“Ergastolo ostativo uguale tortura”, così Woodcock si conferma garantista vero di Franco Insardà Il Dubbio, 29 maggio 2021 Abbiamo vissuto anni di tempeste giustizialiste che, come cicloni, hanno travolto le vite di tanti cittadini. Da qualche tempo si sta affacciando timidamente una leggera brezza garantista, alimentata anche da chi fino a ieri aveva posizioni rigide e di tutt’altra natura. Uno di questi è Henry John Woodcock, pm napoletano noto alle cronache per inchieste in alcuni casi temerarie. Dopo il suo intervento di oltre un mese fa, sul Fatto quotidiano, a favore della separazione delle carriere, il magistrato ci ha di nuovo piacevolmente stupito a proposito dell’ergastolo ostativo. In un articolo del 26 maggio scorso su “Questione giustizia” (la rivista online di Md) riproposto ieri sul “Corriere del Mezzogiorno”, Woodcock scrive che “la disciplina dell’ergastolo ostativo di cui all’art. 4- bis dell’ordinamento penitenziario mi ha lasciato da sempre non poco perplesso”. E sulla campagna mediatica che vorrebbe far passare l’ergastolo ostativo come una personale “creatura” di Giovanni Falcone, il pm chiarisce: “Ho solo avuto - per ragioni anagrafiche - la possibilità di ascoltare e di leggere nei media alcuni interventi di Giovanni Falcone, acuto e tenace investigatore, unico e moderno, e mi è parso in tutta franchezza culturalmente e ideologicamente lontano da alcune delle più che rispettabili posizioni che capita in questi giorni di leggere sui giornali”. Il magistrato si dice “convinto che l’aspetto più odioso della disciplina ostativa dell’ordinamento penitenziario è proprio quello di aver subordinato la concessione di benefici (e il venir meno della presunzione assoluta di pericolosità) alla collaborazione, e quindi a una condotta delatoria del detenuto. Ciò che giustifica pienamente il sospetto che si tratti in realtà di un regime che vuole punire chi non ‘si pente’ o, peggio ancora, di una sorta di tortura intesa a favorire la ‘collaborazione’, e ciò perché per ‘ pentimento’ nella nostra prassi giudiziaria non si intende affatto quel travaglio morale che porta a una revisione critica del proprio passato e di conseguenza a un autentico ravvedimento con la conseguente decisione di cambiare vita. No, significa solo confessione e, soprattutto, delazione. Insomma, proprio la finalità tipica che si propone la tortura”. Woodcock è critico anche con la motivazione della Consulta che ha dato un anno di tempo al Parlamento per intervenire sul 4 bis. “In primo luogo, mi sembra infatti discutibile, se non singolare, che debba continuare ad applicarsi, almeno per un anno, una norma dichiarata incostituzionale”. E ancora, per il pm, con il richiesto accertamento delle “specifiche ragioni della mancata collaborazione”, potrebbe “risultare ribadito il discutibile rapporto di scambio tra la concessione di benefici e la ‘ scelta’ di delazione imposta al detenuto ergastolano”. Una posizione che condividiamo in pieno per evitare che l’ergastolo ostativo, ricordando un bellissimo libro dell’ex giudice Elvio Fassone, possa trasformarsi in “Fine pena: ora”. Le vittime sono il centro del problema della giustizia penale di Luca Luparia Donati e Guido Sola Il Domani, 29 maggio 2021 Festival della Giustizia penale. Tre giorni di lavoro intenso, 108 relatori in 36 sessioni, spettacoli di danza e di teatro, dibattiti e convegni. Tutti completamente a disposizione per essere visti o rivisti come contributo originale ed eredità del Festival. La seconda edizione del Festival della Giustizia Penale “Vittime di ieri, vittime di oggi”, svolto a Modena e nella provincia (con eventi da Carpi, Sassuolo e Pavullo nel Frignano) dal 21 al 23 maggio, è stata trasmessa online in diretta streaming e ha già fatto registrare numeri lusinghieri (oltre 15mila visualizzazioni nella tre giorni), numeri che sono destinati a salire grazie al fatto che, appunto, la grande ricchezza di contenuti è interamente a disposizione online su www.festivalgiustiziapenale.it e sul canale Youtube, oltre che sulla pagina Facebook del festival. Le vittime - Particolarmente significativo il tema scelto, quello delle vittime appunto. Vittime di ieri (quelle della follia nazifascista, del terrorismo, delle mafie, delle dittature, delle guerre…), vittime di oggi (della violenza di genere, dei reati ambientali, di persecuzioni politiche, di bullismo, di atti di violenza contro operatori sanitari o forze dell’ordine…). E, naturalmente, vittime di errori giudiziari, a volte addirittura vittime di reati drammatici (come la violenza sessuale) che, sbagliando, mandano in carcere innocenti che diventano a loro volta vittime. Vittime italiane, certo, ma anche statunitensi, sudamericane, africane, perché la cifra stilistica del Festival della Giustizia Penale è quella di una apertura al mondo che ha visto una ventina di relatori stranieri e contributi soprattutto, ma non in forma esclusiva, dagli Stati Uniti. Vittime note, come Agnese la figlia di Aldo Moro che ha dialogato con l’ex brigatista rossa Grazia Grena; il nipote di Piersanti Mattarella omonimo dell’ex presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia a colloquio con il Procuratore Nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho; Vittorio Occorsio nipote del magistrato ucciso dal terrorismo nero, insieme all’ex magistrato milanese Gherardo Colombo. Ma anche di meno note, come i bambini soldato della Sierra Leone; Ferruccio Laffi un sopravvissuto all’eccidio nazifascista di Marzabotto; Ay?egül Ça?atay avvocata turca arrestata e scarcerata nel 2020; Pietro Paolo Melis, assolto dopo 18 anni di carcere; Jennifer Thompson, statunitense vittima di violenza sessuale e responsabile di un errore giudiziario (avendo riconosciuto come colpevole l’uomo sbagliato) e poi fondatrice di Healing Justice. Il bilancio della tre giorni del direttore scientifico del festival, Luca Luparia Donati, e del presidente dell’associazione del festival, l’avvocato Guido Sola. Il bilancio di Luparia Donati - È un tema molto importante, quello delle vittime, che ci consente di andare al cuore dei problemi della nostra giustizia penale e dei sistemi penali di tutto il mondo. Il bilancio del festival è veramente positivo, questa edizione era una grande sfida per noi e possiamo dire che le cose sono andate molto bene anche dal punto di vista delle visualizzazioni. Sono state tante le sessioni di alto livello, penso a quello nel campo di concentramento di Fossoli, agli incontri di giustizia riparativa, agli ospiti internazionali, ai momenti con la figlia di Aldo Moro, i nipoti di Vittorio Occorsio e di Piersanti Mattarella. Sempre nell’ottica, che è la cifra stilistica del festival, di parlare alla cittadinanza tutta e non come fossimo un circolo di iniziati, come spesso è il mondo della giustizia che non riesce a farsi capire dai cittadini. Non posso non ricordare, tra i tanti, il dibattito di chiusura sulla riforma del processo penale e del sistema sanzionatorio: un contributo prezioso in questa fase di passaggio e di riflessione che ha offerto spunti di alto valore con il Presidente emerito della Cassazione, illustri professori e membri della commissione ministeriale. Viviamo un momento delicatissimo per il rapporto di fiducia tra i cittadini e la magistratura e nessuno di noi può avere interesse che questa fiducia si incrini. Per sanare questo strappo, al di là delle riforme, quello che conta sono le operazioni culturali come questo festival. Occorre riuscire a far diventare la giustizia trasparente e comprensibile a tutti. Ci sono meccanismi complessi che vanno spiegati per evitare reazioni, anche scomposte, da parte del popolo e delle stesse vittime. Il bilancio di Guido Sola - L’iniziativa ha riscosso un grande successo, addirittura insperato con numeri importanti che ci fanno capire come la cittadinanza comprenda il progetto culturale del festival. Stiamo mettendo radici importanti tra Modena, Carpi, Sassuolo e Pavullo nel Frignano, i risultati di questo radicamento sono stati straordinari. Tra l’altro abbiamo avuto l’importante riconoscimento del Senato che ci ha fatti destinatari di una medaglia che ci riempie di orgoglio e ci fa capire che la strada è giusta. Già, la medaglia del Senato dà l’opportunità per ricordare chi ha scelto di dare il patrocinio al Festival della Giustizia Penale, un elenco niente affatto banale che fa capire l’importanza di questo appuntamento: Senato, Corte Costituzionale, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Regione Emilia-Romagna, comuni di Modena, Carpi, Sassuolo e Pavullo, Consiglio Nazionale Forense, Unimore, Università di Roma Tre, Ordine degli Avvocati di Modena, Croce Rossa Italiana e Non sono un bersaglio, Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi, Fondazione ex campo di Fossoli, Fondazione Vittorio Occorsio, Rete universitaria per la pace, Lions di Pavullo e del Frignano, rete Dafne Italia, Camera Penale di Modena Carl’Alberto Perroux, Italy Innocence Project. Da ultimo i sostenitori del Festival della Giustizia Penale: Ska Sikura, Vis, Pmp, Conad Pavullo, M.I. srl, Agenzia di Modena di Giuffrè Francis Lefevre, Porta Aperta, Csi Modena, Aisla, Tipolitografia Cervi, Adelchi Pavullo, Albergo Corsini, Practical Group, Caffè Speranza, Skemata, Oreficeria Mattioli. Inoltre grazie a Croce Rossa Italiana, Giappichelli editore, Gestiolex, Solisti delle terre verdiane, Attori & Convenuti, Centro Danza Studio, Non è colpa mia, Errorigiudiziari.com, Associazione Tutti per Danilo e Associazione Il Frignano dei Montecuccoli. Giustizia, un segnale di svolta di Roberto Gressi Corriere della Sera, 29 maggio 2021 Di Maio e le scuse dopo l’assoluzione di Simone Uggetti. Sarebbe un errore da matita blu se la politica, ma anche la magistratura, non cogliesse l’occasione offerta da Luigi Di Maio, che in una lettera a Il Foglio, chiede scusa, senza giri di parole, per l’aggressione politica e mediatica al sindaco di Lodi, Simone Uggetti, assolto dopo cinque anni per non aver commesso il fatto, dopo aver subito l’offesa del carcere e delle dimissioni. Ma ricorda anche il caso Tempa Rossa, che travolse Federica Guidi, allora ministra dello Sviluppo economico, con un’inchiesta ora archiviata, e accenna a tante altre vicende. Non manca chi accusa Di Maio di aver solo voluto mostrare a Giuseppe Conte che il leader del Movimento cinque stelle è ancora lui, o di arrivare tardi, fino al governatore della Campania, Vincenzo De Luca, che lo paragona ai brigatisti che si pentono trent’anni dopo. Ma l’occasione è troppo interessante per bruciarla nel gioco politico. Quando è invece più importante valorizzare questo passo, sempre a rischio di ricadute, perché rifiuta la gogna come strumento di lotta politica. E apre una riflessione in un movimento che primo fra tutti, ma in buona compagnia nella storia di questi decenni, ha fatto dei processi, ben prima che delle sentenze, uno strumento cannibale della vita quotidiana. Sfruttare l’ammissione di Luigi Di Maio, che definisce grotteschi e disdicevoli i modi con i quali i Cinque stelle, non da soli, condussero quello e altri attacchi, per assoluzioni generalizzate della politica, sarebbe furbesco e sbagliato. Ma anche l’iperbole di una parte della magistratura, simboleggiata da Piercamillo Davigo, tuttora campione dei grillini, che pensa che non esistano innocenti ma solo colpevoli che non sono stati ancora scoperti, è un gioco dialettico che non fa più sorridere. Altrimenti non si capirebbe perché la magistratura, che siamo stati sempre abituati a vedere solo appena un gradino sotto al presidente della Repubblica e spesso sopra alle forze dell’ordine nel gradimento degli italiani, segni oggi un preoccupante arretramento. La stragrande maggioranza degli elettori fatica a capire quali verità ci siano dietro alle vicende di Luca Palamara, con la spartizione delle nomine dei giudici e dei pubblici ministeri, o dietro la fantomatica loggia Ungheria, figlia di giochi di faccendieri. Ma è comunque abbastanza perché i cittadini non si sentano garantiti. Non riescono a capire, e proprio per questo non si fidano. È una costatazione che fa male, soprattutto pensando ai tanti, tantissimi magistrati che lavorano seriamente e a volte anche rischiando la vita, così come è già successo nel passato. La barbarie giustizialista sfrenata, la delegittimazione dei giudici a fini di parte, l’attività di supplenza con la quale la magistratura si è spesso sostituita alla politica hanno prodotto danni enormi in un Paese come il nostro che continua a combattere ogni giorno contro la corruzione. Si riduce il coraggio di investire da parte degli imprenditori, si allontana la voglia di scommettere sull’Italia da parte del capitale straniero. Fino a costringerci anche a contare i morti, vittime della ricerca di un profitto al minuto e di meccanismi di scambio tra interessi privati e rinuncia alla sicurezza. Sono questioni particolarmente esplosive in giorni in cui l’Italia getta le basi per favorire con i soldi europei del Recovery fund un percorso di rinascita nazionale dopo la pandemia. Così come per altro verso è drammatica la situazione delle città, dove a pochi mesi dalle elezioni amministrative è sempre più complicato trovare candidati di livello disposti ad accettare la sfida per tanti motivi ma anche a fronte del rischio di essere inquisiti e perseguiti ogni volta che si prende una decisione. Poi, al di là della politica, c’è la vita delle persone. Anni e anni di processi prima di arrivare a sentenza, con un sistema che fa della lentezza l’ingiustizia più grande. Danneggia chi non ha colpe, che intanto perde libertà, dignità, tempo di vita. Favorisce chi i reati li commette e si giova di questo clima di ritardi, incertezza e confusione. Non ci sono innocenti in Italia nell’uso privatistico della Giustizia, matrigna quando tocca noi e meritevolmente inflessibile quando travolge gli avversari del momento. Il fatto che proprio un leader dei fautori della forca, che anche sull’onda giustizialista hanno vinto sia le amministrative del 2016 che le elezioni politiche del 2018, si fermi ora a scusarsi e a ragionare, non va sprecato. C’è un governo di unità nazionale. Non dovrebbe essere illusorio pensare che si possa utilizzare il lavoro della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, in collaborazione anche con l’opposizione e con la magistratura, per imprimere una svolta. Svolta di Di Maio: “Mai più gogna per arresti” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 29 maggio 2021 5 Stelle. Il ministro degli Esteri segna la linea, Conte si accoda. Cancelleri: “Il leader designato si sbrighi, non possiamo stare ancora fermi”. Cominciò tutto con il VaffaDay: Beppe Grillo che leggeva dal palco di Bologna l’elenco dei parlamentari con precedenti penali (mettendo in un unico calderone, tra i tanti, Marcello Dell’Utri di Forza Italia e Daniele Farina del Leoncavallo) e la gente che li mandava a quel paese. Ieri quella storia si è rotta con Luigi Di Maio che scrive al Foglio per dire: “Una cosa è la legittima richiesta politica, altro è l’imbarbarimento del dibattito associato ai temi giudiziari”. Il ministro degli Esteri ed ex capo politico del Movimento 5 Stelle scrive al Foglio per chiedere scusa all’ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti, assolto mercoledì scorso in appello al processo per la presunta turbativa d’asta su un bando per la gestione delle piscine comunali, accusa che aveva portato al suo arresto. I fatti risalgono a cinque anni fa, anche allora ci si trovava in campagna elettorale per il voto in città come Roma, Bologna, Torino, Napoli e Milano. “Anche io contribuii ad alzare i toni e a esacerbare il clima - recita il mea culpa di Di Maio - Sul caso Uggetti fu lanciata una campagna social molto dura a cui si aggiunse il presidio in piazza, con tanto di accuse alla giunta di ‘nascondere altre irregolarità”. Uggetti accetta le scuse: “Mi hanno fatto sicuramente piacere. Spero e credo che siano sincere e voglio auspicare che facciano parte di un percorso e di un processo di maturazione dei 5 Stelle”. Per l’ex sindaco di Lodi, nel M5S “hanno capito che la gestione della cosa pubblica nelle amministrazioni purtroppo espone i sindaci e gli amministratori a una quantità di