Giustizia, la riforma Cartabia costringe i partiti a riposizionarsi di Angelo Picariello Avvenire, 30 maggio 2021 Giustizia banco di prova della grande coalizione. Mentre Marta Cartabia lavora lontano dai riflettori, i partiti si riposizionano. Il segretario del Pd Enrico Letta indica una terza via “fra giustizialisti e impunitisti”. E crea l’ennesimo contraccolpo nei 5 Stelle la svolta garantista di Luigi Di Maio che si scusa con l’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, assolto dopo la gogna mediatica riservatagli a suo tempo e capeggiata proprio dal M5s. Si compiace Matteo Salvini, che aveva a sua volta espresso solidarietà a Uggetti e ora scrive anche lui (come aveva fatto Di Maio) al Foglio, dopo gli attacchi partiti, a suo tempo, anche dalla Lega. Ma non basta: “Sono convinto che, oltre alle scuse, servano azioni concrete. Propongo a Di Maio un impegno per sostenere i referendum che la Lega e il Partito radicale stanno preparando: mirano prima di tutto a restituire ai magistrati indipendenza. Credo - spiega infatti Salvini - che i tempi siano finalmente maturi per mettere mano a un settore vitale per la nostra democrazia e che non può più andare avanti come se nulla fosse. L’Italia della ricostruzione post Covid ha bisogno di una giustizia efficiente e davvero indipendente, di una macchina pubblica giovane e innovativa, di un fisco amico di cittadini e imprese”. Un “piccolo passo per noi garantisti - interviene anche Matteo Renzi - ma un grande passo per i grillini, che hanno costruito il proprio successo sul Vaffa Day e sull’aggressione giudiziaria nei confronti degli avversari”. Ma l’ex sindaco di Lodi, espressione del Pd, non bastano queste solidarietà “del giorno dopo”. Bene di Maio, “ma ora è il momento di aprire una riflessione più ampia”, dice. Quanto a Salvini, “durante la campagna elettorale del 2017 ricordo bene che mimò il segno delle manette. Sono contento della solidarietà, ma mi aspetto delle scuse”, lo gela. E lo stesso Renzi “garantista”, da segretario del Pd al tempo “mi scaricò un po’ troppo velocemente - lamenta Uggetti, intervistato da Repubblica. Fu un errore politico”. La richiesta di accelerare sulle riforme della giustizia (il processo civile è in commissione Giustizia del Senato, il processo penale e il Csm alla Camera) arriva dai capigruppo di Fi Roberto Occhiuto e Annamaria Bernini. La quale chiede a Di Maio uno strappo del M5s sulla prescrizione e sulla legge Bonafede del gennaio 2019, votata anche dalla Lega, con cui M5s era al governo. Preoccupato Letta, ricorda che senza la riforma della giustizia, a rendere i processi più rapidi, rischiamo di perdere i fondi dell’Ue: “Sono le condizioni chiave perché si modernizzi il Paese Cartabia ha impostato bene la riforma, dobbiamo aiutarla a portarla avanti”. Il M5S già lavora con Cartabia alle riforme della giustizia di Liana Milella La Repubblica, 30 maggio 2021 Netto no del ministro degli Esteri a Salvini: “Non firmeremo i suoi referendum”. I grillini sulla prescrizione sono pronti a discutere. Ma “dobbiamo garantire la certezza della pena”. “Di Maio? Ma noi, sulle riforme della giustizia, abbiamo già detto a Marta Cartabia, con ben 48 ore di anticipo rispetto alla sua uscita, che il M5S non avrà alcun problema a sottoscrivere norme che rispettino pienamente la Costituzione. Detto questo, detto tutto”. Quindi anche una prescrizione “garantista”? “Saremo d’accordo su una formula che assicuri la certezza della pena”. In una parola: se Di Maio ha chiesto scusa a Uggetti, chi, in queste ore, sta trattando con la Guardasigilli per condurre in porto le riforme del processo penale e del Csm è convinto di aver già seguito - senza sapere nulla dell’uscita del ministro degli Esteri - una linea che certo non si può definire oltranzista. Tant’è che la stessa ministra Cartabia è uscita rinfrancata da un incontro che ha definito “molto cordiale” e durante il quale ha regalato al suo predecessore Alfonso Bonafede una copia della tesi di Giovanni Falcone. Una linea che si è manifestata a partire proprio dalla prescrizione. Sulla quale M5S non ha posto paletti invalicabili. Anche se non è un mistero che proprio Bonafede - che in via Arenula mercoledì ha guidato la delegazione del M5S - sia convinto che tuttora il miglior compromesso possibile sarebbe quello del lodo Conte-bis, una formula sottoscritta a febbraio dell’anno scorso dall’ex premier Giuseppe Conte e frutto di una proposta dell’avvocato Federico Conte, deputato di Leu, che distingue il cammino della prescrizione per gli assolti e per i condannati, mantenendo per questi ultimi il blocco dopo il primo grado anche se con la possibilità di recuperare i tempi congelati in caso di assoluzione. Tuttavia è sufficiente parlare con Bonafede e con i suoi per comprendere che il M5S non è intenzionato a far muro sulle riforme, né tantomeno a impuntarsi su tesi, per così dire, giustizialiste. Ma - come dice chi ha partecipato all’incontro - “prima di tagliare drasticamente l’appello e di affidare al Parlamento la scelta delle priorità dell’azione penale bisogna pensarci bene”. Di Maio ha spiazzato i suoi rispetto alla trattativa sulla giustizia? Bonafede era al corrente della sua uscita e ne ha potuto valutare le conseguenze sulle riforme? La risposta vira soprattutto sulle conseguenze. Perché Di Maio - dicono le fonti del M5S che ricorrono a dei distinguo - “non ha parlato di riforme, ma della reazione politica rispetto a un arresto oppure a un avviso di garanzia, facendo autocritica sul caso Uggetti”. Perché “un conto è la gogna mediatica, altro sono le regole del processo e le sanzioni per chi ha commesso un reato. Stiamo parlando di due questioni differenti”. Ma proprio qui, per M5S, parte una pagina trabocchetto. Perché sulla gogna mediatica si apre un capitolo denso di possibili emendamenti su cui una parte cospicua della maggioranza - tutto il centrodestra ma anche Italia viva - sarebbe d’accordo. Tant’è che noti super garantisti come Enrico Costa di Azione già lanciano la sfida e annunciano che riproporranno tra gli emendamenti al processo penale tutto il capitolo sulla presunzione di innocenza. “Di Maio si è convertito?”, si chiede Costa, “ma per noi contano i fatti concreti, vedremo se voteranno i nostri emendamenti contro il processo mediatico, contro le conferenze stampa dei pm, contro le inchieste battezzate con un nome, o ancora per l’oblio in rete degli assolti. Tutto questo evita la gogna mediatica, proprio quella di cui parla Di Maio, se voteranno a favore allora davvero potremo dire che sono credibili”. Una sfida. Accolta con freddezza dentro M5S da chi sottolinea che neppure nelle proposte di Giorgio Lattanzi - l’ex presidente della Consulta e grande giurista a cui Cartabia ha affidato la stesura dei possibili emendamenti al processo penale - figura un simile pacchetto di modifiche, mentre certamente viene ipotizzata una prescrizione che, a differenza di quella di Bonafede, non si ferma dopo il primo grado ma si sospende soltanto, e può anche essere integralmente recuperata. Per questo chi riflette sulle conseguenze concrete che l’intervento di Di Maio potrebbe avere sul comportamento del M5S rispetto alle riforme, dice: “Innanzitutto ricordiamoci che proprio Bonafede, da ministro, ma anche prima, non ha mai commentato gli esiti delle indagini a danno di un imputato. Perché un conto è la reazione politica rispetto a una decisione dei magistrati, altro sono le riforme dei codici che devono essere garantiste nel senso che rispettano la Costituzione”. Un modo per dire che, se arrestano un sindaco, la valutazione politica può esserci, “ma deve tener conto che l’imputato è sempre un presunto innocente fino alla Cassazione”. La politica, dunque, “prende posizione e giudica i fatti che avvengono, ma da qui alla condanna barbara anzitempo ce ne corre”. Ma alla sfida di Salvini - “allora Di Maio e i suoi sostengano i nostri referendum sulla giustizia”, dalla separazione delle carriere alla responsabilità civile e personale dei giudici - la risposta dei 5S è un “no” chiaro e tondo. Dalle scuse al nodo prescrizione. Ora tutti invocano la riforma della Giustizia di Errico Novi Il Dubbio, 30 maggio 2021 Scettici contro ottimisti, dopo la svolta garantista di Luigi Di Maio c’è chi punta su una nuova stagione del Movimento e chi resta cauto. “Se partiamo da questa base, arrivare a una riforma del processo penale che metta al centro tempi certi e garanzie, diventa un obiettivo raggiungibile”, si augura Anna Rossomando (Pd). Il mea culpa di Luigi Di Maio sul caso Uggetti non è passato certo inosservato. Dopo cinque anni il ministro degli Esteri ed ex capo politico del M5S si pente per aver “esacerbato il clima” e trova oggi “grottesche e disdicevoli” le modalità scelte allora per combattere la battaglia politica. “Si potevano, certo, chiedere le dimissioni del sindaco ma - scrive in una lettera al Foglio - campagne social, sit in di piazza, insinuazioni, utilizzo di frasi al condizionale che suonano come indicative, col senno di poi, credo siano stati profondamente sbagliati”. La lettera di Di Maio rimbalza sin dal mattino nelle chat dei parlamentari, pentastellati e non. “È un piccolo passo per Di Maio, vediamo se sarà un grande passo per il M5S”, azzardano i più ottimisti. “Sono in arrivo indagini per il M5S”, pronosticano assai poco politicamente corretti i più scettici. In ogni caso, per il Movimento, è un giro di boa. E per molti arriva inaspettato. “È la mossa di Luigi per riposizionarsi e riposizionare il Movimento”, attaccano i malpancisti. A “coprire” la fuga in avanti arrivano a stretto giro di posta le parole di Giuseppe Conte: “Riconoscere un errore, come ha fatto oggi Luigi Di Maio, è una virtù. Alimentare la gogna mediatica per contrastare gli avversari a fini elettorali contribuisce all’imbarbarimento dello scontro politico”, mette nero su bianco il leader in pectore dei grillini. Anche Virginia Raggi condivide le parole del ministro, mentre Alessandro Di Battista sembra non apprezzare troppo: “Giorni fa non è stato arrestato anche il sindaco di Foggia in quota Lega? E che alcuni esponenti dei Cinque Stelle lo hanno attaccato? Allora non dovevano farlo perché ovviamente è innocente fino a sentenza passata in giudicato?”, dice sarcastico. Lancia invece una proposta Stefano Buffagni: dopo gli “attacchi sproporzionati subiti, il Movimento 5 Stelle e il Pd - azzarda - potrebbero dare un segnale candidandolo nel collegio di Siena”. Il diretto interessato apprezza le scuse. “Mi fa molto piacere questo tipo di riconoscimento anche perché non riguarda solo me ma anche la mia famiglia. Spero - spiega l’ex sindaco di Lodi - che questo mio calvario sia stato anche utile: voglio sperare che ci sia una presa di contatto con la realtà e che si capisca che dietro a un arresto o a un’indagine ci sono persone con i loro affetti”. Gradisce, a suo modo, la mossa di Di Maio anche Matteo Renzi. “Qualcosa sta cambiando, il giustizialismo non tira più, il populismo è in crisi. Nessuno potrà cancellare le sofferenze anche umane di quel periodo. Oggi però emerge un fatto politico: avevo chiesto anche due giorni fa che si scusassero pubblicamente. Lo hanno fatto: meglio tardi che mai. Il tempo è galantuomo: la verità arriva prima o poi. E su questi temi il meglio deve ancora venire”, assicura il leader di Iv. “Credo che le parole del ministro Di Maio colgano un punto che dovrebbe essere condiviso da tutte le forze politiche e non solo: basta processi in piazza, stop linciaggi pubblici”, commenta la responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando. Pace fatta, dunque. Ma il rischio è che sia una tregua di breve respiro, dal momento che distanti restano le posizioni dei partiti sulla riforma del processo e la prescrizione sulle quali è al lavoro la Guardasigilli Marta Cartabia. “Se partiamo da questa base, arrivare a una riforma del processo penale che metta al centro tempi certi e garanzie, diventa un obiettivo raggiungibile”, commenta Rossomando. “La riforma della Giustizia va affrontata con equilibrio - avvisa Buffagni - ci sono temi su cui riflettere, da modificare in maniera seria”. “Credo che quello di Di Maio sia stato un gesto molto importante, l’ho apprezzato. la riforma della giustizia è fondamentale, la ministra Cartabia ha impostato le cose nel modo giusto, credo che dobbiamo aiutarla”, ha detto il segretario Pd, Enrico Letta. “Rendere migliore le forme di autogoverno non vuol dire minare l’indipendenza della magistratura, ma rafforzarla. E poi lavorare sui tempi della giustizia”, ha aggiunto Letta. Mentre in una lettera al direttore de Il Foglio, il leader della Lega, Matteo Salvini sottolinea che è “troppo facile esprimere solidarietà per l’ennesimo caso di malagiustizia, se però non si muove un dito per cambiare la situazione”. “Ho letto con grande attenzione il contributo del ministro Luigi Di Maio che ieri si è pubblicamente scusato con l’allora sindaco di Lodi, Simone Uggetti, uscito pulito dopo anni di indagini e processi finiti nel nulla. Di Maio si è rammaricato perché il Movimento 5 stelle aveva usato toni durissimi contro il primo cittadino. Io stesso, pochi giorni fa, avevo espresso solidarietà a Uggetti che anche