I pentiti e tutti i danni dell’ergastolo “ostativo” di Henry John Woodcock Corriere del Mezzogiorno, 28 maggio 2021 L’11 maggio 2021 sono state depositate le motivazioni dell’ordinanza n. 97/2021 con la quale la Corte Costituzionale si è pronunciata sull’annosa questione della legittimità costituzionale del così detto “ergastolo ostativo”, nozione coniata dalla dottrina (cui peraltro il Legislatore non fa mai testuale riferimento) per indicare la disciplina dettata dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, elaborata nei primi anni 90 nel contesto di quella “legislazione di emergenza” - che rappresentò la risposta dell’ordinamento alle stragi di mafia e, prima ancora, del terrorismo che avevano insanguinato il paese. Si tratta di una normativa che prevede una serie di limitazioni alla concessione di benefici per i detenuti condannati all’ergastolo per delitti commessi con metodo o finalità mafiose. L’11 maggio 2021 sono state depositate le motivazioni dell’ordinanza n. 97/2021 con la quale la Corte Costituzionale si è pronunciata sull’annosa questione della legittimità costituzionale del così detto “ergastolo ostativo”, nozione coniata dalla dottrina (cui peraltro il Legislatore non fa mai testuale riferimento) per indicare la disciplina dettata dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, elaborata nei primi anni ‘90 nel contesto di quella “legislazione di emergenza” - che rappresentò la risposta dell’ordinamento alle stragi di mafia e, prima ancora, del terrorismo che avevano insanguinato il paese. Si tratta di una normativa che prevede una serie di limitazioni alla concessione di benefici (quali l’accesso al lavoro esterno, ai permessi premio, alla semilibertà, alle misure alternative alla detenzione e, da ultimo, alla liberazione condizionale) per i detenuti condannati all’ergastolo per delitti commessi con metodo o finalità mafiose, salvo che il detenuto non abbia collaborato con la giustizia; un regime dunque che - in una logica squisitamente “neoretribuzionistica” e dunque abdicando integralmente alla nozione “polifunzionale” della pena sancita dalla nostra Costituzione - ha delineato un sistema mirante all’annientamento di un presunto “nemico”, e bandito qualsivoglia prospettiva di un suo reinserimento nella società civile, lasciandogli come unica via d’uscita la “scelta” imposta di collaborare con la giustizia. Ebbene, tale sistema è stato definitivamente scardinato dalla recente pronuncia della Corte Costituzionale del 15 aprile scorso con la quale la Consulta (occupandosi specificamente della concessione del beneficio della liberazione condizionale) - sulla base di alcuni punti cardine fissati da alcune precedenti sentenze della stessa Corte Costituzionale e della Cedu - sembra aver definitivamente eliminato il sopra richiamato automatismo della presunzione assoluta di pericolosità sociale fissata dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, riaffermando, anche rispetto ai detenuti condannati all’ergastolo per i delitti di mafia e di terrorismo, il fondamentale principio della polifunzionalità della pena, e in particolare la funzione rieducativa della pena stessa sancita dal 3 comma dell’articolo 27 della Costituzione, passando, tuttavia - con una tecnica che, a mio avviso, non può che suscitare qualche perplessità - il “testimone” al Legislatore ordinario che dovrà, entro il termine di un anno, approntare una riforma che sia coerente con i principi affermati dalla Consulta. Ebbene, non è certo semplice affrontare un tema così delicato e, da anni, così dibattuto a tutti i livelli. Qualcuno ha ricordato che il paradosso del carcere è che, contestualmente alla sua nascita, nascevano anche le prime proposte di riforma del carcere. E su questo tema, e su quello più specifico dell’ergastolo “ostativo”, si sono recentemente pronunciati autorevoli colleghi ed ex colleghi come il Consigliere Di Matteo e il Procuratore Caselli, ma anche autorevoli esponenti della società civile ed altrettanto eminenti teologi come Monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti, intervenuto da ultimo su un tema ugualmente delicato, e connesso a quello di cui si è occupata la Corte Costituzionale, quale il così detto “ergastolo bianco”. Ma soprattutto non è facile parlarne in un paese come il nostro nel quale la criminalità organizzata e, prima ancora, la criminalità terroristica hanno provato a scalfire gli stessi cardini istituzionali dello Stato, ricorrendo sovente a tecniche stragiste. Detto ciò, devo dire che, per quanto che mi riguarda, la disciplina dell’ergastolo ostativo di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario mi ha lasciato da sempre non poco perplesso. E ho già detto che qualche perplessità mi viene anche dalla pronuncia della Corte Costituzionale dello scorso aprile, sia per la tecnica utilizzata del rinvio al legislatore, sia per alcune indicazioni che la stessa Consulta, tra le righe, sembra dare sulla scelta dei parametri e dei criteri cui dovrà essere ancorata l’abolizione della preclusione alla concessione della libertà condizionale (mi riferisco in particolare al passo nel quale il Giudice delle Leggi suggerisce che il legislatore potrebbe fissare, tra le condizioni cui subordinare la concessione dei benefici, anche la sussistenza o l’accertamento di “specifiche ragioni della mancata collaborazione” da parte del detenuto condannato all’ergastolo per i delitti sopra indicati). Ho solo avuto - per ragioni anagrafiche - la possibilità di ascoltare e di leggere nei media alcuni interventi di Giovanni Falcone, acuto e tenace investigatore, unico e “moderno, e mi è parso in tutta franchezza culturalmente ed ideologicamente lontano da alcune delle più che rispettabili posizioni che capita in questi giorni di leggere sui giornali. Mi auguro tuttavia di non essere tacciato e additato come uno che non rispetta la memoria di Giovanni Falcone e degli altri “eroi” che hanno immolato la loro vita per contrastare mafia e terrorismo, se dico e sostengo in modo convinto che - anche al di là del tema, per certi versi trascendentale, del “fine pena mai” - l’aspetto più odioso della disciplina ostativa dell’ordinamento penitenziario è proprio quello di aver subordinato la concessione di benefici (e il venir meno della presunzione assoluta di pericolosità) alla collaborazione, e quindi ad una condotta delatoria del detenuto. Ciò che giustifica pienamente il sospetto che si tratti in realtà di un regime che vuole punire chi non “si pente” o, peggio ancora, di una sorta di tortura intesa a favorire la “collaborazione”, e ciò perché per “pentimento” nella nostra prassi giudiziaria non si intende affatto quel travaglio morale che porta ad una revisione critica del proprio passato e di conseguenza ad un autentico ravvedimento con la conseguente decisione di cambiare vita. No, significa solo confessione e, soprattutto, delazione. Insomma, proprio la finalità tipica che si propone la tortura. Peraltro, a tale riguardo, il numero elevatissimo di “pentiti” fa sorgere il sospetto che, in certi ambienti di criminalità organizzata, sia diventata prassi “ordinaria” quella di commettere reati gravissimi e poi, una volta beccati, “pentirsi” e godere dei sontuosi benefici legati alla collaborazione, primo tra tutti il venir meno delle preclusioni di cui all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Anche qui, e senza alcuna considerazione di ordine morale, i critici del sistema parlano di una misura criminogena che, paradossalmente, favorisce il crimine, offrendo una prospettiva - il “pentimento” - ai più efferati assassini, messi nella condizione di delinquere senza dover subire conseguenze irrimediabili. Addirittura, c’è chi si spinge ad affermare che, in vista del “pentimento”, conviene ai criminali moltiplicare i propri reati, per avere più cose da “rivelare” e, dunque, accrescere la “rilevanza del contributo all’accertamento della verità”, cui sono commisurati i benefici di legge. In tale ottica sarebbe altrettanto impellente una riforma seria che argini in qualche modo la tendenza delle Procure Distrettuali Antimafia ad imbarcare decine e decine di collaboratori di giustizia che, almeno in alcuni casi, si prendono gioco della stessa Autorità Giudiziaria, e non solo - purtroppo - del Pubblico Ministero, ma anche del Giudice. Con ciò non voglio affatto negare il fondamentale e decisivo apporto fornito da molti collaboratori “seri” nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata. Dico solo che, in sintonia con quella che era la originaria prospettiva dei “padri” della legge sui pentiti, occorre maggiore vigilanza da parte del PM, occorre evitare che - tra “pentito e Pubblico Ministero - si crei una sorta di “sindrome di Stoccolma” rovesciata, e che di veri Giudici non ce ne sia soltanto uno, e per giunta a Berlino, ma se ne riempiano i Tribunali della penisola. Ribadisco dunque che non mi soddisfa pienamente la motivazione della recente pronuncia della Corte Costituzionale. In primo luogo, mi sembra infatti discutibile, se non singolare, che debba continuare ad applicarsi, almeno per un anno, una norma dichiarata incostituzionale. Si tratta di un effetto che - con buona pace della comprensibile esigenza di bilanciare e di contemperare il principio affermato dalla pronuncia in questione con le esigenze securitarie di tutela della collettività - a me pare in evidente contrasto con i principi cardine del nostro ordinamento, e in particolare con i principi fondamentali affermati dall’articolo 25 della Costituzione e dall’articolo 2 del codice penale; sul punto non appare superfluo rammentare che “delle pene” si è occupato il legislatore nel titolo III del primo libro del codice penale (sostanziale). Inoltre - e anche qui mi ripeto - appare altrettanto insidioso il riferimento fatto dalla Consulta anche alla necessità che sussistano e che vengano accertate “specifiche ragioni della mancata collaborazione” da parte del detenuto condannato all’ergastolo, individuandolo quale parametro da utilizzarsi per la concessione di taluni benefici, ivi compresa la liberazione condizionale. Al riguardo, infatti, vi è il concretissimo rischio che, in sede legislativa, si faccia rientrare dalla finestra ciò che si è provato a fare uscire dalla porta. Alla fine della giostra, potrebbe risultare ribadito il discutibile rapporto di scambio tra la concessione di benefici e la “scelta” di delazione imposta al detenuto ergastolano. Per evitare tale risultato paradossale, il legislatore del rinvio dovrà - almeno a mio modesto avviso - oltremodo valorizzare, come fondamentale parametro da utilizzare ai fini di tale delibazione, l’aspetto rappresentato dal tempo trascorso in espiazione della pena. Come anche la Corte Costituzionale ha avuto modo di osservare in passato, il trascorrere del tempo modifica qualsiasi cosa, purtroppo o per fortuna, da tutti i punti di vista; in oltre un quarto di secolo tutto cambia, dalla natura e dal vissuto del condannato, fino alle dinamiche e agli equilibri criminali. È evidente che, trattandosi di detenuti condannati alla pena dell’ergastolo per reati gravissimi, occorre necessariamente che il passare del tempo si accompagni ad un conclamato percorso di ravvedimento e di autentica dissociazione dall’originario contesto criminale, emblematico, dunque, dell’autentica volontà del detenuto di reinserirsi nella società, magari nella prospettiva di poter svolgere il “mestiere” che, in tanti anni, ha avuto la possibilità di apprendere in carcere. Ma un tale percorso non ha nulla a che vedere con la “delazione” che spesso, come si diceva, è sintomatica di tutto, tranne che di autentico ravvedimento. È altrettanto innegabile che il vaglio critico di un simile percorso richieda un’attenta e scrupolosa analisi, passo dopo passo da parte della magistratura di Sorveglianza, dei progressi compiuti dal detenuto e, prima ancora, la realizzazione di un apparato penitenziario non solo decente ma adeguato, esigenza sacrosanta per un qualsiasi paese civile, non potendosi certamente far ricadere sui detenuti le conseguenze dell’inadeguatezza di un sistema carcerario come il nostro che, da anni, ci costa bocciature e bacchettate anche dall’Europa. A proposito di Europa, chi sa se una piccola parte dei soldi che arriveranno coi programmi del Recovery Fund non possa essere spesa, invece che in sussidi vari, per migliorare il sistema carcerario e dunque le condizioni di vita dei sessantamila e più esseri umani detenuti. Persone private della libertà, più tutele contro le violazioni della privacy di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2021 Firmato un Protocollo d’intesa tra il Garante privacy e il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Garante privacy e Garante dei diritti delle persone private della libertà personale potranno attivare ispezioni e istruttorie congiunte, avviare indagini conoscitive, scambiare informazioni su possibili violazioni di pertinenza dell’altra Autorità. Ma anche supportare progetti formativi comuni per condividere esperienze e migliorare specifiche competenze nel settore. È quanto prevede il Protocollo d’intesa sulla tutela di soggetti privati della libertà personale firmato dai Presidenti Pasquale Stanzione e Mauro Palma. Le due Autorità, spiega una nota congiunta, “coopereranno per proteggere la dignità e i diritti dei detenuti e di altre persone sottoposte a forme di limitazione della libertà, come i migranti trattenuti nei Cpr (Centri per i rimpatri) e gli ospiti delle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza)”. “Questo protocollo - ha sottolineato il Garante privacy Stanzione - rappresenta un importante passo in avanti per l’effettiva tutela della riservatezza di chi è sottoposto a misure privative e limitative della libertà personale. Auspichiamo che contribuisca a far crescere nel nostro Paese una maggiore consapevolezza sul rispetto dei diritti di persone in condizione di particolare fragilità”. Per Palma a capo dell’Autorità di garanzia per i detenuti: “Rispetto a persone che a volte vedono i diritti più elementari difficilmente esigibili, potrebbe non sembrare prioritario porre il tema della tutela della loro privatezza. In realtà dietro l’eventuale non tutela di questo bene primario di ogni individuo, si nasconde il non riconoscimento quale persona di chi in tale condizione si trova. Per questo la tutela della privacy di chi appare essere ‘ultimo’ è segno primario della capacità di tutelare i diritti di tutti”. In concreto, il Protocollo prevede che la collaborazione si articoli: a) nel coordinamento degli interventi istituzionali; b) nella segnalazione reciproca di possibili violazioni di norme; c) nell’elaborazione di segnalazioni al Parlamento o al Governo; d) in indagini conoscitive; e) nel rilascio, anche in funzione endo-procedimentale, di pareri su richiesta dell’altra Parte; f) convegni, conferenze stampa o altri eventi a carattere divulgativo e/o scientifico. Tutto questo avverrà attraverso a) lo scambio reciproco di documenti, dati e informazioni; b) la costituzione di gruppi di lavoro; c) ogni altra attività di collaborazione, anche informale, ritenuta utile al raggiungimento degli obiettivi di cui al presente protocollo. Le Autorità inoltre potranno “effettuare congiuntamente ispezioni o visite relativamente a fattispecie di interesse comune”. Il Protocollo ha efficacia biennale e si intende tacitamente rinnovato, salvo contrario avviso delle Parti. Cartabia-Lattanzi, il tandem che riaccende la speranza nel diritto di Guido Neppi Modona Il Riformista, 28 maggio 2021 Sono persone di grande esperienza e con idee moderne. Le prime proposte di riforma della Giustizia della commissione presieduta da Lattanzi sono molto sagge e realistiche. È il metodo giusto, intanto, per affrontare il nodo della durata eccessiva dei processi. Grazie al felice connubio Cartabia-Lattanzi sembra che il tormentatissimo problema della riforma della giustizia penale stia imboccando la buona strada. Nell’affidare a Giorgio Lattanzi il compito di muovere i primi passi sui temi di fondo della riforma, la Ministra Marta Cartabia ha fatto la scelta giusta. Non solo perché Lattanzi è a suo tempo stato un ottimo Presidente della Corte costituzionale, che ha tra l’altro inaugurato le aperture della Corte alla società civile, dalla scuola alle carceri, ma per la lunga esperienza in tema di riforme della giustizia penale. Qui menzionerò solo a titolo di memoria personale e diretta l’impegno di Lattanzi nelle commissioni ministeriali per la riforma del codice di procedura penale del 1974 e della seconda metà degli anni Ottanta, grazie alle quali vide poi la luce il codice del 1988 tuttora in vigore, il primo che ha interamente sostituito uno dei pilastri della legislazione penale fascista del 1930. Il gruppo di studio presieduto da Lattanzi, composto di 15 professori, magistrati e avvocati, ha elaborato in meno di due mesi una relazione molto impegnativa, ove sono in sostanza affrontati gli aspetti più critici del sistema sanzionatorio e del processo penale e vengono proposti i relativi rimedi. La “Commissione per l’efficienza della giustizia” istituita presso il Consiglio d’Europa ha rilevato che in Italia il giudizio di primo grado ha una durata media di tre volte superiore a quella europea, e che la durata dell’appello è addirittura superiore