Archiviazione “meritata”: il fine rieducativo della pena al centro della proposta Pd di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 25 maggio 2021 “Non possiamo guardarci come avversari. Avremo idee diverse, ci confronteremo, ma l’obiettivo è un’impresa corale che chiede la condivisione da parte di tutti. Siamo compagni di strada rispetto a questo obiettivo”. Parole, quelle del ministro della Giustizia Marta Cartabia, che tentano di mitigare il futuro dibattito politico. Parole spese durante l’incontro svoltosi tra la Commissione di esperti sul processo penale e i capigruppo della maggioranza. I toni che esortano alla collaborazione sono frutto di una scadenza di vitale importanza per l’Italia: le modifiche sulla Giustizia, il superamento della precedente semi-riforma voluta dall’ex guardasigilli Bonafede, aspetti di imprescindibile e improrogabile necessità a cui l’Europa chiede di attenersi, se l’Italia vuole vedersi riconoscere i fondi del Recovery nella loro interezza. Si tratta di una cifra immensa che non contempla solo i danari destinati al settore giustizia, circa 2,7 miliardi, bensì l’intero capitale, espresso in centinaia di miliardi. Perché l’archiviazione “meritata” può dar corpo all’articolo 27 - Tra gli oltre 700 emendamenti alla legge Bonafede sul processo penale avanzati dalle forze parlamentari, ve ne è uno a firma Partito democratico, presentato lo scorso 27 aprile e che merita una trattazione a parte. La cosiddetta “archiviazione meritata”, con la cui locuzione si vuole intendere l’archiviazione del procedimento a favore dell’indagato, consentendo a quest’ultimo di evitare il processo, compensando preventivamente la parte danneggiata tramite la corresponsione di una somma o lo svolgimento di lavori di pubblica utilità: un neo istituto ora al vaglio della Commissione presieduta dal professor Giorgio Lattanzi. È indubbiamente uno strumento interessante, valevole di attente valutazioni e, se strutturato con cura e precisione, potrà consentire un potenziamento di effettività per il sistema penale, nella piena realizzazione delle volontà, ex articolo 27 della Costituzione, di rieducazione dell’interessato tramite un servizio reso alla comunità. Sicuramente uno strumento di tal natura dovrebbe trovare posto, sia teoricamente che proceduralmente, nel pantheon dei riti speciali, affidando l’attivazione dell’istituto al pubblico ministero, in accordo con le parti, al termine delle indagini preliminari, riportando esplicitamente la possibilità di ricorrere all’archiviazione meritata in seno all’avviso ex articolo 415-bis. Un esercizio, mediato, dell’azione penale. Il limite della proposta Pd: istituto definito in modo non tassativo - Senza dubbio sarà necessario prevedere tutta una serie di criteri in ordine alla ricorribilità dell’istituto, come già accade per il patteggiamento o per l’oblazione ex articoli 162 e 162- bis c. p. (termini edittali, reati ostativi alla richiesta di archiviazione meritata, ecc.). In tal modo si elimina la discrezionalità in capo al magistrato inquirente di determinare la possibilità per l’indagato di poter ricorrere allo strumento in questione, e si lascia che sia il legislatore a determinarne i requisiti di accesso, in via tassativa. L’attuale formulazione dell’emendamento, tuttavia, prevede che sia il pubblico ministero, all’atto di esercitare l’azione penale, a valutare discrezionalmente se attivare eventualmente l’istituto. L’impostazione sì assunta non appare condivisibile, in ordine a una elementare ragione: scarso ricorso ai procedimenti speciali nel nostro ordinamento, il cui potere di attivazione, se lasciato interamente nelle mani delle Procure, rischia di divenire un istituto di utilizzo minore, perdendo del tutto le volontà deflattive che si propongono di esercitare. L’emendamento a firma Pd prevede successivamente, al punto c), che in seguito all’accordo intercorso tra Procura e indagato, il giudice delle indagini preliminari sia competente alla decisione sull’accordo. Non potrebbe essere altrimenti, come già attualmente avviene per tutte le questioni sollevate in fase di indagini ove il procuratore eserciti l’azione penale. A tal proposito si rileva che l’emendamento prevede che il giudice sia chiamato a effettuare una triplice valutazione: 1. una sulla sostenibilità dell’accusa in giudizio in virtù degli elementi raccolti dal pubblico ministero; 2. una di garanzia sulla natura informata e libera del consenso prestato dall’indagato; 3. una legata all’effettiva idoneità del programma trattamentale chiamato a compensare l’interesse pubblico offeso dall’illecito, ovvero la vittima del reato, come attualmente avviene per la cosiddetta messa alla prova. I criteri valutativi sopracitati paiono, in termini generali, accoglibili, anche se sarà inevitabilmente necessario prevedere delle ipotesi di accesso all’istituto più stringenti, vale a dire più precise, su cui il gip sarà chiamato a fondare le proprie valutazioni, ad esempio prevedendo esplicitamente dei reati ostativi di accesso allo strumento ivi ipotizzato, ovvero l’esclusione dei recidivi. Ad ogni modo, all’esito del giudizio decisorio è previsto che sempre il procuratore sia il soggetto competente alla vigilanza del rispetto del patto intercorso tra questi e la difesa privata, assicurandosi - tramite la polizia giudiziaria o i servizi sociali - dell’effettivo svolgimento dei lavori di pubblica utilità stabiliti o sulla corresponsione del dovuto. Non vi è chi non veda, nel quadro qui tratteggiato, una certa affinità con la “messa alla prova” - introdotta dalla legge 67/ 2014 e oggi disciplinata all’articolo 168- bis c. p. - e la domanda sorge pertanto spontanea: perché introdurre un istituto molto simile a taluni già presenti nel nostro ordinamento e che difficilmente hanno attecchito nella prassi? L’introduzione dell’archiviazione meritata dovrebbe porsi come un neo contenitore per tutti quegli strumenti di natura deflattiva e riparatoria, tra cui la sospensione del procedimento per messa alla prova, ampliando la possibilità di ricorso a strumenti di siffatta natura per tutti quei reati di minore entità, ma non circoscrivendo l’ambito di applicazione ai soli reati contravvenzionali o puniti con l’arresto, come accade nel caso dell’oblazione e dell’estinzione per condotte riparatorie. L’istituto quindi, a parere di chi scrive, dovrebbe sì avere un ambito di applicazione analogo a quello dell’attuale messa alla prova, ma allo stesso tempo più ampio, amplificando così la sua forza deflattiva, non prevedendo come cogente la misura del lavoro di pubblica utilità. In conclusione, inserire in questo contenitore tutte le misure deflattive simili succitate (oblazione, messa alla prova, ecc.) si tradurrebbe in un’armonizzazione del Codice di Rito, semplificando il quadro normativo e pratico. Un neo: il gip e il gup dovrebbero vedersi ampliate le proprie competenze, portandole a vero filtro del sistema. Chissà se la professoressa Cartabia è dello stesso avviso. *Avvocato, Direttore Ispeg Ergastolo, pentiti? Di Falcone avete capito zero di Tiziana Maiolo Il Riformista, 25 maggio 2021 La pensava come la Consulta, certi ricordi sono un’offesa. Il modo peggiore di ricordare Giovanni Falcone, nell’anniversario della strage di Capaci, è quello di non rispettarlo, proprio come avevano fatto, quando lui era in vita, coloro che lo descrivevano diverso da come era. Quelli che lo accusavamo di tenere le carte nel cassetto perché lui non si accontentava della parola del “pentito” (è solo l’apriscatole, diceva), o di essere traditore e carrierista perché era andato a Roma a dirigere la Direzione Affari Penali al Ministero. Così è offensivo, ancora oggi, a ventinove anni dalla strage con cui Cosa Nostra ha eliminato colui che per primo “aveva capito”, insultare la sua intelligenza come se Giovanni Falcone fosse stato solo un confessore di collaboratori di giustizia. Che cosa vuol dire - come fa oggi il consigliere del Csm Nino Di Matteo in un’intervista a Fq Millennium - buttate lì, nel giorno dell’anniversario della strage di Capaci, frasi come “oggi stanno cominciando a realizzarsi alcuni degli scopi che Cosa Nostra intendeva perseguire...”? E citare esplicitamente le recenti sentenze della Corte Costituzionale e della Cedu sull’ergastolo ostativo come tentativi di “smantellamento del sistema di norme concepite da Falcone” e “approvate solo dopo la strage di Capaci”? Le cose non stanno proprio così. Prima di tutto perché il famoso decreto Scotti-Martelli, che aveva determinato lo sciopero degli avvocati e che non piaceva alla sinistra, fu convertito in legge dal Parlamento non subito dopo la morta di Falcone, ma dopo la strage di via D’Amelio, cioè tre mesi dopo. Le date non sono irrilevanti, perché senza l’uccisione di Paolo Borsellino quelle norme non sarebbero mai state approvate. Ma soprattutto non è secondario il fatto che Giovanni Falcone, che pure aveva lavorato a quell’impianto normativo, non avrebbe mai introdotto principi incostituzionali come quello dell’inversione dell’onere della prova, lasciando nelle mani del detenuto il compito di dimostrare con la collaborazione il proprio distacco dall’organizzazione mafiosa. Il principio ispiratore era un altro. Falcone non aveva mai legato l’accesso ai benefici penitenziari previsti dalla legge penitenziaria del 1975 al “pentimento” del detenuto, ma semplicemente alla necessità che fossero acquisiti elementi per escludere collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Giovanni Falcone la pensava esattamente come i giudici della Corte Costituzionale che hanno pronunciato le due sentenze del 2019 e di un mese fa e come i pronunciamenti della Cedu. Per questo forse il modo migliore per ricordarlo non è quello del consigliere Di Matteo. Il quale racconta di aver indossato per la prima volta la toga proprio quando aveva appena vinto il concorso in magistratura e aveva preso parte al picchetto d’onore alla bara di Falcone. Bel ricordo, ma Di Matteo sa chi era quel magistrato? Ne ha capito davvero il pensiero e l’intelligenza? È pur vero che le toghe non sono tutte uguali, come finalmente ha capito anche l’opinione pubblica che non sta più dando loro la propria fiducia. Così, proprio mentre alcuni ricordano il giudice assassinato a Capaci facendo torto alla sua intelligenza, un lumicino si accende nelle stanze della Corte di Cassazione. È datata 21 maggio l’ordinanza numero 20338 con cui la prima sezione penale solleva la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 41 bis nella parte in cui prevede la necessità di sottoporre al visto di censura della corrispondenza tra il detenuto e il proprio difensore. Sembra incredibile, ma è così: gli uomini-ombra non hanno diritto neanche alla riservatezza nella relazione epistolare tra imputato e avvocato. E questo nonostante proprio una sentenza della Corte Costituzionale del 2013 già avesse riconosciuto “il diritto a conferire con il proprio difensore e a farlo in maniera riservata”. I giudici della Cassazione pongono la questione di costituzionalità sotto tre profili, quello più scontato del diritto inviolabile alla libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15 della Costituzione), ma anche al diritto alla difesa e a quello al giusto processo previsto dell’articolo 111. Un’altra piccola bomba. Non crediamo che i sospetti del dottor Di Matteo si spingerebbero fino a ritenere che anche i giudici della cassazione stiano tentando di realizzare gli scopi di Cosa Nostra. Ma il fatto che il giudice delle leggi, così come la Corte europea dei diritti dell’uomo, mettano mano, pur se tardivamente e quasi trent’anni dopo, a togliere qualche mattoncino a un apparato disumano e incostituzionale dovrebbe essere nell’interesse di tutti. Non c’entrano i programmi di Cosa Nostra. Che peraltro, nella struttura e nelle modalità operative di un tempo, non esiste neanche più. Basterebbe solo per esempio leggere qualche libro di quelli scritti di recente da ex direttori di carceri come Luigi Pagano e Giacinto Siciliano. Quest’ultimo in particolare racconta quasi con commozione la sua esperienza nel carcere di Opera, dove ha potuto partecipare a cambiamenti radicali di detenuti al 41 bis per fatti di mafia non “pentiti” in senso giudiziario, ma molto pentiti e cambiati in senso letterale. Ex mafiosi e assassini che sarebbero pronti a una nuova vita, se non avessero condanne ostative. Nell’anniversario della strage di Capaci c’è stato anche un confronto su Rai storia tra il ministro Marta Cartabia e Maria Falcone, sorella del magistrato assassinato dalla mafia. Hanno parlato anche dell’ergastolo ostativo e delle sentenze della Corte Costituzionale. Si sono confrontate non solo due opposte opinioni, ma, purtroppo, proprio due culture, non solo giuridiche. Colpisce che Maria Falcone citi da principio Tommaso Buscetta per confermare le sue parole e poi Cesare Beccaria per contraddirlo. Che cosa diceva di fondamentale il “pentito dei due mondi”? Sosteneva che il mafioso non esce dall’organizzazione se non con la morte o con il “pentimento”. E che cosa non funzionava nelle parole di Beccaria? Il fatto che il carcere sia un momento per arrivare alla riabilitazione, diceva lui. Ma non per un mafioso, dice Maria Falcone. Parole lapidarie. La ministra Cartabia si affanna, in modo un po’ didascalico, a spiegare la sentenza dell’Alta Corte del 2019 sui permessi premio. E poi quella più recente, di cui cita testualmente le parole usate: “La collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento”. Così come non è escluso, dice ancora la Corte, che “la dissociazione dall’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia”. È la storia di ogni giorno, la storia che conosce chi sa ascoltare le voci provenienti dalle carceri. Ma pare difficile che riescano a incontrarsi questi due mondi. Quello che vede in Giovanni Falcone il “lottatore”, quello che ha portato a giudizio ed è riuscito a fare condannare il vertice di Cosa Nostra. E quello del magistrato lungimirante e riformatore che non aveva fiducia cieca nei “pentiti” e incoraggiava la separazione delle carriere tra pm e giudici. Infatti a Maria Falcone della sentenza della Corte Costituzionale interessa soprattutto la parte più politica e meno coraggiosa, il rinvio di un anno e il compito al Parlamento di riformare l’ergastolo ostativo. È con un sospiro di sollievo che la sorella del magistrato ucciso dalla mafia si dice speranzosa in un’attività per così dire contro-riformatrice delle Camere. E conclude: io sono fiduciosa che quando c’è un interesse collettivo, deve avere la prevalenza sull’interesse soggettivo. È sicura che Giovanni la pensasse proprio così? Infermieri impegnati nelle carceri: quasi tutti hanno assistito dei detenuti positivi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 maggio 2021 Il sovraffollamento, la scarsa ventilazione, gli spazi ristretti e chiusi, caratterizzano il particolare ambiente in cui il personale penitenziario si ritrova a lavorare e che, indubbiamente, li ha esposti maggiormente al contagio. Tra questi, ci sono gli infermieri. Da un recente studio pubblicato sulla rivista Professioni Infermieristiche, emerge che quasi la totalità del campione raccolto ha riferito di essere a venuto a conoscenza della presenza di almeno un paziente positivo al Covid- 19 accertato all’interno del carcere dove operava. Parliamo di uno studio promosso da un gruppo di ricerca costituito da infermieri rappresentanti del Corso di Laurea in Infermieristica del Policlinico Umberto I dell’Università di Roma La Sapienza e del Corso di Laurea in Infermieristica sede Ospedale S. Paolo dell’Università degli Studi di Milano. Tale gruppo ha arruolato un campione di convenienza composto da infermieri iscritti alla Simspe Onlus (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria), operanti in qualsiasi struttura carceraria italiana al momento dell’indagine. Hanno partecipato all’indagine 204 infermieri di area penitenziaria italiana sui 414 iscritti a Simspe Onlus (tasso di risposta pari al 49.27%). 