la Lega aveva criticato aspramente. Sono però convinto che, oltre alle scuse, servano azioni concrete”. “Credo - spiega infatti Salvini - che i tempi siano finalmente maturi, anche nella coscienza dell’opinione pubblica, per mettere mano a un settore vitale per la nostra democrazia e che non può più andare avanti come se nulla fosse”. “Propongo a Di Maio un impegno per sostenere i referendum che la Lega e il Partito radicale stanno preparando: mirano prima di tutto a restituire ai magistrati indipendenza” propone Salvini. “L’obiettivo non è indebolire il governo, come ha erroneamente detto qualcuno dalle parti del Pd, ma rafforzarlo. Offrendo il sostegno popolare per alcune riforme che il solo Parlamento potrebbe faticare a concretizzare. Sarebbe un passo verso un’Italia più civile e democratica, dove tutti i cittadini sono davvero uguali davanti alla legge”. “La conversione di Di Maio? Contano i fatti concreti. Voteranno i nostri emendamenti sulla presunzione d’innocenza, contro il processo mediatico, per evitare le conferenze stampa dei Pm con proiezione di video e nomi assegnati alle inchieste? Voteranno per l’oblio in rete per gli assolti, per il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare e delle intercettazioni? Voteranno per l’estensione del segreto istruttorio? Sono tutte proposte per combattere la gogna mediatica. Se le voteranno potremo dire che sono credibili”, chiosa in una nota Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia di Azione. Caso Uggetti, il “mea culpa” di Di Maio anticipa Conte e spiazza il M5S di Matteo Pucciarelli La Repubblica, 30 maggio 2021 Il ministro fa tutto da solo e si muove come fosse ancora leader del Movimento. Malumori fra i parlamentari grillini: “La questione morale resti una priorità”. Buffagni propone di candidare l’ex sindaco di Lodi nel collegio di Siena lasciato libero da Pier Carlo Padoan. Quando ha cominciato a girare nelle rassegne stampa e poi via via nelle chat di Whatsapp l’intervento di Luigi Di Maio al Foglio con le scuse all’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti assolto in appello da una condanna per turbativa d’asta, in più d’uno nel M5S è sobbalzato sulla sedia. Per almeno tre ragioni: il mea culpa in sé, che di fatto abiura a idee e retoriche che hanno fatto la fortuna stessa del Movimento; il fatto che non fosse stato concordato con nessuno, neanche con Giuseppe Conte: una iniziativa spontanea quindi, su un tema così delicato; infine la scelta del quotidiano, mai tenero con il M5S, contraltare iper-garantista al fiancheggiatore Fatto Quotidiano, arena di nicchia post-berlusconiana dove quel che i 5 Stelle avrebbero definito “sistema” si parla, si confronta, prefigura scenari e convergenze. Non a caso le prime felicitazioni per la virata a 180 gradi sono state quelle del mondo (ex?) renziano dentro al Pd, poi di esponenti di Italia Viva e Forza Italia. Nel silenzio generale dei colleghi di partito. A quel punto c’è stato un coordinamento tra la comunicazione dei gruppi parlamentari e il capo politico in pectore dei 5 Stelle. Suddividendosi il lavoro. Da una parte Conte ha confermato l’impostazione del ministro degli Esteri, capovolgendone il punto di vista: è Di Maio che aderisce alle idee di Conte, non il contrario. Le parole di Di Maio sono in linea “con la Carta dei principi e dei valori del neo-Movimento 5 Stelle, a cui ho lavorato nelle scorse settimane”, le parole dell’ex presidente del Consiglio. Nessuna fuga in avanti di Di Maio insomma. Resta però un dato politico che i più avveduti non fanno finta di non aver compreso: il ministro, prendendosi questa libertà e questo spazio su un argomento così identitario, ha costretto il capo a intervenire. Un segnale, per molti, perché la vacatio ormai dura da tre mesi e il vuoto di potere dentro il M5S comincia a diventare ingovernabile. “Conte fa riferimento a questa ‘Carta dei principi’, qualcuno per caso l’ha vista, l’ha letta? Non mi risulta”, spiega un esponente dei 5 Stelle. I contiani di stretta osservanza gettano acqua sul fuoco: l’impostazione “garantista” di Conte era stata esplicitata in assemblea con i parlamentari diverso tempo fa. Peraltro lo stesso Conte non porta su di sé responsabilità rispetto ai toni del passato. Sulla questione specifica in sé, invece, deputati e senatori fanno da contraltare. Ovvero, va bene chiedere scusa a Simone Uggetti, ma ora il resto della politica faccia lo stesso con Virginia Raggi, la sindaca di Roma assolta definitivamente sull’inchiesta nomine in Campidoglio due giorni fa, “vittima del fango mediatico”. E comunque in generale “la questione morale resti una priorità”. In questo clima di pacificazione politica, che a parecchi non piace - “se diventiamo uguali a Forza Italia, cosa ci facciamo dentro il Movimento?”, si domanda un altro parlamentare? - ma a diversi altri sì, c’è chi propone un clamoroso calumet, come fa Stefano Buffagni: candidare Uggetti nel collegio di Siena lasciato libero da Pier Carlo Padoan, ovviamente a suggello dell’alleanza fra 5 Stelle e Pd. Il M5S ignora Di Maio e avverte: sulla prescrizione non arretriamo di Emilio Pucci Il Messaggero, 30 maggio 2021 Per capire il rapporto causa-effetto dopo la conversione garantista di Luigi Di Maio sul caso Uggetti, il sindaco piddino di Lodi assolto con le pubbliche scuse del ministro della Giustizia per l’atteggiamento assunto da M5s nei suoi confronti, andrà monitorata la trattativa sulla riforma del processo penale. Il centrodestra e il Pd si aspettano ora un ammorbidimento delle posizioni da parte dei pentastellati. Ma per M5S la riforma della prescrizione resta l’ultimo baluardo da difendere. Il comandamento è portare il treno in stazione, ottenere una mediazione alta. È giusto abbassare i toni per evitare le gogne mediatiche, pensare anche ad una riparazione del danno per chi emerge vincitore dall’inferno del processo, ma - questa la linea del Movimento - “noi siamo nel governo per difendere il testo Bonafede, non possiamo accettare una Caporetto su questo punto”. Nell’ultimo incontro avuto con la ministra della Giustizia M5S ha deciso di portare avanti una strategia collaborativa, in attesa che l’esecutivo porti in Parlamento le proprie proposte. L’obiettivo comune è quello di accorciare i tempi dei processi ma il no M5S al ritorno alla riforma Orlando è netto. L’orientamento della Commissione del dicastero di via Arenula prevede lo stop alla prescrizione per due anni alla fine del primo grado ma se l’appello dura più di 24 mesi la prescrizione riparte e si recupera il tempo perso. “Perché legare - spiega un big M5S - le dichiarazioni di Di Maio con le nostre battaglie? Non c’è correlazione”. È vero che la questione è anche politica, “il responsabile della Farnesina- argomentano in tanti nel Movimento - ha voluto mandare un messaggio a Conte, per fargli capire che aspetta ancora un po’ altrimenti si riprende la leadership, qui non troverà più nulla”. Ma è evidente che ora fioccheranno le trappole in Parlamento. “Contano i fatti”, dice per esempio il deputato di Azione, Enrico Costa. “M5S voterà - si chiede - i nostri emendamenti sulla presunzione d’innocenza, contro il processo mediatico, per evitare le conferenze stampa dei pm con proiezione di video e nomi assegnati alle inchieste? Voterà per l’oblio in rete per gli assolti, per il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare e delle intercettazioni e per l’estensione del segreto istruttorio?”. La tensione insomma resta. “Sono ottimista - dice il senatore Mirabelli, capogruppo Pd in Commissione al Senato. È finito il tempo degli scontri ideologici”. La prova ci sarà più avanti. In teoria l’approdo nell’Aula della Camera della riforma del processo penale è previsto per il 25 giugno. Ma nella maggioranza non si esclude un rinvio. Cartabia in ogni caso vorrebbe il primo passaggio a Montecitorio prima dell’estate. Per dare un segnale chiaro della necessità di rispondere alle attese dell’Europa. La settimana prossima in Commissione giustizia sono previste solo audizioni, il governo non depositerà ancora gli emendamenti. Anche sulla riforma del Csm si è deciso di prendere altro tempo. Inoltre l’esecutivo non ha ancora depositato gli emendamenti al Senato sulla riforma del processo civile, anche se sono pronti da diverse settimane per motivi legati alla copertura finanziaria. Giustizia, Salvini sfida Di Maio: “Bene la svolta garantista, ora firmi il referendum” di Claudio Bozza Corriere della Sera, 30 maggio 2021 Dopo le scuse del ministro M5S al sindaco Uggetti (Pd) per la “gogna”, secondo round su Il Foglio: “Luigi sostenga la consultazione per riformare la giustizia assieme a noi e radicali”. La svolta garantista di Luigi Di Maio innesca un duplice effetto politico: da una parte avvia la conta interna tra la vecchia guardia giustizialista grillina e i governisti; dall’altra riaccende gli animi sulla riforma della giustizia. Le scuse (presentate con una lettera a Il Foglio) per la gogna riservata nel 2016 all’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti (Pd) segnano, insomma, uno spartiacque storico nel M5S, avviando un profondo lifting in vista delle alleanze (con il Pd e non solo) per le Amministrative ormai alle porte. Se la mossa del ministro degli Esteri è piaciuta all’ex premier Conte, sul fronte opposto pesa il silenzio, gelido, degli ortodossi. Uscendo dal recinto grillino, registrato il mea culpa di Di Maio, sempre tramite le pagine de Il Foglio, Matteo Salvini invita il ministro M5S, come passo conseguente, a procedere con la riforma della giustizia, ma non nella sede parlamentare, come aveva esortato a fare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, bensì sostenendo i referendum sulla giustizia che Lega e Partito Radicale lanceranno la prossima settimana. E Salvini invita pure lo stesso Uggetti a sostenere la stessa consultazione. Una vera e propria sfida, quella avviata dal leader della Lega, che preoccupa le altre forze della maggioranza, con il segretario del Pd Enrico Letta che - pur tenendo le redini del dialogo - chiede piuttosto di “aiutare” la Guardasigilli Marta Cartabia a portare avanti la mediazione con il Parlamento. “Credo - dice però Salvini - che i tempi siano finalmente maturi per mettere mano a un settore vitale per la nostra democrazia e che non può più andare avanti come se nulla fosse”. Un impegno in sede di commissione Giustizia della Camera dove si sta affrontando la riforma del processo penale? Non proprio, visto l’invito di Salvini: “Propongo a Di Maio di sostenere i referendum che la Lega e il Partito Radicale stanno preparando: mirano prima di tutto a restituire ai magistrati indipendenza”. E tra questi c’è quello sulla separazione delle carriere, che però non è nell’agenda della ministra Cartabia, più impegnata semmai con la riforma del Csm. Dal Nazareno filtra intanto preoccupazione. Perché il segretario Letta, pur dicendo di aver “molto apprezzato” la svolta garantista di Di Maio, rilancia la necessità di sostenere Cartabia a portare avanti la riforma incardinata: “Dobbiamo superare l’attuale sistema di autogoverno della magistratura, che non significa minare l’autonomia delle toghe, ma rafforzarla”. E riguardo i roventi rapporti con il Carroccio: “Ho trovato un volto vero in Salvini, tutt’altro che finto - conclude il leader dem -. In politica ci sono molte maschere, è vero. Con lui ho rapporti franchi, sappiamo che rappresentiamo due Italie diverse e contrapposte, ma tutti e due sappiamo che abbiamo una grande responsabilità nella gestione del Recovery”. “Da Lattanzi ipotesi equilibrata sulle priorità per i pm nell’azione penale” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 30 maggio 2021 Parla il costituzionalista Stefano Ceccanti: “È una soluzione a doppia chiave: una spetta al Parlamento in dialogo col Csm e la seconda spetta agli uffici giudiziari”. Con la consegna alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, della relazione finale redatta dalla Commissione di studi sul processo penale e sulla prescrizione del reato si è aperto il dibattito tra i giuristi e tra i parlamentari su quella che potrebbe essere la giustizia penale. Sarà adesso la Guardasigilli a valutare le conclusioni alle quali sono giunti Giorgio Lattanzi, presidente della Commissione tecnica e presidente emerito della Corte costituzionale, con gli altri esperti nominati lo scorso 16 marzo. Gli spunti di riflessione sono innumerevoli. La relazione di 76 pagine porterà alla presentazione da parte della ministra Cartabia degli emendamenti governativi al disegno di legge che mira a rendere più efficiente il processo penale e a definire più velocemente i procedimenti giudiziari prendenti davanti alle Corti di appello. L’articolo 3 della relazione finale, in materia di indagini preliminari e udienza preliminare, attribuisce al Parlamento un ruolo rilevante. Avrà, infatti, il compito di determinare periodicamente, anche sulla base di una relazione presentata dal Consiglio superiore della magistratura, i criteri generali necessari a garantire efficacia e uniformità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi. È previsto, inoltre, che, nell’ambito dei criteri generali adottati dal Parlamento, gli uffici