Istruzione in carcere. Dalla laurea una seconda opportunità per i detenuti di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2021 Una laurea in carcere per una seconda chance. Dall’area politico sociale alle materie artistiche e letterarie passando per l’economia, la giurisprudenza e le discipline ambientali. È in crescita il numero dei detenuti che si iscrivono ai corsi universitari in carcere. I dati elaborati dalla Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari parlano chiaro: si è passati passato dai 796 dello scorso anno agli attuali 1.340, che significa una crescita del 29,9 per cento. Di questi, 896 sono gli studenti che frequentano corsi di laurea triennale (87%), mentre 137 frequentano corsi di laurea magistrale (pari al 13% del totale). Tra gli iscritti spicca l’incremento della componente femminile che, seppure con numeri ridotti, passa da 28 studentesse nel 2018-19 a 64 nel 2020-21, quindi con un incremento del 128 per cento. A coordinare l’attività la Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari che nell’ultimo triennio ha visto crescere le adesioni: gli atenei che aderiscono alla Conferenza sono passati dai 27 di tre anni fa agli attuali 32 mentre gli istituti penitenziari in cui operano i poli universitari sono passati dai 70 del 2018/2019 agli attuali 82. E presto ne, apriranno altri in Puglia e in Sicilia. All’interno 196 dipartimenti universitari, che corrispondono al 37% dei dipartimenti presenti nei 32 atenei coinvolti. “È chiaro che c’è un incontro tra una domanda e un’offerta - commenta Franco Prina dell’università di Torino e presidente della Conferenza - e la domanda è sollecitata anche dal fatto che gli atenei vanno nelle carceri a fare orientamento e questo fatto suscita l’interesse delle persone che si incontrano”. Le aree disciplinari più frequentate dagli studenti in regime di detenzione sono quella politico-sociale (25,4%) seguita dall’area artistico-letteraria (18,6%), dall’area giuridica (15,1%), dall’area agronomico-ambientale (13,7%), dall’area psico-pedagogica (7,4%), dal - l’area storico-filosofica (7,3%), dall’area economica (6,5%). In questo contesto nasce poi, soprattutto nei territori, quello che viene definito “l’interscambio tra università e carcere”. “In Toscana, dove da dieci anni i poli penitenziari si sono consorziati nel polo regionale - dice Andrea Borghini, docente all’università di Pisa - si portano avanti diverse iniziative che riguardano i progetti per il miglioramento delle condizioni di studio degli studenti detenuti”. Attività che prevedono la “figura dello studente-tutor, le cui finalità sono quelle di sviluppare un rapporto peer-to-peer con gli studenti detenuti”, le giornate di orientamento per gli immatricolandi, “che stanno diventando una consuetudine particolarmente gradita per la popolazione penitenziaria e per gli stessi operatori carcerari”. Oppure, è il caso dell’università di Sassari che recentemente ha elaborato una parte specifica del Regolamento carriere studenti sotto il titolo Regolamento studenti con esigenze speciali. Gli infermieri nei penitenziari, operatori dimenticati di Maria Luisa Astadi infermieristicamente.it, 24 maggio 2021 Il 92,65% degli infermieri che lavorano nei penitenziari sono risultati esposti al rischio di contagio da Covid-19, essendo venuti a contatto direttamente con detenuti positivi. Mentre la diffusione del Covid, è stata ampiamento studiata in ambito ospedaliero, scarsamente indagato è stato il mondo delle carceri, che per antonomasia sono sensibili alla rapida diffusione delle epidemie: i fattori legati all’ambiente ed alla particolare tipologia di paziente, possono accelerare questo processo ed un intervento sanitario precoce rappresenta un elemento focale per contenere e prevenire le malattie infettive (European Centre for Disease 2011; Montoya-Barthelemy et al., 2020). Il sovraffollamento, la scarsa ventilazione, gli spazi ristretti e chiusi, caratterizzano il particolare ambiente in cui il personale penitenziario si ritrova a lavorare e che, indubbiamente, li espone al contagio. L’infermiere è la figura che entra più frequentemente a contatto