di otto volte. Di fronte a questi dati disastrosi mi limiterò a esaminare alcuni degli strumenti volti a diminuire lo smisurato carico di lavoro che soffoca e paralizza gli uffici giudiziari e per accelerare i tempi del processo. Alcuni rimedi sono da tempo predicati invano dalla dottrina penalistica, altri sono del tutto nuovi. Tra le finalità deflattive del carico penale inserirei al primo posto l’estensione della perseguibilità a querela ad alcuni reati contro la persona o contro il patrimonio che prevedono una pena superiore nel minimo a due anni, quale ad esempio il furto in un supermercato sanzionato con la pena da tre a dieci anni di reclusione ove ricorrano le aggravanti della violenza sulle cose (rimozione del dispositivo antitaccheggio) e dell’esposizione alla pubblica fede degli oggetti rubati. Del tutto nuova nel nostro ordinamento, ma già sperimentato in forme analoghe in numerosi paesi europei, è l’istituto della c.d. “archiviazione meritata”, consistente nella proposta della persona sottoposta alle indagini, o del pubblico ministero, di subordinare l’archiviazione all’adempimento di una o più prestazioni a favore della persona offesa dal reato o della collettività. Il giudice per le indagini preliminari, valutata la congruità delle prestazioni proposte e la volontarietà del consenso della persona offesa, dispone l’archiviazione per estinzione del reato. Si prevede che l’archiviazione meritata possa operare per reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni. Altre misure deflattive si innestano su istituti già presenti nel nostro ordinamento, dei quali viene proposta una più ampia applicazione. È questo il caso dell’esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, ora prevista per reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni o con la sola pena pecuniaria. La Relazione Lattanzi propone di estendere l’istituto ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo - e non più nel massimo - a tre anni, cioè con riferimento anche a reati puniti con pene edittali piuttosto severe. In questo, come in altri istituti, si fa riferimento alla misura minima della pena prevista dalla legge, perché è quella che esprime l’effettiva gravità che il legislatore ha voluto attribuire a quel determinato fatto di reato, posto che il giudice nell’applicare in concreto la pena non può scendere al di sotto del minimo edittale disposto per ciascun reato. Anche per gli istituti del c.d. patteggiamento, cioè l’applicazione della pena nella misura concordata tra pubblico ministero e imputato, e della sospensione del procedimento con messa alla prova la relazione Lattanzi propone l’estensione delle rispettive sfere di applicazione. Quanto al patteggiamento, la riduzione della pena, ora prevista nella misura di un terzo, è aumentata sino alla metà; inoltre l’istituto è ammissibile per una serie di gravissimi reati per i quali è attualmente escluso. Quanto alla sospensione del procedimento, che si accompagna a condotte volte a eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato, al risarcimento del danno e a prestazioni di lavoro di pubblica utilità, si propone di estenderne l’applicazione ad altri gravi reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a dieci anni. Se la prova ha esito positivo la sospensione del procedimento si risolve nell’estinzione del reato. Ciò che lega tra loro e rende realizzabili questi istituti di favore per gli imputati è l’esistenza di una organica disciplina di giustizia riparativa in favore delle vittime del reato, cioè un sistema a suo tempo definito in una direttiva dell’Unione Europea come “qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale”. Nell’ottica dell’introduzione di un sistema di giustizia riparativa si muovono appunto i programmi di riforma della giustizia penale della ministra Marta Cartabia e del presidente della commissione di studio Giorgio Lattanzi. Riforma Lattanzi, giustizia più svelta ma dov’è la visione? di Giorgio Spangher Il Dubbio, 28 maggio 2021 Processo, prescrizione, sanzioni: le modifiche migliorano il ddl Buonafede ma non riesce a sciogliere i nodi più critici. È stata depositata la relazione della commissione Lattanzi istituita per formulare proposte di riforma al ddl n. 2435 presentato dal Ministro Buonafede. La sua immediata diffusione tra gli operatori consente di focalizzare gli aspetti più significativi dell’ipotesi di modifica che sono state avanzate. Sono tre le aree di intervento: proposte relative al processo penale; proposte in tema di prescrizione e di rimedi per la durata irragionevole del processo penale; proposte in tema di sistema sanzionatorio e di giustizia riparativa. Rispetto al citato ddl Bonafede il punto di forza di novità è costituito dal significativo intervento sul sistema sanzionatorio, sia sotto il profilo della disciplina di diritto penale sostanziale, sia sotto l’aspetto più strettamente legato al processo penale. Sotto il primo profilo va segnalato il nuovo statuto della pena pecuniaria che si vuole rendere effettiva (anche in termini di cassa) ma soprattutto centrale nel nuovo sistema sanzionatorio; la previsione di diverse sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi; l’allargamento delle maglie della tenuità del fatto e dei reati per i quali è consentita la richiesta di sospensione del processo e messa alla prova. Completa il ventaglio delle riferite opzione l’introduzione di nuovo conio - già sperimentato in altri Paesi - della giustizia riparativa. Sul piano processuale, la riscrittura del sistema sanzionatorio è affidata ai riti premiali del patteggiamento, del rito abbreviato e del procedimento per decreto. Per il primo, escluse le ipotesi preclusive, è previsto l’accesso alla pena concordata nei limiti dei cinque anni conseguita a seguito di un possibile abbattimento di quella in concreto nella misura della metà. L’operatività del procedimento per decreto sarà incrementata dai nuovi parametri di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria; è prevista l’estinzione del reato condizionato al necessario pagamento della pena pecuniaria; sarà possibile la riduzione di un quinto del pagamento della pena pecuniaria in caso di rinuncia all’opposizione. Quanto all’abbreviato, quello condizionato andrà proposto solo nel giudizio fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento conferendo al giudice la valutazione dell’economicità del rito contratto, prevedendosi altresì che in caso di omessa proposizione dell’appello il giudice dell’esecuzione potrà ridurre la pena un sesto. La seconda linea di intervento, orientata a costituire le premesse per un processo teso a una durata ragionevole, è costituita dall’alleggerimento del carico giudiziario che si intende realizzare attraverso l’estinzione delle contravvenzioni per adempimento della prestazione determinata da un organo accertatore; dall’archiviazione meritata e dall’ampliamento delle ipotesi e delle soglie di pena della procedibilità a querela. Alla logica del decongestionamento possono essere ricondotte anche le previsioni della tutela degli interessi civili, sia sotto il profilo della ridefinizione dei soggetti titolari delle pretese, sia sotto l’aspetto dei diritti esercitabili nel processo penale, sia con riferimento al meglio puntualizzato ruolo degli enti esponenziali. Venendo più direttamente a considerare gli sviluppi procedimentali, la Commissione conferma quanto già noto in relazione alle ipotizzate nuove regole di giudizio per l’archiviazione e per il rinvio a dibattimento. Si tratta di prognosi di condanna, con conseguente elevazioni - in concreto - degli elementi investigativi e probatori proiettati sull’esito del giudizio. È difficile dire come quest’ultimo elemento, sia quelli precedenti, soprattutto quelli processuali premiali, ancorché fortemente incentivati, possano incidere sulle scelte e sulle strategie difensive anche tenendo conto del venir meno della sponda estintiva costituita dalla prescrizione, peraltro già da tempo difficile da materializzarsi, stante il progressivo incremento del tempo della sua maturazione. Pochi aggiustamenti, peraltro già presenti nel ddl Bonafede, caratterizzano i percorsi delle indagini preliminari e del giudizio. Quanto alla fase investigativa, si cerca di operare in modo da superare i tempi morti, rispettare la tempestività e le condizioni delle iscrizioni nel registro ex art. 335 cpp, di contenere i tempi delle attività e degli adempimenti successivi al suo compimento. Se non in termini di celerità, ma almeno di trasparenza dovrebbe operare la previsione dei criteri di priorità o di ordine nell’esercizio dell’azione penale. Un discorso a parte, va fatto con riferimento al giudizio dinanzi al giudice in composizione monocratica, senza udienza preliminare, con ipotesi delittuose da definire ulteriormente, dove tuttavia permane la presenza di una “improbabile” udienza predibattimentale di filtro e non è del tutto sciolta l’alternativa fra monocraticità e collegialità in appello rimandata a una scelta che guardando alla legislazione francese preveda la richiesta di parte o l’iniziativa d’ufficio. È inutile nasconderlo, la disciplina dell’impugnazione dell’appello in particolare, manifesta, anche a un osservatore non prevenuto, forti riserve di ordine sistematico e di merito. Senza entrare in questa occasione nel merito della scelta di escludere la legittimazione ad appellare del p. m. e della parte civile, che potranno ricorrere per tutti i motivi dell’art. 606 cpp e dei conseguenti raccordi normativi (eliminazione dell’appello incidentale dell’imputato e abrogazione dell’art. 603, comma 3 bis, cpp) va vista negativamente la previsione di una griglia di motivi di legittimità e di merito per i quali l’imputato potrà promuovere il giudizio di seconda istanza, ma soprattutto va valutata criticamente la cartolarizzazione del rito, con udienze camerali non partecipate (fatta salva una richiesta). L’integrarsi di due elementi prospetta un giudizio di secondo grado non adeguato alla sua funzione di controllo in estrinsecazione delle istanze difensive, pur nella conservata operatività del divieto della reformatio in pejus e l’eliminazione delle attuali preclusioni del concordato. Il giudizio d’appello poi non può essere ridotto al giudizio sui ùmotivi con il concreto rischio del recupero del canone della manifesta infondatezza, ingessando sempre più il percorso processuale. Riserve in parte analoghe sono prospettabili anche per il ricorso in cassazione seppur temperato da un inedito interpello in materia di competenza territoriale e di una nuova impugnazione straordinaria per l’attuazione delle sentenze Cedu. Come paventato l’eccezionalità pandemica diventa regola. Come anticipato, a parte va considerato seppur anche questo dato inciderà sulle scelte difensive, il tema della prescrizione e dei rimedi (compensativi e risarcitori) conseguente al mancato rispetto dei termini di durata ragionevole del processo. Sul punto la Commissione elabora due proposte alternative lasciando alla politica il compito di sciogliere i nodi di un profilo molto controverso. Nella prima ipotesi, la prescrizione sarebbe sospesa con l’esercizio dell’azione penale ed il mancato rispetto delle successive scansioni processuali costituirebbe una causa di improcedibilità della stessa azione penale. Nella seconda ipotesi, la prescrizione sarebbe sospesa con la sentenza di condanna di primo grado e di secondo grado di conferma della condanna e riprenderebbe il suo percorso con recupero della sospensione in mancanza di definizione del processo nei termini prefissati. In ogni caso, qualora si configuri una durata irragionevole del processo, sono previsti riduzioni di pena e rimedi risarcitori liquidati a titolo di equa riparazione. Il dato significativo è costituito dal fatto che la Commissione suggerisce - considerato che comunque gli effetti della riforma sono differiti nel tempo (2024 e 2025) - di inserire le modifiche nel più ampio contesto della legge delega (e dei suoi tempi) mentre attualmente questa parte della riforma nei termini scelti dal legislatore risulterebbe soggetta all’approvazione del ddl da parte del parlamento. Tentando, a prima lettura e impressione, una valutazione deve dirsi che la proposta evidenzia, al di là del merito legato alle singole proposte la sua forza nella ridelineata ridefinizione complessiva del panorama sanzionatorio penale e processuale e nella presenza di strumenti votati alla razionalizzazione e al superamento di criticità più volte evidenziate in dottrina e nella prassi. Per quante argomentazioni a supporto possano essere prospettate, va ribadito che la disciplina dell’appello e del ricorso per cassazione delineato dalla Commissione non appare condivisibile né nel merito, né nelle finalità. Con tutto il rispetto, a differenza del sistema sanzionatorio, è mancata una visione delle criticità e delle distorsioni che l’attuale struttura processuale, come si è venuta consolidando, evidenzia sul piano del controllo da parte del giudice per le indagini preliminari e del giudice del dibattimento nella fase del giudizio, dato reso ancor più necessario con il prospettato ridimensionamento dei momenti di controllo delle decisioni. Riecco Bonafede: sulla prescrizione è pronto alla trincea di Rocco Vazzana Il Dubbio, 28 maggio 2021 L’ex guardasigilli detta la linea sulla riforma della Giustizia. Persino Giuseppe Conte se ne lava le mani e dopo l’incontro dei 5S con Cartabia sceglie la strada del silenzio. Mentre Giuseppe Conte studia le mosse per sottrarre l’elenco degli iscritti a Davide Casaleggio, il Movimento 5 Stelle procede per conto proprio. Senza una guida, senza una direzione, senza un senso politico preciso. Succede così che la “linea” viene spezzettata per ambiti di competenza e appaltata di volta in volta al capocordata di turno. Sulla giustizia, ad esempio, non ci sono dubbi: si fa ciò che dice l’ex guardasigilli Alfonso Bonafede, a cui per meriti sportivi tocca indicare la rotta. Non importa se giusta o sbagliata, se politica o di principio: l’ex ministro parla, gli altri seguono. E sulla riforma penale Bonafede ha un’unica soluzione: la sua prescrizione non si tocca. Un concetto che ripete come un mantra anche due giorni fa, invitato al tavolo di Via Arenula, davanti a Marta Cartabia, che sbigottita invita il Movimento 5 Stelle a “proporre concretamente eventuali alternative e correzioni, nel bilanciamento dei principi costituzionali e degli obiettivi del Pnrr”. Come dire, in un governo di unità nazionale nessuno può immaginare di imporre a tutti gli altri partiti il proprio punto di vista quasi per ripicca. Perché finora le proposte avanzate dai grillini non sono altro che la riproposizione delle riforme già approvate dai governi Conte uno e Conte due, senza bisogno di ritocchi. L’ostinazione di Bonafede rischia così di condannare i pentastellati a un isolamento senza precedenti, con l’alleato, il Pd, a non profferir parola in una sorta di educato imbarazzo. Ma se il silenzio dei dem appare più che comprensibile, molto meno intellegibile è quello dell’ex avvocato del popolo. Dopo l’incontro della delegazione 5S con la ministra della Giustizia, infatti, Giuseppe Conte non muove un dito. I canali comunicativi di Rocco Casalino tacciano, nemmeno una nota di circostanza per sostenere l’arrocco dei pentastellati sulla prescrizione. Eppure, prima di inviare i suoi in via Arenula, l’ex premier (il primo a richiedere un incontro formale a Cartabia) concorda telefonicamente la linea della fermezza con l’ex ministro. Nessuna sorpresa inattesa, dunque, per Conte, che sceglie però la strada del silenzio. A metterci la faccia rimane il solo Bonafede, che dopo l’incontro dirama una nota, sottoscritta anche dagli altri componenti della delegazione, per ribadire l’irriducibile punto di vista grillino: le proposte della commissione Lattanzi sono da rigettare in toto. “Riteniamo che, in adempimento del dettato costituzionale, sia fondamentale garantire a ogni cittadino un processo celere che si esaurisca in termini ragionevoli, ma questo non deve mai tradursi in denegata giustizia; ogni cittadino che si rivolge allo Stato per avere una risposta di giustizia deve avere la certezza che quella risposta arriverà”, insistono i 5S. I grillini, insomma, non si muovono di un millimetro, anche se le certezze cominciano a vacillare. Probabilmente persino Bonafede sa che sulla prescrizione sarà costretto a cercare un compromesso, come già avvenuto con la Tav, con la Tap o, ultimamente, col Ponte sullo Stretto. In ballo non c’è solo il principio costituzionale della ragionevole durata dei processi, ma anche i soldi, e tanti messi a disposizione dal Recovery Fund. E senza riforme, del processo penale in testa, il flusso di denaro si interromperà, come messo in chiaro da Bruxelles. La presa sulla prescrizione, dunque, prima o poi andrà necessariamente allentata, come sembra ritenere il sottosegretario azzurro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, che a Radio 24 confida fiducioso: “Questo è un governo più ampio, è ovvio che (i 5S, ndr) tengano la posizione su quello che hanno realizzato, nessuno può pensare ad una conversione sulla via di Damasco, però, credo che si siano resi conto che bisogna trovare delle mediazioni”, dice Sisto. Non solo. Il sottosegretario riferisce anche di aver notato