Ergastolo ostativo, Antigone: “Più facile uscirne con la morte che con il rientro in società” di Teresa Valiani redattoresociale.it, 26 maggio 2021 L’associazione nazionale chiama a raccolta i suoi esperti per fare il punto dopo la pronuncia della Consulta e la dichiarazione di incostituzionalità. I dati e i commenti dei giuristi. 1784 detenuti all’ergastolo, il 70% ostativo. “Nell’ultimo decennio, ogni anno, le persone morte in carcere sono state più di quelle che hanno ottenuto la liberazione condizionale”. Un anno di tempo: è quello concesso al Parlamento italiano per adeguare la nostra legislazione alla pronuncia della Consulta che lo scorso 15 aprile ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo “ostativo”: il carcere a vita che prevede l’accesso alla liberazione condizionale solo se si collabora con la giustizia. E mentre è iniziato il conto alla rovescia, giuristi ed esperti studiano e propongono le possibili forme di adeguamento. Per fare il punto sulle “Ragioni della Corte e il ruolo del Parlamento”, l’associazione Antigone ha promosso questa mattina un incontro online, condotto da Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione, con due componenti del comitato scientifico: Ignazio Juan Patrone, già sostituto procuratore presso la Corte di cassazione e principale autore dell’amicus curiae che Antigone ha presentato alla Consulta in occasione della decisione, e Marco Ruotolo, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università Roma Tre. In Italia 1.784 detenuti all’ergastolo, il 70% ostativi - “La convinzione che ‘in Italia l’ergastolo non esiste’ è smentita dai numeri” ha sottolineato Susanna Marietti delineando il quadro nazionale ed europeo. “Al 31 dicembre 2020 le carceri italiane ospitavano 1.784 detenuti all’ergastolo con numeri in costante aumento. All’inizio degli anni 90 questo dato si aggirava intorno alle 400 unità”. Un andamento fisiologico per il maggiore flusso in entrata rispetto a quello in uscita “ma non solo e nei prossimi anni si prevede un ulteriore aumento a causa della legge del 2019 che rende inammissibile il giudizio abbreviato e la conseguente sostituzione di pena per i delitti puniti con l’ergastolo”. In crescita anche il peso percentuale sul totale dei condannati: “All’inizio del millennio eravamo intorno al 2,8 per cento, oggi sfioriamo il 5. Dei circa 1.800 detenuti ergastolani, oltre il 70 per cento sono ostativi: questo ergastolo senza speranza pesa quasi per i tre quarti del totale”. Uno sguardo all’Europa. “Nell’Europa allargata (47 Paesi del Consiglio d’Europa) ci sono oltre 27 mila detenuti ergastolani e l’Italia pesa con un 6,5 per cento: in termini assoluti - ha proseguito la coordinatrice di Antigone - seconda solo a Turchia, Russia e Regno Unito. Rilevante anche il numero degli ergastolani sul totale degli abitanti: in Italia registriamo un 2,9 ogni 100 mila abitanti mentre in Europa il valore mediano è 1,4: l’Italia occupa il 36mo posto su 47, dopo di noi Turchia, Estonia, Lettonia e pochi altri. In Italia l’ergastolo esiste nella prassi e nella norma ed è andato crescendo senza che ci fosse un parallelo andamento del crimine”. “Nell’ultimo decennio, in ogni anno le persone morte in carcere sono state più di quelle che hanno ottenuto la liberazione condizionale: 33 tra il 2001 e il 2020 contro 111 ergastolani deceduti (dato in crescita). È più facile uscire dall’ergastolo con la morte che con il rientro in società - ha concluso Susanna Marietti. Speriamo che questo stato di cose cambi con la pronuncia della Corte Costituzionale”. Il parere degli esperti - “La materia è scottante - ha commentato Juan Patrone -: dietro a quella che è una ideologia della lotta al crimine organizzato si è creata attenzione da parte dell’opinione pubblica. Nelle settimane precedenti alla pronuncia molti magistrati, soprattutto le Procure, hanno manifestato la necessità del mantenimento dell’ergastolo ostativo per il crimine organizzato. La Corte affronta la questione e diventa una ‘Corte legislatore’ perché indirizza il legislatore a intervenire nel modificare sia nei tempi che nei modi una disciplina. Ed è una novità. Così come l’importante apertura alla società civile con lo spazio riservato alle osservazioni arrivate dall’esterno”. Nello specifico, “i punti ora sono due: onere della prova e competenza. Onere della prova: se una persona è detenuta da molti anni, ha ricevuto visite solo dei parenti stretti, ha seguito i programmi, non ha subito sequestro di cellulari, pizzini o altro materiale, se non risultano contatti con altre persone provenienti dagli stessi ambienti criminali, mi domando: cosa altro deve provare? E mi risulta ardua l’idea che una persona debba provare di non fare una certa cosa. Il secondo problema riguarda la competenza territoriale. Sarebbe molto pericolosa una giurisprudenza a macchia di leopardo ma l’accentramento in un’unica sede con una preponderanza di un Pubblico ministero come la direzione nazionale antimafia sarebbe una deviazione piuttosto forte anche se mi rendo conto che le ragioni potrebbero anche esserci”. Il possibile seguito legislativo - “Per come leggo i contenuti dell’ordinanza della Corte - ha spiegato Marco Ruotolo -, il ‘seguito’ legislativo dovrebbe orientarsi su altri punti. Bisognerebbe ragionare, anzitutto, sulla questione di come superare la permanente e condivisibile presunzione di non ravvedimento conseguente alla mancata collaborazione. Il profilo del capo clan, che peraltro, di solito, resta in regime di 41bis anche a distanza di tempo dal reato o dalla condanna, o dell’affiliato è ben diverso da quello di chi abbia agevolato l’associazione o si sia avvalso del metodo mafioso. È qui che il legislatore potrebbe introdurre, riguardo alla posizione dell’estraneo, la prova in positivo in luogo della prova negativa, non precludendo, anche in assenza di collaborazione, l’accesso alla liberazione condizionale ‘salvo che siano stati acquisiti elementi tali da far ritenere sussistenti attuali collegamenti con la criminalità organizzata’. Per il “partecipe”, viceversa, questo accesso resterebbe possibile “allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata” (e “il pericolo del ripristino di tali collegamenti”, sempre ove, come già scritto, s’intenda ribadire tale condizione pure per la liberazione condizionale). La prima proposta di legge - “Una prima proposta di legge di recente annunciata - prosegue Ruotolo -, sembra puntare su tre aspetti: l’inversione dell’onere della prova (è il detenuto a dover dimostrare di aver rescisso i legami con la criminalità), l’accentramento della competenza per le richieste sui ‘benefici’ presso il Tribunale di sorveglianza di Roma e la necessità di acquisizione del parere del Procuratore nazionale antimafia o del procuratore distrettuale antimafia. Due di questi punti sono già compresi nelle indicazioni presenti nella decisione della Corte costituzionale riguardante i permessi premio. Quello non compreso, e che mi desta perplessità, riguarda la competenza esclusiva che sarebbe assegnata al Tribunale di sorveglianza di Roma, proprio perché valutazioni che riguardano il percorso del singolo richiedono, a mio giudizio, che la valutazione sia compiuta in ossequio al principio di prossimità, essendo il magistrato del luogo di espiazione quello che dovrebbe avere migliore conoscenza della persona condannata. L’altro punto sul quale ragionare riguarda le cosiddette misure intermedie, lavoro all’esterno e semilibertà, per le quali la corte auspica in modo chiaro un intervento del legislatore. La preclusione assoluta dovrebbe saltare anche per queste, nella logica del possibile avvio di un percorso di recupero della libertà”. Riforma e 41 bis - “Nell’opinione pubblica si fa molta confusione sulla base di una sorta di equazione per cui i condannati per delitti connessi al fenomeno mafioso sarebbero tutti in regime di 41-bis - spiega il professor Ruotolo. Sulla base delle pronunce della Corte costituzionale nessun condannato che abbia conservato collegamenti con la criminalità organizzata potrà usufruire di benefici. E la collaborazione, insieme alla rescissione dei collegamenti, resterà la ‘via maestra’ per poter ottenere permessi-premio e liberazione condizionale, nonché semilibertà e lavoro all’esterno. Se si sceglie di non collaborare l’accesso a quelle misure sarà comunque difficile e persino improbabile, ma non più impossibile, essendo finalmente ammesso che il condannato possa dimostrare, nonostante quella scelta, di essere una persona diversa e soprattutto di non aver più rapporti con la criminalità organizzata”. Ergastolo ostativo e ruolo del carcere nella lotta alle mafie di Emma Corsini politicalab.it, 26 maggio 2021 L’abolizione dell’ergastolo ostativo torna a farci riflettere su quale sia lo scopo del carcere. Un tema molto delicato, specie se visto in rapporto alle associazioni mafiose. Il 15 aprile la Corte costituzionale si è pronunciata in merito all’ergastolo ostativo ritenendolo incostituzionale e chiedendo al Parlamento una modifica dell’art.4 bis dell’ordinamento penitenziario entro un anno. Ma cosa si intende per ergastolo ostativo? Il termine, coniato dalla dottrina, lo fa differire dal comune ergastolo in quanto esclude la possibilità che il detenuto possa accedere ad alcuni benefici in caso di buona condotta: nega al condannato di poter praticare lavori socialmente utili e di coltivare i propri interessi affettivi e sociali. Queste imponenti limitazioni sono scaturite in seguito alle stragi di mafia culminate con la strage di Capaci e Via D’Amelio che fecero emergere la necessità di sanzionare le condotte mafiose in modo più repressivo. I reati disciplinati dall’ergastolo ostativo sono connotati della presenza di una certa pericolosità sociale e appartengono a più di un genere, fra cui appunto i reati di mafia. L’unico mezzo con cui il detenuto può cambiare la propria condizione di pena perpetua è acconsentendo a collaborare con la giustizia, in caso contrario al reo non viene concessa la possibilità di alcun beneficio. In ragione della sua durezza, l’ergastolo ostativo ha da sempre diviso le opinioni relative alla sua applicazione e al suo funzionamento, in quanto è in contrasto con la funzione rieducativa della pena. Il dibattito è culminato infine con la dichiarazione della sua incostituzionalità, nonostante le opinioni su questo tema siano ancora molto divergenti. Vi è infatti chi si basa sulla presunzione assoluta di pericolosità del condannato nel momento in cui questo si rifiuta di collaborare con la giustizia, dando modo di credere che il detenuto possa mettere a repentaglio il contrasto alla criminalità organizzata. C’è chi invece riconosce che dietro la scelta di non collaborare con la giustizia vi possano essere svariate ragioni, in primis la paura di mettere in pericolo i propri familiari rilasciando nomi e informazioni alle autorità. L’art. 3 della Cedu e l’art. 27 della Costituzione sostengono la tesi che questo metodo leda quelli che sono i diritti dell’uomo e non garantisca la rieducazione del condannato, che è uno dei pilastri su cui dovrebbe fondarsi il sistema carcerario. Di contro, buona parte di coloro che hanno titolo per parlare di mafia convergono nel dire che si è mafiosi fino alla morte, a meno che non si scelga di collaborare: in sostanza questo “colpo” all’ostacolo ostativo sarebbe un favore alla mafia. La Corte Costituzionale si è oramai pronunciata in merito. Lasciando amareggiati coloro che ritenevano che l’appartenenza ad un’associazione di stampo mafioso implicasse un’adesione stabile, perpetua nel tempo, fino a che il reo non avrebbe compiuto un gesto di distacco emblematico, quale il decidere di collaborare con la giustizia, visto in passato come unico atto in grado di smentire il carattere assoluto della presunzione. Le discussioni che hanno accompagnato la decisione di incostituzionalità di questo metodo di repressione hanno riportato ad una presa di coscienza generale sul ruolo del carcere e sui mezzi usati per conseguire gli obbiettivi che esso ha. Il contesto penitenziario, infatti, da una parte mira al mantenimento dell’ordine sociale ma dall’altra svolge anche un importante funzione pedagogica per i detenuti. Punire ed educare sono due concetti evidentemente diversi. In relazione all’educazione di uomini accusati di mafia trovare un compromesso fra punire ed educare è ancora più complesso ed i rischi sono molteplici. Per il detenuto infatti le regole a lui imposte dal carcere non sono legittime, e quando si parla di mafia facciamo riferimento ad un sistema di valori che non fa riferimento allo Stato, bensì ad un ordine etico parallelo. È quindi necessario, affinché un detenuto possa collaborare e progredire nel sistema penitenziario, che veda le sanzioni a lui imposte dotate di legittimità, o meglio, che all’ordine a lui imposto si affianchi un ordine voluto, che rispetti nonostante i suoi legami con la mafia. Molto spesso le pene più dure altro non fanno che de-legittimare la visione della sanzione dal punto di vista del detenuto, rallentando il processo formativo, che nel caso delle mafie, è utile anche in previsione di una collaborazione con lo Stato. I pentiti e coloro che nel carcere hanno deciso di collaborare con la giustizia sono infatti da sempre una delle più grandi risorse nella lotta alle mafie. Lo Stato non può quindi perdere di vista la natura interattiva del reinserimento sociale, da compiersi con tutte le accortezze del caso, sia dal punto di vista umano che puramente utilitaristico, come in prospettiva di una conversione del reo mafioso. Ovviamente le carceri non sono l’unico modo per affrontare il dilagare capillare mafioso, ma sono uno dei mezzi che lo Stato possiede, ed è bene che siano gestiti seguendo come possibile i particolarismi di ogni caso. Parallelamente a questo, è appurato che il modo migliore per combattere la mafia è riaffermare con minuzia i principi dello Stato di diritto. Poiché la mafia prospera dove e quando lo Stato di diritto latita. Cosa non torna sulla morte di Musa Balde di Adriano Sofri Il Foglio, 26 maggio 2021 Ho delle domande sulla storia di Musa Balde. Eccole. Ci sono tre persone che l’hanno picchiato furiosamente. Tre vigliacchi, dunque. Però nelle cronache dopo la loro identificazione, quando il video con la loro impresa gira, i tre vengono descritti così: “Due siciliani originari di Agrigento, di 28 e 39 anni, e uno di 44 anni, originario di Palmi (Reggio Calabria) ma tutti domiciliati a Ventimiglia”. Benché siano residenti a Ventimiglia, cioè, sono di Agrigento e di Palmi, che suona più di un dettaglio anagrafico. Avremmo letto, per esempio, “Due veneti originari di Vicenza, e uno ligure, di Rapallo, ma domiciliati a Ventimiglia”? Infatti il razzismo, o qualcosa che gli somiglia, comprende una gamma di gradini. I tre, identificati, vengono denunciati per lesioni aggravate, a piede libero. Da chi? Non c’è la flagranza del reato, ma non c’è nemmeno la sicurezza che non lo reiterino. A vederli picchiare sembrava che avessero qualche allenamento. Li ha sentiti un magistrato, oltre che la polizia? E su che fondamento ha escluso, come si legge nelle avare cronache, l’aggravante razziale (razzista)? I tre, di cui si ha la discrezione di non fare i nomi, se non sbaglio, sostengono - o almeno uno di loro sostiene - che Musa abbia tentato di rubargli il telefono. Musa dice di no, che chiedeva l’elemosina. E sembra di capire, da qualche raro cenno, che i tre lo abbiano aggredito dopo che aveva chiesto l’elemosina a una signora che gliel’aveva rifiutata. Ma a chi l’ha detta, Musa, la sua versione? Alla polizia, a un magistrato? Se ci sono state lesioni aggravate - documentate inequivocabilmente e disgustosamente nel video - Musa era la parte lesa, oltretutto certificata in ospedale. E la parte lesa in un processo che si dovrà celebrare, e intanto di un’indagine da completare, viene trasferita in un Cpr per essere rimpatriata? Così che indagine e processo si svolgeranno senza parte lesa? Postilla: anche nel caso che Musa fosse a sua volta denunciato per il tentato furto, la sua sottrazione l’avrebbe privato del suo diritto a difendersi. No? Il Centro di permanenza per il rimpatrio, Cpr, è un luogo peggiore della galera. Non solo per le sue condizioni materiali, spesso. Ma perché è più della galera sottratto alla vista del pubblico e delle persone incaricate di controllare e informare. La finzione che lo distingue dalla galera è ripagata della sua brutalità. E poiché i suoi “ospiti”, detenuti, lo sono senza aver commesso alcun reato, e per la sola irregolarità amministrativa - esser privi di documenti - la loro disperazione, il loro senso di abbandono e la loro sensazione di ingiustizia sono soverchianti. Che li spingano alla rivolta o all’autolesionismo, e fino al suicidio, si tratta comunque di reazioni istigate. I centri hanno cambiato via via nome, Cpt, Cie, Cpr, restando luoghi miserabili. A cambiare era solo la durata, sempre più lunga, delle detenzioni. I nomi cambiano per la vergogna. “Centri di permanenza temporanea”, non c’era dell’estro? Cerco un centro di gravità permanente, cantava uno dei nostri, che è appena andato a cercarlo altrove. Il video della ragazza Darnella Frazier ha cambiato la storia degli Stati Uniti. Il video di Musa Balde non pretende tanto. Gli italiani sono troppo persuasi di non essere razzisti per smettere di esserlo. Però si vorrebbero ricostruire, senza smanie vendicative, così, con una moviola paziente, tutti i passi che hanno portato Musa dal marciapiede di Ventimiglia alla cella di isolamento “per motivi sanitari” (?) di Torino, dall’inizio alla fine, e le mani che ce l’hanno spinto. Si toglie la vita nel Cpr: “Cosa abbiamo fatto per salvare Balde?” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 maggio 2021 Musa Balde, 23 anni, originario della Guinea, si è suicidato sabato notte all’interno del centro di permanenza e rimpatrio di Torino. Il 9 maggio era stato aggredito in strada a Ventimiglia da tre italiani. Durante la notte del 22 maggio scorso si è tolto la vita mentre si trovava in isolamento nel centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) di Torino, nel famigerato “ospedaletto”, anche se il nome richiama l’assistenza sanitaria, in realtà - secondo diverse associazioni che si occupano dei Cpr come la campagna LasciateCIEntrare - si tratta di celle, lontane dall’infermeria, da cui difficilmente si riesce a chiamare eventuali soccorsi. Il suo nome è Musa Balde, ha 23 anni ed è originario delle Guinea. Il 9 maggio Balde ha subito una violenta aggressione a Ventimiglia, tre cittadini italiani lo hanno preso a colpi di spranga e bastone, pare in seguito al tentato furto di un telefono. Un video diffuso sui social mostra il brutale pestaggio, mentre chi registra il video dalla finestra di un palazzo urla “lo ammazza”, “lo ammazzano”, “lo sta ammazzando, scendete!”