con i detenuti per garantire un’assistenza di qualità, anche quando le possibilità di cura sono compro­messe. È anche colui che corre quotidianamente il rischio nello svolgimento del proprio lavoro, Chi è l’infermiere che lavora nei penitenziari? - La presenza del personale sanitario negli Istituti Penitenziari viene prevista per la prima volta nel 1931 dal Regolamento Carcerario scaturito dal Regio Decreto n°787 del 18.06.1931. Solo nel 1970 con la Legge n°740, si inizia a delineare una sommaria disciplina dei rapporti di lavoro del personale sanitario che rappresenta la radice iniziale del servizio sanitario e della continuità assistenziale all’interno degli Istituti di pena. È questo il periodo in cui l’assistenza e la tutela della salute era affidata e gestita dalle Casse Mutue e dalle Ipab, fino al 1978 quando con la Legge n° 833 fu istituito il SSN, unico organismo pubblico preposto alla tutela del diritto costituzionale alla salute, mentre ancora la Sanità Penitenziaria rimane separata e sotto il controllo della Amministrazione Penitenziaria. Con la legge di riforma dell’Ordinamento Penitenziario ossia la n°354/75 finalmente viene superato il Regolamento applicato sin dal 1931 e come disposto dall’art. 11, le Amministrazioni Penitenziarie hanno facoltà di avvalersi dei pubblici servizi, pertanto, vengono introdotti il servizio di psichiatria e il medico specialista. In questa fase la tutela della salute così come il personale dipende dal Ministero di Giustizia tramite il D.A.P. (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). In sostanza si dovrà attendere la Circolare n° 3337/5787 del 1992 da parte del Ministero di Giustizia, la quale rappresenta l’embrione iniziale di un percorso e un approccio integrativo nel considerare la garanzia delle cure e della sicurezza, in detta circolare, si stabilisce che in ogni carcere debbano essere presenti due aree sanitarie (medica-infermieristica) ad integrazione con quella educativa. Dal 1 gennaio 2000, così come disposto dal D.Lgs. 230/99 inizia un periodo di sperimentazione da attuarsi in alcune regioni, sia in ordine alla cura e l’assistenza dei detenuti tossicodipendenti, sia per il trasferimento di specifiche funzioni sanitarie, tale periodo risulterà pieno di difficoltà soprattutto per la resistenza di tanti operatori della sanità, tra l’altro, a complicare tale percorso, in maniera indiretta, concorre anche la riforma Costituzionale del Titolo V del 18.10.2001, che trasferisce alle Regioni tutte le competenze in tema di salute, ma lascia ancora il permanere della Sanità Penitenziaria sotto il controllo del Ministero della Giustizia. Inizia così un settennato nel quale, con Decreto Interministeriale del 16.05.02 viene istituita dapprima la c.d. Commissione Tinebra, una commissione di studio per indicare un modello organizzativo della Sanità Penitenziaria, lavori che saranno conclusi solo parzialmente nel 2005, con risultati poco convincenti, poi nel biennio 2005/07 lo Stato e le Regioni mettono in campo una commissione tecnica con lo scopo di redigere le Linee Guida e una proposta di legge per il definitivo passaggio di competenze in ambito di Sanità Penitenziaria dal Ministero della Giustizia a quello dalla Salute. Con il Dpcm del 1 aprile 2008, finalmente in tema di Sanità Penitenziaria le due Istituzioni coinvolte si devono e si possono confrontare in modo paritetico, ed il personale sanitario che ivi opera, finora obbligati a rispettare solo l’Ordinamento Penitenziario, sono riconosciuti non come singoli professionisti ma come figure professionali organizzate ed integrate con la rete assistenziale territoriale. In uno studio, pubblicato sulla rivista Professioni Infermieristiche, è stato analizzato e valutato il rischio di esposizione al Covid-19 negli infermieri operanti nel contesto carcerario italiano. Il gruppo di ricerca è stato costituito da infermieri rappresentanti del Corso di Laurea in Infermieristica sede Policlinico Umberto I di Roma dell’Università di Roma La Sapienza e del Corso di Laurea in Infermieristica sede Ospedale S. Paolo dell’Università degli Studi di Milano ha arruolato un campione di convenienza composto da infermieri iscritti alla Simspe Onlus (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria), operanti in qualsiasi struttura carceraria italiana al momento dell’indagine. Hanno partecipato all’indagine 204 infermieri di area penitenziaria italiana sui 414 iscritti a Simspe Onlus (tasso di risposta pari al 49.27%). 