un atteggiamento comunque più costruttivo da parte dei grillini: “Devo dire che li ho trovati più maturi, maturità che significa consapevolezza di stare in un governo diverso”, racconta Sisto. E chissà che questa consapevolezza non sia stata stimolata dalla fermezza di Marta Cartabia, pronta a mediare con tutti i partiti, inamovibile con chi non vuol sentir ragioni. Forse, impantanati nell’eterna attesa di Conte, adesso cominciano a capirlo anche i grillini. Anche gli avvocati nel caos per colpa dei troppi mandati di Giulia Merlo Il Domani, 28 maggio 2021 Il tribunale civile di Roma aveva dichiarato ineleggibili il presidente del Cnf Andrea Mascherin e sette consiglieri. Ora sono stati reintegrati per ragioni procedurali, in attesa di una sentenza. Si apre lo scontro nella categoria. La crisi della giustizia non riguarda solo la magistratura, ma passa anche attraverso i vertici dell’avvocatura. Anche in questo caso è una questione legata ai ruoli, anche se per gli avvocati lo scontro si sta svolgendo alla luce del sole e davanti al giudice civile. Il caso trae origine dal limite dei due mandati previsto per legge come vincolo di eleggibilità negli organismi rappresentativi ed è deflagrato all’interno del Consiglio nazionale forense, l’organo istituzionale che rappresenta i 250mila avvocati italiani al ministero della Giustizia e che dunque siede a tutti i tavoli delle riforme, oltre che giudice d’appello nei procedimenti disciplinari dei legali. Dopo più di un anno di sospensione imposto prima da un provvedimento d’urgenza e poi da una sentenza di merito del tribunale civile di Roma, infatti, il presidente del Cnf Andrea Mascherin e altri sette componenti del consiglio, tutti al terzo mandato, sono rientrati nell’organo. Il reintegro è stato possibile non per il ribaltamento nel merito della sentenza di primo grado, ma per ragioni procedurali. Su ricorso dei consiglieri, infatti, la Corte d’appello ha dichiarato che la sentenza di primo grado non è immediatamente esecutiva perché la pronuncia riguarda uno status, dunque è necessario aspettare che la decisione passi in giudicato. Per questo, Mascherin e gli altri plurimandatari (uno solo dei nove si è dimesso alcuni mesi fa) hanno ripreso i loro posti: uno al vertice del Cnf, dopo che per un anno le sue funzioni erano state svolte dalla vicepresidente Maria Masi, gli altri nei rispettivi ruoli nell’ufficio di presidenza e nelle commissioni interne. Il 26 maggio, inoltre, Mascherin in qualità di presidente reinsediato ha portato i saluti istituzionali a un convegno in materia di deontologia forense promosso dall’ordine degli avvocati di Catanzaro. Segno evidente della sua volontà di riprendere la sua presidenza da dove la aveva interrotta un anno fa, a cui avrebbe fatto seguito anche una mail a tutti i consiglieri del Cnf e ai consigli degli ordini. Le proteste - La decisione di Mascherin e degli altri consiglieri di reinsediarsi ha suscitato immediate proteste tra gli avvocati, che si sono scatenati sul web, ma anche reazioni da parte di associazioni nazionali come l’Associazione nazionale forense (Anf), Movimento forense e l’Associazione italiana giovani avvocati (Aiga). “Il 23 e 24 luglio a Roma, al suo congresso straordinario, l’avvocatura, delegittimata nei suoi organi istituzionali, si appresta a parlare di riforma della giustizia”, ha detto il segretario di Anf, Luigi Pansini. “Occorre giungere all’appuntamento spazzando via ogni incertezza, ogni interesse personalistico e ogni degenerazione del carrierismo politico forense”. Sulla stessa linea anche Antonino La Lumia e Antonio de Angelis, che in un comunicato congiunto di Mf e Aiga hanno ribadito la “necessità che l’Avvocatura tutta sia rispettosa della disciplina della propria vita istituzionale. Il chiarissimo dictum del tribunale non può che chiamare tutte le rappresentanze forensi a un definitivo e convinto gesto di responsabilità”. Tradotto: sarebbe auspicabile che i plurimandatari si dimettano, per non tenere sotto scacco il Consiglio proprio in questa fase così delicata in cui l’avvocatura dovrebbe interfacciarsi con voce autorevole con il ministero della Giustizia e interloquire sulle riforme dell’ordinamento civile e penale. Sul web le proteste si esprimono in toni molto più forti: da quattro giorni l’avvocato Giuseppe Caravita di Toritto è in sciopero della fame contro il reinsediamento dei vertici del Cnf. Nel gruppo Facebook Politica forense, tra i più seguiti dalla categoria, si discute in termini accesi di “desolazione” del Cnf e ci si chiede se “l’avvocatura può essere rappresentata in un momento simile da un Cnf decapitato e, comunque, sotto la spada di Damocle di una decisione che ne potrebbe definitivamente sancire l’ineleggibilità”. L’interrogativo, infatti, non riguarda tanto la legittimità formale al rientro dei consiglieri plurimandatari, quanto l’opportunità che le redini dell’organo di rappresentanza istituzionale dell’avvocatura, che ha sede presso il ministero della Giustizia, siano nelle mani di una presidenza su cui pende un giudizio di eleggibilità. A occhi esterni, un Cnf coi vertici sotto processo non è certamente in una posizione agevole. Sul fronte interno, il rischio è che potrebbero venire invalidate le loro decisioni, nel caso in cui prevalga la tesi giuridica che la loro sospensione è ancora valida. Politicamente, tuttavia, la situazione è delicata: i consiglieri dichiarati ineleggibili, infatti, sono stati eletti con i voti del loro distretto e dunque - fintanto che non c’è una sentenza definitiva - la loro legittimazione verrebbe da lì. Quanto al loro tornare in carica, sarebbe la corte d’appello stessa a stabilire che loro sono tutt’ora consiglieri a tutti gli effetti, quindi il loro ritorno nelle funzioni non sarebbe discrezionale, ma un dovere. L’obiettivo, anche nel merito giuridico, sarebbe quindi quello di esercitare il loro diritto di difesa con tutti gli strumenti che l’ordinamento gli offre. Il doppio mandato - Tuttavia, le norme e la giurisprudenza recente non sembrano lasciare margini di vittoria per i plurimandatari, che già in primo grado sono stati considerati ineleggibili. La riforma dell’ordinamento forense del 2012 e l’articolo 3 della legge del 2017 che disciplina l’elezione dei consigli degli ordini sono esplicite: “I consiglieri non possono essere eletti per più di due mandati consecutivi” e “la ricandidatura è possibile quando sia trascorso un numero di anni uguale agli anni nei quali si è svolto il precedente mandato”. Sulla retroattività si è pronunciato anche il legislatore, che in un decreto legge del 2018 ha chiarito che l’articolo 3 va applicato tenendo conto “dei mandati espletati, anche solo in parte, prima della sua entrata in vigore, compresi quelli iniziati anteriormente all’entrata in vigore della legge 247”. I consiglieri del Cnf, tuttavia, hanno interpretato la norma come non retroattiva e comunque non applicabile all’elezione del Consiglio nazionale forense, perché il riferimento sarebbe solo ai consigli degli ordini. Sul punto si è espressa anche la Corte costituzionale, escludendo “che il divieto in questione violi il diritto di elettorato passivo degli iscritti” e considerando la previsione come espressione del principio di “un ragionevole bilanciamento con le esigenze di rinnovamento e di parità nell’accesso alle cariche forensi”. Quanto all’estensibilità al Cnf del principio, le sezioni unite civili della Cassazione hanno recentemente ribadito la portata generale del principio di divieto di terzo mandato affermato dalla Corte costituzionale, “estensibile alla previsione di ineleggibilità relativa alle elezioni dei componenti del Consiglio nazionale forense”. In questa direzione si è mosso il tribunale di Roma, che prima ha sospeso cautelarmente l’elezione di Mascherin e dei consiglieri, poi nel merito ha confermato la loro ineleggibilità che pure, secondo la corte d’appello, non è immediatamente esecutiva. Difficile dunque immaginare che nel merito i giudici d’appello (e poi la Cassazione, se i consiglieri decideranno di proporre ulteriore ricorso) si discostino da questa interpretazione. Nell’attesa, tuttavia, i consiglieri intendono rimanere ai loro posti e resistere, continuando a sostenere l’irretroattività della norma nei loro confronti: il divieto di più di due mandati esiste, il punto però sarebbe il momento temporale da cui iniziare ad applicarlo. Del resto, il regolamento interno del consiglio non prevede un meccanismo di sfiducia del presidente, ora protetto dall’ombrello della non esecutività della sentenza non definitiva. L’unica eventualità possibile sarebbe che tutti gli altri consiglieri si dimettessero, con conseguente commissariamento dell’ente da parte del ministero della Giustizia. In ogni caso, il presente dell’avvocatura sembra complicato quanto quello della magistratura, proprio nel momento più delicato delle riforme ordinamentali. Quando scatta il linciaggio la legge esce di scena di Piero Sansonetti Il Riformista, 28 maggio 2021 Tanto più grande è il reato tanto più serve il garantismo. La tragedia del Mottarone ci ha offerto uno spettacolo impressionante di fin dove può arrivare il forcaiolismo che unisce popolo ed élite. Qualcuno di voi ha dato un’occhiata ai giornali di ieri? Erano tutti uguali. Titoli di scatola, a tutta pagina, più o meno identici, costruiti su tre parole: Avidi, Criminali, Colpevoli. Le tre persone - persone - che sono state arrestate dalla polizia giudiziaria su ordine di un Gip e su richiesta di un Pm, venivano indicate come colpevoli, spietate, sciacalle e, naturalmente, da punire senza tante discussioni e subito. Con una pena severissima. La severità della pena veniva anticipata addirittura non da voce di popolo ma da dichiarazioni ufficiali del Pubblico ministero. Il quale, con incredibile disinvoltura, anticipava l’inchiesta, il dibattimento, il processo, l’appello e l’eventuale Cassazione e stabiliva la gravità della pena. Oltre che rilasciare svariate dichiarazioni. In spregio aperto e sereno di tutte le disposizioni del ministro, del Procuratore generale della cassazione, e delle direttive europee sulla presunzione di innocenza recentemente recepite dal Parlamento italiano. Ci mette poco a sparire il principio che tutti hanno diritto a un processo e che gli indiziati e gli imputati non possono essere ritenuti colpevoli. Ci mette un minuto. Si apre subito la caccia. La corsa a chi riesce a innalzare più su possibile la gogna e la forca. Si scatena, in un’orgia, sostenuta da un’opinione pubblica compatta come non mai, la volontà del linciaggio. Il linciaggio è esattamente questo. È la giustizia che si esprime attraverso la violenza popolare e di massa, e la verità che si accerta con la gravità del reato. Vedete, il problema è tutto qua. Ci vuole poco a essere garantisti verso un ladro di mele. O anche, magari, verso un politico. O addirittura verso una persona accusata e chiaramente, già a prima vista, innocente (ci vuole poco per modo di dire: il caso del sindaco di Lodi è emblematico; era chiaramente innocente ma fu linciato lo stesso dai giornali reazionari, vicini alla Lega e a Grillo. In quel caso però il linciaggio è solo di una parte politica, quella avversa all’imputato). Quando invece il reato è molto grave il garantismo sparisce. Ti dicono: ma hai visto che infamia ha combinato? A che serve un processo? Ecco, il garantismo è esattamente questo. Quel sistema di civiltà e di rispetto della giustizia che scatta in modo più massiccio se il reato è più grave. Tanto più è grave il reato tanto più la giustizia pretende garanzie per l’imputato. Purtroppo, quasi sempre, questo non succede. Stavolta lo spettacolo è stato davvero impressionante. Si è avuta la sensazione che chiunque non mostri orrore e schifo per i tre arrestati sia complice della sciagura del Mottarone. Si invoca l’etica, la morale, la religione, magari. Nessuno parla di diritto. Hanno diritto o no, i tre imputati, a essere processati con umanità e in osservanza della legge e non degli anatemi? Credo che siano pochissime le persone disposte a riconoscere questo diritto. Né nel popolo né nelle classi dirigenti, né tra gli intellettuali. Tranne pochissime eccezioni. Persino il Corriere della Sera, con un editoriale del mio amico carissimo, Antonio Polito, per il quale nutro da una quarantina d’anni affetto e una stima altissima, si è misurato ieri sul tema dell’etica, immaginando che un delitto così grave non possa che essere trattato con il libro dell’etica in mano. Lo ha fatto ricorrendo anche a Max Weber e alle sue teorie sull’etica del capitalismo, che da sole sarebbero sufficienti - pare - a gettare quei tre imputati nella Geenna. In realtà il povero Weber parlava di etica del capitalismo sostenendo che essa si identifica nel profitto. Più o meno - diciamo così - fotografava quelle che forse sono state le motivazioni del reato che i tre indiziati potrebbero aver commesso. Ma tutto questo conta poco, probabilmente. L’importante è chiarire che stavolta ci troviamo di fronte a un problema morale e non giuridico. E la sentenza tocca ai moralisti. Ne hanno diritto. In nome di che cosa? In questi casi la risposta è semplice, ed è ispirata alla Sharia: all’onore delle vittime. A me che son vecchio, questo clima di unità nazionale attorno a un simbolico patibolo, ricorda un episodio simile avvenuto un po’ più di mezzo secolo fa. 1969. Strage di Piazza Fontana. Un paio di giorni dopo la tragedia, tutti i giornali - tutti - titolarono: preso il mostro. Avevano arrestato Pietro Valpreda, l’immondo ballerino anarchico. Poi sapemmo che era innocente. Ecco, siamo tornati lì. P.S. È normale che una inchiesta sia diretta da un Pm che ha già deciso che la pena sarà severissima? P.S 2. Perché sono stati arrestati se non esiste il rischio che ripetano il reato né che inquinino le prove ed è ridicolo pensare alla possibilità che fuggano? È una domanda molto scomposta la mia, però non ha una risposta. Le intercettazioni a Palamara proseguite anche dopo lo stop del giudice di Giulia Merlo Il Domani, 28 maggio 2021 Il trojan installato nel cellulare di Luca Palamara ha continuato a mandare segnali ai server fino al settembre 2019, quando il decreto di cessazione dell’intercettazione fissava la data al 30 maggio. A dirlo nel corso dell’udienza preliminare del processo di Perugia è stato un ufficiale della polizia, che ha spiegato che risulta un “contatto” inviato dal trojan risalente a settembre e che non è possibile escludere che siano dei file salvati. Ma il procuratore capo Cantone dice di ritenere “che la questione degli impianti sia stata chiarita e non c’è nessuna prova che sia stata fatta una registrazione”. Il trojan installato nel cellulare di Luca Palamara ha continuato a mandare segnali ai server fino al settembre 2019, quando il decreto di cessazione dell’intercettazione fissava la data al 30 maggio. Continuano dunque ad emergere anomalie nel funzionamento del trojan, le cui intercettazioni sono la base probatoria che sostiene il processo a suo carico di Perugia e anche il disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura dello stesso Palamara (già concluso), di Cosimo Ferri e di cinque ex consiglieri. Nel corso dell’udienza preliminare del processo di Perugia, il viceispettore della polizia ha spiegato che, dall’ispezione effettuata dalla Polizia Postale sul server a Napoli della società Rcs, è emerso un “contatto” partito dal cellulare dell’ex magistrato a settembre 2019. Ben tre mesi dopo che le attività di intercettazione dovevano essere cessate. “L’elemento eclatante, sul quale anche il giudice è rimasto colpito - ha spiegato l’avvocato Benedetto Buratti che difende Palamara - è che la configurazione del trojan inoculato nel cellulare di Palamara è iniziata il 2 maggio e dai file di log risulterebbe spento l’8 settembre 2019, mentre il decreto di cessazione delle attività di intercettazione è del 30 maggio 2019”. Il testimone ascoltato, inoltre, non ha potuto escludere la possibilità che le attività di intercettazione siano continuate anche al di fuori dei tempi indicati dall’autorità giudiziaria. “Loro fanno delle ipotesi, tra queste che potrebbe esserci stata un’indicazione di registrazione ovvero il trojan comunicava di essere ancora vivo e presente all’interno del telefono di Palamara”, ha spiegato il legale. Ci sono una ventina di file riferibili al cellulare di Palamara, per ora l’accertamento è stato superficiale per non rendere irripetibile l’esame sui server. La difesa ha fatto sapere che chiederà una perizia approfondita. Il procuratore capo Raffaele Cantone, invece, è di tutt’altro avviso: “Noi riteniamo che la questione degli impianti sia stata chiarita” e che è solamente “emerso un dato che può aprire una lettura ambigua, cioè il fatto che c’è un contatto di questo spyware a settembre che a nostro modo di vedere tuttavia è irrilevante. Ovviamente non c’è nessuna prova che sia stata fatta una registrazione” e la procura non ritiene serva una perizia. Inoltre, secondo Cantone le intercettazioni sono da considerarsi “legittime perché rispecchiano i criteri e sono state fatte in modo rituale”, nonostante sia stato dimostrato che i file siano passati attraverso un server terzo, situato a Napoli, e non siano confluite direttamente sui server di Roma come da previsione di legge. Tanto che il rappresentante della