giudiziari, previa interlocuzione tra uffici requirenti e giudicanti, “predispongano i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi”. Tutto ciò tenuto conto della specifica realtà criminale e territoriale, nonché del numero degli affari e delle risorse disponibili. Dunque, le singole realtà giudiziarie - e le condizioni in cui versano - verranno direttamente connesse alle Camere. Abbiamo interpellato il costituzionalista Stefano Ceccanti, che è anche deputato del Pd, per conoscere il suo punto di vista rispetto a quanto appena partorito dalla commissione Lattanzi. “Ragionando da costituzionalista - dice al Dubbio Ceccanti - e non tanto da tecnico della materia, la proposta sull’azione penale mi sembra ragionevole in termini di modello. Sono largamente in sintonia con il commento di Vladimiro Zagrebelsky. È una soluzione a doppia chiave, per così dire. Una spetta al Parlamento in dialogo col Csm, perché in effetti alcuni profili richiamano una responsabilità politica, però esso non può esser l’unico attore, altrimenti tutto ricadrebbe, comunque, anche senza dare prerogative esplicite al Governo su una maggioranza politica pro tempore. La seconda spetta agli uffici giudiziari, che però agiscono dentro un quadro, non sono sovrani. Si tratta quindi di una logica di opportuna corresponsabilità”. Le conclusioni alle quali è giunta la Commissione istituita dalla ministra Cartabia convincono Ceccanti per il modus operandi dal quale sono scaturite proposte dettate da equilibrio. “Una soluzione tutta spostata sulla politica - prosegue - andrebbe in tensione con gli articoli 101 e 104 della Costituzione, ossia con la soggezione del giudice solo alla legge e con l’autonomia della magistratura, mentre una tutta spostata sul giudiziario finirebbe per ratificare non un’autonomia, ma una discrezionalità sovrana che scardinerebbe la logica dell’equilibrio dei poteri”. Il modello proposto dalla commissione Lattanzi è perfettibile, per questo saranno preziose le valutazioni finali che verranno formulate dalla Guardasigilli. A tal riguardo l’onorevole Ceccanti si pone pure degli interrogativi. “Ovviamente - evidenzia - una volta vista la positività del modello ci possono essere problemi nel modello per garantire anche al suo interno, nelle conseguenze pratiche, l’equilibrio promesso. Il primo è che partecipano alla decisione gli uffici requirenti e quelli giudicanti. Possono essere considerati un unico potere, anche a questo fine? Il secondo, più importante, è sui meccanismi di responsabilizzazione. Al momento non mi è chiaro cosa succede se le procure non dovessero attuare gli indirizzi. Cosa succederà? Può essere considerata sufficiente la responsabilità disciplinare da parte del Csm?”. “Attenti a limitare l’appello dell’imputato: tante condanne vengono ribaltate” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 maggio 2021 Intervista a Cesare Mirabelli, giurista e presidente emerito della Corte costituzionale, che non condivide la parte della proposta sul processo penale elaborata dalla commissione Lattanzi in cui si ipotizza, per il giudizio di secondo grado, una sorta di vaglio preliminare di ammissibilità dei motivi. Per Cesare Mirabelli, giurista e presidente emerito della Corte costituzionale, “l’appello è una garanzia forte per l’imputato”: non condivide dunque la parte della proposta sul processo penale elaborata dalla commissione guidata da Giorgio Lattanzi in cui si ipotizza, per il giudizio di secondo grado, una sorta di vaglio preliminare di ammissibilità dei motivi. Presidente, che giudizio dà complessivamente della proposta di riforma? Positivo, si coglie l’idea di semplificazione e di ricerca di maggiore efficienza. Vedremo poi l’implementazione di queste indicazioni. Quindi non condivide il pensiero di Nordio per cui la riforma sarebbe troppo timida, in quanto non tocca nodi centrali come la separazione delle carriere? Ogni riforma può essere più incisiva. Ci sono aspetti di forte carattere politico e altri più tecnici. Ho l’impressione che la commissione si sia mossa più su questo secondo versante. In un altro punto della relazione si ipotizza di modificare la regola di giudizio per la richiesta di archiviazione, prevedendo che il pm chieda l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini non sono tali da determinare la condanna... In generale la fase delle indagini è quella clamorosamente presente nell’attenzione dell’opinione pubblica: quanti conoscono i nomi dei giudici che emettono le sentenze e quanti invece quelli dei pm che avviano l’iniziativa penale? In merito alla sua domanda, sono d’accordo con la proposta perché occorre una deflazione processuale, evitando di intasare il sistema con azioni penali non sostenute da elementi che ci si attende possano ragionevolmente portare ad una condanna. Torna anche il tema dell’obbligatorietà dell’azione penale: “Le valutazioni di politica criminale non possono che essere affidate al Parlamento, si prevede che sia tale organo a stabilire, periodicamente (al legislatore delegato l’onere di indicare il periodo), i criteri generali necessari a garantire efficacia e uniformità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi, facendo riferimento anche ad un’apposita relazione del Csm”... L’obbligatorietà dell’azione penale apre in realtà ad un largo margine di discrezionalità nella selezione o nell’impegno nelle indagini da effettuare. Non può divenire lo strumento che giustifica non già l’obbligo di indagini per verificare la notizia di reato, bensì la ricerca a scandaglio di possibili reati, che è prassi purtroppo diffusa. Questo è un elemento distorsivo. Venendo al merito della proposta, rilevo anzitutto che non può essere il Csm, le cui funzioni sono quelle stabilite dalla Costituzione, a decidere i criteri per l’esercizio dell’azione penale. Deve essere solo il Parlamento, attraverso una legge che determini i criteri generali e uniformi in maniera permanente, e non con un atto di indirizzo alla giurisdizione, che potrebbe essere improprio. Sui criteri: va evitata una sorta di depenalizzazione implicita, che di fatto escluda o sospenda la punibilità di alcuni tipi di reato. Non ci può essere la rinuncia dello Stato a perseguire condotte che ha qualificato come reato. Sarebbe piuttosto opportuna una depenalizzazione sostanziale. Non ci può essere neanche una diversità di criteri per i diversi territori. Di fatto alcuni reati verrebbero perseguiti o meno a seconda del luogo dove sono stati commessi e sarebbe leso il principio di eguaglianza. I criteri potrebbero riguardare l’ordine di trattazione dei processi, trascurando sin dalla fase iniziale quelli che prevedibilmente si concluderebbero con una pronuncia di prescrizione. Un altro nodo intricato riguarda la riforma dell’appello: si va verso una profonda e organica riforma del sistema delle impugnazioni... L’appello in generale è una garanzia. Io sono d’accordo sul fatto che si possa prevedere una limitazione all’impugnazione del pm qualora la sua domanda di punizione sia stata pur parzialmente accolta. Un appello solo per rideterminare la pena al rialzo o per contestare la derubricazione del reato mi sembrerebbe fuori luogo. Il nodo però riguarda l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Se si considera che vi possa essere condanna solo quando la colpevolezza dell’imputato è provata “al di là di ogni ragionevole dubbio”, si dovrebbe ritenere che, se il giudice di primo grado ha assolto, quantomeno c’è un dubbio ragionevole sulla responsabilità dell’imputato. Tuttavia l’esperienza concreta ci mostra che diverse volte si arriva alla condanna in virtù di un ribaltamento del giudizio in appello, o addirittura dopo la decisione della Cassazione. Sarebbe opportuno avere una analisi dei dati: conoscere il numero delle impugnazioni dei pm nei confronti di sentenze di assoluzione e il numero di quelle che hanno trovato soddisfazione in appello. Non è un elemento decisivo ma può far capire quanto occorra una autovalutazione da parte dei pm per impugnare solamente quando vi siano le esigenze che portino ad un giudizio diverso. Direi che in generale occorra una riflessione più approfondita per determinare i motivi di appello per il pm. Mi chiedo se possa essere equilibrata una soluzione che limiti, con una operazione chirurgica, i motivi per i quali il pm può proporre appello. Condivide i timori dei penalisti secondo cui la direzione è quella di introdurre anche per il giudizio di secondo grado un principio di inammissibilità preventivamente valutato dal giudice di appello? Sarei favorevole a mantenere un’ampia possibilità di appello per la difesa. L’appello è una garanzia forte per l’imputato. Basti pensare a quante sentenze di condanna vengono poi ribaltate in appello. Poi, per quanto riguarda l’equilibrio tra le parti nel processo, occorre avere una visione complessiva e tener presente che esiste uno squilibrio tra la possenza dell’accusa per i mezzi dei quali dispone e la difesa, che spesso non ne ha proprio. Diciamo che la limitazione di appellabilità per il pm è stata controbilanciata, nella proposta Lattanzi, dai mezzi più limitati di cui gode la difesa... Con il rischio però che rendiamo la soluzione congegnata non adeguata né per il pm né per la difesa. Uno degli aspetti più importanti riguarda la prescrizione. Secondo fra le due proposte - “recupero ponderato” della legge Orlando o interruzione del decorso della prescrizione del reato dopo l’esercizio dell’azione penale, con estinzione del processo in caso di durata eccessiva di una sua singola fase - qual è più fattibile? La prescrizione è una regola di civiltà. Non si può rimanere imputato a vita, e una pena inflitta dopo moltissimi anni non avrebbe la finalità rieducativa che la Costituzione prevede. E poi non dimentichiamo che per alcuni reati di particolare gravità i tempi per arrivare alla prescrizione sono lunghissimi. A me pare che sia più lineare la prima proposta, mentre la seconda trasferisce sul piano processuale quello è che l’effetto sostanziale della prescrizione. L’ex ministro Bonafede sembra non voler cedere sulla prescrizione. L’attuale guardasigilli, in questo clima politico, riuscirà ad abbattere le ritrosie Credo che debba prevalere la complessiva ragionevolezza e occorra abbandonare posizioni “non negoziabili”. Bisogna innanzitutto valutare cosa risponda meglio ai principi costituzionali e poi cosa garantisce una efficacia del processo di cui abbiamo necessità ed urgenza. Mi pare quindi che la soluzione prospettata dalla commissione sia equilibrata e ragionevole. Si torna a parlare di valutazione professionale dei magistrati: il sistema andrebbe riformato? In tutte le amministrazioni le valutazioni di professionalità sono assai scarse; esiste un vizio diffuso. Si potrebbe avere nel settore giustizia una migliore valutazione che tenga conto di dati sintomatici quantitativi e qualitativi. I primi potrebbero riguardare la laboriosità ponderata in base al peso dei procedimenti che si seguono; i secondi potrebbero essere espressi in parte da quante decisioni sono riformate in ulteriori gradi di giudizio o da quante iniziative penali sono smentite in giudizio. Campania. Ciambriello: “In carcere il benessere di ciascuno alimenta quello di tutti” di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 30 maggio 2021 I detenuti vaccinati in Campania ad oggi sono 4.848 su una popolazione di 6.570. “Il carcere è una comunità dolente che accomuna agenti, operatori, volontari e ristretti, spesso in grado di insegnare a chi sta fuori senso di sacrificio, responsabilità e speranza di riscatto. È un luogo di comunità nel quale il benessere di ciascuno alimenta quello di tutti. Se c’è una storia che abbiamo imparato dalla pandemia è che la storia di ciascuno non può prescindere dalla storia di tutti”, così Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti che poi snocciola i dati dei detenuti vaccinati in Campania. I detenuti vaccinati in Campania ad oggi sono 4848 su una popolazione di 6570. Si sono vaccinati anche 33 giovani di Nisida ed Airola e 52 su 54 detenuti del carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. E poi 31internati delle Rems di Calvi Risorta e San Nicola Baronia A Poggioreale 1143 detenuti su 2124, a Secondigliano 973 su 1082, al carcere femminile di Pozzuoli 132 detenute su 144. Ed ancora al carcere di Benevento 305 detenuti su 352, ad Avellino 383 su 430, mentre a Salerno 259 su 401e a santa Maria Capua Vetere 799 detenuti su 928. Il garante Ciambriello così conclude:” Sono grato alle strutture sanitarie per il lavoro che hanno fatto e stanno facendo, anche utilizzando il codice Stp (stranieri temporaneamente presenti) per far vaccinare tantissimi immigrati e tanti detenuti senza documenti, presenti nelle carceri. Le clausure imposte dal Covid-19 hanno alimentato nelle carceri ansie, paure, forme di autolesionismo. Ne esce fuori un mondo molto spesso dimenticato, a volte rimosso, forse considerato marginale, ma che a ben pensarci rappresenta lo specchio dei vizi e delle virtù della nostra società”. Genova. Morto in carcere: suicidio o omicidio? La verità dall’autopsia di Michele Varì primocanale.it, 30 maggio 2021 Sangue su uno sgabello e