I detenuti dimenticati: si torni alla normalità di Fulvio Fulvi Avvenire, 27 maggio 2021 I nodi da sciogliere riguardano sempre le visite di parenti e volontari, oltre al tema del reinserimento attraverso il lavoro. Persone “spezzate”, come la loro vita dietro le sbarre. La pandemia ha acuito le condizioni di sofferenza e disagio da sempre presenti nelle carceri italiane: le limitazioni imposte dall’emergenza sanitaria, insieme al sovraffollamento, hanno reso più vulnerabili - e più isolati ai contatti con l’esterno - i reclusi nei 190 istituti penitenziari del nostro Paese. Ed è da Napoli e dalla Campania che arriva il grido d’allarme. “Ci sono carceri poco aperte alla città. Pensiamo che a Poggioreale su 2.101 detenuti uno solo usciva per lavorare all’esterno. A Secondigliano solo due” ha detto il Garante dei detenuti della regione, Samuele Ciambriello, durante il convegno per la presentazione del rapporto annuale delle attività svolte dall’ufficio del garante delle persone detenute del Comune di Napoli. “La pandemia- ha aggiunto Ciambriello - ha triplicato i problemi che già c’erano. Da un anno e mezzo i familiari non hanno potuto riprendere le relazioni umane, sono stati interrotti i rapporti, i corsi di formazione, la scuola, tutto. Il detenuto, così, resta in cella per 20 ore e poi le 4 ore d’aria. Gradualmente si torna alla normalità, ma abbiamo bisogno di incrementare le possibilità per i detenuti, altrimenti le carceri restano luoghi chiusi come ancora oggi sono Poggioreale e Secondigliano”. Incontri con i familiari, lavoro e formazione sono le esigenze più impellenti da risolvere. “Invitiamo il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, a visitare Poggioreale - ha detto il Garante dei detenuti del Comune di Napoli, Pietro Ioia - e auspichiamo che con il nuovo ministro cambino molte cose soprattutto per le carceri”. E, sempre ieri, il presidente dell’Authority per la protezione dei dati personali, Pasquale Stanzione, e il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma hanno sottoscritto a Roma un protocollo d’intesa sulla tutela di soggetti privati della libertà personale. Le due Autorità coopereranno per proteggere la dignità e i diritti dei detenuti e di altre persone sottoposte a forme di limitazione della libertà, come i migranti trattenuti nei Cpr (Centri per i rimpatri) e gli ospiti delle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Potranno attivare ispezioni e istruttorie congiunte su casi di reciproco interesse, avviare indagini conoscitive, scambiare informazioni su possibili violazioni di pertinenza dell’altra Autorità. I due Garanti supponemmo anche progetti formativi comuni per condividere esperienze e migliorare specifiche competenze nel settore. Ma come è oggi la situazione dei contagi da Covid-19 nelle carceri italiane? Sono 185 i detenuti attualmente positivi, su un totale di 52.485. Un dato ancora in calo, secondo il monitoraggio settimanale del ministero della Giustizia (nel precedente report risultavano 232). In diminuzione anche i casi di positività tra i 36.939 agenti penitenziari in servizio: ora sono 210. Privacy, più diritti per i detenuti: alleanza fra i Garanti italiani dire.it, 27 maggio 2021 Le due Autorità coopereranno per proteggere la dignità delle persone sottoposte a forme di limitazione della libertà. Stanzione: “Passo in avanti per l’effettiva tutela della riservatezza”. Garantire maggiore protezione ai soggetti privati della libertà personale. È questo l’obiettivo del protocollo di intesa firmato oggi tra il Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, Pasquale Stanzione, e il Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma. “Questo protocollo - ha sottolineato Stanzione - rappresenta un importante passo in avanti per l’effettiva tutela della riservatezza di chi è sottoposto a misure privative e limitative della libertà personale. Auspichiamo che contribuisca a far crescere nel nostro Paese una maggiore consapevolezza sul rispetto dei diritti di persone in condizione di particolare fragilità”. Le due Autorità coopereranno per proteggere la dignità e i diritti dei detenuti e di altre persone sottoposte a forme di limitazione della libertà, come i migranti trattenuti nei Cpr (Centri per i rimpatri) e gli ospiti delle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Potranno attivare ispezioni e istruttorie congiunte su casi di reciproco interesse, avviare indagini conoscitive, scambiare informazioni su possibili violazioni di pertinenza dell’altra Autorità. I due Garanti supporteranno anche progetti formativi comuni per condividere esperienze e migliorare specifiche competenze nel settore. “Rispetto a persone che a volte vedono i diritti più elementari difficilmente esigibili nelle particolari condizioni in cui si attua la loro privazione della libertà, potrebbe non sembrare prioritario porre il tema della tutela della loro privatezza - ha spiegato Palma. In realtà dietro l’eventuale non tutela di questo bene primario di ogni individuo, si nasconde il non riconoscimento quale persona di chi in tale condizione si trova. Per questo la tutela della privacy di chi appare essere ‘ultimo’ è segno primario della capacità di tutelare i diritti di tutti”. Rita Bernardini: “Il sovraffollamento non è una nostra fissazione ma la realtà” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 maggio 2021 Rita Bernardini denuncia: “Nonostante le condanne in sede europea e la pandemia la popolazione è superiore ai posti disponibili”. Nei 189 istituti ci sono, infatti, 6.141 detenuti in più. “In 100 posti regolamentari, il nostro Stato ci sistema 113 detenuti!”, così denuncia l’esponente del partito Radicale Rita Bernardini. “Non siamo i fissati del sovraffollamento!”, precisa sempre l’esponente radicali. E questo perché, “Accade ancora oggi - spiega Bernardini - nel 2021, nonostante le condanne seriali in sede europea e la pandemia da Covid che ha costretto ciascuno dei 189 istituti penitenziari sparsi sul territorio a sottrarre ulteriori spazi per garantire zone di isolamento destinate ai ristretti contagiati o ai detenuti che entrano o a quelli che vengono trasferiti in altre carceri”. Sono 53.608 i detenuti rispetto a 50.785 posti regolamentari - Sempre Rita Bernardini, spiega che i dati aggiornati al 30 aprile ci dicono che i posti regolamentari sono 50.785 e che i detenuti presenti sono 53.608. “Ma attenzione - sottolinea l’esponente del Partito Radicale - il report di fine mese del ministero della Giustizia non ci dice che dai 50.785 posti occorre sottrarne ben 3.328 inagibili e quindi non disponibili”. Quest’ultimo dato è ricavabile spulciando una per una le schede degli istituti penitenziari che il Partito Radicale ha ottenuto quando a capo del Dap c’era il dottor Santi Consolo. In conclusione, nei 189 istituti penitenziari ci sono 6.141 detenuti di troppo e ciò senza considerare gli ulteriori spazi sottratti per le quarantene dovute al Covid. In 125 istituti il sovraffollamento medio è del 128% - Ma non finisce qui, perché nella realtà fattuale, - sempre secondo quanto denuncia Bernardini - “il patrimonio edilizio penitenziario è caratterizzato da istituti dove i posti regolamentari non sono tutti occupati (con carceri quasi vuote) ed istituti in cui le presenze sono ben al di sopra dei posti disponibili, con istituti che letteralmente “scoppiano”. Si scopre così che nei 125 istituti in cui ci sono più detenuti che posti regolamentari effettivi disponibili, in 31.427 posti regolamentari effettivi sono piazzati 40.144 detenuti con un sovraffollamento medio del 128%. Ed ecco i dati ricavati dall’elaborazione fatta dal Partito Radicale. Nei 92 istituti che hanno un sovraffollamento superiore alla media nazionale (113%), in 21.625 posti regolamentari effettivi sono piazzati 29.661 detenuti con un sovraffollamento medio del 137%. Nei 52 istituti che hanno un sovraffollamento superiore al 130%, in 11.931 posti regolamentari effettivi sono piazzati 17.931 detenuti con un sovraffollamento medio del 149%. Nei 32 istituti che hanno un sovraffollamento superiore al 140%, in 8.392 posti regolamentari effettivi sono piazzati 12.979 detenuti con un sovraffollamento medio del 155%. In 18 istituti il sovraffollamento è superiore al 150% - Nei 18 istituti che hanno un sovraffollamento superiore al 150%, in 2.803 posti regolamentari effettivi sono piazzati 4.837 detenuti con un sovraffollamento medio del 172%. Nei 64 istituti in cui ci sono pari o meno detenuti dei posti regolamentari effettivi disponibili, in 16.030 posti regolamentari effettivi troviamo 13.464 detenuti, cioè in 100 posti ci sono 84 detenuti. Non è questione di essere i fissati del sovraffollamento: per l’esponente radicale, ciò significa avere strutture che si deteriorano perché sono state costruite per essere utilizzate da quel numero massimo di detenuti. “Sovraffollamento - prosegue Rita Bernardini - significa che non si può garantire il diritto alla salute, tanto più che nelle nostre carceri ci sono alte percentuali di tossicodipendenti, di casi psichiatrici e di persone con gravi patologie. Sovraffollamento significa scarsità di possibilità di lavoro, di studio, di attività culturali e/o sportive. Sovraffollamento significa scarsità di rapporti con i pochi educatori, i pochi psicologi, i pochi assistenti sociali, i pochi direttori, chiamati quest’ultimi spesso ad occuparsi di più istituti penitenziari o, negli istituti più grandi, a non avere il supporto necessario di vice-direttori”. Si registra anche una penuria di agenti - Ma il sovraffollamento significa riduzione dei rapporti con gli esterni, in particolare, con l’ingresso in carcere di volontari e di associazione di volontariato. A ciò si aggiunge anche la penuria di agenti che i si ripercuote negativamente sulle attività trattamentali, che devono comunque svolgersi in sicurezza. “Sovraffollamento - denuncia Rita Bernardini - significa enormi difficoltà ad assicurare il rapporto dei detenuti con i loro familiari: colloqui, telefonate, video-chiamate, partecipazione ad eventi. Sovraffollamento significa gravissime difficoltà di rapporti del detenuto con la magistratura di sorveglianza, la quale dovrebbe, in collaborazione con l’equipe trattamentale, frequentare e conoscere uno per uno i detenuti per prevedere per ogni ristretto un piano individualizzato di progresso e di reinserimento sociale”. Tutte queste mancanze, definite da Rita Bernardini “anti-costituzionali”, si sono notevolmente aggravate in questi 15 mesi di pandemia da Covid-19. Ed è per questi motivi che il Partito Radicale e l’associazione Nessuno Tocchi Caino hanno avanzato due proposte che considerano “minimali” per decongestionare la popolazione detenuta: per l’emergenza Covid, hanno previsto la concessione della liberazione anticipata speciale di 75 giorni ogni semestre (anziché 45) di sconto di pena per chi in carcere ha avuto un buon comportamento. Nella sostanza, hanno ripescato la normativa (scaduta nel dicembre 2015) che fu introdotta ai tempi della sentenza Torreggiani per rispondere alla condanna dell’Italia da parte della Cedu per violazione dell’art. 3 della Convenzione, trattamenti inumani e degradanti dovuti in primo luogo al sovraffollamento. L’altra misura, invece, è strutturale perché chiede di modificare l’Ordinamento Penitenziario prevedendo per il futuro 60 anziché 45 giorni di liberazione anticipata. Queste proposte sono state presentate grazie alla disponibilità del deputato Roberto Giachetti di Italia Viva e, non a caso, iscritto da sempre al Partito Radicale. Sisto: “Un new deal della fase di rieducazione della pena” di Errico Novi Il Dubbio, 27 maggio 2021 Il sottosegretario alla Giustizia: “La rieducazione è un dovere per l’amministrazione e un’opportunità per chi esegue la pena. Nessuno deve dubitare che il percorso sia una pena certa accompagnata dalla certezza della rieducazione”. Porre il detenuto “al centro del percorso trattamentale” perché il periodo passato in esecuzione pena sia un’”opportunità di cambiamento”. Questo il nodo centrale messo in evidenza dal sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, sentito oggi in audizione dalla Commissione Bilancio del Senato in relazione alle misure sul mondo penitenziario contenute nel dl fondo complementare al Pnrr. Un “new deal della fase di rieducazione della pena”, ha detto Sisto, in cui viene “ipervalorizzato il dato della rieducazione in linea con l’articolo 27 della Costituzione”. In tale ambito, particolare attenzione viene data all’”architettura penitenziaria”, per far sì che la rieducazione del detenuto avvenga in “luoghi ospitali e accoglienti”: a via Arenula è già stata costituita nei mesi scorsi un’apposita Commissione, presieduta dal professor Luca Zevi, che “dovrebbe concludere i suoi lavori il 30 giugno - ha ricordato il sottosegretario - anche se probabilmente servirà una breve proroga”. Secondo Sisto, “la rieducazione è un dovere per l’amministrazione e un’opportunità per chi esegue la pena. Nessuno - ha detto - deve dubitare che il percorso sia una pena certa accompagnata dalla certezza della rieducazione”. Altri temi toccati in audizione dal sottosegretario sono stati quelli della manutenzione degli istituti di pena, della sorveglianza dinamica e del lavoro per i detenuti. “Se vogliamo rieducare - ha concluso - dobbiamo ricordarci che non ci si rieduca da soli: sono necessarie strutture e il ministero della Giustizia è particolarmente attento a tutto ciò che può essere in linea con il dettato dell’articolo 27 della Costituzione”. “Il fondo complementare del Pnrr, alla lettera “g”, prevede 132,9 milioni di euro, dal 2022 al 2026, per la costruzione e il miglioramento di padiglioni e spazi per le strutture penitenziarie per adulti e minori, una prospettazione complessiva che tiene conto anche dei fondi per i lavori di ristrutturazione di 4 istituti per minori. Il soggetto attuatore dei progetti sarà Mit”, ha aggiunto. “Lo scorso 12 gennaio - ha proseguito - è stata nominata una Commissione per l’architettura penitenziaria, presieduta dall’architetto Luca Zevi, per predisporre un progetto da utilizzare come modello architettonico per riqualificare le strutture penitenziarie. La Commissione ha già presentato un format con un costo complessivo stimato di 10.575.000 euro: 7.500.000 per i lavori, 225.000 euro per gli oneri legati alla sicurezza, 600.000 per gli oneri di progettazione, e 2.250.000 per le altre voci di costo a vario titolo. L’Amministrazione Penitenziaria aveva individuato, in origine, 8 siti in altrettanti istituti penitenziari dove edificare i padiglioni da 120 posti ciascuno: Rovigo, Vigevano, Viterbo, Civitavecchia, Perugia, Santa Maria Capua Vetere, Asti e Napoli Secondigliano. Il dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sta, comunque, rivalutando alcune delle sedi per evitare di incidere su Istituti già sovraffollati o evitare di sottrarre alla struttura, con la nuova edificazione, spazi trattamentali”. Rispetto per le vittime, ma l’ergastolo non serve di Lucio Boldrin* Avvenire, 27 maggio 2021 Ho profondo rispetto per la Giustizia, per le vittime dei reati e per il dolore dei loro familiari. Tuttavia, ancora prima svolgere il mio servizio di cappellano in carcere, avevo dei dubbi sulla costituzionalità e sull’effettiva utilità dell’ergastolo. Pur avendo nel cuore il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, ucciso a pugnalate in maniera assurda, e sentendomi vicino alla sua famiglia, la condanna all’ergastolo dei due ragazzi californiani non mi ha procurato alcun senso di soddisfazione. Perché l’ergastolo non favorisce il cammino di recupero, di riparazione, di riconciliazione e di reinserimento sociale di chi ha commesso un crimine così grave. In Italia esistono due tipi di ergastoli. C’è quello cosiddetto semplice, che dà la possibilità al condannato di uscire, se ha mostrato di meritarlo, dopo trent’anni; e dopo quindici, a metà pena, per qualche permesso. Molti altri nostri detenuti hanno invece l’ergastolo “ostativo”: il più duro, quello che non prevede, fino alla morte, né permessi né semilibertà. Recentemente la Corte costituzionale ha sollecitato il Parlamento a rivedere entro maggio del prossimo anno la norma sull’ergastolo ostativo, in quanto “incompatibile” con la nostra Costituzione. Spero vivamente che ciò avvenga. Ritengo infatti che sia ora di umanizzare l’ergastolo, anche quello ostativo. È necessario il superamento della legislazione d’emergenza, il giudice deve tornare ad essere il garante della legalità. Ma la legalità va recuperata, innanzitutto, da parte dello stesso legislatore. Un detenuto mi ha confidato: “Non sono uno stinco di santo. Ai miei figli dico sempre che ho sbagliato. Un giorno uno dei due, aveva 15 anni, fu trovato dalla mamma con uno spinello. Allora gli confidai, per la prima volta perché non lo sapeva, che stavo scontando l’ergastolo. Gli spiegai che anch’io avevo cominciato con piccoli reati. Lui si mise a piangere e mi abbracciò. Se sono stato un buon padre, è perché non ho nascosto le mie responsabilità”. Però poi ha aggiunto: “Se penso mai al suicidio? Tutte le sere e tutte le mattine. Nella mia condizione... Chi si uccide qui dentro, è perché ama così tanto la vita che non sopporta di vederla appassire”. L’ergastolo è infatti una “medicina” tanto forte da uccidere il peccato e il peccatore. O meglio, più il peccatore che il peccato. La perpetuità della pena detentiva, il suo essere destinata a non finire mai, cambia radicalmente la condizione esistenziale del detenuto, il suo rapporto con sé stesso e con gli altri, la sua percezione del mondo, la sua raffigurazione del futuro. Come tale l’ergastolo non è comparabile con la reclusione temporanea, così come non lo è la pena di morte. È un’altra pena, appunto, “capitale”. Si arriva infatti a pensare e a scherzare sul fatto che morire prima del tempo è un guadagno e un “dispetto” allo Stato, perché è atroce continuare a vivere e a soffrire senza speranza e senza misura. Si può stare in prigione tutta una vita, ma non certo con il pensiero di starci tutta la vita. *Cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Roma Rebibbia “Balde era una vittima e non lo abbiamo salvato. I Cpr? Sono peggio del carcere” di Orlando Trinchi Il Dubbio, 27 maggio 2021 “Ho provato a chiedere una perizia psicologica ma è stato praticamente impossibile”. Parla Gianluca Vitale, difensore di Musa Balde, il giovane migrante che sabato notte si è tolto la vita nel Cpr dopo aver subito un pestaggio in strada a Ventimiglia. “Credo che l’esigenza di salvaguardia della salute, insieme a quella relativa all’accertamento della verità, debbano prevalere sull’esigenza di controllo dei flussi migratori”. L’avvocato Gianluca Vitale si riferisce a quanto accaduto a Musa Balde, 23 