società Rcs Duilio Bianchi e altri tre dipendenti sono indagati dalla procura di Napoli per accesso abusivo a un sistema informatico o telematico e frode nelle pubbliche forniture. E dalla procura di Firenze per falsa testimonianza e falso ideologico per induzione in errore dei magistrati di Perugia. Petrilli, il 7 giugno a Roma sit-in per il risarcimento delle ingiuste detenzioni laquilablog.it, 28 maggio 2021 Riceviamo e pubblichiamo da Giulio Petrilli, portavoce Comitato per il risarcimento per ingiusta detenzione a tutti gli assolti: “Lunedì 7 giugno, dalle ore 10, sit-in davanti il ministero della giustizia, in via Arenula a Roma, nell’incrocio di Largo Cairoli, per ribadire che l’ingiusta detenzione va garantita a tutti. Va abolito il comma che rende ostativo il risarcimento per ingiusta detenzione, il primo dell’art. 314 del c.p.p. per coloro “avrebbero contribuito al loro arresto” con frequentazioni non idonee o per essersi avvalsi della facoltà’ di non rispondere o per valutazioni che i magistrati stabiliscono sulla “moralità” degli assolti e non sull’assoluzione “penale” che hanno avuto. Invito tutti a partecipare a una grande manifestazione per la libertà contro ogni sequestro di persona illegale. Richiederò nell’occasione alla Ministra della giustizia la possibilità di una interlocuzione. Visto che in questo periodo è in discussione la riforma della giustizia, questo dovrebbe essere un tema centrale, l’inviolabilità ingiusta della libertà personale va risarcita sempre. Solo in Italia esistono dei filtri per concederla completamente anticostituzionali dove si danno giudizi morali e non giuridici, tipici metodi dell’inquisizione”. Cassazione: valutare non solo il rischio Covid ma le reali condizioni di salute del detenuto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 maggio 2021 La Suprema Corte ha accolto l’istanza, con rinvio al Riesame di Caltanissetta, di un detenuto in attesa di giudizio in chemioterapia e che risulta, di fatto, incompatibile con la detenzione penitenziaria. Non è sufficiente basarsi sull’assenza nell’istituto di casi di contagiati e sulla previsione dell’allocazione in luoghi separati dei detenuti positivi al Covid 19, ma bisogna soffermarsi sull’incompatibilità tra il regime detentivo carcerario e le condizioni di salute del detenuto. Si tratta di un passaggio, decisivo, della sentenza della Corte di Cassazione numero 19653 del 2021 appena depositata. Decisivo, perché parliamo di un detenuto in attesa di giudizio in chemioterapia, quindi gravemente malato, e che risulta, di fatto, incompatibile con la detenzione penitenziaria. Tante, troppe volte, è accaduto che i giudici competenti hanno rigettato l’istanza per i domiciliari, trincerandosi dietro il poco rischio contagio da Covid e la possibilità di essere assistito al livello sanitario. E tante troppe volte, è accaduto che i detenuti sono morti. L’istanza era stata rigettata dal Tribunale - Il Tribunale che aveva rigettato l’istanza dei domiciliari, ha ritenuto che l’indagato non rientra in una delle categorie di soggetti la cui condizione di salute pregressa rende certa o altamente probabile l’evento morte in caso di contagio da Covid 19. “Siffatta valutazione si appalesa però errata - scrive la Cassazione -, essendosi trascurata la documentazione medica agli atti da cui risulta che l’indagato è affetto da una grave patologia oncologica ed è attualmente sottoposto a trattamento chemioterapico”. E aggiunge che “trattasi di patologia che rientra tra quelle segnalate dal Dap come statisticamente collegate a un elevato rischio di complicanze in caso di contagio da Covid-19”. Per questo motivo, secondo la Corte Suprema, “ne discende che la valutazione sulla ricorrenza di un rischio concreto per il detenuto di contrarre il coronavirus, nel carcere in cui è ristretto, deve essere effettuata alla luce delle sue reali condizioni di salute”. La Cassazione fa riferimento agli articoli 27 e 32 della Costituzione - La Cassazione, ha inoltre sottolineato che, in nome degli articoli 27 e 32 della Costituzione, bisogna tenere conto della valutazione sull’incompatibilità del regime carcerario con lo stato di salute del recluso, ovvero “sulla possibilità che il mantenimento della detenzione di una persona ammalata costituisca un trattamento inumano o degradante”. E tale valutazione di compatibilità o meno con il carcere, deve essere effettuata comparativamente, tenendo conto delle condizioni di detenzione del condannato, “verifica clinica, questa - aggiunge la Corte - che comporta un giudizio non soltanto di astratta idoneità dei presidi posti a disposizione del detenuto all’interno del circuito penitenziario, ma anche di adeguatezza del trattamento terapeutico, che, nella situazione concreta, è possibile assicurare al carcerato, tenuto conto delle patologie che lo affliggono, nel valutare le quali non si può non tenere conto della possibile influenza su di esse dell’emergenza sanitaria di Covid-19”.Il tribunale che aveva rigettato l’istanza ha giustificato tale decisione osservando che in carcere c’era assenza rischi contagi e che, in ogni caso, era previsto l’allocazione in luoghi separati dai detenuti positivi al Covid 19. La Cassazione è stata categorica sul punto: Il tribunale deve tener conto “sia dell’astratta idoneità dei presidi sanitari fruibili dal detenuto all’interno del circuito penitenziario sia dell’adeguatezza concreta del percorso terapeutico, apprestato per assisterlo nelle sue esigenze”. La Cassazione ha quindi chiesto di tenere conto i principi e le considerazioni fatte. Ciò ha imposto l’annullamento dell’ordinanza, con il conseguente rinvio al Tribunale del riesame di Caltanissetta per un nuovo esame, che dovrà essere eseguito nel rispetto dei principi che la Corte ha enunciato. La Cedu condanna l’Italia: in sentenza su stupro “stereotipi sessisti sulle donne” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 maggio 2021 In un caso di presunto stupro, ingiustificati i riferimenti della Corte di appello di Firenze alla biancheria intima indossata dalla donna e commenti sulla sua bisessualità. La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per aver violato i diritti di una “presunta vittima di stupro” con una sentenza che contiene “dei passaggi che non hanno rispettato la sua vita privata e intima”, “dei commenti ingiustificati” e un “linguaggio e argomenti che veicolano i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana”. È quanto si legge nella documentazione diffusa oggi dalla Corte che ha sede a Strasburgo. Il caso riguarda una sentenza della Corte d’appello di Firenze del 2015 che assolse 7 imputati accusati di uno stupro di gruppo avvenuto nella Fortezza da Basso nel 2008. A ricorrere alla Cedu è stata la “presunta” vittima della violenza. Nel suo ricorso non ha chiesto alla Corte di Strasburgo di esprimersi sull’assoluzione degli imputati, ma sul contenuto della sentenza, che secondo lei ha violato la sua vita privata e l’ha discriminata. Oggi la Corte di Strasburgo le ha dato ragione accordandole un risarcimento per danni morali di 12 mila euro. “Gli argomenti e le considerazioni contenute nella sentenza della Corte d’appello di Firenze sono inutili per vagliare la credibilità della ricorrente, né determinanti per risolvere il caso”. È una delle critiche della Cedu. La Corte ritiene “ingiustificato il riferimento alla biancheria intima che la ricorrente indossava la sera dei fatti, come i commenti sulla sua bisessualità, le sue relazioni sentimentali o i rapporti sessuali che aveva avuto prima dei fatti presi in esame”. I giudici di Strasburgo inoltre giudicano “inappropriate le considerazioni fatte sull’attitudine ambivalente rispetto al sesso della ricorrente” desunte dalle attività artistiche che ha svolto prima dei fatti. E infine ritengono “fuori contesto e deplorevole” il giudizio contenuto nella sentenza sui motivi che hanno indotto la ricorrente a denunciare i fatti. Così come tutti i riferimenti alla “sua vita non lineare”. La Corte di Strasburgo afferma che questa violazione della vita privata e dell’immagine della ricorrente non può essere considerata “pertinente per vagliare la credibilità dell’interessata e la responsabilità penale degli accusati”. Né può essere giustificata “dalla necessità di garantire il diritto alla difesa degli imputati”. La stessa Corte evidenzia anche che la legge italiana e diversi trattati internazionali impongono ai giudici di proteggere l’immagine e la vita privata delle persone coinvolte nel processo. La Cedu sostiene che è “essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle loro decisioni, di minimizzare le violenze di genere ed esporre le donne a una vittimizzazione secondaria usando argomenti colpevolizzanti e moralizzanti che possono scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia”. “Sono soddisfatta che la Corte europea dei diritti umani abbia riconosciuto che la dignità della ricorrente è stata calpestata dall’autorità giudiziaria”. Così all’Ansa l’avvocato Titti Carrano, che ha rappresentato la ‘presunta’ vittima dello stupro di gruppo della Fortezza da Basso. “La sentenza della Corte d’appello di Firenze - ha poi aggiunto - ha riproposto stereotipi di genere, minimizzando cosi la violenza, e ha rivittimizzato la ricorrente, usando anche un linguaggio colpevolizzante. Purtroppo, questo non è l’unico caso in cui la non credibilità della donna si basa sulla vivisezione della sua vita personale, sessuale. Questo succede spesso nei tribunali civili e penali italiani”. “Per questo mi auguro che il governo italiano accetti questa sentenza della Cedu e non ricorra in Grande Camera ma intervenga affinché ci sia una formazione obbligatoria dei professionisti della giustizia per evitare che si riproducano stereotipi sessisti nelle sentenze”, ha detto ancora Carrano. Lecce. Vaccini in carcere, vicini alla quota dell’80 per cento fra i detenuti lecceprima.it, 28 maggio 2021 Lo annuncia Maria Mancarella, garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Una campagna informativa per convincere chi ancora non ha prestato consenso. Entro la giornata di oggi si dovrebbe arrivare a coprire con la vaccinazione l’80 per cento dell’intera popolazione detenuta nel penitenziario di Borgo San Nicola. Lo annuncia Maria Mancarella, garante dei diritti delle persone private della libertà personale della città di Lecce, esprimendo soddisfazione per l’andamento. “Il 25 maggio sono stata nel carcere di Lecce per fare il punto sulla situazione vaccinale”, spiega Mancarella. “Ho parlato con il comandante della Polizia penitenziaria che ha condiviso con me il prospetto della situazione delle vaccinazioni sezione per sezione. Il programma di vaccinazione ha avuto una accelerata nei primi giorni di maggio. Dopo la breve interruzione della fine di aprile, le vaccinazioni sono infatti riprese regolarmente al ritmo di 60/70 al giorno”. “L’arrivo del vaccino Pfizer-BioNTech, che è quello utilizzato al momento, ha diminuito il numero delle rinunce e stemperato le diffidenze purtroppo generate dal vaccino di Astrazeneca”, aggiunge la garante, che aggiunge: “Le persone vaccinate superavano il 73 per cento e, sulla base delle adesioni già espresse, si arriverà entro giovedì 27 maggio a coprire l’80 per cento dell’intera popolazione detenuta. Resta, dunque, una porzione del 20 per cento e riguarda in particolare quella fetta che non ha prestato consenso. Per arrivare a quella quota, è prevista, come già avvenuto dopo il primo turno di vaccinazioni, un’attività di presentazione dei vantaggi che si ottengono dall’immunità grazie ai sieri. L’obiettivo è arrivare entro la fine di giugno ad una copertura del 90 per cento, vicina a quella degli operatori penitenziari che è del 92 per cento, e di aprire ai colloqui con i familiari in presenza, se pur dimezzando il numero delle postazioni in ogni singola sala. “Ho poi parlato con i medici e gli infermieri che stanno effettuando le vaccinazioni e con alcuni detenuti appena vaccinati”, prosegue la garante. “Ho trovato persone attente, impegnate nel loro lavoro e giovani detenuti consapevoli dell’importanza della vaccinazione soprattutto al fine di rendere più facile e più vicino il rientro del mondo esterno nel carcere. Esprimo pertanto la mia soddisfazione per il risultato ottenuto: le difficoltà e i problemi di un carcere grande, superaffollato come quello di Lecce sono tantissimi e non sempre facili da affrontare e risolvere, ma almeno questa volta possiamo dire che l’obiettivo sia stato raggiunto”. “Vaccinare celermente tutta la popolazione detenuta e tutti gli operatori penitenziari - conclude Maria Mancarella - è principio di equità sociale fondamentale, anche in considerazione del fatto che si tratta di gruppi sociali particolarmente a rischio per le note situazione di sovraffollamento e di difficile accesso al servizio sanitario ma anche perché con i vaccini il carcere può tornare a vivere”. Milano. Resta in carcere e non viene curato. Il suo legale si rivolge al Ministro Gazzetta del Sud, 28 maggio 2021 Un 43enne messinese operato a Milano che porta al braccio una struttura metallica. “Condizione disumana che si protrae in maniera inaccettabile”. Un detenuto operato di recente all’avambraccio destro che dietro le sbarre versa “in assoluto abbandono terapeutico”. Che ha bisogno di una specifica serie di controlli post operatori e rischia invece di rimanere con un braccio atrofizzato. È questo il caso del 43enne messinese Tommaso Ferro, che ora registra un esposto inviato dal suo difensore, l’avvocato Salvatore Silvestro, al ministro della Giustizia, alla Corte d’appello di Messina e al Garante nazionale dei detenuti. Durante la detenzione a Messina - spiega il suo avvocato - Ferro ha avanzato istanza alla Corte d’appello per essere autorizzato a sottoporsi ad un intervento chirurgico per la risoluzione della “pseudoartrosi dell’ulna prossimale destra in osteosintesi con placca spezzata” al Centro Humanitas di Rozzano, ed ha allegato una certificazione del prof. Alexander Kirienko in cui il medico precisava che “dopo l’intervento i controlli successivi dovevano essere eseguiti a Roma presso Villa Stuart due volte al mese e poi mensilmente”. La Corte d’Appello di Messina, preso atto della necessità e dell’indifferibilità dell’intervento, ha autorizzato Ferro a sottoporsi all’intervento chirurgico, per cui è stato trasferito nel carcere di Milano-Opera e, dopo due giorni, ricoverato all’Istituto Clinico Humanitas. Dopo due giorni dall’esecuzione dell’intervento, avvenuta il 14 aprile scorso, Ferro è stato dimesso e il 16 aprile nuovamente trasferito nel carcere di Opera. Nella relazione di dimissioni oltre ad una serie di prescrizioni era evidenziato come fosse necessario eseguire il primo controllo post-intervento da parte dello specialista che l’ha operato, l’8 maggio 2021. Ebbene, scrive il legale che “nonostante la necessità che, dopo l’intervento, l’imputato venisse assunto in cura presso la Clinica Villa Stuart fosse già stata prospettata nella certificazione allegata all’istanza a seguito della quale la Corte d’appello di Messina ha autorizzato l’intervento chirurgico, ad oggi, nonostante i numerosi solleciti effettuati ed il tempo trascorso, il Ferro si trova ancora ristretto presso la casa circondariale di Milano-Opera. Peraltro - prosegue i legale -, la stessa Corte d’appello di Messina aveva “autorizzato l’imputato a recarsi con scorta e piantonamento presso la Clinica Villa Stuart per essere sottoposto alla visita di controllo fissata il 08 maggio 2021”“. Visita che è inspiegabilmente “saltata”. Purtroppo, nonostante tutti i solleciti ed i provvedimenti emessi dalla Corte d’appello di Messina siano stati puntualmente trasmessi al Dap “gli stessi sono rimasti ineseguiti ed il Ferro si trova ancora ristretto presso la casa circondariale di Milano-Opera, rendendo di fatto impossibile la gestione del post-operatorio e determinando l’esposizione al gravissimo rischio prospettato dal prof. Kierienko”, cioé “una situazione irrecuperabile”. A Ferro è stato installato nell’avambraccio un “fissatore di Ilizarov”, che “è una pesante struttura metallica fissata all’esterno del braccio mediante bulloni che devono giornalmente essere regolati e che rende di fatto impossibile la gestione del detenuto in ambiente intramurario, atteso che lo stesso è impedito nel realizzare gli elementari atti della vita quotidiana”. Conclude amaramente l’avvocato Silvestro: “Quella riservata al Ferro è certamente una condizione disumana che si sta protraendo in maniera assolutamente inaccettabile, determinando difficoltà di intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente alla “comune” detenzione”. Forlì. Dopo il carcere e la Comunità rischia di trovarsi in strada ansa.it, 28 maggio 2021 Paziente psichiatrico. “Servizi non si fanno carico delle spese”. Rischia di trovarsi in strada dal primo giugno, senza un alloggio, dopo alcuni anni passati prima in una sezione psichiatrica carceraria e poi in una comunità terapeutica, nel Forlivese. Questo perché i servizi sociali non intendono più farsi carico dei costi per il mantenimento e lui non ha una residenza, né i suoi parenti possono occuparsi di lui. È la storia di un 40enne finito nei guai con la giustizia per reati commessi da tossicodipendente e che, durante la carcerazione, iniziò a manifestare