rischi non correlata e proporzionata a una dimensione di equilibrio”. Di Maio ha il polso di quello che accade tra i suoi. Sa che ormai da tre giorni diversi parlamentari del M5S si interrogano sull’assoluzione di Uggetti e lamentano le speculazioni sulle vicende giudiziarie a carico di Virginia Raggi, che sempre mercoledì scorso è uscita definitivamente dal processo sulle nomine per la rinuncia della procura di Roma. Nelle stesse ore, peraltro, i 5 Stelle incontravano la ministra della giustizia Marta Cartabia. I tempi sembrano maturi, tanto più che ormai da qualche giorno Giuseppe Conte è uscito dai radar degli eletti, dopo qualche incursione in riunioni e caminetti che lasciavano presagire un suo impegno in prima linea, seppure in mancanza dell’investitura formale a causa delle beghe legali del M5S. Il leader in pectore prende atto della svolta impressa da Di Maio, quasi rivendicandone la primogenitura: “Ho inserito il primato della persona e della sua dignità nella Carta dei principi e dei valori del neo-Movimento 5 Stelle, a cui ho lavorato nelle scorse settimane. Al centro del nuovo corso c’è il rispetto della persona e dei suoi diritti fondamentali, che nessuna ragione di Stato o di partito possono calpestare”. Ma chi mette il dito nella piaga è il sottosegretario alle infrastrutture Giancarlo Cancelleri, considerato vicino a Di Maio. “Luigi dimostra di avere la stoffa di un leader perché interviene su un tema spinoso e chiede scusa - spiega - Da sempre sono stato molto aperto, non mi sono mai iscritto ai forcaioli. Il M5S ha cavalcato le questioni giudiziarie e contribuito a creare un clima ostile a persone risultate innocenti”. Poi il messaggio a Conte: “Dovrebbe velocizzare questo processo e deve farlo in fretta, le persone all’interno del M5S si stanno interrogando, candidati che non sanno dove andare. Dobbiamo abbandonare alcune stupidaggini del passato”. La linea prevalente tra i parlamentari viene sintetizzata da Stefano Buffagni: “Ci scusiamo per gli attacchi sproporzionati, ma c’era stata un’indagine, delle denunce e un arresto. Il M5S deve avere maggior equilibrio ma continuare a tenere l’asticella dell’onestà altissima”. I toni sono diversi tra fuoriusciti ed espulsi. “Uggetti assolto? Sono contento per lui, evidentemente i tre gradi di giudizio funzionano”, dice gelido Alessandro Di Battista. E il presidente della commissione antimafia Nicola Morra si dissocia: “Luigi Di Maio chiederà anche scusa ma io la penso diversamente. Di Maio ha fatto diversi errori tra cui questo. Il M5S doveva avanzare proposte per moralizzare il quadro pubblico, ad esempio sul codice degli appalti”. “Caro Di Maio, accetto le tue scuse. Ma non ci siano più vittime come me” di Simona Musco Il Dubbio, 29 maggio 2021 L’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, vittima della gogna grillina, replica alla lettera di scuse scritta da Di Maio dopo la sua assoluzione. “Sono contento. Perché le scuse di Luigi Di Maio non sono state rivolte solo a me, ma anche alla mia famiglia. E non è una piccola cosa: ci si dimentica troppe volte di questi aspetti umani, che la gogna colpisce anche loro. Dunque le accetto”. La voce di Simone Uggetti, ex sindaco di Lodi, di recente assolto dall’accusa di turbativa d’asta, tradisce ancora il dolore vissuto in questi cinque anni lunghissimi. Anni in cui la sua vita è cambiata radicalmente, in cui “mi sono dovuto reinventare” e fare i conti continuamente con odio e rancore. Sentimenti che sono stati i partiti politici, in prima fila M5S e Lega, ad autorizzare e incitare, alimentando una gogna che ha fagocitato la vita di Uggetti e della sua famiglia. Cinque anni dopo, assieme all’assoluzione, sono arrivate inaspettate anche le scuse del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che in una lettera indirizzata al Foglio ha fatto autocritica, parlando di modalità “grottesche e disdicevoli”. E affermando, finalmente, il diritto al rispetto della dignità, “fino a sentenza definitiva e anche successivamente”. Un vero e proprio cambio di pelle che oggi Uggetti accoglie di buon grado: “Credo che quello del M5S sia un percorso di maturazione che non è ancora giunto al termine, ma che è reale. Certo, alcuni come me hanno dovuto sopportare la gogna. Però se il mio sacrificio personale può servire a questa maturazione almeno un piccolo modesto senso al mio dolore posso darlo”. Uggetti era stato arrestato nel 2016, dopo la denuncia di una dipendente comunale, che lo accusava di aver interferito illecitamente nella redazione di un bando da 4mila euro per la gestione estiva delle piscine comunali. L’intervento del primo cittadino avrebbe imposto la modifica di alcuni requisiti (abolizione del canone e preferenza per chi opera a Lodi), favorendo così una società municipalizzata e una partecipata pubblica al 45% di cui era socio l’avvocato Cristiano Marini. Accuse che si sono sciolte come neve al sole, ma che nel frattempo hanno devastato la vita di Uggetti. E addirittura, all’epoca, provocarono un mezzo terremoto al Csm, quando il consigliere laico Giuseppe Fanfani definì l’arresto “ingiustificato e comunque eccessivo” rispetto al reato contestato. La questione fu, però, soprattutto politica: i grillini si lanciarono subito sul caso, per colpire soprattutto Matteo Renzi, all’epoca ancora segretario del Pd e presidente del Consiglio. “Lo scandalo di Lodi dovrebbe invitare gli esponenti del Pd al silenzio. Invece Renzi, attraverso i suoi uomini, attacca la magistratura”, scriveva all’epoca Luigi Di Maio, che poco dopo si ritrovò ad affrontare l’indagine a carico del sindaco grillino di Livorno, Filippo Nogarin. “Il Pd è garantista perché non vuole far dimettere gli indagati. Per noi, se Nogarin ha fatto qualcosa si dovrà dimettere”, aveva chiarito. La gogna grillina era stata esasperante: quasi nessuno, tra i big, si era sottratto al gioco del tiro al bersaglio. “La politica è stata per troppo tempo un tifo - racconta Uggetti al Dubbio -, sull’avviso di garanzia, sull’indiscrezione, su intercettazioni, documenti o peggio, come nel mio caso, sul tintinnio delle manette. Ovviamente i 5Stelle erano molto immaturi su questi temi 5 anni fa. Poi hanno dovuto affrontare anche loro la questione, con i casi Nogarin, Pizzarotti, Appendino, Raggi e tanti altri”. La sua vicenda, però, rappresenta anche la definitiva presa di coscienza che fare il sindaco è, spesso, più complicato di quanto possa sembrare. “Una delle storture evidenti del sistema è che il sindaco e l’amministratore locale sono esposti a delle responsabilità che teoricamente non dovrebbero appartenere loro - racconta -. Si fa sempre più difficoltà a trovare candidati, perché si è quasi sicuri che, prima o poi, arriverà un avviso di garanzia. E non va bene, ci vuole maggiore protezione. Certo ci si deve assumere la responsabilità per gli atti che si compiono e va bene. Ma quando non c’è dolo, quando non c’è interesse personale non ci può essere un atteggiamento preventivamente punitivo. Un sistema così non può funzionare”. E poi c’è la gogna, mai accettabile. Perché va bene il diritto alla critica, spiega ancora l’ex sindaco, anche feroce, ma la dignità dell’altro va sempre rispettata. “Il tema è come viene fatto, con quali modalità, con quali obiettivi, con che veemenza”, sottolinea. Anche Salvini, con un tweet, ha espresso solidarietà, chiedendo “più tutela giuridica (e stipendio più adeguato) per tutti i sindaci”. Ma le scuse, da lui, non sono arrivate. “Quando venne in campagna elettorale a Lodi, dopo che mi dimisi, in una piazza mimò il gesto delle manette. Non mi sembra proprio un messaggio di rispetto, sobrietà e garantismo - sottolinea -. Mi aspetterei anche da lui delle scuse per quel gesto. Spero che la prossima volta che un sindaco avrà un problema non faccia lo spaccone come ha fatto con me”. Dopo l’arresto, Uggetti decise di dimettersi. Ma non per la gogna subita, spiega ancora. “Ovviamente si è trattato di un insieme di fattori. Diverse persone, diversi cittadini mi chiedevano di rimanere - sottolinea - ma la cosa che mi fece propendere in maniera decisa per le dimissioni è che un sindaco deve avere prima di tutto autorevolezza. Deve essere a capo di una comunità e purtroppo l’onta del carcere ti toglie quella autorevolezza. Perché l’avviso di garanzia lo han preso tutti e tutti hanno continuato a fare il sindaco. Ma il carcere, la traduzione a San Vittore, quella è un’altra cosa. Se uno sa di aver rubato, di aver fatto del male, si aspetta che possa capitare qualcosa. Ma io ho agito sempre e solo nell’interesse della mia comunità, diavolo. Purtroppo è andata così”. Gli effetti della gogna non sono ancora spariti. A respirare, dice, Uggetti ha ricominciato soltanto dopo l’assoluzione. Cinque anni trascorsi in apnea, tanto che le parole faticano a trovare ordine. “Sentisse come mi batte il cuore mentre parliamo…”, dice lasciando la frase a mezz’aria. La sua vita, spiega, è stata stravolta completamente. Da dipendente pubblico e sindaco ha mollato tutto, trovandosi, all’improvviso, costretto a reinventarsi una vita. “Non è proprio una roba banalissima - continua -. Ero un diavolo di esperto e sembrerà strano, ma a me appassionava proprio parlare di bilanci di previsione e cose così. Mi ero fatto un’esperienza, ma tutto quello che sapevo l’ho dovuto buttare nel cestino. Avevo impegnato una bella parte della mia vita in queste cose. A me è andata bene, perché mi sono rifatto una vita, sono stato in parte bravo ma anche fortunato. Altre persone non possono dire altrettanto. Si finisce per perdere la propria identità”. E nonostante l’affetto di tanti - amici, familiari, concittadini -, “avversari politici ed haters ci sono stati fino all’ultimo secondo”. E così su un futuro ritorno in politica preferisce non sbilanciarsi: “Diciamo che sono felicissimo di poter avere la piena libertà di scegliere. E in questo momento mi godo me la godo”. Non ci sarà nessuna riforma sistematica della giustizia penale di Valerio Spigarelli Il Domani, 29 maggio 2021 Le proposte della commissione Lattanzi toccano molti aspetti del funzionamento della giustizia penale, ma non sono una vera e propria riforma della giustizia penale, che passa per un intervento profondo, che ritocchi il titolo IV della Costituzione. Si coglie lo sforzo verso un modello che non ponga la detenzione carceraria al centro del sistema. Però occorrerebbe anche avanzare proposte di drastica riduzione delle ipotesi di custodia cautelare in carcere e abbandonare il sistema delle preclusioni oggettive. Giudizio negativo, invece, sull’appello. Se è condivisibile la scelta di escludere quello del pm in caso di assoluzione, la trasformazione dell’appello in un regime a critica vincolata, la scelta verso la cartolarizzazione del rito e quella non definitiva verso il mantenimento della collegialità, lasciano molte perplessità. Le proposte presentate dalla commissione Lattanzi intervengono su molte questioni relative al funzionamento della giustizia penale. Dalle notifiche, alle impugnazioni, passando per la prescrizione e i riti speciali, ci sono alcune novità di rilievo e molti ripensamenti rispetto alle soluzioni avanzate dal precedente ministro della Giustizia. Occorrerà del tempo per analizzare ogni singola previsione, per adesso è possibile proporre solo un giudizio complessivo, più legato alle scelte d’insieme che non alle specifiche proposte. Peraltro, e questo viene ribadito espressamente anche nel testo della relazione, non siamo ancora di fronte al testo definitivo di quella che potrà essere definita “riforma Cartabia”, poiché molto è ancora legato alle scelte “politiche” del ministro alle quali la commissione rinvia. A tale proposito nell’ampia - e particolarmente composita sui temi della giustizia - maggioranza di governo, in queste ore si registra il rumor di sciabole, con i grillini già sul sentiero di guerra in difesa della prescrizione modello Buonafede, e fieramente avversi a qualsiasi tentativo di limitare la discrezionalità dei pm in tema di criteri di esercizio dell’azione penale. Insomma, siamo più ad un passaggio obbligato che non al traguardo finale, tenendo conto anche del fatto che lo strumento della legge delega permetterà aggiustamenti anche nel prosieguo dell’iter. Non è una riforma di sistema - Ciò premesso, va subito sottolineato che questa non è, e non poteva essere, una vera e propria Riforma della Giustizia Penale. Una riforma sistemica è un’altra cosa, passa per un intervento profondo, che ritocchi il titolo IV della Costituzione coinvolgendo lo statuto del pm, l’obbligatorietà dell’azione penale, la conformazione del CSM, la costituzione di un’Alta Corte di Disciplina esterna all’organo di governo autonomo, la ventilazione della magistratura con reclutamento esterno. Una riforma di struttura dovrebbe poi prevedere un’ampia depenalizzazione e comunque il ripensamento del vero e proprio delirio sanzionatorio che ha toccato le norme penali, sia sul piano delle sanzioni personali che su quello delle sanzioni reali, dall’altro. Una vera riforma di sistema non può prescindere dalla verifica e dal ripensamento degli eccessi della normativa di prevenzione, dallo debordante e generalizzato utilizzo delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, dall’incostituzionale utilizzo della custodia cautelare come anticipazione della pena, dalla ricostruzione di modalità di assunzione delle prove dichiarative degne dello statuto epistemologico di un codice che si vorrebbe ispirato a principi accusatori. E poi, last but non least, un provvedimento di clemenza che permetta alla macchina di ripartire senza pesi. Insomma, oltre al messaggio rassicurante sul tema dei tempi della giustizia che l’Italia deve mandare all’Europa, per riformare la giustizia penale occorrerebbe comunicare anche qualcosa agli italiani in ordine alla qualità di un sistema giudiziario e del processo di cui, a ragione, si fidano sempre meno. Certo, per un intervento di questo genere sarebbe necessaria una fase costituente, prima ancora che una maggioranza coesa ed omogenea disposta a fare delle scelte politiche coraggiose, condizioni che non paiono realizzabili in un orizzonte prossimo ma che prima o poi si verificheranno. Cosa contiene la riforma - Quanto alle proposte della commissione ministeriale si possono identificare alcune linee di tendenza: deciso promovimento del patteggiamento e di altre forme di fuoriuscita dal processo, come l’ampliamento dei casi di messa alla prova o di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto; riformulazione del sistema sanzionatorio, con un significativo ripensamento del sistema delle pene alternative al carcere ed introduzione di forme di giustizia ripartiva; ed infine cartolarizzazione e limitazione dei giudizi di impugnazione. Analizzando le diverse aree appare assai significativa, anche se in taluni casi occorrerebbe spingere le scelte in maniera ancor più decisa, la decisa inversione di tendenza rispetto alla visione carcero-centrica che ha contraddistinto la legislazione penale negli ultimi anni. Del pari convincente è la parallela scelta di rinforzare quelle forme di conclusione anticipata del processo - con qualche perplessità sull’istituto dell’archiviazione meritata - ed anche la possibilità di anticipare l’affidamento in prova al servizio sociale al momento della sentenza di primo grado, ciò che potrebbe comportare un congruo effetto deflattivo sulle impugnazioni. Al di là delle soluzioni adottate, si coglie lo sforzo - sottolineato anche dalla richiesta di riforme della legge 689/81, dalla introduzione di forme di giustizia ripartiva, e dall’ampliamento del patteggiamento - verso un modello che non ponga la detenzione carceraria al centro del sistema. Sul punto, però, e proprio per realizzare una sincronia complessiva del sistema, occorrerebbe anche avanzare proposte di drastica riduzione delle ipotesi di custodia cautelare in carcere e abbandonare il sistema delle preclusioni oggettive altrimenti si rischia una sorta di vera e propria schizofrenia legislativa. Lasciando da parte la questione prescrizione, che abbisogna di un’analisi particolare, e sulla quale la proposta della commissione è “aperta”, posto che tratteggia soluzioni assai diverse tra loro, il primo