. I tre italiani sono stati denunciati per lesioni, mentre Balde, la vittima, già destinatario di un provvedimento di espulsione, sembrerebbe essere stato prelevato direttamente dall’ospedale e portato al Cpr di corso Brunelleschi.Balde non riusciva a capire perché fosse stato rinchiuso in quella struttura. L’ultima persona ad avere parlato con lui è stato il suo avvocato difensore, Gianluca Vitale, che notando la fragilità del suo stato psicologico aveva infatti chiesto una perizia a un importante centro che si occupa di vulnerabilità psichica dei migranti. Nulla da fare. Sabato notte si è impiccato con un lenzuolo. L’intervento del Garante nazionale e del deputato di +Europa Riccardo Magi - Sulla vicenda interviene il deputato di +Europa - Radicali Riccardo Magi. “Come è stato possibile disporne non solo l’espulsione in un paese tutt’altro che sicuro come la Guinea ma perfino il trattenimento in un Cpr? Come è stato possibile che non sia stata considerata quantomeno una condizione di vulnerabilità del ragazzo che aveva subìto un pestaggio brutale che era stato al centro delle cronache delle scorse settimane”, si chiede il deputato radicale. Interviene anche il Garante nazionale delle persone private della libertà. “Più volte ho ribadito l’inadeguatezza dei Cpr, in particolare la struttura di Torino si caratterizza per l’assoluta inaccettabilità della parte cosiddetta “Ospedaletto”, dove il ragazzo era trattenuto. Lo abbiamo segnalato più volte alla prefettura - sottolinea a Redattore Sociale il Garante Mauro Palma. In questo caso siamo di fronte a una situazione molto particolare. Mi lascia molto perplesso che sia stata questa la risposta dello Stato a una persona che aveva subito violenza. Mi chiedo se la sua fragilità sia stata presa in carico, era un obbligo dell’ente gestore. Che supporto è stato dato a questo ragazzo? Dobbiamo chiedercelo innanzitutto come collettività, perché c’è una responsabilità collettiva in questa storia”. Balde e gli altri, quei suicidi rimasti senza risposta - La Procura di Torino ha aperto un’inchiesta per vederci chiaro, ma non si tratta del primo morto nel Cpr di Torino nell’area dell’ospedaletto. La campagna LasciateCIEntrare ricorda Hossain Faisal, bengalese di 32 anni, vittima di violenza all’interno dello stesso centro e posto in isolamento punitivo per 22 giorni, senza possibilità di chiedere aiuto visto che i campanelli di allarme vicino ai letti non erano funzionati. Venne trovato morto tra il 7 e l’8 luglio 2019, per arresto cardiaco. Il 10 luglio 2020 un giovane albanese, incensurato, si appropria di una bicicletta incustodita dopo avere bevuto un po’ a una festa di compleanno. Dopo l’intervento delle forze dell’ordine viene arrestato per resistenza, sebbene passiva, patteggia un anno con liberazione immediata e sospensione della pena, ma una volta liberato viene immediatamente portato nel Cpr di Gradisca perché i suoi documenti erano scaduti. Dopo pochi giorni, Orgest Turia, albanese di 28 anni, è stato trovato senza vita in una cella di isolamento in cui si trovava per il periodo di quarantena, mentre il suo compagno di cella, cittadino marocchino, era in stato di incoscienza. L’autopsia ha accertato la causa della morte per un’overdose di metadone. L’avvocato difensore incaricato dalla famiglia ha sollevato perplessità su come il giovane potesse essere entrato in possesso di quella sostanza e per di più in quantità tale da provocare la morte. Ma questa domanda attende ancora una risposta. La vita in cella dei migranti lasciati senza cure nei Centri di rimpatrio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 maggio 2021 La denuncia del Garante: “Strutture inadeguate”. Le condizioni di vita all’interno dei centri di permanenza e rimpatrio (Cpr), strutture pubbliche gestite da privati, mettono ordinariamente a dura prova la capacità di resistenza psicologica di chi vi viene recluso, condizioni che spezzano una persona la cui vulnerabilità e sofferenza non viene riconosciuta. Per comprendere meglio, bisogna ricordare l’ultimo rapporto tematico del garante nazionale delle persone private della libertà dedicato alle singole visite in tutti i Cpr presenti sul territorio nazionale: quelli di Torino, Roma, Bari, Brindisi, Caltanissetta, Trapani, Gradisca d’Isonzo, Macomer e Milano. ll Garante riporta casi concreti per sottolinearne la totale assenza di attività e far capire la necessità di un intervento normativo complessivo che compiutamente disciplini la vita detentiva. La necessità, ancora, di assicurare in concreto adeguati standard igienico-sanitari e abitativi, l’accesso a cure adeguate e ad una pronta e approfondita verifica di idoneità alla vita in comunità ristretta. Casi concreti, come quello relativo al decesso di due giovani nel 2020: A. E. a Caltanissetta, ed E. V., a Gradisca d’Isonzo. In entrambi i casi i giovani erano stati colti da malori e avevano richiesto l’intervento di un sanitario. Le cure prestate all’interno dei centri non sono state sufficienti ed entrambi sono morti. Il Garante osserva che, al di là degli esiti dei procedimenti penali relativi ai singoli casi, ciò che manca è un raccordo con il Sistema Sanitario nazionale e, all’interno degli istituti, l’assenza di locali di osservazione sanitaria adeguati, per evitare di continuare a trattenere nei settori detentivi, privi dell’assidua supervisione e assistenza sanitaria, persone che chiedono o necessitano di un intervento medico immediato. Il rapporto prosegue poi denunciando il totale isolamento di queste strutture dove alla società civile (Ong e giornalisti) non è consentito l’accesso. E dove ai trattenuti sono sequestrati i cellulari impedendo di fatto - ancor di più drammaticamente durante la pandemia - di poter conferire con i propri difensori e familiari. Cpr è l’acronimo più recente affibbiato dalla legge ai centri di identificazione ed espulsione per migranti irregolari presenti sul territorio italiano, che sono stati istituiti e costantemente implementati da tutti i governi degli ultimi vent’anni. La creazione di queste strutture risale al 1998, quando - a seguito di alcune direttive europee in vista dell’entrata nell’area Schengen - Livia Turco e Giorgio Napolitano, con il T.U. sull’immigrazione 286/ 1998, stabilirono il trattenimento coatto delle persone straniere da identificare o in attesa di espulsione, per un massimo di 30 giorni: periodo che venne poi raddoppiato con la Legge Bossi-Fini (L. 189/2002), la quale introdusse anche il reato di non ottemperanza all’ordine di espulsione, cui sarebbe seguito il reato di clandestinità (L. 94/2009). Il nome attuale Cpr risale alla Legge Minniti-Orlando (L. 46/2017), che prevedeva la costruzione di un centro in ogni regione. “Non si può essere imputati a vita”. La lezione di Lattanzi di Errico Novi Il Dubbio, 26 maggio 2021 Le proposte della Commissione guidata dall’ex presidente della Consulta. Pubblicata la relazione sul ddl penale con le due exit strategies dalla prescrizione di Bonafede. Oggi l’incontro Cartabia-M5S. In due mesi la commissione guidata dal presidente emerito della Consulta Giorgio Lattanzi ha regalato alla politica un manuale su come può essere migliorata la riforma penale. Il documento, illustrato per le linee generali ai partiti due settimane fa, è stato consegnato alla guardasigilli Marta Cartabia, che ieri lo ha reso pubblico. Vi sono le annunciate proposte orientate ad abbreviare i processi e, soprattutto, le due soluzioni per superare la prescrizione di Bonafede. Proprio oggi una delegazione del M5S incontrerà Cartabia per esprimere dissenso su eventuali modifiche di quella norma. Intanto è un lavoro notevolissimo. Non solo per l’ampiezza dell’esposizione, che fra premesse, emendamenti e note che li illustrano sfiora le 80 pagine, ma anche per il tempo ridotto in cui è stato terminato. La “Relazione” con le “proposte di emendamenti” alla riforma penale prodotta dalla commissione Lattanzi, e resa pubblica ieri dalla guardasigilli Marta Cartabia, è il frutto di un’opera compiuta in poco più di due mesi. Nelle poche settimane a disposizione, il gruppo di esperti guidati appunto dal presidente emerito della Consulta Giorgio Lattanzi - e di cui hanno fatto parte figure di rilevo sia dell’accademia e dell’avvocatura, come il professor Vittorio Manes, sia della magistratura, come l’ex presidente Anm Rodolfo Sabelli - ha condotto uno screening sul ddl Bonafede, individuato i punti critici da migliorare, formulato in alcuni casi, come sula prescrizione, anche due possibili alternative, esposto il tutto ai partiti lo scorso 10 maggio e messo infine ogni cosa nero su bianco. Le forze politiche di maggioranza dovrebbero trarne esempio quanto a rapidità, efficacia e chiarezza. Sono tre anni che si affannano, senza riuscire nell’impresa, per approvare una legge delega sul processo. Ora i saggi individuati dalla ministra Marta Cartabia ne offrono loro, su un piatto d’argento, una versione migliorata. In realtà ieri dal ministero sono arrivate novità vere e proprie non tanto rispetto al contenuto della relazione Lattanzi, per grandi linee già esposta nel ricordato summit di maggioranza di due settimane fa, quanto sul significato politico del documento. “Le conclusioni del tavolo di studio sono state oggi (ieri, ndr) consegnate alla ministra della Giustizia”, premette la nota di via Arenula. Che poi puntualizza: “La guardasigilli effettuerà ora le sue valutazioni, prima di prendere decisioni in vista della presentazione degli emendamenti governativi al disegno di legge”. Vuol dire che gli emendamenti enunciati al millesimo dagli esperti non saranno necessariamente le modifiche governative al ddl penale che di qui a qualche giorno Cartabia depositerà alla Camera. Eppure la levatura scientifica del contributo è tale che se la ministra decidesse di trasferirlo in gran parte nel proprio pacchetto di modifiche, sarà davvero difficile, per i partiti, trovare argomenti all’altezza per respingerlo. Ecco, il senso è questo. Come anticipato in un’intervista al Dubbio dal sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, la forza della competenza si impone sugli slogan dei partiti. Un primo test sulla sproporzione di forze fra i due estremi della contesa sarà forse offerto stamattina dal vertice che la guardasigilli ha in programma con i rappresentanti del Movimento 5 Stelle. I quali saranno a via Arenula per criticare innanzitutto due eventuali modifiche (ipotizzate dalla “Relazione”) al ddl penale di Bonafede: il ripristino della prescrizione e l’impossibilità per i pm di ricorrere in appello contro le assoluzioni. È chiaro che il punto critico è soprattutto il primo. Cartabia discuterà con i pentastellati delle due ipotesi illustrate nella relazione Lattanzi. La prima consiste in un “recupero ponderato” della legge Orlando (datata 2017), con la sola variante della sospensione dopo la condanna in primo grado innalzata a due anni (era di un anno e mezzo), di uno stop di un anno secco dopo l’eventuale condanna in appello, con analoghi meccanismi per il giudizio di rinvio. La seconda ipotesi, come ormai noto, prevede che la prescrizione del reato si interrompa in ogni caso dopo l’esercizio dell’azione penale, dunque già alla richiesta di rinvio a giudizio, ma che poi il primo grado debba concludersi entro 4 anni, l’appello in 3 anni e il giudizio di Cassazione in 2 anni, altrimenti interviene “l’improcedibilità”, cioè la cosiddetta prescrizione processuale. È in entrambi i casi un netto superamento della legge Bonafede, con una valorizzazione del “lodo Conte bis” nel primo paradigma (definita come una “apprezzabile mediazione”). Ma ciò che forse più colpisce sono gli argomenti con cui la commissione Lattanzi spiega la necessità dell’emendamento: “Il blocco del corso della prescrizione, pur dopo un momento significativo come la sentenza che definisce il primo grado di giudizio, espone l’imputato al rischio di un processo di durata irragionevole nei giudizi di impugnazione”, si ricorda. E poco più avanti si osserva, ancora, che con la prima ipotesi, “potendo il termine di prescrizione maturare nei giudizi di impugnazione, si evita, tanto per l’assolto quanto per il condannato, il rischio di un processo dai tempi potenzialmente infiniti”. E se proprio si vuole aver prova di quanto il diritto alla “ragionevole durata del processo” debba valere a prescindere dal fatto che una prima pronuncia abbia affermato la colpevolezza, si possono citare due altri aspetti. Nel sistema “processuale” ipotizzato da Lattanzi, i limiti che, se superati, determinano l’improcedibilità sono accresciuti, per i reati punibili con l’ergastolo, non oltre i 6 mesi per ciascun grado di giudizio. E poi la commissione, a proposito di quei delitti per i quali il “termine prescrizionale” è già di per sé “lungo”, aggiunge che “il rischio di processi dai tempi irragionevoli” non può comunque “escludersi”. E che perciò in quei casi sarebbe opportuna “l’introduzione dei rimedi compensatori e risarcitori per la violazione del diritto a un processo di ragionevole durata”. Non solo la prescrizione va insomma ripristinata come argine al processo eterno, ma quando l’imputato resta comunque troppo tempo prigioniero di un’accusa, va risarcito o gli si deve assicurare uno sconto di pena. È una lezione sulla giustizia e sulla Costituzione. Ora i partiti, se vorranno ignorarla, dovranno dirlo con franchezza. Ddl penale, pronta la relazione della Commissione Lattanzi. Due ipotesi sulla prescrizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2021 Via Arenula rende noti i risultati degli studiosi ed esperti. La riforma del processo penale fa un passo in vanti. Come fa presente il ministero della Giustizia in un comunicato stampa “è stata pubblicata sul sito del Ministero della Giustizia la relazione finale della Commissione ministeriale, incaricata di elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché di prescrizione del reato. Le conclusioni del tavolo di studio, presieduto da Giorgio Lattanzi, presidente emerito della Corte costituzionale e presidente della Scuola Superiore della Magistratura, sono state oggi consegnate alla Ministra della Giustizia, Marta Cartabia. La Guardasigilli effettuerà ora le sue valutazioni, prima di prendere decisioni, in vista della presentazione degli emendamenti governativi al disegno di legge A.C. 2435, recante Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello”. Ocf: accolte alcune proposte ma restano le zone d’ombra - Alcuni suggerimenti avanzati da OCF accolti, altri punti da migliorare, ma nel complesso la valutazione è positiva. Così l’esecutivo dell’Organismo Congressuale Forense commenta la Relazione Finale e le proposte di emendamenti al D.D.L. A.C. 2435 sull’Efficienza del processo penale e per la celere definizione dei procedimenti pendenti presso le Corti d’Appello, reso pubblico oggi pomeriggio sul sito del Ministero della Giustizia. “OCF esprime parziale soddisfazione assistendo ad una maggiore attenzione ai diritti degli imputati e della difesa - si legge in una nota diramata dall’organo di rappresentanza politica dell’Avvocatura - ed esprime soddisfazione anche nel constatare che la proposta avanzata da OCF in tema di sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi (Punto 4.2 Art. 9 bis) abbia trovato pieno accoglimento”. Rimangono invece perplessità e critiche in tema di partecipazione della difesa nei giudizi di impugnazione. “Sono argomenti che verranno discussi fra tutti i colleghi nel prossimo Congresso Ulteriore dell’Avvocatura - conclude il coordinatore di OCF Giovanni Malinconico - che OCF ha richiesto nei giorni scorsi ed è stato convocato per il 23 e 24 luglio alla Fiera di Roma”. Due ipotesi sulla prescrizione - Per la Commissione Lattanzi, incaricata di elaborare proposte di riforma in materia di processo penale, il problema prescrizione deve trovare soluzione, in primo luogo, “sul terreno della riduzione dei tempi del processo”. Se, adempiendo all’obbligo imposto dalla Costituzione, si riesce ad assicurare la ragionevole durata del processo, “la prescrizione cessa dal rappresentare un problema”. Inoltre, una riforma organica potrebbe essere opportunamente realizzata attraverso lo strumento della legge delega e il coordinamento con la riforma del processo. Dal punto di vista tecnico infatti, spiega la Relazione, non vi sono ragioni che rendono urgente anticipare la riforma della prescrizione realizzata con la l. n. 3/2019 - entrata in vigore il 1° gennaio 2020 - in quanto gli effetti si produrranno a partire dal 1° gennaio 2025, per le contravvenzioni, e dal 1° giugno 2027, per i delitti. Tuttavia, considerato che l’art. 14 del disegno di legge A.C. 2435 non prevede tale delega al Governo, la Commissione ha formulato proposte di emendamenti sotto forma di disposizioni immediatamente prescrittive. In particolare, la Commissione propone di modificare l’art. 14 del Ddl optando per soluzioni diverse: “Una prima (“ipotesi A”) che, prevedendo un meccanismo di sospensione nei giudizi di impugnazione, si muove nel solco delle riforme del 2017 e del 2019, come anche del cd. lodo Conte; una seconda (“ipotesi B”) che, invece, implica una radicale, diversa, scelta di fondo: l’interruzione definitiva del corso della prescrizione con l’esercizio dell’azione penale e, da quel momento, la previsione di termini di fase -per ciascun grado del giudizio -il cui superamento comporta l’improcedibilità dell’azione penale”. Inoltre, recependo i rilievi critici “mossi da gran parte della dottrina”, dopo la riforma del 2005, la Commissione propone di ampliare la misura dell’aumento del termine di prescrizione, per effetto di atti interruttivi, da un quarto alla metà del tempo necessario a prescrivere. “Si propone così di ripristinare la disciplina vigente prima della riforma del 2005”. Sconti di pena per la durata eccessiva del processo - La Commissione propone poi di inserire nel codice di procedura penale - in un nuovo articolo 670-bis - una disposizione che consenta al condannato, che abbia subito la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di rideterminare la pena - principale (detentiva e pecuniaria) e accessoria - riducendola in modo proporzionale a compensazione del pregiudizio subito. I criteri di accertamento della violazione del diritto, e di determinazione dell’entità della riduzione di pena, sono individuati rinviando alla legge Pinto, pertanto, anche ai termini di durata ragionevole del processo ivi previsti. Tale disciplina è in via di principio indipendente dalla prescrizione del reato; tanto è vero - prosegue la Relazione - che il rimedio compensativo è previsto anche nel caso di condanna per reati imprescrittibili, come quelli puniti con l’ergastolo. In questo caso, nella proposta della Commissione, la riduzione della pena si calcola sul periodo minimo di espiazione rilevante per la concessione della liberazione condizionale e dei benefici previsti dalla legge 26 luglio 1975, n. 354. Sconto di pena se il processo penale ha durata eccessiva di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2021 Sconto di pena per