96 erano uomini (47.06%) e 108 le donne (52.94%). Emerge che il 90.69% del campione ha fornito assistenza diretta a un soggetto positivo; di questi 129 (69.73) si sono trovati almeno una volta a una distanza inferiore a 1 metro dalla persona, mentre 104 (56.21%) in situazioni assistenziali che hanno generato la produzione di aerosol da parte dell’assistito. Inoltre 116 (56.86%) infermieri sono entrati direttamente in contatto con l’ambiente in cui è stato visitato o assistito un paziente positivo al Covid- 19, prima della sanificazione dello stesso. Il numero di infermieri che ha rispettato ‘ semprè i comportamenti descritti non differiva significativamente (p > 0.05 per ogni confronto) nelle situazioni che prevedevano o meno il contatto con aerosol. Sono 55, gli infermieri (26.96%) che hanno riportato di aver avuto incidenti caratterizzati dal contatto inavvertito con fluidi corporei o secrezioni respiratorie durante una visita sanitaria/ prestazione con un paziente Covid- 19: nello specifico 20 hanno riportato di essere entrati in contatto con schizzi di fluidi biologici/ secrezioni respiratorie nelle mucose del naso o della bocca, 16 hanno riportato di essersi punti/ tagliati con un materiale contaminato con fluidi biologici/ secrezioni respiratorie, mentre 11 sono entrati in contatto con schizzi di fluidi biologici secrezioni respiratorie su ferite o su cute non integra. L’infermiere è la figura che entra più frequentemente a contatto con i detenuti per garantire un’assistenza di qualità, anche quando le possibilità di cura sono compromesse. Si parla ancora troppo poco della figura dell’infermiere nelle nostre carceri e di quanto il suo impegno abbia contribuito e stia contribuendo tutt’ora alla salute psicofisica dei detenuti e del personale penitenziario in particolare durante questo periodo del Covid e non solo. Ma è una delle figure che scarseggia nei penitenziari, così come i medici, psicologi e assistenti sanitari. Una figura che però si trova a fare i conti con la sanità in carcere sempre più precaria. Con il Dpcm del primo aprile 2008 si è cercato di attuare il passaggio di competenza sanitaria dal ministero della Giustizia al Sistema Sanitario Nazionale. La situazione registrata dopo dieci anni si è rivelata complessa. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, nel 2019 c’era un solo medico di base in ogni carcere per ogni 315 detenuti, per un totale di 1.000 medici di base e di guardia nei circa 200 istituti di pena italiani. Troppo pochi per garantire un servizio adeguato. Il 70% dei medici è precario. Ovviamente, il numero varia da carcere a carcere a seconda della capienza della struttura, ma in media come si è detto è presente un medico ogni 315 detenuti. In alcune realtà manca addirittura il medico di base. In cella con dipendenze, epatite, Hiv, tubercolosi e disturbi psichici Il carcere è totalizzante e amplifica all’ennesima potenza i problemi quotidiani che le persone vivono nel mondo libero. La salute e in particolar modo le criticità del sistema sanitario è uno di quelli. Nelle carceri, molti detenuti continuano a passare gran parte del loro tempo all’interno di spazi al di sotto degli standard minimi. Questa situazione si traduce anche nella manifestazione di problematiche di salute, sia intese come strettamente fisiche che psichiche. Tra i detenuti è maggiore la prevalenza di Hiv, Hcv, Hbv e tubercolosi rispetto alla popolazione libera, principalmente a causa della criminalizzazione dell’uso della droga e la detenzione di persone che ne fanno uso: la prevalenza di infezione da Hiv tra i detenuti è del 4,8%, contro lo 0,2% della popolazione in generale; l’incidenza della tubercolosi è maggiore di 23 volte. L’aumento del rischio riguarda non solo le infezioni quali Hiv e Hcv, ma anche la possibilità di sviluppare dipendenza da sostanze psicotrope o di ammalarsi di disturbi mentali, in misura maggiore rispetto all’incidenza delle stesse patologie nella popolazione generale. Si tratta di una questione di salute pubblica: prima o poi la maggioranza dei soggetti privati della libertà viene reintegrata nella società dei liberi, Il loro reinserimento da persona sana è un diritto costituzionale e un dovere civico. Come ricorda Antigone nel suo rapporto “Oltre il Virus”, un trial multicentrico del 2014 ha coinvolto istituti penitenziari di sei regioni del centro nord: Toscana, Veneto, Lazio, Liguria, Umbria e Azienda sanitaria di Salerno, fotografando le condizioni di salute di circa 16.000 detenuti in 57 istituti (circa il 30% del totale nazionale degli istituti). Il 70% del campione era affetto da una qualche patologia, con differenze di genere (uomini 67%, donne 75% e transgender 95,7%) ed età (18- 29 anni 58,4%, 30- 39 anni 63,9%, 40- 49 anni 70,9%, 50- 59 anni 76,7%, 60 anni 82,6%). Oltre il 40% dei pazienti arruolati presentava una patologia psichiatrica (ansia, disturbo nevrotico o reazioni di adattamento, depressione). Molti presentavano dipendenza da sostanze stupefacenti (il 24% di tutto il campione, con la cocaina che è risultata la sostanza più utilizzata). Seguivano le malattie dell’apparato digerente e, con il 14,5%, le patologie dei denti e del cavo orale. Elevata è la concentrazione di malattie infettive (epatite C, epatite B e Hiv), che colpiscono l’11,5% dei soggetti arruolati. Allarmanti sono i tentativi di suicidio e i gesti di autolesionismo: il 5% aveva messo in atto un gesto autolesivo almeno due volte nell’ultimo anno (Ars Toscana, 2015). Nonostante l’elevato consumo di tabacco (71% contro il 22%), i disturbi respiratori sono tra i più rari in carcere, essendo l’età media delle persone detenute relativamente bassa. Dunque, l’assistenza sanitaria penitenziaria è prevalentemente orientata alla cura delle dipendenze e dei disturbi psichici, e di patologie come epatite, Hiv, tubercolosi e malattie a trasmissione sessuale. L’emergenza sanitaria da Covid- 19 si è innescato quindi in un contesto precario, ove i numeri non sono incoraggianti. Cartabia vede Draghi e avvisa i partiti: ora soluzioni condivise di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 25 maggio 2021 “Non rimanere indifferenti all’appello di Mattarella”. Di ritorno da Palermo, dove ha partecipato alle commemorazioni di Giovanni Falcone, Marta Cartabia ha incontrato ieri mattina Mario Draghi, per aggiornarlo sulle proposte che il suo ministero sta mettendo a punto per riformare la giustizia. L’obiettivo è chiudere entro l’autunno. “Con le proposte da presentare in Palamento siamo in dirittura d’arrivo - spiega la ministra al Corriere. La riforma del processo civile è nelle mani del governo, in fase di bollinatura (il timbro della Ragioneria dello Stato per la copertura finanziaria, ndr), e sta per approdare alla commissione Giustizia del Senato. Sul penale le mie proposte sono pronte, le sto condividendo con il premier per poi presentarle ai rappresentanti politici. E nelle prossime settimane arriverà anche la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura: la commissione ministeriale presieduta da Massimo Luciani sta terminando i suoi lavori e poi ci sarà un mio lavoro di sintesi”. La “condivisione” con il presidente del Consiglio è un passaggio essenziale. La giustizia è un tema sensibile per Draghi, consapevole che i finanziamenti del Recovery fund dipendono anche dalle garanzie che potrà fornire su questo fronte: processi più rapidi e sistema giudiziario più efficiente servono ad attirare investimenti e rassicurare imprenditori e operatori economici. Ma c’è pure un problema di credibilità della magistratura, e di fiducia dei cittadini da recuperare. Ne ha parlato in maniera quasi accorata, proprio a Palermo, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sottolineando la necessità di riforme sollecite e incisive. Cartabia coglie e rilancia quelle parole: “Non posso che esprimere profonda e sentita gratitudine per il presidente che ha dato voce a una preoccupazione avvertita da molti, che anche io sento particolarmente come d’altra parte lo stesso presidente dell’Associazione magistrati. Il capo dello Stato ha richiamato tutti a farsi carico delle proprie responsabilità, e le sue parole così solenni devono diventare impegno concreto da parte di tutti”. A cominciare dai pm e giudici, con cui la ministra si mostra riconoscente: “La stragrande maggioranza di loro profonde quotidianamente il proprio impegno al riparo dai riflettori e spesso in condizioni difficili, molti su terreni particolarmente esposti e delicati”. Il riferimento è a indagini e processi in cui ancora si cerca di fare luce sugli aspetti rimasti oscuri delle stragi di mafia e terrorismo che hanno segnato la storia del Paese. Non a caso venerdì Cartabia sarà a Brescia per partecipare alla celebrazione del 47° anniversario dell’eccidio neofascista di piazza della Loggia che uccise 8 persone ne ferì 100. Quanto alle riforme evocate da Mattarella, la ministra conferma che “è tempo di rompere gli indugi. Non possiamo rimanere indifferenti all’invito del presidente ad affrontare con decisione il necessario processo di cambiamento. Mi auguro che il suo appello sia ben presente a tutti, non solo oggi ma soprattutto nelle prossime settimane, quando si tratterà di trovare soluzioni condivise nelle sedi politiche”. Stavolta i destinatari delle parole della ministra sono i partiti di una coalizione tutt’altro che omogenea in materia di giustizia. Una situazione che Cartabia conosce bene, ma che è decisa ad affrontare. Domani incontrerà la delegazione dei Cinque Stelle, il partito che più di ogni altro fatica a digerire alcune delle proposte già illustrate ai capigruppo della maggioranza: dalla modifiche alla prescrizione (abolita dopo il giudizio di primo grado al tempo del governo Conte 1), al divieto per i pm di proporre appello contro le assoluzioni, ad altri aspetti suggeriti dalla commissione presieduta dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi. L’obiettivo è tagliare di un quarto i tempi attuali del processo penale, e per raggiungerlo si discuterà di dare più peso ai riti alternativi e alle alternative al carcere per scontare le pene, temi sui quali non sarà facile trovare soluzioni condivise. E la ministra ribadisce: “Le riforme devono essere portate avanti con urgenza, ma occorre anche altro; anche la norma più innovativa rischia di restare lettera morta se non viene fatta vivere nella coscienza dei suoi protagonisti, cioè di tutti gli operatori della giustizia. Le riforme possono trovare effettività solo se sarà raccolto lo spirito richiamato dal capo dello Stato che ha esortato la magistratura a ritrovare quella autorevolezza di cui godeva, come nella stagione successiva alle stragi”. E così si torna al 1992, e all’esempio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ieri Cartabia ha ricevuto la procuratrice europea Laura Kovesi, magistrata rumena che da ragazza guardava la serie tv La Piovra e che ha voluto visitare l’ufficio in cui lavorò Falcone al ministero. Un’esperienza che la Guardasigilli ha rievocato anche il giorno prima a Palermo con Maria Falcone, la sorella di Giovanni, parlando del passato ma del futuro: dalla gestione delle aziende sequestrate e confiscate alle mafie all’ergastolo ostativo. Altri punti dell’impegnativa agenda di Marta Cartabia. Giustizia, l’assist del Colle a Cartabia di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 25 maggio 2021 Riforme. La ministra alle prese con le resistenze dei 5 Stelle, che incontrerà presto, e con l’annuncio di referendum di Salvini. Il nodo degli emendamenti sulla prescrizione e sul sistema elettorale del Csm. Mattarella le offre pubblico appoggio e lei rilancia: è il momento di incidere. Sulla riforma della giustizia l’intervento del presidente della Repubblica non poteva essere più tempestivo. Pronunciate domenica ricordando Falcone e Borsellino, le parole di Sergio Mattarella sulla necessità di “affrontare sollecitamente e in maniera incisiva i progetti di riforma” introducono una fase decisiva del confronto nella maggioranza sul tema. Tutt’altro che semplice, visto che sul nuovo processo penale le posizioni in campo restano distanti, mentre gli interventi sul Consiglio superiore della magistratura sono ancora in via di elaborazione da parte della commissione ministeriale. La ministra della giustizia ha trovato il modo di far sapere ieri che, naturalmente, da parte sua c’è “piena condivisione” del monito dal capo dello stato. Perché anche lei è convinta che sia necessario “andare avanti in modo incisivo”. Lo sprone di Sergio Mattarella a questo punto può essere di aiuto a Marta Cartabia che nei prossimi giorni dovrà superare il primo ostacolo: ancora quello della prescrizione. Non a caso è l’unico tema sul quale il tavolo dei saggi insediato dalla ministra non ha proposto una sola soluzione, ma due. La più avanzata, preferita da quasi tutti i partiti di maggioranza, prevede di affiancare alla prescrizione sostanziale quella processuale: sarebbe dichiarato estinto un processo che duri molto oltre i limiti massimi già previsti dalla legge Pinto. La soluzione più prudente è invece, in buona sostanza, un ritorno alla riforma Orlando del 2017. Sembrerebbe la via d’uscita, ma anche questa è indigesta ai 5 Stelle che con Bonafede hanno esordito in materia proprio cancellando il lavoro del precedente ministro Pd. Per i grillini lo status quo - che è quello del “lodo Conte bis” così com’è formalizzato oggi nel testo di riforma del processo penale all’esame della camera - non andrebbe toccato. Per questo Cartabia ha riservato loro un trattamento speciale, non previsto per gli altri gruppi, e li riceverà a brevissimo per cercare di ottenerne la non belligeranza sugli emendamenti del governo. Che dunque vedranno la luce solo successivamente. E spazzeranno via molti degli emendamenti già presentati dai partiti della ampia maggioranza (anche se non tutti, sono oltre seicento) e nelle speranze del governo dovranno essere approvati in tempi assai rapidi, visto che il calendario presentato in Europa con il Pnrr prevede il via libera definitivo alla riforma del processo penale - che è una legge delega - entro la fine di quest’anno. Il che significa che il voto finale della camera dovrà arrivare entro l’estate. Più attardata è la riforma che sembrerebbe invece più urgente, visto che il caso Amara-loggia Ungheria e le diverse indagini in corso sul comportamento del pm milanese Storari e la fuga di notizie vengono generalmente considerate un’altra tegole sul Consiglio superiore già azzoppato dallo scandalo Palamara. La commissione ministeriale che è al lavoro sulla riforma del Csm ha bisogno di altro tempo e in questo caso il problema numero uno è considerato il nuovo sistema elettorale della componente togata. Cartabia ha fatto capire di voler recuperare una proposta studiata nel 1996 che introduce il voto di medio termine per il Consiglio. Ma non sono poche, nel centrodestra come nella magistratura associata, le forze che spingono per arrivare al sorteggio, malgrado la palese incostituzionalità. A complicare il quadro stanno per arrivare i referendum abrogativi dei radicali sostenuti dalla Lega, e forse anche a questo ulteriore ostacolo faceva riferimento il presidente della Repubblica quando ha detto che le riforme della giustizia vanno fatte “nelle sedi cui questo compito è affidato dalla Costituzione”. Evidentemente il parlamento. Cambiare l’ordinamento giudiziario. La riforma impossibile di Mattarella di Maurizio Tortorella La Verità, 25 maggio 2021 La magistratura oggi raccoglie poca fiducia tra gli italiani ma il suo potere d’interdizione è intatto. Il presidente appoggia la Cartabia, però non è credibile che si trovi l’accordo sulle misure. A cominciare da quelle sul Csm. “La magistratura superi le polemiche interne e sia credibile”. Per un po’ era stato silenzioso, Sergio Mattarella, ma finalmente ha parlato. Esattamente un anno fa, davanti allo scandalo sconvolgente delle chat dell’ex pubblico ministero Luca Palamara, e all’emersione dello squallido mercato correntizio delle nomine e promozioni di giudici e pubblici ministeri, si era limitato a dichiarare che “non ci sono le