problemi psichiatrici per cui venne trasferito nel reparto Salute mentale del carcere di Reggio Emilia. Ora il suo difensore, l’avvocato Nicoletta Garibaldo del foro di Bologna, sta tentando di trovare una soluzione, ma il tempo a disposizione è breve e si rischia di vanificare un percorso di recupero che aveva dato buoni risultati. Lo dimostra che i magistrati di Sorveglianza chiamati a valutare la sua situazione ne disposero il collocamento in una comunità psichiatrica, in affidamento terapeutico. Questo avvenne a settembre 2019. Nel frattempo la pena si è estinta, anche per l’esito positivo dell’affidamento, valutato dal tribunale di Sorveglianza di Bologna. A questo punto si è posto il problema della prosecuzione del percorso e di chi debba sostenerlo. Fino a quando la persona resta sottoposta alla misura, il pagamento della retta della comunità, in base alla normativa successiva all’abrogazione degli Opg, dovrebbe essere in carico ai servizi di ultima residenza, per il 40enne il Sert di Castelvetrano (Trapani). In seguito, non è del tutto chiaro chi debba farsene carico. In questi casi il percorso punterebbe a una gradualità, cioè prima il passaggio in una struttura più aperta e poi in un ‘gruppo appartamento’, per dare autonomia al paziente. Ma per il 40enne, riferisce l’avvocato Garibaldo, i servizi si sono rifiutati di continuare a sostenere il pagamento e dopo alcuni mesi hanno comunicato alla comunità, con 10 giorni di preavviso, che dal 31 maggio non salderanno più. L’uomo ha due fratelli e una madre, che però non hanno la possibilità di farsi carico di un paziente psichiatrico. E così, sottolinea l’avvocato, “è concreta la possibilità di trovarsi in strada, vanificando gli anni di terapia svolti e l’investimento finanziario dello Stato e del Servizio sociale, e a questo si aggiunge il rischio di ricadute. E non stiamo parlando di una persona con patologie irreversibili, ma recuperabile con i corretti supporti”. Il legale ora proverà a rivolgersi, come ultima spiaggia, ai servizi sociali di Forlì e al dipartimento di Salute mentale, sperando in un intervento. Padova. “Chi mi critica dovrebbe avere sobrietà ed equilibrio” di Alberto Rodighiero Il Gazzettino, 28 maggio 2021 Il Garante dei detenuti Bincoletto respinge gli attacchi di Tarzia. Non conosce tregua la polemica sulla nomina di Antonio Bincoletto a Garante dei detenuti. Protagonista il consigliere della lista Giordani Luigi Tarzia che, in occasione dell’elezione, ha avuto parole molto dure. “Sarebbe servita più partecipazione e più moderazione nella scelta di questa figura - aveva tuonato Tarzia al momento del voto in consiglio - con questo provvedimento andiamo a penalizzare chi meritava di più. Il confronto con le associazioni che lavorano in carcere lo ha fatto solamente Coalizione. 11 garante avrebbe dovuto essere equidistante tra la direzione carceraria e le associazioni. Così, purtroppo, non è”. Ieri, sulla questione, ad intervenire è stato Bincoletto. “La mia è una funzione istituzionale super partes che mancava alla nostra città e che mi trovo ad avviare da solo e in forma volontaria, senza retribuzione o indennità di alcun tipo - ha premesso il garante - l’orizzonte in cui mi muovo è quello dei diritti umani, il mio faro è l’articolo 27 della nostra Costituzione, aldilà di ogni schieramento di parte. Ho subito constatato la grande complessità della realtà carceraria e l’enorme aspettativa che la mia nomina ha creato nella popolazione ristretta. I contatti con le autorità, gli amministratori, le istituzioni, le associazioni coinvolte e con gli operatori e i detenuti sono stati fitti”, il Garante non ha rinunciato ad una stoccata nei confronti di Tarzia. “Credo che in questo momento chiunque non sia direttamente coinvolto in questo lavoro dovrebbe astenersi da critiche come quelle che ho letto, specie se non supportate da alcuna conoscenza delle problematiche, né del diretto interessato, né di quanto sta facendo - ha concluso - desidererei che la sobrietà e l’equilibrio che giustamente mi si richiedono nell’esercizio della funzione fossero presenti anche in chi, da posizione pubblica e senza conoscermi, si arroga il diritto di criticarmi aprioristicamente. Se si vuol aumentare la propria visibilità politica si usino altri mezzi e argomenti”. Vercelli. Accanto agli orti del carcere è nata l’Oasi delle Api voluta dal Soroptimist tgvercelli.it, 28 maggio 2021 Lanciato a fine gennaio, il progetto del Soroptimist “L’Oasi delle Api” adesso è una realtà. E stamattina è stato presentato ufficialmente in un’area esterna alla casa circondariale di Billiemme: quella degli orti e delle serre creata su idea di Mirella Casalone, colonna della Caritas cittadina, e cresciuta negli anni grazie all’operosità di alcuni detenuti e alla lungimiranza dei direttori del carcere che si sono via via succeduti. In questo spazio ad hoc, curato quotidianamente da quattro detenuti col pollice verde e tanta, tanta passione, sono stati messi a dimora, secondo le intenzioni del Soroptimist vercellese presieduto da Rita Manuela Chiappa Silvestri, 650 cespugli di lavanda e 15 piante di albizia, anche nota come l’”acacia di Costantinopoli”. E lì, in un un’arnia realizzata dagli studenti del Liceo Artistico “Alciati”, è stata collocata una famiglia di api. Il tutto, come si augurano le socie del Soroptimist vercellese, per far sì che, sotto la supervisione dell’agente della Penitenziaria Ettore D’Errico (che organizza l’attività negli orti e nelle serre dell’area attigua al carcere) e con la collaborazione dell’apicoltore Alberto Guarnier, i detenuti possano produrre miele e venderlo in appositi vasetti. Sul cartello che indica l’Oasi spicca un bellissimo disegno emblematico a cura di Claudia Ferraris. Questo progetto occuperà anche le detenute che attualmente frequentano i corsi interni di sartoria, che produrranno i sacchettini profuma-biancheria conterranno la lavanda coltivata nell’Oasi. Alla presentazione di questa mattina, con numerose socie del Soroptimis attorno alla loro presidente, erano presenti la direttrice del carcere Antonella Giordano, il comandante del Corpo di Polizia Penitenziaria, commissario Nicandro Silvestri e la responsabile del Settore Educativo della casa circondariale vercellese Valeria Climaco, con la collega Antonietta Pisani. Particolarmente gradita la presenza di Giulio Pretti, per quasi un quarto di secolo volontario dell’assistenza ai carcerati di Billiemme. Valeria Climaco ha ricordato che, alla ripresa delle scuole, l’Oasi delle Api sarà visitata dagli alunni delle seconde medie cittadine, che andranno a studiare lì, sul campo, la produzione del miele da parte delle api. Per il Club vercellese fondato nel 1964 da Laura Sereno e oggi guidato dalla presidente Chiappa un ulteriore fiore all’occhiello, profumatissimo. Saluzzo (Cn). Borse “uniche e libere dentro” realizzate da 5 neo-sarti nel carcere targatocn.it, 28 maggio 2021 Il progetto è nato nella pandemia. Il gruppo di detenuti aveva iniziato a produrre mascherine con le lenzuola. Poi si è specializzato in borse in tessuto. Presenteranno la loro collezione nella mostra dell’artigianato al via. Il progetto è sostenuto dall’Associazione “Liberi dentro”. “are@51lab”. Così si chiama il Laboratorio artigianale di sartoria che, quasi per caso, è nato all’interno del Carcere Rodolfo Morandi di Saluzzo. Si presenterà con una collezione di borse e sacche, pezzi unici, realizzati artigianalmente dietro le sbarre. Un anno fa la pandemia ha costretto tutti alla chiusura e, “per chi vive il carcere, la chiusura ha rappresentato l’impossibilità di incontrare i parenti e di praticare le poche attività disponibili: la scuola, la palestra, la sala hobby, il campetto - raccontano dall’Associazione Liberi dentro che ha incoraggiato il progetto - Alcuni detenuti, desiderosi di contribuire in modo attivo al controllo della diffusione del virus all’interno del carcere, si sono improvvisati creatori di mascherine, realizzate con i mezzi a disposizione: le lenzuola”. Ma poi è capitato che l’esigenza si sia trasformata in opportunità e, grazie alla collaborazione di molti tra i volontari e gli agenti penitenziari, a tutto il team carcerario, i neo-sarti, cinque in tutto, che si sono impratichiti nell’uso della macchina da cucire, hanno pensato che quelle capacità potevano produrre molto altro e hanno iniziato a cucire borse e sacche per usi quotidiani. Le creazioni sono corredate di etichetta che attesta l’autenticità e unicità del prodotto confezionato nel laboratorio sartoriale “are@51lab “dietro le sbarre. Il progetto è stato sostenuto dall’Associazione “Liberi Dentro”, presieduta Bruna Chiotti. “Ad un anno di distanza siamo fieri di presentare le creazioni ideate e realizzate dai cinque provetti “sarti-cucitori di storie” che, con fatica e determinazione, hanno voluto superare i limiti delle loro capacità iniziali e produrre qualcosa di bello per arricchire sia il carcere che il territorio”. Nell’edizione al via di “Start” sul filo conduttore di Re-Start, la ripartenza diventa sinonimo di rinascita, per i detenuti e per le stoffe utilizzate per creare solo “pezzi unici”. Le borse di are@51lab saranno esposte in Start/Artigianato presso Casa Cavassa e, nei giorni 2, 5 e 6 giugno, presso l’ex convento delle Orsoline, in via San Giovanni. Per informazioni: liberidentro.avp@gmail.com oppure le Responsabili del Progetto: Bruna Chiotti e Simona. Cell. 3498412016. Firenze. Gli ultimi al servizio degli ultimissimi di Francesco Ricupero L’Osservatore Romano, 28 maggio 2021 A Casa Caciolle gestita da don Vincenzo Russo quattro detenuti preparano pasti per i senzatetto. Chi ha il coraggio di affermare che una persona dal passato burrascoso con precedenti penali non abbia la possibilità di redimersi e possa contribuire ad aiutare chi è in difficoltà? Un bel progetto di solidarietà coinvolge alcuni detenuti del carcere di Sollicciano a Firenze. Ospiti di Casa Caciolle, una struttura dell’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa dove stanno scontando la pena alternativa, Michele, siciliano, Giuseppe, toscano, Francesco, calabrese, e Leonardo, albanese, preparano ogni giorno un pasto per i senza fissa dimora della zona. Gli “ultimi”, i detenuti, si occupano e si preoccupano degli “ultimissimi”, i senza tetto. Una solidarietà che non ti aspetti! “Fin dall’emergenza pandemica - racconta al nostro giornale don Vincenzo Russo, cappellano del carcere Sollicciano e presidente dell’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa di Firenze - i detenuti si sono resi conto che bisognava fare qualcosa per chi vive ai margini della società. Prima della pandemia ospitavamo a cena i senzatetto a Casa Caciolle, ma con il Covid abbiamo dovuto cambiare sistema, preparando i pasti e facendoli arrivare a destinazione”. “Sono convinto - aggiunge - che scontare parte della pena con misure alternative è possibile solo se c’è un lavoro e una casa che accoglie il detenuto. Il sistema carcerario è al collasso e non si rende conto che i reclusi sono persone che hanno un cuore e tanto amore da donare. Non sono semplici cartelle giudiziarie”. Ed è qui che “entra in gioco” Casa Caciolle che ha lo scopo di favorire percorsi di risocializzazione e di reinserimento nel tessuto sociale e lavorativo. Oltre 30 pasti al giorno vengono preparati nella cucina della struttura. L’Opera promuove e realizza diverse altre iniziative: organizza e mantiene strutture abitative collettive promuovendone l’autogestione da parte delle comunità degli ospiti, come momento centrale del recupero del vivere sociale; organizza la formazione professionale degli ex detenuti e li sostiene nella ricerca e nel mantenimento del lavoro; realizza occasioni di incontro ed eventi culturali, sociali per gli ospiti delle comunità e aperti al pubblico, come momento educativo e di autofinanziamento. “Ogni volta che cuciniamo per i senzatetto - racconta uno dei detenuti - è come se fosse una terapia di redenzione che in qualche modo ci ricorda il nostro passato marginale e randagio, dove anche noi avremmo avuto bisogno di un pasto caldo”. Ogni sera, quindi, intorno alle 20, il cibo preparato dai detenuti viene prelevato dalla Protezione Civile, dalle Misericordie e dalla Croce Rossa, per essere distribuito sul territorio fiorentino. Una rete di solidarietà che coinvolge numerose persone. “Pensare che attraverso il nostro lavoro di volontariato possiamo aiutare i più bisognosi - sottolineano Michele, Giuseppe, Leonardo e Francesco - per noi è una rinascita. In questo momento di sofferenza collettiva essere partecipi di questo movimento di solidarietà è importante per noi”. E don Vincenzo non ha dubbi. “I detenuti che escono da un istituto di pena, spesso si trovano in condizioni peggiori di quando sono entrati perché durante la permanenza in cella non sono stati realizzati progetti di recupero socio professionali. A Casa Caciolle - conclude il sacerdote - ospitiamo i detenuti a fine pena e li seguiamo in un percorso di reinserimento. Li aiutiamo a dare un senso alla loro vita. Qui, con loro faccio comunità, una comunità cristiana, viviamo come se fossimo un’unica famiglia, dove ciascuno si sente coinvolto dalle esigenze degli altri e cerca di dare una mano in qualsiasi modo”. Storie di terroristi dietro le sbarre del carcere di Palmi nel racconto di Don Silvio Mesiti di Agostino Pantano ilreggino.it, 28 maggio 2021 Oggi come allora cappellano dell’istituto penitenziario, ne parla in un nuovo libro che si intitola “Il tunnel della Speranza”. Prospero Gallinari, Corrado Alunni, Alberto Frasceschini, toni Negri: nomi che ai più giovani non dicono nulla, comunque biografie di terroristi conosciute tra le sbarre dell’allora super carcere di Palmi. Don Silvio Mesiti, oggi come allora cappellano dell’istituto penitenziario, ne parla in un nuovo libro - si intitola “Il tunnel della Speranza”, Laruffa editore - dato alle stampe senza difendere o accusare. “Si tratta di persone che hanno creduto in una ideologia di morte - premette il sacerdote - con le quali, però, in un luogo che serve anche per dimostrare di essere pronti a rientrare nella società, dopo l’espiazione, ho avuto confronti dialettici pure sulla filosofia e l’antropologia: sono stati infatti i docenti universitari che sono passati da Palmi”. Riflessi delle loro storie, ma soprattutto dialogo intorno ad una pastorale che don Mesiti descrive anche attraverso degli episodi scolpiti nella sua memoria. “Come quella volta che misi dei crocefissi nelle celle, trovandoli rotti il giorno dopo. Mi arrabbiai molto, ma mi fu detto che all’epoca i detenuti temevano che di essere intercettati tramite microspie nascoste, e fu uno di loro che mi tranquillizzò distinguendo il Dio che si trovava nei pezzi di legno, dal Dio che per lui era un credo da rispettare”. Aneddoti e ricordi, inframezzati dalla cronaca di quegli anni. “Per la stampa - prosegue - il carcere di Palmi era come il santuario di San Francesco, perché tanti sono stati i matrimoni religiosi che io ho officiato, addirittura venendo invitato in occasione delle nozze con il rito civile, tanto forte fu il legame personale che si era stabilito”. Il libro, che conta sulle prefazioni del vescovo Francesco Milito, ma anche al magistrato Antonio Salvati e all’avvocato Armando Veneto, è pure una occasione per rileggere gli anni di piombo, ricordando gli anni d’oro di una struttura che oggi non ha un regime di massima sicurezza e che comunque, attraverso i suoi ospiti, racconta ugualmente geografie umane e criminali che mutano: “Mi ha colpito la testimonianza di un extracomunitario che ha detto di preferire rimanere in carcere, dove può mangiare, lavorare e mandare soldi casa”. Per volontà dell’autore i proventi delle vendite serviranno a gestire una struttura che dia ospitalità ai famigliari dei detenuti che vengono da lontano. Agostino Pantano Amnesty, strade inedite aperte dalla società civile di Daniela De Robert* Il Manifesto, 28 maggio 2021 L’idea di base della sua storia è che il rispetto dei diritti delle persone non è delegabile, coinvolge ognuno di noi e unendo le forze può diventare movimento globale. Sono due gli elementi che caratterizzano l’impegno e l’azione di Amnesty International, due aspetti che sono al cuore della sua filosofia. Il primo, ovviamente, è la centralità dei diritti umani, quei diritti sanciti dalla Dichiarazione universale delle Nazioni Unite, adottata a Parigi il 10 dicembre del 1948, all’indomani della Seconda guerra mondiale sull’onda di quel “mai più” riferito alle violenze, discriminazioni e orrori da cui uscivano i Paesi coinvolti. Si tratta di un obiettivo segnato negli anni da tappe significative, non solo in termini di vite salvate o tornate alla libertà e alla dignità - oltre 50 mila secondo Amnesty ma anche rispetto a conquiste collettive a tutela di tutti. Basti pensare alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984 o all’istituzione ne11998 della Corte penale internazionale e, ancora, ai tanti Paesi che hanno abolito la pena di morte dal loro ordinamento o ne hanno sospeso le esecuzioni. Conquiste realizzate, certamente, anche con il contributo di altri. Il secondo aspetto riguarda il coinvolgimento di tutti, della società civile in primo luogo, di ogni donna e di ogni uomo. Perché “ogni ingiustizia ci riguarda”, come dice uno slogan di