l’eccessiva durata del processo. Tempo delle indagini preliminari contingentato e con verifica del giudice sulle iscrizioni di reato. Drastica revisione dell’udienza preliminare, accompagnata da un’udienza filtro per i reati comuni. Revisione delle condizioni di procedibilità, allargando l’area della querela sino a coprire i reati sanzionati nel minimo con pena detentiva fino a 2 anni senza tenere conto delle aggravanti (sarebbero compresi per esempio i “classici” furti in negozio o in supermercato). Riforma del sistema delle impugnazioni. Determinazione del Parlamento sui criteri di esercizio dell’azione penale. Allargamento delle ipotesi di archiviazione e delle cause di non punibilità, come pure della messa alla prova. Al netto delle ormai proverbiali due proposte sulla prescrizione, congegnate per superare la versione attuale della legge “Spazza-corrotti”, il pacchetto di indicazioni che arriva dalla commissione tecnica, insediata dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e guidata dal presidente emerito della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi, è certo a elevato tasso di innovazione e si innesta nel disegno di legge delega presentato dall’allora Guardasigilli, Alfonso Bonafede. Il dettaglio delle conclusioni, messo a punto dall’ufficio legislativo del ministero della Giustizia, permetterà un confronto più puntuale nel merito, sin da questa mattina, quando Cartabia incontrerà in via Arenula una delegazione del Movimento 5 Stelle, la forza politica di maggioranza sinora più tiepida sulle proposte. Nel corso della prossima settimana, Cartabia tradurrà poi i suggerimenti della commissione Lattanzi, peraltro già formulati sia in veste di articolato sia di relazione, negli emendamenti da presentare alla Camera in commissione Giustizia. Obiettivo della riforma penale, come di quella civile cristallizzata in un super emendamento formalizzato pochi giorni fa e in corso di presentazione al Senato, è un drastico taglio della durata dei processi. Partendo dall’eloquenza dei dati statistici che attestano, secondo l’ultimo rapporto della Commissione per l’efficienza della giustizia, istituita presso il Consiglio d’Europa (Cepej, 2020), come il giudizio di primo grado ha in Italia una durata media tre volte superiore a quella europea, mentre quello di appello è superiore di addirittura otto volte. Nel dettaglio, nel caso di mancato rispetto dei termini di durata (tre anni per il primo grado, due anni per l’appello e uno per la Cassazione), saranno introdotti sconti di pena sia detentiva sia accessoria sia pecuniaria (scanditi a seconda della rilevanza dello scostamento). Cruciale la fase delle indagini preliminari dove la durata prevista è di sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato, per le contravvenzioni; un anno e sei mesi dalla medesima data, quando si procede per i delitti più gravi (quelli indicati dall’articolo 407, comma 2 del Codice di procedura, dalle associazioni criminali al terrorismo ai casi più gravi di traffico di stupefacenti, per esempio); un anno in tutti gli altri casi. Il pm potrà chiedere al giudice la proroga dei termini una sola volta, prima della scadenza, per un tempo non superiore a sei mesi quando la proroga sia giustificata dalla complessità delle indagini. Decorsi i termini di durata delle indagini, il pubblico ministero sarà tenuto a esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro un termine fissato in misura diversa, in base alla gravità del reato e alla complessità delle indagini preliminari. Sul regime delle impugnazioni a fare da contraltare all’inappellabilità da parte del Pm, corroborando la tenuta costituzionale della riforma, una serie di limiti anche per l’imputato, con l’elenco dettagliato dei motivi che rendono possibile l’impugnazione. Raddoppia poi da due a quattro anni il limite di pena detentiva che può essere sostituito da un’altra sanzione, dove a essere rivisto è anche il catalogo delle misure sostitutive: detenzione domiciliare, affidamento in prova al servizio sociale e semilibertà, lavoro di pubblica utilità, pena pecuniaria. Da cinque anni a tre anni poi il limite di pena che rientra nell’area della causa di non punibilità per tenuità del fatto. Al Parlamento, la commissione Lattanzi affida il compito di determinare periodicamente, anche sulla base di una relazione presentata dal Csm, “i criteri generali necessari a garantire efficacia e uniformità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi”; nel contesto dei criteri generali adottati dal Parlamento, gli uffici giudiziari fisseranno poi i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi, “tenuto conto della specifica realtà criminale e territoriale, nonché del numero degli affari e delle risorse disponibili”. Da Bonafede a Cartabia, la discontinuità del governo Draghi sulla giustizia di Luciano Capone Il Foglio, 26 maggio 2021 Se c’è un tema sul quale la discontinuità del governo Draghi è più evidente, quello è la giustizia. È vero che il ministro della Giustizia Marta Cartabia parte dalla riforma Bonafede, quella ideata dal Guardasigilli dei due governi Conte, ma per ribaltarla. Non a caso è la riforma che più di tutte solleva i malumori del M5s. Il rovesciamento dell’impostazione punitivista di Alfonso Bonafede è evidente dal contenuto della relazione finale della Commissione per la riforma del processo penale al cui vertice la Cartabia ha nominato l’ex presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi, affiancato da affermati accademici, magistrati e avvocati. Il punto politicamente più delicato e divisivo è, ovviamente, quello della prescrizione. La Commissione parte da una premessa: “Lentezza del processo e prescrizione del reato sono due problemi diversi, che si alimentano reciprocamente. Processi lenti favoriscono la prescrizione, la prospettiva della prescrizione favorisce processi lenti”. E i dati sui tempi della giustizia italiana sono desolanti: secondo l’ultimo report della Commissione per l’efficienza della giustizia (Cepej), istituita presso il Consiglio d’Europa, la durata media di un processo di primo grado in Italia è tre volte superiore alla media europea; mentre per il giudizio di appello la durata media è addirittura otto volte superiore. La soluzione proposta da Bonafede per spezzare questo circolo vizioso che lede da un lato i diritti dell’imputato e dall’altro la domanda di giustizia delle vittime è la sostanziale abolizione della prescrizione, nella convinzione che sia la stessa esistenza di questo istituto a far allungare i tempi. Senza la “scappatoia” della prescrizione, è l’idea di fondo, i processi diventano brevi. La Commissione ribalta, invece, questa prospettiva e indica la prescrizione come un istituto necessario per impedire un “processo di durata irragionevole”: l’intervento è necessario perché la riforma Bonafede espone al rischio di un “processo ‘senza fine’ dopo la sentenza di primo grado”. La commissione propone due soluzioni, tra loro concettualmente molto diverse, ma che in entrambi i casi sono una sostanziale abrogazione della riforma Bonafede. La prima ipotesi di “sospensione condizionata” prevede una sospensione della prescrizione di due anni dopo la condanna in primo grado e di un anno dopo la condanna di appello, ma la prescrizione riprende il suo corso e il periodo di sospensione viene conteggiato se in questo arco di tempo non arrivano le rispettive sentenze. È un sostanziale ritorno alla riforma Orlando, che prevede anche il conteggio del periodo di sospensione se non si arriva a sentenza nei tempi. La seconda ipotesi, invece, abolisce completamente la prescrizione quando inizia il processo, ma indica dei termini di durata massima che scandiscono le diverse fasi di giudizio: 4 anni per il primo grado, 3 per l’appello, 2 per la Cassazione. Il superamento di questi termini diventa causa di “improcedibilità”. La logica giuridica si discosta radicalmente dall’istituto della prescrizione, ma sul piano sostanziale si persegue lo stesso obiettivo. Sempre nell’ambito dell’irragionevole durata del processo penale, la Commissione ricorda che “nelle statistiche della Corte europea dei diritti dell’uomo l’Italia occupa, in modo imbarazzante, il primo posto tra i paesi con il maggior numero di violazioni e di condanne per irragionevole durata del processo” e pertanto suggerisce l’introduzione di compensazioni e risarcimenti per l’irragionevole durata del processo, ulteriori rispetto a quelli previsti ora dalla legge Pinto: in caso di condanna si prevede una riduzione della pena da espiare (in quanto l’eccessiva durata è di per sé una “pena” o comunque una lesione dei diritti); in caso di assoluzione, invece, si prevede di raddoppiare l’indennizzo previsto dalla legge Pinto. Altri punti importanti della relazione riguardano l’inappellabilità delle sentenze di primo grado da parte del Pm (potrà ricorrere solo in Cassazione, mentre l’imputato anche in Appello); l’ampliamento delle misure riparatorie e delle sanzioni in sostituzione delle pene detentive. In generale è evidente un’impostazione meno punitivista, più rispettosa dei diritti delle garanzie individuali. D’altronde i percorsi politici e professionali di Cartabia e Bonafede mostrano sensibilità giuridiche molto differenti. Così si riforma la giustizia: altro che sorteggio… di Giuseppe Gargani Il Riformista, 26 maggio 2021 Da anni quando si parla di crisi della giustizia si fa riferimento a piccoli accorgimenti, a piccole modifiche legislative che in questi anni pur sono state realizzate e che hanno aggravato la situazione. È stato scritto lucidamente sul tuo giornale che più leggi si fanno e più la corruzione dilaga come è sempre avvenuto sin dai tempi antichi e più frequente, per la incertezza della norma, è la delega alla magistratura. Negli ultimi anni si sono moltiplicati i reati per una sorta di panpenalismo demandando al giudice la soluzione dei problemi, e il giudice è diventato impropriamente il garante della legalità, giudice etico che deve far vincere il bene sul male e che tanto piace al populismo dilagante. Nella trasmissione televisiva “Quarta Repubblica” di lunedì scorso, con meraviglia ho ascoltato da Bruno Vespa che il rimedio per risolvere il problema è il sorteggio dei membri del CSM: non mi aspettavo da un giornalista così esperto e così avveduto come Vespa una soluzione semplicistica e alla fine demagogica che, come si suol dire, fa guardare il dito e non la luna che il dito indica. Tu, nel corso della trasmissione, hai giustamente protestato e hai precisato che il problema grave e pericoloso per l’equilibrio democratico è il potere accumulato in maniera anomala dalla magistratura e in particolare dal pubblico ministero, che non ha eguali nel globo terrestre, certamente non nei paesi a democrazia costituzionale. Ho ripubblicato di recente un mio libro scritto negli ultimi anni del secolo scorso nel quale evidenziavo che la giustizia non è fatta “in nome del popolo italiano” ma “in nome dei pubblici ministeri”; constato che a distanza di vent’anni continua ad essere così, con uno squilibrio anche all’interno della stessa categoria che la Costituzione vuole come “ordine autonomo” non come potere. Tu sai che dagli anni 70 mi batto per risolvere questi problemi che la Democrazia Cristiana per prima - della quale facevo parte - e poi tutti gli altri partiti non hanno voluto intendere, facendo al contrario leggi che hanno alimentato questa anomalia. Come si può immaginare dunque che un semplice sorteggio per la indicazione dei componenti del CSM possa risolvere il problema?! Anche a voler immaginare, in astratto, utile quel sistema, non possiamo non constatare che i magistrati al 90% sono appartenenti alle correnti che esistono, che si organizzano in gruppi come i partiti della prima Repubblica. Sì invoca da tanti, dunque, questo sistema, certamente incostituzionale, per la difficoltà di decidere o per la impossibilità di assumere posizioni, demandando al caso la soluzione del problema! È ricorrente ormai nel gruppo dirigente politico a qualunque livello evitare la responsabilità di decidere e ricercare un meccanismo aleatorio e, mi viene da dire, populista, tant’ è che il partito democratico, per fare un solo esempio, per individuare il leader del partito ricorre alle primarie e attribuisce ad un qualunque cittadino in buona fede la scelta del leader come scelta democratica! Diciamo dunque che i fortunati sorteggiati al CSM sarebbero pur sempre appartenenti a correnti e magari sarebbero più sprovveduti o inidonei e quindi ancora più pericolosi e corporativi e il CSM resterebbe ugualmente impantanato, in balia dei capi corrente. I rimedi sono le riforme strutturali, che in verità se attuate avrebbero il consenso della maggioranza dei magistrati che sono “costretti” ad aderire ad una “corrente” ma sarebbero felici di riscattarsi: chi conosce la magistratura sa che è così… Le riforme da fare si riferiscono al ruolo e alla funzione del magistrato. È arrivato il momento di affrontare alcune questioni che sono fondamentali e pregiudiziali per porre rimedio ad una crisi che investe il modo di fare giustizia da parte di chi, per tutti gli eventi che conosciamo, purtroppo non ha una legittimazione adeguata per essere considerato al di sopra delle parti. Mi chiedo che cosa deve ancora capitare per convincere il Parlamento ad intervenire. Le riforme adeguate sono: la distinzione tra il pubblico ministero e il giudice, fondamentale per far funzionare il processo che si deve svolgere tra le parti con un giudice “terzo”; la necessità di stabilire da parte del Parlamento sovrano la priorità nell’esercizio dell’azione penale la quale, essendo “obbligatoria”, non può essere esercitata a discrezione di un singolo magistrato senza alcuna responsabilità; collegare le indagini del pm alla “notizia criminis” ed evitare che possano fare indagini per “ricercare il reato”; prevedere la presenza nel CSM di un terzo di magistrati indicati dai magistrati un terzo votati dal Parlamento da persone di particolare spessore, se possibile non di politici o ex politici. un terzo indicato dal Presidente della Repubblica; prevedere un organismo diverso dal CSM, un’”Alta Corte” come proposto dall’on Violante, per la valutazione dei provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati. Mi fermo qui perché queste prime riforme, queste sì, cambierebbero in maniera sostanziale la funzione della magistratura: Per riconquistare la fiducia dei cittadini dovrebbero gli stessi magistrati chiedere queste riforme. Tutto il resto viene dopo, anche la lungaggine dei processi. Il mio incitamento è di continuare la battaglia che il tuo giornale porta avanti perché alla fine ce la faremo, non può non prevalere il buon senso. Costa ritira l’emendamento sulla separazione delle carriere per evitare il voto di fiducia di Liana Milella La Repubblica, 26 maggio 2021 La maggioranza rischiava la spaccatura, Lega e Forza Italia si sarebbero astenute. I Radicali, con Salvini, la prossima settimana depositerano in Cassazione i sei quesiti referendari sulla giustizia. La separazione delle carriere dei magistrati sarà il primo dei referendum che i Radicali, assieme a Matteo Salvini, porteranno in Cassazione per l’ammissibilità già la prossima settimana. Come annuncia il capo della Lega e come conferma il segretario dei Radicali Maurizio Turco. Ma proprio la separazione tra pm e giudici, almeno per oggi, non è stata la protagonista di un acceso confronto alla Camera tra chi la vuole - Costa di Azione, tant’è che aveva presentato un emendamento ad hoc nel decreto concorsi, Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Italia viva - e chi invece la contrasta - Pd, M5S, Leu - e stavolta è riuscito ad evitare il confronto in aula. Nel decreto sui concorsi per i magistrati, infatti, tra i 70 emendamenti presentati per lo più da FdI, non c’è più quello di Enrico Costa che chiedeva all’aspirante giudice di scegliere, prim’ancora di affrontare il concorso, quale carriera in futuro volesse intraprendere. Cos’è accaduto? Semplice. Dopo l’appello del presidente Sergio Mattarella a mettere da parte le individualità sulle riforme della giustizia, sono seguite 24 ore di colloqui tra la ministra della Giustizia Marta Cartabia e i partiti della maggioranza. Da una parte, la preoccupazione che il decreto - in scadenza il 31 maggio - potesse decadere qualora fosse dovuto tornare al Senato. Dall’altra, l’insistenza di Costa di mantenere il suo emendamento presentato per evitare che l’eventuale futuro pm, proprio al concorso, si fosse trovato a non sostenere la prova di diritto penale. Perché, in presenza del Covid, e solo per il prossimo concorso, il decreto prevede il sorteggio di due delle tre prove scritte obbligatorie - diritto penale, civile e amministrativo - e quindi, secondo Costa, ci poteva essere il rischio che saltasse proprio la prova di penale per il futuro pubblico ministero. Si è giunti così a un vertice di maggioranza - via Zoom - per decidere sul decreto. E qui il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà di M5S, è stato netto sul no all’emendamento, anche mettendo sul piatto l’eventuale voto di fiducia che avrebbe fatto saltare tutti gli altri emendamenti. A quel punto Enrico Costa ha deciso di ritirare la sua proposta che era stata sottoscritta anche da Lega e Forza Italia. I due partiti, se si fosse andati al voto, hanno confermato che si sarebbero astenuti. Lo stesso Costa non nasconde però il suo malessere politico. Anche nell’intervento in aula: “Ormai questi temi garantisti sono divenuti off limit nella maggioranza, vengono esclusi a priori dal dibattito perché sono considerati divisivi. Si può discutere su questa impostazione, ma io la giudico sbagliata perché pensare che nella riforma del Csm non abbia cittadinanza il tema della separazione delle funzioni significa per il centrodestra voltare le spalle alla propria storia. Quindi, anche se con sofferenza, ho ritirato il mio emendamento. Ma ci sono almeno dieci buone ragioni per occuparsi della separazione carriere. Ma non lo si può fare in questo Parlamento perché nel governo predomina tuttora il M5S. E io oggi mi auguro che la ministra Cartabia, dopo l’incontro che domani avrà con loro, non faccia dietrofront sulle sue proposte”. Costa si riferisce all’incontro che domattina, alle 9 e trenta, Cartabia avrà con il M5S, deciso a mettere sul suo tavolo l’insofferenza per proposte come quelle sulla prescrizione e sull’inappellabilità delle sentenze di primo grado sia per il pm che per gli avvocati. Nonché sull’idea - che pare però esclusa - di affidare al Parlamento l’indicazione delle priorità dell’azione penale. Temi emersi nell’unico incontro che si è tenuto finora tra la Guardasigilli e i partiti della maggioranza, quando l’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, al vertice della commissione di studio cui Cartabia ha affidato di lavorare agli emendamenti al testo dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, ha presentato la