condizioni per lo scioglimento del Consiglio superiore della magistratura”. Da un mese, dopo le ancor più le sconvolgenti faide interne scoppiate tra magistrati e membri togati del Csm sui verbali dell’avvocato Pietro Amara e sui misteri della loggia massonica Ungheria, il Quirinale non aveva detto molto. Ma poi, domenica 23 maggio, anniversario della strage di Capaci, il presidente della Repubblica ha parlato: basta con “contrapposizioni, contese, divisioni, polemiche che minano il prestigio e l’autorevolezza dell’ordine giudiziario” e “si affrontino sollecitamente e in maniera incisiva i progetti di riforma nelle sedi cui questo compito è affidato dalla Costituzione”. I quirinalisti si sono sbracciati a sottolineare soprattutto questa parte del discorso del presidente. E a interpretarne le parole. Hanno spiegato che la parola “sedi” esclude il Csm, di cui il capo dello Stato è presidente, in quanto tutto deve essere fatto in Parlamento. Questa spiegazione-interpretazione, però, è difensiva, oltre che in parte ipocrita. Perché è poco probabile che il Parlamento vari la riforma dell’ordine giudiziario impostata dal governo di Mario Draghi. Ovvio che i partiti che lo sostengono si dicano d’accordo su processi più rapidi ed equi. Quando poi dagli aurei principi si passa alle ipotesi concrete, divisioni e contrapposizioni tornano irriducibili. Non per nulla, anche nel Recovery pian che a fine aprile il governo ha spedito alla Commissione europea si parla molto degli strumenti per accelerare i tempi della giustizia, civile e penale, ma poco delle grandi riforme, quelle più “divisive”. Per questo, pare ovvio che Mattarella appoggi le iniziative del ministro della Giustizia, Marta Cartabia. Ma è poco credibile che la maggioranza di governo trovi unità sulle misure che dovrebbero modificare i difetti più macroscopici dell’ordinamento giudiziario, a partire dal Csm. Per questo, rinfranca sapere che Mattarella è turbato dai duelli rusticani tra magistrati e dallo scambio sommerso di verbali segreti, che nel Csm passano di mano in mano come accadeva a scuola alle figurine dell’album Panini, e poi vengono utilizzati come frecce intinte nel curaro. E conforta sentirgli affermare che “la credibilità della magistratura è imprescindibile per il positivo svolgimento della vita della Repubblica”. Allo stesso modo, di fronte agli osceni mercanteggiamenti tra correnti, è consolatorio che il presidente della Repubblica alzi la voce per dire: “Provoca turbamento il solo dubbio che la giustizia possa non essere, sempre, esercitata esclusivamente in base alla legge”. Però viene fatto di ricordare che, soltanto per provare a riformare il Csm, nel settembre 2015 Andrea Orlando, ministro della Giustizia del Pd, aveva varato ben due commissioni di studio: perché sei anni fa il problema dello strapotere delle correnti era già grave, e da parecchio. Malgrado quel dispiegamento di forze, però, Orlando non combinò nulla. Eppure il suo governo, guidato dal volitivo Matteo Renzi, aveva una solida maggioranza. Se si pensa al fallimento di quella riforma della giustizia (che poi è solo uno dei tanti), che cosa si può sperare possa uscire dalla maggioranza patchwork che sorregge Draghi & Cartabia? E sarà anche vero che la magistratura oggi tra gli italiani raccoglie poca fiducia (pare sia al minimo storico, il 39%, contro il 95% del 1993), ma il suo potere d’interdizione sulle riforme è intatto: due giorni fa Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm, l’Associazione nazionale magistrati che è il sindacato delle toghe, ha silurato il sorteggio per eleggere i membri togati del Csm, cioè l’unica strada che davvero toglierebbe potere alle correnti: “È fuori luogo e incostituzionale”. Chi avrà il coraggio di proseguire? E poi i collegamenti tra la magistratura e certi partiti restano più che stretti, organici. Nicola Morra, già presidente grillino della commissione antimafia, ha appena rivelato senza problemi le sue intense frequentazioni con Piercamillo Davigo, fondatore della corrente Autonomia e indipendenza e fino a ottobre membro del Csm, e con Sebastiano Ardita, pm antimafia e ancora membro di quel Consiglio, figure definite “di riferimento” per la politica giudiziaria. Il timore, insomma, è che le frasi pronunciate per il ventinovesimo anniversario della strage di Capaci dal presidente Mattarella, in fondo, siano illusorie. Nel 1992 un magistrato onesto aveva detto: “Se l’autonomia della magistratura è in crisi, dipende anche dalla crisi che da tempo investe l’Anm, diretto alla tutela di interessi corporativi, dove le correnti si sono trasformate in macchine elettorali per il Csm”. Era Giovanni Falcone. Riforma giustizia, Albamonte: “Basta divisioni, ammainare i vessilli per scelte condivise” di Davide Varì Il Dubbio, 25 maggio 2021 L’ex presidente dell’Anm accoglie con favore le parole pronunciate ieri dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella sul rischio che la magistratura perda credibilità agli occhi dell’opinione pubblica. “Purtroppo è già accaduto”. Esordisce così, parlando con l’Adnkronos, l’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte (Area), commentando le parole pronunciate ieri dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che nell’aula bunker di Palermo, in occasione del 29esimo anniversario della strage di Capaci, ha affermato: “Se la magistratura perdesse credibilità agli occhi della pubblica opinione, s’indebolirebbe anche la lotta al crimine e alla mafia”. “Quando io sono stato presidente dell’Anm - spiega Albamonte - nel nostro congresso a Siena, nel 2017, presente il Capo dello Stato, ho incentrato tutta la mia relazione su una già visibile perdita di credibilità della magistratura, almeno stando ai dati delle rilevazioni statistiche, e individuato una causa di ciò anche nel sistema di invasività delle correnti nella gestione dell’autogoverno”. “E però mi sembra che, a fronte di tante attestazioni di stima e anche di coraggio per la mia impostazione, poi non siano seguiti fatti. A questo poi si aggiungono vicende a cui nessuno poteva pensare, come quella dell’hotel Champagne, che era un pò, diciamo così, l’ordinaria ma non per questa accettabile amministrazione del Csm, in parte significativa condizionata da logiche clientelari. E poi si aggiunge ancora questo ulteriore passaggio sulle vicende Amara, verbali, eccetera”. Sul punto, Albamonte aggiunge: “Io non voglio entrare nel merito rispetto alle diverse posizioni e ai diversi comportamenti, anche perché ci sono uffici giudiziari che se ne stanno occupando, mi limito a dire, però, che il fatto che ci siano tre autorevoli e stimati magistrati che si confrontano tramite le televisioni e la carta stampata nelle reciproche posizioni, tutti e tre che hanno rivestito o rivestono incarichi istituzionali in un contesto in cui ci sono anche cinque procure al lavoro, dà un’immagine di conflittualità tra magistrati che certo non giova all’immagine dell’intera magistratura”. “Perché purtroppo - continua - siamo in una fase in cui ciascuno di noi rappresenta il tutto agli occhi del lettore o del cittadino che è a casa e guarda la televisione. Ognuno di noi, dunque, si deve fare carico della responsabilità, a volte anche molto pesante, di rappresentare agli occhi dell’opinione pubblica, soprattutto in questo momento, non solo se stesso ma l’intero corpo della magistratura quando parla”. Per l’ex capo dell’Anm, quindi, “avviarsi in logiche di contrapposizione che hanno ovviamente anche del personale, e con quelle modalità, senza voler prendere posizione a favore dell’uno dell’altro, complessivamente non giova all’immagine della magistratura e anche della giustizia, perché le famose rivelazioni statistiche di cui parlavo purtroppo sovrappongono alle occhi dei cittadini l’immagine della magistratura e l’immagine della giustizia, nel senso che se i magistrati fanno delle cose sbagliate, agli occhi dei cittadini è la giustizia che non va bene. Non sono i magistrati né tantomeno i singoli”. Ed è proprio in questo senso che Albamonte legge un’altra frase pronunciata ieri da Mattarella, secondo il quale “sentimenti di contrapposizione, contese, divisioni, polemiche all’interno della magistratura, minano il prestigio e l’autorevolezza dell’ordine giudiziario”. “Spero di non mettere in bocca al Capo dello Stato cose diverse da quelle che lui voleva dire - sottolinea Albamonte - ma ho letto e condiviso fortemente questo passaggio del Presidente della Repubblica proprio in questa chiave. Almeno io l’ho interpretata così”. Quanto, poi, al passaggio in cui Mattarella dice “si affrontino sollecitamente e in maniera incisiva i progetti di riforma nelle sedi cui questo compito è affidato dalla Costituzione”, Albamonte evidenzia: “Sono d’accordo con l’impostazione del Presidente della Repubblica e anche del ministro della Giustizia. In questo momento è necessario, da tanti punti di vista, una significativa attività di riforma della giustizia. E necessaria perché, come si dice in questi casi, “ce lo chiede l’Europa”, che però, a differenza del passato, la finanzia pure. E questo è un passaggio strategico, perché noi abbiamo un’arretratezza soprattutto nei tempi di gestione dei processi che deve essere finalmente risolta, e questa è un’occasione importante per affrontarla e ci sono anche delle riforme da fare. E poi c’è anche la parte più direttamente etica della magistratura, quindi la riforma dell’autogoverno, che fra l’altro la magistratura chiede a gran voce”. Sul punto, Albamonte spiega: “In questa fase la magistratura da un lato guarda con attenzione al lavoro del parlamento, perché ci sono alcuni passaggi che richiedono l’intervento del legislatore e i magistrati non possono fare da soli, ma dall’altra guarda anche con apprensione perché, a fronte dei tavoli ministeriali che stanno cercando di fare un lavoro tecnico che va tenuto in grande considerazione, c’è poi tutto un vocio dalla politica sulle riforme che sembra un po’, approfittando della caduta di credibilità della magistratura, di voler risolvere o comunque fare un ‘redde rationem’ rispetto a vecchie ruggini. E questo è un clima che non aiuta”. Nello specifico, Albamonte afferma: “Mi riferisco per esempio al riaccendere di nuovo le micce della dialettica a volte conflittuale attraverso il tema della separazione delle carriere, o della responsabilità civile dei magistrati, o parlare di una Commissione di inchiesta, raccogliere le firme per un ulteriore referendum facendo praticamente la copia carbone della raccolta già fatta dalle Camere penali sempre sulla separazione delle carriere. Sono tutti quanti temi che non creano quel clima di collaborazione tra la politica e le altre istituzioni, la magistratura e l’avvocatura, per una riforma il più possibile condivisa”. E condivisa, aggiunge Albamonte, “non vuol dire che se la scrivono i magistrati da soli, vuol dire che i magistrati, insieme agli avvocati, consapevoli dei problemi, contribuiscono a discutere sulle risposte che il parlamento e il ministro intendono dare. Questo però richiede un clima nel quale, come dice il ministro Cartabia, vengano un po’ ammainati i vessilli delle campagne divisive e di contrapposizione reciproca. Perché il rischio è che se questi vessilli non vengono ammainati si fa una grande confusione in cui alla fine si rischia di perdere un’occasione e di rimanere esattamente nella situazione in cui ci troviamo”. “Cosa che - conclude Albamonte - non ci possiamo assolutamente permettere. Non se lo possono permettere i magistrati, non se lo possono permettere gli avvocati ma soprattutto, per il rispetto che vogliamo che i cittadini abbiano del nostro lavoro, non ce lo possiamo permettere anche in termini di credibilità”. La giustizia penale come strumento di repressione di Angela Stella Il Riformista, 25 maggio 2021 Criminalizzare il dissenso per metterlo fuori gioco. “Pensiero unico, dissenso, repressione: che fare?”: è questo il titolo della tavola rotonda organizzata dall’Associazione “La società della ragione”. La presidente, l’ex senatrice Grazia Zuffa, ha spiegato il leitmotiv dell’evento: “I movimenti No Tav così come le Ong che salvano le vite nel Mediterraneo vengono ormai considerati come delle congreghe illegali e non come interlocutori con cui la politica può interagire. Quindi poi arriva la giustizia penale a criminalizzarli, mettendoli così fuori gioco. Si trasformano così in nemici della società e non ci si preoccupa più di approfondire le ragioni delle loro azioni. La giustizia penale diviene strumento di esclusione di chi è fuori dalla legalità: ciò è l’opposto di quello che dovrebbe essere il confronto politico, anche aspro ma che dà a tutti i soggetti la medesima dignità al tavolo della discussione”. A ciò si aggiunge anche che secondo alcuni il carcere, pur dovendo essere una extrema ratio, viene usato per mettere a tacere e infondere paura, si pensi al caso dell’attivista No tav Dana Lauriola: “Esatto. Quel caso ci ha spinti proprio a riflettere sul fenomeno ed è facile accorgersi che il principio dell’extrema ratio è disatteso. Ciò deriva anche dalla richiesta sociale del pugno duro”. Ma la magistratura dovrebbe giudicare i singoli casi e non i fenomeni: “Si tratta di una deriva insita nel fatto che la magistratura è divenuta un potere politico più forte della politica”. L’ex senatrice Maria Luisa Boccia ha aggiunto: “In un Paese come il nostro che da decenni è in emergenza, in questo periodo di pandemia la crescente sproporzione dell’intervento repressivo contro alcuni movimenti ha trovato giustificazione in motivazioni di “sicurezza” e di “salute pubblica” per attuare il controllo sociale; per esempio i picchetti che sono stati colpiti con interventi della polizia davanti ai luoghi di lavoro perché considerati assembramenti”. Per il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia, “rispetto al passato il dissenso viene represso quando trova una forma di manifestazione corporea, cioè quando si fa il picchetto, quando si vanno a prendere le persone in mare e le riportano altrove, quando si costruisce una mobilitazione in una valle; quindi vedo forme di mobilitazione più sotterranee che quando emergono sono esposte all’intervento repressivo, pur mantenendo capacità di comunicazione molto forte”. Infine per Riccardo De Vito, Presidente di Magistratura democratica, “non è possibile esprimere una considerazione su cosa è per sempre il potere giudiziario, più importante viceversa è una critica continua, pubblica e senza sconti ai singoli atti in cui si concretizza l’esercizio del potere giudiziario. Una cosa è certa: i giudici non sono nei fatti, come accredita invece una certa vulgata in voga ahimè nelle latitudini italiane, dei Re taumaturghi che per necessità divina fanno bene alla società; né di per sé i giudici sono dei baluardi della democrazia. Un esempio - e mi allontano dalle vicende nostrane - arriva dal Sud America: da un lato abbiamo una giudice guatemalteca che, per aver scoperto la corruzione di suoi colleghi e politici, subisce una persecuzione dal potere con trasferimenti e inchieste; dall’altro lato in Brasile un giudice come Sergio Moro è diventato l’esempio eclatante di come un giudice possa far cambiare il corso politico di quel Paese, pilotando in maniera occulta e artificiosa il processo a Lula. È necessario quindi verificare in concreto l’attività dei giudici per rendere quel potere democraticamente accettabile, il che non significa renderlo necessitante del consenso. Ogni potere giudiziario comporta necessariamente un tasso di ingratitudine, doveroso perché non si muove sul terreno del consenso e guai se lo facesse”. E conclude dicendo che “nessun giudice è obbligato ad una scelta, che invece è frutto di un bilanciamento di valori. Per esempio, a Genova si possono delineare due modi di agire delle magistrature: una che porta avanti l’idea che non si debba fare sconti alle forze di polizia e agli abusi di potere e che reputa necessaria una indagine imparziale; ma c’è anche un’altra magistratura che sceglie, discutibilmente ma legittimamente in termini di diritto, di abbandonare