su una maglietta, una ferita alla testa. Sono le anomalie di un suicidio per impiccagione avvenuto nel carcere genovese di Marassi che potrebbe nascondere un omicidio volontario. È l’ipotesi di accusa con cui il pubblico ministero della procura di Genova di Giuseppe Longo ha avviato le indagini sulla morte violenta in cella di Emanuele Polizzi, 45 anni. L’uomo era arrivato a Genova tanti anni fa da Vittoria (Ragusa) per fare l’operaio ai cantieri navali di Sestri Ponente, ma poi era finito in brutti giri: l’ultimo di una lunga serie di arresti a fine 2019 per una rapina a sprangate al titolare di una sala giochi che stava rientrando a casa, a San Teodoro, con l’incasso. Un’aggressione commessa insieme un complice albanese poi sparito dall’Italia. Polizzi è stato incastrato dalle impronte nel portone dell’aggressione e dalle telecamere che hanno filmato il suo furgone ed è stato condannato a 10 anni: lui non si aspettava una pena così pesante, per questo era depresso e il suo avvocato Silene Marocco aveva chiesto e ottenuto che fosse tenuto d’occhio da uno psicologo. Per il dirigente della squadra mobile Stefano Signoretti non si può escludere che possa essersi ucciso, ma quelle due macchie di sangue e la ferita alla testa avvallano l’ipotesi dell’omicidio. Perché la morte per impiccagione non lascia ferite o tracce di sangue. Sott’accusa potrebbero finire i due detenuti, due italiani, che lo hanno trovato senza vita nell’antibagno della cella. La soluzione del giallo lunedì pomeriggio con l’esito dell’autopsia che svelerà se Polizzi è morto perché si è impiccato o se invece è stato ucciso. Genova. Si tinge di giallo la morte di un detenuto a Marassi di Tommaso Fregatti Il Secolo XIX, 30 maggio 2021 Sulle mani della vittima tracce di lotta. Detenuto morto a Marassi, interrogati i quattro compagni di cella: “Stavamo dormendo”. Sotto analisi la maglia sporca di sangue. Sulle mani di Emanuele P., il detenuto di 41 anni trovato impiccato venerdì mattina in circostanze misteriose all’interno della sua cella della seconda sezione del carcere di Marassi, sono stati trovati lividi, traumi e ferite. Compatibili, viene evidenziato in una nota interna, “con segni di colluttazione”. Ma non solo. I quattro detenuti che si trovavano nella cella stessa al momento della morte di Emanuele (due erano usciti per andare a lavorare), interrogati a lungo dalla sezione omicidi della squadra mobile non hanno certo collaborato alle indagini. E hanno detto “di non aver visto e sentito nulla venerdì mattina”. Nonostante il corpo dell’uomo sia stato trovato accanto al suo letto a castello a pochi metri di distanza da loro. “Stavamo dormendo”, è la loro versione, ribadita ai detective della Questura da tutti e quattro. Atteggiamento omertoso quantomeno sospetto secondo gli investigatori. Visto che, secondo il medico legale, Emanuele P. si è tolto la vita intorno alle nove del mattino e un agente della polizia penitenziaria ha messo a verbale di averlo visto “in vita almeno alle 8.45”. A quell’ora è difficile ipotizzare che tutti stessero dormendo e non abbiano visto o sentito nulla. E ancora. Durante il sopralluogo nella cella, la squadra mobile oltre allo sgabello insanguinato ha trovato la maglietta di Emanuele sporca di sangue e nascosta in fretta e furia in un sacco di biancheria. E altra sostanza ematica sulle lenzuola ma non ne ha rinvenuto invece nessuna traccia sulle braccia o sulle mani della vittima. Insomma, come avrebbe potuto compiere un atto di autolesionismo Emanuele senza sporcarsi di sangue? Si chiedono gli investigatori. Spuntano, dunque, altri elementi dalle carte dell’inchiesta che spostano l’asse degli accertamenti verso l’omicidio allontanando l’ipotesi del suicidio. L’autopsia sul corpo della vittima (prevista per lunedì mattina e affidata al medico legale Sara Lo Pinto), dovrà stabilire dire se Emanuele P. abbia perso o meno conoscenza dopo il colpo alla testa. Per non lasciare nulla al caso, il sostituto procuratore Giuseppe Longo, di concerto con il procuratore capo Francesco Cozzi, dopo aver aperto un’inchiesta per omicidio volontario, ha firmato un ordine di sequestro della cella dove è avvenuta la tragedia. Questo per permettere nelle prossime ore di svolgere un importante esame di polizia scientifica. E si tratta dell’esame del luminol. “Occorre rendere buio tutto l’ambiente, utilizzare una speciale colla e con luci particolari si riescono a trovare le tracce di sangue” spiega al Secolo XIX una qualificata fonte della polizia scientifica. Questo accertamento insieme all’esame autoptico dovrebbe permettere di chiudere il cerchio. Anche perché il vantaggio negli inquirenti in questo caso sta nel fatto di avere già sia il dna dei quattro detenuti che le loro impronte digitali. Si tratta di una schedatura che viene effettuata su tutti i detenuti. Insomma, nelle prossime ore l’auspicio è quello di capire con certezza cosa sia avvenuto nella cella del carcere di Marassi e se si sia trattato di un omicidio oppure di un suicidio. Emanuele P., condannato a dieci anni di reclusione per aver compiuto una rapina ai danni di un commerciante in un portone nel centro di Genova, era molto preoccupato per il processo di appello che avrebbe dovuto cominciare nelle prossime settimane. In carcere dopo la condanna di primo grado dall’ottobre del 2019, voleva uscire per vedere le due figlie alle quali era molto legato. Proprio a causa dello stato emotivo di Emanuele, il suo legale Silene Marocco aveva chiesto nelle scorse settimane che il detenuto venisse seguito da uno psicologo. Erano così cominciati una serie di colloqui che avevano migliorato lo stato di salute psicofisica di Emanuele. “Lo avevo trovato meglio rispetto al passato - ha spiegato al Secolo XIX l’avvocato - tanto che ci eravamo dati appuntamento la mattina della tragedia per incontrarci e preparare l’udienza. Ma quando sono arrivata in carcere mi hanno detto che era successa una disgrazia e il cliente era morto”. Emanuele P., già noto alle forze dell’ordine per reati contro il patrimonio, lavorava come artigiano nel campo della compravendita dei metalli. Napoli. Poggioreale, detenuto 30enne si impicca in cella con un cappio di stracci di Rossella Grasso Il Riformista, 30 maggio 2021 Subito dopo l’ora d’aria è tornato nella sua cella e si è tolto la vita. Aveva solo 30 anni ed era detenuto nel carcere di Poggioreale di Napoli. Il giovane ha raccolto gli stracci che aveva in cella e li ha arrotolati fino a creare un cappio che poi ha attaccato alla finestra. A darne annuncio è stato l’Osapp, il sindacato autonomo della Polizia penitenziaria. Inutile è stato il tentativo di salvataggio da parte del poliziotto della penitenziaria di turno che insospettito da rumori è corso nella cella per vedere cosa fosse successo. L’ennesima tragedia che si perpetra nelle carceri. Nel 2020 altri otto detenuti si siano tolti la vita nelle carceri campane, due dei quali a Poggioreale e uno a Secondigliano; in totale, però, le persone che hanno tentato di togliersi la vita sono state addirittura 47, di cui 33 a Poggioreale e 14 a Secondigliano. “Tra le problematiche del carcere di Poggioreale - afferma il segretario regionale dell’Osapp Vincenzo Palmieri - vi è la forte carenza di organico più volte segnalata. Mancano. rispetto alle piante organiche oltre 200 unità di Polizia Penitenziaria, manca personale amministrativo del comparto funzioni centrali, mancano psicologi ed altre figure professionali e pedagogiche idonee a gestire una popolazione detenuta così vasta”. Busto Arsizio. Venti detenuti positivi al virus di Sarah Crespi La Prealpina, 30 maggio 2021 Subito trasferiti d’urgenza a San Vittore. In settimana nuova tornata di tamponi a tappeto. Ormai è conclamato. In carcere è arrivata la quarta ondata di Covid-19, il focolaio è esploso e con esso anche la tensione tra i detenuti. Venti, tutti della quarta sezione, quelli risultati positivi al tampone. Un numero preoccupante tanto che la direzione ha deciso di prendere subito il provvedimento più drastico: trasferirli in blocco nel penitenziario di San Vittore, a Milano, dove nei mesi scorsi era stata predisposta l’area dedicata ai contagiati. L’operazione è stata quasi immediata. Poco prima delle 15 il pullman della polizia penitenziaria era già pronto nel piazzale interno della casa circondariale, ma il clima era davvero pesante anche perché quando si vive in reclusione ogni pretesto diventa buono per sollevare una rivolta: dalle celle risuonavano urla e invettive, il personale della polpen si è preparato per fronteggiare gli elementi più instabili e irascibili (“si sono messi i guanti”, gira voce e in genere è una cautela che non lascia presagire niente di buono), in supporto sono arrivati i colleghi di altri penitenziari. Insomma una mattinata difficile, anche se gestita senza che il controllo sfuggisse di mano a nessuno, con strascichi organizzativi e logistici per tutta la giornata. Cosa succederà ora? Ripartiranno con ogni probabilità le restrizioni in vigore durante la fase di massima emergenza sanitaria. Quarantena per gli ospiti sani con l’obbligo di effettuare il doppio test a distanza di quindici giorni, colloqui con i parenti (che erano ripresi da pochi giorni anche se non a pieno regime) sospesi, inaccessibili gli spazi comuni, quelli del passeggio, quelli delle attività ricreative e rieducative. Da lunedì tutto il personale che gravita nell’ambiente carcerario verrà sottoposto all’esame del “cotton-fioc”, dagli amministrativi ai volontari, passando per poliziotti e cappellano. Rigidi controlli per i pochi che avranno l’autorizzazione all’ingresso. Capire per arginare - Non è semplice risalire all’untore e individuarlo non equivale a una caccia alle streghe. Significa evitare che via per Cassano si trasformi in un lazzaretto. Mercoledì, quando la notizia è trapelata, sembrava che l’infezione potesse essere riconducibile a un ospite uscito per un permesso e rientrato malato. Ma l’uomo è stato subito messo in isolamento e quindi non dovrebbe essere lui il veicolo. Sta di fatto che un paio di giorni dopo un detenuto che il mondo esterno non lo vede da tempo e che quindi non può aver importato il Covid dietro le sbarre, ha iniziato ad avvertire i sintomi tipici del coronavirus e ha domandato lui stesso un tampone di verifica. Era positivo e con lui altri diciannove concellini. L’unica spiegazione è che il contagio sia avvenuto per il tramite di un esterno che in via per Cassano entra per lavorare. Settimana scorsa, a quanto pare, un agente è risultato malato. Quale che sia il mezzo di diffusione, resta da capire quali misure adottare per evitare che l’epidemia prenda il sopravvento in un ambiente già di per sé ammorbante. Pordenone. La Casa di accoglienza “Oasi 2” accoglie e aiuta gli ex carcerati Il Gazzettino, 30 maggio 2021 Un piatto, un tetto e lavoro per riconciliarsi con la vita. La generosità di Claudia Francardi e Irene Sisi ha segnato il senso dell’apertura della Casa d’accoglienza Oasi 2, in via Seduzza, quasi sette anni fa. Claudia è la vedova dell’appuntato Antonio Santarelli. Nel 2011 una pattuglia di carabinieri fermò alcuni ragazzi che stavano andando a un rave party, in provincia di Grosseto. Mentre controllavano i documenti, uno di loro ha preso un bastone, ha colpito i due carabinieri ed è scappato. Antonio, il marito di Claudia, è morto dopo un anno di coma. Nel frattempo è stato individuato il responsabile di quell’atto così violento, un ragazzo giovanissimo, Matteo Gorelli, che fu arrestato, processato e condannato all’ergastolo; la pena all’appello è stata ridotta a vent’anni. Irene è, invece, proprio la madre di Matteo. Fu un evento testimonianza di giustizia riconciliativa. Le due mamme si cercarono, si incontrarono e si sentirono capaci di condividere la loro storia di ascolto vicendevole e di sintonia spirituale. In noi c’era il bisogno di “sentire” come sia stata possibile, e lo possa essere ancora, un’esperienza di riconciliazione e perdono così importante: una giustizia riconciliativa, quindi, e non solo punitiva. Per questo stava nascendo a Cordenons la Casa di Accoglienza Oasi 2, per imparare a ricomporre esistenze sconvolte, dal punto di vista individuale e sociale. Oggi sono 5 gli “ospiti”, ma presto saranno 8. Una provvidenziale collaborazione e intesa con Sandro Castellari, responsabile della Coop Oasi e iniziatore dei processi di accoglienza e reinserimento sociale, rende possibile ravviamento, nel mondo del lavoro, delle persone accolte all’Oasi 2. Lo slogan di Sandro è “dare un piatto, un tetto e un lavoro”. Il vescovo, Giuseppe Pellegrini, oltre a incoraggiare questi progetti, ne è un fervente sostenitore: “Invito le parrocchie e le persone di buona volontà a guardare con delicata attenzione e ragionevole speranza a queste iniziative”. L’Oasi 2 ha bisogno attualmente di una lavatrice, se non nuova, usata e in buono stato, e di un box metallico per custodire gli attrezzi da lavoro. Il riferimento per eventuali donazioni è don Piergiorgio Rigolo, cappellano del carcere e responsabile dell’Oasi 2, che risponde al numero 335.1874835. Lecce. Un patto per la legalità e per superare il disagio giovanile lecceprima.it, 30 maggio 2021 L’accordo tra il