giudizio è tendenzialmente negativo, invece, in ordine alle impugnazioni, in particolare sull’appello. Giudizio negativo sull’appello - Mentre è infatti condivisibile la scelta di escludere quello del pm in caso di assoluzione, la trasformazione dell’appello in un regime a critica vincolata, la scelta verso la cartolarizzazione del rito e quella non definitiva verso il mantenimento della collegialità, lasciano molte perplessità. Nel ridurre l’appello a giudizio sui motivi, ciò che si intravede in controluce è l’opzione di falcidiare gli appelli con procedura semplificata in relazione alla inammissibilità per infondatezza manifesta dei motivi, come già avviene per il ricorso in cassazione. Quando si parla di riforma dell’appello non si richiamano mai, ed anzi si tendono a celare, le statistiche sul rilevante numero di riforme di merito che in tale grado di giudizio di registrano. Il nostro modello processuale, con l’effetto pienamente devolutivo che lo contraddistingue, ancorché diverso da quello di altri paesi, andrebbe valutato anche sotto questo aspetto. Tanto più che, come proprio nella relazione si dimostra, la lunghezza dei tempi di questa fase dipende, esclusivamente, da disfunzioni di carattere organizzativo, altrimenti non si spiegherebbero i tempi siderali di smaltimento di certe sedi giudiziarie rispetto a quelli contenuti di altre. È facile prevedere che, come per la prescrizione la preclusione dell’appello del pm lo scontro sarà tutto sul terreno politico, per la riforma dell’appello la contrapposizione, sarà con l’avvocatura. Per concludere, come accennato, manca un rafforzamento dei diritti e delle garanzie nel corso del processo, a partire da una tutela effettiva dell’oralità, con la riscrittura delle regole della cross examination, interpretate in maniera autoritaria dalla giurisprudenza e nella prassi. Insomma: ponti d’ora a chi scappa dal processo ma nessun rafforzamento delle garanzie a chi invece lo affronta nei diversi gradi di giudizio. “Mandato bis, o niente appello”: limiti ai legali confermati dai “saggi” di Errico Novi Il Dubbio, 29 maggio 2021 Dalla commissione Lattanzi arriva una proposta di correzione solo parziale su un limite previsto per il difensore dal ddl penale di Bonafede: l’obbligo di ottenere dall’assistito uno specifico mandato per impugnare una sentenza. Già nel corso delle audizioni alla Camera sul ddl penale, l’avvocatura aveva espresso critiche su alcuni degli aspetti del testo forse poco “mediatici” ma assai rilevanti per l’attività del difensore. Su due passaggi in particolare, il Consiglio nazionale forense aveva denunciato, con la consigliera Giovanna Ollà, scelte che rischiavano di essere persino “offensive” nei confronti dell’avvocato, o comunque penalizzanti in termini di rischio professionale. Dalla commissione Lattanzi arrivano in proposito proposte di correzione solo parziali: in particolare sull’obbligo di ottenere dall’assistito un nuovo specifico mandato per impugnare una sentenza. Non sembra invece per nulla allontanato il rischio che il legale si riduca a terminale delle notifiche digitali. Nel primo caso, la preclusione ad agire, nell’interesse dell’imputato, anche se costui non è in grado di formalizzare il mandato, viene intrecciata con proposte di affinare le norme sul “processo in assenza”. Rispetto invece alle notifiche, la proposta emendativa avanzata dalla commissione di esperti corregge solo in minima parte il testo dell’ex ministro Bonafede, e casomai si occupa di prevedere dei “paracadute” per il passaggio, in forma obbligatoria, al processo penale telematico. La commissione di esperti insediata a via Arenula, e guidata appunto dal presidente emerito della Consulta Giorgio Lattanzi, è stata di fatto una articolazione straordinaria attribuita dalla guardasigilli Marta Cartabia all’ufficio legislativo del ministero. È inevitabile dunque che su alcune scelte strategiche, come quelle relative alle attività del difensore, abbia pesato anche un certo orientamento generale preesistente nelle strutture ministeriali. Adesso andrà chiarito, anche nel corso dell’esame in commissione Giustizia, se i gruppi parlamentari decideranno di assecondare senza particolari critiche ed eccezioni le proposte della commissione Lattanzi. La deputata di “Coraggio Italia” Manuela Gagliardi, avvocato penalista a propria volta, ha depositato ad esempio puntuali proposte di emendamento su mandati “rinnovati” e notifiche al difensore. Andrà dunque verificato cosa decideranno di fare gli altri partiti di governo. A proposito del divieto di impugnare senza un “input” formale dell’assistito, vale la pena innanzitutto di riportare per esteso la riformulazione così come compare nella “proposta” consegnata tre giorni alla ministra: si delega il governo a “prevedere che il difensore dell’imputato assente possa impugnare la sentenza solo se munito di specifico mandato, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza; prevedere che con lo specifico mandato a impugnare l’imputato dichiari o elegga il domicilio per il giudizio di impugnazione; prevedere, per il difensore dell’imputato assente, un allungamento del termine per impugnare”. Cosa c’è di diverso dal testo Bonafede? Pochissimo. Se non l’ultimo periodo della norma, in cui si delegherebbe il governo a introdurre una non già quantificata estensione del termine a vantaggio del difensore il cui assistito risulti assente. Resta intanto l’impressione di una misura concepita in funzione di attività difensive sostanzialmente scorrette, di fantomatici avvocati che impugnerebbero le sentenze di condanna nel proprio esclusivo interesse anziché per assicurare in tutti i modi possibili tutela al cliente latitante, o comunque lontano. Ma dal punto di vista delle garanzie, se non altro, il limite viene innestato in un quadro più razionale. Innanzitutto, la norma, secondo gli esperti scelti da Cartabia, non dovrebbe più comparire, come oggi previsto dal testo base all’esame di Montecitorio, al primo comma dell’articolo 7, relativo all’appello, ma in un modificato articolo 2- ter da inserire nel ddl, con cui verrebbe rivista la materia del “processo in assenza”. E in questa più generale ipotesi di modifica, Lattanzi e gli altri saggi della commissione propongono di intervenire su un istituto relativamente recente, la “rescissione del giudicato”, attualmente definita all’articolo 629- bis del codice di procedura penale. Tale istituto, come ricorda la relazione Lattanzi, è attualmente limitato “ai soli casi in cui tutto il processo si sia svolto in assenza dell’imputato”. Si propone dunque di rivederlo, in modo che la “rescissione del giudicato” operi anche “per le ipotesi di sentenza di condanna in absentia non impugnata (data la effettiva mancata conoscenza da parte dell’imputato e, dunque, la mancata predisposizione del mandato specifico ad impugnare) e, quindi, passata in giudicato”. Le proposte risentono della natura di legge delega che in ogni caso la riforma penale manterrà. Viene previsto, dai saggi di via Arenula, che si debba “ampliare la possibilità di rimedi successivi a favore dell’imputato e del condannato giudicato in assenza senza avere avuto effettiva conoscenza della celebrazione del processo, armonizzando la normativa processuale nazionale a quanto previsto dall’articolo 9 della direttiva Ue 2016/ 343”. È un rimando all’ormai mitica direttiva sulla presunzione d’innocenza recepita poche settimane fa dal Parlamento e che contiene appunto anche indicazioni sui “contumaci”. La lettera f) dell’articolato proposto da Lattanzi delegherebbe il governo a modificare le norme sui “latitanti” in modo da poter procedere nei loro confronti anche “quando non si abbia certezza della effettiva conoscenza della citazione a giudizio e della rinuncia dell’imputato al suo diritto a comparire”. Il tutto perché appunto, come imporrebbe la direttiva 343, si dovrà anche modificare l’istituto della “rescissione” in modo che vi possano accedere pure coloro i quali sono divenuti irreperibili e “ignari” dopo aver avuto attivi contatti col difensore in una fase precedente. È tutto molto complicato, visto pure che sulla “rescissione” sarà poi sempre una Corte d’appello a dover valutare le prove di “mancata conoscenza del procedimento”. Si vedrà in Parlamento. Certo è che, anche dal punto di vista degli imputati assenti, si nota come, nella proposta dei saggi, l’appello sia tra le leve preferite per ottenere una deflazione dell’attività penale. Si tratta di capire se davvero, come si legge nella relazione, tutto questo possa avvenire davvero “senza alcun pregiudizio del diritto di difesa”, La riforma Lattanzi. Quel bisturi sull’appello: è l’accusatorio bellezza! di Nello Rossi* Il Dubbio, 29 maggio 2021 1. I numeri sono eloquenti ed impietosi. Nelle Corti di appello c’è un buco nero, un ingorgo inestricabile. Nel 2019 i processi pendenti erano 260.946. E ogni anno i giudici di secondo grado riescono a definirne meno della metà. Con il risultato che in Italia il giudizio di appello ha una durata media di 851 giorni di contro ad una media europea di 155. Sono questi i dati del Rapporto Cepej che la Commissione nominata dalla Ministra Cartabia e presieduta da Giorgio Lattanzi richiama per rendere chiaro che, se non si interviene sul nodo delle impugnazioni, la promessa, scritta in Costituzione, della ragionevole durata del processo penale non può essere mantenuta. Per realizzare questo obiettivo - che tutti a parole dicono di voler perseguire - occorrerà vincere molte ipocrisie e sfidare le vestali degli opposti dogmatismi presenti tra le forze politiche e nel corpo della magistratura e dell’avvocatura. Parliamo di un sapiente lavoro di rasoio e di bisturi che solo una politica coraggiosa può attuare. Anche compiendo scelte dolorose ma indispensabili, dettate dalla consapevolezza che il cattivo impiego della risorsa - scarsa e costosa - del processo penale si scarica inevitabilmente, con effetti nefasti, sui tempi processuali. Esattamente come avviene in altri servizi essenziali - ad es. la sanità pubblica - nei quali l’incapacità di individuare e far valere ragionevoli priorità genera interminabili liste di attesa, che finiscono con il negare nei fatti un’efficace tutela del diritto alla salute. 2. Il primo nodo da sciogliere è quello delle impugnazioni del pubblico ministero. La Commissione propone di negare alla parte pubblica la possibilità di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento. La logica che la guida è ineccepibile. Se si può emettere una sentenza di condanna solo quando la colpevolezza dell’imputato è provata “al di là di ogni ragionevole dubbio”, il giudice di primo grado che assolve ha espresso la certezza dell’innocenza o almeno ha nutrito un dubbio ragionevole sulla responsabilità dell’imputato (si badi: un dubbio ragionevole, della legge n. 46 del 2006, la c. d. legge Pecorella, che aveva già escluso l’appello del pm contro le sentenze di assoluzione. cioè consistente, significativo, non un dubbio meramente ipotetico o cervellotico). E poiché il giudice è, fino a prova contraria, un essere ragionevole - o un collegio di persone ragionevoli - il suo dubbio non può essere superato solo perché il giudice “che viene dopo”, cioè il giudice di appello, si dichiara di diverso avviso, optando per la colpevolezza. Occorrerà molto di più. Che sia dimostrata l’illogicità della sentenza di assoluzione o che essa risulti frutto di una violazione della legge penale sostanziale o processuale (come accade, ad esempio, quando al pubblico ministero sia stata ingiustificatamente negata una prova decisiva). Ma questo accertamento è compito proprio della Corte di cassazione. E solo ad essa - propone la Commissione potrà rivolgersi il pubblico ministero che intenda impugnare una pronuncia di assoluzione del giudice di primo grado, chiedendo ed ottenendo, se le sue censure verranno accolte, l’annullamento con rinvio della sentenza e la celebrazione di un nuovo processo. E’ il ragionamento che molti - compreso chi scrive - avevano svolto per sostenere la conformità alla costituzione Allora i sostenitori di questa tesi vennero smentiti dalla Corte costituzionale che, con le sentenze n. 26 del 2007 e 85 del 2008, dichiarò l’illegittimità della scelta legislativa in nome della parità delle parti nel processo. Oggi, però, la giurisprudenza del giudice delle leggi ha fatto ammenda del formalismo che ispirò quelle decisioni, prendendo atto della profonda diversità esistente tra le parti del processo penale e della differente valenza costituzionale del potere di impugnazione della parte pubblica (non coperto dal principio di obbligatorietà dell’azione penale) e dell’imputato (diretta espressione del diritto di difesa). Non c’è quindi da attendersi che l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pm incorra di nuovo in una declaratoria di incostituzionalità. 3. Sin qui il “rasoio” della logica giuridica e della coerenza sistematica. Un rasoio più efficace ed incisivo di quanto possa sembrare a prima vista. Se è vero, infatti, che gli appelli del pm avverso i proscioglimenti rappresentano solo una minima percentuale delle impugnazioni non altrettanto può dirsi dei numerosi appelli della parte civile avverso sentenze di proscioglimento che, sulla base dello stesso itinerario logico seguito per il pm, risultano anch’essi preclusi. Comunque pensa e scrive la Commissione - se si vuole davvero garantire un processo di durata accettabile il rasoio non basta e occorre anche incidere sulle impugnazioni di entrambe le parti con un altro strumento: il “bisturi” della ragion pratica. Ed il bisturi taglia molto in profondità. Da un lato il pubblico ministero non potrà appellare le sentenze di condanna: una soluzione che, nella sua radicalità, appare francamente eccessiva e che potrebbe essere utilmente sostituita da una rigorosa selezione normativa delle ipotesi di appello del pm. Dall’altro lato, la facoltà di proporre appello è preclusa anche all’imputato a fronte di sentenze di condanna ritenute non particolarmente afflittive (le condanne a una pena pecuniaria o a pene detentive sostituite con il lavoro di pubblica utilità). Infine - ed è questa la vera scelta strategica della Commissione - si suggerisce di ridisegnare la fisionomia del giudizio di appello, trasformandolo da secondo giudizio di merito in “strumento di controllo a critica vincolata della pronuncia di primo grado”. Il tecnicismo della formula racchiude un contenuto semplice e lineare: l’appellante non potrà limitarsi a sollecitare una nuova decisione sui punti della sentenza impugnata indicati nei suoi motivi di impugnazione mentre il compito del giudice consisterà nel verificare la fondatezza o meno degli “specifici” e tassativi motivi di impugnazione addotti. Con il corollario che sui motivi formulati in termini generici si abbatterà la scure severa dell’inammissibilità dell’appello. Già questo primo rapido schizzo del “sistema” delineato dalla Commissione fa emergere più di interrogativo. Non è troppo ristretto il nuovo perimetro dell’appello? Il rito non è troppo fondato sulle carte? Non ne deriva un eccessivo depotenziamento del contraddittorio orale, subordinato alla richiesta dell’imputato o del difensore? E così via. Obiezioni puntuali che dovranno però misurarsi con la direzione di marcia indicata dalla Commissione: un pieno recupero della centralità del giudizio di primo grado, se si vuole la sua drammatizzazione, coerente con la struttura del processo accusatorio, cui si accompagna una relativa marginalizzazione dell’appello. Parafrasando la folgorante battuta finale, riferita alla stampa, del film “L’ultima minaccia”: “È l’accusatorio, bellezza!”