l’azione penale nei confronti di una rilevante serie di casi che vedevano imputati degli apicali delle forze di polizia, che abbandona ogni criterio di priorità con l’ineluttabile fine prescrizionale di alcuni procedimenti e di alcune contestazioni a carico sempre delle forze di polizia, che, rifiutando un patteggiamento a 5 anni per alcuni militanti del movimento che si erano resi responsabili dei fatti più violenti, dà vita ad un processo che funga da contraltare al processo nei confronti delle forze di polizia. Le frasi del pm impegnato nel procedimento nei confronti delle forze di polizia sono eclatanti: “L’immagine di neutralità dell’azione del pubblico ministero proprio di un assetto improntato al principio di legalità sembra sostituita dall’assunzione di un obiettivo connesso con la necessità anche di recupero di immagine degli apparati dell’amministrazione, quasi a trasmettere un messaggio della riconciliazione con le forze di polizia sul ritrovato fronte comune questa volta stando dalla parte giusta”. Per me la parte giusta non è quella dell’apparato né quella dei violenti ma in una possibilità che, se proprio non vogliamo essere antichi, non deve essere neppure quella di Creonte”. Magistrati e indagini: lo strano metodo “ungherese” di Paolo Mieli Corriere della Sera, 25 maggio 2021 I nomi delle trentanove personalità facenti parte della congrega sono coperti da segreto, ma è emerso che ne farebbero parte importanti giudici e avvocati, imprenditori e alti ufficiali. A seguito del monito - ieri a ventinove anni dall’uccisione di Giovanni Falcone, della moglie e degli agenti della scorta - diciamo meglio dell’allarme del presidente della Repubblica sulle liti che minano la credibilità della magistratura, viene da domandarci: che fine ha fatto la “loggia Ungheria”? Stiamo parlando di quella quarantina di personaggi che - secondo le dichiarazioni rese dall’avvocato Piero Amara ai pm milanesi Paolo Storari e Laura Pedio nel dicembre del 2019 - avrebbero provocato, in associazione tra loro, un qualche danno al corretto funzionamento del nostro sistema giudiziario e forse non solo a quello. I nomi dei trentanove sono ancora coperti da segreto, anche se da qualche spiffero abbiamo appreso che della congrega farebbero parte importanti magistrati, membri del Csm, avvocati di grido, imprenditori, alti ufficiali dei carabinieri, il comandante generale della Guardia di Finanza, il procuratore generale di Torino, il prefetto di Roma, il presidente del Consiglio di Stato, assieme ad altre personalità di pari livello. Per come sono andate le cose, è evidente che a Pedio (e al capo della Procura di Milano Francesco Greco) è subito parso che le indicazioni di Amara non fossero sufficientemente irrobustite da riscontri e che, perciò, quell’indagine non meritasse una corsia particolare. Storari fu di diverso avviso e, quattro mesi dopo l’interrogatorio, ritenne di denunciare questa sospetta lentezza al consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Al quale consegnò copia dei verbali di Amara dopo esser stato da lui rassicurato circa la liceità di tale comportamento. L’intenzione dichiarata di Storari era quella di imprimere un’accelerazione all’indagine che Greco, a suo avviso, aveva frenato. Poi però Storari non fece caso al fatto che di mesi ne trascorsero altri dodici (un anno!) senza che si muovesse foglia. Evidentemente si fidava dell’interlocutore: ci avrebbe pensato Davigo a smuovere le acque in tempi e modi che avrebbe saputo individuare facendo ricorso a tutta la sua sapienza e a tutta la sua esperienza. Sicché Storari mai ritenne, neanche in seguito, di denunciare - per vie, diciamo così, più tradizionali - l’inerzia dei suoi superiori. E, mentre i mesi passavano, probabilmente pensò che la lentezza con cui il tutto procedeva fosse da mettere nel conto della pandemia. Il dottor Davigo, dal canto suo, preoccupato che la notizia dei sospetti “incappucciati d’Ungheria” giungesse alle orecchie di alcuni membri del Csm il cui nome compariva negli incartamenti, parlò della questione in via riservata con il vicepresidente del Consiglio superiore David Ermini. Ma anche con il procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi, con il primo presidente della Corte di cassazione Pietro Curzio e con altre persone scelte sulla base di un criterio difficile da decrittare. Quanto all’incartamento affidatogli da Storari, ancor oggi non è dato sapere con certezza se ne abbia consegnato copia completa a qualcuno dei suoi interlocutori. Poi, a ottobre, Davigo è andato in pensione e non si capisce a chi abbia lasciato in eredità quelle carte incandescenti e segrete. È un fatto però che in seguito quei fogli hanno preso a diffondersi tra colleghi e giornalisti, forse ad opera della segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, che - ha poi raccontato lo stesso Davigo - gli era parsa negli ultimi giorni in cui l’aveva vista “un po’ sopra le righe”. Finché il tutto, sempre in forma anonima, è finito nelle mani di un collega di Davigo, Nino Di Matteo, che meritoriamente ha rotto l’incantesimo. Di Matteo ha portato questa strana storia allo scoperto parlandone al cospetto del Csm, un uditorio in cui alcuni già sapevano e altri no. A quel punto alcuni di quelli che hanno ammesso di esser stati già da tempo depositari di quel segreto, si sono trovati concordi su una circostanza: ad ognuno di loro Davigo aveva sottolineato la presenza in quel brogliaccio del nome di un membro del Consiglio, Sebastiano Ardita, fino a qualche tempo prima grande amico nonché compagno di corrente di Davigo stesso. Poiché ci fidiamo dell’esperienza giuridica del dottor Davigo, siamo portati a pensare che in Italia d’ora in poi entrerà in vigore il “metodo ungherese” di cui quella descritta è stata l’esperienza pilota. Le regole dovrebbero essere le seguenti: se un sostituto procuratore ha qualcosa da ridire sui comportamenti del capo della Procura di cui fa parte, può rivolgersi - all’insaputa del capo stesso e dei colleghi che indagano assieme a lui - ad un componente del Consiglio superiore della magistratura di suo gradimento; a lui può consegnare carte coperte da segreto a patto che siano in copia, così che non sia identificabile chi le ha fatte uscire; di questa documentazione riservata, il destinatario, a sua volta, potrà fare l’uso che più gli aggrada informando, in qualche caso sommariamente, “chi di dovere” (cioè i suoi riferimenti istituzionali); ma gli è altresì concesso di renderne edotti anche parlamentari e colleghi che gli sembrino meritevoli delle sue confidenze; potrà persino correre il rischio che questi suoi sussurri generino disagi alle persone citate nelle carte: può star sicuro infatti che la quasi totalità dei giuristi italiani (ministri ed ex ministri di Giustizia, magistrati di ogni livello, presidenti ed ex presidenti della Corte Costituzionale) non troverà - come fino ad oggi non ha trovato - alcunché da eccepire all’applicazione del “metodo ungherese”. Se poi una imprevedibile fuga di notizie dovesse provocare fastidi a qualche malcapitato il cui nome è finito nei fascicoli “segreti”, nessun problema: un’accurata indagine porterà all’individuazione dell’usciere o della segretaria responsabile dello spiffero e a lui (o a lei) verrà comminata una pena adeguatamente severa. A questo punto non possiamo non complimentarci con il fortunato dottor Ardita che ha avuto la buona sorte di essere stato il primo ad esser finito con il suo nome nel ventilatore sicché, al momento, è stato l’unico a poter dimostrare in modo circostanziato la propria estraneità all’ordito massonico che aveva allarmato Storari e Davigo. Nomi e cognomi degli altri trentanove appartenenti alla supposta loggia non hanno avuto uguale opportunità di difesa pur essendo stata resa semipubblica la loro identità, in qualche caso, persino sui giornali. Restano così, i trentanove sospetti cospiratori, in uno stato di sospensione, esposti a dileggio e insinuazioni. Diciamo la verità: una condizione non invidiabile. Tocca ora al procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone fare chiarezza sui presunti membri della “loggia Ungheria” separando quelli come Ardita che provatamente non dovrebbero restare un giorno di più nel girone dei sospetti, dagli altri la cui posizione merita di essere ulteriormente esplorata. Quanto a noi, pur ammirati da questo metodo di ricerca della verità assai innovativo, continuiamo a prediligere quello antico che passava per le carte protocollate. Le carriere di Pm e giudici sono di fatto già separate, non separiamo i concorsi di Alberto Cisterna Il Riformista, 25 maggio 2021 Nella confusione che agita i cieli della giustizia italiana ogni proposta sembra plausibile e ogni soluzione sembra quella giusta. Il caos legittima sortite e improvvisazioni che hanno quale unico obiettivo la rimodulazione del potere giudiziario e la ridefinizione dei suoi ambiti. È come se sul ring ci fosse un pugile suonato che non riesce a schivare i colpi dell’avversario e, qualche volta, si ha l’impressione che a menare sia pure l’arbitro. L’idea di imporre, a partire dal prossimo concorso, ai giovani candidati alla toga di optare per sempre tra le funzioni di giudice e quelle di pubblico ministero può anche entusiasmare i fautori della separazione delle carriere, ma è a tutti chiaro che si tratta di cose che hanno poco a che fare l’una con l’altra. Già da molto tempo, da troppo tempo, infatti i transiti di funzioni tra giudici e pm e viceversa sono ridotti all’osso. Una norma di qualche anno or sono consente a un giudice di Roma di poter divenire un pm in qualunque procura della Repubblica, ma che non sia nel Lazio; così come per un pm di Firenze è possibile accedere alle funzioni giudicanti in un qualsiasi tribunale a patto che sia fuori dalla Toscana. L’incidenza sulla vita dei magistrati è evidente e, quindi, scoraggia scelte di questo genere. Le funzioni giudiziarie sono in via di fatto e in gran parte separate da un pezzo e la promiscuità delle funzioni è solo un residuo di altri tempi, con magistrati di ben altra statura (da Falcone a Borsellino, da Maddalena a Macrì) che facevano di questa “doppia” appartenenza alla giudicante e alla requirente un vanto e un titolo nella propria carriera. La cosa peggiore che possa accadere in Italia in questo momento è proprio quella di allontanare per sempre un giovane magistrato dalla cultura della giurisdizione, dalla fatica del decidere, dalla sofferenza del verdetto, per consegnarlo - praticamente inerme - alle funzioni inquirenti, ossia nelle mani o di colleghi di lungo corso a trasparenza variabile o della polizia giudiziaria che vanta ben altre, molto più collaudate, esperienze e più efficaci moduli organizzativi. Sia chiaro, non tutte le procure si somigliano. Ci sono uffici in cui superbi procuratori assicurano trasparenza e serenità, ma non accade sempre e non accade dappertutto. Dovrebbe essere evidente a tutti, ma proprio a tutti, che l’attuale crisi del sistema si concentra e si perimetra interamente nell’alveo delle procure della Repubblica. Da dieci anni almeno si assiste a scontri durissimi tra magistrati che esibiscono tutti una lunga militanza nelle file del pubblico ministero e che si sono tenuti sempre distanti dalla logica della giurisdizione, intesa come decisione o perché in buona fede assaliti da una mistica dell’investigazione o perché, in modo meno encomiabile, fortemente ancorati ai propri privilegi. Spezzoni di inquirenti che guerreggiano per le indagini da fare o per quelle da evitare a seconda dei casi o per la visibilità mediatica o per la conquista di uno scranno nella scalata alla piramide del potere investigativo. Il tutto all’ombra di un Csm che, ben che vada, è sempre più preoccupato ogniqualvolta deve metter mano in regolamenti di conti dagli effetti imprevedibili e che tenta a fatica di preservare la credibilità dell’istituzione. In fondo è in questo che si esaurisce e si risolve il caso Palamara, non meno della lotta intestina milanese sulle dichiarazioni dell’avvocato Amara. A guardarli dall’esterno, con il distacco possibile, ma senza pretesa di alcuna oggettività, possono individuarsi alcune linee di continuità e ben poche fratture tra i due casi. I protagonisti dei due affari che stanno scuotendo dalle fondamenta la magistratura italiana appartengono sempre al medesimo cluster: ci sono alcuni pubblici ministeri, alcuni personaggi sospetti, alcuni giornalisti. Gli obiettivi perseguiti sono sempre gli stessi: screditare gli avversari, conquistare credibilità mediatica, occupare posti quando non sovvertire il funzionamento del Csm (accusa, questa, che circola in relazione a entrambe le faccende). Le conseguenze sono le medesime: magistrati del pm colti con il dito nella marmellata a ordire o sull’orlo di una crisi di nervi o a caccia di corvi e cicale e con il dubbio che l’azione penale sia solo - in qualche caso almeno - lo schermo per lanciarsi in battaglie a tutto campo. Ci mancava nel pantheon solo il pentito di turno e, in verità, anche questa casella della perfetta partitura è stata riempita grazie al profondo ripensamento del dottor Palamara e alle scelte un po’ naif dell’avvocato Amara. Ora correre il rischio di consegnare giovani laureati, e per sempre, a questa turbolenta e, a tratti, infida macchina da guerra può sembrare coerente alla luce di altri, più complessivi propositi (come quello di separare le carriere), ma preso in sé è un progetto da rimeditare e profondamente. Non tanto perché potrebbe avere un esito infelice in sede di voto parlamentare, quanto perché avalla la preoccupante involuzione della magistratura italiana che è in atto (con la separazione delle funzioni) e che sta producendo guasti incalcolabili. Sono state chiare le prime dichiarazioni del presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia sin dal suo insediamento: non si può isolare il pm dalla giurisdizione per consegnarlo a sé stesso o peggio in altre mani perché sarebbe in discussione il gradiente della democrazia. Un’impostazione quella “autonomista” o “sovranista” che, si badi bene, era ed è spesso gradita ad alcuni ras delle procure della Repubblica che non stanno a valle, ma - come il lupo di Esopo - piuttosto a monte dello scorrere delle acque della giustizia italiana e che - attraverso le saldature di polizia e gli asset mediatici evocati ne Il Sistema - mantengono sotto scacco l’intero plesso istituzionale della magistratura italiana e che vedrebbero di buon occhio la costituzione di un’enclave libera da ogni vincolo. Abbreviato: la riqualificazione del reato consente fino alla discussione domanda di oblazione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2021 La tempistica “allungata” fino al contraddittorio tra le parti tiene conto dell’assenza delle fasi preliminari del rito ordinario. Nel giudizio abbreviato la domanda di oblazione può avvenire nella fase della discussione finale se l’originaria imputazione era per un delitto di cui l’imputato richiede la riqualificazione unitamente al beneficio che estingue il reato contravvenzionale. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 20573/2021, ha accolto la lamentela del ricorrente cui era stato negato l’accesso all’oblazione nell’ambito di un procedimento abbreviato. Con la motivazione che si tratta di richiesta che andava formulata prima del giudizio a pena di decadenza. Fermo restando che in caso di contestazione di reato contravvenzionale ab origine nell’ambito del rito abbreviato la domanda di oblazione deve essere contestuale alla domanda di accesso al rito. Ciò però non può avvenire in caso di riqualificazione del delitto in contravvenzione. Infatti, nel rito abbreviato l’unico momento in cui la domanda di oblazione può essere formulata è il momento del contraddittorio orale tra le parti. Spiega la Cassazione che fin quando il giudice ha la possibilità di riqualificare il fatto contestato non può non essere ammessa la richiesta di oblazione dell’imputato. Ovviamente garantendo il diritto di replica del pubblico ministero. Se invece la richiesta di riqualificazione è avanzata dall’imputato questi deve contestualmente chiedere di essere ammesso all’oblazione. La sentenza si distingue per aver letto due importanti precedenti contrapposti e relativi però al rito ordinario leggendoli alla luce delle esigenze di quello abbreviato. E vista l’assenza - nel rito abbreviato - delle fasi preliminari in cui può essere riqualificato a opera del giudice un delitto in contravvenzione la regola non potrà essere identica. Cioè la nozione “prima del giudizio” non coincide con quella del rito ordinario “prima dell’apertura del dibattimento”. Non si poteva perciò pretendere dall’imputato che la domanda di oblazione fosse posta contestualmente a quella di ammissione al rito abbreviato. Liguria. Legge su Garante detenuti: la Rete tematica carcere scrive al Consiglio regionale bizjournal.it, 25 maggio 2021 La Rete tematica carcere, ha raccolto in una lettera le proprie esperienze e proposte sulla legge sull’istituzione del garante dei detenuti. In attesa che venga eletto il nuovo garante dei detenuti, il cui mandato riguarda anche gli stranieri ospiti dei Cir, le persone sottoposte a Tso e gli ospiti delle rsa, la Rete tematica carcere, attiva dal 2010 e facilitata dal Centro di Servizio al Volontariato della città metropolitana di Genova (Celivo), ha raccolto le proprie esperienze, idee, proposte e le ha razionalizzate in una lettera inviata oggi al consiglio regionale. Dal 2019 il gruppo composto da diverse associazioni che operano nel campo della solidarietà e che si occupano in vari modi di giustizia penale (detenuti, ex detenuti, persone in misura alternativa alla detenzione, messa alla prova, etc.) ha seguito con interesse gli avvenimenti legati all’approvazione della legge regionale di “istituzione del garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale”, una legge fino a oggi non prevista nella nostra regione e che lo scorso 29 marzo ha trovato conclusione con il voto di approvazione da parte dell’Assemblea Legislativa della Liguria. La lettera inviata oggi al consiglio regionale punta a evidenziare alcune criticità e a offrire un contributo concreto nella scelta della figura del garante da parte di chi quotidianamente opera sul campo. “Le organizzazioni aderenti alla rete carcere di Celivo - spiega Ramon Fresta del Ceis Genova e portavoce per la Rete Tematica Carcere in questo contesto - hanno accolto con piacere la notizia dell’approvazione definitiva della legge regionale di istituzione del garante delle persone private della libertà. Una figura che riteniamo fondamentale per garantire un percorso, condiviso con le istituzioni, per traguardare scelte utili a migliorare la qualità delle condizioni non solo della popolazione target ma anche di tutti coloro che a quelle persone sono legati; con la positività che caratterizza il volontariato, crediamo che migliorare la loro condizione porti giovamento all’intero territorio”. All’indomani del corso di formazione nazionale realizzato dalla Rete Carcere a cui hanno partecipato centinaia di persone da tutt’Italia, il gruppo ligure fa nuovamente sentire la propria voce ponendo al futuro garante dei detenuti alcune richieste: disponibilità, raggiungibilità, confronto per un lavoro sempre più efficace e migliorativo sul territorio. Marche. Situazione carceri, il Garante incontra i rappresentanti della Polizia penitenziaria agenziadire.com, 25 maggio 2021 Primo appuntamento di Giulianelli con le componenti che intervengono negli istituti, mentre prosegue la consueta azione di monitoraggio. Ad affiancare l’azione di monitoraggio degli istituti penitenziari effettuata dal Garante di diritti Giancarlo Giulianelli, anche una serie di incontri con le diverse componenti che operano in carcere. Primo appuntamento da remoto con i rappresentanti sindacali degli agenti di polizia penitenziaria, al quale hanno partecipato Nicando Silvestri (Sappe), Maurizio Gabucci (Cisl), Francesco Patruno (Cgil), Alfredo Bruni (Sinappe), Alessandro Scognamiglio (Uspp), Riccardo Casciato (Fsacnpp). “Ritengo che il carcere sia un ambiente simbiotico. Quando stanno bene i detenuti - ha sottolineato Giulianelli aprendo l’incontro - stanno bene anche tutti gli altri e viceversa. Proprio in questa direzione vanno affrontati i problemi in una visione complessiva, ma anche con la dovuta attenzione alle specificità di ogni singolo istituto”. Sul piatto della bilancia vecchie e nuove criticità legate soprattutto al divario tra gli agenti assegnati e quelli effettivamente in servizio, che attualmente si assesterebbe sulle 119 unità, con un primato su Montacuto (33) ed a seguire Fossombrone (28), Pesaro (25), Barcaglione (22), Marino del Tronto (17) e Fermo (6). Carenza di personale che si fa sentire soprattutto considerata la molteplicità delle mansioni espletate dagli agenti (sicurezza, trattamento e percorso di reinserimento dei detenuti); il sovraffollamento che, sia pure senza picchi elevati, si ripresenta in modo ciclico; i più volte evidenziati mutamenti nell’ambito della popolazione carceraria; i problemi strutturali che gravano sugli istituti. Non da ultima la situazione sanitaria dove si riscontra la mancanza di personale specifico e che, ovviamente, ha riscontrato ulteriori problemi a causa dell’emergenza epidemiologica, a partire dal focolaio sviluppatosi nei mesi scorsi a Villa Fastiggi. Nel corso dell’incontro è stata posta in primo piano la necessità di superare la marginalizzazione in cui spesso ci si viene a trovare, sempre a causa dell’esistenza di un solo Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria chiamato a sovrintendere, ormai da diversi anni, su Emilia Romagna e Marche Da parte del Garante l’impegno a seguire costantemente la situazione ed a rappresentarla nelle sedi opportune e l’illustrazione di alcuni progetti che saranno attivati nelle prossime settimane e che riguarderanno interventi di sostegno in diversi settori e il riavvio delle attività trattamentali. Liguria. La Regione sollecita il Governo sul nuovo carcere di Savona La Stampa, 25 maggio 2021 Approvato un ordine del giorno in Consiglio regionale. Realizzare nel più breve tempo possibile il nuovo carcere di Savona in un’area idonea della Val Bormida tra i Comuni di Cengio e Cairo Montenotte. Lo sollecita un ordine del giorno approvato con 23 voti a favore (centrodestra e Pd-Articolo Uno), 3 contrari (Linea Condivisa e Lista Sansa) e 2 astenuti (M5S) stamani in Consiglio regionale. Il documento presentato dal capogruppo Angelo Vaccarezza (Cambiamo!) impegna la Giunta Toti “ad attivarsi presso il Ministero di Giustizia affinché l’iter procedurale per l’individuazione dell’area e la costruzione del carcere giunga alla sua conclusione nel minor tempo possibile”. “Le attuali amministrazioni comunali di Cairo Montenotte e Cengio hanno più volte ribadito la concreta disponibilità di aree idonee allo scopo”, ha sottolineato Vaccarezza. A oggi Savona è l’unica provincia ligure priva di una casa circondariale dopo la chiusura del vecchio carcere nel 2016. Si stima che la nuova struttura debba disporre di circa 50 mila metri quadrati. Il capogruppo Ferruccio Sansa (Lista Sansa) ha espresso “perplessità sulla scelta della Val Bormida per il nuovo carcere di Savona, perché nella vallata per decenni si sono sbattute attività che nessuno voleva. Il nuovo carcere deve essere vicino alla città di Savona per consentire le visite dei parenti dei detenuti. I collegamenti della Val Bormida non sono adeguati e obbligherebbero la polizia penitenziaria a lunghi viaggi in autostrada”. (Nella foto l’ingresso dell’ex carcere di Savona). Torino. “Voleva solo andare via”. La terribile storia dietro il suicidio al Cpr di Giansandro Merli Il Manifesto, 25 maggio 2021 Moussa Balde era stato aggredito a Ventimiglia e poi rinchiuso nel centro per i rimpatri di Torino perché senza documenti. La procura di Torino ha avviato accertamenti sulla morte di un ragazzo nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Torino. Moussa Balde aveva solo 23 anni ed era nato in Guinea: domenica si è tolto la vita impiccandosi con le lenzuola. Due settimane prima era finito in un drammatico video diventato virale: il 9 maggio, a Ventimiglia, era stato aggredito da tre uomini. Lo hanno pestato con bastoni, calci e pugni in mezzo alla strada, di giorno, tra le urla dei vicini. “Così lo ammazzano”, si sente dire in sottofondo. Alla fine è morto comunque. I tre italiani di 28, 39 e 44 anni sono stati identificati dalla polizia di Imperia e denunciati per lesioni. Per Balde invece, nonostante avesse ricevuto una prognosi di 10 giorni, si sono aperte le porte del Cpr. Per l’assurdo effetto delle leggi che hanno trasformato donne e uomini in clandestini la vittima ha avuto la peggio due volte. Anzi tre. Balde era arrivato in Italia nel 2017, attraversando il mare. “Sognava un’altra vita, un lavoro. Non poteva rientrare nel suo paese. Diceva che sarebbe stato ucciso dalle stesse persone che lo avevano spinto a scappare - ha raccontato all’Ansa Marco, un suo amico - Era un ragazzo molto intelligente: in pochi mesi ha imparato l’italiano e preso la terza media a Imperia. Era però anche tormentato e impaziente, faticava ad aspettare”. Altre persone che lo hanno conosciuto ne ricordano la grande sensibilità e l’interesse per la politica. Sulla pagina del centro sociale ligure “La talpa e l’orologio” c’è un’immagine in cui sorride con addosso la maglietta “Imperia antirazzista”. La foto è stata scattata a Roma, durante una manifestazione per i diritti dei migranti. “Una persona affidata alla responsabilità pubblica, deve essere presa in carico e trattenuta nei modi che tengano conto della sua specifica situazione, dell’eventuale vulnerabilità e della sua fragilità. Questo non è avvenuto”, ha accusato ieri Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti. Nell’ultimo rapporto sulle visite nei Cpr, Palma si è soffermato sulla zona “Ospedaletto” del centro torinese, quella usata per l’isolamento sanitario in cui Balde si è tolto la vita. È così descritta: “priva di ambienti comuni, le sistemazioni individuali sono caratterizzate da un piccolo spazio esterno antistante la stanza, coperto da una rete che acuisce il senso di segregazione”. “Voleva solo andare via, non accettava di essere rinchiuso là dentro senza aver fatto nulla”, dice l’avvocato Gianluca Vitale, difensore del ragazzo. La scorsa settimana lo ha incontrato due volte e Balde gli ha raccontato che a Ventimiglia era stato picchiato mentre chiedeva l’elemosina, non dopo un tentativo di furto, come sostenuto dagli aggressori. Pare che la sua versione non sia stata ascoltata neanche dalla Procura. “Avrei dovuto vederlo oggi. Eravamo preoccupati: un ragazzo di 23 anni che viene picchiato barbaramente e poi finisce in un Cpr non può che trovarsi in una condizione di estrema vulnerabilità”, afferma la Garante dei detenuti del comune di Torino Monica Cristina Gallo. “Come è stato possibile disporne non solo l’espulsione in un paese tutt’altro che sicuro come la Guinea ma perfino il trattenimento in un Cpr?”, ha dichiarato Riccardo Magi (+Europa). Nicola Fratoianni (Sinistra italiana) e Maurizio Acerbo (Rifondazione Comunista) hanno chiesto la chiusura di tutti i Cpr. Erasmo Palazzotto (Liberi e Uguali) ha presentato un’interrogazione alla ministra Lamorgese affinché faccia chiarezza su tutti gli snodi della vicenda: dalla reclusione all’assistenza medico-psicologica. Ieri gli altri 107 migranti rinchiusi nel centro hanno protestato per la morte del loro compagno. Oggi alle 18 la rete “No Cpr Torino” manifesterà sotto le mura della struttura detentiva. Torino. Tutto quello che non torna nel suicidio di Musa Balde di Rita Rapisardi Il Domani, 25 maggio 2021 Il 23enne della Guinea non era stato curato adeguatamente, dice l’avvocato. Secondo i volontari è la prassi nel Cpr di Torino, struttura opaca e senza tutele. I decreti di Salvini hanno anche diminuito la presenza medica. Musa Balde è deceduto nella notte tra sabato e domenica nel Centro di permanenza per rimpatri di stranieri di Torino. Di lui si sa che aveva 23 anni ed era originario della Guinea. È finito dentro dopo essere stato aggredito il 9 maggio scorso da tre italiani a colpi di spranga a Ventimiglia, mentre forse cercava di arrivare in Francia. Durante la visita in ospedale era emersa la sua irregolarità e per questo è stato spedito in quello che per i torinesi è il Cie di corso Brunelleschi. Si è subito parlato di suicidio, commesso arrotolando le lenzuola come un cappio, ma alcune voci, arrivate a volontari che sono in contatto con i migranti, parlano di mancata assistenza: “Secondo la testimonianza di un ragazzo, nonostante dimostrasse chiari segni di sofferenza causati dalle lesioni al corpo, Musa non è stato mai visitato da nessun medico o membro del personale medico del Cpr. È stato sentito urlare e chiedere l’intervento di un dottore senza mai ricevere una risposta”, si legge nel comunicato diffuso da No Crp Torino, un comitato composto da persone che vogliono rimanere anonime e che spesso organizza presidi di solidarietà all’esterno del centro. Sul fatto, su cui per ora indaga la squadra mobile di Torino, c’è riserbo. Ma da tempo le condizioni del Cpr di Torino, uno dei nove presenti in Italia (capienza 161 posti, spesso sovraffollato) sono denunciate da avvocati e associazioni: “Mi sembra che la situazione del Cpr sia totalmente ingestita e ingestibile e la storia di Musa ne è la prova: è entrato lì senza un approfondimento psichiatrico, non si sa se il personale sapesse della sua aggressione, ma l’ultima cosa da fare sarebbe stato metterlo in isolamento”, racconta Gianluca Vitale, l’avvocato che seguiva Musa, il quale non si dava pace per essere stato rinchiuso, vista l’aggressione razziale che aveva subito per il solo fatto di chiedere l’elemosina: “Quello è un luogo di abbandono, queste persone vengono buttate lì e non sanno neanche perché”. Le denunce - Da tempo politici ed esperti di diritti umani denunciano le condizioni pessime di chi lì dentro vive: “Questa morte mi ha ricordato quella di Faisal (deceduto nel 2019 per infarto mentre era in isolamento, ndr) rinchiuso per sei mesi, anche lui era detenuto nell’Ospedaletto, delle cellette a schiera separate dal resto, aree scarsamente controllabili”, aggiunge Vitale. Queste mura sono spesso inviolabili anche per gli avvocati, ancor di più da dopo le riforme fatte quando Matteo Salvini era al governo. Dal 2018 al 2019 nel Cpr di Torino le ore di presenza di medici, psicologi e mediatori sono state dimezzate. Mentre quelle per l’assistenza legale sono passate da 72 a 16. Le comunicazioni dall’interno sono scarse anche perché di recente è stato vietato l’uso del telefonino personale. Ci sono dei telefoni pubblici, ma che spesso non funzionano. Una delle ultime grandi proteste è avvenuta questo inverno, quando sono state distrutte due aree, bruciate dagli stessi ospiti che cercano in ogni modo di far sentire la propria voce. La mala gestione riguarda ogni aspetto: ragazzi minorenni, detenuti perciò illegalmente, scarsa igiene e assistenza, cibo avariato, mancanza di cure mediche adeguate di fronte a patologie che meriterebbero attenzione, e di beni di prima necessità come coperte e lenzuola, ma anche violenze ed abusi. “Molti sono stati prelevati dalle forze dell’ordine in assetto antisommossa e condotti, uno alla volta, in una stanza dove sono stati picchiati, immobilizzati da tre guardie ed infine costretti, sotto tortura, ad effettuare il tampone”, scrivono dal comitato No Cpr Torino. I fatti si riferiscono al tampone anticovid, un atto necessario per concludere il rimpatrio e per questo diventato arma di dissenso, ma anche il rifiuto del cibo e delle terapie psicologiche spesso sono gli unici modi per provare a farsi ascoltare: “La pressione quotidiana delle guardie e le attuali condizioni di sovraffollamento all’interno delle stanze hanno portato alcuni reclusi a compiere gesti di autolesionismo in segno di protesta”, si legge ancora. Le proteste dei parenti - Anche sui social i pochi parenti denunciano: “Mio fratello è stato insultato e picchiato