sua proposta. A questo punto il decreto concorsi passa senza strappi. A parte l’irritazione di Costa. Ma il tema delle carriere resta, anche perché Salvini annuncia che la prossima settimana porterà in Cassazione, con i Radicali, i testi dei sei referendum, su cui - dice lo stesso Salvini - “dal primo luglio dovremo raccogliere un milione di firme”. Maurizio Turco, segretario dei Radicali, conferma almeno quattro titoli certi, la separazione delle carriere, la responsabilità civile, il Csm, la responsabilità professionale. Gli show dei Pm non sono sentenze, quella delle Procure è la verità parziale di Riccardo Polidoro Il Riformista, 26 maggio 2021 Nel corso di un incontro sul tema della presunzione d’innocenza e in particolare sull’adesione dell’Italia alla recente direttiva europea, organizzato dalla Camera penale di Santa Maria Capua Vetere, il dibattito ha toccato pure la separazione delle carriere. Nel mio intervento ho sostenuto, tra l’altro, che la madre di tutte le riforme, che interesseranno il processo penale, dovrà essere l’approvazione in Parlamento della proposta di legge costituzionale d’iniziativa popolare promossa dalle Camere penali, relativa alla separazione delle carriere dei magistrati, che ha ottenuto la firma di 75mila cittadini. Nel rapporto tra giustizia e informazione, infatti, direttamente coinvolto dal principio di presunzione d’innocenza, è fondamentale che il ruolo della fonte venga compreso dai destinatari delle notizie. La cronaca giudiziaria, con pochissime eccezioni, presenta l’indagato come già colpevole e talvolta l’affermazione è corredata da indizi indicati dalla Procura, a volte con video-riprese con tanto di logo della polizia giudiziaria operante, ormai specializzata in perfette regie di azione. Le conferenze, come i comunicati, non hanno e non possono avere contraddittorio perché gli atti non sono conosciuti dall’interessato che, del tutto indifeso, vede la sua vita sconvolta negli affetti, nel lavoro e spesso irrimediabilmente nella salute. Eppure, i dati ci dicono che, nel 2020, in Italia i casi d’ingiusta detenzione sono stati 750, per una spesa complessiva, in indennizzi, pari a circa 37 milioni di euro. Napoli, con 101 casi, è il distretto con il maggior numero di risarciti. La separazione delle carriere, oltre al principale pregio di garantire un giudice terzo, avrà anche un’importante ricaduta sull’informazione giudiziaria. Una volta entrata in vigore la legge, col tempo si comprenderà che il procuratore che ha tenuto la conferenza o diramato il comunicato sta illustrando l’attività svolta che dovrà poi trovare conferma innanzi al giudice, componente di un diverso un settore della giustizia, quello demandato a stabilire la verità. Finalmente sarà chiaro all’opinione pubblica che la notizia proviene dall’accusa e che non è accertato che l’interessato sia colpevole, ma è solo - come previsto dalla legge - indagato. L’informazione data, pertanto, non è una sentenza. L’attenzione dell’opinione pubblica si sposterà naturalmente e correttamente verso il processo che verrà seguito con maggiore attenzione dagli stessi cronisti. L’importanza della separazione delle carriere, anche per il principio di presunzione d’innocenza, non è stata ritenuta conferente dal magistrato presente al dibattito che, nell’esprimere il suo disaccordo sulla battaglia portata avanti dall’Ucpi, ha specificato che la riforma farebbe perdere autorevolezza alle Procure perché quanto riferito nelle conferenze o nei comunicati stampa sarebbe ritenuta una verità parziale. Ed è qui il punto, infatti! Fermo restando che la fonte della notizia non perderebbe alcuna autorevolezza, in quanto la comunicazione proviene da chi ha coordinato le indagini, quindi l’unico che ha autorità per riferire, è evidente che la sua non può che essere proprio una “verità parziale”, perché proveniente da una parte, in assenza di qualsiasi contraddittorio. Ed è importante che ciò sia ben chiaro a chi diffonderà la notizia e soprattutto a chi l’apprenderà. Nel difficile equilibrio tra presunzione d’innocenza e diritto all’informazione è proprio questa “verità parziale” la svolta culturale da promuovere. Omicidio Regeni, si farà il processo a quattro agenti dei servizi egiziani di Giovanni Bianconi e Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 26 maggio 2021 Rinviati ieri a giudizio per l’assassinio del ricercatore torturato a gennaio 2016. La difesa: “Ci abbiamo messo 64 mesi ma è un buon punto di partenza”. Ci sarà un processo per il sequestro e l’omicidio di Giulio Regeni, scomparso al Cairo la sera del 25 gennaio 2016 e ritrovato cadavere il successivo 3 febbraio, con i segni delle torture addosso. Un processo contro quattro militari della National security e della polizia cairota, che non compariranno davanti alla Corte d’assise convocata per il prossimo 14 ottobre ma saranno comunque giudicati. Un risultato per nulla scontato, che la Procura di Roma ha raggiunto al termine di un’indagine durata cinque anni in cui “l’impossibile è divenuto possibile”, come ha detto il pubblico ministero Sergio Colaiocco davanti al giudice dell’udienza preliminare. Ad ascoltarlo c’erano i genitori di Regeni, e la loro soddisfazione è affidata alle parole dell’avvocata Alessandra Ballerini, sempre al loro fianco nella lunga battaglia: “Paola e Claudio dicono spesso che su Giulio sono stati violati tutti i diritti umani. Da oggi abbiamo la fondata speranza che almeno il diritto alla verità non verrà violato. Ci abbiamo messo 64 mesi, ma quello di oggi è un buon traguardo e un buon punto di partenza”. Primo verdetto - Nel primo verdetto di questa complessa e inedita vicenda giudiziaria, il giudice Pier Luigi Balestrieri definisce “consistente e strutturato” l’insieme di indizi messi insieme dalla Procura con i carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco, da cui emerge “un oggettivo “collegamento” tra la morte del ricercatore italiano e gli apparati di sicurezza egiziani, nonché gli odierni imputati”: generale Tariq Sabir, colonnello Athar Kamel, colonnello Usham Helmi, maggiore Magdi Ibrahim Sharif. Nei loro confronti è stato costruito un “compendio investigativo” fatto di testimonianze, documenti e altre evidenze che devono essere verificate in un dibattimento. Dove continuerà la corsa a ostacoli. Il fatto stesso che davanti al gup comparissero quattro nomi anziché quattro persone, è stato argomento per sollevare questioni di nullità e improcedibilità da parte dei difensori d’ufficio degli imputati-fantasma egiziani; quattro avvocati italiani chiamati a rappresentare e garantire i diritti degli accusati. Tuttavia il giudice ha respinto ogni eccezione. Che i quattro militari siano identificati con certezza l’hanno stabilito gli stessi egiziani, che ne hanno comunicato le generalità insieme agli interrogatori; che la competenza sia della magistratura italiana (e di quella di Roma) è scritto nei codici e nelle convenzioni sottoscritte sia dall’Italia che dall’Egitto; che gli imputati siano a conoscenza del procedimento, al quale si sono “volontariamente sottratti”, è una “assoluta certezza” derivante dalla “capillare e straordinaria copertura mediatica” degli eventi. Torture e depistaggi - Per questi motivi il rinvio a giudizio è legittimo sul piano formale, ma anche su quello sostanziale. Nelle undici pagine del decreto che ordina il processo si sostiene che il sequestro di cui sono accusati i quattro militari era finalizzato proprio alle torture a cui Regeni è stato sottoposto fino alla morte. Di lesioni e omicidio risponde il solo maggiore Sharif, ma il disegno è unico: “Intimidire e esercitare pressioni sulla vittima”, per ottenere le informazioni che gli egiziani le volevano estorcere. Su Giulio s’erano addensati sospetti (dimostratisi del tutto infondati) dopo la denuncia del sindacalista Mohamed Abdallah. In seguito Regeni “venne attenzionato dagli apparati di sicurezza egiziani quanto meno dal dicembre 2015”, accusa il gup, che poi dà conto delle dichiarazioni degli “informatori” indicati con i nomi in codice Delta, Epsilon, Eta e Teta, i quali l’hanno visto in una stazione di polizia e nella sede della National security “ammanettato, con gli occhi bendati e sfinito dalla tortura”. Il ruolo dei testimoni - La “nuova sfida”, evocata dallo stesso pm Colaiocco, sarà trasformare quegli “informatori” in testimoni, facendoli venire in aula per deporre ed essere interrogati anche dai difensori degli imputati. Obiettivo arduo, visto che da tempo con l’Egitto è ormai saltata ogni forma di collaborazione giudiziaria su questa vicenda. Sono arrivati, piuttosto, “diversi tentativi di depistaggio” che per il gup rappresentano un ulteriore indizio a carico degli imputati. Proprio in vista delle ulteriori difficoltà che si dovranno affrontare al processo, il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Regeni, Erasmo Palazzotto, chiede al governo italiano “un impegno concreto per ottenere dall’Egitto rispetto, verità e giustizia”, mentre per il presidente della Camera Roberto Fico “ora inizia una nuova fase, un processo da cui potranno scaturire altri tasselli di verità”. Se il caso Lucano fa ancora riflettere di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 26 maggio 2021 La richiesta di quasi otto anni di carcere (otto!) per Mimmo Lucano appare spropositata. “Le leggi vanno rispettate. Anche se non ci piacciono. La mia patria è l’Austria, sono nato austriaco e mi sento austriaco. Ma sono un cittadino italiano e, per battermi in nome della mia patria devo prima rispettare le leggi italiane”. Così ripeteva Silvius Maniago, per decenni il patriarca combattivo, duro e venerato dei sudtirolesi. Per questo non gli piaceva Bossi quando teorizzava la rivolta fiscale lumbard: “Le tasse si pagano. Punto”. E per questo, probabilmente, non gli piacerebbe Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace che in nome degli ideali di accoglienza verso gli immigrati, per nobili che potessero essere, si è tirato addosso l’imputazione di aver violato una lista di leggi e leggine. Certo è, però, che comunque possa essere letta la sua vicenda politica, umana e giudiziaria che ha spaccato l’Italia tra chi ancora oggi lo vede come un mezzo eroe (sia pure un po’ “elastico” nella personale applicazione delle regole) e chi lo insulta come fosse un delinquente seriale (pur riconoscendo che non si sarebbe messo in tasca un centesimo), la richiesta di quasi otto anni di carcere (otto!) appare spropositata. Spropositata rispetto alle illegalità di massa tollerate (o peggio ignorate) non solo in Calabria, a troppe condanne assai benevole per vari sindaci e amministratori via via accusati di corruzione, concussione o voto di scambio. Per non dire di chi come il banchiere Gianni Zonin, dopo 116 udienze processuali con ottomila parti civili, ha preso in primo grado sei anni e sei mesi (senza fare un giorno di galera, finora) per il crac da 6 miliardi di euro (sei!) della Popolare di Vicenza ai danni di 170mila risparmiatori finiti in parte sul lastrico. Per non dir della condanna per corruzione in atti giudiziari (un reato imperdonabile per una toga) inflitta mesi fa, nella stessa Calabria di Lucano, al presidente di sezione della Corte d’Appello di Catanzaro Marco Petrini: quattro anni e quattro mesi. Con l’attenuante di avere una “dissociazione psicogena”. Dopo di che, scrive l’Ansa, lo stesso giudice autore della sentenza “ha revocato le misure cautelari” e “ordinato l’immediata rimessione in libertà” del collega e di un coimputato appena condannati. Viva la Giustizia, viva i giudici. Però... Covid-19: niente carcere per il detenuto malato grave anche se non ci sono contagi nell’istituto Il Sole 24 ore, 26 maggio 2021 I malati con patologie gravi a rischio di complicanze in caso di contagio da Covid-19, non saranno lasciati morire in carcere: sì ai domiciliari e no al carcere per il detenuto in chemioterapia anche se non si segnalano contagi nell’istituto. È quanto ha deciso la seconda sezione penale della Cassazione con la sentenza 19653/21 pubblicata oggi. La Corte del riesame di Caltanissetta aveva applicato a un settantaduenne la misura cautelare della custodia in carcere, in sostituzione di quella degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, per i reati di estorsione aggravata dal metodo mafioso e dall’uso delle armi, di sequestro di persona e detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Per il ricorrente il giudice non aveva dato seguito alla richiesta di applicare l’art. 275 Cpp, nonostante il suo stato di grave deficienza immunitaria per le cure chemioterapiche. La Suprema corte, nel decidere la questione, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, ha ricordato che, in riferimento al rischio di contagio per la pandemia da Covid 19, l’incompatibilità con il regime carcerario delle condizioni di salute del detenuto per il rischio di contrarre l’infezione, ai sensi dell’art. 275 Cpp, deve essere concreta ed effettiva, dovendo tener conto sia delle patologie di cui risulta affetto il soggetto ristretto, tali da comportare, in caso di contagio, l’insorgere di gravi complicanze o la morte, sia delle obiettive condizioni dell’istituto penitenziario, per l’eventuale presenza di casi di contagio e la possibilità di adottare specifiche misure di prevenzione, atte a impedirne la diffusione. Dunque ha errato, secondo gli Ermellini, il giudice di merito nel ritenere che l’indagato non rientrasse in una delle categorie di soggetti la cui condizione di salute pregressa rendesse certa o altamente probabile l’evento morte in caso di contagio da Covid 19. Valutazione sbagliata in quanto la patologia oncologica del ricorrente rientrava tra quelle segnalate dal Dap come statisticamente collegate a un elevato rischio di complicanze in caso di contagio da Covid-19. Non solo. Per il Palazzaccio non è sufficiente basarsi sull’assenza nell’istituto di casi di contagiati e sulla previsione dell’allocazione in luoghi separati dei detenuti positivi al Covid 19. Al contrario bisogna soffermarsi sull’incompatibilità tra il regime detentivo carcerario e le condizioni di salute del detenuto, Inoltre deve essere valutata l’astratta idoneità dei presidi sanitari sanitari fruibili all’interno del penitenziario e l’adeguatezza concreta del percorso terapeutico idoneo alle esigenze del malato. Consiglio d’Europa, no all’internamento per i disturbi mentali di Katia Poneti* Il Manifesto, 26 maggio 2021 All’inizio di giugno, Il Comitato di Bioetica del Consiglio d’Europa voterà una bozza di protocollo aggiuntivo alla Convenzione di Oviedo in tema di trattamento involontario (involuntary treatment) e di internamento involontario (involuntary placement) delle persone con disabilità mentale. Questo testo ha suscitato l’opposizione delle associazioni a favore dei diritti delle persone disabili, tanto che lo European Disability Forum- EDF ha lanciato la campagna Withdraw Oviedo, per il ritiro della bozza. La Convenzione di Oviedo sui Diritti Umani e la Biomedicina, adottata nel 1997 dal Consiglio d’Europa, stabilisce una serie di principi e divieti di rilevanza bioetica. Nonostante la sua importanza, molte delle disposizioni sono obsolete alla luce della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità (CRPD) adottata nel 2007 dalle Nazioni Unite. Come l’articolo 6 della Convenzione di Oviedo, che mantiene l’incapacità al consenso fondata sulla disabilità, e l’articolo 7, che autorizza il trattamento involontario contro le persone con disabilità psicosociali. Il testo e lo spirito della bozza di protocollo aggiuntivo alla Convenzione di Oviedo, oltre a violare la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata da 46 dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa, incluso l’Italia), contrasta con la legge 180/1978. Questa legge, ribadendo il principio generale della volontarietà del trattamento, stabilisce un’unica procedura, sottoposta a chiari limiti, anche temporali, per l’esecuzione di trattamenti involontari (TSO), con precise garanzie per il paziente psichiatrico. Al contrario, il testo del protocollo aggiuntivo reintroduce l’internamento, come in era manicomiale. Inoltre, rilancia l’idea della pericolosità sociale del paziente psichiatrico (che infatti sarà internato con provvedimento giudiziario), e non pone alcun limite temporale al trattamento e all’internamento involontari. In più, legittima e perciò rilancia la contenzione. Oltre all’opposizione del European Disability Forum e di un ampio arco di ONG che si occupano di salute mentale, si registra il parere negativo di organismi istituzionali a tutela dei diritti umani, a iniziare da quelli delle Nazioni Unite: come il Comitato per i diritti delle persone con disabilità, il Relatore Speciale sui Diritti delle Persone con Disabilità, il Relatore Speciale sul diritto alla salute, il Gruppo di Lavoro sulla detenzione arbitraria. Anche il Commissario per i Diritti Umani e l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa si sono espressi in maniera contraria. Nel giugno 2019, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha adottato all’unanimità una risoluzione su come porre fine alla coercizione nell’ambito della salute mentale, invitando gli Stati membri ad avviare immediatamente la transizione verso l’abolizione delle pratiche coercitive nelle strutture di salute mentale. Inoltre, nella sua raccomandazione 2158 (2019), l’Assemblea ha invitato il Comitato dei Ministri a dirottare gli sforzi dalla redazione del protocollo aggiuntivo alla stesura di linee guida per eliminare la coercizione nella salute mentale. Un’iniziativa simile è stata intrapresa dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) con la sua Quality Rights Initiative e la prossima stesura di una guida alle buone pratiche nei servizi di salute mentale di comunità per promuovere i diritti umani e la cura. Anche le ONG italiane sono mobilitate nella campagna Withdraw Oviedo e, in occasione del voto previsto in sede di DH-BIO, chiedono al governo italiano di opporsi all’adozione della bozza di protocollo alla Convenzione di Oviedo, rilanciando le indicazioni alternative dell’assemblea parlamentare. L’Italia, che possiede una delle legislazioni più avanzate a sostegno dei diritti nel campo della salute mentale, non deve avallare un passo indietro a livello europeo. *Comitato scientifico Società della Ragione “Stop alle intercettazioni di massa”. Ora lo dice anche la Cedu di Simona Musco Il Dubbio, 26 maggio 2021 La Corte ha stabilito che i programmi di intercettazione di massa svelati dall’informatico, attivista e whistleblower statunitense Edward Snowden violano i diritti dei cittadini alla privacy e alla libertà di espressione. Le intercettazioni di massa violano i diritti dei cittadini alla privacy e alla libertà di espressione. A stabilirlo, ieri, è stata la Corte europea dei diritti dell’uomo, che si è pronunciata sul ricorso presentato da Big brother watch - organizzazione britannica senza scopo di lucro