Comune di Nardò e i servizi della Giustizia Minorile di Lecce sarà sottoscritto lunedì alle 12.30 in municipio. Diverse le iniziative e le attività previste su un fronte molto delicato. Combattere il disagio giovanile: è questo l’obiettivo del Comune di Nardò e dei servizi della Giustizia Minorile di Lecce (Ufficio di Servizio Sociale Minorenni e Centro di Prima Accoglienza - Centro Diurno Polifunzionale di Lecce) che lunedì sottoscriveranno un accordo operativo di collaborazione, finalizzato a rispondere al bisogno di legalità e al disagio sociale delle fasce giovanili correlate a forme di devianza, dando concretezza a strategie e azioni condivise, implementando la cultura del dialogo, della cittadinanza attiva e della convivenza civile e democratica. L’accordo sarà siglato presso la sede del Comune alle 12:30 dal sindaco Pippi Mellone, dall’assessora alle Politiche Sociali Maria Grazia Sodero, dalla direttrice dell’Ufficio di Servizio Sociale Minorenni Antonella Giurgola e dal direttore del Cpa-Cdp Pietro Sansò. L’intento è quello di rafforzare le azioni e le attività di sostegno ai giovani (anche minori) e alle famiglie, monitorando e prevenendo il disagio giovanile con il coinvolgimento di tutte le risorse presenti sul territorio, intercettandone contestualmente di nuove. Si procederà quindi ad istituire una sede recapito dei Servizi Minorili della Giustizia di Lecce (Ussm e Cdp) presso gli uffici del Comune di Nardò. Sarà costituita un’equipe locale per la rilevazione di bisogni e problematiche inerenti preadolescenti e adolescenti al fine di progettare efficaci attività congiunte di prevenzione dei fenomeni devianti. Si progetteranno attività di prevenzione dei fenomeni del bullismo e cyber-bullismo nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, anche attraverso l’istituzione di uno sportello di ascolto per segnalazione e richieste di aiuto. E ancora, saranno attivati percorsi di educazione alla legalità, rivolti a gruppi di minori in carico all’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni e al Centro Diurno Polifunzionale, sottoposti a percorsi di messa alla prova, condotti dalle figure professionali dei servizi coinvolti. Sarà valorizzata la prosecuzione della collaborazione già avviata e consolidata nel tempo per il trattamento dei minori in area penale esterna e delle loro famiglie. Il Comune di Nardò, in particolare potrà favorire il coinvolgimento nelle azioni proposte di giovani residenti nel comune, che necessitano di un supporto pedagogico. Altra attività di interesse condiviso sarà l’individuazione di spazi pubblici presenti sul territorio neretino da recuperare e valorizzare con una partecipazione attiva degli adolescenti a rischio di devianza. Le attività saranno quindi co-programmate e co-progettate, tenderanno allo scambio di risorse e competenze, al fine di creare percorsi educativi, di autonomia, responsabilizzazione civica, in un’ottica preventiva a favore dell’adolescenza a largo raggio. “Ci sono, anche nella nostra città, forme di devianza giovanile che poi portano a fenomeni illegali e a situazioni di disagio, di fronte alle quali sarà utilissima questa collaborazione. Parole d’ordine saranno “prevenzione” ed “educazione”, antidoti straordinari contro queste problematiche così delicate”, ha spiegato il sindaco Pippi Mellone. “Contro il disagio giovanile e tutto quello che comporta serve un lavoro di squadra e questa collaborazione sarà importantissima. Non è un fronte sul quale il Comune parte da zero, ma è evidente che la sinergia con i Servizi della Giustizia Minorile di Lecce può essere davvero decisiva”, ha dichiarato l’assessora Sodero. Cagliari. Laboratorio teatrale per gli ex detenuti: progetto del Cada Die col carcere di Uta sardiniapost.it, 30 maggio 2021 La compagnia Cada Die Teatro apre le porte della Vetreria di Pirri a ex detenuti che hanno da poco scontato la pena e che desiderano, anche attraverso il teatro, riprendere in mano i fili della loro vita sociale. Parte martedì primo giugno il nuovo laboratorio gratuito ideato e diretto dagli attori e registi Alessandro Mascia e Pierpaolo Piludu che, parallelamente alle esperienze artistiche vissute dentro le carceri (anche in questo anno di pandemia), hanno deciso di fare un passo ulteriore partendo da una semplice domanda “che ne sarà di loro finito il percorso detentivo?”. Si cercherà di favorire l’acquisizione di tecniche e competenze teatrali in un contesto protetto dove tutti potranno mettersi in gioco e dove verranno incentivati la collaborazione e l’ascolto reciproco. “Compagni di viaggio irrinunciabili per la realizzazione del progetto sono i docenti del Cpia 1 Karalis (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti di Cagliari), grazie ai quali sono coinvolti studenti e giovani e adulti che hanno avuto esperienze carcerarie, di affidamento, o che abbiano vissuto o vivano situazioni di particolare disagio - si legge in una nota -. Sarà fatta una selezione tra le domande dei partecipanti per un massimo di sette allievi. Se in questa prima fase gli incontri si svolgeranno a Pirri, da settembre ci si sposterà all’interno di un edificio scolastico dove opera il Cpia e si concluderà a dicembre con un saggio finale”. “Il laboratorio sarà incentrato su un testo inedito della scrittrice sarda d’origine danese d’adozione, Maria Giacobbe, che suggella una volta di più la collaborazione con i Cada Die - spiegano gli organizzatori -. Ci si concentrerà sulla realtà della Sardegna degli anni 60 e 70 quando, attraverso il Piano di Rinascita, venne finanziata l’industrializzazione dell’Isola e nacquero poli chimici e petrolchimici a Ottana, Porto Torres, Sarroch. In tanti si illusero che quei grandi investimenti sarebbe stati un’opportunità di crescita e di riscatto; altri, già da allora, temevano che un’improvvisa trasformazione della millenaria economia agropastorale in economia incentrata sul petrolio e i suoi derivati avrebbe avuto effetti devastanti sul territorio, sulla salute, sull’identità di un intero popolo”. “L’iniziativa si inserisce nel più ampio progetto nazionale “Per Aspera ad Astra-Come riconfigurare il carcere con la cultura e la bellezza”, giunto alla sua terza edizione, finanziato nell’Isola dalla Fondazione di Sardegna. L’idea promossa da Acri (associazione di Fondazioni e di Casse di risparmio) e sostenuta da 10 fondazioni bancarie, da 3 anni coinvolge circa 250 detenuti di 12 carceri italiane in percorsi di formazione artistica e professionale nei mestieri del teatro. In Sardegna è coinvolta la Casa Circondariale di Uta che ormai da diversi anni collabora con la compagnia cagliaritana. Prima di essere un diritto il lavoro è necessità. Immorale chi sfrutta di Roberto Saviano Corriere della Sera, 30 maggio 2021 La morte dell’operaia 22enne Luana D’Orzio, quelle di Christian, schiacciato da un tornio meccanico, e di Maurizio, colpito da una lastra di cemento armato, e tante altre. Vittime che devono spingerci a riflettere su quanto avevano scritto i padri costituenti, “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”: questo è l’inizio dell’inizio, il principio del principio, le prime parole dell’Articolo 1 della Costituzione italiana. Quante volte le avrete lette o sentite... Vi siete mai chiesti perché, proprio dove viene stabilita la forma di governo, troviamo l’inciso sul lavoro? Perché il lavoro è un diritto, certo, ma non è solo per dire questo che i padri costituenti hanno messo lì quell’inciso. Mi sono dato un’altra spiegazione. La forma più “naturale” di lavoro è lo sfruttamento, perché il lavoro, prima di essere un diritto, è da sempre soprattutto una necessità vitale. Quanto spazio esiste per chi approfitta di una necessità altrui? E quanto poco ne resta a chi è disposto a tutto pur di portare a casa uno stipendio? Vi sembrerà che io stia descrivendo realtà marginali, ma non è così. La pratica del lavoro è sottratta all’arbitrio da leggi che, se non vengono rispettate, riportano tutto a uno stato di natura più o meno evidente, una natura che è matrigna, fatta di sfruttati e di sfruttatori. La foto che ho scelto questa settimana è totalmente fuori fuoco e ritrae un cameriere che non è riconoscibile perché è un lavoratore a nero, senza contratto e quindi senza tutele. Vedere le cose leggermente fuori fuoco, come suggeriva il fotografo Robert Capa, significa avere la giusta vicinanza, ma a vederle totalmente sfocate si corre il rischio di non comprendere cosa accade, dove siano i torti e dove le ragioni. Datemi pure del buonista, ma non riesco a puntare il dito sui lavoratori. In una delle sue solite dirette sui social, il governatore della Campania Vincenzo De Luca se la prende con quei lavoratori che, dice, preferiscono i 700 euro del reddito di cittadinanza al lavoro. De Luca conosce bene la realtà nel Sud Italia - anzi nell’Italia intera! - del lavoro nero; sa bene che spesso la scelta tra 12 ore di lavoro - con stipendio di neppure 700 euro - e qualcosa di più accettabile non esiste. Si può criticare il reddito di cittadinanza, ma non attribuire al lavoratore la responsabilità di preferirlo a un lavoro mal retribuito e spesso senza garanzie e diritti. La morte di Luana D’Orazio, l’operaia di 22 anni rimasta intrappolata nel macchinario su cui lavorava, ha gettato luce sul dramma non solo delle morti sul lavoro in Italia, ma anche sull’arbitrio a cui è sottoposto questo mondo: se lo Stato non controlla, il rispetto delle regole è demandato alla sola coscienza del datore di lavoro. Dopo la morte di Luana, i media si sono accorti anche di Christian, schiacciato da un tornio meccanico; di Maurizio, colpito da una lastra di cemento armato; di Andrea, travolto da 14 quintali di mangime; di Samuel, studente lavoratore di 19 anni, morto nell’esplosione di un capannone con la collega Elisabetta; di Marco, caduto da un ponteggio; di Mario precipitato dall’impalcatura di un viadotto su cui faceva manutenzione. Dal clamore scatenato dalle morti, pareva ci si fosse accorti dell’emergenza. Ma una settimana dopo già non se ne parla più. In media muoiono in Italia sul lavoro 3 persone al giorno, calcolo per difetto perché il lavoro nero non è tracciabile. E in Italia si stimano almeno 3 milioni e 600mila lavoratori in nero, altro numero calcolato per difetto: trattandosi di lavoro sommerso, vediamo solo la punta dell’iceberg. Io sono cresciuto in una terra dove per farsi assumere regolarmente nei cantieri bisognava morire: quando qualche operaio in nero moriva, per coprire l’illecito lo assumevano. Nel 2020 l’Ispettorato nazionale del lavoro ha controllato tutela della salute e sicurezza in 10.069 aziende: 8.068 sono risultate irregolari, il 79,3%, non a norma 8 su 10. Le politiche a tutela dei lavoratori sono ritenute un costo, non un investimento in qualità del lavoro. E il primo a non investire nel lavoro è lo Stato. Negli ultimi 10 anni tagli alla spesa pubblica hanno ridotto gli ispettori del lavoro e gli addetti Asl per i controlli nelle imprese di oltre la metà: 2.000 ispettori vigilano oggi su circa 4 milioni e mezzo di imprese. Se le cose stanno così, allora è offensivo dover ascoltare politici di lungo corso affermare che il lavoratore deve rinunciare al reddito di cittadinanza e mettersi sul mercato, un mercato nero, spesso senza garanzie e senza diritti. Questa è davvero la fine della politica. L’antisemitismo, dove nasce il veleno dell’odio di Paolo Salom Corriere della Sera, 30 maggio 2021 L’Europa, gli Stati Uniti sono teatro di pestaggi di uomini identificati come ebrei dai loro indumenti, insulti gridati davanti a sinagoghe e centri culturali ebraici, svastiche riprodotte sui muri nei quartieri abitati prevalentemente da ebrei. Denunciare l’antisemitismo, oggi, appare una fatica pleonastica. Difficile trovare qualcuno che non sia d’accordo nel ritenere l’odio nei confronti degli ebrei un sentimento che appartiene ai momenti più bui della Storia. Eppure ci troviamo, in questi difficili giorni, di fronte a un aumento esponenziale degli episodi che è davvero faticoso definire in altro modo. L’Europa, gli Stati Uniti sono teatro di pestaggi di uomini identificati come ebrei dai loro indumenti, insulti gridati davanti a sinagoghe e centri culturali ebraici, svastiche riprodotte sui muri nei quartieri abitati prevalentemente da ebrei. Sui social questa campagna aggressiva raggiunge livelli sconcertanti. Per fare solo un esempio: la frase “Hitler doveva finire il lavoro”, in varie declinazioni, è comparsa di recente in 17 mila messaggi su Twitter. La ragione di tutto questo? Il conflitto tra Hamas e Israele, ennesimo confronto in un Medio Oriente dove la pace appare in fuga ogni volta che sembra a portata di mano. Ora, senza entrare nelle ragioni di una guerra che prosegue da oltre un secolo né proclamare che Israele - o meglio il suo governo - sia esente da critiche, dobbiamo però chiederci perché ogni volta che la parola, in quel difficilissimo contesto, passa alle armi, nel mondo si crei uno tsunami di invettive (e azioni) contro Israele e gli ebrei. E non sono solo le frange islamiste il motore di tutto questo: larga parte della politica e anche dell’opinione pubblica, non importa in quale Paese, rilancia regolarmente il