anni, originario della Guinea, vittima di una brutale aggressione subita lo scorso 9 maggio a Ventimiglia a opera di tre italiani che lo accusavano di aver rubato un telefonino. Dopo essere finito in ospedale con una prognosi di dieci giorni, era stato condotto presso il Centro di permanenza per il rimpatrio di Torino. Qui, posto in isolamento per motivi sanitari, nella notte tra sabato e domenica si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo nel bagno della sua stanza. La Procura di Torino ha avviato accertamenti. Avvocato Vitale, sia lei che il Garante nazionale dei diritti delle persone private delle libertà personali Mauro Palma avete affermato che Musa Balde non è stato adeguatamente seguito all’interno del Cpr di Torino. Si poteva fare di più per evitare quanto poi avvenuto? Si poteva fare qualcosa. Chi ne capisce più di me di disturbi psico-patologici conseguenti a eventi traumatici ha rilevato che un trauma come l’aggressione subita a Ventimiglia avrebbe lasciato delle ferite non solo fisiche ma anche psichiche, che tanto quanto le prime hanno una loro prognosi. Per quanto ci risulta, non è stato riconosciuto di fatto a Musa lo status di vittima, cosa che ovviamente incide ulteriormente su problematiche come depressione o stress. È possibile che vi fosse già un disagio iniziale, probabilmente già conosciuto dalle autorità locali di pubblica sicurezza, che non è stato in alcun modo tenuto in considerazione. Musa Balde non riusciva a comprendere la sua sostanziale reclusione in quanto si sentiva vittima di un’aggressione… Certo. La cosa che ritengo abbastanza grave è che Musa abbia saputo da me, dieci giorni dopo la violenza subita, che qualcosa si stava muovendo, anche grazie al video pubblicato su vari social che aveva indotto lo svolgimento di indagini e fatto parlare dell’accaduto. Di tutto questo non era assolutamente al corrente, sapeva solo che dall’asfalto in cui era stato abbandonato rantolante dagli aggressori si era ritrovato nelle camere di sicurezza della Questura e poi nel Cpr di Torino. Ha provato a chiedere una perizia psichiatrica? Non ho fatto in tempo. Avevamo pensato di farla, ne avevamo anche parlato con degli esperti: il problema è che l’ingresso di un consulente è molto complicato, se non impossibile, proprio a causa della chiusura verso l’esterno manifestata dai Cpr. Mi è capitato un po’ di tempo fa di sentire una collega che assisteva un migrante al Cpr di Torino: aveva dei pallini di piombo nelle gambe, sparatigli prima della sua fuga dalla Tunisia. Per mesi la collega ha chiesto di far entrare un medico per poterlo visitare ma non le è stato mai concesso, finché non è stato rilasciato perché le sue condizioni di salute erano particolarmente gravi ed è stato operato all’esterno. Riguardo a Musa, anche farlo visitare da uno psicologo di fiducia risultava quasi impossibile. Purtroppo non abbiamo fatto neanche in tempo a provarci. Lei fa parte dell’Associazione Legal Team Italia, molto sensibile alla tutela dei diritti dei migranti e dei prigionieri politici. Ritiene che vi siano criticità importanti per quanto concerne l’organizzazione dei Cpr? Sono assolutamente contrario all’idea stessa di detenzione amministrativa, perché non credo che per motivi amministrativi si possa sacrificare il secondo bene massimo dopo la vita che è la libertà personale, sancito anche dalla Costituzione. Di sicuro, allo stato attuale, i Cpr sono luoghi privi di reale controllo giurisdizionale e di trasparenza democratica. Sono molto più trasparenti le carceri. I migranti che provano sulla propria pelle ambedue le esperienze - carcere e Cpr - ci dicono che mentre in carcere i diritti del detenuto sono sanciti e riconosciuti e tutto è regolamentato, nei Cpr tutto questo manca. Se una persona deve nominare un difensore deve sperare che prima o poi qualcuno si degni di ascoltarlo, così se deve fare domanda di asilo. Se Musa Balde avesse avuto bisogno di chiedere assistenza, non poteva contare su una regolare procedura: poteva solo urlare sperando che qualcuno si rendesse conto del suo disagio. La regola per entrare nel Cpr è che la visita di idoneità alla condizione di trattenuto venga eseguita all’esterno. A Torino ciò non avviene: la visita di idoneità viene fatta dagli stessi medici del Cpr. Sono palesi dimostrazioni di quanto, in realtà, sia un luogo deregolato. Le statistiche inoltre ci confermano che la funzionalità dei Cpr ai fini del sistema espulsivo è abbastanza scarsa. Cosa ne pensa delle politiche migratorie promosse dall’Unione Europea? Purtroppo devo rilevare che anche le politiche europee stanno confermando un orientamento di chiusura della fortezza Europa agli ingressi irregolari. È un discorso falsato dal fatto che negli ultimi anni si è assistito al quasi blocco degli ingressi irregolari e si è circoscritto il fenomeno migratorio agli ingressi regolari, fin dall’inizio definiti come ingressi di richiedenti asilo. È in tal senso esemplificativa l’Italia, sostanzialmente priva da anni di un decreto flussi che consenta l’ingresso regolare dall’estero per lavoro, riservando tutto ai barconi che trasportano persone costrette quasi automaticamente a diventare richiedenti asilo. Credo che ci vorrebbe - e non è alle viste - un cambio di regime che prenda atto del fatto che tutta Europa ha bisogno dell’immigrazione e che comunque la migrazione è un fenomeno epocale che non può essere fermato, e istituisca dei reali canali d’ingresso sia per motivi umanitari, come la fuga dalle guerre, sia per quanto concerne gli ingressi per lavoro. Se fosse possibile entrare regolarmente, inoltre, sarebbe anche più facile andare via regolarmente. Ciò non riguarda ovviamente Musa Balde in quanto lui era un richiedente asilo, scappato dalla Guinea perché probabilmente temeva delle persecuzioni. Non ho potuto approfondire questo aspetto: sono riuscito a vederlo solo due volte, prima che la sua vita avesse termine. Musa ci dimostra che il migrante continua a rappresentare il corpo estraneo della società, non titolare di diritti. Giustizia, una “mappa” da ridisegnare di Edmondo Bruti Liberati Corriere della Sera, 27 maggio 2021 I carichi di lavoro sono spesso mal distribuiti. Inoltre, il Tribunale “sotto casa” non ce lo possiamo più permettere. È all’ordine del giorno la riforma per un giusto processo in un tempo ragionevole. L’occasione è unica: fondi europei da utilizzare nel Pnrr, concorso per nuovi magistrati e assunzione di personale amministrativo. Bruxelles vigilerà occhiutamente (e giustamente) su come saranno gestiti i fondi europei. Vi saranno inefficienze e magari anche casi di gestione corrotta. Si opererà per contrastarli. Ma si trascura che in mancanza di un incisivo e preventivo intervento sulla revisione della geografia giudiziaria sarà inevitabile un gigantesco spreco di risorse. Vi sono uffici giudiziari con ridotto carico di lavoro e altri sovraccarichi. Vi sono micro-tribunali strutturalmente inidonei a funzionare. E a questi manderemo fondi per l’edilizia giudiziaria, risorse tecnologiche, assegneremo magistrati e personale amministrativo. La somma di piccoli sprechi produrrà un totale di cospicuo spreco di risorse preziose e pur sempre limitate. Il Tribunale “sotto casa” non ce lo possiamo più permettere; inoltre le innovazioni cui siamo stati “forzati” dall’emergenza Covid una volta a regime vedranno uno sviluppo del processo telematico civile e penale. La comparizione personale delle parti e dei testimoni in molti casi potrà essere sostituita dal collegamento a distanza. Non tutti sanno che una percentuale rilevante delle persone che ogni giorno si reca nei palazzi di giustizia lo fa non per partecipare ad indagini o processi, ma per ottenere certificati e per altre prestazione di quella che tecnicamente si chiama “volontaria giurisdizione”. Tutto questo può essere assicurato mantenendo “sportelli di prossimità” nelle sedi dei tribunali che dovranno essere soppressi e magari creandone di ulteriori. L’ultima revisione della geografia giudiziaria risale a dieci anni fa con il governo Monti. La benemerita riforma della ministra Severino ha scontato i limiti della delega, che elenco in ordine di insensatezza: esclusione delle Corti di Appello, mantenimento dei Tribunali dei capoluoghi di provincia, “regola del 3”: almeno tre tribunali in ogni Corte o sezione staccata di Corte. La natura del giudizio di Appello rende molto meno rilevante la prossimità con l’utenza. L’attuale distribuzione delle Corti di Appello, non a tutti nota, è irrazionale. Il principio è quello di una Corte per ogni regione. Vi sono eccezioni ragionevoli in un senso e nell’altro. La Corte di Torino ingloba anche la regione autonoma della Valle d’Aosta. Una sezione staccata di Corte, è prevista, in adempimento di obblighi internazionali, per la provincia autonoma di Bolzano. Nelle regioni più grandi e popolate è ragionevole vi sia più di una Corte. La Lombardia ne ha due: Milano e Brescia, e altrettante la Campania con Napoli e Salerno. Ma la Sicilia ben quattro: Palermo, Caltanissetta, Messina e Catania. La Puglia ne ha due: Bari e Lecce, e in più la sezione staccata di Taranto. Le sezioni staccate di fatto, per impiego di personale e risorse, sono assimilate alle Corti di Appello. Se due Corti sono sufficienti per macroregioni come Lombardia e Napoli altrettante dovrebbero bastarne per Sicilia e Puglia. La situazione particolare geografica e dei trasporti giustifica due Corti per la Sardegna (Cagliari e Sassari) e per la Calabria (Reggio Calabria e Catanzaro). La regione Molise ha la più piccola Corte italiana, Campobasso, che dovrebbe essere soppressa estendendo la competenza di Napoli, come d’altronde già avviene con Torino per la regione Valle d’Aosta. Per la riforma dei Tribunali occorre eliminare la insensatezza del Tribunale per ogni capoluogo di provincia, tanto sono diversificate le dimensioni e il rilievo di ciascuna. Della cervellotica “regola del 3”, non mette conto neanche di parlare. La revisione dei Tribunali richiede misure drastiche e attenta considerazione dei dati. Non si parte da zero. Vi è la proposta della Commissione Vietti del 2016 e il ministero della Giustizia dispone di tutti i dati aggiornati necessari. Una ministra giurista di un “governo tecnico” dieci anni fa ha fatto il primo passo, che ha rotto il tabù, ma si rivelato del tutto insufficiente. Abbiamo di nuovo una ministra giurista di un “governo tecnico” e in più abbiamo la occhiuta sorveglianza di Bruxelles. “Fusse che fusse la vorta bona”, direbbe il barista di Ceccano. Prescrizione. Muro M5S: la difficile mediazione di Cartabia per non rompere la maggioranza di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 27 maggio 2021 Incontro con Bonafede. Il ministro: no a processi troppo lunghi. Si sono rivisti nella stessa stanza a cento giorni di distanza, Marta Cartabia e Alfonso Bonafede: dal passaggio delle consegne tra ministri della Giustizia, subito dopo il giuramento del governo Draghi, alla discussione di ieri sulla riforma del processo penale che la Guardasigilli vuole condividere con la maggioranza prima di portare in Parlamento i propri emendamenti. Il Movimento 5 Stelle, in questo percorso attraverso le diverse posizioni dei partiti che sostengono il governo, rappresentano l’ostacolo più arduo. Perché uno dei punti sui quali bisognerà intervenire è la riforma della prescrizione targata Bonafede, il quale non ha nessuna intenzione di vedere sconfessato (con dichiarata soddisfazione di tutti gli altri) ciò che - da ministro e anche dopo - ha sempre rivendicato come una conquista di civiltà. Alla fine, è lui a dare il via libera al comunicato post-riunione: “Riteniamo che, in adempimento del dettato costituzionale, sia fondamentale garantire a ogni cittadino un processo celere che si esaurisca in termini ragionevoli, ma questo non deve mai tradursi in denegata giustizia; ogni cittadino che si rivolge allo Stato per avere una risposta di giustizia deve avere la certezza che quella risposta arriverà”. I toni attutiti con cui la delegazione grillina commenta le due ore di incontro “cordiale” servono a tenere bassa la tensione, anzi a far capire che c’è spirito di collaborazione e disponibilità al dialogo; ma servono anche a ribadire ciò che è stato detto e ripetuto nel chiuso del grande ufficio di via Arenula: non ci si può ripresentare ai cittadini con la norma che consente ai processi di andare in fumo, magari dopo anni di attesa e a pochi passi dalla sentenza definitiva, perché il tempo è scaduto. Una posizione netta alla quale la Guardasigilli ha risposto in maniera altrettanto netta: d’accordo sull’esigenza di scongiurare la “denegata giustizia”, ma non ci si può presentare nemmeno con una litigiosità senza fine che impedisce di trovare soluzioni ai problemi di una giustizia che non funziona anche perché troppo lenta. I tempi dei processi - ricorda Cartabia ai rappresentanti del Movimento - vanno necessariamente ridotti per accedere ai soldi del Recovery fund, né si può rischiare una “irragionevole durata” dovuta anche all’abolizione della prescrizione dopo il verdetto di primo grado; dunque se non vi piacciono le proposte sul tavolo provate a suggerirne altre, in maniera concreta e costruttiva. Sul tavolo ci sono le due opzioni prospettate dalla commissione ministeriale guidata dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi: tre anni complessivi di stop della decorrenza della prescrizione dei reati tra i diversi gradi di giudizio, oppure interruzione definitiva dopo la richiesta di rinvio a giudizio con introduzione della prescrizione processuale. Per la delegazione 5 Stelle (cinque parlamentari oltre Bonafede) vale anche ciò che è scritto nella premessa della relazione: non c’è urgenza perché la norma attuale avrà i suoi effetti pratici non prima del 2025-2027. Tuttavia la commissione si è chiamata fuori da “ogni valutazione politica che ad essa non compete”, e che invece tocca alla ministra; grillini a parte, tutti gli altri partiti della coalizione invocano un intervento immediato, con l’ex forzista Enrico Costa (ora passato ad Azione) che non perde occasione di farsi portavoce dell’ala più “garantista”: con il nuovo governo la riforma Bonafede deve andare in soffitta. A parte la prescrizione, ci sono almeno altri due punti della relazione Lattanzi che non piacciono ai 5 Stelle: l’impossibilità per i pm di fare appello contro le assoluzioni e le indicazioni delle priorità nell’esercizio dell’azione penale da parte degli uffici giudiziari, “nell’ambito dei criteri generali adottati dal Parlamento”. Il primo nodo andrà affrontato e non sarà facile da sciogliere, mentre il secondo potrebbe anche essere accantonato, per evitare ulteriori divisioni. E tanto per far capire che certi argomenti è meglio lasciarli da parte, la delegazione grillina sottolinea al ministro le sue priorità: riforma del Consiglio superiore della magistratura e ergastolo ostativo per i mafiosi, messo in pericolo dall’ultima sentenza della Corte costituzionale. Prescrizione, Cartabia ai 5 Stelle: avete proposte? di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 27 maggio 2021 L’incontro certifica le distanze, per la ministra è da escludere che si possa restare fermi al lodo Conte bis come vorrebbero i grillini. Tre paletti da rispettare: accelerare i tempi dei processi, rispettare i diritti degli imputati e non spaccare la maggioranza. All’incontro con la ministra della giustizia che avevano chiesto per solennizzare il dissenso sulle ipotizzate modifiche alla disciplina della prescrizione, i 5 Stelle si sono presentati con in testa il predecessore, Alfonso Bonafede, autore con la Lega nel 2019 di una riforma della prescrizione alla quale da due anni si sta cercando di porre rimedio. Perché, come ha messo nero su bianco la commissione di saggi insediata da Cartabia e presieduta dall’ex presidente della Corte costituzionale Lattanzi, “espone l’imputato al rischio intollerabile di un processo dalla durata irragionevole”. La nuova ministra ha accolto Bonafede con un dono, il volume Treccani della tesi di laurea di Giovanni Falcone di cui lei stessa ha scritto la prefazione, al quale ha apposto una dedica. Poi dopo aver ascoltato le doglianze della delegazione 5 Stelle ha consegnato loro l’onere della proposta: “Dite voi quali potrebbero essere eventuali correzioni”. Ma non è stato un cedimento alle loro richieste, perché Cartabia ha indicato tre condizioni che la proposta grillina dovrebbe tassativamente rispettare. La prima è quella di andare incontro alle richieste dell’Unione europea alle quali risponde il Pnrr: i tempi dei processi penali vanno assolutamente abbreviati (del 25% in tre anni, è l’obiettivo). Del resto il nostro paese accumula da anni condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo proprio per l’eccessiva durata dei processi di primo grado (tre volte superiore alla media Ue) e di appello (otto volte superiore alle media Ue). Né il lodo Conte bis, quello previsto attualmente dal testo base di riforma del processo penale, a giudizio della commissione dei saggi evita il rischio di processi interminabili. Per questo Cartabia ha detto con chiarezza ai 5 Stelle che lasciare le cose come stanno è escluso. E ha posto altri due vincoli ai parlamentari grillini. La loro proposta dovrebbe anche “bilanciare i principi costituzionali” che, ha ricordato la ministra, sono almeno due. L’interesse dello stato perché si arrivi a una sentenza - la “giustizia denegata”, espressione dei 5 Stelle, è anche a suo giudizio intollerabile - ma anche la tutela dei diritti dell’imputato che nel caso dei processi infiniti è completamente sacrificata. Infine Cartabia ha posto un terzo paletto ai suoi ospiti: qualsiasi proposta alternativa dovrà essere “politicamente accettabile”, vale a dire compatibile con le richieste degli altri partiti della coalizione. Che, chi più chi meno, sono tutti ben disposti verso le soluzioni avanzate dalla commissione dei saggi. Dunque la delegazione 5 Stelle ha preso atto che non ci sono stati passi in avanti, mentre si avvicina il momento in cui tutto questo dovrà precipitare negli emendamenti del governo al ddl sul processo penale, il cui approdo in aula è stato (ottimisticamente) fissato per fine giugno. Tra le due soluzioni in campo, quella che somiglia molto alla riforma Orlando del 2017 (immediatamente cancellata da Bonafede) e quella della prescrizione “processuale” che, con i numeri di oggi condannerebbe circa il 40% dei procedimenti, quanti sono quelli che si prescrivono durante le indagini preliminari, paradossalmente per i 5 Stelle è proprio la seconda che si presta a maggiori possibilità di correzioni nella direzione da loro auspicata. I saggi l’hanno lasciata aperta. Ma la prova che le distanze non sono state superate è chiara