. *Direttore di “Questione Giustizia” Ddl Cartabia inutile se i giudici non cambiano di Giorgio Varano Il Riformista, 29 maggio 2021 La giustizia è amministrata dalle persone, questo vuole dire che nessuna norma, sia essa processuale o organizzativa, può incidere sulla loro cultura. E vuol dire anche che la formazione culturale incide profondamente sulla interpretazione e sull’applicazione delle norme. La cultura del singolo giudice, per esempio, ha conseguenze dirette sul numero dei giudizi abbreviati, quindi sul numero dei processi che finiscono a dibattimento. Prendiamo ad esempio il Tribunale di Napoli. Anni fa c’era un sistema che prevedeva in automatico, in caso di abbreviato richiesto a seguito di giudizio immediato, l’assegnazione del giudizio al Gup della sezione successiva rispetto a quella che aveva disposto l’immediato. Risultato? Numerosissime richieste di abbreviato per alcuni giudici, richieste prossime allo zero per altri. Lo stesso discorso vale per le udienze preliminari. Perché? Semplicemente perché, se da un lato iuria novit curia, dall’altro gli avvocati conoscono i singoli giudici, come ragionano, di quale cultura sono portatori. Un Gup che riceve pochissime richieste di rito abbreviato ha una cultura della giurisdizione profondamente diversa rispetto a quella del suo collega che invece ne riceve tante. Può una modifica di una norma cambiare la cultura di quel giudice? No. Lo stesso accade con i pubblici ministeri per le richieste d’archiviazione. Molte delle riforme proposte dalla Commissione Lattanzi, se approvate, rischiano quindi di avere un effetto molto diverso in funzione dei singoli magistrati che dovranno interpretarle e applicarle. La Commissione, per esempio, non può dire se cinque fogli di motivazione, intestati ma non firmati, posti all’interno di un fascicolo d’appello, siano in realtà dei “meri appunti”, come ha sostenuto l’Anm di Napoli in un recente comunicato, e non una sentenza già scritta prima della discussione, come sostenuto dagli avvocati. Questo lo potrà dire solo la presidenza della Corte d’appello e la sua risposta sarà molto indicativa della cultura della giurisdizione di cui è portatrice. La riforma delle impugnazioni in senso restrittivo, prevista dalla Commissione Lattanzi, potrà incidere sul ripetersi di casi del genere? No, inciderà certamente sul carico delle motivazioni dei processi in appello, tanti dei quali potranno concludersi con un sintetico giudizio di inammissibilità, ma non su un generale maggiore approfondimento dei casi da parte dei singoli dei giudici d’appello. Purtroppo, invece, inciderà sul diritto di ogni cittadino a un nuovo giudizio sul proprio caso, spesso deciso in primo grado da un giudice non togato, o magari da un giudice a cui è mancata la giusta serenità o competenza per quel caso specifico. La riforma vuole estendere la procedibilità a querela di parte per numerosi reati, con chiari intenti deflattivi. È un bene, ma come sempre il vero problema non viene affrontato, anche a causa di un certo realismo politico. Già, perché l’abrogazione di tanti reati bagatellari, che ingolfano la macchina giudiziaria, è impossibile da proporre a questo Parlamento. Eppure, nessuno è in grado di dire il numero - anche approssimativo - delle condotte previste in Italia come reato, certamente migliaia. In un Paese in cui non si vuole mettere mano all’obbligatorietà dell’azione penale e alla riduzione del numero delle condotte previste come reato, il problema della lungaggine delle indagini e dei processi potrebbe essere ridotto aumentando il numero dei magistrati inquirenti e giudicanti in servizio, oltre che del personale, arrivando anche a raddoppiarlo. Ma questo è un tema sul quale la magistratura si è sempre mostrata fredda, se non contraria, perché avrebbe come conseguenza una minore concentrazione della propria influenza anche all’interno della magistratura stessa. La Commissione Lattanzi propone, infine, dei rimedi compensativi - sconto di pena o indennizzo - in tutti i casi in cui non viene rispettata la durata prevista dalla legge Pinto per i singoli gradi di giudizio. È una proposta da valutare con attenzione, ma c’è un “però”. In questi anni le pene sono state costantemente aumentate dal legislatore, quindi non abbassarle - ma il problema, appunto, deriva dalla politica - e prevedere lo sconto in caso di condanna è una idea che ricorda un po’ gli sconti degli autogrill in cui il prezzo, maggiore rispetto alla realtà, viene ridotto poi con lo “sconto” al normale prezzo di mercato. Così l’inchiesta sulla tragedia della funivia si è trasformata in uno show di Simona Musco Il Dubbio, 29 maggio 2021 Nel fermo disposto dalla procura di Verbania, ai tre indagati è contestato il pericolo di fuga “anche in considerazione dell’eccezionale clamore a livello anche internazionale per l’intrinseca drammaticità dell’incidente”. Un vero e proprio show. Se non ci fossero 14 morti di mezzo, famiglie distrutte e vite ancora in bilico, si potrebbe definire così la gestione dell’inchiesta sulla tragedia della funivia Stresa-Mottarone. Con un aggiornamento costante dello sviluppo delle indagini, interviste su ogni minimo dettaglio della tragedia, titoli di giornale che non lasciano nulla al caso, tradendo un interesse sempre più drammatico per il particolare tragico, e l’inseguimento folle del piccolo Eitan, unico sopravvissuto, a caccia di una frase ad effetto sulla sua tragedia privata, ancora solo agli inizi, per provocare una lacrima e rendere i responsabili di quanto accaduto ancora più detestabili. Non è un caso, forse, che nel fermo disposto dalla procura di Verbania, titolare delle indagini, venga tirata in ballo la risonanza della vicenda, il suo impatto, feroce, con la sensibilità dell’opinione pubblica. Per i tre indagati - la cui colpevolezza è data per certa da chiunque ne parli e ne scriva - la procura ha contestato il pericolo di fuga, ipotizzabile, si legge nel decreto di fermo, “anche in considerazione dell’eccezionale clamore a livello anche internazionale per l’intrinseca drammaticità dell’incidente”. Drammaticità “che diverrà sicuramente ancora più accentuata - conclude la procura - al disvelarsi delle cause del disastro”. Un clamore che, però, dipende proprio dall’aggiornamento costante di ogni fase delle indagini, anche il più piccolo passo, necessariamente solo agli inizi, e dall’avidità con cui la stampa si è lanciata sull’ennesima storia da usare e poi dimenticare, stabilendo già, senza appello, i nomi dei colpevoli e le loro responsabilità. E ciò mentre le ipotesi della procura, ora dopo ora, cambiano e si arricchiscono di particolari. “Ciao zia, dove sono mamma e papà?”, scrivono i giornali riferendosi al risveglio del piccolo Eitan. Una sorta di pornografia che ingrossa l’odio e toglie spazio alla giustizia, puntando dritto ad un unico, inaccettabile, obiettivo: un colpevole da consegnare alla gogna pubblica. In una vicenda ancora tutta da scrivere, emblematico è quanto accaduto ad uno degli indagati, Enrico Perocchio, direttore di esercizio della funivia del Mottarone in carcere dall’alba di mercoledì insieme a Luigi Nerini, titolare delle Ferrovie del Mottarone e Gabriele Tadini, responsabile del servizio. “Non si può parlare di pericolo di fuga. Il mio cliente è andato lui stesso in caserma dai carabinieri di Stresa facendosi un viaggio di 90 chilometri”, ha detto il suo legale Andrea Da Prato all’Adnkronos. “Non ci sono i presupposti per la convalida del fermo - ha sottolineato -. Fermarlo di notte sapendo che ha un legale di fiducia toscano mi sembra una bella brutalità”. L’uomo è stato convocato in caserma come persona informata sui fatti, arrivando sul posto a mezzanotte. Ma una volta lì è scattato il fermo, il tutto senza che nulla gli venisse chiesto né comunicato. “Non è stato sentito da nessuno, fino alle 3 di notte - ha spiegato Da Prato a La Nazione - quando gli è stato notificato il fermo. Mi chiedo come possa trovare giustificazione nel pericolo di fuga una persona che aveva chiesto di essere sentita come informata sui fatti”. Perocchio ha negato di aver autorizzato l’utilizzo della cabinovia con i “forchettoni” inseriti e anche di aver avuto contezza di simile pratica, che ha definito “suicida”. Una pratica che avrebbe sempre osteggiato e che può essere attivata esclusivamente in fase di installazione e comunque solo con le cabine vuote. Per gli inquirenti, però, i fatti, così come ricostruiti, sono “di straordinaria gravità in ragione della deliberata volontà di eludere gli indispensabili sistemi di sicurezza dell’impianto di trasporto per ragione di carattere economico e in assoluto spregio delle più basilari regole (…) finalizzate alla tutela dell’incolumità e della vita” dei passeggeri. E i tre fermati, secondo la richiesta di convalida del pm al gip, devono restare in carcere perché continuando a lavorare in questo settore potrebbero mettere nuovamente in pericolo la sicurezza pubblica e quindi reiterare il reato. Non c’è da dubitare su quali sarebbero le conseguenze qualora oggi il gip giungesse ad una valutazione opposta a quella della procura, decidendo di lasciare i tre a piede libero: una sicura condanna pubblica. Storia di Filippo: accusato e incarcerato, poi assolto e riconosciuto vittima di mafia di Pietro Cavallotti Il Riformista, 29 maggio 2021 La chiamano “prevenzione” della mafia. Ci dicono che in Italia abbiamo il più efficace sistema normativo per contrastare la criminalità organizzata. Un sistema così bello che ce lo invidia tutto il mondo. Mi chiedo su quali basi poggino affermazioni così lontane dalla realtà. Da molti anni mi chiedo se sia efficienza o criminalità togliere il lavoro a un uomo assolto, confiscare l’azienda a chi non è mafioso o sciogliere un comune dove non ci sono mafiosi. Mi chiedo che cosa si “prevenga” perseguitando uomini incensurati, i loro figli e intere comunità. Ma soprattutto mi chiedo come si possa pensare di fare “antimafia” senza considerare gli effetti distruttivi che certe misure provocano sulla vita delle persone. Qualche giorno fa ho ricevuto la chiamata di un uomo che ha l’età di mio padre. Il suo nome è Filippo Vasta. Un uomo distrutto, caduto in una profonda depressione che, da alcuni giorni, non vuole uscire di casa. Mi ha detto che non riesce a parlare con nessuno di quello che gli è successo e che ci riesce solo con me. Filippo è una persona semplice che ha sempre lavorato con umiltà e dedizione. Per un errore giudiziario è stato arrestato, si è fatto la galera da innocente, poi è stato assolto definitivamente ed è stato riconosciuto vittima di mafia. Nonostante tutto questo, a sua figlia è stata negata l’iscrizione nella “white list”: in poche parole non può lavorare nel settore pubblico e, per un’impresa come quella della famiglia Vasta che opera nel settore del gas e dell’acqua, significa morte certa. Il diniego viene fatto semplicemente perché è sua figlia, cioè figlia di un uomo innocente! Mi ha fatto gelare il sangue nelle vene quando mi ha detto che ha pensato di farla finita. Mi si è letteralmente attorcigliato il cuore nel petto. Non si dà pace, crede di essere la causa della rovina dei suoi figli e che, togliendosi la vita, potrebbe salvare le loro di vite. Non parliamo di una persona fragile. Parliamo di una persona che è sopravvissuta alla mafia e al carcere. Eppure, di fronte alla follia di un’interdittiva, è caduto nella disperazione più profonda. Ci si sente così quando gli avvocati non sono in grado di dare risposte, quando i giornali e i politici se ne fregano, quando nessuno ti capisce fino in fondo. Sei assalito da un senso di colpa pari solo all’umiliazione che devi sopportare giorno dopo giorno. Lo Stato ti toglie il lavoro e perseguita le persone a te più care. Questa non è lotta alla mafia. Questa è istigazione al suicidio! Lo Stato Caino che se la prende contro chi ha il diritto di vivere una vita dignitosa. Recentemente sono stato contatto da altre persone che stanno attraversando lo stesso dramma di Filippo. Hanno tutti paura di subire ritorsioni. Vi rendente conto? Quando un cittadino arriva a non gridare la propria innocenza e rinuncia a difendere i propri diritti per paura dello Stato, non siamo più in democrazia. Siamo in un regime! È a tutte queste persone che mi voglio rivolgere nella speranza che le mie parole possano essere di conforto e infondere speranza nei loro cuori. Non si può mollare. La paura di rassegnarsi, di lasciarsi morire senza lottare è più forte della paura delle ritorsioni. Il suicidio non è la soluzione! Agli uomini e alle donne cui lo Stato sta togliendo la speranza, il futuro e la voglia di vivere io dico di resistere. Vi dirò una cosa: io, da figlio, rinuncerei per sempre a fare attività d’impresa piuttosto che privarmi di un solo giorno dell’affetto di mio padre. La colpa non è vostra. La colpa è dello Stato che usa strumenti barbari per perseguitare i suoi cittadini. La migliore risposta che possiamo dare è continuare a vivere e a lottare in maniera nonviolenta e, vivendo, troveremo una soluzione. Lo stiamo già facendo. Non vi potete lasciare sopraffare, dovete reagire e reagire ancora, fino alla fine. Non ci possiamo permettere altri Rocco Greco! Costruiremo insieme la strada per uscire da questo vortice mortale delle misure di prevenzione. Andremo fino alla Corte Europea, scenderemo in piazza se sarà necessario. Ma, per fare tutto questo, bisogna essere in forze e non lasciarsi abbattere. I padri devono lottare per i figli e non lasciarsi morire per loro. E i figli la devono smettere di nascondersi o di piangersi addosso, devono uscire le palle a stare a fianco dei padri. La battaglia per la revisione del sistema delle misure di prevenzione non è una semplice battaglia per la difesa dei diritti o del Diritto. È molto di più: è una battaglia per la salvezza della vita. Non c’è battaglia più nobile di quella per la vita. Io sono sicuro che la vinceremo con Nessuno tocchi Caino. Nel frattempo resistiamo! Nel frattempo viviamo! di Marina Castellaneta Stereotipi sulle vittime di stupro, Italia punita dalla Cedu Il Sole 24 Ore, 29 maggio 2021 I controinterrogatori non possono essere intimidatori o umilianti. Dettagli inutili sull’abbigliamento della donna e sulla sua vita sentimentale. Stereotipi diffusi attraverso le parole di una sentenza che costano all’Italia una condanna per violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che assicura il diritto al rispetto della vita privata. È stata la Corte di Strasburgo, con la sentenza depositata ieri (n. 5671/16), ad accertare la violazione della Convenzione, che ha portato anche alla vittimizzazione secondaria della ricorrente. A rivolgersi ai giudici internazionali è stata una donna, studentessa all’epoca dei fatti, che aveva denunciato di essere stata vittima di una violenza di gruppo. Erano stati arrestati sette uomini e il tribunale ne aveva condannati sei per aver costretto la donna in stato di incoscienza ad avere rapporti di natura sessuale. La Corte di appello di Firenze, invece, aveva assolto tutti. Di qui il ricorso della donna a Strasburgo. La Corte europea ha puntualizzato che nei procedimenti in cui sono contestati reati a sfondo sessuale le autorità inquirenti devono cercare un giusto equilibrio tra la tutela della dignità e dell’integrità personale della vittima e il diritto degli accusati a difendersi. È corretto evidenziare eventuali incongruenze nel racconto della vittima, ma senza consentire che il suo controinterrogatorio sia utilizzato come strumento per intimidirla o umiliarla. Nel caso in esame - osserva Strasburgo - gli inquirenti hanno condotto le audizioni correttamente, senza utilizzare mezzi che avrebbero potuto traumatizzare ulteriormente la vittima. Così come il processo è stato svolto con diverse accortezze, ad esempio vietando le riprese televisive. Detto questo, però, la Corte europea stigmatizza l’operato della Corte di appello che, nella sentenza, ha inutilmente evocato la vita personale della donna. Riferimenti alla biancheria intima utilizzata, alla bisessualità, a rapporti occasionali, che la Corte giudica inappropriati e inutili nell’esame dei fatti e nella soluzione del caso. È vero - osserva Strasburgo - che la questione della credibilità della ricorrente era rilevante, ma i riferimenti alle scelte sentimentali odi abbigliamento del tutto fuori luogo e in grado di causare una vittimizzazione secondaria. Nei casi che hanno al centro accuse di stupro, gli Stati, inoltre, hanno obblighi positivi di protezione delle presunte vittime. Certo - scrive la Corte - i giudici devono potersi esprimere liberamente perché ciò è una manifestazione del potere di discrezionalità proprio dei magistrati, ma questo è limitato dall’obbligo di proteggere la vittima e la vita privata di tutte le parti del processo. Nel caso in