veleno. Dunque: cos’è l’antisemitismo? Come distinguerlo da una legittima critica dello Stato ebraico? La risposta è semplice. È antisemitismo qualunque affermazione che, partendo dall’irrisolta questione palestinese, nega agli ebrei - e solo a loro - il diritto a vivere come una nazione indipendente. Così come il pugno scagliato contro un ebreo incontrato per caso a diecimila chilometri da Tel Aviv o Gerusalemme. La legge che vigila sull’export di armi è sotto attacco di Sofia Basso Il Domani, 30 maggio 2021 Oltre trenta Ong, tra cui Rete Disarmo, Amnesty, Greenpeace e Save the Children, denunciano “un’azione concentrica per smantellare le norme che regolamentano le esportazioni di armi e di sistemi militari”. A suscitare l’allarme delle organizzazioni pacifiste è stata in particolare l’inedita presa di posizione del Capo di Stato Maggiore della Difesa Enzo Vecciarelli che, nella relazione annuale sulle esportazioni militari trasmessa alle Camere ha criticato esplicitamente la scelta del secondo governo Conte di revocare alcune autorizzazioni. Il sottosegretario alla Difesa Mulé ha detto che bsiogna intervenire sulla legge. L’attacco alla legge sull’export di armi non è una novità, ma la simultaneità delle recenti prese di posizione ha allarmato i sostenitori. La legge che vieta l’export di armi a paesi in guerra o responsabili di violazioni dei diritti umani non si tocca: a lanciare un appello a tutela della 185/90 sono 33 Ong, tra cui Rete Disarmo, Amnesty, Greenpeace e Save the Children, che denunciano “un’azione concentrica per smantellare le norme che regolamentano le esportazioni di armi e di sistemi militari”. In queste settimane, “diversi think tank e opinionisti del settore della difesa, insieme ad alcuni parlamentari ed esponenti militari, stanno facendo pressioni per rivedere le norme in vigore allo scopo di facilitare le esportazioni di armamenti e la competitività dell’industria militare”. A suscitare l’allarme delle organizzazioni pacifiste è stata in particolare l’inedita presa di posizione del Capo di Stato Maggiore della Difesa Enzo Vecciarelli che, nella relazione annuale sulle esportazioni militari trasmessa alle Camere il 27 aprile, ha criticato esplicitamente la scelta del secondo governo Conte di revocare alcune autorizzazioni: “Recenti interpretazioni in termini restrittivi delle esportazioni verso alcuni Paesi dell’area Mediorientale (in particolare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) hanno suscitato perplessità e rammarico da parte delle massime Autorità locali, configurando potenziali rischi trasversali per tutto il Sistema Paese”. Subito dopo, l’affondo: “ipotizzare di poter confermare anche in futuro le posizioni ostative sopra citate, potrà comportare unicamente degli evidenti svantaggi per il nostro Paese che vanno assolutamente evitati”. Senza troppi giri di parole, il capo delle Forze armate italiane chiede, insomma, a Governo e Parlamento un’interpretazione meno rigorosa della 185 e l’archiviazione dell’embargo sulla vendita di bombe e missili a Riad e Abu Dhabi. Netto il commento delle Ong: “È inaccettabile che esponenti delle istituzioni si facciano promotori di istanze per modificare le leggi e ridurre i controlli”. Non solo lo Stato Maggiore - La posizione dello Stato Maggiore non è certo isolata. Una pubblicazione dell’Istituto affari internazionali (Iai), uscita il 30 aprile, chiede urgenti “modifiche normative alla legge 185/90 per mantenere rapporti privilegiati ed efficaci con i Paesi partner e alleati esterni all’Unione”. Lo spunto è la Brexit, che ha portato il Regno Unito fuori dall’Unione, ma nel contesto di un export militare orientato soprattutto a Paesi extra Nato e Ue, anche altre destinazioni potrebbero beneficiare del “grado di flessibilità e semplificazione” richiesto dal think tank. Che il bersaglio sia proprio la legge nata 31 anni fa con il sostegno della società civile lo si evince anche da un articolo uscito poco prima a firma di Michele Nones, vice presidente dello Iai ed ex consulente del ministero della Difesa: “Pensare di regolamentare l’interscambio di equipaggiamenti militari con vecchie regole è come provare a regolamentare il traffico aereo con le norme e le procedure in vigore quando c’erano solo gli aerei a elica. Ma, avendo trasformato questa legge in un tabù e avendo ostracizzato ogni tentativo di adeguamento, l’impianto normativo è rimasto in gran parte lo stesso”. Ancora più esplicito Gianandrea Gaiani - direttore di Analisi Difesa e consigliere per le politiche di sicurezza del Viminale quando il ministro era Matteo Salvini - che di recente ha placidamente sottolineato che “con la sola logica dei diritti umani, sarebbero ben pochi i Paesi a cui esportare”. A quale altra bussola dovrebbe far quindi riferimento il nostro export secondo Gaiani? “L’unica valutazione legittima per un Paese che vuole essere potenza di riferimento, almeno nel Mediterraneo allargato”, sostiene, è vendere armi “ai paesi che sosteniamo” e negarle “ai competitor, ai rivali e ai potenziali nemici”. Senza, ovviamente, preoccuparsi dell’eventuale coinvolgimento dell’acquirente in conflitti armati o nella repressione del dissenso. Il sottosegretario Mulé - Tra le prese di posizione più recenti, quella del sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè che il 21 maggio, nel corso di un webinar organizzato dalla testata Formiche, ha ribadito la necessità di una “riflessione, non più rinviabile, per aggiornare la legge 185/90”, definita “antiquata”. Obiettivo: permettere “un adeguato livello di flessibilità e semplificazione” per garantire l’interscambio dei materiali di armamento non solo con il Regno Unito post Brexit “ma anche con Paesi terzi affidabili”. A fargli eco, il generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa ed ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, che ha auspicato la bonifica del percorso autorizzativo dalle “numerose trappole in cui si incagliano regolarmente ormai quasi tutte le iniziative commerciali della nostra industria del settore”. Nel mirino del generale finiscono, in particolare, la giustizia, la politica e, ovviamente, la 185/90, ritenuta “la madre di tutte le controversie”: “oltre 30 anni di vigenza la hanno resa difficilmente rapportabile agli odierni scenari di crisi interni e internazionali, nessuno dei quali è praticamente risparmiato dal dettato normativo italiano, soprattutto se applicato in maniera ottusa o da funzionari la cui firma potrebbe aprir loro le porte del tribunale”. L’attacco alla legge sull’export di armi non è una novità, ma la simultaneità delle recenti prese di posizione ha allarmato i sostenitori della legge. A scatenare la controffensiva, secondo le Ong, è stata la revoca delle autorizzazioni in corso per l’esportazione di missili e bombe verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti decisa dal Conte II e sostenuta da recenti sentenze della magistratura. “Per la prima volta in trent’anni, il complesso militare-industriale ha dovuto registrare la revoca di un’autorizzazione all’export armato, vedendo così messa a rischio la propria posizione privilegiata”, fanno notare i pacifisti, che sottolineano come il comparto della Difesa, indicato spesso come “strategico per il sistema Paese”, valga “meno dell’1 per cento sia del Pil sia delle esportazioni nazionali, così come per tasso occupazionale”. Un settore marginale per l’economia reale, ma con grande capacità di conquistare sostegno e finanziamento pubblico. Ecco perché, tra le richieste delle Ong, oltre all’applicazione rigorosa e trasparente della 185, c’è anche l’apertura di un approfondito confronto parlamentare sulle esportazioni militari che coinvolga anche le associazioni della società civile. Per evitare che a suggerire le politiche sull’export di armi siano sempre gli stessi. Migranti. Caporali italiani sfruttano braccianti stranieri: a Mondragone nulla cambia di Antonio Maria Mira Avvenire, 30 maggio 2021 Tre anni fa l’inchiesta di Avvenire nei luoghi dello sfruttamento. E oggi nuovi arresti di imprenditori che fanno lavorare 12 ore al giorno per una paga tra i 2 e i 4 euro l’ora. A Mondragone lo sfruttamento dei braccianti immigrati non si è mai fermato. Neanche durante questo anno di pandemia. Anzi, è peggiorato. Non solo i lavoratori bulgari ma anche nordafricani. Ancora una volta moltissime donne. Al lavoro per 12 ore al giorno e pagate tra 2 e 4 euro l’ora. Schiave di imprenditori italiani senza scrupoli. Tre anni fa l’inchiesta di ‘Avvenire’ fece emergere questa realtà di gravissimo sfruttamento. Ma l’Italia la scoprì un anno fa quando nella comunità bulgara scoppiò un focolaio di Covid-19. Un’attenzione durata pochissimo. E lo sfruttamento è ripreso come e peggio di prima. Lo conferma l’inchiesta dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, coordinati dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, che ha portato in carcere un imprenditore agricolo, molto importante e famoso, e un altro ai domiciliari, entrambi di Mondragone ma operanti anche a Falciano del Massico, accusati di associazione a delinquere dedita allo sfruttamento del lavoro e all’intermediazione illecita di manodopera (il cosiddetto caporalato) a beneficio delle proprie aziende e di altre. A due caporali sono state invece notificate le misure dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. “Gli immigrati sono gli sfruttati, gli sfruttatori e i caporali sono italiani. E quella dell’imprenditore arrestato non è una piccola azienda, ma ben strutturata”, sottolinea il capitano Simone Vecchi, comandante della compagnia della Guardia di Finanza di Mondragone che ha proceduto all’esecuzione del sequestro preventivo dell’intero complesso aziendale di due imprese agricole utilizzate nelle attività criminose nonché di beni, denaro e valori ritenuti proventi diretti e/o indiretti delle medesime attività, per un valore complessivo di oltre 1,8 milioni di euro. L’azienda dell’imprenditore finito in carcere era l’azienda ‘madre’, a cui si raccordavano le aziende satelliti dislocate sul territorio mondragonese e di altri paesi casertani come Castel Volturno, Grazzanise e Villa Literno. Lo sfruttamento ha riguardato centinaia di braccianti bulgari e nordafricani, prevalentemente donne, impiegati sia in serra che in campo aperto. “In condizioni di lavoro estreme - spiega ancora il capitano -. Dodici ore di lavoro sollevando casse di pomodoro da 20 chili è una condizione disumana. E con qualunque tempo”. Questo per 6-7 giorni alla settimana, con una retribuzione oraria media che non superava i 4 euro e in parte finiva nelle tasche dei caporali, peraltro loro stessi imprenditori. Condizioni che si è riusciti ricostruire tramite attività di intercettazione e di prolungati servizi di appostamento, osservazione occulta e pedinamento, svolti anche tramite l’utilizzo di ‘droni’ per monitorare dall’alto sia il lavoro nei campi che il trasporto su furgoni stipati di braccianti, ‘arruolati’ come sempre in alcune piazze di Mondragone. Venivano effettuati dai 20 ai 60 ‘trasporti’ al giorno che sono stati seguiti dai droni che hanno offerto una precisa mappatura delle prestazioni lavorative illecite nei campi e delle condizioni di sfruttamento. Tutto reso possibile dalla legge 199 del 2016, la cosiddetta ‘anti caporalato’, ancora una volta rivelatasi strumento fondamentale. Anche perché, osserva il capitano, “nessuno dei braccianti ha denunciato. La denuncia è più unica che rara. La condizione dell’immigrato è una condizione precaria, soprattutto se ha qualche irregolarità nei documenti”. E lo sfruttamento non si è fermato col Covid. “Questi imprenditori non sono tra quelli che si sono bloccati. Nessuna precauzione sanitaria, era l’ultimo dei problemi”. Sfruttamento in una terra di agricoltura ricca e di qualità. Eppure, riflette ancora l’ufficiale, “purtroppo è un fenomeno molto diffuso che, al di là della brutalità del reato nei confronti dei lavoratori sfruttati, inquina il mercato. Crea una concorrenzialità disumana, un risparmio del 200% sul costo del lavoro, non pagando ovviamente sui lavoratori né tasse, né contributi”. Migranti. La Libia non è mai stata un porto sicuro e ormai neppure l’Ue lo è più di Maso Notarianni Il Domani, 30 maggio 2021 Nell’indifferenza della civile Europa “ogni anno le persone affogano perché gli aiuti arrivano troppo tardi, o non arrivano mai”. Sotto accusa anche l’agenzia europea Frontex. I sostegni europei, gli ingenti finanziamenti alla cosiddetta Guardia Costiera libica aumentano, mentre continuano a non cessare ma nemmeno a diminuire gli “orrori inimmaginabili che continuano a subire i migranti che intraprendono il viaggio attraverso la Libia”. Durissimo atto di accusa dell’Alto commissario per i diritti umani della Nazioni Unite all’Europa e alla Libia. “La vera tragedia è che gran parte delle sofferenze e delle morti lungo la rotta del Mediterraneo centrale sono prevenibili”, ha detto Michelle Bachelet presentando il nuovo rapporto dell’Unhcr intitolato “Lethal disgregard”, perché nell’indifferenza della civile Europa “ogni anno le persone affogano perché gli aiuti arrivano troppo tardi, o non arrivano mai. E chi viene soccorso è costretto ad