Amnesty: da quelle prime lettere inviate nel 1961 per chiedere la liberazione dei due studenti portoghesi imprigionati per aver brindato alla libertà, alle campagne mondiali portate avanti negli anni e ancora oggi, come quella per la liberazione di Patrick Zaki, per il contrasto all’hate speech offline, per la liberazione dei giornalisti turchi incarcerati. L’idea di base è che il rispetto dei diritti delle persone non può essere delegato ad altri, ma coinvolge ognuno di noi e unendo le forze la società civile può diventare un elemento di cambiamento importante. Insomma, i cittadini di ogni parte del mondo che si assumono in prima persona l’impegno di pretendere il rispetto della libertà e della dignità di tutti possono diventare un movimento globale capace di ottenere anche ciò che sembra impossibile raggiungere. Ma c’è un aspetto che deriva dai primi due e che contribuisce al cambiamento globale. Ed è la diffusione di una cultura dei diritti. Perché la democrazia, la libertà e i diritti non sono conquistati una volta per tutte. Essi rappresentano un patrimonio da tutelare, rafforzare e consegnare alle generazioni future. Lo vediamo anche oggi in un momento in cui principi come quelli dell’uguaglianza tra persone e popoli o della solidarietà, su cui è nata la stessa Unione europea, vacillano. In cui il linguaggio dell’esclusione e dell’odio trova anche nel discorso pubblico uno spazio che non aveva mai avuto. In cui in nome della `sicurezza’ della collettività si ritiene poter giustificare la privazione dei diritti di alcuni. Si pensi al recente contrasto alle detenzioni domiciliari concesse per consentire al sistema penitenziario di fare fronte alle esigenze di prevenzione del contagio da Covid-19 negli istituti penitenziari. La nascita e la storia di Amnesty International ricordano quella di un’altra associazione, l’Apt, l’Associazione per la prevenzione della tortura fondata da Jean-Jacques Gautier. Anche in questo caso, tutto è nato da un articolo pubblicato nel 1976 in cui Gautier proponeva la prevenzione come arma contro la tortura, affiancando al classico modello sanzionatorio un approccio preventivo. L’idea di istituire degli organismi che conducano visite regolari nei luoghi di privazione della libertà, al fine di intercettare preventivamente fattori di rischio che possono degenerare in forme di maltrattamenti o tortura, ha trovato applicazione nove anni dopo quando il Consiglio d’Europa istituisce nel 1987 il Comitato per la prevenzione della tortura che agisce proprio in questo modo, avendo potere di accesso a luoghi, persone e documentazione di tutte le situazioni di privazione della libertà. Successivamente, analoghi organismi sono stati previsti dalle Nazioni Unite sia a livello internazionale che a livello nazionale. Per l’Italia è il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. *Ufficio del Garante nazionale dei Diritti dei detenuti Amnesty, “tre prigionieri liberati al giorno per 60 anni” di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 maggio 2021 Il Maxxi di Roma celebra il compleanno dell’organizzazione nata il 28 maggio 1961. Il 3 giugno su Raitre il docufilm “Candle in barbed wire” di Fabio Masi e presentato da Blob. Un anniversario da festeggiare insieme a quello dei 30 anni di Patrick Zaki. Libero. Se si volesse spiegare in una scuola cosa è l’attivismo politico basterebbe un nome: Amnesty International. Un’organizzazione che nasce come social network ante litteram, trova lo start sulle pagine di un giornale europeo e festeggia il suo sessantesimo compleanno - oggi - orgogliosa “di aver contribuito a scarcerare tre prigionieri “di coscienza” al giorno per sessant’anni”, come scandisce quasi emozionato il portavoce italiano Riccardo Noury presentando nell’auditorium del museo Maxxi di Roma le iniziative per questo anniversario. Tra esse, una nuova campagna di brand per trovare nuovi “punti di contatto tra attivisti, beneficiari, donatori e firmatari”, un bellissimo spot celebrativo e il docu-film “Candle in barbed wire”, di Fabio Masi, autore di Blob, che sarà trasmesso il 3 giugno alle 23,15 su Raitre. Quella candela accesa nel filo spinato è il simbolo di Amnesty da quando il 28 maggio 1961 Peter Benenson, chiamando a raccolta l’opinione pubblica con un articolo sul The observer weekend, in difesa di un gruppo di studenti arrestati in Portogallo, sotto la dittatura di Salazar, per aver brindato alla libertà, diede di fatto vita al primo network mondiale. “Appello per l’amnistia”, si chiamava il suo scritto. E da allora Amnesty, che ha sempre avuto un legame profondo con il mondo dell’informazione, ha fatto passare idealmente quella candela di mano in mano tra i “12 milioni di sostenitori, soci e attivisti presenti in buona parte degli Stati del mondo”, come fosse una staffetta olimpionica. Ma oggi, in una Europa nella quale il regime di Lukashenko può dirottare un aereo di linea che collega due città del nostro continente per sequestrare un giornalista, quelle varie generazioni di attivisti politici che costituiscono la rete di Amnesty International sanno che c’è ancora molto da fare. “Se abbiamo contribuito a scarcerare tre prigionieri al giorno, è pur vero - ammette Noury - che ogni giorno cinque persone nel mondo vengono arrestate per le loro idee”. Non a caso, “questo anniversario vogliamo legarlo ad altre due importanti ricorrenze: i 20 anni dal G8 di Genova, con le sue ferite ancora aperte e la necessità di avere codici identificativi per le forze di polizia in servizio, e i 30 anni che Patrick Zaki compirà il 16 giungo”, spiega ancora il portavoce italiano dell’organizzazione al pubblico dell’auditorium seduto tra le sagome di Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna detenuto da 16 mesi nelle fetide prigioni del dittatore Al-Sisi. “Cambiare il mondo armandosi di una penna, non di un mitra[U1]“, è l’obiettivo dell’organizzazione internazionale secondo la visione del suo portavoce che, proprio per questo, l’ha scelta dal 1980. Poco prima, nel 1977, Amnesty venne insignita di un Nobel per la Pace per la sua campagna contro la tortura. Nel 1984 finalmente la lotta di quelle attiviste e quegli attivisti viene ripagata dalla Convenzione contro la tortura e i trattamenti inumani o degradanti adottata dall’Assemblea generale dell’Onu, pubblicata nell’89 sulla nostra Gazzetta ufficiale. Ci sono voluti altri 28 anni affinché il reato di tortura entrasse nel nostro ordinamento penale. Di successi ne hanno ottenuti molti altri, in questi sessant’anni, come per esempio la Convenzione delle Nazioni Unite sul commercio delle armi e l’abolizione della pena di morte in tre quarti del pianeta. Ma, come racconta ancora Noury, i risultati raggiunti con più soddisfazione sono testimoniati soprattutto dalle migliaia di lettere di ringraziamento di tutti coloro che hanno sentito, con Amnesty, di non essere stati lasciati soli. La sagoma di Zaki sta lì a ricordare che “protestare è un diritto umano”, come afferma il presidente italiano dell’associazione Emanuele Russo. “Riteniamo - dice - che il mondo debba riscoprire il valore della protesta e del dissenso”. Perché ci sono tre principi nella bibbia degli attivisti per i diritti umani e civili: “Per le idee non devi andare in galera; il corpo non si tocca; qualunque reato tu abbia commesso, la polizia non deve essere come o peggiore di te”. Quando sono entrato in Amnesty mi hanno insegnato che “noi lottiamo per la nostra estinzione”, ricorda Russo. “E per uno che stava nel Wwf era un’idea strana. Ora però la sento mia”. Migranti. Storia di Musa Balde, morto suicida in un Cpr di Michele Gravino La Repubblica, 28 maggio 2021 “Quel povero diavolo è stato bastonato da tre malandrini: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione” (Adriano Sofri, su Il Foglio del 25 maggio 2021). Musa Balde è stato rinchiuso nel Cpr - Centro di permanenza per il rimpatrio - di Torino per quindici giorni, e ne è uscito cadavere: si è impiccato con le lenzuola nel bagno della sua stanza. Era ricoverato nel cosiddetto “ospedaletto”: come fa notare Rosita Rijtano su lavialibera, rivista dell’associazione Libera, “si tratta di un casermone dove l’unico spazio esterno concesso per prendere un po’ d’aria è un piccolo cortile al di fuori di ogni stanza, coperto da un’inferriata: una gabbia”. Balde, 23 anni, guineano, in Italia da almeno cinque anni senza permesso di soggiorno, era stato portato a Torino dopo che, a Imperia, tre italiani l’avevano pestato a sangue con spranghe pugni e calci (loro sostengono che avesse cercato di rubare un telefono, lui diceva che stava solo chiedendo l’elemosina). Il video del pestaggio si trova facilmente in rete, di linkarlo non me la sento. I tre sono stati denunciati a piede libero senza l’aggravante dell’odio razziale; per Balde era stata avviata la procedura di rimpatrio. In un amarissimo pezzo sulla sua pagina Facebook, Adriano Sofri ha notato le analogie con la storia di Pinocchio: “Quel povero diavolo è stato bastonato da tre malandrini: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione”. Il racconto di Musa: “Voglio studiare, trovare un buon lavoro e vivere bene” - Di Musa Balde resta un video del 2017, girato in una delle strutture di accoglienza che si erano occupate di lui: con il sottofondo di una musichetta allegra che oggi suona particolarmente sinistra, raccontava di essere scappato per la difficile situazione nel suo Paese, e diceva di voler studiare (in effetti in questi anni aveva preso la terza media), di voler trovare un lavoro, di fare il tifo per la Roma. È la sesta persona a morire in un Cpr da giugno 2019 a oggi. Sempre nell’articolo di Rijtano, trovate le informazioni disponibili su cosa sono e come funzionano questi centri, e le ragioni di chi chiede di abolirli. Eventualità che resta molto improbabile, così come nessuna forza politica propone di abolire il reato di clandestinità Con diverse denominazioni e diversi quadri normativi, e sotto tutti i governi, i Cpr esistono dal 1998. Tre anni prima di Guantánamo. Migranti. Il respingimento targato Italia di Sarita Fratini Il Manifesto, 28 maggio 2021 Nel caso dei migranti riportati a Tripoli il primo luglio 2018 tutti gli elementi in gioco erano italiani, nonostante l’esecutore finale sia stato la “guardia costiera” libica. Mediterraneo centrale, 1 luglio 2018. I minorenni Ato e Cris, la dolce ma battagliera ventenne Kissa, Dahia con la sua pancia di otto mesi e quasi un centinaio di loro compagni eritrei e sudanesi viaggiano verso nord, su un gommone, nel tentativo di fuggire dalla Libia. La mattinata è trascorsa con un solo momento di tensione: un aereo di EunavforMed, nel suo quotidiano volo di ricognizione per individuare imbarcazioni sulla rotta Malta-Khoms, passa poco lontano, ma pare non averli visti, perché vola subito oltre. Poco dopo l’aereo europeo individua un altro gommone più vicino alla Libia e, tramite il Centro per il coordinamento del soccorso marittimo (Mrcc) di Roma, lo segnala alla cosiddetta “guardia costiera” libica. Ato, Cris, Kissa e Dahia, però, non possono saperlo e continuano a navigare verso la loro meta, sperando per il meglio. Nel primo pomeriggio il mare si alza e il motore si rompe. Mentre provano a riavviarlo arriva un elicottero. Viene da nord, indugia su di loro con cabrate continue. È un mezzo militare e li punta dall’alto, come se non voglia perderli di vista. “Lo abbiamo avuto sulla testa per almeno un’ora”, raccontano oggi i naufraghi. Quando l’elicottero finisce il carburante ritorna dove è partito. Pochi minuti più tardi, però, sulla scena compare la motovedetta libica Zwara. Abborda i migranti e li cattura. Dall’incrocio tra le testimonianze dei sopravvissuti e di fonti della Marina oggi sappiamo che quell’elicottero era italiano. Era EliDuilio, dell’incrociatore Caio Duilio. La nave madre si trovava poco lontano, ma non era intervenuta a soccorrere il gommone, preferendo che lo facesse la motovedetta libica. L’odissea dei rifugiati non terminò con la cattura. Come abbiamo già raccontato su il manifesto, sulla motovedetta Zwara si ruppero le pompe di sentina, l’imbarcazione iniziò ad imbarcare acqua e i 276 rifugiati che aveva a bordo si ritrovarono di nuovo in pericolo, con le condizioni del mare che, nel frattempo, erano divenute drastiche. Rimasero in quelle condizioni per oltre sei ore. Dahia, incinta di otto mesi, continuava a vomitare. La nave militare Caio Duilio non aiutò la motovedetta libica, restò nell’ombra, a pochissime miglia di distanza, e continuò a coordinare quello che è stato uno dei più grandi respingimenti collettivi in Libia degli ultimi anni. Pur di non fare intervenire attivamente una sua nave, la Marina italiana preferì chiamare una nave cargo che si trovava a quattro ore di navigazione: l’italiana Asso Ventinove. Gli stessi militari italiani supervisionarono tutte le operazioni di trasbordo dei migranti dalla Zwara alla Asso Ventinove. Lo sbarco, la mattina seguente, avvenne nel porto di Tripoli, sotto lo sguardo dei militari della nave Caprera, ormeggiata a pochi metri. I 276 migranti vennero rinchiusi nei lager libici di Tarek al Mattar e Triq al Sikka. Almeno due di loro morirono di stenti nei mesi successivi. Nonostante le decine di comunicazioni ufficiali tra varie istituzioni e unità militari e civili italiane, l’evento rimase segreto finché le stesse vittime non lo denunciarono. Oggi c’è una causa civile al Tribunale di Roma. Nell’estate 2018 i respingimenti collettivi illegali Hirsi e Orione erano già finiti in tribunale arrivando poi a sancire un principio importante: navi europee non possono respingere collettivamente stranieri in Libia. Il Governo italiano aveva recepito il messaggio ma sembrerebbe aver trovato una nuova strategia: fornire ogni tipo di mezzo ai libici, delegando loro il lavoro finale. Il mare era coperto da decine di motovedette regalate dall’Italia alla Libia, il problema rimaneva il cielo. Il ruolo dei mezzi aerei è cruciale: un evento Sar può essere aperto solo dopo un contatto visivo, non basta una chiamata di soccorso. I libici non hanno assetti aerei in grado di fare ricerca e soccorso nel Mediterraneo, così l’Europa, con Eunavfor Med ha intensificato i voli di pattugliamento sulle rotte dei migranti, ovvero le direttrici Zwara-Lampedusa e Khoms-Malta. Gli avvistamenti sono trasmessi ai libici secondo un iter preciso: si comunica con tutti gli Mrcc (Italia, Malta, Tunisia, Libia), ma i libici sono gli unici a rispondere assumendo il coordinamento dell’evento Sar. Visionando alcuni rapporti dell’estate 2018 salta all’occhio il sistema: il flusso di informazioni parte da avvistamenti di aerei europei, transita per le istituzioni italiane (Operazione Mare Sicuro, Mrcc di Roma, navi militari come la San Giusto ormeggiata ad Augusta e la Caprera ormeggiata a Tripoli) e termina sempre alla cosiddetta Guardia Costiera Libica, che effettua materialmente i respingimenti. Accadde così anche il primo luglio 2018: dei tre gommoni coinvolti nel respingimento segreto, i primi due vennero individuati da un aereo di Eunavfor Med, il terzo da EliDuilio, l’elicottero della Caio Duilio. Al Tribunale civile di Roma cinque rifugiati sopravvissuti hanno fatto causa all’Italia e l’Italia tenta di scaricare la colpa sui libici. Ma, a ben vedere, il gommone dei rifugiati fu individuato da un elicottero italiano; la motovedetta libica che li prese a bordo fu chiamata dalla Marina italiana; la nave italiana Caio Duilio rimase a poche miglia senza dare assistenza al mezzo libico che imbarcava acqua, mettendo i rifugiati in ulteriore pericolo; la Marina italiana chiamò un’altra nave italiana, la Asso Ventinove, che li prese a bordo rifiutando loro la richiesta di asilo; al momento dello sbarco a Tripoli vennero fatti scendere usando la motovedetta 648, Ras El Jadir, regalata dall’Italia alla Libia; vennero deportati nei lager di Tarek al Mattar e Triq al Sikka, finanziati da progetti del ministero dell’Interno italiano. Migranti. “Prove concrete di respingimenti illegali” nei documenti contro Frontex di Sara Creta Il Domani, 28 maggio 2021 I documenti degli ispettori dei diritti fondamentali di Frontex riportano “prove concrete” di respingimenti illegali di migranti nelle acque dell’Egeo. E l’Agenzia ammette: in alcuni casi le violazioni non sono state segnalate. Aumenta la pressione sulla più potente agenzia dell’Ue che si occupa del controllo dei confini terrestri e marittimi dell’Unione, ancora sotto indagine dall’Ufficio europeo antifrode (Olaf). Legali europei hanno presentato un’azione legale presso la Corte Europea di Giustizia e denunciato gravissime violazioni dei diritti umani dei migranti. L’agenzia europea che si occupa della difesa delle frontiere esterne dell’Ue è stata negli ultimi tempi al centro di un’indagine del parlamento europeo per la scarsa trasparenza e per non rispettare i diritti umani di migranti e rifugiati; dal diritto alla vita, a quello di chiedere asilo in frontiera, come sancito dalla Convenzione di Dublino e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In particolare, come emerso dall’inchiesta giornalistica di Lighthouse Reports, Bellingcat, Der Spiegel, Frontex è stata complice del respingimento illegale e violento di migranti nel mar Egeo, tra Turchia e Grecia. Una recente inchiesta di Domani ha rivelato inoltre come ufficiali di