durante la custodia ed è stato deportato con la forza”, “Il mio compagno è lì dentro da novembre e qualche giorno fa hanno dato fuoco a tutto, ora dormono per terra, in 35 in una stanza”. “Sono luoghi di sofferenza, peggio delle carceri perché qui non esistono sistemi di accoglienza, terzietà o associazioni che operano. Sono spazi fatiscenti per quelli che sono di fatto dei “senza nome”, spiega Marco Grimaldi, consigliere regionale di Liberi e uguali, che è riuscito negli anni a fare più di un sopralluogo, sempre con difficoltà: dalla richiesta alla possibilità di entrare infatti trascorrono giorni e non è semplice verificare le mancanze. “I casi di abuso di psicofarmaci e autolesionismo, sono numerosi: ti chiedi perché sei lì e non lo sai. Chi scappa da miseria e guerra e finisce in un Cpr è spogliato di nuovo della sua libertà, anche perché nella maggior parte dei casi non si è detenuti per un crimine. È la cronaca di un disastro umanitario e civile”, aggiunge Grimaldi che per la morte di Faisal denunciò il malfunzionamento del citofono per chiedere aiuto e la mancanza di telecamere nelle cellette. Per molti a essere sbagliato è l’intero sistema dei Cpr, costoso e inefficiente, quando ci sarebbe tutto lo spazio nel sistema carcerario attuale. La gestione poco trasparente rende i centri di permanenza delle galere parallele in cui però le regole sono diverse. “Sono luoghi totalmente impermeabili all’esterno e con un’altissima presenza di forze dell’ordine, quasi ingiustificata”, conclude Vitale. “Ma il grande schieramento, con mitra sempre visibili e antisommossa, indicare una cosa sola: quella è già frontiera. Ti trovi in Italia, ma sei già fuori. Per questo l’isolamento è coerente in un territorio separato addirittura da quello italiano”. Torino. Una morte che pesa come un macigno di Marco Revelli Il Manifesto, 25 maggio 2021 Moussa Balde. C’è, nella sua morte, il segno di una condanna inespiabile per tutto il nostro mondo supponente e indecente. Per le autorità (funzionari di polizia, magistrati, secondini) che ne hanno deciso la detenzione senza interrogarsi sull’ignominia che compivano. Per gli uomini di governo che dichiarano pubblicamente, senza pudore, che ci dobbiamo servire dei dittatori perché ci sono utili a tenere lontani da noi quelli come Moussa. “Non un nome, non un volto, ci hanno provato per giorni a farti scomparire dalle cronache della realtà”. Comincia così il messaggio degli attivisti del centro sociale ‘La talpa e l’orologio’ di Imperia con cui salutano il ragazzo suicida nel Cpr di Corso Brunelleschi di Torino, luogo famigerato di detenzione e stoccaggio di corpi a perdere, le “vite di scarto” di cui parla Baumann. Si chiamava Moussa Balde, veniva dalla Guinea, il 29 luglio avrebbe compiuto 23 anni. E la sua morte pesa come un macigno su tutti noi. Perché era una vittima - il giovane senza nome, appunto, di cui le cronache si erano occupate quando il 9 maggio era stato aggredito e massacrato di botte da tre energumeni a Ventimiglia, per il solo fatto che era lì, sulla strada - e invece è stato trattato da colpevole, imprigionato in un vero e proprio lager sotto la minaccia dell’espulsione. Segregato quando ancora le ferite del corpo e dell’anima non si erano rimarginate, abbandonato alla propria disperazione, offerto al sacrificio da una società che ha perduto se stessa e per questo non sa più salvare nessuno. Era un uomo, ed è stato trattato come una cosa. C’è, nella sua morte, il segno di una condanna inespiabile per tutto il nostro mondo supponente e indecente. Per le autorità (funzionari di polizia, magistrati, secondini) che ne hanno deciso la detenzione senza interrogarsi sull’ignominia che compivano. Per gli uomini di governo che dichiarano pubblicamente, senza pudore, che ci dobbiamo servire dei dittatori perché ci sono utili a tenere lontani da noi quelli come Moussa. Per i guru dell’informazione, che vedono, vedono tutto, ma girano la faccia dall’altra parte perché queste storie non “fanno notizia”, e che hanno lasciato Moussa fluttuare nell’aria senza neppure restituirgli il nome. Per i capi partito che speculano sulla persecuzione delle vite di scarto per qualche pugno di voti. Ma anche per tutti i cittadini delle città-limite come Ventimiglia, dove si convive col dolore del mondo con una sorta di anestesia, che rende mostruosi i normali, o normali i mostri. E anche per tutti gli smemorati, che s’indignano per qualche ora ma poi ritornano alla routine quotidiana, perché il male è troppo grande e noi troppo pochi. Ci sono stati, nella storia, tempi in cui l’umanità è apparsa perduta, svuotata del naturale senso di empatia che dovrebbe spingerci al riconoscimento reciproco. Questo è uno di quelli, in cui le voci che sembrano trovare maggiore ascolto sono quelle che cancellano le storie altrui, qui come in Palestina, là come sulla rotta balcanica o le spiagge di Ceuta. Ovunque l’Ombra - come la definiva un grande della psicanalisi, Carl Gustav Jung -, il negativo che si sedimenta al fondo dell’anima, sembra sommergere il senso della vita. Della Storia e delle storie. Moussa oltre ad avere un nome aveva una storia. Era arrivato in Italia nella primavera del 2017, aveva vissuto a Imperia dove aveva conseguito la licenza media presso la scuola Boine, al centro provinciale per l’istruzione degli adulti, poi aveva lavorato per una cooperativa, aveva trascorso un periodo in Francia ed era ritornato in Italia dove l’aspettava il destino che l’ha cancellato. Una fotografia lo raffigura con una T-shirt bianca e la scritta in rosso “Imperia antirazzista”. Sta a noi fare in modo che quella storia non venga ancora ignorata. E ripetere con i suoi amici della Talpa: “Tu sei Moussa e non l’hai piegata la testa di fronte all’ingiustizia. Perdonaci fratello”. Reggio Emilia. Nel carcere il focolaio Covid più grande Il Resto del Carlino, 25 maggio 2021 Ancora 38 detenuti positivi di cui tre ricoverati in ospedale. Dietro Foggia con 36 casi. Calano i numeri del contagio da Covid 19 nelle carceri italiane, ma il penitenziario di Reggio mantiene purtroppo il primato di casa di pena col maggior numero positivi: 38 detenuti, di cui tre in ospedale. In Italia i positivi tra i detenuti sono in tutto 226 e tra gli agenti 222, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 19 maggio. Il 17, giorno della rilevazione precedente, erano rispettivamente 232 e 282. I contagiati sono quasi tutti asintomatici (215 tra i detenuti e 208 tra i poliziotti). Tra il personale amministrativo e dirigenziale i positivi sono 35. In calo anche i detenuti ricoverati in ospedale: da 12 sono passati a 10. Oltre al focolaio di Reggio, persistono quelli di Foggia (36, di cui 2 ricoverati), Rebibbia femminile (24) e Verona (15). Firenze. Guide islamiche a scuola di cittadinanza e cultura italiana ansa.it, 25 maggio 2021 Al via il 28 maggio il corso promosso da Istituto Sangalli. I diritti delle donne musulmane tra pregiudizi, discriminazioni e stereotipi; le difficoltà delle sepolture dei musulmani durante il Covid, e poi la recente firma del protocollo di intesa per l’accesso delle guide spirituali, sia uomini che donne, nelle carceri italiane. Sono questi alcuni dei temi che saranno affrontati nel corso “Formare per conoscere, conoscere per convivere. Religioni e cittadinanza”, che prende il via ufficialmente a Firenze il prossimo 28 maggio. Il progetto formativo, promosso per il secondo anno consecutivo dall’Istituto Sangalli per la storia e le culture religiose, è destinato alle guide religiose di comunità islamiche (gli imam) e alle donne chiamate a insegnare e predicare (le murshidat). Secondo quanto riferito in una nota, l’obiettivo dell’iniziativa è rafforzare valori, conoscenze e consapevolezze essenziali e indispensabili all’esercizio di una cittadinanza democratica nel nostro Paese. L’evento formativo coinvolgerà dieci corsisti, donne e uomini, selezionati con l’apporto dell’Unione delle comunità islamiche d’Italia (Ucoii) e provenienti dalla Toscana e da altre regioni del Centro-Nord Italia, grazie a borse di studio finanziate dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze. I corsisti parteciperanno per sei venerdì e sabato consecutivi (dal 28 maggio al 3 luglio 2021), a lezioni su temi giuridici, sociali, storici, culturali, religiosi, artistici e di comunicazione pubblica. L’avvio ufficiale del corso è in programma il 28 maggio presso la sede del Consiglio regionale della Toscana, a Firenze. I saluti inaugurali sono affidati ad Antonio Mazzeo, presidente del Consiglio Regionale della Toscana; Alessandro Martini, assessore ai rapporti con le confessioni religiose del Comune di Firenze; Alessandra Guidi, prefetto di Firenze; Gabriele Gori, direttore della Fondazione Cr Firenze; Yassine Lafram, presidente Unione delle Comunità islamiche d’Italia (Ucoii), e Maurizio Sangalli, presidente dell’Istituto Sangalli. Alle 10 interverrà l’onorevole Stefano Ceccanti con una lectio magistralis sul tema “A 75 anni dall’elezione dell’Assemblea Costituente: una costituzione capace di integrare”. All’inaugurazione sarà presente inoltre la fumettista Takoua Ben Mohamed, pluripremiata a livello europeo, testimonial contro l’islamofobia e autrice di una serie di volumi sugli stereotipi, l’ultimo uscito in questi giorni dal titolo “Il mio migliore amico è fascista” (ed. Rizzoli). Il dialogo tra Cartabia e Maria Falcone da mostrare nelle scuole di Aldo Grasso Corriere della Sera, 25 maggio 2021 La sorella del magistrato ucciso dalla mafia parla con la ministra della Giustizia nel 29° anniversario della strage di Capaci, in occasione della Giornata della Legalità. “Quando è morto Giovanni, io l’ho pianto non soltanto come fratello, ma l’ho pianto come cittadina italiana. Cittadina italiana che aveva vissuto accanto a lui i momenti fondamentali della sua lotta”. Parole di Maria Falcone nel lungo e inedito dialogo con la Ministra della Giustizia Marta Cartabia che domenica sera, su Rai Storia, ha rappresentato il “cuore” del palinsesto scelto dalla stessa sorella del magistrato ucciso dalla mafia per “Domenica Con”, in onda dalle 14 alle 24 per la Giornata della Legalità, nel 29° anniversario della strage di Capaci. È un dialogo interessantissimo che andrebbe riproposto nelle scuole, mostrato in evidenza su Rai Play, riproposto nei palinsesti Rai. Dice Maria Falcone: “Giovanni culturalmente era un uomo profondamente illuminista e razionale e quindi riteneva che al primo posto per raggiungere una verità bisognasse avere delle prove. Ricordo ancora che quando si cominciò a parlare della collaborazione dei pentiti, il suo ritornello era sempre quello: “Sono necessari i riscontri giuridici”. Non bastava che il collaboratore parlasse di determinati fatti a cui aveva assistito, era necessario che ci fossero le prove di quello che aveva detto”. Se pensiamo al credito che certe procure hanno dato a cialtroni pentiti, vengono i brividi. Dice Marta Cartabia: “La ricerca di prove granitiche. Il coordinamento delle indagini. La comprensione complessiva del fenomeno mafioso anche nelle sue radici sociali e culturali: ecco il metodo Falcone. Aveva capito che il “vero tallone d’Achille delle organizzazioni mafiose” - come lui disse, per spiegare il motto follow the money - sono le tracce che lasciano i movimenti di denaro connessi alle attività criminose”. Se pensiamo che Falcone, prima di essere ucciso dal tritolo mafioso, fu calunniato dai colleghi, isolato, accusato di costruire teoremi, altro che brividi… Qui il il video: http://www.ristretti.it/commenti/2021/maggio/pdf6/maria_falcone_marta_cartabia.mp4 Pif e la storia di due donne contro la mafia di Salvo Palazzolo La Repubblica, 25 maggio 2021 “Con i proventi del libro continueremo la loro battaglia”. L’attore e regista ha scritto, con il giornalista Marco Lillo, la vicenda di due sorelle costrette dall’Agenzia delle entrate a pagare una tassa su un risarcimento mai avuto da un costruttore malavitoso. “C’è una burocrazia lenta e poco sensibile che ha poca attenzione per chi ha combattuto lotte difficilissime”. “Continuo a imbattermi in storie di eroi solitari in Sicilia - racconta Pif - gente che sacrifica la propria vita contro lo strapotere dei boss e spesso si ritrova beffata dallo Stato”. L’ultimo caso raccontato dal regista de La mafia uccide solo d’estate è davvero singolare: “Due sorelle, Rosa e Savina Pilliu, lottano per una vita contro un costruttore mafioso di Palermo e ottengono un risarcimento, mai pagato. Però, adesso, l’Agenzia delle Entrate pretende lo stesso il tre per cento”. E lei ha deciso di fare un libro per pagare quella somma, 22 mila e 842 euro. Si intitola “Io posso, due donne sole contro la mafia”, l’ha scritto con il giornalista del “Fatto quotidiano” Marco Lillo. Com’è nata questa storia? “Nel 1990, Rosa e Savina ereditano due casette dal padre, davanti all’entrata del Parco della Favorita. Un giorno, un costruttore mafioso, Pietro Lo Sicco, va dal notaio e si dichiara proprietario di tutta un’area vicino al parco, compresa la zona dove si trovano le due casette. Poi, chiede ai proprietari di tutte le vecchie case di vendergliele a un prezzo irrisorio. Le uniche a opporsi sono le sorelle Pilliu”. Era un imprenditore influente Lo Sicco... “Riuscì a corrompere l’assessore comunale dei Lavori pubblici e a pochi metri dalle casette delle Pilliu costruì un palazzo di otto piani che le rese inagibili. Questo edificio fu anche un nascondiglio di latitanti”. Le sorelle Pilliu non si sono mai arrese. Come hanno portato avanti la loro battaglia? “Si sono trovate spesso sole. Avevano un negozio nella zona, dopo le loro denunce i clienti iniziarono a non andare più. Mentre ricevevano minacce su minacce. Ma alla fine hanno vinto loro la causa contro il costruttore. Però, il risarcimento non è mai arrivato. Si è fatta sentire invece l’Agenzia delle Entrate”. Che succede all’antimafia? Solo una spiacevole distrazione? “Dopo le stragi di Falcone e Borsellino, lo Stato ha fatto tanto nella lotta alla mafia. È cresciuta anche una grande coscienza civile. Però, talvolta, c’è una burocrazia lenta e poco sensibile che ha davvero poca attenzione per chi ha combattuto battaglie difficilissime”. In nome della giusta causa delle sorelle Pilliu si può svelare il finale del libro? “Per l’Agenzia delle Entrate, dovrebbero pagare loro la percentuale su quel risarcimento mai avuto dal costruttore mafioso. Noi vorremmo cambiarlo questo finale. Anche perché le sorelle cominciano a sentire gli acciacchi degli anni e delle troppe battaglie, Rosa è anche malata. Vorremmo pagare l’Agenzia delle Entrate con i proventi del libro. E poi magari ristrutturare quelle palazzine in rovina”. Qualche idea su cosa farci? “Magari la sede di un’associazione antimafia. Ma, al di là dei soldi, bisogna anche proseguire la battaglia delle sorelle Pilliu”. Cosa non sono riuscite ad ottenere? “Per lo Stato non sono ancora vittime della mafia. Nonostante, all’epoca delle denunce, la magistratura e le forze dell’ordine avessero proposto l’ingresso nel programma di protezione per i testimoni di giustizia”. Quale sarà il suo prossimo racconto? “Continuerò a occuparmi di donne coraggiose ed eroi solitari nella nuova serie de Il testimone. E, poi, mi preparo per l’uscita al cinema del mio prossimo film, che parla del mondo dei rider”. Intanto torna spesso a Palermo, la sua città. “Sono uno di quei siciliani che più manca dalla sua terra più ha voglia di viverla e raccontarla. Per trovare ancora un’altra storia di coraggio che non ha mai avuto un titolo in prima pagina”. La sfida del diritto: tutelare le diversità senza “smascherarle” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 25 maggio 2021 Nel suo ultimo saggio dal titolo “Il Diritto di essere se stessi”, il professor Guido Alpa - giurista, avvocato, già presidente del Cnf - riflette sul concetto di identità per collocare storicamente e giuridicamente i fattori di discriminazione. “Il livello di civiltà di una società è dato dalla misura con cui è in grado di assicurare a ciascuno il diritto di essere se stessi”. Ma che significa davvero essere