aspettare giorni o settimane per essere sbarcato in sicurezza o, come sempre più spesso, viene rimpatriato in Libia. Un Paese che, come è stato sottolineato in innumerevoli occasioni, non è un porto sicuro in questo periodo di violenze”. Anche l’Alto Commissariato per i diritti umani mette sotto accusa sia l’agenzia Frontex che Irini, la missione navale congiunta delle marine militari europee nel Mediterraneo: “Hanno sostenuto la guardia costiera libica nell’assumersi maggiori responsabilità nelle operazioni di ricerca e soccorso in acque internazionali, ma senza garanzie sul rispetto dei diritti umani, portando a un aumento delle intercettazioni e dei ritorni in Libia, dove i migranti continuano a subire gravi violazioni e abusi”. “Nessuno - ha detto Michelle Bachelet - dovrebbe sentirsi obbligato a rischiare la propria vita o quella delle proprie famiglie su barche inadatte alla navigazione in cerca di sicurezza e dignità. Ma la risposta non può essere semplicemente impedire le partenze dalla Libia o rendere i viaggi più disperati e pericolosi”. I sostegni europei, gli ingenti finanziamenti alla cosiddetta Guardia Costiera libica aumentano, mentre continuano a non cessare ma nemmeno a diminuire gli “orrori inimmaginabili che continuano a subire i migranti che intraprendono il viaggio attraverso la Libia. Sopportano abitualmente disidratazione, fame, detenzione arbitraria, abusi sessuali e maltrattamenti. In mare, rischiano la vita su navi sovraffollate e non idonee alla navigazione e spesso vengono lasciate alla deriva per giorni senza cibo, acqua o cure mediche adeguate”. E anche in mare, “Permane un modello di comportamento sconsiderato e violento da parte della Guardia costiera libica che spara contro o vicino alle navi dei migranti, a volte addirittura provoca collisioni volontariamente con le imbarcazioni dei migranti verso i quali spesso sono compiute violenze fisiche, intimidazioni e insulti razzisti”. Per questo, l’Alto Commissariato chiede all’Unione europea e ai suoi stati membri, di “astenersi dall’incoraggiare il trasferimento della responsabilità delle operazioni SAR in acque internazionali alla guardia Costiera Libica” e di garantire, anche con il sostegno alle organizzazioni della società civile “un numero sufficiente di servizi marittimi dell’UE e degli Stati membri”. La Libia è orribile - “Devi capire - racconta all’Unhcr un uomo del Bangladesh - che la Libia è orribile. Nessuna parola può spiegare la nostra sofferenza lì. La situazione lì è così pericolosa, devi rischiare la tua vita nell’acqua”. E la vita la si rischia sapendo, come ha detto una donna somala,che “In acqua le probabilità sono 50-50. Il mare non è facile, o finisci al sicuro o muori”. Ma per troppi, nemmeno l’Europa è un arrivo al sicuro. Migliaia di persone - denuncia l’Alto Commissariato - sono sottoposte a detenzione prolungata o arbitraria e non sono in grado di accedere all’assistenza sanitaria fisica e mentale, ad alloggi adeguati, e persino al cibo, all’acqua e ai servizi igienici. Migranti. L’Onu: “In Libia non ci è permesso fare quasi nulla per i diritti umani” di Nello Scavo Avvenire, 30 maggio 2021 Dopo le “rassicurazioni” del governo italiano alle Ong, da Tripoli le agenzie umanitarie precisano: “Quasi nessun accesso ai centri di detenzione. Questo sistema è un abominio”. Provando a rassicurare le Ong, che chiedono il ripristino di un meccanismo di ricerca e soccorso nel Mediterraneo, anche il Viminale ha parlato della “preziosa opera dell’Unhcr e dell’Oim, per il rispetto dei diritti umani nei centri allestiti nel Paese nordafricano”. Ma dalla Libia fonti delle Nazioni Unite smentiscono: “Non abbiano nessuna possibilità di cambiare la situazione rispetto ai diritti umani”. Contrariamente alla narrazione ufficiale, alle due agenzie è impedito di fare granché. “Il nostro intervento, come diciamo da tempo, è di assistenza pratica”. Di più non è consentito. In Libia i conti non tornano mai. Specialmente quando si parla di diritti umani. Lunedì il nuovo premier Dbeibah sarà in Italia per la prima volta, dopo la nuova visita lampo a Tripoli del ministro degli Esteri Di Maio e in vista del forum per il rilancio degli affari tra le due sponde del Canale di Sicilia. “Circa 5.100 persone - ha detto ad “Avvenire” una fonte delle agenzie umanitarie - sono attualmente detenute in 28 siti ufficiali, in condizioni disastrose”. Non solo non c’è stato alcun progresso nella gestione di queste strutture, ma gli operatori Onu “attualmente hanno scarso o nessun accesso a questi centri e sono solo in grado - aggiunge la fonte - di monitorare la situazione o fornire assistenza”. E perché sia chiara la posizione, dalle agenzie Onu ribadiscono “l’appello affinché le autorità competenti garantiscano il rilascio ordinato di tutta la popolazione detenuta e il libero accesso ai centri di detenzione”. Non è la prima volta che i funzionari delle Nazioni Unite si vedono costretti a rimettere ordine fra le ottimistiche ricostruzioni fornite da Italia e Ue. Ancora nelle settimane scorse sia il capo della missione dell’Organizzazione dei migranti in Libia (Oim), sia l’alto commissario per i rifugiati Filippo Grandi, avevano dovuto spiegare come davvero stanno le cose. Il 10 maggio Grandi ha ricordato, a proposito dei guardacoste libici, che “i migranti vengono soccorsi e poi rimandati in un sistema che abusa delle persone”. A sostenere che la gestione dei flussi migratori non sia mai stato il primo pensiero dei governi di Tripoli è anche Sami Zaptia, direttore del quotidiano “Libya Herald”. “In Libia il tema dell’immigrazione illegale non è mai stato veramente visto come un problema - ha spiegato in un’intervista all’agenza Agi -. La sensazione è invece che l’Italia e l’Europa siano concentrate solo su quello, anche a costo di fare accordi con le milizie”. Nelle prossime settimane il Parlamento italiano dovrà discutere il rinnovo del sostegno alla cosiddetta guardia costiera libica, costata fino ad ora oltre 800 milioni di euro, e che non di rado ha ricambiato l’interessato favore con ambigue manovre in mare, omissioni di soccorso, diverse stragi e un certo numero di raffiche sparate all’indirizzo di pescherecci italiani. Anche il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha insistito nel chiedere ai partner Ue di potenziare la missione navale europea Irini nel ruolo di addestramento dei guardacoste di Tripoli. “Nella Guardia Costiera libica non sono tutti degli angeli - ha osservato il direttore del “Libya Herald” -. Inoltre riportare i migranti in Libia, dove non abbiamo la capacità di rispettare gli standard internazionali, porta ad ulteriori crimini”. I clan hanno affinato le tecniche di taglieggiamento dei Paesi europei. E le frequenti partenze di queste settimane, proprio in vista del vertice a Roma con Dbeibah, fanno parte della trattativa a colpi di barconi. Un sistema di vera criminalità organizzata che Safa Msehli, portavoce dell’Oim da Ginevra, riassume in un tweet nel quale denuncia la sparizione di migliaia di persone: “Più di 10mila migranti sono stati intercettati quest’anno da “entità libiche” e sono stati portati in prigione. Ma oggi solo la metà di loro si trova in questi centri. Questo sistema è un abominio”. Medio Oriente. Le paternità dietro le sbarre nelle immagini di Antonio Faccilongo di Marco Panzarella agi.it, 30 maggio 2021 Il suo reportage “Habibi” ha trionfato al World Press Photo Story of the Year 2021. Nelle immagini le storie di palestinesi detenuti che per avere figli sono costretti a ‘contrabbandare’ il loro sperma fuori dalla prigione. C’è tanta Italia nell’edizione 2021 del World Press Photo, il concorso internazionale di fotogiornalismo giunto quest’anno alla 64ª edizione e ospitato in anteprima nazionale nelle sale di Palazzo Madama, a Torino. Antonio Faccilongo (Getty), con il reportage Habibi (“Amore mio”) ha trionfato nella sezione “World Press Photo Story of the Year 2021”, il primo italiano a riuscirvi, racconta all’AGI, una storia d’amore e di speranza, sullo sfondo del conflitto tra israeliani e palestinesi. Migliaia di palestinesi sono detenuti nelle carceri israeliane e le visite coniugali, così come qualsiasi altro contatto fisico, sono negati. A partire dai primi anni Duemila, ai detenuti che desiderano avere dei figli non resta quindi che contrabbandare il loro sperma fuori dalla prigione, nascondendolo nei regali destinati agli altri figli. Una fotografia, in particolare, mostra una provetta di fortuna ricavata da una penna e nascosta in uno snack. “Molti uomini hanno partecipato ad azioni militari durante la seconda Intifada - spiega Faccilongo - sono considerati dei martiri viventi e i bambini nati con l’inseminazione in vitro sono il frutto dell’amore tra questi prigionieri e le loro mogli. Sono figli di combattenti, ma i genitori non li stanno crescendo insegnandogli a fare la guerra. Vanno a scuola, imparano a conoscere la storia del loro paese, potrebbero semmai diventare futuri leader culturali”. Il reportage di Faccilongo va avanti da anni ed è destinato a proseguire nel tempo. Il fotografo ha conquistato a piccoli passi la fiducia degli interlocutori, rispettando le usanze del luogo. “Sono quasi diventato un membro della famiglia, l’ho capito quando una delle donne che ho fotografato mi ha abbracciato e dentro casa si è tolta il velo. Con le donne è vietato qualsiasi contatto, non si può stringere loro la mano. Il fatto che si fidassero di me mi ha reso orgoglioso”. Nel corso degli anni Faccilongo ha instaurato un legame molto intenso con alcuni protagonisti del suo lavoro, come nel caso della famiglia Rimawi. “Il figlio di Abdul Karim e Lydia, Madj, oggi ha sette anni ed è uno dei primi bambini nati in Cisgiordania con l’inseminazione in vitro. Tra le immagini ne ho scelto una che ritrae la mia mano che tiene uno smartphone. Sul display c’è la fotografia di Madj, che mostra il numero sette. Me l’ha inviata il giorno del suo compleanno, purtroppo con il Covid è stato impossibile raggiungerlo, ma ho voluto comunque inserire il selfie tra i contenuti del reportage. Per questi bambini compiere sette anni è importante, perché i prigionieri possono incontrare i loro figli solo fino ai sei anni, dopo non ci sarà più alcun contatto come avviene con le mogli”. Le fotografie di Faccilongo sono tecnicamente valide, ma ciò che colpisce lo spettatore è la forza narrativa. “Credo che la storia sia fondamentale, ma bisogna anche saperla interpretare, evitando gli stereotipi. In Habibi l’amore ha un ruolo centrale, ci sono una serie di immagini apparentemente vuote che però raccontano momenti e stati d’animo”. Il lungo reportage di Faccilongo è destinato a diventare anche un documentario video, ma i tempi sono ancora acerbi. “L’idea è seguire uno di questi bambini fino a quando diventerà padre. È un lavoro pensato per il cinema, che mi auguro di portare a termine”. Egitto. Zaki dal carcere scrive a Liliana Segre: “Le darò la lettera di persona” di Marta Serafini Corriere della Sera, 30 maggio 2021 Martedì l’udienza per il rinnovo della custodia cautelare. L’appello di Celentano: caro Draghi, fai qualcosa. Una lettera per Liliana Segre. Per ringraziarla di quell’impegno mostrato in Parlamento durante il voto per chiedere il riconoscimento della cittadinanza. Ma anche per esprimere gratitudine per l’amore e sostegno espresso. Scrive dal carcere Patrick Zaki mentre si avvicina l’ennesima - e questa volta ancora più crudelmente ritardata - udienza per il rinnovo della sua custodia cautelare che dura ormai da 478 giorni. Ma si ripromette di consegnare quella lettera di persona, quando potrà incontrare la senatrice da uomo libero, in Italia. La notizia arriva dopo una visita in carcere della madre e della fidanzata, un incontro durante il quale lo studente dell’Università di Bologna ha regalato alle due donne dei succhi di frutta per combattere il caldo. Poi, in dono anche una piccola chiesa intagliata nel sapone per la mamma e il nome inciso per la fidanzata. Minuscoli ma preziosi segni di speranza che commuovono e che ricordano quanto crudele e feroce sia la sua detenzione. E se, come raccontano gli attivisti e i sostenitori via Facebook, “Patrick appare positivo e pensa che tornerà ai suoi studi presto mentre manda il suo amore, la sua gratitudine e il suo apprezzamento ad amici, insegnanti e alla sua università per il loro continuo sostegno”, nessun interesse invece pare dimostrare per l’udienza di martedì. “Patrick ha detto di aver capito che le sessioni di udienza non contano e non lo faranno uscire”, spiegano gli attivisti. Difficile infatti sperare che Zaki possa festeggiare il suo trentesimo compleanno a casa, il 16 giugno. “Quanti altri giorni di festa, quanti altri giorni di studio, quanti altri giorni di vita devono essere rubati a Patrick? Non indietreggeremo di un passo, come non l’ha fatto Amnesty International-Italia ieri in occasione del suo sessantesimo compleanno e continueremo a far pressione ad ogni livello. Patrick libero”, ha commentato su Facebook il deputato di LeU Erasmo Palazzotto. Un messaggio è arrivato anche da parte di Adriano Celentano che si è rivolto direttamente al premier Mario Draghi per sollecitare l’impegno del governo. “Caro