esame, per Strasburgo, il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla corte di appello hanno riprodotto stereotipi sessisti che esistono - come rilevato dal Grevio - nella società italiana e che mettono a rischio la protezione effettiva dei diritti delle vittime, malgrado la legislazione nazionale sia soddisfacente. Così, il contenuto della sentenza della Corte di appello ha impedito il rispetto degli obblighi convenzionali. No all’estradizione, in Brasile il carcere è disumano Corriere della Sera, 29 maggio 2021 Il figlio di Tano Badalamenti torna libero. Il Paese sudamericano aveva chiesto l’estradizione del figlio del boss per una condanna a 5 anni. Ma i giudici siciliani hanno detto no: non ci sono sufficienti garanzie di una detenzione umana. È stato scarcerato il figlio del boss di mafia Tano Badalamenti, arrestato lo scorso anno per una condanna per stupefacenti maturata alcuni anni fa all’estero. I giudici della seconda sezione della Corte d’Appello di Palermo, condividendo la posizione dei legali di Leonardo Badalamenti (61 anni), hanno anche respinto la richiesta di estradizione del Brasile. Il timore dei giudici è che nelle carceri brasiliani Badalamenti possa essere sottoposto a trattamenti disumani e degradanti. Il detenuto ha già lasciato il carcere di Pagliarelli, in cui era recluso dal 4 agosto 2020. L’uomo - figlio di don Tano Badalamenti (mandante del delitto di Peppino Impastato) - era stato arrestato in Italia in seguito al tentativo di prendere nuovamente possesso di un casolare, prima sequestrato e poi restituito dalla Corte d’Assise di Palermo. In Italia non ha maturato alcuna condanna, mentre la richiesta di estradizione riguarda una pena di 5 anni e dieci mesi per “traffico di sostanza stupefacente” emessa dal Tribunale di San Paolo. “Non è qui richiesto, né ritenuto opportuno riportare le prove e le scansioni procedurali che hanno giustificato la condanna definitiva del Badalamenti”, hanno scritto i giudici della Corte d’appello. “Nell’impossibilità di accertare che Badalamenti non sarà sottoposto a ‘maltrattamenti, torture e trattamenti crudeli, disumani e degradanti’ - scrivono i magistrati - e, anzi, nella ragionevole convinzione che tali condizioni in concreto si verificheranno, la richiesta di estradizione a parere di questa Corte deve essere rigettata”. Il figlio di “don Tano” il 4 agosto 2020 fu arrestato dagli agenti della Dia (Direzione investigativa Antimafia). Nel corso del procedimento il sostituto procuratore generale Carlo Marzella ha espresso parere favorevole all’estradizione, mentre legali gli avvocati Baldassare Lauria e Nino Ganci, avevano chiesto degli accertamenti istituzionali sulle condizioni carcerarie in Brasile e nello stato di San Paolo. La Corte, oltre ai report di organizzazioni non governative come Amnesty International o l’Unhcr, ha acquisito anche dei documenti inviati dall’Ambasciata del Brasile. Secondo i giudici, tuttavia, le informazioni ricevute per via diplomatica erano “assolutamente generiche”, tanto che “non vengono indicate le misure ‘dell’alloggio’, né ‘il numero degli occupanti’ evidenziando l’assenza di “informazioni ‘individualizzate’ sul regime di detenzione che sarà riservato in concreto all’estradando”. Piemonte. Si è svolto il seminario “Contenzioni, fra buone e cattive pratiche” atnews.it, 29 maggio 2021 Organizzato dal Garante delle persone detenute e del Difensore civico regionali. Il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma ha inviato al presidente del Consiglio Mario Draghi e alle Autorità europee una nota formale in merito all’annunciata proposta di revisione della “Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina di Oviedo”. Lo ha annunciato in apertura del seminario “Nuove e vecchie contenzioni”, organizzato dal garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà Bruno Mellano e dal difensore civico della Regione Augusto Fierro. “Il rischio - ha sottolineato Palma - è un arretramento concettuale che può far fare passi indietro al nostro Paese laddove si introducono, tra l’altro, la possibilità di un ricorso alla contenzione sulla base di mere istanze di ‘sicurezza pubblica’ e in occasione di ‘trattamenti involontari’ senza alcuna specificazione su tempi, modi e criteri”. Il seminario ha inteso approfondire le problematiche legate al fenomeno della contenzione fisica e chimica nell’ambito delle strutture istituzionali di residenza penitenziarie e sociosanitarie nella consapevolezza che nuove e più moderne modalità di intervento si sono affiancate a vecchie pratiche non ancora superate, nonostante norme e procedure standardizzate di presa in carico. Fierro, che secondo quanto stabilito dalla legge regionale 19/18 è anche garante della salute, nel 2019 ha condotto un’indagine conoscitiva sull’uso degli strumenti di contenzione meccanica nelle Rsa e nelle Case di cura piemontesi in cui, ha sottolineato “l’88% delle risposte pervenute dalle strutture interpellate riferisce di utilizzare strumenti di immobilizzazione alla carrozzina o alla sedia e il 61% di utilizzare strumenti di immobilizzazione al letto. Prassi questa che, in ipotesi di immobilizzazioni prolungate nel tempo, è contraria all’etica e alla legge”. “Contenere i pazienti, sia pure con finalità di protezione, al di fuori della circoscritta e tassativa disciplina dello stato di necessità - ha sottolineato - si pone in contrasto inconciliabile con il principio del rispetto della dignità della persona ed è priva di effetti migliorativi sulla salute del paziente. Buone pratiche realizzate in alcune città italiane dimostrano come siano concretamente possibili strategie alternative attraverso interventi strutturali e organizzativi nel perseguimento di un rapporto adeguato tra persone ricoverate e operatori”. Il giornalista Matteo Spicuglia ha presentato il volume “Noi due siamo uno - Storia di Andrea Soldi, morto per un Tso” (Add Editore) e il ricercatore dell’Università di Torino Luigi Gariglio il saggio “La contenzione del paziente psichiatrico - Un’indagine sociologica e giuridica” (Il Mulino). Mellano ha evidenziato come “la presenza e l’azione delle figure di garanzia possa contribuire a modificare l’ambito di osservazione, così come momenti di condivisione e di confronto che si rivolgono all’opinione pubblica”. Nel dibattito sono intervenuti il giornalista e scrittore Alberto Gaino e il docente di Sociologia della salute dell’Università di Torino Mario Cardano. Genova. Detenuto trovato impiccato in cella, la sua morte diventa un giallo di Michele Varì primocanale.it, 29 maggio 2021 È un giallo la morte del detenuto trovato impiccato nella sua cella del carcere di Marassi: Emanuele Polizzi, 45 anni, originario di Vittoria (Ragusa), in galera da quasi due anni per una rapina a sprangate al titolare di una sala giochi, si sarebbe ucciso per la depressione in seguito alla condanna a dieci anni. Aspettava l’appello, ma i suoi nervi non avrebbero retto. Questa è almeno la versione ufficiale che parla di suicidio. Ma sulla testa di Polizzi è stata trovata una ferita e tracce di sangue sono state rilevate su uno sgabello della cella. La procura vuole vederci chiaro e infatti oggi il procuratore capo Francesco Cozzi, il pm di turno Giuseppe Longo e il dirigente della squadra mobile della polizia Stefano Signoretti hanno svolto un lungo sopralluogo nella cella del carcere di Marassi con gli uomini della sezione omicidi. Primo passo ascoltare la testimonianza dei tre detenuti che erano con la vittima al momento del suicidio e di altri tre reclusi che dormono lì ma in quel momento erano in altre sezioni perché “lavoranti”. Polizzi si è impiccato prima delle nove di stamane. venerdì 28 maggio, con le lenzuola, si è ucciso nell’antibagno: si è chiuso la porticina alle spalle e si è tolto la vita. Possibile che nessuno si sia accorto di nulla in pieno giorno? In linea teorica sì, ma è questa la domanda a cui gli inquirenti stanno cercando di dare una risposta. Altra domanda che potrà fare capire cosa è successo nella cella è l’ora in cui è morto l’uomo. Per questo il pm ha disposto l’autopsia che sarà svolta dal medico legale Sara Lo Pinto. Il detenuto due settimane fa era apparso molto giù, depresso, durante il colloquio con il suo legale, l’avvocato Silene Marocco, con cui aveva parlato in vista dell’appello, tanto che il legale aveva chiesto che fosse visitato da uno psicologo. Ma venerdì scorso, quando l’avvocato lo ha rivisto, era apparso più sereno, quasi tranquillo. Oggi, nel giorno del decesso, il legale doveva rivederlo, ma ha invece appreso della sua morte. Polizzi era molto scosso perché non si aspettava di essere condannato a ben dieci anni per una rapina, violenta, ma che non aveva provocato lesioni gravissime alla vittima. Era accaduto in via Bologna, a San Teodoro. Con lui c’era anche un complice albanese, dopo il colpo sparito nel nulla. Ad aggravare la posizione del quarantaseienne sono stati due fattori: i tanti e gravi precedenti penali e il fatto che non ha mai ammesso nulla pur davanti a prove schiaccianti, perché nel portone dell’aggressione erano state trovate le sue impronte e il suo furgone era stato inquadrato dalle telecamere proprio in via Bologna nell’ora della rapina. Una negazione totale di ogni addebito che aveva convinto il suo storico legale, l’avvocato Giovanni Maria Nadalini, a dismettere il mandato. Polizzi però sperava di riuscire ad ottenere uno sconto di pena, lo ha detto anche la sua ex moglie con cui ha avuto due figli, e la nuova compagna. Sperava, eppure si sarebbe tolto la vita perché disperato, un giallo appunto, una brutta storia su cui dovrà fare luce la squadra omicidi della squadra mobile. I primi accertamenti sul suicidio sono stati svolti dagli agenti della polizia penitenziaria che collaborano all’indagine della mobile. Genova. Morte in cella a Marassi, caso da chiarire di Marco Lignana e Massimiliano Salvo La Repubblica, 29 maggio 2021 Per il procuratore capo Francesco Cozzi “si tratta di un caso degno di approfondimenti”. Del resto, non capita tutti giorni che lo stesso Cozzi effettui un sopralluogo in carcere insieme al pubblico ministero di turno (in questo caso Giuseppe Longo) dopo un presunto suicidio avvenuto in cella. E invece questo è avvenuto ieri mattina: E.P., 46 anni genovese condannato per rapina in primo grado e in attesa del processo di appello, è stato trovato senza vita con una corda intorno al collo, legata alle sbarre di una piccola finestra a Marassi. Se gli stessi sindacati di polizia penitenziaria hanno subito parlato dell’ennesimo gesto di disperazione avvenuto in spazi sovraffollati e carichi di tensione, alcune lesioni sulla testa del 46enne e tracce di sangue hanno insospettito la Procura. Così, gli inquirenti hanno incaricato la polizia scientifica e il medico legale Sara Lo Pinto di effettuare approfondimenti sul corpo dell’uomo e sulla stessa cella, che ovviamente E.P. condivideva con altre persone. Le stesse, quattro, che hanno chiamato le guardie penitenziarie per segnalare la morte del detenuto. Tecnicamente, il fascicolo affidato alla polizia è aperto per omicidio e nessun nome al momento è stato iscritto sul registro degli indagati. Secondo Silena Marocco, l’avvocato che assisteva l’uomo, sposato e con due figli, ultimamente E.P. sembrava giù di morale, circostanza che era stata anche segnalata al medico del carcere. Ma proprio il giorno prima della morte il 46enne aveva parlato con la propria legale, e i due si erano dati appuntamento per un colloquio in carcere la mattina seguente. “Quando mi sono presentata a Marassi - spiega lei - mi è stata riferita la notizia. Al momento è impossibile, per me, capire come sono andate le cose”. Il procuratore capo si limita a dire che “si tratta di accertamenti doverosi per capire se quanto riscontrato è compatibile con il suicidio”. L’esito delle indagini su questo specifico caso non cancellano, comunque, il significato del messaggio lanciato da Michele Lorenzo, segretario regionale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, su un tema troppo spesso trascurato: “Il suicidio è sempre una sconfitta per lo Stato, il fatto è grave se si colloca in un quadro ben più grave degli istituti liguri dove c’è l’assoluta indifferenza del provveditorato alle nostre richieste di intervento. Ricordo che Marassi è stato già protagonista di varie proteste, di vari tentati suicidi, vari atti offensivi verso la polizia penitenziaria. C’è da rivedere tutto il sistema penitenziario”. Augusta (Sr). Morte in carcere: i familiari vogliono chiarezza, la Procura indaga di Alberto Sardo radiocl1.it, 29 maggio 2021 I familiari dell’ex collaboratore di giustizia Emanuele Puzzanghera non riescono a trovare una ragione valida per cui il loro congiunto il 14 maggio scorso si è tolto la vita dentro una cella del carcere di Augusta. Il 41enne doveva scontare altri 18 mesi prima di essere libero avendo saldato il suo debito con la giustizia. In queste settimane aveva goduto di permessi premio ottenuti grazie alla sua condotta carceraria. La procura di Siracusa ha iscritto quattro persone nel registro degli indagati tra amministrativi, educatori e appartenenti alla polizia penitenziaria che hanno ricevuto un’informazione di garanzia prima che si procedesse con l’autopsia sul corpo del 41enne nisseno. L’esame è stato condotto nei giorni scorsi dal medico legale Giuseppe Ragazzi e gli esiti saranno depositati nelle prossime settimane. A seguire la vicenda per conto dei familiari è l’avvocato nisseno Ernesto Brivido. “Siamo in attesa degli sviluppi - spiega il legale - i familiari non si danno una ragione, la pena residua era bassa. Per loro è stato un fulmine a ciel sereno anche perché aveva scontato il carcere con serietà”. Il sostituto procuratore di Siracusa Stefano Priolo ha iscritto il fascicolo con l’ipotesi di omicidio colposo con riferimento alla fattispecie di reato omissivo improprio. A ridosso della tragedia il sindacato di polizia penitenziaria Sippe aveva parlato di “disorganizzazione del lavoro” con “un solo agente che deve vigilare su tre reparti”. L’indagine dovrà chiarire molti aspetti, in primis come sia stato possibile che un detenuto avesse in cella una cintura. Soprattutto dopo la bufera che aveva coinvolto il carcere di Augusta a metà aprile quando la Guardia di Finanza eseguì 16 arresti per un giro di telefoni e droga introdotti all’interno della casa di reclusione con il coinvolgimento di un sovrintendente della polizia penitenziaria. Emanuele Puzzanghera in passato aveva collaborato con la giustizia prima di vedersi revocare il programma di protezione a inizio 2011 quando fu coinvolto in un’inchiesta riguardante dei furti commessi al nord Italia. Ma le sue dichiarazioni, in molti casi frutto di quanto appreso durante i periodi di reclusione, hanno spesso trovato riscontri e contribuito ad emanare condanne. Forlì. Paziente psichiatrico rischia di finire in strada perché i servizi sociali non pagano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 maggio 2021 I servizi sociali non intendono più farsi carico dei costi per il suo mantenimento. Rimane quindi senza residenza, né i suoi parenti possono occuparsi di lui. Parliamo di un uomo che rischia di trovarsi in strada dal primo giugno, senza un alloggio, dopo alcuni anni passati prima in una sezione psichiatrica carceraria e poi in una comunità terapeutica, nel Forlivese. La vicenda, resa pubblica dall’agenzia Ansa, riguarda un 40enne finito nei guai con la giustizia per reati commessi da tossicodipendente e che, durante la carcerazione, iniziò a manifestare problemi psichiatrici per cui venne trasferito nel reparto Salute mentale del carcere di Reggio Emilia. Ora il suo difensore, l’avvocata Nicoletta Garibaldo del foro di Bologna, sta tentando di trovare una soluzione, ma il tempo a disposizione è breve e si rischia di vanificare un percorso di recupero che aveva dato buoni risultati. Quali? I magistrati di Sorveglianza chiamati a valutare la sua situazione ne disposero il collocamento in una comunità psichiatrica, in affidamento terapeutico. Parliamo del settembre del 2019, nel frattempo la pena si è estinta, anche per l’esito positivo dell’affidamento, valutato dal tribunale di Sorveglianza di Bologna. A