Frontex, sarebbero in contatto con la guardia costiera libica, a cui verrebbero mandate le coordinate delle imbarcazioni da intercettare via WhatsApp. Recentemente Frontex ha commissionato uno studio a Rand Europe, per implementare l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale nella gestione dei confini europei. Il report, reso pubblico in questi giorni, identifica le aree di intervento e quali nuove tecnologie verranno impiegate per i controlli dei confini. Mentre a Bruxelles rimane sul tavolo la proposta della Commissione Ue che prevede rimpatri e frontiere impermeabili, e chiede di aumentare risorse della stessa Frontex, gli eurodeputati socialdemocratici, di sinistra, verdi della commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (Libe) del parlamento europeo hanno già interrogato il direttore dell’agenzia Fabrice Leggeri: in molti ne hanno chiesto le dimissioni. Il capo dell’agenzia europea è accusato di avere coperto i respingimenti illegali di rifugiati nell’Egeo tra Turchia e Grecia. Un gruppo di lavoro, composto da 14 eurodeputati - due per gruppo politico - è stato istituito dopo le rivelazioni giornalistiche sul ruolo di Frontex nei respingimenti con lo scopo di vigilare sul rispetto dei diritti fondamentali, nonché sul rispetto dei principi di trasparenza e responsabilità nella gestione dell’Agenzia. Quattro mesi per stendere un rapporto con conclusioni e raccomandazioni. Il gruppo del parlamento Ue per lo scrutinio dell’Agenzia Ue - istituto per verificare l’operato di Frontex e presidiato da Roberta Metsola, deputata maltese del partito Popolare europeo - sarà in missione a Varsavia nella sede dell’agenzia il 14 e 15 giugno. “Ci sono stati gravi errori, rimane cruciale esaminare non solo le presunte violazioni dei diritti umani, ma anche la struttura interna dell’agenzia”, ribadisce la verde olandese Tineke Strik in commissione. Sono state segnalate espulsioni collettive e abusi, ma anche altre dinamiche interne che l’agenzia non rispetta. L’Ombudsman europeo Emily O’Reilly ha aperto un’inchiesta formale per verificare la trasparenza del Complaint Mechanism, lo strumento interno che permette di segnalare eventuali casi di violazione dei diritti umani. “Mancano gli strumenti per avere risposte tempestive da parte delle autorità nazionali, e temo che la divisione interna di Frontex dedicata ai diritti fondamentali non riesca a svolgere il proprio ruolo in modo indipendente”, ha ribadito Emily O’Reilly durante un’audizione alla commissione Libertà Civili del Parlamento Europeo. Frontex può decidere di non avviare alcuna attività alle frontiere se esistono timori che questa possa provocare possibili violazioni dei diritti fondamentali o degli obblighi di protezione internazionale. A deciderlo possono essere gli ispettori dei diritti fondamentali di Frontex, ovvero i fundamental rights officers, che si occupano di monitorare che tutte le operazioni siano in linea con i diritti fondamentali. Ma per mesi l’agenzia ha ritardato l’assunzione di personale incaricato a sorvegliare il rispetto dei diritti umani e dei valori dell’Ue. Nonostante erano previsti quaranta responsabili, finora ne sono stati reclutati solo venti. Secondo gli europarlamentari Frontex è complice delle violazioni del diritto europeo e internazionale. Altri documenti interni consultati da Domani, confermano che nel 2020, alcune potenziali violazioni dei diritti fondamentali non sono state segnalate alla divisione interna di Frontex. E la mancata conformità con il regolamento dell’agenzia stessa viene ancora una volta dimostrato con le prove che gli avvocati della ong olandese Front-Lex, Iftach Cohen e Omer Shatz hanno presentato alla Corte di giustizia dell’Unione Europea con sede a Lussemburgo. Il ricorso contro Frontex è stato promosso per conto di due richiedenti asilo, un minore non accompagnato e una donna che, mentre chiedevano asilo sul suolo dell’Ue, sono stati arrestati violentemente, aggrediti, derubati, rapiti, detenuti, trasferiti con la forza in mare, espulsi collettivamente, e infine abbandonati in mare, senza cibo o acqua. “Confidiamo che la Corte ascolti le vittime, veda ciò che tutti vedono, chieda conto all’agenzia di frontiera dell’Ue e ripristini lo Stato di diritto sulle terre e sui mari dell’Ue”, ha ribadito Omer Shatz. Regno Unito. Italiani detenuti al confine, parla il viceministro dell’Interno Foster di Antonello Guerrera La Repubblica, 28 maggio 2021 “In attesa dell’espulsione rilasceremo su cauzione”. Dopo le polemiche per i cittadini europei chiusi in prigione prima di essere costretti a lasciare il Paese, parla il vice della titolare dell’Interno Priti Patel: “Nulla contro la Ue. Dopo la pandemia torneremo alla normalità, ma controllate le norme sanitarie e migratorie prima di mettervi in viaggio. Chi vive già nel Regno Unito non rischia niente. Record di italiani regolarizzati” “Sì al rilascio su cauzione dei cittadini Ue in attesa dell’espulsione dal Paese, la detenzione è solo l’ultima alternativa”, “europei e italiani sono benvenuti ma bisogna controllare le regole anche sanitarie, e non solo migratorie, prima di arrivare al confine Uk”. E poi il record di italiani che si sono regolarizzat; se si rischia l’espulsione nel caso in cui non lo si faccia; e cosa fare per i colloqui di lavoro nel Regno Unito. Kevin Foster è il viceministro dell’Interno con delega all’immigrazione, il secondo in lizza di comando all’Home Office dietro la falca euroscettica Priti Patel. In questa intervista esclusiva a Repubblica, Foster parla dopo il caso dei cittadini italiani ed Ue detenuti al confine britannico. Una vicenda che ha generato scalpore e inquietudine, come nel caso della 24enne italiana Marta Lomartire, detenuta per diverse ore in una prigione e senza effetti personali perché sequestrati, cellulare incluso “per non scattare foto”. Ora però, nel giorno del record di applicazioni di cittadini italiani per il permesso di soggiorno post Brexit “Settlement Scheme” nel Regno Unito, per la prima volta parla un alto responsabile del Ministero dell’Interno britannico. Viceministro Foster, ci conferma dunque che i cittadini italiani ed europei che arrivano al confine senza la giusta documentazione per lavorare non saranno detenuti in carcere? “La “border force” decide sugli ingressi a seconda dei casi e normalmente prevediamo la detenzione di un migrante irregolare solo come ultima risorsa affinché l’espulsione si realizzi, o qualora fosse assolutamente necessario come nel caso di atti di criminalità. È qualcosa che accade in molti Paesi, Italia. inclusa. In più sono state a lungo in vigore le regole e restrizioni anti Covid, che tra l’altro hanno complicato ancora di più gli ingressi”. Quindi, una volta usciti dall’emergenza pandemica, questi episodi saranno molto più rari? “Di norma, quando viene rifiutato l’ingresso per lavoro, si viene messi sul primo aereo di ritorno nel proprio Paese, a meno che non ci siano gravi reati o attività criminali legate alla persona che fa richiesta di entrare nel Regno Unito. Quando torneremo a una certa normalità post Covid, torneranno anche i tornelli automatici “e-gates” per i cittadini europei con passaporto per superare la frontiera britannica. Ma l’ultimo anno, oltre che per la fine della libera circolazione dopo la Brexit, è stato ancora più complesso anche per le norme e restrizioni sanitarie legate all’ingresso. Quindi invito i cittadini italiani ed europei, prima di viaggiare verso il Regno Unito, di controllare non solo le regole dell’immigrazione ma anche quelle di contenimento del Covid”. Ma il problema è che ragazzi e cittadini italiani ed europei incensurati come Marta sono stati trattati alla stregua di criminali alla frontiera, messi in prigione con cellulari e persino le medicine sequestrati. Perché tutto questo? “Le regole in prigione sono diverse dai centri di detenzione. Detto questo, ciò non è capitato solo ai cittadini europei e italiani, per le cause che ho spiegato sopra, ma anche a canadesi, australiani, neozelandesi, cittadini di Paesi stretti alleati del Regno Unito. Non c’è nulla contro la Ue. Ma il ritorno alla normalità post Covid aiuterà anche questi processi alla frontiera ad essere più fluidi”. Nelle ultime settimane ci sono stati anche casi di cittadini europei e italiani respinti alla frontiera britannica nonostante avessero un colloquio di lavoro già fissato in Regno Unito. “Sì, ma ripeto, i cittadini in ingresso devono anche controllare le restrizioni anti Covid in vigore. Se in questo momento non è permesso il turismo dalle nazioni in “lista gialla” (come Italia, Francia, Spagna, ndr) o rossa, anche se si arriva per un colloquio di lavoro bisogna sottoporsi a quarantena, ad alcuni test molecolari privati, esclusa qualche rara eccezione per tipologie di lavoratori (che potete trovare sul sito www.gov.uk, ndr). Per questo bisogna attenersi anche alle regole sanitarie in vigore, non solo di immigrazione, in questo caso legale per un colloquio. Altrimenti si rischia di essere respinti”. I cittadini italiani ed europei residenti in Regno Unito già prima della Brexit ma che, per un motivo o per un altro, non si sono ancora iscritti al programma “Settlement Scheme” per ottenere il permesso di soggiorno negli anni a venire, rischiano di essere incarcerati ed espulsi come i migranti Ue considerati irregolari negli ultimi mesi? “No. Voglio essere chiaro su questo. Le regole per i nostri amici europei che vivevano qui in Regno Unito prima della concretizzazione della Brexit del 1 gennaio scorso le abbiamo scritte in modo flessibile proprio per evitare tutto questo. C’è tempo fino al 30 giugno per iscriversi e invitiamo tutti a farlo, anche se si è momentaneamente all’estero, perché è semplice e rapido mantenere i diritti acquisiti. Per coloro che non ce la facessero, in casi particolari possiamo essere flessibili anche per 10, 12, 13 anni, come per esempio nel caso di bambini europei che hanno sempre vissuto qui ma che per qualche motivo non sono stati registrati dai loro genitori o tutori. Questo per dire che, se qualcuno ha il diritto di rimanere in Regno Unito e dimostra di avervi vissuto qui prima del 1 gennaio 2021, non sarà di certo cacciato, anche se sarà in ritardo”. Ma perché agli oltre 5 milioni di cittadini Ue che si sono già iscritti al Settlement Scheme non concedete anche un documento cartaceo che attesti la loro residenza regolare (di almeno 5 anni) nel Regno Unito? “Perché abbiamo deciso di informatizzare il sistema come accade in molti altri Paesi, vedi Australia. I documenti cartacei potrebbero essere falsificabili. Con il nostro sistema, il proprio status è direttamente legato al passaporto o altro documento di identità, quindi non c’è problema”. Quanti italiani si sono iscritti sinora alla piattaforma “Settlement Status” per rimanere nel Regno Unito senza problemi e con tutti i diritti? “Il dato che ho ricevuto oggi è oltre mezzo milione, una soglia cruciale. Per la precisione: 500.550. Il 56% di questi come residenza per almeno cinque anni e il resto di residenze permanenti. Siamo decisamente soddisfatti”. Oltre cinquecentomila è un numero enorme se pensiamo che fino a un anno fa italiani iscritti all’Aire nel Regno Unito erano “solo” in 350mila, il resto erano dunque “invisibili”. Quante persone mancano all’appello secondo lei, ministro? “Difficile dirlo. Prima della Brexit, con la libertà di movimento europea, non c’era un obbligo di registrarsi. Ma di certo la stragrande maggioranza degli italiani ora si è regolarizzata. E stiamo facendo di tutto, anche tramite associazioni che abbiamo finanziato come Stato, per raggiungere anche coloro più restii o che non lo hanno ancora fatto perché anziani in case di riposo o altri casi limite. Faremo il massimo per far regolarizzare tutti gli italiani già residenti nel Regno Unito per farli rimanere con noi” Spagna. Sanchez vuole l’indulto per gli indipendentisti catalani in carcere di Alessandro Leone Il Fatto Quotidiano, 28 maggio 2021 Dopo la nomina di Pere Aragonés alla presidenza della Catalogna, il premier spagnolo si è mosso subito per lanciare un segnale d’apertura a Barcellona. Contro di lui non ci sono solo l’opposizione e una parte del suo partito, ma anche la Corte Suprema, che reputa l’indulto “inaccettabile”. I politici catalani in carcere per il referendum indipendentista del 2017 potrebbero tornare in libertà tra non molto. Il premier spagnolo Pedro Sánchez ha espresso chiaramente la sua intenzione di concedere l’indulto appellandosi ai valori costituzionali della “concordia e della comprensione”. Le sue parole hanno provocato l’ira dell’opposizione e sono state accolte con scetticismo anche da alcuni colleghi del Partito socialista. Ma il rifiuto più netto proviene dalla Corte Suprema, che reputa l’idea “inaccettabile”. Sánchez non ha perso tempo e ha cominciato ad agire qualche giorno dopo l’inizio del mandato di Pere Aragonés come presidente della Catalogna. Gli obiettivi del nuovo esecutivo regionale restano sempre gli stessi: amnistia per i “prigionieri politici” e referendum pattuito con lo Stato sullo stile scozzese. Il secondo punto verrà affrontato soprattutto dalla mesa de diálogo, una tavola rotonda tra Madrid e i partiti indipendentisti; per il primo invece la via prediletta è l’indulto. Contrariamente all’amnistia, che annulla il delitto, manterrebbe l’inabilitazione politica e restituirebbe la libertà ai prigionieri grazie a uno sconto di pena. Da parte dell’esecutivo si tratta di un messaggio di apertura che vuole ribadire il carattere democratico della Spagna, spesso paragonata dagli indipendentisti catalani alla Turchia quanto a repressione degli oppositori interni. Per questa ragione Sánchez ha chiesto la comprensione dell’opposizione ricordando quando nel 2017 appoggiò il governo di Mariano Rajoy nella risposta al referendum perché “era una questione di Stato”. Ma la risposta di Pablo Casado, leader dei popolari, è stata feroce: “Fare un colpo di Stato non è un valore costituzione”, ha scritto su Twitter. Nulla paragonato alla dettagliata stroncatura della Corta Suprema, che ha parlato all’unanimità di “soluzione inaccettabile”. Per i giudici - tra cui Manuel Marchena, che ha condotto il procés - non esiste alcun argomento che giustifichi l’indulto. In nessun caso: né per i nove condannati da 9 a 13 anni di carcere per sedizione, come il presidente di Esquerra Republicana Oriol Junqueras, né per i tre che non sono finiti in carcere ma sono stati inabilitati per disobbedienza. Una delle basi dell’indulto è che ci sia pentimento da parte dei condannati, ma non è questo il caso. Chi si è espresso, come il presidente dell’associazione Omnium Jordi Cuixart, ha ribadito che rifarebbe tutto perché ritiene di non aver commesso nessun illecito. Il testo della Corte Suprema non è vincolante ma limita l’applicazione dell’indulto, che può essere solo parziale. Le opzioni sul tavolo per il governo Sánchez sono quindi due: ridurre la pena, quella più probabile, o commutarla. La decisione era prevista per l’estate, ma si parla di un possibile anticipo. Adesso spetta al ministero della Giustizia elaborare una proposta e mandarla al Consiglio dei Ministri, che prenderà la decisione finale. Precedentemente anche la Procura si era opposta, segnalando l’indulto come “moneta di scambio per l’appoggio parlamentario”. Gli stessi colleghi socialisti non sono convinti della scelta di Sánchez e temono che il loro elettorato possa reagire negativamente. L’ex premier Felipe González ha dichiarato che “in queste condizioni” non concederebbe l’indulto e così anche il presidente della Castiglia e La Mancia Emiliano García-Page. L’unico che finora si è espresso a favore è un altro ex premier, José Luis Zapatero: “Dobbiamo fare le cose che importano davvero, pensando nell’interesse generale e non nel breve periodo. La democrazia - ha detto - deve prendere l’iniziativa, altrimenti cosa vogliamo fare? Vogliamo tornare alla lezione del 2017?”