per le libertà civili e la privacy - contro il Regno Unito, la cui condotta è stata giudicata illegale. La Corte ha infatti stabilito che i programmi di intercettazione di massa svelati dall’informatico, attivista e whistleblower statunitense Edward Snowden violano la Convenzione. L’ex agente Cia, nel 2013, svelò al mondo i dettagli di alcuni programmi top-secret di sorveglianza di massa della National Security Agency (Nsa), organismo che si occupa della sicurezza nazionale americana. Tra questi il programma di intercettazione telefonica tra Stati Uniti e Unione europea Prism, che consente di accedere ad email, chat, chat vocali e videochat, video, foto, conversazioni VoIP, trasferimento di file, notifiche d’accesso e dettagli relativi ai social, sfruttando il percorso dei dati nel tratto intermedio tra un nodo terminale e l’altro. Sono stati proprio i documenti forniti da Snowden a far scoprire che l’agenzia di intelligence britannica Gchq ha condotto intercettazioni su scala demografica, riuscendo così a raccogliere i dati di milioni di persone innocenti. Secondo la Corte, un regime di intercettazione collettiva, come forma di difesa dalle minacce del terrorismo e dalla possibilità di sfruttare internet per organizzare le attività terroristiche, non è di per sé illegale, ma in considerazione della natura mutevole delle tecnologie è necessario prevedere tutele specifiche per evitare abusi. In particolare, è necessario prevedere “salvaguardie end-to-end”, il che significa che, a livello nazionale, è necessario effettuare una valutazione in ogni fase del processo della necessità e proporzionalità delle misure prese, con specifiche autorizzazioni per l’effettuazione di intercettazioni collettive sin dal momento della definizione dell’oggetto e della portata dell’operazione. Operazione necessariamente soggetta a supervisione e revisione indipendente ex post, stabilendo i criteri di selezione dei dati raccolti e identificatori specifici del soggetto da controllare, criteri che, in Gran Bretagna, sono stati disattesi, interferendo, dunque, con i diritti della vita privata dei cittadini. Con tali attività, il governo britannico non sarebbe andato caccia di “obiettivi identificati”, bensì di dati, per decidere solo in un secondo momento chi sarebbe potuto essere un obiettivo. “L’ammissione di intercettazioni collettive non mirate - ha affermato il giudice Pinto de Alburquerque, che ha espresso un’opinione leggermente differente da quella dei colleghi, pur se unanimemente concordi nel riconoscere le violazioni da parte del Regno Unito - comporta un cambiamento fondamentale nel modo in cui vediamo la prevenzione del crimine e le indagini e la raccolta di informazioni in Europa dal prendere di mira un sospetto che può essere identificato al trattare tutti come un potenziale sospetto, i cui dati devono essere archiviati, analizzati e profilati. Una società costruita su tali fondamenta è più simile a uno stato di polizia che a una società democratica. Questo sarebbe l’opposto di ciò che i padri fondatori volevano per l’Europa quando firmarono la Convenzione nel 1950”. La Corte ha anche ribadito che tale metodo potrebbe comportare una violazione delle fonti giornalistiche, ribadendo che la protezione delle fonti è uno dei cardini della libertà di stampa e, come tale, è inviolabile. Tra i ricorrenti, infatti, c’era anche un’organizzazione giornalistica, alla quale è stata riconosciuta l’interferenza con il diritto alla libertà di espressione. E una qualsiasi interferenza, secondo la Corte, rischierebbe di avrebbe un impatto negativo sul ruolo fondamentale di controllo pubblico della stampa e sulla sua capacità di fornire informazioni accurate e affidabili. Le tecniche di intercettazione di massa messe in atto dalla Cia, secondo quanto rivelato da Snowden, hanno interessato anche l’Italia, tra i Paesi più spiati e sotto “tutela” da parte dell’intelligence americana. Il caso più eclatante è quello del rapimento dell’imam Abu Omar, vittima di un’operazione di “extraordinary rendition”, per la quale l’Italia è stata condannata proprio dalla Cedu: secondo i giudici, infatti, le autorità italiane erano a conoscenza di tale operazione illegale, cominciata con il rapimento dell’Imam in Italia e continuata con il suo trasferimento all’estero, dove è stato sottoposto a torture. Il governo, sulla vicenda, ha però apposto e confermato il segreto di Stato, assicurando così che i responsabili sfuggissero alle proprie responsabilità, nonostante le condanne inflitte dai giudici italiani, rimaste lettera morta. Simpatie per l’Islam radicale, espulsione anche senza responsabilità penale di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2021 Il Consiglio di Stato, sez. III, 19 maggio 2021, n. 3886, ha chiarito che la finalità di prevenzione giustifica la misura anche se il reato non è stato compiuto. L’espulsione dello straniero ritenuto vicino all’estremismo islamico è legittimo perché ha finalità di prevenzione. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 19 maggio 2021, n. 3886 (Pres. Frattini, Est. Noccelli), chiarendo che a fronte di una minaccia per la sicurezza nazionale non è necessario che sia comprovata la responsabilità penale e neppure che il reato sia stato già compiuto. La vicenda - Il caso riguardava un cittadino tunisino residente in Italia con permesso di soggiorno per motivi di famiglia, coniugato con una italiana e padre di un minore sempre residente in Italia. Il Ministero dell’Interno ha poi accertato che il ricorrente aveva in più occasioni fornito false generalità ed riportato diverse condanne penali e che inoltre si era separato nel 2015. Il Tribunale di Padova avevano previsto che il figlio fosse collocato presso la nonna materna, senza alcun obbligo di mantenimento del padre, in ragione del suo stato di difficoltà economica. Dagli accertamenti effettuati era emerso poi che aveva assunto posizioni religiose radicali, consultando e condividendo contenuti inerenti la guerra siro-irachena, dai quali era lecito desumere una vicinanza alla causa dell’autoproclamato Stato Islamico. Aveva inoltre manifestato profondi sentimenti di avversione nei confronti di coloro che praticano il cristianesimo. La motivazione - Il Tribunale ricorda con riferimento all’espulsione ex art. 3, comma 1, Dl n. 144 del 2005 (ma con argomentazioni ben estendibili a tale misura adottata ai sensi dell’art. 13 del Dlgs n. 286 del 1998) che si tratta di una disposizione che prevede procedure pienamente assimilabili alle misure di sicurezza che si adottano con finalità di prevenzione e che, avendo come finalità quella di prevenire il compimento di reati, non richiede che sia comprovata la responsabilità penale e neppure che il reato sia stato già compiuto. Infatti, prosegue la decisione, il presupposto per l’espulsione è costituito solo dai fondati motivi per ritenere che la presenza dello straniero possa agevolare in vario modo organizzazioni o attività terroristiche e, comunque, mettere in pericolo, con azioni anche proselitistiche, la sicurezza dello Stato. Ed è dunque solo questo il parametro da adottare per valutare la legittimità del provvedimento e, cioè, se esso sia in grado di prevenire la concreta possibilità di comportamenti atti a mettere in pericolo l’ordinamento e i suoi cittadini. Nella specie, afferma il Collegio, il provvedimento del Prefetto enuncia elementi di fatto più che sufficienti. Come è stato ben messo in rilievo dalle Sezioni Unite, continua il ragionamento dei giudici, nel caso in cui il provvedimento di espulsione sia stato adottato per motivi di prevenzione del terrorismo o, più in generale, a causa della pericolosità dello straniero per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato, la posizione giuridica dell’interessato è di interesse legittimo e la giurisdizione nella relativa controversia spetta al giudice amministrativo (cfr. art. 3, comma 4, del già citato d.l. n. 144 del 2005), “essendo rimessa all’amministrazione, non una mera discrezionalità tecnica e ricognitiva al cospetto di ipotesi già individuate e definite dal legislatore nel loro perimetro applicativo, ma una ponderazione valutativa degli interessi in gioco” (Cass., Sez. Un., 27 luglio 2015, n. 15693). Una ponderazione comparativa correttamente svolta dal Ministero dell’Interno, avuto riguardo a tutti i gravi elementi a carico dell’odierno appellante che dimostrano una pericolosissima vicinanza al fondamentalismo islamico. Non solo, per la Sezione la tutela della vita privata e familiare, sancita anche dall’art. 8 della Cedu, non è incondizionata, posto che l’ingerenza dell’autorità pubblica nella vita privata e familiare è consentita, ai sensi dell’art. 2 della Cedu, se prevista dalla legge quale misura necessaria ai fini della sicurezza nazionale, del benessere economico del Paese, della difesa dell’ordine e della prevenzione dei reati, della protezione della salute e della morale e della protezione dei diritti e delle libertà altrui. Un approdo condiviso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo secondo cui la commissione di gravi reati, come quelli di natura terroristica, ben può legittimare l’espulsione dello straniero senza che ciò implichi una illegittima ingerenza nella vita familiare e al conseguente violazione dell’art. 8 Cedu (v., tra le tante, le sentenze 7 agosto 1996, C. c. Belgio, ric. n. 21794/93; 24 aprile 1996, Boughanemi c. Francia, ric. n. 22070/93; 22 giugno 2004, Ndangoya c. Svezia, ric. n. 17868/03; 13 dicembre 2005, Pello-Sode c. Svezia, ric. n. 34391/05). La Corte ha infatti enunciato precisi criteri ai quali si deve ispirare il giudice nazionale (v. le sentenze, Boultif c. Suisse, ric. n. 54273/00, § 40, Üner c. Pays-Bas, ric. n. 46410/99, §§57-58) per appurare “se una misura d’espulsione è necessaria in una società democratica e proporzionata rispetto al fine legittimo perseguito” e, alla luce di tali criterî e avuto riguardo agli elementi analizzati nel caso di specie e sin qui ricordati, ha ritenuto la Sezione recessivo l’interesse dello straniero alla vicinanza al figlio. Infine, in una società democratica la tutela dell’ordine pubblico contro la minaccia del terrorismo può giustificare il sacrificio dei rapporti familiari se l’allontanamento dello straniero è misura necessaria e proporzionata a tale legittimo scopo, non potendo essere scongiurata altrimenti la minaccia reale di un attentato alla sicurezza pubblica e all’ordine costituito (v., circa la legittimità di analoga misura adottata dall’Italia contro un cittadino tunisino, anche la sentenza della Corte nel caso Cherif. et. a. c. Italie, ric. 1860/07). Sardegna. Carceri, situazione in allarme: “Quattro direttori per 10 istituti di pena” sardiniapost.it, 26 maggio 2021 La situazione amministrativa delle carceri isolane si fa sempre più difficile, stando alla denuncia dell’associazione Sdr (Socialismo diritti e riforme) che evidenzia i numeri sottodimensionati. Infatti ci sono solo quattro direttori che devono amministrare dieci istituti di pena. Ultimo caso quello di Sassari: “Apprendere che la Casa Circondariale di Sassari (400 detenuti, 90 in 41bis) non ha più un direttore in pianta stabile ma è stata assegnata alla responsabile di Nuoro (280 ristretti tra cui alcuni in 41bis) e Mamone (106 reclusi) è scandaloso. Documenta, se ancora ce ne fosse bisogno, vista la realtà degli Istituti penitenziari dell’isola, che non c’è più sordo di chi non vuole sentire”. A parlare è la rappresentante dell’associazione, Maria Grazia Caligaris, che aggiunge: “Il Dipartimento ignora da anni la situazione e oltre a mandare qualche rimpiazzo temporaneo non ha mai fatto una vera e propria azione risolutiva. Ciò è ancora più grave considerando la pandemia non ancora debellata”. L’esponente di Sdr precisa che “non conosciamo le ragioni di questo provvedimento siamo però certi che non si possono assegnare doppi e tripli incarichi senza considerare non solo la complessità delle singole realtà penitenziarie ma anche le distanze chilometriche e i relativi percorsi stradali. Attualmente sono in servizio quattro direttori anche se nei prossimi mesi completerà il suo percorso lavorativo per sopraggiunta pensione Pierluigi Farci, responsabile della Casa di Reclusione di Oristano-Massama e di Is Arenas. A breve quindi la responsabilità ricadrà su tre persone che, per quanto possano avere straordinarie qualità umane e professionali, non potranno far fronte a tutte le emergenze. Peraltro sarà molto difficile per loro poter usufruire persino di un permesso di necessità, per non parlare delle ferie. Occorre altresì sottolineare che a Bancali manca in pianta stabile anche il comandante della Polizia penitenziaria nell’indifferenza più totale”. A pagare le conseguenze di questa situazione sono anche “i reclusi, i loro familiari e l’intero sistema giudiziario. Il loro ruolo è fondamentale per ogni decisione che deve essere assunta nella quotidianità. Senza figure stabili si rischia di vedere tramontata ogni speranza che la detenzione possa avere un ruolo riabilitativo e risocializzante. Una partita persa prima ancora di essere scesi in campo. In Sardegna il Garante per le persone private della libertà dovrà occuparsi anche dei Direttori”. Aversa (Ce). Protestano i detenuti del carcere: “Troppe restrizioni nei colloqui” di Raffaele Sardo La Repubblica, 26 maggio 2021 Il garante dei detenuti Samuele Ciambriello, scrive al Provveditore regionale del ministero della giustizia: “Uniformare le linee guida per i colloqui in tutte le carceri campane”. L’altra sera e per tutta la mattinata di ieri (martedì 25), i detenuti del carcere di Aversa hanno ripetutamente battuto sulle sbarre pentole e altri oggetti per protestare contro la limitazione dei colloqui con i familiari in tempi di Covid. “La battitura” ha creato allarme e attenzione anche all’esterno del carcere, perché il rumore arrivava fin nelle case circostanti la casa di reclusione. I detenuti protestano perché attualmente sono impediti gli abbracci tra familiari. I colloqui in presenza vengono fatti separando familiari e detenuti con un vetro di plexiglass. Per chi, invece, non può fare il colloquio in presenza, è consentita la videochiamata. Nel carcere di Aversa vi sono attualmente 162 detenuti, di cui solo 10 non sono vaccinati. L’istituto penitenziario di Aversa è anche una “casa-lavoro” per più di 42 detenuti. Un istituto normativo nato negli anni ‘30, che oggi dovrebbe essere largamente superato. Infatti consente che chi ha finito di scontare una pena e viene ritenuto ancora “socialmente pericoloso” può essere internato nella casa di lavoro per altri due anni. Di solito capita agli ex detenuti, internati nelle cosiddette R.E.M.S (Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza) che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. Attualmente vi sono 325 persone in tutta Italia nelle “case lavoro”. La protesta, che è finita nella tarda mattinata, grazie anche alla mediazione della direttrice Stella Scialpi, era indirizzata verso la magistratura di sorveglianza. I detenuti chiedono anche permessi di uscita all’esterno, così come avviene negli altri istituti di pena, considerato anche che ad Aversa transitano detenuti che sono ormai a fine pena o che scontano piccole condanne. Ma il magistrato di sorveglianza ha fatto sapere, attraverso una missiva indirizzata anche ai detenuti, che finché non sono tutti vaccinati o fino a quando non c’è una normalizzazione all’esterno del carcere, le disposizioni per i colloqui restano sempre le stesse. Intanto la direzione del carcere sta organizzano la possibilità di fare dei colloqui all’aperto negli ampi spazi del carcere nei giardini, senza il plexiglass. Sta predisponendo un’area attrezzata dedicata proprio ai colloqui, ma ci vuole ancora del tempo per renderla operativa. Intanto il Garante dei detenuti della Campania, Samuele Caimbriello, ha scritto al Provveditore Campano per l’Amministrazione Penitenziaria, chiedendo che dal primo giugno ci sia una uniformità nelle linee guida per il numero dei familiari che i detenuti possono incontrare sia per le modalità in presenza che videochiamata. “Se non c’è uniformità si creano disagi, perché attualmente ad Aversa - spiega Ciambriello - la direttrice ha consentito che chi non può fare colloqui in presenza farà i colloqui in videochiamata. A Poggioreale, per esempio, ciò non è consentito. Anche per questo ho scritto al provveditore regionale delle carceri perché detti linee guida uniformi per tutte le carceri della Campania. Questo può evitare ulteriori tensioni nelle carceri”. “La protesta, è rientrata - dice un familiare all’esterno del carcere di Aversa, mentre esce dall’istituto di pena - ma la tensione resta. Speriamo che tutto si possa tranquillizzare”. “Sono contento di apprendere che la mediazione della Direzione del carcere - dice Samuele Ciambriello, Garante regionale dei detenuti - sta portando a creare anche situazioni tali che consentano di fare i colloqui all’aperto con una distanza fisica tale da rendere sicuri gli incontri. E poi sono ulteriormente contento che ad una quindicina di detenuti si darà la possibilità di reinserimento sociale perché è stata sottoscritta una convenzione tra il carcere, l’ufficio del garante e il Comune di Aversa per utilizzare all’esterno questi detenuti. È una possibilità concreta di reinserimento sociale. Non solo ma ci sarà la possibilità di utilizzare anche altre borse lavoro, di cui 7 messe disposizione da questo Ufficio, che consentiranno ad altri detenuti di utilizzare il diritto al lavoro per reinserimento sociale”. Genova. Approvata proposta per l’istituzione del Garante dei detenuti, soddisfazione del Pd lavocedigenova.it, 26 maggio 2021 La consigliera comunale democratica Cristina Lodi: “Questa proposta vuole contrastare il rischio che il divario fra città e carcere possa essere sempre più forte e marcato”. Il Comune di Genova ha detto sì alla proposta di delibera presentata dal Partito Democratico per l’istituzione del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. “Questo risultato mi dà grande soddisfazione - dichiara la consigliera comunale Cristina Lodi che ha lavorato al documento - ed arriva al termine di un percorso partecipato in cui sono state coinvolte numerose associazioni che ogni giorno offrono servizio all’interno del carcere. Ringrazio la Conferenza regionale del volontariato e giustizia della Liguria insieme a tutti coloro che durante le audizioni in aula hanno portato il loro contributo, così come le opposizioni. Questa proposta vuole contrastare il rischio che il divario fra città e carcere possa essere sempre più forte e marcato e dà alla nostra città un’opportunità che ha in sé sia elementi di garanzia che funzioni di indirizzo, studio e promozione all’accesso ai servizi comunali”. Milano. Boschetto di Rogoredo, il pusher di 15 anni e gli altri travolti sulla ferrovia di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 26 maggio 2021 Nonostante gli interventi, l’area “suscita tuttora un grandissimo allarme sociale”. Dodici arresti nel clan della droga. Sei giovani spacciatori morti investiti dai treni: uno era un minorenne del clan Mansouri. La sera del 5 dicembre 2020. Sono le dieci. L’Intercity notte per Lecce supera la stazione di Rogoredo e corre verso Bologna. Le carrozze viaggiano a novanta all’ora, è buio pesto. Il macchinista intravede una sagoma sul lato sinistro della motrice. Non fa neppure in tempo ad azionare i freni. Il colpo non lascia scampo. Il treno si ferma 500 metri più avanti. Il macchinista dà l’allarme e con una torcia risale i binari. A fianco delle rotaie c’è il corpo di un giovane uomo, è gracile, ha la pelle olivastra. Non è un suicidio. Gli investigatori della Polfer lo capiscono appena la vittima viene identificata: Mohamed Mansouri, marocchino, senza fissa dimora. Mansouri non è uno dei tanti fantasmi che popolano la zona di Rogoredo. È un ragazzo di 15 anni che fa parte del più importante clan magrebino dello spaccio. Sono loro ad avere in mano buona parte del mercato della droga nei boschi milanesi. Da Rogoredo al Parco delle Groane. Vengono da Oulad Fennane, paesino rurale di 8 mila abitanti nell’entroterra del Marocco. Anche Mohamed, nonostante i suoi 15 anni, aveva alle spalle la traversata del Mediterraneo e una vita difficile in strada. Ma soprattutto era uno dei Mansouri e come i parenti vendeva droga nel più florido mercato d’Italia dell’eroina. Gli investigatori lo avevano fotografato nella sua postazione, a poche centinaia di metri dal luogo in cui è stato travolto: un banchetto artigianale attrezzato sul basamento del muro di cinta della ferrovia. I disperati in cerca di una “punta” di eroina da una parte, lui dall’altra con la mano che si infila oltre la recinzione, in un’intercapedine, prende i soldi e passa la dose. Mohamed Mansouri era una delle sei vittime “collaterali” del bosco di Rogoredo. Ragazzi, pusher o consumatori, morti investiti dai treni mentre attraversavano i binari per raggiungere il grande mercato. Sono 12 gli arresti eseguiti lunedì dalla squadra di polizia giudiziaria della Polfer, guidata dal commissario Angelo Laurino. Pusher e grossisti del Boschetto. Tutti marocchini (due Mansouri) tranne Ambra C., 33 anni, incensurata, schiava della droga che faceva da autista: “Quando non mi dà i soldi, due grammi e mezzo di nera me li dà. E io preferisco”, diceva. Il gruppo aveva in mano una parte del Boschetto, la zona che da via Sant’Arialdo ai campi di San Donato. “Sono stati fatti grandi interventi, ma la soluzione è ancora lontana. L’area continua a richiamare tantissimi consumatori”, hanno spiegato l’aggiunto Laura Pedio e il pm Leonardo Lesti che hanno coordinato l’indagine. Rogoredo “suscita tuttora un grandissimo allarme sociale”, ha rimarcato il gip Stefania Donadeo nel suo provvedimento. Oltre 100 i fogli di via emessi dalla questura in questi mesi. La droga veniva pericolosamente nascosta nella massicciata lungo i binari. Oppure gettata dai grossisti ai pusher dall’auto in corsa: “Rallenta rallenta finché non passa quello. La strada è nostra, amico. L’hai lanciata?”. Sono 39 le cessioni documentate. In alcuni casi i poliziotti si sono dovuti fingere tossicodipendenti per avvicinarsi agli spacciatori. Tutto avveniva al “Ponte spezzato”, a 1.300 metri da Rogoredo. Gli investigatori della Polfer partono seguendo i consumatori e i cellulari trovati a casa di Ossama Riagi, detto Sofiane, 23 anni. Da lui arrivano a Salah Sandar, altro magrebino arrestato a febbraio che custodiva la droga in una casa abbandonata di via Kuliscioff, vicino a Bisceglie. Sofiane era attentissimo: condannato a 4 anni già da minore, non toccava mai la droga, stava sempre attento a non “bruciare” i luoghi d’imbosco dello stupefacente. La banda non si fermava mai: “C’è in giro roba scadente. Mi sono stancato a tagliarla”. “L’hai fatta diventare troppo scura”. “Sto aggiungendo da me, se trovo la bilancia. Sarà una spazzatura”. Taranto. Nel carcere arriva la “Pasticceria Sociale” Quotidiano di Puglia, 26 maggio 2021 Un progetto di reinserimento all’interno del carcere, nasce la Pasticceria Sociale: “Vogliamo che siano reintegrati nel mondo del lavoro”. Nasce a Taranto, all’interno della Casa circondariale, la “Pasticceria Sociale”: si tratta di un progetto di reinserimento e integrazione per le persone soggette a provvedimenti restrittivi di natura giudiziaria. Il sindaco Rinaldo Melucci e la direttrice della Casa circondariale cittadina Stefania Baldassari hanno sottoscritto il protocollo d’intesa per dare il via alle attività dedicate allo sviluppo del progetto. L’amministrazione, grazie alla collaborazione tra gli assessori ai Servizi Sociali Gabriella Ficocelli e allo Sviluppo Economico Fabrizio Manzulli, con questo protocollo si impegna a organizzare tutte le attività previste per l’ampliamento del laboratorio di pasticceria già esistente, con l’adeguamento dei locali esistenti e dell’impianto elettrico, oltre la realizzazione di un portale per l’e-commerce e l’e-marketing. L’obiettivo è promuovere su scala nazionale i prodotti che verranno realizzati all’interno del nuovo laboratorio. Il Comune di Taranto ha previsto, in favore della Casa circondariale, 150mila euro per la fornitura di attrezzature e 50mila euro per servizi connessi al progetto. Si tratta di fondi a valere sulla quota complessiva di 20,5 milioni di euro di cui l’amministrazione è destinataria nell’ambito del “Piano relativo a interventi volti a garantire sostegno assistenziale e sociale per le famiglie disagiate nei comuni di Taranto, Statte, Crispiano, Massafra e Montemesola”. “Oggi si inizia a realizzare plasticamente qualcosa di importante - le parole del primo cittadino -, che deriva da una legge delle 2016 che aveva individuato risorse da destinare a progetti rivolti a categorie sensibili. Insieme alla direttrice Baldassari, abbiamo individuato una di queste categorie nelle persone attualmente soggette a provvedimenti restrittivi di natura giudiziaria: aderendo ai principi costituzionali, vogliamo che siano reintegrati nel mondo del lavoro e nelle dinamiche della comunità. La firma apre una prospettiva importante per alcune di queste persone, è l’inizio di una sperimentazione che con la dottoressa Baldassari vogliamo estendere progressivamente ad altre categorie”. “Tra Comune e Casa circondariale - il commento della direttrice Baldassari - c’è un legame che ha visto una perfetta sinergia in ogni fase della stesura di questo protocollo, soprattutto rispetto alla finalità di questa progettualità finanziata direttamente dal ministero competente. Siamo tutti orientati verso il raggiungimento delle medesime finalità, il miglioramento di questo territorio, ciascuno secondo le proprie competenze”. Pistoia. “Stabat Mater”, i detenuti del Santa Caterina attori nel corto di Giuseppe Tesi di Giacomo Carobbi Il Tirreno, 26 maggio 2021 Tutto esaurito al “Piccolo Bolognini” per la prima nazionale di “Stabat Mater” messa in scena in chiave moderna dell’opera della poetessa Grazia Frisina. Proiettato per la prima volta, al Piccolo Teatro Mauro Bolognini, il cortometraggio “Stabat Mater”, frutto del progetto voluto e realizzato dall’associazione teatrale Electra del regista pistoiese Giuseppe Tesi, che ha visto recitare attori teatrali professionisti insieme ad alcuni detenuti della casa circondariale di Santa Caterina in Brana, dove sono state girate gran parte delle scene. Una prima nazionale importante per un’opera altrettanto speciale che in poche ore ha visto esaurirsi i biglietti a disposizione per il pubblico e che proprio nei giorni scorsi, dopo la diffusione via web del trailer, si è guadagnata il patrocinio del Senato della Repubblica. Un riconoscimento che va ad affiancare quelli di Regione e Comune, per la soddisfazione del regista. “I patrocini conferiscono dignità - ha dichiarato Tesi, 55 anni, fiorentino di nascita ma con base professionale stabilmente in città da molti anni - e la dignità è elemento immediato di distinzione oltre ad essere la prima componente che deve essere ricercata nell’espressione artistica. Ma l’altro aspetto con cui con molta umiltà il gruppo di lavoro si è mosso è quello di aver cercato un contatto con le emozioni ed una risposta nei sentieri della speranza. E questa, a differenza della dignità, ha il respiro più ampio ed ha il linguaggio eterno del cinema e del teatro”. Il progetto “Stabat Mater” parte da lontano. I lavori erano iniziati prima dello scoppio della pandemia e sono stati portati avanti anche grazie a una campagna di crowdfunding che ha coinvolto enti, sponsor e privati cittadini. L’opera consiste nella messa in scena in chiave moderna dello Stabat Mater, così come l’ha interpretato la poetessa siciliana Grazia Frisina nella sua opera “Madri”, con una sceneggiatura rielaborata dallo stesso regista e da Martina Novelli. A fianco dei detenuti hanno lavorato l’attrice di scuola ronconiana Melania Giglio e Giuseppe Sartori, prodotto della fucina del Piccolo di Milano, che ha coadiuvato Tesi anche nel ruolo di aiuto regista. “Con il variare di scene, volti, voci, rumori, musiche, di ritmi incalzanti - spiega il regista - si assiste al pianto di Maria che s’intreccia e diventa contrappunto dolente al fluire di storie, di vite spezzate, di rimpianti taciuti, di sogni soffocati, che nel profondo ci toccano e ci attraversano assieme al senso misterioso della vita tutta”. Andrea Nicastro, il nuovo libro: a Kabul, per capire gli “altri” (e noi) di Francesco Battistini Corriere della Sera, 26 maggio 2021 Il saggio dell’inviato del “Corriere della Sera” (Rubbettino Editore): tra reportage e riflessione, alle radici del Jihad. Casomai un giorno vi capitasse di prendere un autobus a Kabul, cosa poco raccomandabile visto che ne salta per aria uno all’anno, sul cartello d’ogni fermata trovereste una bandierina giapponese. È un segno di riconoscenza per le donazioni fatte ai trasporti urbani dal governo di Tokyo, ma molti afgani non lo sanno: per loro, quel cerchio rosso su campo bianco è semplicemente il simbolo dei bus. E in tanti anni, fra mille chiacchiere sul colonialismo culturale, non s’è mai pensato di cambiarlo. Anche a Belgrado circolano vecchi pullman gialli mandati dal Giappone dopo le bombe del ‘99, e hanno tutti una bandierina uguale a quelle di Kabul. Ma nella Parigi dei Balcani nessuno scambierebbe mai un dono per un logo: ai mezzi pubblici provvede con orgoglio una serbissima compagnia coi caratteri in cirillico, e guai a rinunciarvi. Perché l’identità d’un popolo s’oblitera anche sui bus e la differenza sta tutta qui: gli Altri non sono sempre uguali. Ci sono vecchi nemici (i serbi) simili a noi bianchi, cristiani ed europei, e nei dopoguerra è facile scarrozzarli sui posti riservati; ce n’è altri (l’Islam) diversi da noi, scuri ed esotici, ed è meglio tenerli distanti, sui posti in fondo, spettri che ci seguono ma non ci accompagnano. Questi fantasmi. “I cani - disse un giorno uno psicanalista - vedono un’ombra, si spaventano e abbaiano prima di capire”. E fanno branco. E fanno guerra. E fanno prevalere l’istinto sulla ragione, mordendo i loro spettri. Gli uomini non sono diversi. Scavano confini, montano recinti, dividono i passeggeri. E che cos’è questo abbaiare agli Altri, visti solo come una minaccia, se non il pregiudizio instillato da qualche tele-predicatore del Golfo nell’infelicità araba? O il panico da sottomissione all’Islam, descritto da Houellebecq, che agita le nostre coscienze? È partendo da qui - “noi esseri umani siamo così, quando abbiamo paura e ci sentiamo deboli, piccoli, esposti, umiliati, vulnerabili cerchiamo rifugio nel branco dei nostri simili” - che Andrea Nicastro intraprende un viaggio nelle ombre che spaventano gli Uni e gli Altri: inviato al “Corriere della Sera” con molti timbri sul passaporto, fra i primi a entrare nella Kabul liberata o nella botola dove fu catturato Saddam, Nicastro riprende il titolo d’una famosa canzone pop e scrive Gli Altri siamo noi. Perché tradire la democrazia scatena il Jihad (Rubbettino Editore), con prefazione di padre Alex Zanotelli. Un po’ saggio, un po’ pamphlet, un po’ reportage, un po’ pièce. Per pescare nell’antropologia come nelle ricette di cucina, nelle ricostruzioni storiche come nelle interviste. E spiegarci quanto sarebbe possibile - altro che scontro! - un vero incontro di civiltà. “Sentire umane le persone che appaiono minacciose”, dice Nicastro, sarebbe già un ottimo inizio. Un approccio più alla Terzani che alla Fallaci: “Capire che cosa pensano questi Altri che ci spaventano. L’obbiettivo non è aderire alle loro ragioni o flagellarci per i nostri comportamenti riprovevoli. Piuttosto sapere in base a quali informazioni gli Altri agiscono, condannarli se e quando è il caso, ma non giudicarli pazzi o nemici perché è semplicemente troppo faticoso ascoltare quel che hanno da dire”. Ci avviciniamo al ventennale dell’11 Settembre e una domanda ci aspetta: è finita la guerra dei vent’anni? Nì, se guardiamo ai grandi scenari: Biden che suona il ritiro da un Afghanistan per niente pacificato, l’Isis sconfitto in Siria e risorgente in Africa… No, se al terzo atto entriamo con Nicastro e il suo fixer Habib in un piccolo appartamento di Kabul e con loro ci accomodiamo a mangiare il kabuli palau: ascoltando la moglie di Habib, Amina, che con intelligenza smonta un ventennio di luoghi comuni sul loro maschilismo e sulle nostre prostituzioni, sui loro burqa e sulle nostre mastoplastiche, sulle loro poligamie e sui nostri divorzi. Una che non ha ricevuto molto, dalla nostra democrazia formato esportazione: “Se potessi, direi alle femministe occidentali di venire la mattina presto al mercato, prima che le mosche e la polvere velenosa coprano i quarti di montone. Se proprio si credono migliori, vengano qui a vivere senza frigorifero, senza acqua, senza lavatrice, senza poliziotti onesti. Anche a loro servirebbe un uomo. Anche a loro servirebbe un vicino. E agli uomini servirebbero loro”. “Yeh hum naheem!”, noi non siamo questo, cantavano gli artisti pakistani nell’infernale 2004 delle autobombe, per dire al mondo che gli Altri sono ben altro. E che disprezzarli o demonizzarli, schiacciarli con l’aiuto d’un Musharraf o d’un Al Sisi, congelarli in una Striscia di Gaza o nei campi profughi, tutto questo serve solo a spingere la notte un po’ più in là. Quando “ci vorrebbe una Greta Thunberg - scrive Nicastro - che gridi al mondo i rischi delle guerre e delle ingiustizie, invece che solo il pericolo dell’inquinamento”. (Per tornare ai giapponesi: i primi kamikaze li hanno inventati loro, ma oggi è tutto finito nel soffitto della memoria, “dai samurai militaristi e fanatici all’all you can eat sushi non sono passati neppure ottant’anni, un soffio nella storia, e non so fra ottant’anni cosa si dirà degli shadid che oggi ci fanno tanta paura: è possibile che saranno svaniti insieme con l’islamismo”). Il Jihad, come furono nel passato il panarabismo o la lotta comunista, è un posto in autobus offerto a chi si sente appiedato dall’Occidente. Avanti, c’è posto: quel bus sarà sempre affollatissimo. Finché non decideremo di salirci e guidarlo insieme, gli Uni e gli Altri. Con posti uguali. E andando in un’altra direzione. Dai “prigionieri dimenticati” agli abusi di Lukashenko: la lotta infinita di Amnesty di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 26 maggio 2021 Cominciò nel 1961 con una notizia letta in metro: l’arresto di due giovani studenti portoghesi che a Lisbona avevano brindato alla libertà. Oggi l’ong compie 60 anni, passati a combattere le ingiustizie. “Aprite il vostro quotidiano un qualsiasi giorno della settimana e troverete la notizia di qualcuno, da qualche parte del mondo, che è stato imprigionato, torturato o ucciso poiché le sue opinioni e la sua religione sono inaccettabili per il suo governo”. Sessant’anni dopo, la foto sulle prime pagine di mezzo mondo del volto tumefatto del dissidente bielorusso Roman Protasevich rapito dalla polizia del dittatore Alexander Lukashenko col criminale dirottamento del volo Ryanair da Atene a Vilnius, conferma esattamente quanto scrisse sessant’anni fa l’allora trentanovenne londinese Peter Benenson. Aveva letto sul giornale, mentre viaggiava sulla metro, che due studenti portoghesi erano stati arrestati e condannati dalla magistratura in pugno all’autocrate fascista António de Oliveira Salazar perché “colpevoli” di aver fatto un brindisi alla libertà in un caffè di Lisbona e non riusciva a toglierselo di mente: ma come, in Europa, quindici anni dopo la fine della guerra e dei regimi di Hitler e Mussolini! Scandalizzato, aveva inviato quindi al settimanale londinese The Observeruna lettera aperta dal titolo “The Forgotten Prisoners”, i prigionieri dimenticati, che cominciava proprio con quelle parole su citate. I miracoli, a volte, capitano. E fu così quel 28 maggio 1961: l’appello ai lettori perché si mobilitassero, scrivessero ed esercitassero pressioni sui governi per chiedere l’amnistia e il rilascio dei prigionieri politici fu istantaneamente raccolto non solo dai cittadini ma da oltre una trentina di giornali internazionali. Poche settimane e dalla campagna di stampa nasceva Amnesty International. Che nel giro di sei mesi aveva già sedi e strutture in Gran Bretagna, Irlanda, nei Paesi Bassi, in Belgio, Francia, Svezia, Norvegia, Australia, Stati Uniti. Quel 1961 non era un anno qualsiasi. Era il centenario, spiegherà lo stesso Benenson, della liberazione dei servi della gleba in Russia e dell’inizio della guerra civile americana che avrebbe portato alla liberazione degli schiavi: “In passato i campi di concentramento e altri buchi infernali del mondo erano immersi nell’oscurità. Oggi sono illuminati dalla candela di Amnesty, una candela avvolta dal filo spinato. Quando ho acceso la prima candela di Amnesty avevo in mente un vecchio proverbio cinese: “Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità”“. Da quel momento, l’organizzazione umanitaria, che aveva scelto come obiettivo di partenza la liberazione di un poeta angolano, un filosofo romeno e un avvocato spagnolo tutti vittime di regimi di tipi diversi proprio per significare l’opposizione verso ogni tipo di dittatura, si è guadagnata il Nobel per la pace del 1977 dando battaglia sui fronti più diversi. Da Haiti, che Peter Benenson visitò nel 1964 spacciandosi per un turista così da raccontare gli orrori di Francois Duvalier detto Papà Doc, ai regimi militari africani, dall’Urss ai paesi arabi, dall’Indocina a Paesi occidentali sulla carta estranei a ogni violenza. Vent’anni dopo la fondazione, nel 1981, come ricorda un’inchiesta di Storia Illustrata, due numeri dicevano tutto: “Su 1.573 nuovi casi di prigionieri “adottati” si hanno 1.449 liberazioni: una percentuale altissima, addirittura strabiliante”. Certo, non sono mancate le polemiche. Soprattutto a partire dagli anni novanta. “Amnesty ha subito una metamorfosi profonda. Non si occupa più soltanto di prigionieri e dissidenti, ma