uccidere 800 mila persone nel genocidio più veloce della storia: in gran parte tutsi, ma anche hutu “non allineati” con i piani del governo amico della Francia. Secondo alcune stime, un centinaio di ruandesi implicati nei massacri vivono oggi Oltralpe. Impunemente. Proteggere i carnefici, piccoli o grandi che siano: non è anche questa, 27 anni dopo, una forma di complicità? La guerra ai narcos non ha funzionato. Ma la Colombia ripete gli stessi errori di Rocco Cotroneo Il Domani, 31 maggio 2021 Nel 2019 in Colombia sono stati distrutti quasi 100mila ettari di piante di coca, circa la metà dell’intera produzione nazionale. Se la guerra all’offerta di droga fosse efficace, come conseguenza sarebbero crollati la produzione di cocaina e il suo commercio; nel mondo i consumi si sarebbero ridotti e i prezzi esplosi. Ma l’economia della polvere bianca non risponde a una idea perversa delle leggi di mercato. Anzi, se ne fa beffe da mezzo secolo. Oggi si stima che in Colombia le coltivazioni siano stabilmente sopra i 200mila ettari, quindi l’intera quantità di piante estirpata in un anno è stata ricollocata in poco tempo. Intatta anche la catena del business: lo scorso anno la produzione di cocaina pura è cresciuta dell’8 per cento, a 951 tonnellate, e i prezzi finali in Europa e negli Stati Uniti sono stabili, come da parecchi anni. I prossimi dati ufficiali - a cura dell’Unodc, l’agenzia antidroga dell’Onu - ci diranno piuttosto quali sono stati gli effetti della pandemia. Probabile nell’intero pianeta una riduzione dei consumi di sostanze “festaiole” (coca e droghe sintetiche varie) e un aumento di quella per eccellenza da divano, la marijuana. Ma il trend generale non dovrebbe essere cambiato. La sconfitta Dopo aver raccontato la situazione in Brasile, la seconda puntata del nostro viaggio nella guerra perduta contro i narcos ci porta sull’asse Stati Uniti-Colombia, dove è in corso da decenni il confronto tra il primo paese consumatore al mondo e il maggior produttore. Dai tempi cinematografici di Pablo Escobar, tutto è cambiato ma nulla è davvero cambiato. A quell’epoca la Colombia era il pusher del pianeta, grazie cartelli di Medellín e Cali che si ai occupavano di raffinazione e traffico, mentre la coltivazione delle piante era lasciata ai due paesi vicini, Perù e Bolivia. Oggi la prima parte della catena si è trasferita nella stessa Colombia, dove si coltiva il 70 per cento della coca; gli attori sul mercato sono molti di più, mentre i cartelli con il loro strascico di sangue si sono ingigantiti più prossimi alla destinazione della “roba”, vale a dire in Messico. Invece non si è spostato di una virgola il paradigma della guerra alla droga, iniziata all’epoca della presidenza Nixon ma i cui contorni sono stati meglio definiti negli anni Ottanta di Ronald Reagan: i paesi consumatori vogliono colpire l’offerta, distruggere il prodotto, convincere i campesinos a fare altro, perché così pensano che la cocaina e le altre droghe spariranno dalle loro piazze. Da11999, quando venne lanciato dalla presidenza Clinton il plan Colombia, gli Stati Uniti hanno iniettato invano 11 miliardi di dollari nella guerra ai narcos, che in realtà sono finiti quasi tutti in armi per combattere la guerriglia. Al congresso di Washington è recente la più clamorosa ammissione di sconfitta. Nel rapporto (dicembre 2020) della commissione bipartisan sul tema droghe si legge che il “flan” è stato un fallimento totale. Negli ultimi vent’anni sono cresciuti produzione, traffico e consumi. Non hanno funzionato né le fumigazioni con gli aerei, durate fino al 2015, né l’estirpazione a mano delle piantine da parte dei soldati colombiani che scendono sui campi in elicottero. I sequestri intercettano solo una piccola parte dell’export e lo scenario preoccupa, perché la crisi economica potrebbe far tornare indietro i coltivatori andini che erano stati incentivati economicamente a passare ad altri prodotti, come banane e avocados. Danni ambientali - E poi la peggiore notizia per gli Stati Uniti: dice il rapporto del Congresso che in dieci anni sono morte 500mila persone per overdose, il numero più alto (7lmila) nel 2019. La cocaina non è la principale responsabile, d’accordo, ma la sostanza non cambia. Le droghe sono un problema di salute pubblica, e il rapporto riconosce che la domanda traina l’offerta e non viceversa. “Non solo non si ammettono i fallimenti del passato, ma adesso in Colombia abbiamo un governo