questo punto, rimane il discorso del dopo. Fino a quando la persona resta sottoposta alla misura, il pagamento della retta della comunità, in base alla normativa successiva all’abrogazione degli Opg, dovrebbe essere in carico ai servizi di ultima residenza, per il 40enne il Sert di Castelvetrano (Trapani). Teoricamente il percorso punterebbe a una gradualità, cioè prima il passaggio in una struttura più aperta e poi in un “gruppo appartamento”, per dare autonomia al paziente. Ma per il 40enne, riferisce l’avvocata Garibaldo, i servizi si sono rifiutati di continuare a sostenere il pagamento e dopo alcuni mesi hanno comunicato alla comunità, con 10 giorni di preavviso, che dal 31 maggio non salderanno più. Un dramma. L’uomo ha due fratelli e una madre, che però non hanno la possibilità di farsi carico di un paziente psichiatrico. E così, sottolinea l’avvocata, è “concreta la possibilità di trovarsi in strada, vanificando gli anni di terapia svolti e l’investimento finanziario dello Stato e del Servizio sociale, e a questo si aggiunge il rischio di ricadute. E non stiamo parlando di una persona con patologie irreversibili, ma recuperabile con i corretti supporti”. L’avvocata ora proverà a rivolgersi, come ultima spiaggia, ai servizi sociali di Forlì e al dipartimento di Salute mentale, sperando in un intervento. Eppure la legge parla chiaro. L’inserimento in strutture riabilitative a gestione diretta dell’Azienda Ulss o indiretta, prevede la ripartizione della retta in una quota sanitaria a carico dell’Azienda Ulss ed in una quota sociale a carico dell’utente. Nel caso in cui i redditi dell’utente non siano sufficienti a coprire l’intero importo della quota sociale, il Comune di residenza integra la quota sociale totalmente o parzialmente. In sede di Unità Valutativa Multidimensionale Distrettuale, insieme al progetto di inserimento, viene definita la ripartizione della retta giornaliera delle strutture socio-sanitarie, stabilita dalla normativa sui Livelli Essenziali di Assistenza, divisa tra quota sanitaria e quota sociale. È decisiva l’importanza di non interrompere: solo così si potrà accompagnare l’ospite a un processo graduale di cambiamento, nel quale si attraversano diverse fasi. Interrompere il percorso vuol dire rendere vano il recupero psichico, fisico e relazionale. Solo proseguendo, si prefigge l’obiettivo di un reinserimento efficace e duraturo. Aversa (Ce). Protesta dei detenuti nel carcere: “negati abbracci ai familiari” casertanews.it, 29 maggio 2021 I colloqui vengono permessi solamente con la separazione da un plexiglass o in videochiamata. “È un qualcosa di inumano”. Il Garante dei detenuti Samuele Ciambriello, scrive al Provveditore regionale del ministero della giustizia: “Uniformare le linee guida per i colloqui in tutte le carceri campane”. L’altra sera e per tutta la mattinata di martedì scorso (25 maggio), i detenuti del carcere di Aversa hanno ripetutamente battuto sulle sbarre pentole e altri oggetti per protestare contro la limitazione dei colloqui con i familiari in tempi di Covid. “La battitura” ha creato allarme e attenzione anche all’esterno del carcere, perché il rumore arrivava fin nelle case circostanti la casa di reclusione. I detenuti protestano perché attualmente sono impediti gli abbracci tra familiari. I colloqui in presenza vengono fatti separando familiari e detenuti con un vetro di plexiglass. Per chi, invece, non può fare il colloquio in presenza, è consentita la videochiamata. Nel carcere di Aversa vi sono attualmente 162 detenuti, di cui solo 10 non sono vaccinati. L’istituto penitenziario di Aversa è anche una “casa-lavoro” per più di 42 detenuti. Un istituto normativo nato negli anni 30, che oggi dovrebbe essere largamente superato. Infatti consente che chi ha finito di scontare una pena e viene ritenuto ancora “socialmente pericoloso” può essere internato nella casa di lavoro per altri due anni. Di solito capita agli ex detenuti, internati nelle cosiddette R.E.M.S (Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza) che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. Attualmente vi sono 325 persone in tutta Italia nelle “case lavoro”. La protesta, che è finita nella tarda mattinata, grazie anche alla mediazione della direttrice Stella Scialpi, era indirizzata verso la magistratura di sorveglianza. I detenuti chiedono anche permessi di uscita all’esterno, così come avviene negli altri istituti di pena, considerato anche che ad Aversa transitano detenuti che sono ormai a fine pena o che scontano piccole condanne. Ma il magistrato di sorveglianza ha fatto sapere, attraverso una missiva indirizzata anche ai detenuti, che finché non sono tutti vaccinati o fino a quando non c’è una normalizzazione all’esterno del carcere, le disposizioni per i colloqui restano sempre le stesse. Intanto la direzione del carcere sta organizzano la possibilità di fare dei colloqui all’aperto negli ampi spazi del carcere nei giardini, senza il plexiglass. Sta predisponendo un’area attrezzata dedicata proprio ai colloqui, ma ci vuole ancora del tempo per renderla operativa. Intanto il Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, ha scritto al Provveditore Campano per l’Amministrazione Penitenziaria, chiedendo che dal primo giugno ci sia una uniformità nelle linee guida per il numero dei familiari che i detenuti possono incontrare sia per le modalità in presenza che videochiamata. “Se non c’è uniformità si creano disagi, perché attualmente ad Aversa - spiega Ciambriello - la direttrice ha consentito che chi non può fare colloqui in presenza farà i colloqui in videochiamata. A Poggioreale, per esempio, ciò non è consentito. Anche per questo ho scritto al provveditore regionale delle carceri perché detti linee guida uniformi per tutte le carceri della Campania. Questo può evitare ulteriori tensioni nelle carceri”. “La protesta, è rientrata - dice un familiare all’esterno del carcere di Aversa, mentre esce dall’istituto di pena - ma la tensione resta. Speriamo che tutto si possa tranquillizzare”. “Sono contento di apprendere che la mediazione della Direzione del carcere - dice Samuele Ciambriello, Garante regionale dei detenuti - sta portando a creare anche situazioni tali che consentano di fare i colloqui all’aperto con una distanza fisica tale da rendere sicuri gli incontri. E poi sono ulteriormente contento che ad una quindicina di detenuti si darà la possibilità di reinserimento sociale perché è stata sottoscritta una convenzione tra il carcere, l’ufficio del garante e il Comune di Aversa per utilizzare all’esterno questi detenuti. È una possibilità concreta di reinserimento sociale. Non solo ma ci sarà la possibilità di utilizzare anche altre borse lavoro, di cui 7 messe disposizione da questo Ufficio, che consentiranno ad altri detenuti di utilizzare il diritto al lavoro per reinserimento sociale”. Caltanissetta. Giustizia di comunità: l’esecuzione penale esterna incontra la scuola gnewsonline.it, 29 maggio 2021 A conclusione del progetto “Trasformare le dipendenze patologiche in dipendenze generative” curato dall’Ufficio di esecuzione penale esterna di Caltanissetta e nato con l’obiettivo di promuovere strategie di prevenzione rivolte sia al mondo giovanile, sia alla presa in carico dei soggetti in esecuzione penale esterna affetti da dipendenze comportamentali e da sostanze, si è tenuto oggi, 28 maggio, un webinar in cui la rete costituitasi con questa iniziativa, e comprensiva dei Servizi per le tossicodipendenze, della Polizia stradale e della Polizia postale di entrambe le province di Caltanissetta ed Enna, ha incontrato gli studenti di quattordici classi di scuole superiori cittadine. Hanno aperto i lavori Anna Internicola, direttore dell’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna per la Sicilia, e Filippo Ciancio, dirigente dell’ambito territoriale di Caltanissetta ed Enna - Ufficio scolastico regionale per la Sicilia. Ha concluso i lavori Maria Grazia Vagliasindi Presidente della Corte di Appello di Caltanissetta. Padova. Lectio magistralis del giudice Antonini a studenti e detenuti padovaoggi.it, 29 maggio 2021 “Dialoghi sulla costituzione”. Nella tarda mattinata di venerdì 28 maggio, dalle ore 12,00 alle ore 13,30 il prof. Luca Antonini, giudice della Corte Costituzionale ha tenuto una lectio magistralis sul principio di uguaglianza, inaugurando il progetto voluto dal direttore del Due Palazzi, Claudio Mazzeo, dal titolo “Dialoghi sulla Costituzione”. Costituzione - Il progetto condiviso con l’Università di Padova, il Cpia e l’itc Einaudi/Gramsci, ha interessato oltre gli studenti delle scuole di Padova e i detenuti iscritti all’università, anche gli alunni di alcuni classi 4 e 5 del liceo Curiel e gli iscritti al master di criminologia. Hanno partecipato, l’incontro si è tenuto online, quindi virtualmente ma attivamente, anche i magistrati di sorveglianza e il terzo settore che da anni opera nell’istituto. Progetto - “Il progetto - spiega il direttore Claudio Mazzeo - mira a promuovere la conoscenza di principi della carta costituzionale e prevede approfondimenti con la partecipazione di personalità in grado di offrire ulteriore spunti di riflessione e analisi sui valori fondanti la nostra carta costituzionale”. Durante l’incontro, che è stato aperto proprio dal direttore Mazzeo, c’è stata la possibilità di interagire con il giudice Antonini, opportunità molto gradita dai partecipanti tanto che l’incontro si è chiuso tra applausi scroscianti. Milano. Carceri, riparte lo sport: inaugurazione nuova palestra in Casa di reclusione di Opera Ristretti Orizzonti, 29 maggio 2021 Un restyling svolto da alcuni ospiti dell’istituto, grazie alla joint venture tra l’Associazione InOpera e numerosi partner. Riparte lo sport, anche in carcere. Sarà inaugurata lunedì 7 giugno, alle ore 14.30, la nuova palestra allestita nell’istituto penitenziario di Opera. Il?restyling della Sala attrezzi è stato realizzato, con la disponibilità dell’area tecnica della Casa di Reclusione e dei responsabili della palestra, durante i mesi della pandemia. I lavori sono stati svolti da alcuni ospiti della?casa di reclusione, grazie alla joint venture ?tra l’Associazione InOpera, il gruppo Scout?”Talenti all’Opera” e numerosi donatori, tra cui l’Università Bocconi,?Leone 1947, la Ditta Liuni, Daw Italia, Progetto Legno,?Grifal, F.lli Brumana, la società sportiva di Inveruno SOI. Ora la palestra dispone di nuovi vogatori, nuove panche,?butterflies,?scottbench,?bike?da?spinning?e da?technogym?e tanti altri macchinari d’avanguardia per i cultori del fitness. “Un dono di tale entità non arriva tutti i giorni - ha commentato la Presidente dell’Associazione INOpera, Giovanna Musco - e solo il lavoro di squadra ha fatto sì che tutto ciò fosse possibile. In un periodo così complesso non era certo scontato che questa operazione si potesse realizzare”. L’iniziativa è nata su segnalazione di alcune persone detenute che erano a conoscenza che l’Università Bocconi stava rinnovando la palestra degli studenti ed era disposta a donare all’istituto di Opera gli attrezzi,?tutti in ottimo stato. Poi, complice il lockdown, il progetto si era arenato. A partire da gennaio 2021, l’Associazione InOpera, insieme agli Scout, coordinati dal responsabile Capo Scout Matteo Borsari, si è attivata riuscendo non solo a risistemare i vecchi attrezzi ma anche a verniciare e pavimentare la palestra. Grazie all’apporto della?Ditta Liuni?è stato possibile pavimentare la “palestra zona cardio”,?Daw Italia?ha fornito la vernice azzurra per riverniciare le pareti della palestra,?Grifal?ha rinnovato tutte le imbottiture per le attrezzature esistenti,?F.lli Brumana?ha completato le bacheche in legno realizzate dagli ospiti della casa di reclusione con la fornitura di pannelli in plexiglass. Per completare quest’opera di “restyling”, è stato possibile acquistare dei nuovi specchi e, grazie al supporto logistico della ditta?Progetto Legno,?inserire?una struttura in legno?nella quale riporre il cambio e altri oggetti, oltre a delle nuove reti da calcetto. Il mitico brand?Leone 1947?ha regalato 5 nuovi, bellissimi sacchi da boxe, insieme a numerosi guanti da boxe, paradenti, fasce, scarpette, e corde?e infine la società?Sportiva Oratoriana Inverunese (SOI)?ha donato ulteriori attrezzature sportive. “L’operazione restyling della palestra è stata l’occasione per apprezzare la generosità e la sensibilità di tante persone verso il mondo della reclusione - hanno concluso la Presidente? Musco e il Capo-Scout Borsari. Tutti i comparti organizzativi hanno funzionato al meglio, nonostante i pesanti limiti imposti dall’emergenza Coronavirus. Un grazie particolare va ai detenuti che, con il loro lavoro volontario,?la loro?cura?ed il loro entusiasmo?hanno contribuito alla realizzazione di questa bella realtà. Sono tutte virtù preziosissime e?mai scontate, soprattutto in un periodo così complesso come quello che stiamo vivendo”. Uomini che aiutano gli altri di Fabrizio Floris Il Manifesto, 29 maggio 2021 La cooperazione italiana nasce negli anni 60 all’interno di clima culturale di grande effervescenza e rinnovamento. Si viveva con un grande entusiasmo, una grossissima gioia, sicuramente sproporzionata, molto naive. “Pensavamo - racconta Gino Filippini in Uomo per gli altri (Gabrielli editore) - di andare a risolvere i problemi del Terzo Mondo e della fame, sull’ondata della generosità di chi dal Nord dava aiuti e andava con soldi, tecniche, fede. Questo clima di grande entusiasmo era reale e ha portato quei primi anni a una certa dimensione di protagonismo, di trionfalismo che era propria di quel tempo. Un’epoca che poi si è rannuvolata. Il che ha fatto spazio ad un’altra fase, non solo del volontariato, ma più generale, che era quella della messa in discussione di tutto”. In estrema sintesi l’idea iniziale era: siamo noi che sappiamo, conosciamo, abbiamo i mezzi, abbiamo tutto, andiamo là e facciamo lo sviluppo. Negli anni 70, c’era stato un completo ribaltamento: “… adesso non bisogna più andare giù! Perché il problema è qui”. Come il problema è qui? “Eh sì, perché il problema lo si osserva là nelle sue manifestazioni, sottosviluppo povertà ecc., ma le radici del problema non stanno là, stanno qui, per cui bisogna lavorare sulle radici e non sugli effetti. Quindi è inutile andar giù, bisogna impegnarsi qui!”