spazia dal matrimonio omosessuale all’aborto come “diritto umano”“, riassunse ad esempio Giulio Meotti sul Foglio di qualche anno fa, “Un tempo, Benenson e soci si battevano contro l’apartheid e il comunismo. Oggi i loro eredi vogliono curare i peccati delle democrazie e si occupano di denunciare il big business e il climate change”. Vero? Falso? Il dibattito ogni tanto si riaffaccia. Certo è che ancora oggi, come ricordano campagne importanti come quelle contro la pena di morte (“perché uccidere chi uccide per dimostrare che non bisogna uccidere?”) ancora applicata in oltre 120 paesi del mondo o contro la barbarie delle “spose bambine”, Amnesty è sempre in prima fila. Contro le sevizie nei centri di detenzione di migranti in Libia, contro le sparizioni di dissidenti inghiottiti dalle prigioni cinesi, contro le esecuzioni (almeno 246 nel solo 2020) in Iran, contro i silenzi di tanti regimi sulla repressione del dissenso. Basti ricordare la sacrosanta e cocciuta attenzione con cui l’organizzazione umanitaria insiste da anni al fianco dei genitori per avere la verità sulla morte di Giulio Regeni o pretende la scarcerazione sempre in Egitto dello studente Patrick Zaki. Così come aveva dato battaglia perché fossero processati i carabinieri responsabili della morte di Stefano Cucchi. I quali dopo anni e anni sono stati sì condannati. Ma non per tortura. Dettaglio su cui alla pena di riflettere. Sono passati trecento novantuno anni, infatti, dalla “sentenza data a Guglielmo Piazza e Gio. Giacomo Mora i quali con onto pestifero hanno appestato la Città di Milano l’anno 1630” prima che un tribunale italiano condannasse finalmente, quest’anno, un pubblico ufficiale per questo tipo di reato. Certo, non c’è paragone tra i supplizi inflitti a un detenuto nel carcere di Ferrara (fatto “denudare e inginocchiare e in quella posizione percosso” e quindi vittima di un “trattamento inumano e degradante”) e quelli cui furono sottoposti (ne scrive Alessandro Manzoni in “Storia della colonna infame”) i due poveretti accusati d’essere gli untori della peste a Milano. Ma il ritardo italiano rispetto ad altre nazioni resta imperdonabile. Così come va registrato che questa prima condanna italiana (al minimo della pena, tre anni col rito abbreviato) era stata preceduta giorni prima dall’arresto di altre tre guardie del carcere di Sollicciano ma anche dalla reazione di Edmondo Cirielli, di Fratelli d’Italia: “Ribadiamo la necessità di riscrivere il reato di tortura, introdotto dalla sinistra per delegittimare il lavoro delle forze dell’ordine”. Ma come, alleggerirlo dopo tanti anni di battaglie perché fosse finalmente introdotto? Ecco: non è detto che la possibilità di processare i carnefici per il reato di tortura sia una conquista acquisita. Vale anche qui il monito di Pietro Calamandrei per le stesse fondamenta della nostra Repubblica: “La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lasci cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”. Sui migranti neanche Draghi scuote l’Unione europea di Carlo Lania Il Manifesto, 26 maggio 2021 Il premier: “Inaccettabili le immagini dei bambini morti”. La questione verrà affrontata nel vertice di giugno. Macron: “Intesa difficile”. L’Europa che si occupa di economia o che discute di vaccini è molto diversa da quella che affronta temi spinosi come l’immigrazione. Sulle prime due questioni si dibatte e si litiga ma alla fine trovare un accordo che vada bene a tutti, o quasi, non è impossibile. Ma sui secondi si rischia di andare a sbattere contro il muro che da anni hanno sollevato molte capitali europee. Mario Draghi l’ha capito ieri al termine del consiglio europeo nel quale ha provato a spiegare che occorre un cambio di passo rispetto a come i 27 hanno affrontato l’emergenza migranti fino a oggi. E in particolare la questione dei ricollocamenti tra gli Stati membri: “Deve esserci un accordo più efficace, la pura volontarietà ha dimostrato di essere abbastanza inefficace”, spiega al termine del vertice. Il premier parla con negli occhi le immagini terribili diffuse dalla ong Open Arms dei cadaveri di bambini sulla spiaggia di Zuwara, in Libia. Immagini che giustamente definisce “inaccettabili” ma che non sembrano riuscire a spingere i capi di Stato e di governo, al di là della solidarietà mostrata anche in passato di fronte ad altre tragedie del Mediterraneo, fino a prendere decisioni più coraggiose come varare una missione europea di ricerca e soccorso oppure aprire all’accoglienza di quanti sbarcano sulle nostre coste. Unica concessione: accettare di discutere di immigrazione nel prossimo vertice che si terrà a giugno, l’ultimo prima dell’estate. “I primi passi sembrano dimostrare una certa consapevolezza che occorre una risposta solidale non indifferente”, afferma il premier prendendo atto della disponibilità dimostrata. Però poi ammette che “per ora sappiamo che saremo da soli fino al prossimo consiglio europeo. Sta a tutti noi prepararlo bene”. Ecco, se vorrà portare a casa qualche risultato l’Italia farà bene a preparare bene il prossimo vertice. I rischi che si concluda con un niente di fatto sono infatti reali e non solo perché il solito Viktor Orbán ha già chiarito che lui vuole “proteggere le famiglie ungheresi”. Ma anche perché un leader non certo ostile alle posizioni italiane come Emmanuel Macron vede difficile la possibilità di un’intesa tra i 27: “Mentiremmo a noi stessi se dicessimo che a giugno risolveremmo il pacchetto migratorio in tutta la sua totalità. I disaccordi sono ancora troppo forti e il tema deve essere preparato” avverte il presidente francese. Qualche apertura comunque non è mancata: “La volontà di venirci incontro c’è, perlomeno a parole”, dice Draghi. Tra i Paesi più sensibili ci sono Francia e Germania che con l’Italia potrebbero costituire l’impalcatura di una riedizione del patto di Malta del 2019, con una serie di Stati che accettano di accogliere i migranti. Magari prevedendo un meccanismo di ricollocamenti obbligatorio e non più su base volontaria. Il rischio è quello però di creare una seconda Europa: “Si può individuare un sottoinsieme di Paesi che si aiutano”, spiega infatti il premier. Migranti. A Latina braccianti indiani “dopati” per reggere i ritmi da schiavi di Marco Omizzolo Il Manifesto, 26 maggio 2021 Un medico, un farmacista e un avvocato impegnati nel business del doping per i braccianti indiani della provincia di Latina allo scopo di non far sentire loro le fatiche fisiche e psicologiche legate allo sfruttamento. È quanto emerge dall’operazione “No Pain” condotta martedì 25 maggio dal Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri di Latina, coordinata dal Procuratore aggiunto Carlo Lasperanza e dal sostituto Giorgia Orlando della Procura pontina. I destinatari dei provvedimenti sono indagati per illecita prescrizione di farmaci ad azione stupefacente, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, frode processuale, falso e truffa ai danni dello Stato. L’ordinanza di custodia cautelare in carcere ha riguardato un medico di medicina generale di Sabaudia, tre misure cautelari interdittive della sospensione dai rispettivi pubblici servizi, per la durata di un anno, sono state indirizzate ancora al medico pontino, ad un farmacista e all’avv. Pescuma Luigi di Latina, una misura cautelare ha riguardato invece il divieto di dimora nella provincia di Latina a carico di una cittadina marocchina. Secondo le indagini, il medico di Sabaudia rilasciava illecitamente, per finalità non terapeutiche, a 222 assistiti indiani, spesso braccianti, circa 1.000 prescrizioni per la gran parte a carico del Servizio Sanitario Nazionale, per la dispensazione di oltre 1.500 confezioni di un farmaco stupefacente con principio attivo ossicodone. L’assunzione del medicinale avveniva non per curare le patologie degli assistiti indiani ma per consentirgli di sostenere i gravosi turni di lavoro nelle campagne pontine. Venivano inoltre prescritte 3.727 ricette mediche indicando falsamente il codice di esenzione ticket a favore di 891 pazienti, provocando un danno al Sistema Sanitario per circa 146 mila euro e prescritti farmaci mai consegnati ai pazienti intestatari delle ricette, il cui costo veniva rimborsato alla farmacista indagata. Il medico di Sabaudia, in concorso con gli altri indagati, redigeva anche falsi certificati per l’illecita regolarizzazione dei migranti, attestando falsamente la loro presenza in Italia antecedente all’8.3.2020. Infine il medico italiano redigeva, con l’avvocato Pescuma di Latina, un certificato medico per un 51enne pontino già colpito da “ordine di esecuzione per la carcerazione e decreto di sospensione del medesimo”, attestante false patologie psichiatriche per ottenere una misura alternativa alla detenzione. Quest’importante operazione dà ragione al dossier presentato proprio sul manifesto nel 2014 da In Migrazione denominato “Doparsi per lavorare come schiavi”. Nel corso degli anni, il numero dei braccianti migranti dipendenti da sostanze dopanti è aumentato, come anche il relativo business criminale. I lavoratori indiani più sfruttati hanno da tempo iniziato ad utilizzare anche eroina, spesso acquistata nei mercati della droga di Castel Volturno e Villa Literno oppure romana. C’è droga e droga di Concita De Gregorio La Repubblica, 26 maggio 2021 Un gran parlare di droga, sui giornali, all’improvviso. E no, non è iniziata la discussione parlamentare sulla liberalizzazione. È solo che ci si è moltissimo preoccupati, collettivamente, che Damiano dei Maneskin avesse sniffato cocaina in diretta (era ‘in diretta’, che sarebbe stato inopportuno) e che questo potesse far perdere al gruppo il titolo di campioni d’Europa. Ma no, la morigeratissima rockstar ha fatto il test e si è rivelato ‘pulito’, caso più unico che raro, la qual cosa ha fatto sentire tutti più tranquilli: complimenti vivissimi. Intanto a Sabaudia, non lontano da Roma, ventidue braccianti indiani si drogavano, invece. Ventidue accertati, poi chissà. Un medico ha rilasciato loro, nel tempo, un migliaio di prescrizioni per acquistare in farmacia, a carico del Servizio Sanitario Nazionale, circa 1500 confezioni di un farmaco a base di ossicodone, un oppioide simile alla morfina. Il farmacista, per nulla insospettito, gliele vendeva. I braccianti non avevano nessuna malattia invalidante. Semplicemente venivano indotti - invitati? costretti? - a drogarsi per non sentire la fatica del lavoro nei campi e fare turni più lunghi. Le indagini - inchiesta ‘No pain’ - hanno mostrato come l’esenzione da ticket abbia prodotto un danno all’erario per oltre 146mila euro. Inganno ai danni dello Stato, l’evasione fiscale: questioni di soldi. Reati di frode, falso, truffa. Che i braccianti indiani prendessero qualcosa di simile alla morfina per non sentire i crampi, in fondo, è secondario. Che sarà mai. Che il datore di lavoro li costringesse: sarà provato? Ci sono i filmati? Non lo facevano forse di loro iniziativa e con piacere? Chi può dirlo. Lo scandalo pubblico, a Sabaudia, langue. Omofobia, 170 audizioni per fermare il ddl. È scontro di Carlo Lania Il Manifesto, 26 maggio 2021 La decisione del leghista Ostellari. Pd, M5S e LeU: “Subito in aula”, ma i renziani frenano. “Certo, andare in aula senza relatore è un rischio, ma l’alternativa è permettere alla Lega di bloccare per sempre il ddl Zan”. È sera quando un senatore Pd commenta l’ennesima giornata di scontro sul disegno d legge contro l’omofobia. Nel tentativo di salvare il provvedimento bloccato da mesi in commissione Giustizia dall’ostruzionismo del Carroccio, M5S, Pd, e Leu ragionano sulla possibilità di mettere fine ai lavori della Commissione e dare la parola all’aula. Una decisione presa dopo l’annuncio dato ieri dal leghista Andrea Ostellari, presidente della commissione autoproclamatosi relatore del ddl, di ammettere 170 audizioni su un massimo consentito di 250. Il che significa che, pur accelerando al massimo i tempi, slitterebbe tutto a dopo l’estate. Se poi si considera il tempo per presentare e discutere gli emendamenti si finirebbe a autunno inoltrato. Quando, inutile dirlo, ad avere la precedenza subentrerebbero altre priorità, come ad esempio la legge di bilancio. Il risultato sarebbe quello di non parlare più del ddl chissà fino a quando. Capito il pericolo, ieri il M5S ha lanciato la sfida agli alleati. “Basta aspettare andiamo in aula. Noi siamo pronti” dice la senatrice Alessandra Maiorino. Per farlo basta un voto a maggioranza in commissione e i numeri ci sono. LeU condivide subito la proposta, il Pd anche ma attraverso il senatore Franco Mirabelli chiede una riunione dei gruppi favorevoli al testo per decidere come muoversi. Due i dubbi che spingono il Pd alla prudenza. Il promo è tecnico: andare in aula senza relatore e con due testi, oltre al ddl Zan c’è anche quello del centrodestra a prima firma Renzulli, significherebbe imboccare un percorso difficile e reso più accidentato dal voto segreto. Il secondo è più politico. Fino a ieri sostenitrice del ddl Zan, Italia viva sembra avere dei ripensamenti. Non solo non si pronuncia sulla possibilità di andare in aula, ma nei giorni scorsi il capogruppo al Senato Davide Faraone ha chiesto un tavolo con tutti i capigruppo “per superare steccati e contrapposizioni sterili e trovare un accordo in tempi brevissimi”. Proposta che alcuni hanno letto come un passo indietro da parte dei renziani, contrari adesso a forzare la mano andando direttamente in aula. “Sento che il senatore Faraone dice ora cose diverse, ci spieghi su cosa ha cambiato idea”, chiede non a caso la dem Monica Cirinnà. “Chi ha problemi parli, perché se si vuole portare fino in fondo la legge servono certezze per non correre rischi con il voto alla cieca”. E a favore della legge si pronuncia anche il forzista Elio Vito, per il quale dentro Forza Italia “non esiste una linea di partito come dice Ronzulli, perché Silvio Berlusconi ci ha dato libertà di coscienza, come fece con le unioni civili, e gli organi di partito non si sono mai occupati di questo”. “Chi ha paura del confronto? Noi no e siamo pronti a discutere con lealtà”, ha detto ieri Ostellari dimenticando l’ostruzionismo leghista che ha ritardato per mesi la discussione. E 170 audizioni non facilitano certo un confronto sereno. “Nemmeno per cambiare la Costituzione si sono fatte tante audizioni”, ironizza Vito. Tra gli esperti che saranno ascoltati a partire da giovedì ci sono femministe, associazioni gay e trans, giuristi, ma anche giornalisti, l’ex presidente della Consulta Cesare Mirabelli e l’ex ministro Giovanni Maria Flick, esponenti del mondo cattolico ma anche mormoni, l’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche in Italia e il rabbino Riccardo Di Segni. E poi l’Associazione nazionale genitori irpini, le Assemblee di Dio in Italia, il Movimento per la vita, esponenti di “Se non ora quando”, l’Azione cristiani perseguitati, la Cei e il presidente della regione Calabria Nino Spirlì. In tutto per l’appunto 170 personalità. “Una presa in giro” per il Pd, che parla di “provocazione intollerabile” e di “forzatura democratica”. Non solo da omofobi e intolleranti le critiche al ddl Zan di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 26 maggio 2021 Uno tra gli scopi principali della nuova normativa, non sia da rinvenire nella repressione dei comportamenti di discriminazione, che pure non devono essere tollerati, ma ancor più nel suo carattere di contrasto culturale. Critiche al ddl Zan sono state espresse non solo da omofobi o intolleranti, ma anche da esponenti del mondo cattolico e liberale, nonché da una parte della cultura femminista. Da un lato, si è manifestato il timore che si possa limitare il libero dissenso nei confronti di pratiche e tipi di relazione contrari alle proprie ideologie, dall’altro è stata contestata l’introduzione di una formulazione che tende a dare rilievo all’identità percepita rispetto al sesso biologico. Vediamo di prendere sul serio queste obiezioni e valutarne il fondamento. Per quanto riguarda la questione dei limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, essa non può essere posta in astratto. Certamente la democrazia pluralista si qualifica per le garanzie prestate alle opinioni espressa dai consociati, soprattutto a quelle meno condivisibili, sicché i reati d’opinione dovrebbero essere esclusi (non sempre è così nel nostro ordinamento, ma questo è un altro problema). Ciò però non vuol dire che non vi siano limiti alle modalità di “manifestazione” delle opinioni: oltre al “buon costume”, che è espressamente indicato in costituzione, essenzialmente quando queste ledono altri principi fondamentali del vivere civile, quello della dignità sociale delle persone in particolare. È per questo che un’opinione ingiuriosa, non veritiera, diffamatoria provoca responsabilità penali ovvero civili per chi le divulga. Nel caso del ddl Zan si ha poi una particolarità. Esso tende a prevenire e contrastare una serie specifica di discriminazioni, quelle collegate al sesso, al genere, all’orientamento sessuale e alle disabilità, ritenute particolarmente odiose, che vanno ad aggiungersi a quelle già previste nel nostro ordinamento e relative alla razza, all’etnia e alla religione. In tutti questi casi si vieta la “propaganda e istigazione a delinquere”, nonché si stabilisce un’aggravante “fino alla metà” della pena qualora un reato sia commesso per finalità di discriminazione nei confronti dei soggetti indicati. Ciò limita la libertà di manifestare opinioni radicalmente contrarie - chessò - alla parità di genere, ovvero ai rapporti omosessuali, magari rozzamente espresse? Può certamente escludersi nel caso dell’aggravante: qui il reato è autonomo (si pensi all’aggressione di un transessuale o ad una coppia gay) e non ha nulla a che fare con le opinioni, ciò che viene in evidenza è la motivazione “spregevole” che ha portato a compiere il fatto. Nel caso di “propaganda e istigazione” la questione si può porre, ma tre considerazioni fanno ritenere che in questo caso si sia ben al di sotto della soglia di allarme. In primo luogo, la previsione espressa nello stesso disegno di legge. Su iniziativa dell’onorevole Costa, che si è fatto interprete dei dubbi del mondo liberale e cattolico, è stata approvato un articolo per assicurare il pluralismo delle idee e la libertà delle scelte. Con una formulazione, in realtà mal scritta, si è voluto espressamente indicare che sono fatte comunque salve le opinioni se queste non sono idonee a determinare il concreto pericolo di atti discriminatori o violenti. In tal modo, si sono fatte rientrare le previsioni del più ambiguo divieto di “propaganda” in quelle più specifiche dell’”istigazione”. Era questa una precisazione di cui, peraltro, non vi era neppure bisogno, poiché già chiarita dalla Corte costituzionale (ma poi anche dalla Cassazione), in tempi assolutamente non sospetti. È questa la seconda e più importante ragione che porta a escludere che la libertà di manifestare un