che appoggia la repressione più tradizionale e vuole addirittura tornare indietro nel tempo”, dice Catalina Gil Pinzon, esperta in politica di droghe e studiosa del processo di pace nel suo paese. Intenzione del presidente Ivan Duque è riprendere a spargere erbicidi sui campi di coca con gli aerei, le temute fumigaciones, che erano state sospese nel 2015. Si tratta di una pratica nociva per l’ambiente e la salute di chi vive nelle campagne interessate, che venne dichiarata tale dall’Oms e il cui stop è stato determinato da una sentenza della Corte suprema colombiana. La sostanza che si utilizza, il glifosato, è un potente diserbante considerato cancerogeno. La Colombia è l’unico paese dove da11994 al 2015 è stato usato, mentre Perù e Bolivia si sono sempre rifiutati, limitandosi all’estirpazione manuale. “oltre ai rischi sanitari, il ritorno ai diserbanti è segnale che il nostro governo è tornato a narcotizzare tutta l’agenda politica. Tutto quel che conta è la coca - dice Gil - Siamo ancora nel mezzo di un accordo di pace molto complesso, dopo la resa delle Farc (la guerriglia marxista che ha combattuto il governo per oltre 60 anni, ndr), che prevedeva incentivi pubblici per sostituire le coltivazioni, poiché molti campesinos rifornivano i guerriglieri. Ma tutto è stato abbandonato a favore dell’opzione militare. Si torna alla guerra di un tempo”. posti al mondo, ma offre raccolti continui, non ha bisogno di cure particolari o di irrigazione. L’attacco dal cielo è invece una pratica estremamente cara. Secondo uno studio si spendono tra i 70mila e i 100mila dollari per eliminare appena un ettaro, che può essere ripiantato da un’altra parte in una settimana. Per questo le curve di riduzione dei campi coltivati citate da chi canta vittoria (sia all’epoca degli aerei, sia oggi con le estirpazioni manuali) tornano sempre verso l’alto. Il conto è semplice. Quando venne lanciato il Plan Colombia nel 1999, la Colombia aveva 160mila ettari coltivati; oggi, come si diceva, sono sopra i 200mila. Sono cambiate anche le tecniche, per cui con meno foglie si produce più pasta base. Come risultato, nonostante gli attacchi all’offerta, i prezzi finali della cocaina sono stabili da anni sulle piazze internazionali, e sono enormemente più bassi di quando tutta la guerra iniziò, nel secolo scorso, e la polvere bianca era un lusso per pochi. Ivan Marulanda, un senatore del Partido verde colombiano, ha presentato di recente un progetto di legge per regolare produzione e commercio delle foglie di coca, al fine di stroncare il narcotraffico. “Con l’aria che tira le possibilità che venga approvato sono praticamente zero dice Catalina Gil - Ma ciò non impedisce che si possa andare avanti in questa direzione. Perù e Bolivia hanno da tempo zone di coltivazione legale e un mercato per uso medicinale. Sono esperienze che stanno funzionando”. Uno studio comparativo tra i tre paesi produttori di coca ha dimostrato le differenze. In Colombia, dove tutto il mercato è illegale, i narcos comprano ai contadini 25 libbre di foglie a 18 dollari, mentre nel commercio legalizzato a Lima ce ne vogliono 50 e a La Paz ben 85. Significa che l’illegalità spinge la produzione e La polvere non è un lusso E non ci sono segnali che possa funzionare. Tanto i campi colpiti con la chimica che quelli distrutti con il machete vengono sempre ripiantati da altre parti. La coca si spinge in regioni più impervie, nascosta sotto gli alberi. Gli incas la consideravano una pianta magica, un dono degli dei, e avevano ragione: cresce in poco tempo, abbassa i prezzi, e non viceversa. E poi nella catena della coca-cocaina quel che resta ai coltivatori sono le briciole, meno del 10 per cento, mentre tutto il resto va al traffico. I fautori di una linea alternativa in Colombia si augurano che il cambio politico a Washington e alcune esperienze di liberalizzazione negli stessi Usa possano cambiare il vento, o almeno scoraggiare Duque sulle fumigazioni. Se nella politica interna sulle droghe gli Stati Uniti stanno rivedendo le loro certezze, perché non dovrebbe succedere anche con la loro politica estera? Al momento le indicazioni del dipartimento di Stato all’ambasciata in Colombia sono a favore che si compia il processo di pace, quindi che si realizzino le promesse dei governi precedenti a favore dei campesinos e degli ex guerriglieri che hanno abbandonate le armi. Nessuno di questi progetti prevede il ritorno della guerra chimica.