nel comunicato dei 5 Stelle, dove si propone di cambiare discorso e accelerare, “come affermato dal presidente Mattarella”, sulla riforma del Csm. Il cui termine per gli emendamenti, però, sempre ieri, è stato spostato al 3 giugno. Il giorno dopo la maggioranza si riunirà con la ministra e la sua commissione di saggi per vedere se, in questo caso, l’intesa non sia più a portata di mano. “La prescrizione non si tocca, cara Cartabia”. Grillini pronti alle barricate sul ddl penale di Rocco Vazzana Il Dubbio, 27 maggio 2021 “Siamo pienamente consapevoli dell’importanza di lavorare, giorno e notte, sulle tre riforme presenti in Parlamento: processo civile, processo penale e Csm. Riforme fondamentali, non solo per la giustizia italiana, ma anche per la ripresa economica del Paese”. La cortese formalità con cui la delegazione 5Stelle si congeda dalla guardasigilli Marta Cartabia non racconta molto del confronto appena terminato sulle riforme. Ma è proprio dietro l’affabilità del protocollo istituzionale che si celano le distanze. E tra i pentastellati e la ministra, almeno su un punto, le distanze sembrano incolmabili: la prescrizione. La linea che Alfonso Bonafede, Davide Crippa, Eugenio Saitta, Andrea Cioffi, Felicia Guadiano e Arnaldo Lomuti portano sul tavolo di Cartabia è una e semplice: la riforma Bonafede non si tocca, a costo di ingoiare bocconi amari su altri fronti. Qualsiasi discorso sulla giustizia non può prescindere da questa garanzia per i 5S, che respingono senza giri di parole le proposte di riforma avanzate dalla commissione Lattanzi, il gruppo di lavoro istituito per fornire degli spunti sulla giustizia penale alla ministra. E sulla prescrizione, la relazione presentata dagli esperti prevede due possibili scenari: o una sostanziale riproposizione della riforma Orlando, o una rivisitazione legata a tempi limite per ciascuna fase del processo (4 anni in primo grado, 3 in appello e 2 in Cassazione) che, se sforati, determinano l’improcedibilità. Scenari irricevibili per la “dottrina Bonafede”, che prevede barricate a ogni sentor di ritocco, soprattutto se si ripristina una soglia massima oltre la quale le pretese dell’accusa svaniscono. Nessuna mediazione è concepibile, in casa M5S, nemmeno sulla proposta di riforma dell’appello, che, nelle elaborazioni della Commissione, prevede la cancellazione della possibilità di ricorso da parte del pm e delle parti civili, e “l’impugnazione a critica vincolata” per l’imputato condannato, che potrà fare appello solo in alcuni casi ancora da definire. Una rivisitazione radicale delle impugnazioni che ridimensionerebbe parecchio la possibilità di accedere al secondo grado di giudizio e che, seppur diversa dalla legge Pecorella (poi bocciata dalla Corte costituzionale), scontenta garantisti e “rigoristi”. Anche su questo fronte, dunque, i grillini alzano un muro invalicabile, ricevendo però la disponibilità di Marta Cartabia ad ascoltare suggerimenti e rintracciare soluzioni alternative. Ieri la Conferenza dei capigruppo di Montecitorio ha fissato la data per la discussione generale della riforma del processo penale per il 28 giugno. Ma l’impressione è che i tempi per l’approvazione del “pacchetto giustizia” siano destinati a dilatarsi. Quantomeno sulla prescrizione, lasciando che civile e riforma del Csm viaggino su binari più spediti. “Abbiamo rappresentato il nostro punto di vista sulle tre riforme, soffermandoci su alcune riflessioni alla luce della relazione della commissione Lattanzi”, spiegano i 5S, uscendo da via Arenula. “In generale riteniamo che, in adempimento del dettato costituzionale, sia fondamentale garantire a ogni cittadino un processo celere che si esaurisca in termini ragionevoli. Ma questo non deve mai tradursi in denegata giustizia”, aggiungono, rivelando timidamente il loro disappunto. Quanto basta per convincere via Arenula a far trapelare qualche dettaglio dell’incontro con la delegazione pentastellata, definito ovviamente “molto cordiale”. Buone maniere a parte, dalla ministra è arrivato l’invito a “proporre concretamente eventuali alternative e correzioni, nel bilanciamento dei principi costituzionali e degli obiettivi del Pnrr”, si fa sapere. Tradotto: in assenza di interventi radicali sulla giustizia, Bruxelles chiuderebbe i “rubinetti” destinati all’Italia, tenendo sempre a mente il principio della ragionevole durata del processo. Cartabia infatti si sarebbe anche detta d’accordo sul fatto che non possa esserci una “giustizia denegata”, ma neanche una giustizia che si scordi dei diritti dell’imputato. Bisogna individuare il giusto compromesso per tenere insieme tutto. La guardasigilli si dice disponibile al dialogo, ma per discutere bisogna essere almeno in due. “Ridurre i tempi non basta: la celerità non è nulla se non ci sono le garanzie” di Simona Musco Il Dubbio, 27 maggio 2021 Intervista al professore emerito di diritto processuale penale Giorgio Spangher: “Il sistema pensato per il processo d’appello cartolare e per il ricorso in Cassazione mi lascia perplesso. E credo che questo sarà l’aspetto di criticità. Certo, semplifichiamo, ma è a rischio il giusto processo”. Ridurre i tempi del processo non basta: l’efficienza non è nulla senza il rispetto delle garanzie, che non sarebbero pienamente garantite dalla riforma del processo penale attualmente sul tavolo della ministra Marta Cartabia. A sostenerlo è Giorgio Spangher, professore emerito di diritto processuale penale alla Sapienza. Professore, come valuta le proposte della Commissione Lattanzi? È una manovra molto ampia, che va vista complessivamente e alcuni aspetti, non secondari, sono ancora da delineare. Ci sono tre grumi: il processo, la prescrizione e il sistema sanzionatorio. Partiamo dalla prescrizione: la Commissione Lattanzi non sceglie, proponendo due alternative, una per la quale la prescrizione si ferma con l’esercizio dell’azione penale e poi fissa dei tempi per le varie fasi che vanno rispettati, pena l’estinzione del processo, e l’altra prevede la sospensione con la condanna di primo grado. A ciò si aggiunge un’opzione inedita di risarcimento o riduzione della pena, se il processo è di durata irragionevole. Questa parte dovrebbe essere approvata per legge, non per delega, in quanto l’attuazione di tutto il pacchetto, con la delega, è prevista tra un anno. E non è secondario, politicamente, scegliere la strada della delega o quella dell’approvazione, che consentirebbe di far entrare subito in vigore la parte relativa alla prescrizione. Passiamo al processo... La linea è sicuramente quella di decongestionare la fase delle indagini. Ci sono due strumenti: l’archiviazione “meritata” e l’estinzione delle contravvenzioni per adempimento della prestazione determinata da un organo accertatore, ovvero il pagamento di una sanzione amministrativa. In questo secondo caso è stata inserita nel testo della Commissione la proposta avanzata dall’Anm senza alcun ritocco. Con questi due strumenti non si comincia nemmeno a fare i processi. Ma poi c’è tutto il resto, con il rafforzamento del processo telematico e della partecipazione a distanza, che accelerano lo sviluppo del processo. Il che va bene, purché non si tratti di celebrare tutto a distanza. C’è, comunque, un tentativo molto forte di favorire l’uscita dal processo, con pene ritenute di vantaggio e che la parte può accettare, attraverso strumenti come mediazione, messa alla prova, tenuità del fatto. Una definizione processuale consensuale, insomma. In alcuni casi, evitando di impugnare il provvedimento si ottiene uno sconto ulteriore. Quali sono i problemi? Il primo aspetto di criticità è il rito davanti al giudice in composizione monocratica. Ci sono zone nebulose: non vengono individuati esattamente i reati che sarebbero privati dell’udienza preliminare e, dunque, a citazione diretta. La Commissione Lattanzi lascia giustamente il compito al legislatore. E la prima criticità di natura sistematica, già evidenziata, è quella dell’udienza predibattimentale, davanti a un giudice che sarà diverso da quello che poi farà il processo. Noi abbiamo delle regole di giudizio, che portano al dibattimento, già piuttosto forti - il pm non archivia quando ritiene che l’indagato va condannato, il giudice rinvia a giudizio per lo stesso motivo -, il giudice dell’udienza predibattimentale probabilmente avrò lo stesso parametro. Come farà il giudice successivo discostarsi dalla decisione del collega “della porta accanto”? Questa udienza è asistematica nella vicenda giudiziaria. La seconda criticità, che qui non viene risolta, è che la Commissione lascia libera la strada della monocraticità in appello, sulla scorta della riforma francese, che consente l’assegnazione del giudizio d’appello ad un giudice monocratico, salva la facoltà delle parti di chiedere, e del giudice di disporre d’ufficio, la rimessione alla composizione collegiale. Ma che vuol dire? Il vero collo di bottiglia risulta essere il processo d’appello. Le soluzioni adottate la soddisfano? Il sistema crea la sua criticità nel momento in cui bisogna impugnare e qui sono state fatte delle scelte anche abbastanza radicali: il pm non impugna né la sentenza di condanna né il proscioglimento - e questo sarà un grosso problema, perché bisognerà vedere cosa ne pensano i magistrati -, la parte civile rimane fuori, l’imputato può impugnare per motivi tassativi. L’impressione è che tutto sommato il processo te lo devi giocare prima e che la fase delle impugnazioni sia residuale, considerando l’incentivo della possibilità di avere ulteriori sconti se non si fa opposizione al decreto penale di condanna e sconto di un sesto sulla pena in caso di abbreviato, già ridotta di un terzo. Il sistema pensato per il processo d’appello cartolare e anche per il ricorso in Cassazione mi lascia perplesso. E credo che questo sarà l’aspetto di criticità sul piano di sistema. Certo, semplifichiamo, sgonfiamo, però il giudizio d’appello ridimensionato in termini meramente camerali, parimenti al giudizio di Cassazione, forse è un aspetto critico. Nel complesso, la riduzione dei tempi auspicata dal governo è raggiungibile tramite questa riforma? Non credo. Perché per accelerare non basta decongestionare. La manovra dovrebbe essere accompagnata da un provvedimento soft, clemenziale, per partire senza la zavorra di tutti i numeri arretrati. Bisognerebbe anche intervenire sui carichi giudiziari e sulla distribuzione dei magistrati. Non basta parlare di numeri: il processo non deve essere breve, ma ragionevole. E ragionevole è un concetto relativo, che mette in relazione la complessità dello stesso con la sua durata. Quindi non è un numero calcolabile matematicamente, dipende da tantissime cose. La manovra complessiva, con l’informatizzazione e strumenti di decongestionamento, deflattivi e premiali aiuta, però non sta tutto qui. E poi attenzione: il processo deve essere giusto, non posso puntare sui tempi sacrificando le garanzie. In questo progetto di riforma il giusto processo non è all’ordine del giorno? No. C’è un riferimento alla formulazione dell’imputazione nell’udienza preliminare, ma è molto marginale. C’è scritto che l’imputazione deve calibrarsi sui dati probatori, evitando discorsi evanescenti. Ma non c’è niente sulle finestre di giurisdizione, sul controllo del giudice, su come si fa un vero esame incrociato. Si possono anche ridurre, sotto certi aspetti, le impugnazioni, ma a condizione che i percorsi precedenti siano fortemente garantiti. Quindi si è ragionato in termini puramente numerici... Sì, ma io capisco che un ministero o un governo debbano guardare i numeri, ma poi il singolo guarda il proprio processo. Si parla di ridurre del 25% i tempi, ma cosa vuol dire? Il processo accusatorio spalmava le garanzie lungo le fasi processuali, ma se si vogliono ridurre le fasi di controllo si devono accentuare le garanzie nelle fasi precedenti. Rischia di essere un peggioramento? Il problema è: risolte alcune cose, fino a che punto questa compressione delle garanzie nelle fasi delle impugnazioni garantisce un giusto processo? Siamo ancora nelle condizioni di richiedere la celebrazione dei giudizi d’appello e di Cassazione con la presenza delle parti evitando la cartolarizzazione e le udienze camerali. Questa è la vera criticità della riforma. Per il resto - trasformare le pene detentive in pene pecuniarie, le sanzioni alternative, l’archiviazione meritata - si può discutere. Ma perché sono scelte volontarie e quindi possono essere accettate. Ma quando faccio il processo, senza accedere alla premialità, allora ho diritto alle garanzie. E queste vanno conservate nelle indagini, attraverso il controllo del giudice, in dibattimento, attraverso l’esame incrociato e l’oralità e in appello attraverso la partecipazione degli avvocati. Mancano dei profili di garanzia nei vari segmenti. C’è un passaggio efficientista, ma questa non è l’unica cosa che serve. Solo così la magistratura potrà recuperare credibilità dopo gli scandali di Eduardo Savarese Il Dubbio, 27 maggio 2021 Secondo i sondaggi, la fiducia nella magistratura è calata dal 68 al 39% in dieci anni. Ne deriva la necessità di ricucire il rapporto tra giudici e cittadini. Da magistrato, voglio subito comunicare che questa frattura è percepita da me e da migliaia di colleghi come me in modo molto doloroso: siamo arrivati a un punto di pericolosa incomunicabilità, potenziale preludio di riforme mal pensate e peggio attuate. La magistratura “normale”, che non siede in posti di particolare prestigio e potere, probabilmente si sente accerchiata da una comunicazione e da una informazione che suonano comunque “contro”. La politica, dal canto suo, non mi pare ad oggi portatrice di una visione chiara e autorevole sulla giustizia. Gli altri poteri dello Stato, poi, sembrano piuttosto fermi in una posizione attendista (il 2022 è alle porte). Occorrono due premesse. La magistratura non può, senza tradirsi, mettersi a fare “campagne pubblicitarie di immagine”. Essa ha bisogno di silenzio come gli essere umani dell’ossigeno. In un mondo che comunica tutto a tutti 24 ore al giorno, capirete che acquistare credibilità in silenzio è terribilmente difficile. Diciamo pure impossibile. Inoltre, ogni presa di posizione della magistratura può minare le uniche cose che contano: le sue indipendenza e imparzialità. In questo quadro, bisogna però trovare un modo che funzioni opportunamente per rappresentare alla società civile ciò che noi magistrati siamo e facciamo, nel bene e nel male, nella nostra vita lavorativa ordinaria. Il mio parere è che oggi siamo a un punto in cui il ritorno di credibilità è possibile soltanto attraverso una comunicazione nuova, nuova sia per provenienza (non i soliti nomi, non le solite “strutture”), sia, soprattutto, per stile e contenuti. La magistratura potrà vincere la partita del confronto alto con la società civile se saprà dirsi e dire alcune cose in modo semplice, diretto e autorevole. Quali cose stanno a cuore a moltissimi magistrati e, probabilmente, a numerosissimi cittadini in ugual modo? Il problema del potere della e nella magistratura attiene principalmente alle Procure della Repubblica. Bisogna trovare controlimiti effettivi a questo potere. Basti pensare a quello che oggi sta accadendo sempre e ancora attorno alla Procura di Roma. Controlimiti che noi magistrati dobbiamo suggerire alla politica con grande chiarezza. I meccanismi di rappresentanza associativa hanno portato al trionfo dell’appartenenza correntizia come primo motore immobile di quasi tutti gli accadimenti dentro la magistratura. Non è forse giunto il momento che queste correnti, con gesto coraggioso e di vera libertà, esse stesse si sciolgano, ammettendo il fallimento degli ultimi venti anni almeno e la necessità di ricominciare da zero? Tutti i magistrati sparsi tra ministeri et similia dovrebbero ritornare subito nei loro ruoli. E chi non vuole, dovrebbe avere il coraggio di cambiare mestiere. Sarebbe un segnale potente di verità effettivamente perseguita e realizzata. L’eccessiva durata dei processi dipende in minima parte da inefficienze interne ai meccanismi decisionali e processuali. Noi fronteggiamo una domanda di giustizia endemicamente sovradimensionata. La pappa riscaldata che vuole in una maggiore efficienza quantitativa la guarigione della giustizia malata è una menzogna stupida, eppure va per la maggiore: se non si comincia a sconfessarla dati e idee alla mano, ce la troveremo somministrata a forza come ineludibile panacea. La meritocrazia in magistratura è un concetto necessariamente specifico e va declinato tenendo conto dei requisiti di indipendenza e imparzialità che sono ciò che soltanto davvero conta in uno Stato di diritto attento al rispetto delle libertà. Il merito del magistrato è quello di decidere ciò che va deciso, in un modo tecnicamente appropriato ma soprattutto indipendente e imparziale. Oggi siamo sottoposti a una pioggia di piccoli meriti organizzativi da ceto impiegatizio, che mortificano la funzione. E al contempo a insidie interne ed esterne a quella imparzialità e a quella indipendenza. Ma come e chi deve oggi parlare alla società civile della magistratura italiana? La magistratura stessa, i singoli magistrati. Non gli onnipresenti in tv (a meno che abbiano cose coraggiose e sincere da dirci). No, deve poter trovare una sua voce la magistratura “normale”. Con una duplice consapevolezza: che la credibilità purtroppo è incrinata e che a molti giova che il vetro stia per infrangersi. A molti che, probabilmente, non sono soltanto fuori dalla magistratura. La credibilità, dunque, non nasce solo da forse illusorie rigenerazione etiche (frasario degno di una ambientazione sovietica di quel Vasilij Grossman che vedete nella foto), ma dall’esercizio quotidiano della giurisdizione indipendente e imparziale, e dalla civile conversazione, dal racconto intorno a ciò che noi magistrati siamo e facciamo, e a ciò che vogliamo essere e fare nel futuro. Un racconto che nella società della iper-comunicazione deve trovare la sua forma, sobria, pacata, incisiva: un racconto fondamentale per una città come Napoli, dove la credibilità della magistratura gioca evidentemente un ruolo non sostituibile. Ma giornali, tv, radio, politici e le stesse rappresentanze istituzionali e associative della magistratura italiana vogliono sentirla davvero la voce della magistratura diffusa? Perché è vero che a noi magistrati serve una sincera, spietata autocritica, ma al resto della società civile serve comprendere in tutta onestà se davvero vuole ascoltare in buona fede e senza pregiudizi, o se ha bisogno di un momentaneo capro espiatorio da bastonare e tacitare. I magistrati ora temono di essere giudicati davvero di Giulia Merlo Il Domani, 27 maggio 2021 la proposta del partito democratico. Enrico