se stessi? Nelle mani di Guido Alpa il concetto di identità diventa un rebus da sciogliere con le armi del diritto. Armi che il giurista ingaggia senza fallire l’obiettivo. E il bersaglio siamo noi, che a sera caliamo la maschera per riconoscerci tra le pagine del suo libro. Sì, perché il professor Alpa - avvocato, accademico, già presidente del Consiglio Nazionale Forense - ha dato alle stampe un saggio dal titolo che commuove e consola: “Il diritto di essere se stessi” (La nave di Teseo, collana Krisis, 336 pagine). Ma parlare di saggio forse è riduttivo. Questo libro è il manifesto mai scritto dei reietti. Di chi vive ai margini, di chi riassume su di sé la riprovazione sociale. Per costoro, i diversi, il diritto di esistere, cioè di avere diritti, “è una meta”, un traguardo da conquistare a fatica. Ogni società, infatti, “ha avuto, e ha tuttora, i suoi diversi, cioè i suoi emarginati”. E si badi a non considerare soltanto le minoranze, i gruppi sociali che si riconoscono in una identità collettiva. Il diverso può essere discriminato anche nella sua individualità, all’interno del suo stesso gruppo sociale. Sotto l’ombrello di Alpa trovano riparo i grandi esclusi, che cambiano come cambiano i tempi. Ebrei, omosessuali, donne, poveri, stranieri, immigrati, disabili e infermi…sono stati via via discriminati per “ragioni” fondate su razza, sesso, etnia, credenze religiose e politiche. E per le stesse ragioni sono stati via via tutelati con gli strumenti del diritto. Ma ecco l’intuizione geniale, che lascia il lettore sgomento. “Il diritto costruisce intorno alla persona una sorta di gabbia in cui ciascuno è costretto, disciplinando in modo quasi ossessivo come la persona si chiama, quale sesso riveste, a quale collettività appartiene, il suo stato di libertà o di servitù, se deve essere classificato come povero, analfabeta, cittadino o straniero”. “In fin dei conti - ammette il giurista - l’identità non è né una fotografia né un punto d’arrivo: l’identità è uno strumento, che di volta in volta può assolvere ad una funzione liberatoria o persecutoria”. Certo, nei sistemi autenticamente democratici gli stigmi e le privazioni della libertà - contemperata tra l’esigenza del singolo e della collettività - sono man mano cessati. La lotta alle discriminazioni si è affinata, le garanzie si sono moltiplicate. E Alpa lo spiega bene, in questo compendio in cui diritto, storia e filosofia corrono insieme in una prospettiva dinamica, rivolta all’attualità. Ma abbiamo ancora i nostri diversi. E il dilemma resta insoluto. Resta cioè la domanda delle domande: chi ci è dato davvero essere in un sistema ordinato, composto di regole e leggi. L’identità, un “io” sfaccettato - “Nell’immaginario dei giuristi l’identità attraversa i secoli in un continuum di regole, teorie, concetti”, spiega Alpa. Per indagare il presente bisogna tornare indietro, fino al diritto romano. Già nel II secolo d.C. il celebre giurista Gaio distingueva nelle sue “Istituzioni” tra personae, res, actiones. La persona si classificava per status, per ciò che possedeva. Al punto che gli schiavi erano ridotti a cosa. Nel corso dei secoli segni e simboli hanno sempre distinto l’individuo e i gruppi sociali. E ai segni corrispondono privilegi, o condizioni di subordinazione. Se poi “si considerano i fattori di discriminazione - scrive Alpa - si nota subito che essi giungono a noi da percorsi assai diversi: la discriminazione della donna risale ad epoche primordiali, la discriminazione degli ebrei alla distruzione del tempo di Gerusalemme e alla diaspora, la discriminazione per l’orientamento sessuale prende diversi nomi e diversi significati nel Medioevo e nei secoli successivi; la discriminazione per condizioni sociali perdura fino al Novecento, e così via”. Ma i segni distintivi, imposti o assunti, sono mere costruzioni, dati esteriori utilizzati per riconoscere l’altro o riconoscersi. Bisogna infatti considerare l’identità in una dimensione triplice: ciò che una persona pensa di sé, come vuole essere rappresentata, e come la vedono gli altri. Alla percezione che un individuo ha di sé, si sommano poi gli attributi: a partire dal nome e cognome, che determinano l’identità anagrafica. Tra gli innumerevoli spunti che la pagina ci offre, diremmo che l’attualità della riflessione di Alpa si riassume attorno alla distinzione che egli opera tra identità biologica, sessuale, e di genere. Un tema che oggi tanto fa discutere, in relazione a quell’insieme di norme che definiamo biodiritto. “Possiamo dunque liberarci dell’identità, visto che essa nel corso dei secoli è servita a soffocare la persona piuttosto che non ad esaltarne le qualità?”. Dal punto di vista giuridico, risponde Alpa, la risposta è no. “Fintanto che una società è costruita sui ruoli - e non potrebbe essere diversamente - l’uomo è destinato ad essere la persona di cui parlava Gaio, e ad essere identificato nelle tre forme che si sono descritte: per quel che sente di essere, per quel che vuole apparire, per quel che la società gli impone di essere”. La rivoluzione Costituzionale - “La persona è ancora la veste giuridica dell’uomo, ma il suo significato si è arricchito con la copertura costituzionale”. Ancora una volta bisogna affidarsi alle parole del libro per spiegare come l’individuo si sia fatto persona. La nostra Carta riserva alla tutela della persona molte norme che si dispiegano nell’ordinamento giuridico italiano nel suo complesso. Più in generale, le costituzioni contemporanee, insieme con la Carta dei diritti dell’Unione Europea, la Convenzione europa dei diritti umani e la Dichiarazione universali dei diritti umani dell’Onu hanno contribuito a fondare il concetto moderno di persona. E insieme quello di diritti umani, secondo un crescendo di garanzie che si sono via via accumulate sul soggetto. Il punto di svolta è relativamente recente. Dalla seconda metà dell’Ottocento, la scienza tedesca “si incarica di sciogliere gli interrogativi” relativi all’uomo come portatore di diritti, secondo un itinerario che porta dal concetto di individuo, “considerato come una monade anonima all’interno di una collettività”, a quello di soggetto di diritto, “titolare di alcuni diritti essenziali”, fino alla persona, “intesa come l’individuo dotato di garanzie e di riconoscimenti, di prerogative e di diritti fondamentali, insopprimibili, imprescrittibili, inalienabili”. “Riconoscere è un dio” - Per concludere torniamo all’inizio. Cioè al paradosso insopprimibile che Alpa denuncia in apertura: per tutelare il diverso, il diritto “ne pretende il disvelamento”. Ha bisogno quindi di riconoscerlo, in qualche modo di discriminarlo per proteggerlo. A chi scrive, più avvezzo alla letteratura che al diritto, viene in mente un altro testo del filologo e critico letterario Piero Boitani dal titolo “Riconoscere è un dio”. L’agnizione, nel suo senso classico, è un topos ricorrente nella narrativa di ogni epoca, e indica proprio l’improvviso riconoscimento di un personaggio, normalmente al termine di una serie di peripezie. “L’Odissea - scrive Boitani - è il primo e più grande universo del riconoscimento nella nostra letteratura. Il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza, che tocca un uomo nella carne, è una scena ricorrente, e dunque un tema che in ultima analisi afferma la fede originaria nella propria identità, nella coincidenza dell’apparire e dell’essere”. Magari anche noi, peregrinando sul tracciato di Ulisse, potremmo scoprirci “multiformi”, e liberarci del vincolo dell’identità costruita. Omofobia, riparte l’esame in Senato. Mirabelli: “Legge Zan ostaggio della Lega” di Giovanna Casadio La Repubblica, 25 maggio 2021 Il ddl torna oggi all’esame della Commissione giustizia abbinato alla proposta Ronzulli-Salvini, ma non si sa ancora quali esperti e associazioni ascoltare prima di entrare nel merito del provvedimento. Italia viva lavora a un compromesso. I vescovi: “Evitare forzature, c’è ancora tempo per il dialogo”. “Siamo alle solite: Ostellari sta tenendo in ostaggio la commissione Giustizia e ciascun passaggio del ddl Zan per perdere tempo”. Franco Mirabelli, vice capogruppo dem in Senato, annuncia battaglia. Oggi è il giorno del disegno di legge contro l’omofobia, che porta il nome del deputato dem e attivista lgbt Alessandro Zan. Torna alle 14 e 30 all’esame della commissione di Palazzo Madama (abbinato alla legge Ronzulli-Salvini). Il caso audizioni - All’orizzonte c’è l’ennesimo scontro. Il Pd chiederà di votare il calendario dei lavori. E prima ancora punterà - spiega Mirabelli - a ottenere la massima trasparenza, a partire dalle audizioni. Sulle audizioni - ovvero quali esperti e associazioni ascoltare prima di entrare nel merito della legge - è già scoppiato il “caso”. La Lega ne aveva chieste un centinaio, tra cui di sentire Platinette, il governatore della Calabria Spirlì e un esponente dei vescovi. Lo stesso presidente della commissione, il leghista Andrea Ostellari ha promesso di sfoltirle: in totale erano oltre 200. “Noi abbiamo posto la questione di accelerare le audizioni. Ma fino all’ultimo neppure sappiamo chi è previsto. Mai visto che un presidente non garantisca a tutta la commissione di conoscere quali sono le audizioni”, denuncia Mirabelli. Monica Cirinnà, ex responsabile diritti del Pd, è ancora più netta: “È un insulto solo immaginare alcune delle audizioni che a quanto pare sono state chieste dalla destra. La verità è che ai leghisti, ai forzisti e a Fratelli d’Italia non importa nulla delle persone che soffrono e delle discriminazioni. Hanno come obiettivo vero quello di affossare la legge Zan che, ricordo, è stata approvata alla Camera dopo un’ampia discussione il 4 novembre scorso ed è attesa da 25 anni”. Mirabelli aggiunge: “Non c’è alcuna volontà di confronto da parte della destra. L’unico scopo della Lega e di Ostellari è di impedire che la legge Zan sia discussa e portata in aula”. Il tentativo perciò di Davide Faraone, il capogruppo dei renziani, che ha invitato a evitare “il muro contro muro” e a trovare una mediazione, è dato per fallito in partenza. Intanto c’è la denuncia della Rai a Fedez. La Rai querela il cantante per diffamazione e per avere diffuso l’audio della telefonata con i vertici del servizio pubblico sul Concertone del Primo Maggio e il ddl Zan. Fedez ribadisce: “Lo rifarei mille volte”. E Elio Vito, capofila dei forzisti a favore della legge, rincara: “Io dico solo ddl Zan subito”. Iv lavora al compromesso - A lavorare a un compromesso è Faraone, che ieri ha incontrato Aurelio Mancuso e Giovanna Martelli, tra i promotori dell’appello sottoscritto da 450 personalità, reti femministe e associazioni della sinistra, per modificare il ddl Zan, in particolare là dove di parla di “identità di genere”. Cristina Gramolini per Arci Lesbica, Marina Terragni per RadFem, Fabrizia Giuliani per Senonoraquando-libere, Vittoria Tola per Udi nazionale sono tra le firmatarie della richiesta di cambiamenti perché - sostengono - “suscita forte preoccupazione l’utilizzo del termine “identità di genere”, discutibile sul piano scientifico e utilizzato in diverse parti del mondo per mettere in discussione i diritti acquisiti delle donne attraverso l’auto certificazione dell’identità sessuale”. Una preoccupazione che fa il gioco della destra, secondo i 5Stelle. Alessandra Maiorino, la pentastellata che sa seguendo passo passo il ddl Zan, avverte: “Ci auguriamo che Ostellari abbia davvero tagliato l’esorbitante richiesta di audizioni avanzata dalla Lega. E ci aspettiamo che fornisca un calendario certo dei lavori. Il confronto è altro dal tentativo di insabbiamento di una legge: al primo siamo disponibili, il secondo lo avverseremo in ogni modo”. Chiosa Mirabelli: “Dobbiamo dare atto al senatore leghista Simone Pillon, che ce lo ripete ogni minuto, che non si vuole approvare il ddl Zan”. Pillon infatti ha dichiarato: “Siamo ancora in tempo per fermare l’ideologia “gender”. L’Italia, a differenza di Paesi in cui leggi simili al ddl Zan sono entrate in vigore, può tornare al buon senso ed alla naturalità delle cose”. Sempre Pillon: “Il Pd ha chiesto tempi rapidissimi. Noi chiediamo sia dato ascolto ai membri della società civile. Abbiamo già rinunciato a 25 nomi di associazioni che avrebbero voluto essere sentite, ora lasciamo spazio al confronto con le rimanenti audizioni”. I vescovi: evitare forzature - Intanto i vescovi italiani chiedono di evitare “forzature” con il disegno di legge Zan contro l’omofobia. “Ribadiamo come ci sia ancora tempo per un dialogo aperto per arrivare a una soluzione priva di ambiguità e di forzature legislative”, ha detto il Presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) e arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, il cardinale. Gualtiero Bassetti, aprendo i lavori di questa mattina all’Assemblea generale in corso a Roma. Migranti e ricollocamenti, Draghi prova a smuovere l’Unione europea di Carlo Lania Il Manifesto, 25 maggio 2021 A rendere più densa l’agenda dei leader è arrivata la crisi con la Bielorussia, precipitata sul Consiglio europeo straordinario, il primo in presenza da mesi, il cui ordine del giorno prevedeva una discussione tra i 27 su Russia, Medio Oriente e sui rapporti con la Gran Bretagna. Non una parola invece sull’immigrazione, tanto che l’argomento non è previsto neanche che appaia oggi nelle conclusioni del vertice. La questione è però sul tavolo, visto che Mario Draghi è arrivato a Bruxelles intenzionato ad affrontarla, seppure solo per informare gli altri capi di Stato e di governo delle intenzioni italiane. Che tutto sono tranne che misteriose: rimettere mano al patto europeo su migrazione e asilo andando a intaccare il principio per cui spetta al Paese di primo approdo occuparsi dei migranti. Il che significa soprattutto discutere, anzi ridiscutere il meccanismo dei ricollocamenti in Europa che l’Italia vorrebbe rendere obbligatori. Un meccanismo “che è stato messo a dormire da un po’ di tempo”, ha lamentato nei giorni scorsi il premier, che vorrebbe vedere l’Europa intervenire su quelli che ha definito “tre pilastri”: “il primo è la redistribuzione, il secondo è un intervento economico che devono fare i Paesi ma anche l’Ue nel suo complesso, il terzo è la collaborazione bilaterale e multilaterale con i paesi di partenza”. Missione (quasi) impossibile, anche se questa volta Draghi può contare sull’appoggio del premier spagnolo Sanchez che in questi giorni ha dovuto fare i conti con i numerosi arrivi a Ceuta, frutto della crisi politica con il Marocco. Ma anche sugli altri Paesi del Mediterraneo come Malta e Grecia, direttamente coinvolti dagli sbarchi di migranti. Più che una vera e propria discussione, dunque, un giro di opinioni che Draghi avrebbe voluto ascoltare ieri sera durante la cena tra i leader e utile più che altro per capire che aria tira in Europa e quanto gli altri Stati sono disposti a venire incontro alle esigenze italiane. L’impressione è che la strada sia ancora lunga. Anche se nei giorni scorsi non sono mancate parole di solidarietà con Roma, come quelle espresse dalla commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johannson alla vigilia del missione compiuta la scorsa settimana in Libia con la ministra Lamorgese, i segnali che arrivano da Bruxelles non fanno presagire niente di buono. “Io voglio difendere le famiglie ungheresi” ha chiarito subito, ad esempio Viktor Orbán appena arrivato a Bruxelles. Un riferimento alle altre questioni in agenda al vertice come clima e ambiente, ma esteso dal premier magiaro anche all’immigrazione. Una posizione, quella di Orbán, condivisa anche dagli Stati del Nord Est. Le speranze italiane di coinvolgere gli altri Paesi rischiano dunque di restare tali. O al massimo di riuscire a ripristinare l’accordo siglato a Malta nel 2019 con la disponibilità offerta da alcuni Paesi volenterosi ad accogliere i migranti. Niente di più. Tutto slitterà probabilmente al consiglio europeo di fine giugno, l’ultimo prima della pausa estiva, ma solo per l’ennesimo rinvio. Sui migranti infatti, il Consiglio non sembra intenzionato a cambiare posizione