pensiero (anche il più avverso) sia in pericolo. Da sempre - una prima significativa sentenza è del lontano 1957 - la Consulta ha tenuto a precisare che nei reati di opinione elemento decisivo è da ritenersi l’effettiva “offensività”, ovvero il pericolo concreto che la propaganda ovvero l’apologia siano in grado di produrre conseguenze delittuose. In sostanza, la propaganda si deve esprimere come una “istigazione indiretta” e costituire un “apprezzabile pericolo” del prodursi di eventi criminosi. È certo vero che tali circostanze dovranno, in ultima istanza, essere apprezzate dal giudice e, dunque, si può temere una valutazione non così rigorosa, che possa portare a condanne anche in assenza di un pericolo immediato. Se si valuta però alla luce dell’esperienza - e questo è il terzo motivo da considerare - non credo si possa temere più di tanto: sino ad ora i reati di propaganda e istigazione al razzismo su cui si va ad innestare la nuova normativa non hanno prodotto molte condanne. Anzi il rischio è che anche nei casi collegati all’omofobia le nuove norme producano scarsi effetti concreti. Proprio questo mi porta a dire che uno tra gli scopi principali della nuova normativa, non sia da rinvenire nella repressione dei comportamenti di discriminazione, che pure non devono essere tollerati, ma ancor più nel suo carattere di contrasto culturale. I discorsi d’odio, così come i crimini d’odio, non si combattono solo nelle aule dei tribunali, quanto soprattutto sul piano educativo, promovendo le ragioni del rispetto e dell’inclusione, opponendosi alle discriminazioni e ai pregiudizi. Vi sono alcune norme nel ddl Zan che provano a contrastare le discriminazioni su questo specifico piano. Perché oltre a tutelare la sacrosanta libertà d’opinione di tutti (persino degli omofobi e degli intolleranti) c’è grande bisogno di provare a far valere il valore delle differenze. È qui che si innesta la polemica di parte del movimento femminista che inizialmente richiamavo. Entrare nel merito delle questioni sollevate è necessario, ma non può essere risolto con poche battute, poiché siamo di fronte a problematiche vivacemente discusse, che dividono trasversalmente le culture femministe, LGBT, della sinistra, che coinvolgono la visione di sé e la percezione dell’io: il corpo come accidente solo biologico ovvero come espressione di una diversità da cui partire. Questione esistenziale e antropologica. Quel che solo mi voglio qui domandare è se la legge debba prendere posizione su queste questioni. In fondo per conseguire le sue finalità, ovvero la tutela della dignità sociale di tutti i soggetti cui si rivolge, tra loro assai diversi, non sarebbe stato meglio utilizzare una locuzione altrettanto precisa - anzi con un tasso minore di indeterminatezza semantica - evitando un glossario iniziale che non solo divide, ma può persino generare confusioni applicative. Bastava in fondo scrivere che la legge riguardava le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e di genere, oltre che sulle disabilità. Non spetta poi alla legge stabilire cos’è un corpo, né distinguere tra genere e sua identità. Stati Uniti. Un anno fa la morte di George Floyd di Anna Lombardi La Repubblica, 26 maggio 2021 La famiglia alla Casa Bianca: “Oggi celebriamo la sua vita: è stato capace di cambiare il mondo”. Il 25 maggio 2020 a Minneapolis l’agente Derek Chauvin per 9 minuti e 29 secondi tenne il suo ginocchio premuto sul collo dell’afroamericano. Fino a farlo morire. I parenti ricevuti dal presidente Biden e dalla vice Harris. “C’è ancora tanto da migliorare, nessuno dovrebbe subire ciò che è toccato a lui”. “Say his name”, ripetete il suo nome, scandisce forte la piccola Gianna, 7 anni appena, fuori la Casa Bianca: “George Floyd” gridano forte i suoi zii, i fratelli e le sorelle dell’afroamericano ucciso esattamente un anno fa, a Minneapolis dall’ex agente Darek Chauvin, che per 9 minuti e 29 secondi gli tenne premuto un ginocchio sul collo. “Oggi celebriamo la vita di George, non la sua morte. È stato capace di cambiare il mondo”. Philonise Floyd 40 anni, lo ripete ai giornalisti al termine dell’incontro durato oltre un’ora col presidente degli Stati Uniti Joe Biden: “Le cose si muovono. Lente ma procedono. Certo, c’è ancora tanto da fare e migliorare. Nessuno dovrebbe più subire quel che è toccato a lui”. Alla Casa Bianca c’era il clan al completo dei Floyd: la figlioletta Gianna, accompagnata dalla mamma Roxie Washington. I fratelli Philonise, Keeta, Terrence con la sorella Bridgett e il nipote, Brandon Williams. E i loro numerosi avvocati, Benjamin Crump in testa, in questi mesi tutti molto attivi nel chiedere (e ottenere) giustizia. Joe Biden e Kamala Harris hanno voluto accoglierli per un incontro privato e a porte chiuse proprio mentre mezza America tornava ad inginocchiarsi in piazza, ricordando George Floyd. “Un bell’incontro, il presidente è un uomo genuino, ha giocato con Gianna, voleva davvero sapere come stiamo, sapere cosa può fare per noi”, dicono i fratelli, alternandosi ai microfoni l’uno dopo l’altro. Biden, d’altronde, li conosceva già: per averli incontrati a Houston, in occasione dei funerali. E averli sentiti più volte al telefono: l’ultima volta ad aprile, dopo la condanna dell’agente Chauvin. “Gli abbiamo detto che il Floyd Justice in Policing Act va approvato al più presto”, dicono: “gli abbiamo ripetuto quello che abbiamo detto stamattina pure a Nancy Pelosi durante la nostra visita al Congresso”. La riforma della polizia chiesta da Biden il 20 aprile - dopo la condanna del poliziotto-assassino, appunto - sperando di firmarla entro oggi. Quella dove si vieta ai poliziotti di usare la micidiale morsa al collo per bloccare i sospetti, si sospende la protezione degli agenti dai ricorsi civili, e si istituiscono pure nuove regole nazionali per tutti gli agenti. Biden, figuriamoci, è d’accordo: “ È passato un anno dall’omicidio di Floyd. Un periodo in cui la sua famiglia ha mostrato un coraggio straordinario. La condanna del mese scorso è stata un passo verso la giustizia, ma non possiamo fermarci qui. Siamo a un punto di svolta. Dobbiamo agire”, ha ribadito. Ma intanto quella legge approvata alla Camera è ferma al Senato, bloccata dalla resistenza dei repubblicani. I dem Cory Booker del New Jersey e Karen Bass della California (stamattina con Pelosi, durante l’incontro coi Floyd al Congresso) da settimane trattano con il repubblicano Tim Scott della Carolina del Sud, l’unico senatore afroamericano nelle fila Rep. Ma il Gop proprio non ne vuole sapere di eliminare lo scudo giuridico che oggi impedisce ai cittadini di citare un poliziotto in una causa civile: e il braccio di ferro coi dem continua. Intanto pure Barack Obama ha riconosciuto l’urgenza di quella riforma via Twitter: “Floyd è stato assassinato un anno fa oggi. Da allora, centinaia di americani sono morti in scontri con la polizia. Erano genitori, figli, figlie, amici portati via troppo presto. Ma l’anno appena trascorso ci ha dato ragioni per sperare. Oggi più persone, in più posti del mondo, vedono le cose in modo più chiaro di un anno fa”, ha scritto. Rivolgendo “un tributo a tutti coloro che hanno deciso che questa volta doveva essere diverso. E hanno, ognuno a modo suo, contribuito a fare la differenza. Quando la giustizia ha radici profonde, i progressi hanno bisogno di tempo. Trasformiamo le parole in azioni e le azioni in riforme per il cambiamento”. La morte di Floyd - immortalata nell’atroce video girato dalla diciasettenne Darnella Frazier cui ora qualcuno propone di dare addirittura anche il Pulitzer, immagini capaci di scuotere la coscienza d’America e del mondo, dando il via alla rivolta - hanno d’altronde avuto qui davvero un impatto profondo sulla società e sulla cultura: perfino quella pop, con l’immagine di George ormai riprodotta ovunque. Le proteste hanno raggiunto il picco lo scorso 6 giugno 2020: quando 1 milione e mezzo di persone sono scese contemporaneamente in piazza in 550 città americane. Ma secondo ben quattro sondaggi (effettuati da Kaiser Family Foundation, Civis Analytics, NORC e Pew) sono stati addirittura fra i 15 e i 26 milioni gli americani che hanno partecipato in qualche forma alle proteste: numeri inauditi finora. Nel frattempo Black Lives Matter, il movimento di protesta nato qualche anno prima per denunciare le troppe morti degli afroamericani, è diventato mainstream. Approdato perfino sulle maglie degli sportivi della Nba, le squadre affiliate alla lega americana del basket. Anche la richiesta di tagliare i fondi alla polizia ha trovato la sua strada: 20 grandi città hanno effettivamente ridotto il budget per un totale di circa 840 milioni. Altre 25 hanno chiuso i contratti con la polizia per il controllo delle scuole. Con risultati, in realtà, non sempre efficaci. Per dire, a Seattle, dove il budget degli agenti è stato tagliato del 20 per cento, il crimine è enormemente aumentato. E a New York, dove De Blasio aveva promesso di tagliare i fondi, li ha dovuti invece aumentare. Intanto, la polizia ha continuato a uccidere persone di colore - dalla morte di Floyd a oggi sono 426 gli afroamericani e latinos uccisi mentre erano disarmati. Insomma, i metodi violenti sono ancora in uso; qualcuno dice perfino più di prima. Qualcosa però si è mosso a livello statale: Colorado, Iowa, Connecticut, New Jersey, Massachusetts, New York hanno passato nuove regole che impediscono l’uso del soffocamento come forma di contenimento. Altri impongono ai poliziotti di intervenire se un loro collega usa eccessivamente la forza. E l’attenzione su quello che qui si chiama “razzismo sistematico” ha portato a una nuova sensibilità in luoghi di lavoro e università. “La morte di George ha cambiato il mondo”, ripete il fratello Philonise. Già. Ma non è ancora abbastanza. Algeria. Il regime blocca la protesta dei giovani di Pietro Del Re La Repubblica, 26 maggio 2021 La polizia algerina ha fermato decine di persone in tutto il Paese per reprimere le manifestazioni di piazza inscenate ogni venerdì dal movimento Hirak. Venerdì scorso è stata vietata dalla polizia la 118esima manifestazione dell’Hirak, il movimento algerino nato nel febbraio 2019 contro la candidatura per il quinto mandato del presidente Abdelaziz Bouteflika, poi costretto a dimettersi. Dopo un anno di totale lockdown, i giovani della “rivoluzione del sorriso” o della “primavera algerina”, come la stampa locale ha battezzato la protesta avevano ripreso a manifestare già da febbraio, chiedendo un radicale cambiamento del sistema politico e il rinvio delle elezioni anticipate annunciate dal presidente Abdelmadjid Tebboune. L’Hirak vuole anche una nuova costituzione elaborata in modo partecipativo e non calata dall’alto come quella entrata in vigore il primo gennaio di quest’anno, e il rinnovo di un governo che comprende elementi del gruppo di potere intorno a Bouteflika. Con il regime che adesso accusa il movimento di essersi lasciato infiltrare da “elementi separatisti e da correnti illegali vicini al terrorismo”, le prigioni si riempiono nuovamente. E preoccupa la sorte di 22 detenuti in sciopero della fame dal 6 aprile, arrestati tre giorni prima con il pretesto di “attentato all’unità nazionale e raduno sedizioso”. Tre giorni fa, gli agenti della Brigade de recherche et d’intervention hanno fermato ottocento persone solo nella capitale, e bloccato ogni accesso al centro della città a chi avrebbe voluto partecipare alla marcia, mentre i fedeli che uscivano dalla moschea Al-Rahma, solitamente i primi a mettersi in marcia dopo la grande preghiera del venerdì, sono stati invitati a rientrare nelle loro case. La sede del partito d’opposizione Rassemblement pour la culture et la démocratie è stata circondata dalle forze di sicurezza, con un centinaio di militanti che s’erano rifugiati al suo interno. Nel frattempo, alla questura di Algeri le camionette della polizia continuavano a scaricare centinaia di persone arrestate. Come ci spiega al telefono un attivista del Comité national pour la libération des détenus, associazione che aiuta i perseguitati per i diritti d’opinione, che i fermati sono stati tutti brutalizzati dalla polizia, com’era già successo le settimane precedenti, sebbene le immagini di queste violenze girate con i cellulari stavolta non siano state pubblicate in rete per via della censura imposta ai media che seguono l’Hirak. In Cabilia, intanto, regione tradizionalmente ribelle, si sono verificati violenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine con imponenti cortei nelle città di Béjaia e Tizi Ouzou. “La situazione non farà che peggiorare fino alle prossime elezioni anticipate che contro il parere dell’Hirak si terranno il 12 giugno”, dice sempre l’attivista che per ovvi motivi chiede di mantenere l’anonimato. Da diverse settimane il regime cerca di impedire ogni forma di protesta, e il ricorso alla violenza della polizia ha già ottenuto l’effetto di smobilitare le folle di manifestanti, soprattutto dopo che dal 9 maggio per ogni raduno di piazza è richiesta un’autorizzazione rilasciata del ministero dell’Interno. “Il solo modo che abbiamo per sconfiggere la repressione è di marciare numerosi nelle strade del Paese, ma la gente adesso ha davvero paura”. Tuttavia, altri analisti si dicono certi che ci vuole altro per fermare l’Hirak e che il movimento è destinato a perdurare nel tempo finché non otterrà le riforme richieste. Sono i due i rischi maggiori che corre l’Hirak. Il primo è che gli attivisti non riescano a strutturare politicamente la protesta in corso da due anni, nel qual caso il movimento sarà comunque destinato ad estinguersi col tempo. Il secondo è che questo vuoto politico possa favorire gli estremisti islamici, i quali silenziosamente sfruttano la crisi sociale ed economica per guadagnare consensi. E che potrebbero rovesciare il regime come fecero in Egitto i Fratelli musulmani quando scipparono la rivoluzione ai martiri di Piazza Tahrir. Anche l’Onu si dice “sempre più preoccupata” per la situazione in Algeria in cui alcuni diritti fondamentali, come il diritto di libertà d’opinione e quello di riunirsi pacificamente sono “continuamente violati”, ha dichiarato l’Alto commissariato per i diritti umani di Ginevra. “Chiediamo alle autorità algerine di cessare immediatamente il ricorso alla violenza per disperdere manifestazioni pacifiche e l’arresto arbitrario di persone che hanno esercitato il loro diritto di espressione”, ha detto Rupert Colville, portavoce dell’Alto commissariato. Un appello che il regime di Algeri verosimilmente ignorerà. Siria. Candidati controllati, profughi esclusi, osservatori amici: le elezioni farsa di Assad di Francesca Caferri La Repubblica, 26 maggio 2021 Oggi le presidenziali. Il leader verso il quarto mandato, in un voto disconosciuto dalla comunità internazionale e in un Paese in rovina: dove il governo, nonostante le accuse di crimini di guerra, cerca di riacquisire legittimità. L’unico dubbio reale è quello che riguarda la percentuale della vittoria: perché il fatto che a vincere le elezioni presidenziali in Siria oggi sarà Bashar al Assad non è in discussione. A sfidare il presidente nel secondo voto dall’inizio della guerra che ha devastato il Paese nel 2011 - nel primo, nel 2014, prese il 90% dei voti - sono due personaggi senza nessuna possibilità: l’ex ministro Abdullah Salloum Abdullah, vicino al governo, e Mahmoud Ahmad Mar’ai, membro dell’opposizione tollerata dal regime, e dunque senza legittimità agli occhi di chi si oppone ad Assad. E a votare all’interno del Paese saranno soltanto i residenti delle zone sotto il controllo del governo: questo, insieme al fatto che le liste elettorali sono state compilate senza rispettare alcun criterio internazionalmente riconosciuto e al fatto che i pochi osservatori stranieri presenti vengono da Paesi considerati vicini ad Assad - Russia, Cina e Venezuela fra gli altri - assicura una mancanza assoluta di trasparenza. Quello che arriva alle urne è un Paese devastato dalla guerra e piegato dalla peggiore crisi economica della sua storia: una tempesta perfetta causata dal conflitto, dalle sanzioni internazionali che ha generato, dal collasso finanziario del vicino Libano e, da ultimo, dal Covid. Un Paese in cui gli unici settori dell’economia che restano ancora in piedi - legali e illegali - dalle telecomunicazioni, al controllo degli aiuti umanitari, fino al traffico di stupefacenti, sono in mano a una cerchia ristretta di uomini vicini al presidente e alla first lady Asma al Assad. Una Siria completamente diversa dunque rispetto a quella che nel 2000 guardava con speranza all’arrivo al potere di Bashar, allora 34enne, dopo trenta anni di dominio del padre Hafez. Agli occhi dei suoi cittadini e del mondo, l’oftalmologo educato in Gran Bretagna si presentò allora come un riformatore: ma la risposta che ha dato alle manifestazioni iniziate nel marzo 2011 sulla scia delle cosiddette Primavere arabe non è stata diversa da quella usata dal padre per reprimere il dissenso. Esercito contro i manifestanti, torture, sparizioni, terrore: decine di migliaia di persone, denuncia l’Onu, sono scomparse nelle carceri siriane dall’inizio della rivolta. La maggior parte di loro - stimano gruppi come Human Rights Watch e Amnesty International - sono state uccise in una catena della morte fatta di fame, torture e assassini a sangue freddo per la quale Assad e i suoi ufficiali iniziano ora ad essere processati in Europa. Chi non era d’accordo con il regime se non è morto è fuggito: sei milioni i siriani rifugiati all’estero, su 22 che era il totale della popolazione prima della guerra. Altri cinque milioni fuggiti all’interno del Paese: quattro ancora nelle zone controllate dall’opposizione. Per loro, nessun diritto di voto: avrebbero potuto votare invece i rifugiati all’estero, ma la maggior parte non lo ha fatto. Il voto si può esprimere solo nelle ambasciate controllate dal governo. “All’inizio pensavamo che nel giro di qualche mese saremmo tornati e noi giovani avremmo ricostruito il Paese - ha detto all’agenzia Reuters la 39enne damascena Lara Shahin da Amman, dove vive da ormai nove anni - ma piano piano abbiamo perso la speranza”. Per lei, come per milioni di altri siriani, quello di oggi è un giorno amaro. Quello che decreterà che per altri sette anni il Paese sarà nelle mani dell’uomo che lo ha distrutto. Ma le conseguenze non riguardano solo i siriani come Shahin: l’appuntamento odierno ha conseguenze anche sulla scena mondiale. Per la Russia, che cerca di legittimare la presidenza Assad e di attirare il supporto occidentale alla ricostruzione. E per i Paesi arabi - Emirati Arabi Uniti ed Egitto per primi, ma anche Arabia Saudita - che da mesi spingono per la riammissione della Siria nella Lega Araba: e dunque nella comunità internazionale. “Il processo per ora è bloccato, ma non possiamo certo dire che lo sarà per sempre”, spiega Wael Sawah, senior political researcher di Etana Syria, think tank della società civile siriana.