Letta ha proposto che avvocati e professori facciano parte e votino nell’organo territoriale che giudica la professionalità delle toghe. Il “parlamentino” dell’Anm contrario: “Mina l’indipendenza e serenità”. Attualmente, circa il 99 per cento delle toghe ottiene giudizio positivo ogni quattro anni dai voti dei propri colleghi e procede nella carriera. L’Anm ha votato un documento contrario alla proposta del Pd, l’unica voce critica è arrivata da Magistratura democratica: “Pensare che i magistrati si comportino diversamente perché hanno paura di un membro laico è offensivo”, ha detto Silvia Albano. È bastata un’agenzia stampa per mandare in agitazione i magistrati: il Partito democratico ha proposto di inserire nella riforma dell’ordinamento giudiziario (il cui termine per gli emendamenti scade giovedì 27 maggio) la previsione che “i componenti avvocati e professori universitari dei consigli giudiziari abbiano il diritto di intervento e anche di voto sulle deliberazioni inerenti alle valutazioni di professionalità dei magistrati”. Risultato: nella riunione di domenica il comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati ha votato una delibera proposta dal gruppo di Unicost contraria alla proposta in cui si stigmatizzano la “generale sfiducia verso il corpo giudiziario” e la disarmonicità rispetto all’ordinamento, inoltre “il diritto di voto agli avvocati nelle valutazioni di professionalità determinerebbe un grave vulnus all’indipendenza e alla serenità di giudizio dei magistrati”. In effetti, se la proposta verrà presentata e approvata si tratterebbe di una piccola rivoluzione copernicana nel mondo della magistratura. I consigli giudiziari, infatti, sono dei piccoli Csm: organi collegiali presenti nei 26 distretti di corte d’appello e sono composti da magistrati togati eletti nel territorio e dal presidente della corte d’appello e dal procuratore generale della corte d’appello, cui si aggiungono un avvocato per foro e un professore universitario come membri laici con diritto di tribuna (parziale o a tutte le sedute, a seconda dei regolamenti interni ai singoli consigli). Il compito principale - accanto a quello di dare pareri su questioni tecniche e di organizzazione - è di rendere ogni quattro anni valutazioni di professionalità dei magistrati, necessarie per gli avanzamenti di carriera. Per questo includere soggetti terzi rispetto al potere giudiziario all’interno dei consigli è sempre stato un tabù: secondo le toghe, infatti, le valutazioni dei magistrati devono essere fatte solo da altri magistrati e non da componenti laici. I dati - Eppure, una delle principali critiche mosse all’attuale funzionamento del sistema di valutazione dei consigli giudiziari è che di fatto non viene “bocciato” nessuno. Le valutazioni possibili sono tre: positiva, non positiva e negativa. Le ultime statistiche disponibili, reperibili sul sito del Consiglio superiore della magistratura, mostrano come la percentuale di magistrati promossi con valutazione positiva dal 2008 al 2016 sono in media il 98,2 per cento. Il picco più alto nel 2015, con il 99,5 per cento di valutazioni positive, il più basso nel 2012 con il 97,1 per cento. L’attuale sistema è entrato in vigore con la riforma del 2006: la legge apparentemente fissa criteri molto rigidi sulla valutazione, ma nella pratica ha prodotto una sorta di promozione generalizzata. Il risultato è che, unico caso tra i paesi con ordinamento simile a quello italiano, praticamente tutti i magistrati raggiungono il livello massimo di carriera, stipendio e pensione. I dati mostrano che, prima di questo metodo, il vertice della carriera arrivavano solo 1,1 per cento dei magistrati in servizio, mentre con la riforma ci arriva circa il 23 per cento. La ragione di tale cortocircuito, tuttavia, starebbe in come le norme sono state riformate: prima del 2006, le valutazioni negative non erano mai automaticamente causa di “dispensa dal servizio”, ma tendenzialmente ritardavano solo di qualche anno la carriera. Il nuovo sistema, invece, prevede che, dopo due valutazioni negative, scatti la dispensa. Una conseguenza che sarebbe considerata inaccettabile ed eccessiva e che dunque produrrebbe il profluvio di valutazioni positive, in assenza di una maggiore gradualità dei giudizi. Gli argomenti dell’Anm - Il dibattito durante il Cdc di domenica è stato necessariamente breve ed è arrivato alla fine dei lavori, con una inversione dell’ordine del giorno che ha permesso la votazione del documento presentato da Unicost con un confronto durato poco più di un’ora. Nel documento approvato a maggioranza si legge che la proposta del Pd sottintende “l’asserita inidoneità dei consigli giudiziari di essere giudici terzi ed imparziali in occasione delle valutazioni dei colleghi, traducendosi nella negazione dello stesso concetto di autonomia dell’organo di governo locale”. La contrarietà alla presenza e il voto degli avvocati è stata giustificata con due ragioni: così si minerebbe “all’indipendenza ed alla serenità di giudizio dei magistrati nel quotidiano esercizio della giurisdizione e nella dialettica processuale”; inoltre non esiste reciprocità perché “tale partecipazione non sarebbe nemmeno bilanciata da una analoga presenza dei magistrati in seno ai consigli dell’ordine” e non sono previste “incompatibilità di sorta per gli avvocati che facciano parte anche dei consigli dell’ordine”. Una linea, questa, che ha convinto la maggioranza dei membri dell’Anm, ad eccezione di Magistratura democratica. In particolare Silvia Albano è intervenuta duramente contro il documento, contestando entrambe le argomentazioni. “Oggi commemoriamo Giovanni Falcone: pensare che i magistrati si comportino diversamente perché hanno paura di un membro laico che assiste o partecipa con un voto sul totale dei componenti del consiglio giudiziario è offensivo nei confronti di chi esercita la professione con etica e rettitudine”, ha detto Albano ricordando anche che al Csm un terzo dei membri è laico per previsione costituzionale. Inoltre è intervenuta anche sul fronte dell’opportunità di una delibera così oppositiva: “Soprattutto in questa fase storica, una chiusura corporativa sulle valutazioni di professionalità è un autogol: parliamo dell’autogoverno come casa di vetro ma temiamo che alle valutazioni di professionalità abbiano diritto di tribuna gli avvocati”. Quanto al tema della reciprocità, Albano ha ricordato che gli avvocati ovviamente non hanno valutazioni di professionalità ma che nel procedimento disciplinare forense il pubblico ministero viene avvisato dell’inizio del procedimento, ha diritto di parteciparvi prendendo conclusioni e ha facoltà di impugnare ogni decisione. Ad oggi, tuttavia, nessun gruppo associativo si è espresso ufficialmente in favore del voto ai laici. Oggi il testo base della riforma dell’ordinamento giudiziario depositato alla Camera prevede all’articolo 3 di rendere permanente solo il diritto di tribuna dei membri laici, che già sarebbe però previsto dai regolamenti di circa un terzo dei consigli giudiziari italiani. Sul diritto di tribuna, l’unica ad essersi detta favorevole è Md. Tutti gli altri gruppi, invece, sarebbero contrari a che un non magistrato assista a come si svolge la valutazione di professionalità. Che il tema sia controverso, tuttavia, lo dimostra lo scontro avvenuto a Bari a dicembre 2020, quando il consiglio giudiziario ha approvato a maggioranza una modifica di regolamento per impedire ai laici di partecipare alle sedute in cui si effettuano valutazioni professionali o disciplinari sui magistrati, scatenando polemiche e dimissioni degli avvocati. La mossa della politica - Le toghe hanno dunque letto come un attentato alla loro indipendenza la mossa del Pd di voler introdurre non solo il diritto di tribuna ma anche di voto per i membri laici e il timore è che sulla scia dei dem possano convergere anche i Cinque stelle. Il tema, infatti, era stato sollevato anche due anni fa quando l’allora guardasigilli Alfonso Bonafede aveva paventato la stessa ipotesi, tornando sui suoi passi in seguito alla levata di scudi dell’Anm. La posizione del Pd è gradita anche all’Unione camere penali, che tra le sue proposte di emendamento al ddl penale ha inserito anche la responsabilità professionale dei magistrati. “I giudizi e le valutazioni di professionalità ogni quattro anni sono puramente formali”, ha detto il presidente Giandomenico Caiazza, chiedendo una maggiore responsabilizzazione della magistratura, con una giurisdizione che deve essere “frutto dell’interazione con avvocatura e accademia, chiamati a intervenire su giudizi di professionalità”. Se l’emendamento del Pd arrivasse, dunque, la questione potrebbe aprire un nuovo scontro tra toghe e parlamento. Da accusatore ad accusato, tutti i passi falsi di Davigo di Giulia Merlo Il Domani, 27 maggio 2021 Piercamillo Davigo è un ex magistrato italiano, presidente della II sezione penale presso la Corte suprema di cassazione ed ex membro togato del Csm. La parabola dell’ex magistrato di Mani pulite inizia nel 2019, quando vota per Marcello Viola al vertice della procura della Capitale per il post Pignatone. Segue la rottura con il collega Ardita, il cambio di voto a sostegno di Prestipino e infine l’incauta presa in consegna dei verbali di Amara, con le comunicazioni informali al senatore Nicola Morra. Quella che ha trasformato l’ex magistrato Piercamillo Davigo da accusatore ad accusato è una discesa per tappe. Per capire come sia stato possibile che il dottor Sottile di Mani pulite, che del pool era considerato il più abile nel leggere e applicare le norme, sia oggi stato ribattezzato “Pieranguillo” per il suo modo di eludere le domande sul caso dei verbali di Amara, bisogna partire dal 2015. È l’anno che segna la discesa in campo nella politica giudiziaria di Davigo e l’anno della fondazione di Autonomia e Indipendenza, il gruppo associativo che nasce da una scissione con le toghe conservatrici di Magistratura indipendente in rottura con la linea dell’allora capocorrente Cosimo Ferri, e rivendica la separazione netta tra politica e giustizia. Davigo da dieci anni è consigliere di Cassazione e il suo nome è ancora indissolubilmente legato all’inchiesta di Tangentopoli: diviene presidente di A&I, e nel 2016 si candida alle elezioni dell’Associazione nazionale magistrati. Il suo nome ispira fiducia e anche se la corrente è appena nata, lui riscuote immediato consenso, tanto da diventare presidente dell’Anm nel 2016 e venire eletto al Consiglio superiore della magistratura nel 2018 insieme a Sebastiano Ardita. Eppure, secondo molti colleghi la dimensione politica non gli apparterrebbe: uomo di battaglie giuridiche, Davigo si muove con poca dimestichezza nell’ambiente della politica togata che oggi è noto come “il sistema Palamara”, fatto di incontri e di equilibri tra poteri più che di dibattiti di diritto. Molti hanno guardato infatti a Davigo come a un simbolo, più che a un tradizionale capocorrente con poteri di direzione operativa. Una distinzione determinante, che potrebbe spiegare molte delle scelte che hanno portato Davigo a trovarsi, suo malgrado, protagonista nella vicenda della presunta loggia Ungheria. La nomina di Viola - Il primo errore tattico ha una data precisa ed è il 23 maggio 2019: esattamente due settimane prima del dopocena all’hotel Champagne che farà deflagrare il caso Palamara ai primi di giugno dello stesso anno. Davigo è membro della quinta commissione del Csm, che si occupa delle nomine e a cui spetta il voto preliminare sui candidati ai vertici degli uffici giudiziari del paese, che indicano al plenum la rosa di nomi tra cui scegliere. Bisogna nominare il nuovo capo della procura di Roma dopo il pensionamento di Giuseppe Pignatone del 9 maggio e la lista di nomi usciti dalla commissione stupisce tutti: il più votato è il procuratore generale di Firenze Marcello Viola con quattro voti, a seguire con un voto a testa il capo della procura di Palermo Franco Lo Voi e il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. Il vantaggio di Viola - appartenente come Lo Voi alla corrente di Magistratura indipendente - spiazza tutti per due ragioni. La prima è che la sua nomina sarebbe in discontinuità con la influente guida di Pignatone e guarda alla parte più conservatrice della magistratura, quando invece l’asse che fino a quel momento ha guidato le scelte si appoggia sulla corrente progressista di Area. La seconda è che in favore di Viola ha votato anche Davigo, che quindi ha appoggiato uno degli ex compagni di Mi, da cui però si era polemicamente separato solo quattro anni prima. Una scelta, questa, che non è stata motivata dal consigliere e che, secondo alcune fonti interne alle correnti che all’epoca hanno gestito il passaggio di nomina, sarebbe stata il frutto di una linea condivisa. Il voto per Viola, tuttavia, diventa un boomerang appena scoppia lo scandalo Palamara. Quello del pg di Firenze (inconsapevole degli accordi intorno alla sua candidatura), infatti, è il nome su cui convergono gli invitati alla cena dell’hotel Champagne - Palamara, Cosimo Ferri, alcuni consiglieri del Csm e Luca Lotti - per pilotare la nomina al vertice della procura della Capitale, le cui intercettazioni ancora coperte da segreto finiscono sui giornali. Così scoppia il caso anche se, nella confusione dei giorni successivi e nel mulinello di nomi che piano piano emergono dalle chat e dalle intercettazioni, la figura di Davigo finisce sullo sfondo. Contemporaneamente, matura la sua frattura con il collega di corrente Sebastiano Ardita. Il Csm corre ai ripari, invalida la votazione del 23 maggio e il 14 gennaio 2020 la quinta commissione torna a esprimersi sulla rosa di candidati per Roma da presentare al plenum. Il nome di Viola è evidentemente bruciato dopo lo scandalo e al suo posto - accanto ai confermati Lo Voi e Creazzo - subentra Michele Prestipino, procuratore aggiunto nella Capitale e in quel momento reggente come facente funzioni, nonché braccio destro di Pignatone. L’unico a votarlo è Davigo che, dopo aver imprevedibilmente votato Viola in maggio, ora vira su Prestipino e lo “candida” a presentarsi davanti al plenum. Anche nella votazione finale lo sostiene, discostandosi dalla posizione dei suoi due colleghi di gruppo associativo, Ardita e Di Matteo, che al plenum convergono entrambi su Creazzo. Il cambio di fronte è clamoroso: dal candidato di discontinuità e proveniente dalla corrente moderata, a quello che più garantisce la continuità con l’operato di Pignatone e che viene nominato procuratore capo dal plenum del 4 marzo con i voti della corrente progressista di Area, pur essendo sulla carta il meno titolato del gruppo di candidati. Oggi, proprio la farraginosità della procedura è costata al Csm l’annullamento della nomina con sentenza del Tar Lazio e confermata dal Consiglio di stato, che tra le motivazioni indica anche la carenza di motivazione che invece sarebbe stata necessaria per il cambiamento di voto di Davigo. I verbali di Amara - Cronologicamente, i fatti emersi nelle scorse settimane vanno collocati poco dopo la nomina di Prestipino a Roma, nel marzo 2020. È a ridosso di questo momento che Davigo riceve dal sostituto procuratore milanese Paolo Storari i verbali dell’ex avvocato dell’Eni Piero Amara. Storari chiede consiglio a Davigo perché non condivide quella che ritiene un’inerzia da parte del procuratore di Milano Francesco Greco e dell’aggiunta Laura Pedio nel non aprire un fascicolo sulle notizie contenute nei verbali. Nei verbali, infatti, si delinea l’esistenza di una presunta loggia segreta Ungheria, in cui compare anche il nome di Sebastiano Ardita. Quello di Amara, tuttavia, è un nome noto a Davigo e che si intreccia con il caso Palamara: a inizio 2019 il pm romano Stefano Fava, infatti, parla con Davigo e Ardita proprio di dissapori e di possibili conflitti di interesse da parte dell’aggiunto Paolo Ielo e del procuratore Pignatone nella gestione del fascicolo romano su Amara. È in questa fase che Davigo fa una serie di scelte di condotta che oggi lo espongono al rischio di conseguenze penali. Davigo, infatti, non suggerisce a Storari di fare un esposto formale al Csm ma accetta i verbali di Amara in formato word e senza i timbri di procura (elemento che esclude il reato di ricettazione) e mette personalmente al corrente del loro contenuto i vertici del Csm: il vicepresidente David Ermini, il procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi e il primo presidente di Cassazione Pietro Curzio. Non solo, ne parla anche con il consigliere di Area Giuseppe Cascini, con quello di A&I Giuseppe Marra e con il laico Cinque stelle Fulvio Gigliotti. Con tutti, però, lo fa in modo informale e senza lasciare traccia scritta che permetta di mettere in moto un qualche tipo di azione da parte del Consiglio. Proprio questa procedura insolita è una delle principali zone grigie del caso della loggia Ungheria. Davigo sostiene di aver agito in modo corretto, in coerenza con una circolare del Csm del 1994. Quella circolare, tuttavia, dice che “il pm che procede deve dare immediata comunicazione al Consiglio con plico riservato al Comitato di presidenza di tutte le notizie di reato nonché di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio” e che “può ritenersi consentito il superamento del segreto investigativo ogni qualvolta questo possa rallentare o impedire l’esercizio della funzione di tutela e controllo da parte del Csm”. Al Csm l’interpretazione condivisa è che la circolare non legittimi affatto un procuratore a rivelare segreti d’indagine a un membro del Csm a sua scelta. Inoltre, le regole del segreto istruttorio sono disciplinate dal codice di procedura penale e dal decreto legislativo 109 del 2006: solo il procuratore generale presso la Cassazione, con il nulla osta del procuratore capo e se lo ritiene necessario ai fini delle determinazioni sull’azione disciplinare, può acquisire atti coperti da segreto investigativo senza che il segreto possa essergli opposto. L’informalità tenuta in tutte le sue interlocuzioni sul dossier Amara rischia di essere un problema per Davigo, anche perché lo stesso pm Storari - oggi indagato a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio - ha scaricato su di lui le responsabilità. “Tecnicamente il dottor Davigo era persona autorizzata a ricevere quegli atti, tale si era qualificato, e in tal senso aveva autorizzato il dottor Storari”, ha detto il suo avvocato Paolo della Sala. Inoltre, in questa vicenda Davigo commette un secondo passo falso: lascia i verbali in formato digitale nel suo pc al Csm e proprio da qui, dopo il suo pensionamento, sarebbero stati trovati, stampati e inviati in plico anonimo alle redazioni del Fatto Quotidiano e di Repubblica, oltre che al togato Nino Di Matteo che - nell’aprile 2021 - denuncia pubblicamente davanti al plenum di aver ricevuto i verbali segreti e li definisce calunniosi nei confronti di Amara. Oggi, per l’invio dei verbali è indagata per calunnia l’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto. La confidenza a Morra - L’ultimo tassello della vicenda legata ai verbali sono le recenti dichiarazioni del presidente della commissione Antimafia ed ex parlamentare Cinque stelle Nicola Morra. Proprio le sue parole rischiano di essere un problema per l’ex pm di Mani Pulite. Morra, infatti, ha rivelato di essere stato messo a conoscenza dei verbali segreti sempre da Davigo, in un’occasione in cui si era recato al Csm per parlare con il togato e con Ardita. Il racconto di quell’incontro è stato fatto dallo stesso Davigo a DiMartedì: “Il senatore Morra, presidente della commissione Antimafia, è venuto da me e voleva in quel momento parlare con Ardita, con il quale avevo interrotto i rapporti perché in passato si erano verificati alcuni fatti che avevano fatto venire meno il rapporto fiduciario”, sono state le parole di Davigo, che ha spiegato che, siccome Morra insisteva a chiedergli di parlare tutti e tre insieme, “L’ho fatto uscire e gli ho spiegato che oltre alle altre ragioni per cui non volevo parlare con Ardita c’è anche una questione che potrebbe riguardare una associazione segreta. E gli ho ricordato che nella sua qualità di pubblico ufficiale, come presidente dell’Antimafia, era tenuto al segreto”. I fatti sono stati confermati dallo stesso Morra, ma le loro posizioni divergono su un punto: il parlamentare sostiene (e lo ha dichiarato anche davanti ai magistrati di Roma) che Davigo gli avrebbe mostrato fisicamente i verbali, l’ex magistrato invece nega. Tuttavia le intenzioni di Morra sono chiare e vengono spiegate da lui stesso sempre in televisione: “A seguito della notizia della rottura all’interno del gruppo di Autonomia e Indipendenza, per mia iniziativa ho cercato di ragionare con il dottor Davigo e il dottor Ardita, per ricomporre un quadro che a me sembrava particolarmente convincente perché doveva eradicare il sistema correntizio”. In sostanza, Morra avrebbe tentato di farsi mediatore nella crisi tra Davigo e Ardita perché li riteneva il suo punto di riferimento in materia di politica giudiziaria. Davigo, a parziale spiegazione della rottura, lo avrebbe informato dei verbali sulla loggia Ungheria e della presenza del nome di Ardita. Il procedimento Palamara - Altra vicenda cronologicamente successiva riguarda la decisione di Davigo di rimanere membro della sezione disciplinare che, nel luglio 2020, inizia il procedimento che poi porterà alla radiazione di Luca Palamara dalla magistratura. La difesa di Palamara ne chiede la ricusazione dal collegio e lo cita come testimone, perché Davigo nel marzo 2019 ha incontrato a pranzo insieme ad Ardita il magistrato romano Stefano Fava (oggi indagato a Perugia per rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento), che li ha messi al corrente delle divergenze e dei possibili conflitti di interesse dentro la procura di Roma, che poi sono stati oggetto di un esposto richiamato nelle incolpazioni al Csm rivolte a Palamara. In particolare Fava mette al corrente Ardita e Davigo della sua volontà di presentare un esposto al Csm (cosa che fa il 27 marzo 2019) nei confronti del suo procuratore capo, Giuseppe Pignatone. “La questione era se il procuratore si dovesse astenere nei procedimenti che riguardavano ben tre degli indagati in oggetto, Amara, Bigotti e Balistreri. Risultava che questi avessero conferito incarichi professionali al fratello del procuratore, che fa l’avvocato e si chiama Roberto Pignatone. Insomma, io ritenevo che il capo del mio ufficio si dovesse astenere. E a quel pranzo parlammo della faccenda e dei miei contrasti con Pignatone proprio per questa ragione”, ha detto Fava in una intervista a Libero. Ascoltato dalla procura di Perugia, anche Ardita avrebbe dato la stessa versione, dichiarando a verbale: “A un certo punto Fava iniziò a evidenziare alcuni problemi che aveva nella gestione dei procedimenti alla Procura di Roma. Parlò di alcune consulenze che il fratello di Pignatone aveva fatto per qualche indagato eccellente, se non ricordo male per l’avvocato Amara. Disse che questi rapporti del procuratore creavano dei problemi all’ufficio e anche alla sua attività investigativa”. Tradotto: Davigo sarebbe stato parte di un circuito di conoscenze e confidenze che lambivano la partita intorno alla procura di Roma. Non solo, risulta che Palamara avrebbe presentato un libro dello stesso Davigo e poi gli avrebbe dato un passaggio in macchina per tornare a casa, ma della conversazione di quella sera non ci sarebbe traccia perché il trojan installato sul cellulare di Palamara quella sera era spento. Davigo, tuttavia, sceglie di non astenersi. L’istanza di ricusazione viene respinta e lui partecipa: viene anzi considerato uno dei grandi accusatori di Palamara. La sua presenza comporta anche una insolita accelerazione del procedimento disciplinare. Il 19 ottobre del 2020 per Davigo, infatti, scatta il pensionamento per raggiunti limiti di età e la sua decadenza da consigliere del Csm e quindi dal collegio disciplinare rischia di far saltare tutto il procedimento. Ecco che allora vengono fissate udienze a tappe forzate - tanto che uno dei motivi del ricorso in cassazione di Palamara contro la sentenza del disciplinare, oltre alla presenza di Davigo in possibile conflitto di interesse, è anche la compressione del diritto di difesa - e Palamara viene espulso l’8 ottobre. Il pensionamento - Nominato Prestipino al vertice della procura di Roma ed espulso Palamara, l’ordine interno sembrerebbe ricomposto con una maggioranza relativa legata ad Area, ma per Davigo si apre lo scontro più duro. Lui vorrebbe completare il mandato al Csm anche dopo il pensionamento. Non è mai successo prima, ma si appiglia a un cavillo: il pensionamento non è causa espressa di decadenza dall’incarico di consigliere. Tuttavia il Consiglio deve votare e a Davigo serve la maggioranza dei membri. Di quel che accade in quei giorni ci sono varie ricostruzioni. Secondo alcune fonti, Davigo avrebbe sperato di avere la maggioranza proprio perché era stato decisivo nella nomina del procuratore di Roma e nel caso Palamara. Secondo altri, invece, il sistema delle correnti prima lo ha usato per risolvere quelle due spinose vicende e poi se ne é liberato. I fatti certi sono i seguenti: proprio il giorno della votazione sulla sua decadenza, Davigo non può essere presente al Csm perché viene chiamato a Perugia dal procuratore capo Raffaele Cantone per essere ascoltato come testimone nel processo penale a carico di Palamara. Un legame con quel processo che incrina ulteriormente l’opportunità del suo ruolo di giudicante nel disciplinare del Csm. Nel mentre, la maggioranza del Csm vota contro di lui: determinante è il voto sfavorevole di Nino Di Matteo, consigliere indipendente ma eletto con la corrente di Davigo. Dopo il suo intervento si astengono tre consiglieri di Area (due invece voteranno a favore, come sembrava essere l’orientamento iniziale del gruppo) mentre votano contro i vertici della Cassazione (sia Giovanni Salvi che Pietro Curzio sono di area Magistratura democratica). Così Davigo esce di scena dal Csm, anche se propone immediatamente ricorso contro la decisione. La somma di questi passi falsi porta a due possibili conseguenze: una di tipo penale e una politica. Sul fronte politico, le dichiarazioni del parlamentare grillino Nicola Morra che ha parlato di Davigo come “punto di riferimento” e che da lui è stato messo al corrente dei contenuti dei verbali aprono un problema alla corrente di Autonomia e Indipendenza, che era nata proprio dalla proclamata necessità di una distanza chiara tra partiti e giustizia. Sul piano penale, l’informalità nel trattare i verbali segreti consegnati da Storari rischia di complicare la posizione di Davigo. Proprio il fatto che Morra si sia recato a rendere dichiarazioni spontanee ai magistrati di Roma potrebbe aprire all’ipotesi di un procedimento penale con l’ipotesi di rivelazione di segreto d’ufficio a carico di Davigo. Non c’è notizia che questo sia avvenuto, ma il rischio è concreto perché la norma è chiara: il pubblico ufficiale che “violando i doveri inerenti le sue funzioni” o comunque “abusando della sua qualità” rivela notizie che devono rimanere segrete o “ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza” rischia da sei mesi a tre anni di reclusione. Liguria. Il Garante dei detenuti, questo sconosciuto nonostante la pandemia di Erica Manna La Repubblica, 27 maggio 2021 La figura del Garante dei detenuti esiste: dal 29 marzo. Ma a due mesi dalla sua istituzione, votata dall’assemblea legislativa della Liguria, rimane una casella vuota: “Siamo in attesa che il garante venga eletto, è necessario che diventi operativo. E chiediamo di essere coinvolti nella scelta”. A fare appello alla Regione è la Rete Tematica Carcere, attiva dal 2010 e facilitata dal Centro di Servizio al Volontariato (Celivo), gruppo che dal 2019 è composto da associazioni che operano nel campo della solidarietà. E che, attraverso una lettera indirizzata al Consiglio Regionale, snocciola le urgenze non più rinviabili. Una su tutte, il sovraffollamento delle carceri liguri ormai endemico, sommato al Covid: “Ci sono stati 42 contagi nelle carceri qui in Liguria - spiega Ramon Fresta del Ceis Genova, portavoce per la Rete Tematica Carcere - e le misure di alleggerimento adottate per contenere la pandemia hanno inciso meno, in percentuale, rispetto alle altre regioni”. Nell’unico carcere femminile (ovvero Pontedecimo), peraltro, lo spazio è già ridotto perché diviso con la sezione dedicata ai sex offenders, “gli ambienti dove vengono svolte attività trattamentali sono poco idonei e insalubri”, prosegue il documento. Altro nodo: “La presenza in carcere di cittadini che non possono accedere alle misure alternative alla detenzione esclusivamente a causa della mancanza di domicilio o di mezzi di sostentamento”. E poi la carenza di strutture ad hoc per persone con gravi problemi mentali. Infine: “Le due carceri di Genova, da inizio anno, sono guidate da direttori reggenti, così come l’Ufficio di esecuzione penale esterna di Genova e Savona, da quasi due anni affidato al direttore di quello torinese”. Emblematico, conclude Fresta, che l’anno scorso si sia chiuso con il suicidio di un detenuto a Pontedecimo, il 4 dicembre, e si sia aperto con quello di un altro, il 2 gennaio a Marassi. Sul fronte garante per i detenuti, l’altro ieri su proposta dei consiglieri Pd (prima firmataria Cristina Lodi) è stata approvata la delibera per istituire una figura gemella rispetto a quella regionale. Modena. Morti in carcere durante la rivolta, il 7 giugno udienza dal Gip ansa.it, 27 maggio 2021 Giudice dovrà decidere se archiviare o disporre nuove indagini. È fissata per il 7 giugno davanti al Gip del tribunale di Modena Andrea Romito l’udienza per decidere sull’archiviazione del fascicolo sugli 8 detenuti morti durante la rivolta scoppiata nel marzo 2020 nel carcere di Modena. La Procura ha chiesto l’archiviazione, sostenendo che i decessi sarebbero da ricondurre a un’overdose di metadone e benzodiazepine dopo il saccheggio della farmacia del Sant’Anna. Alla richiesta del pm si sono opposti l’avvocato Luca Sebastiani, che assiste i familiari di Chouchane Hafedh, uno dei morti, l’associazione Antigone e il Garante nazionale, che chiedono di valutare eventuali omissioni e ritardi nei soccorsi. Per il 7 giugno davanti al tribunale è previsto un presidio di associazioni, tra cui il comitato ‘Verità e giustizia per la strage del Sant’Anna’. Il Gip dovrà stabilire se accogliere l’archiviazione o disporre nuove indagini. Napoli. I detenuti di Secondigliano scrivono ai Garanti: “Tutelate i nostri diritti” di Giuliana Covella Il Mattino, 27 maggio 2021 I detenuti del reparto Ionio del carcere di Secondigliano scrivono ai garanti regionale e comunale, Samuele Ciambriello e Pietro Ioia: “Allo stato dell’arte in questo carcere oggi ci sono concrete possibilità che non si muoia per Covid ma per altro”, si legge nella lettera. Una missiva dove si parla di “incresciosa e gravissima situazione per quel che concerne il dilagare dell’infezione”. Già lo scorso gennaio - come si ricorderà - erano risultati 38 i detenuti positivi al virus nei reparti Ionio e Tirreno. Oltre a 26 agenti di polizia penitenziaria e un medico, sempre nello stesso mese di gennaio, come riportato dal garante regionale Ciambriello a margine di una visita nell’istituto di pena in quei giorni. Ora le preoccupazioni sono quelle di un gruppo di reclusi, che ha ritenuto opportuno sottoporle a chi è incaricato di tutelare i loro diritti. “Ma questo è solo uno dei problemi - scrivono i carcerati - la cosa più paradossale è che con la motivazione dell’emergenza sanitaria un intero reparto che conta all’incirca 300 reclusi ad oggi tra contagiati e non sta subendo una chiusura h 24 dove sono stati compressi ora d’aria, socialità e sospese tutte le attività a scopo ludico e didattico”. Inoltre “stiamo subendo spostamenti continui - è scritto ancora nelle tre pagine - da una sezione all’altra come se fossimo pacchi postali e ciò che sta creando una grave destabilizzazione psicologica dovuta in parte al timore di un eventuale contagio”. Tante le domande a cui chiedono risposte i detenuti in questo lungo scritto: “perché ci sono state revocate le 2 telefonate precedentemente concesse a causa del Covid?”. La risposta sarebbe stata una circolare del Dap, “che però nessuno ci ha mostrato”, fa notare chi scrive. Poi l’accorato appello ai due garanti: “anche nei confronti di un animale ci si comporta diversamente. Per questo vi chiediamo di far valere i nostri diritti, come fate quotidianamente”, concludono i detenuti di Secondigliano. Napoli. La denuncia del Garante Ioia: nelle celle si muore ma il governo sta a guardare di Francesca Sabella Il Riformista, 27 maggio 2021 Numeri choc nel report annuale: nel 2020 ben 47 detenuti hanno tentato di togliersi la vita in prigione. Sovraffollamento, carenza di personale, diritto alla salute calpestato e tentativi di suicidio in costante aumento: è un quadro a tinte fosche quello che emerge dalla relazione annuale stilata da Pietro Ioia, garante napoletano dei diritti dei soggetti privati della libertà personale, sulle condizioni delle carceri cittadine. Il sovraffollamento è una piaga che affligge il nostro territorio da decenni: nelle carceri regionali sono ristretti 6.403 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 6.052, il tasso di affollamento oscilla da anni tra il 119 e il 120% e, per numero complessivo di detenuti, la Campania è seconda solo alla Lombardia. In questo contesto spicca Poggioreale che, alla fine del 2020, accoglieva 1.991 reclusi, di cui 286 stranieri, a fronte dei 1.571 posti disponibili. Meno gravosa, ma comunque complessa, la situazione nel carcere di Secondigliano, in cui i 1.037 posti a disposizione sono occupati da 1.249 persone di cui 81 straniere. Tornando a Poggioreale, tra i penitenziari più grandi ma anche più affollati in Italia, è il numero dei detenuti in attesa di giudizio: il report presentato da Ioia parla di 997 imputati, dunque non ancora condannati in via definitiva, 992 condannati e due internati. Il sovraffollamento non è l’unica criticità. Pesa, infatti, la mancanza di personale: gli agenti di polizia penitenziaria presenti a Poggioreale sono 775 contro i 911 previsti in pianta organica, 13 gli educatori a fronte dei 22 necessari e 57 i titolari di incarichi amministrativi anziché 68. A questo si aggiungono le carenze strutturali: molte celle ospitano fino a 12 detenuti, in alcune mancano la doccia e l’acqua calda. Non è un caso, dunque, che nel 2020 otto detenuti si siano tolti la vita nelle carceri campane, due dei quali a Poggioreale e uno a Secondigliano; in totale, però, le persone che hanno tentato di togliersi la vita sono state addirittura 47, di cui 33 a Poggioreale e 14 a Secondigliano. Durante i primi 13 mesi del suo mandato, che terminerà nel 2024, il garante Ioia ha incontrato più volte i detenuti che hanno tentato il suicidio e ora, insieme con le istituzioni del mondo carcerario, sta tentando di mettere nero su bianco un piano per ridurre il rischio di suicidi dietro le sbarre. Tra i principali nodi da sciogliere resta il diritto alla salute, ancor più compromesso con il sopraggiungere della pandemia: in carcere gli spazi sono stretti, rispettare il distanziamento è pressoché impossibile e i contatti con gli agenti della polizia penitenziaria (che entrano ed escono continuamente dagli istituti) espongono i detenuti al contagio. “Durante i colloqui - racconta Ioia - i reclusi parlano spesso dei loro problemi di salute e delle difficoltà nel richiedere un intervento sanitario. Bisogna agire subito sulla mancanza di assistenza sanitaria dietro le sbarre perché molti detenuti sono malati e aspettano mesi e mesi prima di poter fare una visita in ospedale”. Non solo: molto spesso i familiari dei detenuti non sono nemmeno a conoscenza delle loro condizioni di salute e anche questo - come sottolinea Ioia  è inaccettabile perché il diritto alla salute e quello a mantenere relazioni con i parenti sono fondamentali e meritano un’adeguata tutela”. E in tutto questo la politica che fa? Niente. Il tema della detenzione non figura nell’agenda della stragrande maggioranza di parlamentari, consiglieri regionali e amministratori locali. A sottolinearlo è lo stesso Ioia: sulle carceri la politica è cinica e pavida. Eppure sono tanti i casi di persone finite in cella da innocenti e successivamente risarcite per questo, senza dimenticare il numero esorbitante di detenuti poveri che non possono permettersi un avvocato e la lentezza con cui il Tribunale di Sorveglianza risponde alle domande di giustizia: i politici dovrebbero assumersi la responsabilità di tutto ciò perché chi entra in carcere oggi ne esce più criminale di prima”. Napoli. “Sveglia, partiti: amnistia e indulto non possono aspettare ancora” di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 27 maggio 2021 L’appello di Rita Bernardini. I numeri e le condizioni di carceri come quelle di Poggioreale e di Secondigliano impongono alla politica di riflettere su indulto e amnistia”: Rita Bernardini rilancia da Napoli la sua crociata per un provvedimento di clemenza che svuoti i penitenziari e, soprattutto, li allinei al dettato della Costituzione italiana e delle norme sovranazionali. Nel Maschio Angioino, sede della presentazione del report annuale stilato dal garante napoletano dei detenuti Pietro Ioia, la storica leader radicale e attuale presidente di Nessuno