. Russia. Torna il Gulag? Detenuti utilizzati per lavori pesanti in Siberia e nell’Artico di Vladimir Rozanskij asianews.it, 28 maggio 2021 Entro giugno, 600 detenuti stenderanno i binari della ferrovia tra il lago Bajkal e il fiume Amur. L’uso dei detenuti è apparso necessario dopo il crollo delle migrazioni di lavoratori stagionali kirghisi e tagiki. Saranno necessari almeno 15mila operai. Intanto si discute sul progetto di “ripulitura ecologica” del Circolo polare artico. Membri del partito di Putin denunciano un possibile ritorno al sistema staliniano. A partire dal prossimo mese di giugno, un gruppo di circa 600 detenuti dei lager verrà utilizzato per stendere i binari della tratta tra il lago Bajkal e il fiume Amur in Siberia. L’invio del primo contingente di “lavoratori forzati” al servizio delle ferrovie statali RŽD, è stato deciso ieri. L’utilizzo di detenuti per le opere pubbliche, ove sono necessari lavori particolarmente pesanti, è in discussione ormai da diversi mesi nel governo e a vari livelli dell’amministrazione. Ciò avviene a causa della grave diminuzione di lavoratori migranti dai Paesi centrasiatici, soprattutto kirghisi e tagiki, per le misure anti-Covid e la diffusa crisi economica, che rende la Russia meno attraente per i lavoratori stranieri stagionali. I lavori in Siberia sono stati affidati alla compagnia semi-pubblica Promstroj, a cui verrà affidato il contingente con un contratto concesso dal centro correzionale federale FSIN sul lavoro di due gruppi, uno di 150 e uno di 430 persone per lavori generici, cementisti e addetti alle armature. La compagnia ha rifiutato di rilasciare commenti ai giornalisti. Il capo del FSIN, Aleksandr Kalašnikov, ha invece appoggiato pubblicamente l’iniziativa, affermando che “non sarà come il GULag del passato: saranno condizioni di lavoro assolutamente nuove e dignitose”. Il GULag (Glavnoe Upravlenie Lagerej, “amministrazione generale dei campi di lavoro”) era il sistema staliniano di utilizzo della forza-lavoro dei detenuti. Tra i 20 e i 40 milioni di persone, hanno sostenuto per decenni l’industria, i lavori pubblici, e ancor più l’industria bellica durante la Seconda guerra mondiale. La grande opera staliniana più famosa fu il Belomorkanal, il canale tra il Mar Bianco e il Mar Baltico, inaugurato nel 1933. Ad esso lavorarono oltre 300 mila detenuti, molti dei quali persero la vita durante i lavori, a causa delle estreme condizioni climatiche. Entro il 2030, le autorità russe progettano di ricostruire ben 146 obiettivi lungo la magistrale ferroviaria Bajkal-Amur, tra cui lunghe tratte di binari, stazioni, ponti ecc. Per tutti questi lavori saranno necessari almeno 15mila operai, che in parte saranno coperti dai dipendenti delle Ferrovie e dai soldati delle armate ferroviarie (una sezione già esistente dell’esercito russo), ma la parte principale dovrà essere integrata dai detenuti. Anton Gorelkin, deputato della Duma di Stato, membro del partito putiniano “Russia Unita”, è intervenuto contro il progetto. Sui suoi canali social egli afferma di ritenerlo “un’idea pericolosa, che riporterebbe il nostro Paese al passato del GULag e dei lavori forzati, e farebbe venire la tentazione di mettere in carcere sempre più persone”. In effetti, il sistema staliniano prevedeva arresti “mirati” di massa per mantenere le quote dei detenuti-schiavi nelle opere pubbliche. Tale sistema è stato rivelato al mondo con l’opera “Arcipelago Gulag” di Alexandr Solzenicyn. Il progetto pare non limitarsi alle ferrovie siberiane. Una proposta ancora in discussione prevede di inviare i detenuti a “ripulire” i territori dell’Artico, anche al di sopra del Circolo Polare, dai cumuli di rifiuti accatastati fin dai tempi sovietici. Il governo russo ha intenzione di stanziare oltre 15 miliardi di rubli (circa 200 milioni di euro) per “lo sviluppo della zona Artica”, trasformando i suoi territori entro il 2024 per attrarre investitori e turisti, creare posti di lavoro e preparare le necessarie infrastrutture. Per tale progetto, la “ripulitura ecologica” dell’Artico appare assolutamente prioritaria. Una decina d’anni fa si è tentato invano di intervenire sui territori dell’estremo nord, che la Russia considera assolutamente strategici. Secondo varie stime, sulle rive dell’Oceano Glaciale Artico si trovano tra i 6 e i 12 milioni di grandi fusti per carburante, trasportati fin lassù ai tempi dell’Urss, oltre a circa 4 milioni di tonnellate di rifiuti industriali ed edilizi. Lungo le rive si trovano anche migliaia di navi abbandonate da proprietari non identificati. Il tutto richiede un’enorme mano d’opera non qualificata per la raccolta, il trasporto, la compressione dei rifiuti e altri lavori pesanti, tanto da far impallidire i numeri dei “lavoratori forzati” dei tempi di Stalin. Medio Oriente. Inchiesta Onu sulla guerra a Gaza, l’ira di Israele La Repubblica, 28 maggio 2021 L’onda lunga della guerra a Gaza non si ferma e arriva nelle assisi internazionali. Il Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha deciso di aprire un’inchiesta internazionale sulle “violazioni dei diritti umani commesse nei Territori palestinesi occupati e in Israele da aprile scorso”, ma anche “sulle cause profonde” delle tensioni. Una risoluzione - su iniziativa del Pakistan - che il premier Benjamin Netanyahu ha respinto denunciando “l’aperta ossessione anti-israeliana dell’Onu”. “Ancora una volta - ha denunciato - un’immorale maggioranza automatica sbianca un’organizzazione terroristica e genocidaria che deliberatamente colpisce civili israeliani mentre trasforma quelli di Gaza in scudi umani”, mentre “raffigura come colpevole una democrazia che agisce legittimamente per proteggere i suoi cittadini da migliaia di attacchi missilistici indiscriminati”. “Questa farsa - ha continuato furioso Netanyahu - si fa beffe del diritto internazionale e incoraggia i terroristi in tutto il mondo”. La decisione del Consiglio - approvata in seduta straordinaria con 24 voti favorevoli, 9 contrari e 14 astensioni - è stata preceduta da un intervento dell’Alto Commissario per i diritti umani Michelle Bachelet. L’esponente delle Nazioni Unite ha detto che gli attacchi di Israele sulla Striscia durante il conflitto potrebbero costituire “dei crimini di guerra”. Israele, che non fa parte del Consiglio, ha ribadito che quella è un’istituzione “guidata dall’ipocrisia e dall’assurdo”. Ma la tensione è esplosa anche tra Israele e la Francia a causa delle parole attribuite al ministro degli Esteri di Parigi Jean-Yves Le Drian che, in un’intervista dei giorni scorsi, ha parlato di “rischio apartheid” nello Stato ebraico a causa delle violenze tra arabi e ebrei durante il conflitto. Il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi oggi ha convocato l’ambasciatore francese Eric Danon, al quale ha espresso la forte contrarietà di Israele. “Quelle di Le Drian - ha detto a Danon - sono parole inaccettabili che distorcono la realtà. Ci aspettiamo dagli amici che non si esprimano in maniera irresponsabile”. Tra l’altro Ashkenazi dovrebbe andare la settimana prossima al Cairo per rafforzare il cessate il fuoco raggiunto a Gaza. L’Egitto ha inviato anche l’Autorità nazionale palestinese e anche Hamas per colloqui indiretti con le parti per giungere ad una tregua più profonda. Se così sarà, la visita di Ashkenazi sarà la prima ufficiale da molti anni di un ministro degli Esteri israeliano al Cairo. Una prima pagina nell’edizione in ebraico del liberal Haaretz ha poi suscitato un vespaio di polemiche in Israele, anche per una vistosa omissione. Il quotidiano - riprendendo un servizio del New York Times - ha pubblicato in prima e terza pagina le foto dei 67 minori uccisi a Gaza durante la guerra. Ma a differenza del New York Times ha omesso le foto delle due vittime minori israeliane. I ritratti dei minori di Gaza erano sovrastati dal titolo di apertura ‘Questo è il prezzo della guerra’. A fronte dell’omissione, l’editore Amos Shocken si è scusato del “grave errore” addossandolo ad un non meglio specificato giornalista, secondo il quale “si era già parlato” delle vittime israeliane “ampiamente e in tempo reale”. Medio Oriente. Silenzio su Gaza, ma per l’Onu “crimini di guerra di Israele” di Alberto Negri Il Manifesto, 28 maggio 2021 Informazione italiana. L’atteggiamento nostrano è questo: “Se ne riparlerà alla prossima eruzione”, come se Gaza e la Palestina fossero un fenomeno naturale, come Stromboli. Eppure anche lì il vulcano non dorme mai. Se non fosse per Michele Giorgio, inviato del manifesto a Gaza, sui media italiani sarebbe calato il silenzio più totale. L’atteggiamento nostrano è questo: “Se ne riparlerà alla prossima eruzione”, come se Gaza e la Palestina fossero un fenomeno naturale, come Stromboli. Eppure anche lì il vulcano non dorme mai. Ma le bombe e le loro vittime non sono fenomeni naturali: sono crimini di guerra. Ce lo dice Michelle Bachelet, alto commissario Onu per i diritti umani, secondo la quale i raid israeliani su Gaza possono costituire dei crimini di guerra e che pure Hamas ha violato le leggi umanitarie internazionali lanciando razzi su Israele. Se c’è un inferno sulla terra è quello che ha investito le vite dei bambini palestinesi a Gaza, dice la signora Bachelet: i morti _ma il bilancio è ancora assai provvisorio _ sono stati 270 tra la Striscia, la Cisgiordania e Gerusalemme Est, di questi 68 sono bambini. Nonostante le dichiarazioni israeliane, non c’è nessuna prova che gli edifici sgretolati dai missili e delle bombe dello stato ebraico ospitassero gruppi armati o fossero usati per scopi militari. In poche parole, secondo l’Onu, il governo israeliano del premier Netanyahu ha giustificato con delle menzogne la morte di centinaia di civili che nulla avevano a che fare con il conflitto. Per questo al consiglio Onu dei diritti umani è partita una richiesta, appoggiata dagli stati musulmani, di insediare una commissione d’inchiesta per investigare su possibili crimini di guerra e stabilire le responsabilità. Una cosa è certa: le bombe “intelligenti” israeliane non esistono, e tanto meno a Gaza. Ci sono certamente negli arsenali e si possono usare con estrema precisione ma non è questo il caso: missili e ordigni sono stati puntati e scaricati consapevolmente sui civili perché questa è la guerra che combatte oggi lo stato ebraico, un conflitto dai contorni terroristici, speculare a quello di Hamas. L’obiettivo è soltanto in parte colpire i bersagli pregiati, come i capi di Hamas o del Jihad, oppure i famosi tunnel. In realtà, come hanno ammesso le stesse fonti delle forze israeliane (Idf) riportate da Haaretz nei giorni scorsi, a un certo punto “i bersagli militari erano finiti”. Questo significa che non restavano che i civili da colpire, indiscriminatamente. Ed è esattamente quello che ci racconta Michele Giorgio nei suoi reportage: altro che tunnel, sono stati rasi al suolo palazzi dove si stanno ancora tirando fuori le vittime dalle macerie e sono state colpite persino le librerie. Lo scopo della guerra oggi non è neutralizzare degli eserciti, questo accade solo in parte: il vero obiettivo è terrorizzare la popolazione, spingerla a fuggire, a vivere in condizioni disumane. Una sorta di pulizia etnica dall’alto che a volte, come è accaduto anche a Gaza, non prevede un’operazione di terra, che viene evocata soltanto per intorbidare le acque della propaganda. La strategia di questi governi israeliani di destra non è soltanto quella di essere contrari alla formula “due popoli, due stati”. Va ben oltre. Non si nega soltanto uno stato agli arabi ma anche la loro stessa esistenza come popolo. Israele di oggi è interessato soltanto ad avere tra gli arabi dei sudditi o cittadini di seconda classe: la prova lampante è che nel 2018 la Knesset ha approvato una legge che proclama Israele “stato nazionale del popolo ebraico”. Non una sola parola fa riferimento agli arabi israeliani. Semplicemente non esistono e questa situazione ora, nelle città miste, è diventata esplosiva. La maschera di Israele, citato come unico stato democratico della regione, non regge più: si tratta di un’entità segregazionista che pretende di prendersi dai palestinesi tutte ciò che vuole, in violazione di ogni legge internazionale, da Gerusalemme Est a pezzi della Cisgiordania dove insediare i coloni, confiscando case e terreni. E se non ti va Israele entra a casa tua e ti spara una bomba, intelligente naturalmente. Israele è uno stato fuori legge ma nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente. Tanto meno l’amministrazione Biden. Nella sua visita a Gerusalemme il segretario di stato Antony Blinken non ha messo in discussione nulla con Netanyahu, dagli aiuti militari, al “diritto di Israele a difendersi” e tanto meno l’annessione di Gerusalemme e del Golan regalata da Trump. L’unica differenza tra Tel Aviv e Washington sta nel negoziato con l’Iran. Nel 2003 Bush junior, attaccando l’Iraq, disse che l’avrebbe riportato al Medioevo. Israele fa il suo Medioevo radendo al suolo Gaza e attuando leggi feudali. Il resto sono chiacchiere oppure uno studiato silenzio per addormentare le coscienze. Egitto. Patrick Zaki compirà 30 anni in cella. E noi staremo zitti e buoni? di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 28 maggio 2021 Il parlamento ha votato in aprile la mozione sulla cittadinanza. Il governo invece tace sul destino dello studente egiziano. Rimandata a martedì l’udienza sulla custodia cautelare. E poi, per ultimo, ci sarebbe il caso Zaki e il problemino della credibilità parlamentare. Zaki chi? Ma sì, quel ragazzo egiziano che era venuto in Italia a studiare e che al ritorno in patria per una vacanza è stato inghiottito dal peggior carcere del suo Paese. Colpa presunta: troppo interesse per i diritti civili. Ma un’accusa vera a suo carico ancora non c’è. Senza processo, né celebrato né alle viste, questo signor Zaki se ne sta a marcire, e l’effetto sul corpo e sulla mente è letterale, in una cella senza letto al Cairo dal 7 febbraio 2020. Più di 15 mesi, durante i quali sono state raccolte centinaia di migliaia di firme per la sua liberazione e si è creata una tale pressione sociale, a cominciare dall’infaticabile impegno dell’Università di Bologna che l’aveva accolto, da spingere il nostro Parlamento a votare all’unanimità una mozione importante, con due impegni: apertura di un negoziato con l’Egitto sul rispetto della convenzione Onu contro la tortura e, soprattutto, concessione a questo straniero torturato la cittadinanza italiana, una leva diplomatica in più per fare cessare uno sfregio al diritto internazionale e anche al dovere minimo di umanità. Succedeva il 14 aprile, alla presenza in Senato di Liliana Segre, scesa apposta a Roma da Milano, che disse parole indimenticabili e che invece, parrebbe, sono state prestamente rimosse. Le parole, rese ancora più definitive dall’essere state pronunciate da una vittima della Shoah, erano queste: “Ricordo cosa sono i giorni passati dentro la cella, quando non si sa se preferire la porta chiusa o che si apra, nel timore che qualcuno entri e faccia aumentare la tua sofferenza. Potrei essere la nonna di Zaki e sono venuta qui perché gli arrivi anche il mio sostegno”. È passato un mese e mezzo, e niente s’è mosso. Anzi, probabilmente infastidite dall’ingerenza, le autorità egiziane hanno fatto saltare anche la farsa dei 45 giorni, il termine da loro stabilito per decidere se prolungare o meno la detenzione preventiva. L’ultima udienza era stata il 6 aprile (prolungamento senza motivazioni, come in tutte le precedenti); la prossima avrebbe dovuto tenersi intorno al 20 maggio ma è slittata al primo giugno, senza spiegazioni, davanti a un tribunale che sembra uscito da Il processo di Kafka. D’altronde il nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ci aveva avvertito: “Tutte le iniziative sono meritorie ma più aumenta la portata mediatica e più l’Egitto reagisce irrigidendosi”. Seguendo questo principio, e la conseguente strategia del silenzio, difficilmente si sarebbe arrivati all’inizio del processo ai quattro agenti della Sicurezza egiziana accusati del sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Ci sono voluti 64 mesi di lotta, di indagini, di clamore dolorosamente pubblico, perché i familiari di Giulio ottenessero il primo atto dovuto a fronte del calvario del figlio: 25 maggio 2021, Tribunale di Roma, con una morte consumata il 3 febbraio 2016. Più di cinque anni tra l’assassinio e la comparsa dei più che probabili assassini davanti alla Giustizia. Non c’è così tanto tempo per Patrick Zaki (in realtà ce n’è poco viste le sue condizioni di salute). Oppure, volendo, c’è tutto il tempo che si vuole. Basta che si smetta di fingere un interesse di facciata e si scelga di depennare dalla lista degli impegni il ragazzo che sogna ancora di tornare nella “sua”Bologna per dare gli esami e abbandonarlo commossi al suo destino, per tante cattivissime ragioni. Per esempio, non pregiudicare i buoni affari tra Roma e Il Cairo, compresa la nutritissima cooperazione militare che ha visto proprio in questi giorni un’esercitazione congiunta tra la fregata Al Galala, che gli abbiamo di fresco venduta, e la nostra Margottini, “che ha incluso lanci di trappole esplosive e l’intercettazione di una nave sospetta”, come informa con soddisfazione il ministero della Difesa egiziano. In realtà, se passa più o meno esplicitamente la linea del “Zaki chi?”, una questione non da poco resta comunque aperta e riguarda il rapporto tra Parlamento e Esecutivo. Fino a che punto il secondo può ignorare una richiesta plebiscitaria del primo? Qualche giorno dopo la votazione pro Zaki, il premier Draghi, richiesto di un commento, rispose: “È un’iniziativa parlamentare. Il governo non è coinvolto, al momento”. La domanda è come può non coinvolgersi, visto che a chiedergli di farlo è la maggioranza stessa che lo esprime e lo sostiene. Vero che siamo in tempi di emergenza prolungata e quindi di scelte dove la rapidità d’azione ha spesso la meglio sulla condivisione. Ma resta il punto di principio: o deputati e senatori dell’alleanza di governo hanno aderito a una richiesta molto impegnativa sul piano della diplomazia nazionale soltanto perché sembrava brutto esimersi (con tante scuse al fervore messo in campo da Liliana Segre) e non si spingeranno oltre la parata di coscienza, oppure il governo stesso una qualche risposta la dovrebbe dare, trovando il momento, ci mancherebbe. Giusto per dare un orizzonte temporale, Patrick Zaki compirà 30 anni il prossimo 16 giugno. La cosa peggiore che possa ancora capitargli è scoprire di essersi illuso che la sua seconda casa, l’Italia, stesse battendosi per lui e invece era tutta una finta. Sentirsi abbandonato è una condanna senza rimedio.