Mario, è questa la sfida più importante della tua vita. Qualcuno mi sa dire per quale motivo dovremmo lasciar morire lo Studente Zaki pur di non pregiudicare i buoni affari tra Roma e il Cairo?”, scrive il cantautore in una lettera pubblicata sui social. Un altro appello della società civile, che Celentano conclude così: “No ragazzi. È meglio soffrire un po’ la fame ma poterci guardare negli occhi. Perché così nascono le idee per salvare il mondo. E io sono certo che anche il “Drago” è d’accordo”. Algeria. Campagna elettorale di protesta e repressione di Stefano Mauro Il Manifesto, 30 maggio 2021 Il 12 giugno al voto. In tre settimane oltre 2mila arresti, frutto della nuova legge per limitare le manifestazioni. Per il terzo venerdì consecutivo le autorità algerine hanno impedito lo svolgimento della settimanale manifestazione di protesta del movimento Hirak, che portò alla caduta dell’ex presidente Abdelaziz Bouteflika nel 2019. “Più di 2mila manifestanti sono stati arrestati, di cui oltre 180 sono in detenzione, in queste tre settimane dall’ingresso della nuova legge del ministero dell’interno” - ha riferito Saïd Salhi, vicepresidente della Lega algerina per la difesa dei diritti umani (Laddh), descrivendo una situazione “allarmante sul progressivo livello di repressione della protesta”. Il riferimento è legato al tentativo da parte del governo centrale di vietare e riprendere il controllo delle manifestazioni di piazza dei manifestanti con la presentazione di una nuova legge, adottata ad inizio mese dal ministero dell’interno, che prevede “la richiesta preventiva per l’autorizzazione di nuove manifestazioni con l’indicazione di inizio e fine corteo, del tragitto e degli slogan utilizzati”. Tutti gli attivisti e giornalisti fermati e arrestati in queste settimane hanno gli stessi capi di accusa: “indebolimento dell’unità nazionale”, “istigazione a riunioni disarmate” e, dopo il divieto di raduni non autorizzati, “mancato rispetto delle misure amministrative”. Una repressione, imposta in queste settimane da un imponente apparato di polizia, che ha colpito in maniera indiscriminata noti attivisti del movimento - come Slimane Hamitouche - oppositori politici, difensori dei diritti umani e giornalisti. Il più recente caso riguarda Kenza Khatto, giornalista politica dell’emittente Radio M, arrestata lo scorso 14 maggio mentre documentava le violente cariche della polizia contro gli attivisti che tentavano di manifestare ad Algeri. Un duro inasprimento del livello di controllo legato anche dall’avvio, la settimana scorsa della campagna elettorale, e dal tentativo del presidente Abdelmajid Tebboune di limitare qualsiasi manifestazione di dissenso. Un chiaro segnale della volontà del governo di escludere qualsiasi contestazione durante la campagna elettorale confermato dalle dichiarazioni del capo di stato maggiore, il generale Saïld Chengriha, che ha messo in guardia chiunque dal “tentativo di minare l’unità nazionale preservando il calendario elettorale previsto”. Una campagna elettorale molto complessa e non accettata all’unanimità dalle forze politiche algerine, visto che tutti i partiti di opposizione laici o di sinistra e l’Hirak contestano quelle che considerano “una nuova mascherata del regime”. Come confermato in questi giorni dall’autorità nazionale indipendente per le elezioni (Anie) sono circa 1500 le liste accettate e legate, principalmente, ai partiti pro-potere all’epoca di Bouteflika come il Fronte di Liberazione Nazionale (Fnl) e il Raggruppamento Nazionale Democratico (Rnd), con alcune eccezioni di candidati indipendenti. Le formazioni islamiste, si presentano con una coalizione che raduna tutte le principali correnti come il Fronte per la giustizia e lo sviluppo (Fjd) di Abdallah Djaballah o il Movimento per la Società e la Pace (Msp) di Abderazzak Makri. Il fronte islamista di Makri, che tenta di approfittare del boicottaggio delle formazioni politiche progressiste e del netto calo di consensi nei confronti dei partiti dell’epoca Bouteflika, ha già fatto sapere di essere pronto “a governare una nuova Algeria in caso di vittoria”. “Gli arresti di queste settimane confermano, nonostante il fallimento delle presidenziali del 2019 e il referendum costituzionale del 2020 segnati da un’astensione record - afferma Salhi - la determinazione del regime di applicare la sua strategia elettorale, senza tener conto delle richieste del popolo algerino per una transizione democratica, partecipata e una giustizia indipendente”. Iraq. La fioritura delle yazide di Marta Serafini Corriere della Sera, 30 maggio 2021 Nel 2014 l’Isis nel Kurdistan iracheno mise in atto il genocidio della piccola minoranza: furono le donne le più colpite. Oggi un progetto italiano dà loro l’opportunità di ricominciare coltivando e rivendendo fiori mentre gli uomini producono funghi. Dice Gul: “Raccontate la nostra storia”. “Quando sono arrivati stavo raccogliendo i cocomeri nei campi”. Halida ha 25 anni, gli occhi chiari, sulla pelle i segni del sole e del dolore. “Era il 3 agosto. Siamo scappati, siamo scappati tutti. Ma c’è chi non c’è riuscito”. Sono passati quasi sette anni da quel giorno. E non c’è notte in cui ad Halida venga concesso di dimenticare. Le urla delle sorelle strappate via dalle braccia l’una dell’altra, la paura, la corsa, le auto in colonna per fuggire da quella che era casa, Sinjar. Il genocidio yazida: lo inizia a chiamare così oggi la comunità internazionale, mentre alle Nazioni Unite è stata istituita una squadra per indagare sui crimini di guerra commessi dai miliziani dell’Isis contro le donne e gli uomini di questa minoranza. “Sono adoratori del diavolo, da sottomettere e convertire, fate quello che volete di quella gente”, dissero i comandanti dello Stato islamico ai loro miliziani, pensando così che si potessero giustificare migliaia di donne ridotte in schiavitù, uomini uccisi, bambini rapiti, come se la guerra potesse mai avere un torto o una ragione. Ora le ferite di quella violenza sono ancora tutte lì, aperte, nel nord dell’Iraq, sotto il sole di primavera che già promette caldo feroce, mentre il mondo dimentica in fretta. Una lacrima scivola piano sulla pelle di Halida e cade sulla terra scura del campo di Essyan, 180 chilometri a est di Sinjar, dove vivono ancora in 15 mila, anche oggi che l’Isis è dichiarato sconfitto. Tornare a casa non si può, ancora troppo pericoloso. Le mine, la lotta tra le diverse fazioni curde, le mire turche, le vendette. Un gruppo di donne cammina lento verso la collina. Sono arrivate qui nel 2014. “Vedi queste piantine? Le ho coltivale io”, sorride Assia mentre accarezza i petali di una pelargonia. “Due mie sorelle e gran parte della mia famiglia, quella che è rimasta, sono andati in Germania. Mi mancano, vorrei raggiungerli. Ma ho nostalgia di casa”. Otto serre, un progetto nato a metà 2019 che cerca di ridare a queste donne un’occupazione e tenta di offrire un poco di sollievo a una comunità resa fragile dal conflitto. A volerlo la Ong Avsi. “Grazie a un finanziamento di mezzo milione di euro di Aics, l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, siamo riusciti a fare prima corsi di training, poi già con l’aiuto delle famiglie beneficiarie, tutte yazide, e quasi tutte provenienti da Sinjar, abbiamo installato le serre, dove le donne ora lavorano ogni mattina”, sottolinea Giulia Cegani, project manager dell’organizzazione italiana. Ad aiutare Avsi nella realizzazione delle serre è stata Adar, una donna curda originaria di Duhok. Un dottorato negli Stati Uniti in botanica, esperta di erbe e medicinali della regione del Kurdistan, Adar conosce a memoria i nomi di tutte le piante e di tutte le donne con cui lavora. “Guarda questa foto”. Adar mostra il telefono. Una delle “sue” ragazze, Haula, “è tornata a vivere a Sinjar. E dopo avere imparato qui a seminare e far crescere le fragole, ora ci sta provando a casa”, spiega orgogliosa. La interrompono Husein e Sherazade, marito e moglie. Dopo aver saputo delle serre da un post su Facebook pubblicato da un amico emigrato in Gran Bretagna, hanno deciso di sostenere la comunità yazida. E sono venuti a comprare le piante all’ingrosso per il loro negozio di fiori. “L’obiettivo del progetto è proprio questo: vendere le piante ai vivai di Duhok, in modo che si crei un commercio. Con alcuni negozi, i beneficiari hanno stretto accordi: i primi forniscono i semi, i secondi li fanno crescere nelle serre e poi li rivendono a un prezzo di favore che permette di riconoscere alle donne un piccolo corrispettivo mensile”, sottolinea ancora Cegani. Un passo simbolico in avanti in una zona dove la disoccupazione dilaga, aiutata dalla pandemia, e dove i membri della comunità yazida vivono ancora quasi tutti nei campi sfollati, senza un impiego né una casa. “Un proverbio della mia gente dice: se incontri una persona che ha bisogno, aiutala senza chiedere la sua religione”. È appena iniziato il Ramadan, il mese sacro per i musulmani, sta per finire l’anno yazida. La coda di automobili verso Lalish, il tempio più importante per questa minoranza antica e misteriosa, si allunga a vista d’occhio. Ci sono le mascherine per proteggersi dal virus. Ma c’è anche la voglia di rendere omaggio. Le ragazze sono vestite a festa, i bambini portano le corone di fiori e le uova dipinte a mano. I ragazzi hanno sui capelli ancora più gel del solito. “Qui tutti hanno perso qualcuno”. Jamal ha 34 anni, lo sguardo fiero. Ma a fare male non sono solo i ricordi. “Di mio fratello non so più nulla da sette anni. Lo hanno ucciso. Ma come faccio a piangerlo se nessuno mi dice che è davvero così? Non ho mai visto il suo corpo. E l’ho cercato, sapeste quanto l’ho cercato”. Dopo l’invasione di Sinjar, Jamal è riuscito a mettersi in salvo. “Ho lavorato per i soldati americani come traduttore, ero orgoglioso del mio impiego. Ma ora che se ne sono andati non so come trascorrere la maggior parte del giorno”, racconta. La fila per entrare nel tempio si snoda a fianco del serpente di pietra che occhieggia sullo stipite della porta. Jamal prova a sorridere, a piedi scalzi supera il gradino di ingresso senza calpestarlo, come vuole la tradizione e poi entra nella parte più antica dell’edificio per il rito del lancio della sciarpa. “Prova tre volte a occhi chiusi, se riuscirai a fare in modo che non cada il tuo desiderio si avvererà”. Poi abbassa gli occhi e dice piano: “Il mio sogno è di avere, un giorno, giustizia. Solo questo”. A Old Sharya, la strada sale verso una collina rocciosa. All’orizzonte, l’acqua della diga di Mosul, la stessa che l’Isis ha messo in pericolo dopo che Al Baghdadi salì sul pulpito della moschea di Al Nuri, brilla al sole. Più sotto, in una piccola grotta, Sheik Heshyar - che appartiene a una delle “caste” più alte della comunità yazida, quelle che custodiscono i segreti del culto - si muove veloce. Intorno a lui sacchi di funghi sembrano galleggiare tra il vapore delle spore e la luce fioca della lampada a olio. “In queste stesse grotte si nascondevano i peshmerga durante gli anni di Saddam. Oggi, dopo la guerra con Isis, abbiamo scoperto che c’è un’altra cosa che possiamo fare qui, oltre a nasconderci”. Così ora gli uomini della comunità yazida riescono a vendere i funghi oyster nei mercati della zona, guadagnando qualche soldo. “Siamo in Iraq dal 2014 - spiega Lorenzo Ossoli, country director Avsi - e quello che abbiamo capito lavorando con le minoranze, quella cristiana prima e quella yazida dopo, è l’importanza di realizzare progetti che incoraggino la coesione sociale e l’inclusione, come del resto ha ribadito Papa Francesco durante il suo primo viaggio in queste terre, nel marzo scorso”. Appigli e segnali di speranza cui aggrapparsi. “La chiave, soprattutto per sostenere le donne, è partire dal basso puntando sulla resilienza di queste comunità”, gli fa eco Laura Cicinelli, responsabile Aics in Iraq. Il sole tramonta dietro la collina al campo di Essyan. Tre bimbi giocano vicino alle serre mentre le pecore pascolano tranquille e le madri iniziano a preparare la cena con quel poco che c’è. Uno di loro impugna una spada di plastica. Fa il gesto di tagliare la gola a sua sorella. Sono entrambi nati qui, lontano da casa, di quel 3 agosto hanno sentito parlare dagli adulti, a bassa voce, nelle sere d’inverno intorno al fuoco. Poco più in là una giovane sorride e fa cenno con la mano. Stringe un quaderno sul cuore. “Mi chiamo Nasrin, sto studiando inglese, vorrei diventare un dottore e lavorare qui, un giorno”. La raggiungono le sorelle, lo stesso sguardo, gli stessi capelli castani lucidi. “Io sto provando a imparare il tedesco per raggiungere mio marito in Germania”, spiega Assia. Piano piano esce dalla tenda anche lei, nonna Gul. Prende una sedia di plastica e si siede. Oggi Gul, le sue figlie e le sue nipoti vivono tutte insieme. Hanno paura. A proteggerle è rimasto solo uno dei figli. Vivere, in mezzo alla guerra, è difficile. Se sei una donna è ancora peggio. Gul guarda lontano verso l’orizzonte. Il sole è ormai andato. Strizza gli occhi per un secondo, poi sposta lo sguardo dritto negli occhi di chi le parla. Alza il mento. “Raccontate la nostra storia. Io sono Gul e il mio nome significa rosa”.