e prevede maggior impegno sui rimpatri attraverso nuovi accordi con i Paesi di origine, insieme alla promessa di investimenti. Niente di più. Almeno fino a quando nel Consiglio le decisioni verranno prese all’unanimità. Stati Uniti. Pena di morte, una scorciatoia militare che non garantisce sicurezza di Francesca Sabatinelli vaticannews.va, 25 maggio 2021 In Texas sono riprese le esecuzioni, ferme dal luglio del 2020. Ieri è stato messo a morte un uomo da vent’anni nel braccio della morte a Huntsville. Il dolore della Comunità di Sant’Egidio: “È il segnale triste di quanto barbarie, banalità della violenza, insensibilità, facciano fatica ad andare via dalla nostra vita”. “Sono da 20 anni nel braccio della morte in Texas e scrivo per chiederle se può trovare nel suo cuore la possibilità di concedermi la grazia, perché io possa non essere ucciso il 19 maggio”. È una delle parti del drammatico video pubblicato pochi giorni fa dal New York Times, il cui protagonista, Quentin Jones, afroamericano di 41 anni, è stato messo a morte per iniezione letale ieri, nel carcere texano di Huntsville, per la prima volta senza la presenza della stampa, una assenza dovuta - secondo il dipartimento di giustizia locale - ad un errore di comunicazione. Nel video, l’uomo si rivolge direttamente al governatore dello Stato, Greg Abbot, al quale racconta il percorso come essere umano avviato nei due decenni trascorsi in prigione. Quentin non cerca scuse, ammette di aver ucciso, nel 1999, la 83enne prozia, picchiata a morte con una mazza da baseball per 30 dollari, necessari per droga e alcol, le dipendenze di chi vive un’infanzia fatta di povertà, abbandono e abusi. “Ma non sono più la stessa persona che vent’anni fa ha ucciso, sono diventato un uomo nel braccio della morte”, spiega ancora Quentin, con voce ferma, occhi inumiditi di lacrime, e lo sguardo sereno di chi, in caso di clemenza, è pronto “a continuare a vivere per migliorarmi”. Il suo è stato un percorso sostenuto da oltre 1.500 persone, che si sono appellate alle autorità, e dalla famiglia, soprattutto dalla sorella della vittima, l’altra prozia Mattie, che con il suo perdono ha aiutato il nipote a cambiare, come nel video sostiene lo stesso Quentin: “Mi hanno dato la forza di cercare di fare meglio e di voler fare di meglio”. “Lavoriamo per un modo migliore di affrontare il crimine e la povertà, che uccide le persone”, ha chiesto il vescovo di Fort Worth nel Texas del Nord, monsignor Michael Olson, invitando a continuare un percorso che ha visto, negli ultimi anni, la graduale eliminazione della pena capitale in 23 Stati americani, ultima, lo scorso anno, la Virginia. Dall’inizio della pandemia, anche gli Stati più repressivi, come appunto il Texas, avevano rinunciato alle esecuzioni, ora riprese con quella di ieri, la prima dalla elezione del presidente democratico Joe Biden, forte oppositore della pena di morte. “È il segnale triste di quanto barbarie, morte, banalità della violenza e, in questo caso, di Stato, insensibilità, facciano fatica ad andare via dalla nostra vita”, spiega Mario Marazziti della Comunità di Sant’Egidio che, nei giorni scorsi, si era unita alla richiesta di grazia per Jones. Marazziti ricorda la ripresa, nel giugno del 2020, delle esecuzioni federali, voluta dall’amministrazione Trump, “un orrore omicida che non ha precedenti nella storia degli Usa”. La pena capitale copre l’incapacità di risolvere i problemi - La pena di morte, dunque, continua ad essere “uno strumento mostruoso e stupido di finta giustizia, la pena di morte sta morendo ma fa sempre danni”. I governatori che ancora non cedono alla richiesta di grazia, spiega ancora Marazziti, “vendono la loro insensibilità come se fosse amore della legge e promessa di sicurezza per i cittadini”. Nel caso del governatore del Texas, Greg Abbot, “siamo davanti ad un cattolico che, in maniera evidente, non ascolta nulla del nuovo Catechismo della Chiesa cattolica, dell’insegnamento e degli inviti di Papa Francesco”, ma piuttosto si mantiene fedele ad un’agenda politica. “La pena di morte - conclude Marazziti - è sempre una scorciatoia militare che copre l’incapacità di risolvere i veri problemi sociali, mostra e promette durezza quando non si riesce a garantire sicurezza. Ma fa finta di farlo”. Libia. Il mare restituisce i corpi di piccoli migranti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 25 maggio 2021 Open Arms: “Abbandonati in spiaggia per giorni”. I bambini forse vittime dell’ultimo naufragio con una cinquantina di dispersi avvenuto martedì al largo di Zuwara. La denuncia del fondatore della Ong spagnola Open Arms: “Di loro non importa a nessuno”. Le foto, arrivate da fonte riservata ad Oscar Camps, fondatore della Ong spagnola Open Arms, sono terribili. Ancora corpi senza vita di bambini, riversi su una spiaggia, tra Zuwara in Libia, e la costa tunisina, quel tratto che è diventato da tempo la base dei trafficanti di uomini e che il governo libico non riesce a controllare. Corpi restituiti dal mare, vittime probabilmente dell’ultimo naufragio di cui ha dato conferma nei giorni scorsi l’Oim, l’Organizzazione internazionale dei migranti: una cinquantina di dispersi, 33 superstiti che hanno raccontato che su quel barcone partito nella notte tra il 18 e il 19 maggio da Zuwara erano una novantina, tra loro molte donne e bambini. Testimonianze quelle dei superstiti che - come spesso accade - se non suffragate immediatamente dal recupero dei corpi delle vittime, rendono ancora più invisibili le persone che perdono la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. “Sono ancora sotto shock per l’orrore di queste immagini - scrive su Twitter Oscar Camps, pubblicando le foto che ritraggono i corpi dei bambini che sarebbero rimasti abbandonati sulla battigia per tre giorni prima di essere composti e seppelliti sabato nel cimitero vicino - Bambini piccoli e donne che avevano sogni e ambizioni di vita. Sono stati abbandonati per più di tre giorni su una spiaggia di Zuwara in Libia. A nessuno importa di loro”. A confermare la notizia dell’ultimo naufragio era stato martedì scorso il portavoce dell’Oim Flavio Di Giacomo. Ma naturalmente è difficile dire con certezza se i bambini trovati morti due giorni fa fossero a bordo di quel barcone o se, nel frattempo, in quello stesso tratto di mare possa esserci stata un’altra tragedia passata sotto silenzio. Nelle ultime due settimane, negli stessi giorni in cui oltre 2000 migranti sono sbarcati a Lampedusa, più o meno altrettanti sono stati intercettati e riportati indietro dalla Guardia costiera libica ma, come spesso accade, corpi senza vita sono riaffiorati dal mare e sono stati avvistati da pescatori, almeno una dozzina. Che vanno ad aggiungersi alle oltre 600 vittime che, secondo l’Oim, avrebbero già perso la vita nei primi cinque mesi del 2021, tre volte di più che nello stesso periodo dello scorso anno. E di due su tre non sono mai stati recuperati i corpi. Così come di alcune barche non sono mai state ritrovate le tracce. Ancora ieri sera Alarm Phone aveva segnalato di aver perso i contatti con un gommone con 95 persone al largo di Sabratha. “Non sono ancora riuscite a comunicarci la posizione Gps. Abbiamo informato le autorità ma rifiutano di mandare soccorso perché manca la posizione”, la denuncia della Ong. Sembra però che il gommone, monitorato da due mercantili maltesi, alla fine sia stato recuperato dalla guardia costiera tunisina e portati a Tunisi. Bielorussia, dobbiamo reagire a un attentato: le parole non bastano più di Roberto Saviano Corriere della Sera, 25 maggio 2021 L’Europa deve agire contro l’arbitrio di Lukashenko. Fino a quando un dittatore potrà decidere di dirottare un aereo per zittire la democrazia, nessuno di noi sarà al sicuro. Siamo a un punto di non ritorno. L’Europa deve agire ora contro l’arbitrio di Lukashenko. Agire e non solo manifestare indignazione. Fino a quando un dittatore del genere potrà decidere di dirottare un aereo per zittire chi lo contesta, nessuno di noi sarà al sicuro. Se fino a questo momento avete considerato ciò che accade in Bielorussia lontano, vi invito a guardare le cose diversamente. Lukashenko per l’Europa è un pericolo al pari di chi ha compiuto azioni terroristiche ai danni della comunità. Ricordate quando, devastati dalle immagini degli attentati, ci interrogavamo su cosa significasse avere paura di vivere il quotidiano? Erano prese di mira attività del tutto normali come andare allo stadio, in chiesa, a un concerto, sul lungomare. E il pensiero forte era: sebbene tutto possa accadere all’improvviso, nonostante la consapevolezza che non siamo in grado di capire da dove il pericolo possa arrivare, decidiamo di non avere paura e di andare incontro alla vita. L’alternativa: terrore e paralisi. E noi, l’Europa, non abbiamo voluto cedere. Il pensiero dell’11 settembre - Ma ricordate, vero, dove questo terrore ebbe inizio? Dal dirottamento dei voli dell’11 settembre 2001, una giornata che ha cambiato per sempre il volto del nostro mondo. Ebbene, avendo in mente quel giorno riflettiamo su ciò che è accaduto domenica 23 maggio. Non si è trattato di un evento inatteso, ma di un atto intimidatorio, antidemocratico e violento ad opera di un politico corrotto, a capo di una piramide di potere che non ha più alcuna legittimazione popolare. Domenica 23 maggio, tutta l’Europa - e non solo i passeggeri del volo dirottato e gli attivisti arrestati - è stata vittima di un attentato terroristico di Stato. Un volo Ryanair partito da Atene e diretto a Vilnius, in Lituania, è stato dirottato a Minsk, in Bielorussia, per ordine di Lukashenko perché a bordo, tra i 171 passeggeri, c’erano due persone che andavano fermate, intimidite, ridotte al silenzio. E perché quella azione potesse, nel suo essere un atto di forza arbitrario, fungere da monito per tutti i dissidenti bielorussi: non sarete al sicuro mai, nemmeno se scegliete l’autoesilio. Ma quell’atto gravissimo è stato anche un messaggio forte lanciato da Lukashenko all’Europa: per conservare i miei privilegi sono pronto a tutto. Chi rischia la pena di morte - I dissidenti arrestati sono Roman Protasevich, un giornalista di 26 anni, e Sofia Sapega, la sua compagna, una cittadina russa di 23. Sapega era diretta a Vilnius dove frequenta un master, mentre Protasevich - l’obiettivo principale - lavora per Nexta TV, di cui è cofondatore, un canale Telegram che organizza proteste contro Lukashenko. Protasevich rischia la pena di morte con la più grave delle accuse, grave per un regime che non tollera oppositori: terrorismo e incitamento alla rivolta. L’Europa deve strappare dalle maglie di un presidente assassino chi prova a cambiare le cose. È un atto dovuto. E Svetlana Tikhanovskaya, anche lei in esilio, ci mette in guardia: bisogna far presto a liberare Protasevich perché in Bielorussia rischia la vita. I leader europei stanno commentando l’accaduto. Il ministro degli Esteri Di Maio invita l’Europa all’unità contro l’arroganza di “certi Stati”. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen minaccia conseguenze per la Bielorussia; il presidente del Parlamento europeo David Sassoli chiede spiegazioni immediate; l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell chiede la liberazione immediata di Protasevich e Sapega. Parole - Ma se queste affermazioni resteranno solo parole, dovremo abituarci a vivere di intimidazioni; dovremo mettere in conto di essere in balia del potere di satrapi che non accettano di perdere le elezioni e che alla sconfitta preferiscono la guerra civile. L’Europa non ha scelta, deve prendere una decisione e deve farlo subito perché Lukashenko, usando un jet Mig-29 per affiancare e dirottare un volo civile, ha compiuto un atto di guerra contro l’Europa; perché Lukashenko mentendo sulla presenza di esplosivo a bordo, ha compiuto un atto di guerra contro l’Europa. La Ue ha la sua forza nella democrazia, nelle decisioni ponderate prese a salvaguardia della vita. E ora in gioco c’è tantissimo. L’Europa, unita, intervenga a sostegno del popolo bielorusso, in difesa della libertà, intervenga per difendere i cittadini europei o chiunque si trovi sul suolo europeo e che, come i 171 passeggeri del volo Ryanair, sono in balia di un potere che non ha più legittimità e che la cerca a oltranza nella violenza, nel terrore e nella minaccia di Stato. Aereo dirottato, comunità internazionale contro la Bielorussia di Emiliano Squillante Il Manifesto, 25 maggio 2021 Tornano più forti di prima le tensioni tra Unione europea e Bielorussia. Dopo le sanzioni imposte a Minsk a seguito della repressione delle manifestazioni contro l’esito delle elezioni presidenziali dello scorso anno - prorogate fino al febbraio 2022 - il tema delle misure restrittive è tornato al tavolo del Consiglio europeo straordinario del 24-25 maggio, dopo il dirottamento del volo Ryanair FR4978 (diretto da Atene a Vilnius) ordinato dal presidente Aleksander Lukashenko per arrestare il giornalista e attivista Roman Protasevich, fondatore del canale Telegram di opposizione “Nexta”. Numerosi i punti ancora da chiarire nella vicenda, chiusa nella serata del 23 maggio con il decollo del velivolo alla volta di Vilnius, dopo diverse ore di stazionamento all’aeroporto di Minsk: a preoccupare la comunità internazionale soprattutto il coinvolgimento dei civili presenti a bordo dell’aereo e una dinamica dei fatti poco chiara. Inizialmente i controllori dell’aeroporto avrebbero preso contatti con il velivolo a causa di un presunto allarme bomba (poi smentito), inviando poi un caccia MiG-29 dell’aeronautica per scortare l’aereo fino a Minsk. Differente la versione dell’ex ministro della Cultura Pavel Latushko, membro del Consiglio di coordinamento dell’opposizione bielorussa legato a Svetlana Tikhanovskaja, che ha affermato di essere in possesso di prove che dimostrerebbero minacce ai danni dell’equipaggio di Ryanair. “Hanno minacciato di abbattere l’aereo, facendo decollare un caccia MiG-29 delle Forze armate”, ha affermato. Di contro, le autorità di Minsk hanno smentito la versione del dirottamento, e il direttore del dipartimento dell’Aviazione del ministero dei Trasporti bielorusso, Artem Sikorski, ha fatto sapere in un secondo momento che all’aeroporto della capitale sarebbero arrivate “minacce da parte di Hamas”. Sarebbe stato proprio tale messaggio - in cui addirittura si sarebbe chiesto un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e la fine del sostegno europeo nei confronti di Israele - a far scattare l’allarme bomba di domenica. Insieme a Protasevich, che rischia fino a 12 anni di carcere per incitamento al disordine pubblico e all’odio sociale (o addirittura la pena di morte, nel caso in cui venga confermato il reato di terrorismo), è stata arrestata anche la fidanzata Sofia Sapega. Cittadina russa di 23 anni, Sapega frequenta l’Università statale europea di Vilnius che ha fatto sapere di essersi attivata per ottenerne il rilascio: la madre, citata dalla “Bbc”, ha affermato di aver incontrato il console russo chiedendo un aiuto diplomatico, e il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha confermato di aver chiesto alle autorità di Minsk l’accesso consolare. Dure e numerose le condanne che sono arrivate dalla comunità internazionale: in molti, ad iniziare dall’Alleanza progressista dei socialisti e democratici al Parlamento europeo (S&D), hanno chiesto nuove sanzioni e il divieto alle compagnie aeree bielorusse di sorvolare i cieli dei Paesi europei. “Si tratta di uno scandalo internazionale che ha messo in pericolo le vite dei civili e minaccia la sicurezza internazionale: è necessaria una reazione forte”, ha affermato il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, riprendendo quanto detto nella serata del 23 maggio dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che ha parlato di un fatto “assolutamente inaccettabile”. Una risposta è stata annunciata anche dal segretario di Stato Usa, Antony Blinken, che ha chiesto la liberazione di Protasevich condannando un “atto scioccante che ha messo a repentaglio la vita dei passeggeri”.