. Si riteneva che la povertà del Terzo Mondo fosse sostanzialmente causata dal fatto che i rapporti internazionali fra i popoli sono costituiti da relazioni di dipendenza. Inoltre, molti progetti non facevano che reiterare modelli di sviluppo capitalistico, con l’impiego di tecnologie non adeguate alle realtà locali: non appropriate, non intermedie, non sostenibili. La cooperazione poi era non cooperativa, ogni ente andava per sé, così succedeva che in una zona c’era due tre organismi impegnati a fare pozzi e in un’altra non c’era nessuno. Si arriva alla costruzione dei progetti, dove da una scrivania di una città del nord si stabiliscono durata, obiettivi e metodologia di lavoro: il sapere è tutto in occidente. Con gli anni è sempre più cresciuto il contributo delle comunità locali. Con un numero crescente di domande utili a determinare il progetto: chi è il proprietario del progetto di sviluppo? La comunità locale? Il donatore? Metà e metà? Ma poi esiste una comunità locale? Dove inizia e dove finisce? Chi la rappresenta? Come la rappresenta? Quando inizia la partecipazione della comunità locale? All’inizio, alla fine, mai? È nato, così, un vero e proprio settore di cooperazione dove vi è la compresenza di piccoli gruppi che sostengono piccoli progetti a fianco di organizzazioni che hanno un budget annuale di alcuni miliardi di dollari. Ma anche le tipologie di chi fa cooperazione sono cambiate: le multinazionali fanno cooperazione, i governi fanno cooperazione, le chiese, i sindacati e persino i partiti fanno cooperazione. Quindi qual è la differenza tra queste cooperazioni? Che differenza c’è se una strada (o un ambulatorio) vengono fatti dalla Fondazione Bill e Melinda Gates rispetto a Mani Tese o Amani? Dov’è che il volontariato si distingue? Oggi siamo nell’epoca dei progetti con monitoraggio e valutazione dei risultati. In due/tre anni devi risolvere un problema e dimostrare che è stato decisivo l’apporto del progetto attraverso una valutazione indipendente. I progetti vanno, tuttavia, “guadagnati” devi vincere la gara con decine di concorrenti, questo ha fatto sì che tutti gli enti di cooperazione e volontariato abbiano assunto figure dedicate alla sola scrittura dei progetti (e introiettato logiche sempre più aziendali). In genere in tre anni si risolve poco, a volte le situazioni addirittura peggiorano, non per via del progetto, ma per i processi economici, sociali e politici del Paese. Ad esempio se lavori per il risanamento urbano e cerchi di dare casa ai baraccati ti accorgerai che nonostante i tuoi sforzi il numero dei baraccati dopo tre anni di lavoro è aumentato perché è cresciuta la pressione migratoria dalle campagne e perché la condizione di chi stava un po’ meglio nel frattempo è peggiorata. È necessario fare un altro progetto, ma perché se finanziato deve essere innovativo. Il problema non risolto non può essere riproposto perché “vecchio” e con poco appeal. C’è poi la contraddizione dei Paesi donatori che con una mano prendono e con l’altra danno attraverso i progetti. Con una mano vai in Congo e ti riempi le “tasche” di coltan, diamanti, oro, tantalio, terre rare e con l’altra (più timida) metti su un dispensario, distribuisci aiuti alimentari e paghi i Caschi Blu. Più in generale agisci attivamente sulla generazione del riscaldamento globale e poi pianti alberi per fermare la desertificazione. In tutti questi fattori si è ridotto il pensiero autonomo degli organismi internazionali piegati nella ricerca fondi e fagocitati nel dibattito politico solo in riferimento al salvataggio dei migranti nel Mediterraneo. Ma la cooperazione è molto di più, non è un progetto e nemmeno un processo di cambiamento, è il sogno di cambiare il mondo (senza prendere il potere), è la creazione di legami di lungo periodo che in qualche modo esprimono la negazione stessa del progetto che per definizione è a termine. Una follia, come provare a spezzare il Sars-Cov-2 a mani nude. Precipitare, buttarsi verso il fondo della Storia per essere parte di una catena vitale che trasforma il dolore in bellezza e trasformando si trasforma. Omofobia. Un Ddl perfettibile, un dibattito drogato dai social network di Federico Zappino Il Manifesto, 29 maggio 2021 Il ddl Zan non menziona gli specifici rapporti etero-patriarcali di forza da cui dipendono le discriminazioni e le violenze di genere e sessuali. Nonostante sia comune riferirsi al disegno di legge Zan come a una legge contro l’omo-lesbo-bi-transfobia e la misoginia, è bene precisare che di tutta questa panoplia di fobie il testo non parla. Il dettato di legge (sulla scia della legislazione genericamente antidiscriminatoria di matrice neoliberista) si limita infatti a introdurre generiche misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità. L’unico articolo in cui compaiono le fobie (ma di misoginia non c’è traccia) non concerne integrazioni al codice penale, bensì l’istituzione di una Giornata nazionale, il 17 maggio. È quasi assurdo se si considera la quantità di corifei schierati dalle destre contro la legge, ma il ddl Zan non punisce le discriminazioni e le violenze subite dalle minoranze di genere e sessuali, bensì qualunque discriminazione e violenza, come se qualunque sesso, genere o orientamento sessuale ne fosse soggetto. Il ddl, in altre parole, non menziona gli specifici rapporti etero-patriarcali di forza da cui dipendono le discriminazioni e le violenze di genere e sessuali. Se l’avesse fatto, avrebbe dovuto indicare che a subire discriminazioni e violenze fondate sul sesso, sul genere e sull’orientamento sessuale sono solo le donne, le persone trans, bisessuali, intersex, le lesbiche, i gay. Non gli uomini cisgenere eterosessuali, che invece sono quasi sempre gli autori delle violenze contro tutti quei gruppi. Con questa legge, invece, anche loro potrebbero lamentare discriminazioni o violenze subite in quanto uomini etero. Come mai una legge che si propone di combattere discriminazioni e violenze specifiche, alla fine dei conti produce un testo così ambiguo affidando ampi margini di manovra alla discrezionalità delle corti? E come mai anziché segnalare compatte, e far correggere, i pericoli di questa mistificazione dei rapporti di forza, le minoranze si lacerano al loro interno, drogando il dibattito a volte con menzogne e calunnie? Perché se è vero che tagliare corto sul fatto che la legge non riconosca i rapporti di forza di genere e sessuali, e accontentarsi di ciò che viene, è un ingenuo servizio reso agli oppressori, è vero anche che paventare la minaccia di un’imminente legittimazione della gestazione per altri serve solo ad allargare il fossato tra gay e femministe; che mobilitare il pensiero della differenza sessuale per sollevare criticità sul gender, serve solo a negare il fatto che le vite trans subiscono ogni giorno discriminazioni e violenze; e che fare scempio del “femminismo radicale” per propugnare concezioni essenzialiste e reazionarie - sorrette da dubbie complicità con le destre estreme - serve solo a inquinare la storia e ad alimentare (inconsapevolmente?) inedite forme di antifemminismo. Questo “dibattito” segnala forse il fallimento dei migliori propositi di alleanza fra tutte quelle minoranze politiche che l’occasione di una legge perfettibile avrebbe potuto rinsaldare ai fini di una visione comune, specialmente nel momento in cui il tasso di violenza di genere e sessuale non è mai stato così elevato come nell’anno della pandemia - e questo è solo uno dei motivi per i quali il ddl avrebbe anche dovuto prevedere massicci investimenti per i centri antiviolenza, per le case protette, e per chiedersi perché le minoranze di genere e sessuali ingrossino le file delle povertà estreme. Ma tutto ciò testimonia anche cosa resta del dibattito una volta che viene sussunto dai social network e dalle sue dinamiche relazionali, che al termine di un anno di pandemia - e specialmente per le minoranze escluse dalla società - hanno finito per affermarsi quali infelicissimi surrogati di una socialità lancinata e di spazi di elaborazione politica forse volti al termine. Ma è proprio in questa infausta circostanza che potremmo chiederci con più forza: chi trae il maggiore godimento dalle gogne sui social tra le minoranze? Sono gli stessi che dalla loro oppressione derivano la totalità dei benefici e dei privilegi. E sanno, da tempo, che affinché l’oppressione possa continuare indisturbata è necessario che i gruppi oppressi non si uniscano fra loro. Migranti. Le Ong hanno incontrato la ministra Lamorgese di Vito Carucci Il Domani, 29 maggio 2021 All’incontro durato un’ora e mezza non ha preso parte il presidente del Consiglio Mario Draghi nonostante fosse stato chiesto a lui: “È stato un incontro di aggiornamento reciproco, speriamo ne seguano altri”, racconta Valentina Brinis, responsabile advocacy di Open Arms. Hanno chiesto che il governo intervenga per il soccorso in mare dei migranti. Le Ong hanno incontrato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese: “Bloccare le partenze, a scapito della tutela dei diritti umani e delle continue morti in mare, non potrà mai essere la soluzione” si legge nella nota congiunta delle organizzazioni diramata al termine, un riferimento ai piani recentemente resi noti dal presidente Mario Draghi. Le Ong hanno chiesto alla ministra di riportare agli altri ministeri competenti, soprattutto il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, la necessità di ristabilire il soccorso in mare e un intervento sui fermi amministrativi, infine che il ministero della Salute intervenga sui protocolli Covid e la gestione delle quarantene. L’incontro - All’incontro hanno partecipato Emergency, Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Open Arms, ResQ, Sea-Eye, Sea-Watch, Sos Méditerranée Italia. Dopo l’ennesima strage nel Mediterraneo costata la vita a 130 persone a fine aprile, le organizzazioni umanitarie avevano richiesto un incontro urgente al presidente del consiglio per discutere quali iniziative intraprendere per evitare altri naufragi. Il premier non ha preso parte al confronto. In un’ora e mezza, la ministra ha riferito ai rappresentanti delle Ong del soccorso in mare qual è la situazione italiana in merito alla gestione dei flussi migratori, resa più complicata dalla pandemia. Le Ong hanno sollecitato il coordinamento della Guardia costiera italiana nel Mediterraneo e hanno ribadito che fermi e quarantene sono misure che bloccano le ong per tanto tempo, mentre le partenze dal nord Africa non si arrestano. “È stato un incontro di aggiornamento reciproco, speriamo ne seguano altri. - racconta Valentina Brinis, responsabile advocacy di Open Arms - Ci siamo trovati concordi sul fatto che tutti gli Stati europei devono fare la propria parte nell’accoglienza dei profughi›”. Le ong registrano un’apertura alle istanze presentate: “La ministra si è detta disponibile a farsi portavoce presso gli altri ministeri”. Finanziamenti - Sulla questione libica, le Ong hanno toccato anche il tema dei fondi concessi dal governo italiano: “Questa forma di supporto e finanziamento - scrivono nel comunicato - va interrotta il prima possibile. Vanno trovate soluzioni di medio-lungo periodo per costruire canali sicuri di accesso regolare verso l’Europa. Ma, nel frattempo, non si può continuare a lasciare che le persone muoiano in mare o vengano riportate in un Paese dove sono costrette a subire abusi di ogni genere”. Nel 2021 almeno 500 persone sono annegate nel Mediterraneo centrale quest’anno (rispetto ai circa 150 morti registrati nello stesso periodo del 2020) secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni. Una cifra senz’altro sottostimata, vista l’assenza di testimoni nel Mediterraneo da diverso tempo. Attualmente sono solo due le navi operative della flotta civile: la Aita Mari della ong spagnola Salvamento Maritimo Humanitario e la Geo Barents di Medici senza frontiere. Migranti. Maggiori tutele per chi è privato della libertà personale: l’intesa tra Garanti di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 29 maggio 2021 ma i Centri per il Rimpatrio hanno gravi problemi strutturali. Il Garante dei diritti delle persone private delle libertà personali e quello per la protezione per i dati personali firmano un protocollo. Le ONG denunciano le condizioni di vita nei Centri per il rimpatrio. La notizia di un nuovo protocollo d’intesa a protezione delle persone senza libertà personale arriva a pochi giorni da un’altra notizia, quella del suicidio di Musa Balde nel CPR (Centro di Permanenza per i Rimpatri) di Torino. Il ragazzo, originario del Gambia aveva 23 anni ed era detenuto nel centro in attesa di rimpatrio. La decisione dei Garanti sembra essere legata a questa ennesima tragedia annunciata. Si legge infatti nel comunicato diffuso il 26 maggio 2021 che “le due Autorità coopereranno per proteggere la dignità e i diritti dei detenuti e di altre persone sottoposte a forme di limitazione della libertà, come i migranti trattenuti nei CPR e gli ospiti delle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Cooperazione tra Garanti. Le Autorità potranno attivare ispezioni e istruttorie congiunte su casi di reciproco interesse, avviare indagini conoscitive, scambiare informazioni su possibili violazioni di pertinenza dell’altra Autorità. I due Garanti supporteranno anche progetti formativi comuni per condividere esperienze e migliorare specifiche competenze nel settore. Ci sarà insomma coordinamento e una maggiore sinergia nel difendere i diritti delle persone private della libertà. I problemi relativi ai CPR, però, sono molti e molto gravi. Centri di detenzione. Due settimane prima di togliersi la vita, Musa Balde aveva subito un durissimo pestaggio da parte di tre italiani. Era finito in ospedale. E poi di nuovo in isolamento nel CPR di Torino. Incredulo, aveva chiesto al suo avvocato come mai lui fosse rinchiuso e i suoi aggressori a piede libero. Il dibattito sulle condizioni di vita all’interno dei CPR non si è mai placato. Prima si chiamavano CPT, poi CIE, ma il succo non cambia: i migranti irregolari sono in stato di detenzione amministrativa in attesa di essere rimpatriati per un periodo che va dai 30 ai 90 giorni. Sono isolati, senza telefono, in condizioni definite da molte ONG ai limiti dell’umanità. Un carcere per innocenti, con ancora meno tutele e servizi del carcere penale. Rapporto del Garante sui CPR. Non sono solo le ONG a denunciare la situazione. L’ultimo Rapporto sulle visite effettuate nei CPR negli anni 2019 e 2020 divulgato dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale definisce queste strutture “involucri vuoti”, luoghi dove “l’individuo è ridotto a corpo da trattenere e confinare”, spogliato di dignità e umanità. Oltre alla detenzione di minori, vengono riportate condizioni igieniche insalubri con docce e gabinetti non funzionanti, bagni senza porte e incuria generale. I migranti, rinchiusi e privati del contatto con il mondo, non fanno nulla. L’isolamento totale dal resto della società. Il rapporto denuncia anche il totale isolamento delle strutture dalla società civile, per esempio ONG e giornalisti. Le notizie arrivano all’esterno solo in caso di tragedie o di ribellioni. Negli ultimi periodi ce ne sono state molte, così come sono aumentati i casi di autolesionismo, riporta il Garante. Nel 2020 ci sono stati ben 5 morti. La società civile si mobilita ormai da tempo, in particolare attraverso la rete “Mai più lager - NO ai CPR”, che qualche settimana prima della morte di Balde aveva rilasciato un’intervista a Melting Pot sulla situazione penosa dei migranti detenuti nei CPR. Gli “stage carcerari” dei giovani magistrati. L’esempio di Parigi di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 29 maggio 2021 Sette giorni “in prigione” per capire il senso della pena. Quanti francesi credono che, sotto sotto, in prigione non si stia così male e che la vita di un detenuto in fondo sia migliore di quella di un disoccupato? Vent’anni fa erano appena il 18%, nel 2019 il 50%, oggi più della metà come rivela un sondaggio ipsos (il principale istituto statistico transalpino) su come il sistema carcerario viene percepito dall’opinione pubblica. Una deriva che, anche oltre la Alpi, è stata nutrita dai processi mediatici messi continuamente in scena sulle colonne dei giornali e sugli schermi televisivi. Che si tratti di un macabro fatto di cronaca o di un’accusa di corruzione nei confronti del politico di turno, la privazione della libertà è considerata una pena “dolce”. “La gente invoca spesso punizioni esemplari per i criminali, ma in pochi sanno quanto sia orribile la vita in galera”, racconta Valentine giovane procuratrice ne tra i protagonisti de Le Systeme, una serie di toccanti podcast consacrati al carcere trasmessi online dal sito slate. fr Per evitare che i futuri magistrati vengano influenzati dalla vox populi o siano del tutto sconnessi dalla realtà, l’Ècole nationale de la magistrature prevede degli stage penitenziari obbligatori. Il corso dura quasi tre anni ma per una settimana gli allievi vivono all’interno di una prigione assieme alle guardie carcerarie, un’immersione che lascia il segno nei futuri magistrati e che sgombra la mente da pregiudizi e stereotipi sulla “comodità” delle carceri. “Vivere come un secondino per sette giorni e sette notti, dormire su una scomoda branda, consumare pasti immangiabili, osservare i detenuti ammassati nelle celle, passare il tempo negli spazi comuni è stata un’esperienza fondamentale, per poter capire il senso del mio mestiere. Ogni volta che chiediamo la reclusione per un imputato dobbiamo avere chiaro in mente il luogo dove vanno a finire i condannati, mentre vedo che il racconto sociale che si fa della prigione è del tutto distorto, si ha quasi l’impressione che si tratti di un villaggio turistico dove le persone dormono, mangiano e fanno sport”, continua Valentine che, della sua esperienza, ricorda un aspetto che potrebbe erroneamente sembrare un dettaglio: “La cosa che mi ha colpito di più nella mio stage penitenziario è il rumore, onnipresente, continuo, alienante. In particolare il rumore metallico, quasi un clangore senza sosta di sbarre percosse, di porte che si aprono e chiudono, vivere anni in quel rumore sfibra lo spirito dei detenuti”. Un’altra piccola, grande tortura è la luce che per 24 ore al giorno assedia i prigionieri. Come spiega Karim, un ex detenuto che ha deciso di collaborare alla serie di podcast del Systeme “gli asciugamani sono un bene prezioso, l’unico oggetto autorizzato con cui tentiamo di tappare le finestre per non far penetrare la luce, avere qualche ora di buio è necessario per non diventare pazzi”. Comprendere il significato e la portata delle proprie decisioni e uscire dalla torre d’avorio delle procure è un aspetto centrale del lavoro di magistrato e una condizione necessaria per avere, fuor di retorica, una giustizia né vendicativa, né accademica ma “vicina alle persone”. E ogni allievo uscito dalla stage racconta quanto la sua visione dell’universo carcerario sia stata del tutto sconvolta. L’intreccio ferale tra isolamento e promiscuità, la violenza quotidiana, la solitudine e la rabbia, qualcosa che non puoi capire se non l’hai vissuta. E che, come spiega ancora Valentine, ti fa riflettere sul senso stesso della propria missione: “Qual è la giusta pena, quella che soddisfa la vittima, quella che soddisfa l’imputato o quella che fa brillare gli occhi ai tuoi superiori?”