Tocchi Caino tocca un tasto già schiacciato per anni dal movimento politico di Marco Pannella: sul trattamento in carcere - osserva Bernardini - l’Italia è stata sanzionata dall’Europa per la violazione non solo dell’articolo 3 della Convenzione del 1950, che vieta la tortura e le pene consistenti in trattamenti inumani o degradanti, ma anche dell’articolo 6, relativo alla durata del processo che costituisce un’altra falla della giustizia nazionale”. Bernardini, dunque, punta il dito contro un sistema penale che spesso porta all’entrata in prigione di persone molti anni dopo la commissione del reato, quando si erano rifatte una vita trovandosi un lavoro”: emblematica, in tal senso, è la storia di Giuseppe Marziale, il 47enne napoletano raggiunto a dicembre scorso da un ordine di carcerazione emesso dal Tribunale partenopeo perché ritenuto responsabile di associazione di tipo mafioso e traffico di sostanze stupefacenti commessi tra settembre 1999 e luglio 2000. Messi insieme, i tempi biblici della giustizia italiana e le drammatiche condizioni in cui versano le carceri nazionali rendono la vita dietro le sbarre insostenibile e, soprattutto, criminogena. Ed è per questo che Bernardini lancia per l’ennesima volta un monito al Parlamento: “È il momento di ragionare su amnistia e indulto”. Di questa necessità la leader radicale ha recentemente discusso anche con la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, da sempre attenta a quanto avviene dietro le sbarre. Difficile, tuttavia, che una maggioranza così eterogenea come quella che sostiene il governo Draghi, nella quale forze storicamente garantiste sono costrette a convivere con partiti di chiara ispirazione giustizialista, riesca ad approvare leggi per le quali è necessaria un’ampia convergenza di parlamentari. La speranza è che i dati diffusi dal garante Ioia e l’appello lanciato da Bernardini sveglino almeno quella politica che finora ha colpevolmente cancellato il tema della detenzione dalla propria agenda. Napoli. Nessun nuovo carcere a Bagnoli, nel quartiere solo turismo e sport di Pierluigi Frattasi fanpage.it, 27 maggio 2021 Nessun nuovo carcere a Bagnoli: il Governo Draghi dice no ad una struttura penitenziaria nell’ex Caserma Battisti. Il quartiere occidentale di Napoli, oggetto del piano di rigenerazione dell’ex Italsider, sarà dedicato solo al turismo, alla cultura e allo sport. La decisione è arrivata nella Cabina di Regia su Bagnoli che si è tenuta oggi, alla quale hanno partecipato i ministri per il Sud Mara Carfagna e della Giustizia Marta Cartabia, con il presidente della X Municipalità Diego Civitillo. Nessun nuovo carcere a Bagnoli: il Governo Draghi dice no. Il quartiere occidentale di Napoli, oggetto del piano di rigenerazione dell’ex Italsider, sarà dedicato solo al turismo, alla cultura e allo sport. La decisione è arrivata al termine della Cabina di Regia su Bagnoli che si è tenuta oggi, alla quale hanno partecipato i ministri per il Sud e la Coesione Territoriale Mara Carfagna e della Giustizia Marta Cartabia, con il presidente della X Municipalità Diego Civitillo. Numerosi i temi affrontati sia per quanto riguarda le attività di bonifica in corso di realizzazione e progettazione sia per le destinazioni d’uso di alcune aree. “Il governo Draghi - ha annunciato il ministro Carfagna in cabina di regia - non ha nessuna intenzione di destinare la Caserma Battisti di Bagnoli a istituto penitenziario. Ho appena parlato con la collega Marta Cartabia e abbiamo concordato in proposito. Bagnoli ha un altro destino: il lavoro di riqualificazione che è stato avviato deve portarla ad essere un luogo a vocazione turistica, sportiva, culturale. Peraltro, l’edificio della caserma è inadeguato agli standard di una moderna struttura penitenziaria”. Per Diego Civitillo, presidente della X Municipalità di Bagnoli-Fuorigrotta, sulla realizzazione del carcere a Cavalleggeri, “l’azione del territorio di concerto con quella istituzionale ha prodotto questo primo importante risultato. L’area dell’ex Caserma Battisti non sarà più sede di una struttura carceraria ma come previsto dagli strumenti urbanistici sarà dedicata ad attività sociali e culturali. Una grande attrezzatura collettiva dedicata al territorio di Cavalleggeri. È inoltre in fase di elaborazione una proposta da parte dell’Università degli studi di Napoli Federico II per la gestione del Parco dello Sport a seguito di una serie di lavori di riqualificazione nonché di adeguamento a fini agonistici”. “Dal punto di vista infrastrutturale - aggiunge il presidente del parlamentino - al momento si sta lavorando soprattutto sulla rete idrica sia in termini di circolazione idrica sotterranea, sia in termini di bonifica delle acque provenienti da monte. Tali interventi risultano fondamentali per restituire la balneabilità della costa a seguito degli interventi di bonifica degli arenili, dei fondali e della rimozione della colmata sui quali si sta concludendo la fase progettuale di dettaglio”. “Sicuramente in momenti successivi andranno affrontati compiutamente diversi temi, sia di carattere infrastrutturale e trasportistico ma soprattutto di merito a seguito della presentazione del progetto Balneolis, vincitore del concorso internazionale di idee. Immagino momenti di interlocuzione pubblica con i progettisti al fine di integrare idee, proposte e necessità direttamente dalla comunità flegrea. Sarà inoltre necessario comprendere dettagliatamente funzioni di ciascuna area, modalità e costi di gestione. Durante la seduta odierna - conclude - è stata inoltre proposta una variazione di merito del Praru, relativamente all’area di ricostruzione di Città della Scienza. Modificare infatti strumenti urbanistici e tecnici complessi rischia di compromettere un cronoprogramma già estremamente complesso e oggetto a ritardi. Inoltre qualsiasi discussione di merito sul Praru va affrontata, non solo in Cabina di Regia, ma anche con il territorio ed in particolare con l’Osservatorio popolare”. Aversa (Ce). Non si ferma la protesta dei detenuti: stoviglie contro le inferriate di Nicola Rosselli pupia.tv, 27 maggio 2021 Il rumore martellante delle stoviglie battute contro le inferriate alle finestre è ripreso ieri mattina dopo essersi fermato nella serata di lunedì. I detenuti della casa di reclusione di Aversa stanno inscenando una protesta per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e, soprattutto, della direzione del carcere, su alcune questioni. Dalla casa di reclusione, diretta da Stella Scialpi da poco più di due anni, proveniente dal carcere femminile di Pozzuoli, con l’ausilio del comandante della Polizia penitenziaria, Francesco Serpico, non trapelano notizie. - continua sotto - La dirigenza ha posto un “no comment” alle richieste di notizie. Dal muro di silenzio eretto, però, trapela che la protesta è dovuta alla qualità del vitto e alla mancanza di colloqui visivi con i familiari, causa Covid-19. In alternativa, ai detenuti vengono concessi colloqui con vetri plexiglass, nonché autorizzati ad effettuare videochiamate secondo quelle che sarebbero le disposizioni impartite dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in questo particolare momento contrassegnato dalla pandemia da coronavirus. - continua sotto - Una protesta che sembra aver raggiunto il proprio obiettivo perché gli aversani, almeno quelli che vivono nei pressi del carcere e quelli che transitano in zona (ad Aversa la casa di reclusione è in pieno centro cittadino, una assurdità se si pensa che è stata istituita nel 2016), hanno notato quanto stava avvenendo e la circostanza è divenuta una delle più dibattute sui social dove sono in molti a chiedersi cosa sta avvenendo dietro quelle mura che hanno ospitato sino a qualche anno fa quello che fu il primo ospedale psichiatrico giudiziario. Un luogo salito più volte alla ribalta della cronaca per come venivano trattati i criminali malati di mente. Episodi che hanno contribuito non poco alla chiusura di questo tipo di manicomi dove non vi era, di fatto, il fine pena. Quello di Aversa, infatti, fu il primo manicomio giudiziario a sorgere in Italia e venne ospitato in quella che era l’antica struttura conventuale di San Francesco da Paola. Nel 1876, il Direttore Generale degli Istituti di prevenzione e pena, Martino Beltrani Scalia, con un semplice atto amministrativo, inaugurò la Sezione per ‘maniaci’. Nel 1907 la direzione del manicomio di Aversa passò all’alienista Filippo Saporito, scienziato aversano al quale fu, poi, intitolata la struttura, mentre il nucleo iniziale dell’istituto andava ampliandosi inglobando alcuni edifici circostanti poi divenuto, nel 1975, Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Dal 2012, anno in cui la legge ha stabilito l’eliminazione di queste strutture, è stato progressivamente dismesso e da agosto 2016 ufficialmente riconvertito in Casa di Reclusione. Attualmente vi sono ospitati circa 140 detenuti che devono trascorrere pene leggere e che di giorno, in buona parte, escono per lavorare. È del marzo scorso, infatti, la notizia di un progetto a livello regionale, con la partecipazione del garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, per promuovere, finanziando con i soldi delle Regione Campania, dei progetti di pubblica utilità sia per far uscire un gruppo di detenuti dal carcere al lavoro presso il Comune di Aversa sia per riordinare l’archivio dell’ex ospedale psichiatrico giudiziario così da essere fruibile anche all’esterno. I progetti, non ancora partiti, saranno su più fronti con attività sul territorio del Comune di Aversa, come la cura del verde (aiuole, parchi), arredo urbano, manutenzione della segnaletica stradale. Il Comune prevede l’utilizzo di circa 50 detenuti mentre all’interno del carcere l’altro progetto, il riordino dell’archivio di quello che fu il discusso manicomio criminale, vedrà coinvolti 5 internati, sempre all’interno del carcere un progetto vedrà coinvolti detenuti per l’utilizzo e la valorizzazione del tenimento agricolo nel carcere. Padova. Il mental coach entra al Due Palazzi Corriere del Veneto, 27 maggio 2021 Un corso per i detenuti che vogliono riprogrammare la propria vita. Il carcere Due Palazzi riprende le sue attività a sostegno dei detenuti, e lo fa con un mental coach che insegnerà a riprogrammare la loro vita, a guardare al futuro con qualche speranza. Parole che suonano ridondanti, ma in realtà il processo appare più facile quando il futuro viene spezzettato in piccoli attimi: “Si comincia con il cambiare una piccola cosa, in un piccolo momento, una cosa semplice, e quando cambia lascia il segno”. Lo ha detto ieri durante un incontro di presentazione on line Tania di Giuseppe, psicologa sella Fondazione Patrizio Paoletti, che insieme all’università di Padova ogni settimana affronterà un corso che finirà a luglio con detenuti, funzionari, agenti e volontari attivi nella realtà carceraria. Patrizio Paoletti è un nome conosciuto, con la sua fondazione ha affrontato lo shock dei terremotati del 2016 nelle Marche, due anni dopo sempre lo stesso professionista ha coinvolto i residenti di Genova in un percorso di rielaborazione del lutto e del disagio dalla distruzione dopo la tragedia del Ponte Morandi. Le sue parole mirano a essere fonte di ispirazione per chiunque decida di affrontare un cambiamento. Ad elaborare il progetto anche l’università di Padova con Francesca Vianello, professoressa associata di Sociologia del diritto, della devianza e del mutamento sociale. Sponsor dell’iniziativa la Fondazione Mediolanum. Ma il vero impulso per realizzare gli incontri è arrivato dal direttore del carcere Claudio Mazzeo (foto): “È stato complicato superare la pandemia, oggi siamo qui a pensare al nostro futuro, possiamo farlo ad ogni livello”. Il riferimento del dirigente è più che mai concreto: il Due Palazzi ha dovuto affrontare ben due situazioni di focolaio, il primo in ottobre 2020 (con un picco di 57 positivi), l’altro nello scorso aprile, quando i contagiati hanno sfiorato quota 100. Grazie soprattutto ai vaccini, l’emergenza è stata superata. Roma. A Rebibbia torna la didattica: per la Giornata della legalità una testimonianza diretta Il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2021 Anche in carcere gradualmente ci si riavvia verso la normalità dopo il lungo periodo di inasprimento delle restrizioni per l’emergenza sanitaria. Si conclude in questi giorni la campagna delle vaccinazioni e in alcuni reparti sono riprese le lezioni in presenza; vedendo tornare gli insegnanti, i detenuti iscritti ai vari corsi scolastici (per ora solo quelli che nel prossimo mese dovranno sostenere gli esami di Stato) hanno scoperto una volta di più, come reazione alle privazioni, l’importanza della scuola come momento di crescita personale e occasione di contatto con l’esterno, con un mondo quasi sempre lontanissimo dal proprio precedente vissuto, che in tal modo può essere oggetto di una profonda e veramente efficace revisione critica. Riprendono gradualmente anche le attività collaterali alla didattica, i progetti di ampliamento dell’offerta formativa come “Libertà e Sapere” con cui da un quindicennio cerchiamo di favorire i rapporti tra gli studenti detenuti e la società nelle sue espressioni più alte e importanti. L’occasione è venuta dall’iniziativa presa da Francesca Rocchi, Francesca Di Martino e altri insegnanti della sede centrale del nostro Istituto scolastico J. von Neumann diretto dalla D.S. Serafina Di Salvatore, che hanno organizzato una videoconferenza sul tema della legalità e della lotta alla criminalità organizzata (per la ricorrenza delle stragi di mafia). Collegati via Internet, alcuni studenti delle classi quinte hanno potuto ascoltare il professor Sergio Moccia, emerito di Diritto penale all’Università degli studi di Napoli “Federico II”, e il colonnello Cesare Forte, della Direzione telematica del Comando generale della Guardia di Finanza. Non è stato possibile, alla fine, stabilire connessioni per coinvolgere anche gli studenti delle sezioni staccate all’interno dei vari settori del complesso Penitenziario di Rebibbia. Tuttavia, abbiamo potuto avvalerci della testimonianza di Francesco Rallo, nostro ex alunno condannato all’ergastolo per reati di mafia. Era in collegamento dagli uffici presso il ministero della Giustizia, dove oggi può beneficiare del lavoro esterno dopo quasi trent’anni di reclusione. Uno degli aspetti che è apparso con maggiore evidenza nei vari interventi è che combattere la mafia sia un problema innanzitutto di natura culturale, mentre la sanzione penale arriva, quando arriva, solo in un ultimo momento. Cultura è quella mafiosa, che si respira in certi ambienti fin dai primi momenti di vita e in ogni dettaglio dell’educazione impartita ai giovani, spesso anche in modo inconsapevole; e cultura è quella che cerchiamo di proporre noi operatori attraverso le nostre attività scolastiche e trattamentali. Quella di Rallo è la dimostrazione diretta, vissuta sulla propria persona, di questo passaggio dalla cultura di origine a quella che gli è stata offerta come opportunità di studio, di conoscenza, che lui ha saputo trasformare anche in testi teatrali che raccontano il fenomeno mafioso dalla sua genesi agli sviluppi contemporanei. A chi gli faceva i complimenti per questo suo esemplare percorso di reinserimento sociale, Rallo rispondeva: “Io serio ero allora e serio sugno ora”. In una frase c’è tutto un programma, lo sforzo che la nostra società deve fare nel cogliere le potenzialità, anche in termini di semplice affidabilità, laddove esse si manifestino; evitando di lasciare parti di territorio in cui, nell’assenza dello Stato, vanno ad affermarsi altri valori, altri poteri, altri sistemi normativi. Dobbiamo cercare di mettere a frutto, auspicabilmente a servizio della legalità, le migliori risorse umane, come giustamente ha fatto il colonnello nella sua attività di scouting per i giovani studenti che mostrano particolari competenze informatiche, da impiegare all’interno della Direzione telematica della Guardia di Finanza per una sempre più efficace lotta alla criminalità. Milano. Pugilato in carcere a Bollate: un libro sul progetto “Pugni chiusi” di Roberta Rampini Il Giorno, 27 maggio 2021 L’esperienza rieducativa dello sport raccontata in “Per essere chiari” da un ex detenuto diventato volontario. Diventa (anche) un libro, il progetto “Pugni chiusi” avviato nel carcere di Bollate nel 2016. Dopo la realizzazione del docu-film e la mostra fotografica il progetto per insegnare pugilato ai detenuti è diventato la trama di un saggio, “Per essere chiari”, scritto da Antiniska Pozzi, Editore Milieu, collana Banditi senza Tempo. “Non è il pugilato in sé, come disciplina, che ti salva, è il tuo percorso di uomo nella boxe, perché per mezzo di quella fatica puoi riuscire così a dominare i demoni”, spiega l’autore. Ideatore e anima del progetto è Mirko Chiari, volontario in carcere, che ha coinvolto i detenuti in un corso di pugilato e che, chiarisce il libro, è più un percorso, accomuna chi viene da fuori e chi vive dentro. E dentro è stato anche Mirko, a 19 anni, un paio di giorni a San Vittore, per un motorino rubato. È lì che il narcotrafficante Pino gli ha spiegato che “tutti abbiamo un tempo e se siamo abbastanza fortunati possiamo deciderne cosa farne. La scelta non è sempre serena, perché dobbiamo condividerla con la bestia che ci abita. Quello che puoi fare è capire come tenere a bada la tua, e se c’è un altro modo per nutrirla rispetto a quello che hai trovato fino a oggi, un modo che non ti porti al gabbio”. È anche per questo che Mirko decide: chiude con i furti, inizia a lavorare, entra in palestra. Affronta 104 incontri, incontra maestri veri e non, compagni di allenamento che diventano amici. “Ogni incontro, ogni allenamento, ha scavato fiumi carsici, ha eroso cime - si legge nel romanzo - smussato angoli, creato spazi che non c’erano e cancellato zone che non avevano più senso di esistere”. Fino a quando, un giorno, “ho capito che non era più il pugilato al mio servizio, ero io che sentivo di dover essere al servizio del pugilato”. Nel 2016 torna in carcere, a Bollate, come volontario. E qui inizia il suo progetto e la box diventa in pochi mesi un modo per “combattere senza rifiutarsi di fuggire il dolore non è naturale. Ne consegue una dimensione di rispetto, nei confronti di se stessi prima che in quelli degli altri intorno”. La grinta e la forza dei detenuti-pugili del carcere lo scorso anno erano stati immortalati anche dalla macchina fotografica di Federico Guida, scatti che avevamo incantano la giuria della 14esima edizione del Premio Canon e ottenuto una Menzione speciale per la fotografia sportiva. Prima ancora era stato realizzato un documentario per la regia di Alessandro