. Spagna. Questione catalana, Sánchez verso l’indulto. Ma si scatena la rissa di Luca Tancredi Barone Il Manifesto, 29 maggio 2021 Non solo la destra, contro anche una parte del Psoe. Voci critiche tra gli indipendentisti. La questione catalana continua a causare grattacapi all’esecutivo spagnolo. Con l’insediamento del nuovo governo catalano, presieduto da Pere Aragonés, si è riaperto il fascicolo “indulto” per i politici catalani incarcerati dopo i fatti del 1 ottobre 2017: il referendum di autodeterminazione che il governo di Rajoy tentò di fermare con tutti i mezzi, comprese le manganellate a anziani che depositavano un voto (senza valore, secondo il tribunale costituzionale). Le pene che toccarono a diversi politici e attivisti coinvolti furono spropositate: fino a 13 anni di carcere e di interdizione dai pubblici uffici (per esempio al leader di Esquerra Republicana Oriol Junqueras, che oggi occuperebbe il posto di Aragonés). Esaurite tutte le vie legali in Spagna, alcuni condannati si sono già appellati alle istanze europee per chiedere una revoca della condanna. Ma come sapevano anche i muri dei palazzi della politica, nell’agenda dell’esecutivo socialista era scritto da tempo che sarebbe arrivato il momento di sbloccare l’impasse concedendo l’indulto, che cancella, del tutto o in parte, le pene. Unidas podemos lo chiede dalla sentenza del 2019, mentre, formalmente, i partiti indipendentisti catalani chiedevano l’amnistia, cioè la cancellazione del reato (che però richiede una legge). Ma Aragonés, ora che non è sotto pressione elettorale, si è affrettato a far sapere a Madrid che “qualsiasi misura che alleggerisca la situazione dei prigionieri e delle loro famiglie sarà benvenuta”. In Spagna, anche se formalmente è il re a concederli, deve essere il Consiglio dei ministri ad approvare le misure di indulto. Non che sia raro: dal 1996 a oggi ne sono stati approvati più di 10 mila, secondo i dati pazientemente raccolti dai giornalisti di Civio. Ma l’indulto ai politici catalani, come previsto, ha scatenato un finimondo politico: prevedibilmente, nella destra di Pp, Vox e Ciudadanos, che della questione catalana ha sempre fatto carne da macello elettorale. Ma anche all’interno del partito socialista, dove alcuni nomi pesanti (fra cui alcuni presidenti regionali e l’ex presidente Felipe González, che fra i molti altri, concesse l’indulto anche a un vero golpista, il generale Alfonso Armada) hanno alzato la voce contro Sánchez. Tanto che il suo luogotenente, il ministro delle infrastrutture Ábalos, ha dovuto ricordare ai baroni regionali che la decisione è competenza del governo e non loro. Fra i politici esplicitamente a favore, a parte i socialisti catalani come il ministro Miquel Iceta e il leader socialista catalano ed ex ministro della Salute Salvador Illa, anche l’ex presidente José Luís Rodríguez Zapatero o il presidente valenziano Ximo Puig. Anche la sindaca Ada Colau e il suo partito Barcelona en comú si sono sempre espressi a favore. Ma la destra ha tutta l’intenzione di montare le barricate: il 13 giugno i tre partiti si rivedranno nella simbolica Plaza de Colón in Madrid per mobilitare le piazze contro l’odiato Sánchez, sulla falsariga di quanto successo nel 2019 quando i tre partiti per la prima volta unirono gli sforzi contro il governo, sdoganando i fascisti. Dopo quella manifestazione, Sánchez convocò le elezioni anticipate che portarono per la prima volta Vox alle Cortes di Madrid. Gli sforzi di Pedro Sánchez questa settimana sono dedicati a fornire giustificazioni per un passo che è inevitabile se il governo vuole normalizzare la situazione in Catalogna: parla di “concordia” e “comprensione”, di “valori costituzionali” e di necessità di “voltare pagina”, mentre i suoi avversari nel partito sottolineano che non c’è stato “pentimento”, che però non è una condizione necessaria per ottenere misure di grazia. La destra invece si straccia le vesti in difesa della “giustizia”, quando fra i delitti indultati finora ci sono stati criminali di tutti i tipi senza che nessuno alzasse un sopracciglio. Il Pp ha iniziato a raccogliere firme contro gli indulti, proprio come fece contro lo Statuto catalano 10 anni fa (cosa che segnò l’inizio della crisi catalana). Ma nel movimento indipendentista ci sono voci contrarie all’indulto: da quella di Jordi Cuixart, presidente di Òmnium cultural, in carcere, che ha ribadito che “tornerebbe a praticare disobbedienza civile” e che non chiede misure di grazia; a quella della presidente dell’altra associazione indipendentista, l’Anc, Elisenda Palusie, che avverte che l’indulto “disarma politicamente l’indipendentismo”. Sudan. L’imprenditore veneziano Marco Zennaro ostaggio di un “uomo forte” di Elisabetta Rosaspina e Farid Adly Corriere della Sera, 29 maggio 2021 In cella da 2 mesi, nonostante il pagamento di 400 mila euro. I carcerieri: “Pensa alla fine di Giulio Regeni”. Dieci settimane agli arresti, di cui le ultime otto in una cella soffocante, a 45 gradi, con altri trenta detenuti che parlano soltanto arabo, un gabinetto in comune e neppure una branda. E non è ancora finita per Marco Zennaro, l’imprenditore veneto prigioniero in Sudan dove era andato a metà marzo per risolvere una grana commerciale che pareva conclusa con il pagamento di 400 mila euro. Invece era il principio del peggio. Per sbrogliare la matassa, la Farnesina ha deciso di inviare dopodomani a Khartoum Luigi Vignali, direttore generale per gli italiani all’estero e per le politiche migratorie. La vicenda ha preso una pessima piega il primo aprile, quando Marco Zennaro, 46 anni, amministratore unico della Zennaro Trafo, piccola fabbrica veneziana, era all’imbarco del volo Egyptair MS 856 in partenza dalla capitale sudanese alle 19 e 30. Stava per tornare a casa dopo due settimane da incubo. Era atterrato a Khartoum per risolvere con il suo distributore in città un’insolita vertenza su una partita di trasformatori elettrici, ritenuta non conforme al contratto. Ma all’Hotel Corinthia Zennaro aveva trovato ad attenderlo alcuni miliziani e un’atmosfera tutt’altro che conciliante. Gli era stato requisito il passaporto e notificata una denuncia per frode. Per Zennaro era stato uno choc: prima di lui, suo padre e suo nonno avevano avuto rapporti commerciali impeccabili con il Sudan, anzi, “con mezza Africa e con tutto il Medio Oriente, da 25 anni - testimonia da Venezia il fratello minore, Alvise. Grazie all’intervento dell’ambasciata italiana, all’inizio Marco aveva potuto aspettare gli sviluppi in albergo, seppure piantonato da uomini armati”. I trasformatori contestati erano destinati alla Sedec, la società elettrica nazionale sudanese. Ma analisi di laboratorio di un’azienda locale del settore (quindi potenziale concorrente) avevano bocciato il prodotto italiano. Dunque si pretendeva il rimborso immediato, senza restituire la merce e senza controperizie da parte di tecnici indipendenti. Il negoziato è stato condotto, sempre sotto sorveglianza armata, con il figlio del titolare della ditta distributrice, Ayman Gallabi, che parla inglese. Parlava. Il suo corpo è stato ripescato dalle acque del Nilo sabato scorso. Ma il primo aprile quando Gallabi aveva ormai incassato il denaro e ritirato la denuncia, i miliziani hanno sbarrato il passo all’imprenditore, che l’ambasciatore Gianluigi Vassallo aveva accompagnato all’aeroporto. La transazione non soddisfaceva Abdallah Esa Yousif Ahamed, finanziatore della Gallabi Company e militare vicino al generale Mohamed Hamdan Dagalo, vice presidente del Consiglio Sovrano che guida il Paese dopo il colpo di Stato del 2019. “Abdallah Ahamed reclama altri 700 mila euro, ma Marco Zennaro non ha mai avuto alcun rapporto commerciale con lui” spiega l’avvocato della famiglia a Venezia, Aldo Silanos. L’unico interlocutore era quel Gallabi ritrovato nel Nilo. “In quasi due mesi di detenzione nella camera di sicurezza di un commissariato il trattamento è diventato sempre più duro”, si angoscia il fratello Alvise. Tra minacciose allusioni dei sorveglianti, “Regeni, Regeni, paga!”, e rischio di infezioni. “Quando ha avuto la febbre è stato portato in ospedale e subito rimandato indietro - aggiunge l’avvocato Silanos. Al personale dell’ambasciata è concesso di visitarlo due volte a settimana”. Tre giorni fa il procuratore generale ha accolto il ricorso dell’avvocato difensore, Ayman Khaled, e disposto la liberazione immediata dell’imprenditore. Ma mentre un’auto della polizia lo portava a firmare i documenti del rilascio, una telefonata dall’alto ha ingiunto agli agenti di fare dietrofront: Zennaro è tornato ad accovacciarsi sul pavimento di un torrido stanzone. “Questa non è più una controversia commerciale, ormai è un caso politico” sostiene il deputato Nicola Pellicani che segue la vicenda dai primi di maggio. Il viaggio di Luigi Vignali sembra confermarlo. Guantánamo (Usa). Cosa ho visto nell’inferno degli uomini in arancione di Carlo Bonini La Repubblica, 29 maggio 2021 A Guantánamo restano ancora oggi quaranta detenuti. Ma che quella prigione fosse nata per sete di vendetta e non di giustizia era già chiaro troppi anni fa. Il 18 maggio scorso, il cittadino pachistano Saifullah Paracha, 73 anni, diabetico e con un cuore malato, si è voltato un’ultima volta verso la prigione in cui aveva trascorso gli ultimi 18 anni della sua vita. Era il prigioniero più anziano di Guantánamo. E, in un’altra vita, quella pre 11 settembre 2001, aveva vissuto da uomo di affari, quale era, a New York e quindi in Tailandia, dove, nel 2003, era stato catturato e inghiottito dalla war on terror. Con lui, Uthman Abd al-Rahim Uthman, yemenita, detenuto da 19 anni senza che nei suoi confronti fosse mai stata formalizzata alcuna accusa. Un commiato silenzioso, il loro. Annotato a margine dalle cronache. Primo rilascio di prigionieri autorizzato dall’amministrazione Biden dopo quattro anni di presidenza Trump in cui una sola era stata la partenza dall’isola. E che porta la contabilità del carcere in questa baia nell’angolo sud-est dell’isola di Cuba, scoperta da Colombo nel 1494 e concessa agli Stati Uniti durante le guerre ispano-americane per un assegno annuo di 4 mila dollari, a 40 reclusi. Uomini piegati dal nulla ossessivo di anni di isolamento, feriti nel corpo e nella psiche dalla memoria di torture, fisiche e psicologiche. Soprattutto, prigionieri due volte. Perché chiamati a camminare sul filo sottile della pazzia che è peculiare di chi non sa quale sarà il proprio destino. Se ci sarà cioè, prima ancora di un perché alla propria pena, anche un quando che le metta fine. Già, perché nella nemesi della Guerra al Terrore, Guantánamo ha finito per fare prigionieri vittime e carnefici insieme. Le prime, in balìa di un diritto penale sostanziale e processuale speciale, battezzato dall’amministrazione Bush nella stagione successiva al martedì di sangue delle Torri gemelle e del Pentagono che, consegnandoli alla condizione di enemy combatants (combattenti nemici), li ha sottratti alle coordinate del diritto internazionale, alle convenzioni di guerra, scaraventandoli in un limbo giuridico che solo raramente ha avuto il suo naturale sbocco in un processo. I secondi, vittime della loro stessa macchina di detenzione che doveva essere, nelle intenzioni, il più formidabile, crudele, ed esemplare deterrente globale del terrorismo jihadista. Ma che è diventata una macchia indelebile nella reputazione della più grande democrazia del mondo libero, incubatrice di sistematiche violazioni dei diritti umani. Fantasma di ogni presidente Usa nel giorno del suo insediamento: Barack Obama (nel 2008 e nel 2012); Donald Trump (2016) e ora Joe Biden. Tutti pronti a promettere la chiusura di quelle gabbie tropicali. Nessuno in grado di tenere fede all’impegno. Passi da marionette - Eppure, a voler leggere i segni, la premonizione della fine era scritta nel principio. Nelle prime immagini che, l’11 gennaio 2002, le televisioni americane recapitarono a domicilio nei tinelli di un Paese che aveva mosso guerra all’Afghanistan, che colpirono come un pugno l’alleata Europa culla del diritto, per rimbalzare nelle periferie di Asia, Medioriente, Africa, dove Al Qaeda giocava la partita decisiva del proselitismo e della Jihad. In quegli uomini in tuta arancione, costretti dalle catene ai polsi e alle caviglie a un movimento dinoccolato da marionette, resi ciechi da occhiali da saldatore che ne trasfiguravano il volto in qualcosa che ricordava quello di giganteschi insetti, mentre venivano infilati nella pancia di aerei militari per essere scaricati in un inferno caraibico agli antipodi della loro terra di origine, erano le stimmate di una vendetta più che di un atto di giustizia. E la loro ostensione dal vivo avrebbe poi reso quella sensazione una certezza. Capitò una prima volta nel 2002, quando scortato dai marines, arrivai per Repubblica sull’isola insieme a un pool di giornalisti internazionali. Quando la prigione si chiamava “Camp X-Ray” e altro non era se non un’immensa stia di rete metallica e filo spinato, dove uomini in ginocchio sotto un sole assassino si offrivano allo sguardo di chi non potevano vedere dietro i loro occhiali da saldatore. Ma a cui potevano gridare nella loro lingua parole che potevano essere una maledizione, piuttosto che un’invocazione. E capitò ancora nel 2003, quando, tornato a Guantánamo, potei documentare come l’ingegneria concentrazionaria, di fronte a un numero di prigionieri salito quell’anno a 700 (un picco mai più raggiunto), avesse trasformato nel nome (Camp Delta) e nella struttura (cemento armato, celle, reparto ospedaliero, sezione per minorenni) la sterrata della disperazione in una meticolosa macchina dell’afflizione. Di cui ogni dettaglio - quelli ostensibili, evidentemente, e non quelli chiusi nel segreto delle camere di interrogatorio riservate al personale della Cia, del Fbi e dell’Intelligence militare - veniva mostrato. Dal contenuto calorico delle razioni di cibo per i prigionieri, alla consunta biblioteca di volumi e dvd in lingua inglese e araba, alle statistiche sull’incidenza dei disturbi psichiatrici negli “ospiti” in tuta arancione e, da quell’anno, anche bianca. Secondo una scala cromatica ritagliata sull’indice di pericolosità del prigioniero che voleva il colore più chiaro indice di avvenuta pacificazione con la condizione di detenuto sine die. Per scrivere la vera storia di Guantánamo ci sono voluti anni e un paziente lavoro di svelamento. E dunque i rapporti della Croce Rossa Internazionale, quelli di Amnesty, le testimonianze di whistleblower (carcerieri e addetti agli interrogatori). E, naturalmente, la verità dei prigionieri che, nel tempo, sarebbero stati rilasciati, restituiti ai Paesi di origine. Molti, come Mohamedou Ould Slahi, per essere riconsegnati alla vita. Altri per constatarne il ritorno sui fronti della Jihad, nel perpetuarsi di quella maledizione della guerra che vuole che l’odio chiami odio.