Migliore e grazie al sostegno di 93 donatori attraverso la piattaforma di crowd-funding Produzioni Dal Basso e alla co-produzione di Infinity. Ora il libro. “L’insegnamento lo faccio in gruppo, ma il percorso ognuno lo fa con sé stesso”, racconta Mirko che nel frattempo ha portato il progetto anche nel carcere San Vittore di Milano. Da mesi però “il percorso è sospeso causa Covid senza possibilità, per ora, di riprendere, ma speriamo che con il ritorno alla normalità si possa tornare ad allenarsi”. Intanto lui non è restato con i guantoni in mano, ma ha fatto partire un nuovo progetto con la fondazione Exodus. Tutto, sempre, gratis, “non so quantificare quanto lo sport mi abbia dato, rendo quello che posso, quello che ho lo dono”. Illegale la schedatura di massa. Storica sentenza della Cedu di Stefano Bocconetti Il Manifesto, 27 maggio 2021 La Corte europea dei diritti dell’uomo dà ragione a Snowden. Ma è una “vittoria” parziale. Non è una buona regola giornalistica, si sa, ma una volta tanto si può fare un’eccezione e cominciare da un commento. È quello dell’ex editore del Guardian, Alan Rusbridger, che otto anni fa rischiò tantissimo distruggendo le prove - pur di non consegnarle alle autorità - d’un gigantesco apparato di controllo mondiale. Le sue poche parole: “C’è voluto tanto, troppo tempo ma finalmente il mondo sa che Snowden aveva ragione”. E che avesse “ragione” ora è ufficiale: l’altro giorno, la Corte europea per i diritti umani, la Cedu, con una sentenza ha stabilito che le intercettazioni di massa dell’agenzia di spionaggio inglese erano “illegali”. E si parla esattamente di quella gigantesca, inimmaginabile schedatura globale - che comprendeva anche presidenti e leader di tutti i paesi del mondo - realizzata dalle intelligence britannica e statunitense, denunciata per primo da Edoard Snowden. L’ex analista a contratto della Nsa che ha fatto saltare il tappo sull’enorme piano di sorveglianza. Un’operazione denominata in codice Tempora e che ha permesso l’archiviazione di milioni e milioni di terabyte, raccolti setacciando e filtrando le reti di connessione. Quella della Corte di Strasburgo è una sentenza rilevantissima - che in linea di massima ha confermato un analogo giudizio di una corte inferiore di quattro anni fa - ma che certo non risolve tutti i problemi aperti. “Un primo passo, che però non basta”, per dirla con le associazioni che hanno promosso il ricorso legale. I giudici, sintetizzando in pillole a scapito del linguaggio giuridico, hanno stabilito che quel livello di sorveglianza era illegale per “alcune carenze fondamentali”. Innanzitutto, perché era stata autorizzata da un segretario di Stato e non da un organismo politico abilitato. E poi perché il “controllo totale” non era definito nei suoi limiti. Né di tempo, né quantitativi, diciamo così: quanto sarebbe dovuto durare, quante email, dati, foto, filmati, conversazioni si sarebbero potute sottrarre. Senza considerare che tutta l’operazione avrebbe dovuto essere sottoposta a verifica e controllo “in corso d’opera” e niente di tutto questo è stato fatto. Ed ancora: quel “sistema” non garantiva la protezione che le legislazioni internazionali prevedono per i giornalisti. La Cedu ha però aggiunto anche che non è fuori legge qualsiasi ipotesi di “sorveglianza di massa”. Pare di capire che la sua liceità dipenda da come si fa e da chi è autorizzata. Di più: la Corte ha anche definito - in linea di principio - “non illegale” la condivisione con paesi stranieri delle informazioni raccolte dall’intelligence britannica. La sentenza, insomma, non fa, né avrebbe potuto fare, chiarezza su cosa accadrà in futuro. Ma resta una “vittoria storica”, sempre per usare il commento della coalizione che s’è rivolta ai giudici di Strasburgo. La prima in assoluto. Arrivata grazie “non solo ad una persona ma a tanti”, per usare un tweet dello stesso Snowden. Vittoria che comunque - anche questo va detto - non avrà immediate ripercussioni. Perché il Regno Unito - un po’ furbescamente, cogliendo gli umori dell’opinione pubblica - aveva già fatto decadere il “Regulation of Investigatory Powers Act”, il cosiddetto RIPA, dell’inizio del millennio, che appunto assegnava poteri illimitati alla sua intelligenze e che aveva permesso allo spionaggio di partecipare all’operazione. Ora al suo posto c’è l’”Investigatory Powers Act”, varato 5 anni fa, e che prevede un minimo di regole in più. Al punto che ieri il portavoce di Downing Street se n’è uscito con una dichiarazione di questo tenore: “Il Regno Unito ha uno dei sistemi più solidi e trasparenti per la protezione dei dati e della privacy in tutto il mondo, pur in presenza di minacce in continua evoluzione”. Anche questo, in ogni caso, sarà da vedere visto che proprio ieri, in concomitanza con la sentenza, una delle associazioni inglesi in prima fila per i diritti, Liberty, ha fatto sapere di aspettare altre sentenze: che riguardano appunto la nuova normativa. Legge, per capire, che tutti a Londra chiamano “la carta dei ficcanaso”. E che i governi conservatori inglesi non abbiano proprio tutti i requisiti a posto per mostrarsi paladini della privacy, lo dimostra anche il tema che da qualche settimana ha ripreso ad occupare i media: la cessione a società private dei dati dell’NHS, il sistema sanitario britannico. Società che - ovviamente - si limitano a “collaborare” con le autorità pubbliche e che una volta finita l’emergenza coronavirus, dovrebbero cancellare dati e profili. Il problema però è che fra le società appaltatrici c’è la “Faculty AI”, che ha fornito un enorme data base per elaborare la campagna elettorale per la Brexit. E soprattutto c’è la Palantir. Sì, proprio il gruppo fondato dal miliardario della Silicon Valley, Peter Thiel, sodale di Trump, coinvolta in tutti i “casi sporchi” di spionaggio digitale. Dall’Iraq all’Afghanistan fino alle frontiere americane. Non un bel curriculum per gli utenti inglesi. Ddl Zan, Pd e 5S scrivono a Casellati: “In aula a luglio”. Ma i renziani si sfilano di Giovanna Casadio La Repubblica, 27 maggio 2021 I giallorossi rivolgono un appello alla presidente del Senato: “Stop all’ostruzionismo”. Italia viva insiste sulla strada del dialogo con la destra, ma il sospetto dei dem è che il partito di Renzi si presti a insabbiare la legge contro l’omofobia. Domani (giovedì 27) convocato ufficio di presidenza della commissione. Una breve riunione informale al Nazareno convocata d’urgenza dal segretario dem Enrico Letta per dire che sul ddl Zan non ci sono ripensamenti e bisogna approvarlo al più presto. Subito dopo il Pd con Movimento 5Stelle, Leu e Autonomie invia una lettera alla presidente del Senato, Elisabetta Casellati chiedendo che entro la prima settimana di luglio la legge, che porta il nome del deputato dem e attivista lgbt Alessandro Zan, vada in aula per il voto definitivo. Stop all’ostruzionismo della Lega e del presidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama il leghista Andrea Ostellari, denunciano i giallo-rossi. È l’ultimatum, prima di ricorrere alla procedura che prevede di portare un provvedimento direttamente in aula per l’impossibilità di esame in commissione. Ostellari, intanto, in tarda serata, ha convocato l’ufficio di presidenza della commissione domani (giovedì 27 maggio) alle alle 14.15 precisando che “le lettere sono sempre ben gradite” ma che non hanno nulla a che fare con la sua convocazione. I renziani però si sfilano. E insistono sulla strada del dialogo con la destra. Il sospetto dem è che Italia Viva si presti a insabbiare la legge e faccia da sponda alla destra. Dai giallo-rossi arriva quindi l’appello a Casellati. Scrivono: “Le segnaliamo l’impossibilità di proseguire l’esame del ddl Zan contro l’omotransfobia presso la commissione Giustizia. Il presidente della commissione Ostellari, sin dall’inizio dell’esame, ha adottato comportamenti palesemente ostruzionistici in aperta violazione del suo ruolo e delle sue funzioni di garanzia, impedendo il funzionamento della commissione e l’inizio dell’esame del provvedimento per ben quattro mesi rendendo, a tal fine, necessaria una votazione a maggioranza sul testo già approvato dalla Camera”. Sono le accuse di Pd-5S, Leu. Che elencano le tappe dell’ostruzionismo: “In primis, il presidente Ostellari ha nominato sé stesso Relatore del provvedimento pur avendo esternato pubblicamente la sua forte contrarietà al disegno di legge in esame, in modo assolutamente improvvido e inopportuno, forzando le buone prassi istituzionali nel rapporto tra il presidente e i componenti della commissione”. E poi via a seguire tutti gli altri rallentamenti: dall’accoppiamento del ddl Zan a quello Ronzulli-Salvini fino alle 170 audizioni accolte, che significherebbero tenere in ostaggio la legge per oltre 4 mesi. L’elenco di esperti, associazioni da ascoltare - aggiungono - è stato tenuto segreto per dieci giorni e reso noto solo nella seduta di ieri. “Perciò se il presidente Ostellari continuasse ad adottare comportamenti palesemente ostruzionistici e pretestuosi, impedendo alla commissione Giustizia l’esame del disegno di legge in oggetto e non riducendo a una settimana la durata delle audizioni, nonché la conclusione dello stesso affinché il provvedimento possa essere esaminato dall’assemblea del Senato nella prima settimana di luglio, le preannunciamo che ci troveremo costretti a chiedere la convocazione di una conferenza dei capigruppo per calendarizzare il ddl Zan”. A Casellati i giallo-rossi chiedono di intervenire per ripristinare “la correttezza istituzionale”. Ma certamente pesa la breccia aperta dai renziani e da chi, come l’ex capogruppo dem Andrea Marcucci, invita a rallentare in nome del dialogo e di una legge condivisa sull’omofobia. Non è la via indicata dal Pd né dai grillini e dalla sinistra. Lo scontro politico si complica. Migranti. Perché ci siamo assuefatti alle immagini della sofferenza di Mattia Ferraresi Il Domani, 27 maggio 2021 È terribile ma forse necessario ammettere che le immagini dei bambini morti sulle spiagge della Libia producono in noi un riverbero emotivo che dura appena lo spazio di un istante. Poi la nostra attenzione si sposta su un’altra immagine tragica, poi su un’altra e su un’altra ancora, una carrellata senza fine di fotogrammi della sofferenza. A ogni passaggio da un fotogramma all’altro una quota della carica comunicativa del soggetto inquadrato si disperde, la sua capacità di mobilitare la coscienza si affievolisce. È un anestetico che viene iniettato per gradi. Siamo in un cortocircuito: abbiamo l’obbligo di guardare i corpi senza vita di quei bambini, ma abbiamo anche l’obbligo di ammettere a noi stessi che più ne vediamo, meno ne soffriamo. È terribile ma forse necessario ammettere che le immagini dei bambini morti sulle spiagge della Libia producono in noi un riverbero emotivo che dura appena lo spazio di un istante. Poi la nostra attenzione si sposta su un’altra immagine tragica, poi su un’altra e su un’altra ancora, una carrellata senza fine di fotogrammi della sofferenza. A ogni passaggio da un fotogramma all’altro una quota della carica comunicativa del soggetto inquadrato si disperde, la sua capacità di mobilitare la coscienza si affievolisce. È un anestetico che viene iniettato per gradi. Da occasione per intraprendere un serio esercizio di empatia o sofferenza condivisa, l’immagine della morte - di più: della morte innocente - diventa anticamera dell’indifferenza. Intendiamoci: questo effetto non diminuisce di uno iota l’oggettiva gravità della tragedia che le immagini catturano e non costituisce un argomento sensato per limitare la rappresentazione e pubblicazione di certi scatti. Il problema ineludibile è che il soggetto che li guarda è esausto. Ha gli occhi saturi di visioni moralmente insostenibili, che finiscono per cancellarsi automaticamente dalla coscienza. C’è stato un tempo in cui la decisione di pubblicare immagini particolarmente crude o violente era motivata dalla ragionevole aspettativa che l’impatto scioccante potesse risvegliare gli animi intorpiditi, generare consapevolezza, mobilitare. Oggi questa aspettativa è assai meno ragionevole. La costante documentazione in tempo reale di guerre, genocidi, disastri naturali, carestie, soprusi, violenze di ogni tipo e natura ci permette di sapere e vedere molto più male di quanto potessimo vedere in passato, accorciando drasticamente le distanze. Nella preistoria dell’era digitale si credeva ingenuamente che questo avvicinamento alle sofferenze di persone lontane e invisibili ci avrebbe resi più sensibili ai destini altrui, specialmente dei più deboli. È vero il contrario. Più vediamo, meno proviamo compassione. Ciononostante, nelle redazioni continua a circolare una delle frasi più sciocche fra quelle che affliggono la professione giornalistica: “Non ne parla nessuno”. Il dramma è invece che tutti parlano di tutto, sempre. Il flusso informativo porta una quantità di immagini del dolore incommensurabilmente più grande rispetto a qualunque capacità di elaborazione umana. Scatta così una strana forma di rimozione emotiva. Certo, alcune immagini rimangono, diventando, come si dice, iconiche, ad esempio quella di Alan Kurdi, ma le più passano lasciando soltanto qualche increspatura passeggera. Si tratta di un’evoluzione di effetti che gli psicologi che si occupano di empatia ed elaborazione dei sentimenti collettivi hanno individuato da decenni. Il fenomeno del “psychic numbing”, l’anestesia psichica, è sintetizzato dalla frase “più persone muoiono, meno la cosa ci importa”: quando si parla di un elevato numero di vittime, come nella pandemia, diventa impossibile per la mente elaborarle e per la coscienza soffrire e agire di conseguenza. La percezione che ogni sforzo individuale sia vano per lenire sofferenze di proporzioni enormi è invece nota come “pseudo-efficiency”. Si è spesso pensato che concentrarsi su singoli episodi, casi e storie particolari, potesse aiutare a dare un volto e dunque a generare empatia e mobilitazione. Il fotogiornalismo ha dato un contributo enorme in questo senso. Ma le storie particolari sono diventate così tante, pervasive, onnipresenti e incessanti che gli occhi si sono assuefatti. Siamo in un cortocircuito: abbiamo l’obbligo di guardare i corpi senza vita di quei bambini, ma abbiamo anche l’obbligo di ammettere a noi stessi che più ne vediamo, meno ne soffriamo. Migranti. L’Alto commissariato Onu: nel Mediterraneo regna una “indifferenza letale” di Giansandro Merli Il Manifesto, 27 maggio 2021 Il rapporto dell’Unhchr sulla rotta migratoria centrale del “Mare Nostrum”. “In acqua le possibilità sono 50-50. Il mare non è semplice, puoi stare sicura o morire”, racconta una donna nigeriana agli intervistatori dell’Unhchr. La sigla indica l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani, che ieri ha pubblicato un nuovo rapporto sulla rotta migratoria che unisce i paesi costieri delle due sponde del “Mare Nostrum”. Il titolo è inequivocabile: Indifferenza letale: Ricerca, soccorso e protezione dei migranti nel Mediterraneo Centrale. “Evitabile” è la parola chiave del report: ci sono strumenti tecnici e obblighi giuridici sufficienti a evitare che il mare inghiotta vite e le spiagge restituiscano cadaveri. Lo studio è stato condotto tra gennaio 2019 e dicembre 2020: in quel periodo almeno 2.239 migranti sono morti tentando di attraversare il mare, di “bouzar” come dicono molti di loro, lungo la rotta centrale (69% delle vittime di tutto il Mediterraneo). Dall’inizio del 2021 tra corpi ritrovati e dispersi il tragico conteggio ha già raggiunto 632 vite (dato Oim). Ma questi numeri, sostengono le organizzazioni internazionali, sono al ribasso: ci sono naufragi di cui non sappiamo nulla o conosciamo solo alcune delle vittime. Tra 2019 e 2020, poi, quasi 20mila persone sono state ricondotte con la forza in Libia. La progressione delle catture indica una crescente efficacia della sedicente “guardia costiera” di Tripoli: 8.403 persone nel 2019, 10.352 nel 2020. Quest’anno sono già 9.659 (dato Oim). Per l’Unhchr, presieduto da Michelle Bachelet Jeria (ex presidente del Cile), sono 5 le questioni a monte della situazione: mancata assistenza ai migranti in pericolo in mare; intercettazioni e soccorsi pericolosi; respingimenti; criminalizzazione delle Ong; ritardi degli sbarchi e accoglienza inadeguata. Su ogni punto l’Alto commissariato fornisce dati, episodi e voci e poi alla fine indica a tutti i soggetti competenti, in primis le autorità europee e gli Stati di Italia, Malta e Libia, delle raccomandazioni. Sono menzionati i “respingimenti per procura”, cioè delegati ai libici ma coordinati da assetti europei, e i respingimenti privati, cioè operati da imbarcazioni commerciali. Come la El Hiblu che stava per riportare in Libia 108 persone su indicazione di un aereo della missione Sophia, ma è stata fermata da una protesta a bordo per cui Malta, dove poi sono sbarcati i migranti, ha accusato tre minorenni di terrorismo. Oppure come una petroliera filippina che a 44 miglia da La Valletta ha incontrato un barcone pieno di donne, ha chiesto indicazioni al centro di coordinamento dei soccorsi italiano e le ha riportate indietro. “Benvenute a Malta”, ha detto ridendo un ufficiale di Tripoli allo sbarco. Alcune sarebbero state vendute ai trafficanti. Tra le varie raccomandazioni una sembra diretta a ministero delle Infrastrutture e Guardia costiera italiana che in 12 mesi hanno disposto 9 fermi amministrativi di navi Ong: “Rivedere e sospendere ogni misura amministrativa, normativa e altra pratica animata a/risultante in prevenire o ostacolare le imbarcazioni umanitarie Sar dal sostenere i migranti in pericolo”. Il blocco navale, i dubbi dei generali. “Se attuato in Libia, attirerebbe migranti” di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 27 maggio 2021 Claudio Graziano, residente del Comitato di difesa dell’Ue: le carrette del mare ci punterebbero. Se facessimo sul serio, sarebbe una vera azione militare sulla Libia. “Che può essere intrapresa solo con una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu o su richiesta del Paese interessato: fuori da questi casi, il blocco navale è una misura di guerra”, spiega Claudio Graziano, presidente del Comitato di difesa dell’Unione europea. E non si fa con due o tre navi, occorre una forza adeguata che si assuma responsabilità gravi: fino ad affondare i battelli che provino a violare il blocco. Il richiamo storico più facile è il blocco navale degli Stati Uniti contro Cuba durante la crisi dei missili russi del 1962. Nel nostro caso, un blocco potrebbe ritorcersi contro di noi, perché qui non parliamo di embargo sulle armi, ma di carrette del mare coi profughi a bordo: si faccia avanti chi se la sente di colarle a picco. “Il blocco potrebbe allora costituire un pull factor, un fattore di attrazione”, continua infatti il generale Graziano, “perché le barche dei migranti punterebbero dritto verso le nostre navi e non è che puoi lasciarle affondare girandoti dall’altra parte, nessuna marina militare al mondo, nel rispetto del diritto internazionale e dei principi umanitari, lo accetterebbe”. Non è buonismo, è onore. Tuttavia, il blocco navale nella politica nostrana è un’idea… carsica. Scorre sotterranea e riemerge a ogni tensione sui migranti, di recente con l’ennesima crisi di Lampedusa e con quella dell’enclave spagnola di Ceuta: “Ci vuole il blocco navale!”. Da anni è il mantra di Giorgia Meloni. E molti lo sostengono, specie a destra. Ma anche il pd Nicola Latorre lo invocò nel 2015, perché l’Onu fermasse “il traffico di esseri umani dalla Libia”. Luciana Lamorgese, ora presa ad arginare i flussi tunisini, venne iscritta un anno fa a sua insaputa in quest’elenco da un post di Fratelli d’Italia che rovesciò il senso di una sua frase: “Non credo di poter bloccare barchini autonomi affondandoli o non facendoli arrivare qui, un’opera va fatta nel Paese di provenienza”, disse la ministra. “Finalmente il governo si sveglia e scopre il blocco navale!”, ne dedussero arditamente quelli. Argomento scivoloso, il blocco pare soprattutto un pericoloso miraggio, come spiegano molti comandanti militari. E nel marzo 1997 l’Italia lo tocca con mano. È in corso la seconda crisi dell’Albania: migliaia di profughi provano ad attraversare l’Adriatico. In un clima di isteria collettiva, la cattolicissima Irene Pivetti dichiara al Tempo che “andrebbero ributtati in mare” (salvo cercare poi di metterci una toppa surreale: “Sono stata fraintesa, volevo dire: rimettiamoli in mare”). L’ex presidente leghista della Camera è anche sfortunata, quel 27 marzo. Perché, 24 ore dopo, la sua frase infelice si invera in tragedia. La nostra corvetta Sibilla affonda al largo di Brindisi la “Kater I Rades” partita da Valona, in una manovra “dissuasiva” volta a impedirne il passaggio: nel naufragio muoiono 108 albanesi. A Palazzo Chigi c’è Prodi: sicché per paradosso l’unico vero blocco navale in Italia lo attua con esiti disastrosi la sinistra di governo (la quale ha sempre contestato che di blocco navale si trattasse, sostenendo la tesi del “pattugliamento concordato” con gli albanesi). Berlusconi, all’opposizione, si precipita in Puglia dai superstiti e parla come una Carola Rackete ante litteram: “Nostro dovere è dare temporaneo accoglimento a chi fugge da un Paese vicino cercando salvezza in un Paese che ritiene amico”. Dodici anni dopo, di nuovo premier, sosterrà i respingimenti di Maroni, per i quali l’Italia verrà poi condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Dal piano Anaconda contro i confederati nella guerra civile americana fino al “blocco della fame” della marina inglese contro i porti tedeschi, è lunga (ma non gloriosa) la storia del blocco navale. Servono decine di corvette e pattugliatori, mezzi aerei e regole d’ingaggio: nel nostro caso in uno scenario vastissimo, nel Canale di Sicilia, a respingere i migranti. L’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, capo di stato maggiore della Marina al tempo di Mare Nostrum, l’operazione che salvò 152 mila naufraghi (arrestando 366 scafisti) tra il 2013 e il 2014, sostiene anche lui che il blocco si trasformerebbe in soccorso umanitario: “L’unica possibilità per essere efficaci sarebbe posizionare le navi militari nell’immediata vicinanza della costa libica, in vista delle spiagge da cui partono i migranti, per impedirne l’imbarco sui gommoni: un’operazione irrealistica sotto il profilo politico, quanto meno sotto l’egida nazionale”. Si arriverebbe a un passo dal boots on the ground, l’intervento a terra. L’ammiraglio Fabio Caffio (autore del “Glossario del diritto del mare”) ha sostenuto che il blocco è “irrealizzabile e illegale”. Certo, come meditava Maroni nel 2011, si potrebbe “fermare, soccorrere e riportare da dove è partito” chi viene intercettato. Ma è teoria. A parte i rischi di stragi e naufragi (come nel caso Kater I Rades), resta il problema dei respingimenti in mare: illegali, perché non si consente al profugo di chiedere asilo; due volte illegali, se il Paese in cui lo si riporta è piagato da violenze (è il caso della Libia). Nel nostro caso, inoltre, la questione è una ferita aperta. La scorsa estate sono arrivati in Italia i primi eritrei che hanno vinto la causa Osman: 89 persone, partite dalla Libia, furono intercettate dagli italiani il 1° luglio 2009 (ancora Maroni agli Interni) e riportate in Libia con l’inganno. Un precedente pesante. Di certo però non sufficiente ad archiviare ricadute geopolitiche. “Troppo spesso - riflette Graziano - i migranti vengono usati come un’arma contro Europa e Italia: è inaccettabile l’uso ricattatorio degli esseri umani. Ma in Libia bisogna andare alla radice del problema, che non è solo dell’Italia. Il blocco navale in sé non risolve la crisi. E, se la situazione a terra è immutata, il problema rimane”. Già. Alzi la mano il marinaio che non avrebbe voluto salvare gli ultimi piccoli naufraghi rigettati lì, sulla spiaggia di Zuwara, come bambolotti spezzati dal mare. L’Europa, i voli e la Bielorussia, solo parole di Federico Fubini Corriere della Sera, 27 maggio 2021 Dure prese di posizione dopo che il regime bielorusso ha dirottato un Ryanair fra Atene e Vilnius e, affiancandogli un caccia MiG-29, l’ha costretto ad atterrare a Minsk. Ma i voli proseguono regolarmente. Ieri un Embraer 295 da 125 posti della Belavia proveniente da Minsk, Bielorussia, è atterrato a Fiumicino alle 11 e 40 con sessantacinque passeggeri a bordo. Un’ora dopo, è ripartito per Minsk con un carico di trentuno persone. Semivuoto, ma senza alcun contrattempo. Il giorno prima un altro aereo della Belavia, la compagnia di bandiera bielorussa, era atterrato e ripartito da Milano Malpensa. E la vendita di biglietti per il volo di stasera prosegue. Come se niente fosse accaduto. Ora, confrontate tutta questa surreale normalità con le parole dei leader europei dopo che il regime bielorusso ha dirottato un Ryanair fra Atene e Vilnius e, affiancandogli un caccia MiG-29, l’ha costretto ad atterrare a Minsk. Lì Roman Protasevich, oppositore del dittatore Aleksandr Lukashenko, è stato arrestato con la compagna Sofya Sapega. È successo domenica. La reazione dei leader dell’Unione europea è stata immediata. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione: “Oltraggioso e illegale, ci saranno conseguenze”. Martedì poi Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, ha pubblicato sui suoi profili social una cartina delle rotte aree d’Europa con un buco corrispondente allo spazio aereo bielorusso. Commento di Michel: “L’Europa in azione”. Sì, perché quel giorno il vertice dei capi di Stato e di governo dell’Unione aveva risposto all’atto di pirateria di Lukashenko con una contromossa: una “no-fly zone” - un teorico divieto di sorvolo - sopra l’intera Bielorussia. Davvero? A leggere bene i testi c’è solo un invito non vincolante alle compagnie europee a non sorvolare la Bielorussia e l’intenzione (dichiarata) di bloccare nell’Unione le compagnie bielorusse. Ma niente di già definito. Ora, immaginate come avrebbe reagito la Casa Bianca se un regime centramericano avesse dirottato in quel modo il volo di una compagnia statunitense. Perché la credibilità geopolitica la si ha, oppure si deve lavorare molto più duro per costruirla di come fa oggi l’Unione europea. Spagna. La Corte suprema dice no all’indulto per i leader catalani ansa.it, 27 maggio 2021 L’ultima parola rimane tuttavia in mano al governo di Sánchez. La Corte Suprema spagnola ha espresso parere contrario alla concessione dell’indulto per i 12 leader politici indipendentisti della Catalogna condannati in seguito al tentativo di secessione della regione nel 2017, attualmente una delle questioni più spinose sul tavolo del governo di Pedro Sánchez. Lo riportano i media iberici. Si tratta però di un parere non vincolante; la decisione sull’eventuale concessione del perdono rimane nelle mani dell’esecutivo. Tuttavia, secondo quanto spiega El País, l’opposizione dell’alta corte consentirà che sia possibile concedere solo un indulto parziale. La Corte Suprema sostiene che non riscontra argomenti sufficienti per giustificare l’indulto. Anche il pubblico ministero si è espresso contro la concessione di questa misura. I 12 leader condannati - tra cui c’è l’ex vicepresidente della Catalogna Oriol Junqueras - sono stati dichiarati colpevoli di reati di sedizione, malversazione e disubbidienza. Sánchez ha di fatto aperto a questa possibilità spiegando che la decisione del suo governo si baserà sul “valore costituzionale” della “concordia” e non su un desiderio di “vendetta”. Le parole del premier socialista hanno provocato durissime reazioni dell’opposizione. “Questa decisione rappresenterà la fine del Partito Socialista nella Spagna costituzionalista”, gli ha detto in Parlamento Pablo Casado, leader del Partito Popolare. Siria. Assad verso il quarto mandato, ma senza democrazia di Luca Geronico Avvenire, 27 maggio 2021 Le presidenziali dall’esito scontato, ma solo nelle regioni controllate dal governo: bocciate le candidature dell’opposizione. Così il regime cerca una legittimità internazionale. “Dottore, il prossimo - a capitolare dopo Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto - sei tu”. Ha poco più di 10 anni la scritta irridente dei ragazzini di Daraa che, nel marzo del 2011, diede il la alla rivoluzione siriana, ma nessuno può pensare che le elezioni di oggi rappresentino una reale svolta. Con due candidati fantoccio a fianco di Bashar al-Assad avviato a una scontata riconferma per la quarta volta alla presidenza della Siria - sino al 2028, in un contesto di collasso economico e di spartizione territoriale - il voto rappresenta un’operazione di facciata, semmai allo scopo di aprire un possibile spazio di negoziato internazionale. La consultazione avviene solo nelle zone della Siria sotto il controllo del governo - dove vivono poco più di 10 milioni di persone - e con una Corte costituzionale che ha passato al setaccio una lista di 51 candidati dando, grazie a una Assemblea nazionale completamente controllata dal partito Baath, il benestare solo ad altri due candidati, oltre al presidente uscente: l’ex ministro Abdallah Salloum Addallah definito un “sostenitore del regime” e Mahmoud Ahmad Marai, un “oppositore interno” tollerato dal regime e che ha partecipato ai colloqui di Ginevra voluti dalle Nazioni Unite. Una sbiadita replica del voto del 2014, bollato anch’esso come una “farsa” dagli oppositori e dopo che nel 2007 un referendum plebiscitario aveva confermato al potere l’allora ancora giovane figlio di Hafez al-Assad. Una norma capestro sulle candidature che, per giunta, permette di presentarsi solo a chi risiede nel Paese da almeno 10 anni, impedendo in questo modo qualsiasi presenza dell’opposizione all’estero. Così, dopo che la bella Asma Assad avrebbe superato tra il 2018 e il 2019 un grave problema di salute, e sconfitto assieme al marito Bashar pure il Covid, la “coppia reale” si prepara a perpetuare l’immagine patinata da imperturbabili frequentatori del jet set, mentre davanti al mondo la Siria vuole perpetuare l’”illusione democratica”. In realtà è, da quasi un decennio, il Paese dei 13 milioni tra profughi e sfollati interni, e dei 2 milioni di minori senza accesso all’istruzione, mentre l’Acnur stimava nel 2019 che l’83 % della popolazione vivesse sotto la soglia di povertà. Una percentuale che non può che essersi ulteriormente alzata durante la pandemia che ha causato ufficialmente 24mila casi e 1.740 vittime. Cifre evidentemente sottostimate in un Paese dalle limitate capacità diagnostiche. In realtà, a dieci anni dalla rivolta di Daraa, la Siria di fatto tripartita fra aree governative, area Nord orientale in mano ai curdi, e l’ultima provincia ribelle di Idlib - dove sono ammassati circa 4 milioni di “oppositori” - ulteriormente suddivisa fra l’area di influenza di Ankara lungo il confine turco, e la zona sotto il controllo di Mosca in base a una tregua che la crisi in Azerbaigian lo scorso settembre ha reso ancora più fragile. E il territorio sotto il controllo di Damasco, formalmente più esteso di quella che il rais controllava nel 2014, è quello di un Paese a “sovranità decentrata” dove prevalgono gli interessi della Russia - sempre più insediata nella base navale di Tartus, strategico sbocco al Mediterraneo - come gli interessi delle milizie che rispondono direttamente a Teheran. Basi iraniane in territorio siriano contro cui, periodicamente, Israele compie raid aerei in ritorsione ad attacchi missilistici sulle alture del Golan, mentre a fine febbraio uno Joe Biden appena insediato autorizzò un raid contro obiettivi iraniani in Siria in risposta agli “attacchi contro personale americano” a Erbil. La dinastia degli Assad perpetrerà il suo regno, ma riuscendo sempre meno a governare il suo territorio, una vera “palude” dove il revanscismo del Daesh, il corridoio sciita e la brutalità di chi è abbarbicato al potere e di chi ha militarizzato l’opposizione producono una mattanza dei diritti umani su una popolazione civile oltre lo stremo. Cosa avvenga, al di sotto dell’illusione democratica, lo dimostra l’inchiesta che, secondo la stampa anglosassone, un gruppo di legali avrebbe fatto aprire in Gran Bretagna contro Asma Assad per aver “sostenuto e incoraggiato il terrorismo” in Siria. Questo mentre, dopo il massacro della Ghouta nel 2013, nuove accuse sono giunte al Consiglio di sicurezza per l’uso da parte del regime di armi chimiche a Saraqib. Un altro episodio che chiede verità, come “verità” sulla sorte di padre Paolo dall’Oglio, a più di 7 anni dalla sua scomparsa, hanno chiesto i fratelli Francesca e Giovanni Dall’Oglio. E una dichiarazione di Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia avverte la comunità internazionale di non riconoscere “elezioni illegittime”. Due sfidanti per un posto già assegnato Gli sfidanti sono chiaramente delle comparse, per consentire all’organizzazione di potere che ruota attorno al governo degli Assad di confermarsi con lievi spostamenti di equilibrio interno, ma senza che cambi la struttura che da 21 anni ormai ruota attorno a Bashar al-Assad. Abdullah Salloum Abdullah, 65 anni, ex ministro di Assad designato dal Partito socialista unionista alleato del Baath di Assad, ritiene che “bisogna espellere tutti i terroristi e israeliani, americani e turchi dalla Siria e procedere alla completa liberazione di tutte le terre siriane”. Nessuna menzione, invece, per russi e iraniani. Abdullah Salloum Abdullah, in una intervista, ha pure “lanciato un appello, per la lotta alla corruzione che è presente in tutte le istituzioni”. L’altro sfidante è Mahmoud Ahmad Marie, avvocato nato 64 anni fa a Rif Dmashq, è stato espulso dal partito Baath al governo, ma fa parte di quella opposizione tollerata dal regime che ha partecipato ai colloqui di Ginevra organizzati dall’Onu. Mali. Golpe su golpe, tutto il potere ai militari con il colonnello Goïta di Stefano Mauro Il Manifesto, 27 maggio 2021 Meno di 48 ore dopo aver destituito il presidente ad interim, Bah N’Daw, e il suo primo ministro, Moctar Ouane, il colonnello Assimi Goïta diventa di fatto il nuovo presidente della transizione. Nel pomeriggio di ieri Bah N’Daw ha rassegnato le sue dimissioni e quelle del suo primo ministro a colui che fino a quel momento era stato il suo vicepresidente, portando allo scioglimento definitivo del governo di transizione che era stato annunciato nel pomeriggio di lunedì. Il Mali, dopo appena dieci mesi, torna di fatto sotto il controllo dei militari del Consiglio nazionale per la salvezza del popolo (Cnsp) guidati dal colonnello Assimi Goïta che ha motivato l’arresto delle prime due alte cariche “per non aver rispettato la Carta di Transizione” e per “non essere stato consultato riguardo al nuovo rimpasto di governo” che ha visto l’esclusione di due militari di peso del Cnsp dall’esecutivo, rispettivamente dalle cariche di ministro della Sicurezza e della Difesa. Detenuti nel campo militare di Kati - dove lo scorso 18 agosto è iniziato il golpe che ha deposto l’ex-presidente Ibrahim Boubacar Keita - i due leader maliani hanno ricevuto ieri mattina la visita di una delegazione della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cedeao) guidata dal mediatore Goodluck Jonathan. Proprio durante la visita dei mediatori della Cedeao i due leader maliani hanno annunciato “le loro dimissioni” rilasciando il mandato, molto probabilmente sotto costrizione, nelle mani di Goïta. Secondo la stampa locale non è stato fornito nessun dettaglio riguardo alla carica del primo ministro, anche se nel primo pomeriggio di ieri sono iniziate le consultazioni, con il “Movimento 5 Giugno” M5-Rfn, principale raggruppamento politico del paese. Riguardo alle reazioni politiche, comunque, le opposizioni si presentano divise. Da una parte la corrente del M5 che vede come leader Choguel Maiga non esclude “la partecipazione del movimento al nuovo esecutivo”, rimasto escluso dal governo di Ouane, anche se ha annunciato che riferirà con un comunicato ufficiale quando avrà concluso “il proprio dibattito interno”. Al contrario il coordinamento di movimenti, associazioni e simpatizzanti dell’imam Mahmoud Dicko si dichiara “attento a seguire gli eventi” e chiede “alla sua base di restare mobilitata”. La società civile maliana, attraverso un comunicato dell’Associazione maliana per i diritti umani, ha condannato duramente “il colpo di stato” e ha invitato alla “mobilitazione popolare per salvare la fragile democrazia maliana”. L’Unione Nazionale dei Lavoratori del Mali (Untm) ha sospeso ieri lo sciopero generale, lanciato in questi giorni per richiedere “un aumento dei salari” a causa della dura crisi economica, per “non aggravare la difficile situazione che sta vivendo il paese”. In questo contesto appare impossibile la missione del diplomatico della Cedeao, Goodluck Jonathan, che già lo scorso agosto aveva mediato per una transizione guidata da civili verso elezioni democratiche previste nel marzo 2022. Durissime le reazioni e le prese di posizione da parte del presidente francese Macron che ha condannato il colpo di stato militare e sospeso le attività della missione militare Barkhane, con le oltre 5mila truppe francesi impegnate nella lotta al fenomeno jihadista, uno dei principali flagelli del Mali. Anche la Cedeao e l’Ua hanno richiesto “la liberazione incondizionata dei leader civili maliani” e hanno minacciato, come già avvenuto la scorsa estate, “un inasprimento delle misure economiche e nuove sanzioni nei confronti della giunta militare”.