96 erano uomini (47.06%) e 108 le donne (52.94%). La quasi totalità del campione (n=199, 97.55%) ha riferito di essere a venuto a conoscenza della presenza di almeno un paziente positivo al Covid-19 accertato all’interno della propria realtà lavorativa; oltre la metà (n= 103, 50.49%) ha inoltre riportato essere a conoscenza della presenza di almeno un altro soggetto positivo, 65 (31.86%) non hanno saputo rispondere, 16 (7.84%) hanno invece riferito di essere a conoscenza di un unico caso. Cento ottantacinque (90.69%) hanno fornito assistenza diretta ad un soggetto positivo; di questi 129 (69.73) si sono trovati almeno una volta ad una distanza inferiore ad 1 metro dalla persona mentre 104 (56.21%) in situazioni assistenziali che hanno generato la produ­zione di aerosol da parte dell’assistito. Centosedici (56.86%) infermieri sono inoltre entrati direttamente in contatto con l’ambiente in cui è stato visitato o assistito un paziente positivo al Covid-19, prima della sanificazione dello stesso. Aderenza alle norme di sicurezza per la prevenzione del contagio - Il numero di infermieri che ha rispettato “sempre” i comportamenti descritti non differiva significativamente (p >0.05 per ogni confronto) nelle situazioni che preve­devano o meno il contatto con aerosol. 55 infermieri (26.96%) hanno riportato di aver avuto incidenti caratterizzati dal contatto inavvertito con fluidi corporei o secrezioni respiratorie durante una visita sanitaria/prestazione con un paziente Covid-19: nello specifico 20 hanno riportato di essere entrati in contatto con schizzi di fluidi biologici/secrezioni respira­torie nelle mucose del naso o della bocca, 16 hanno ripor­tato di essersi punti/tagliati con un materiale contami­nato con fluidi biologici/secrezioni respiratorie mentre 11 sono entrati in contatto con schizzi di fluidi biologici secrezioni respiratorie su ferite o su cute non integra. Giustizia, Mattarella avverte “Basta scontri, sì alla riforma” di Concetto Vecchio La Repubblica, 24 maggio 2021 Il monito dopo gli scandali al Csm: “Contese e polemiche minano l’autorevolezza della magistratura”. A Palermo il presidente ricorda Falcone e le vittime di Capaci: “O si sta contro la mafia o si è complici”. “La mafia, lo sappiamo, esiste tuttora. Non è stata ancora definitivamente sconfitta. Estende i suoi tentacoli nefasti in attività illecite e insidiose anche a livello internazionale”. Nell’aula bunker dove si celebrò il primo maxiprocesso alla mafia, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella parla sempre al presente per commemorare Giovanni Falcone e le altre vittime della strage di Capaci, uccise 29 anni fa. È un monito innanzitutto alle istituzioni: “È necessario tenere sempre la guardia alta e l’attenzione vigile da parte di tutte le forze dello Stato”. Poi, fa un richiamo specifico e forte alla magistratura, alle prese con il caso Amara: “Contese, divisioni, polemiche all’interno della magistratura minano il prestigio e l’autorevolezza dell’ordine giudiziario. Anche il solo dubbio che la giustizia possa non essere, sempre, esercitata esclusivamente in base alla legge provoca turbamento”. È il “giorno della memoria e anche dell’impegno”, come dice Maria Falcone, la sorella di Giovanni. “Perché c’è tanto da fare. Sul fronte delle verità che ancora non abbiamo. E per frenare la riorganizzazione mafiosa”. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese la definisce in modo preciso la nuova mafia: “Oggi, non ha confini, ed è riuscita a infiltrarsi nell’economia legale, anche in alcuni settori sanitari”. Il presidente Mattarella non usa mezzi termini per sottolineare l’esigenza di una presa di posizione chiara, in tutti gli ambiti della società: “Nessuna zona grigia, omertà: o si sta contro la mafia o si e complici dei mafiosi, non ci sono alternative”. La ministra Marta Cartabia ha ricordato che “il lavoro di Falcone fu straordinario: andare alla ricerca della forza economica della mafia lo portò a sviluppare la consapevolezza che occorreva lavorare a livello internazionale”. Sulla giustizia sono venute parole severe da parte del Presidente della Repubblica. Sui casi Amara e Palamara, che hanno minato la credibilità della magistratura, Mattarella ha auspicato inchieste sollecite. Gli strumenti, per ridare prestigio all’ordine giudiziario, sono dati dalla legge o dai regolamenti del Csm. Il presidente ha contrapposto la rettitudine e il limpido esempio morale di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (“a figure come loro la società civile guarda con riconoscenza, come lezioni che consentono di nutrire fiducia nella giustizia”) a pezzi di magistratura i cui “sentimenti di contrapposizione, contese, divisioni, polemiche, minano il prestigio e l’autorevolezza dell’ordine giudiziario”. L’intervento era stato invocato da più parti, da settimane. Il Capo dello Stato, fedele al suo stile, ha scelto un momento istituzionale per farlo. Ha alzato il tono della voce per ricordare che “se la magistratura perdesse credibilità agli occhi della pubblica opinione s’indebolirebbe anche la lotta al crimine e alla mafia”. Dal Colle più volte, nelle scorse settimane, avevano fatto trapelare che del caso Amara se ne devono occupare i giudici. E ieri ha ripetuto: “La credibilità della magistratura e la sua capacità di riscuotere fiducia sono imprescindibili per il funzionamento del sistema costituzionale e per il positivo svolgimento della vita della Repubblica. A questo scopo gli strumenti non mancano. Si prosegua, rapidamente e rigorosamente, a far luce su dubbi, ombre, sospetti, su responsabilità. Si affrontino sollecitamente e in maniera incisiva i progetti di riforma nelle sedi cui questo compito è affidato alla magistratura”. Concetti che il Presidente aveva già ribadito nel giugno 2019 al Csm e nel giugno 2020 al Quirinale. Riformare il Csm malato di correntismo e allo stesso fare pulizia sugli scandali: “rapidamente”, “rigorosamente”. Ci sono ferite ancora aperte. È Manfredi Borsellino, il figlio del giudice Palermo, a rimarcarle: “Le istituzioni non fecero tutto quello che c’era da fare per salvare uno dei suoi figli migliori”. È la prima volta che parla in tv di suo padre e di quei giorni. Indossa la divisa di vice questore della polizia: “Mi onoro di portare questa uniforme, che però non fu onorata da alcuni vertici della polizia in quegli anni”. Il presidente della Camera Roberto Fico ha ricordato che l’impegno contro le mafie deve essere quotidiano. Il richiamo di Mattarella sulla giustizia di Marzio Breda Corriere della Sera, 24 maggio 2021 Nel giorno del ricordo di Falcone e Borsellino, il presidente della Repubblica segnala la questione dei rapporti tra toghe e il velo che si sta alzando su “sentimenti di contrapposizione, contese, divisioni, polemiche all’interno della magistratura”. Incalzato senza riguardo perché intervenisse nel pieno dell’ultimo scandalo che coinvolge la magistratura toccando diverse Procure e perfino il Csm, Sergio Mattarella risponde ora, scegliendo il giorno del ricordo di Falcone e Borsellino. E non è dunque un caso che evochi il loro impegno, pagato con la vita, come un esempio da recuperare. Perché quei due uomini-simbolo “avvertivano alta la responsabilità del ruolo e della dignità della funzione di giustizia”. Il contrario - segnala senza fare sconti a nessuno il capo dello Stato - di quello che va in scena da troppo tempo nei rapporti tra toghe (e tra loro e il potere politico) e che sta alzando definitivamente il velo su “sentimenti di contrapposizione, contese, divisioni, polemiche all’interno della magistratura”. Episodi che “minano il prestigio e l’autorevolezza dell’ordine giudiziario” che dovrebbero “risiedere nella coscienza dei cittadini”. Una deriva inquietante - Il risultato di questa deriva, che Mattarella condanna con assoluta nettezza, è inquietante. Infatti - avverte - “anche il solo dubbio che la giustizia possa non essere, sempre esercitata esclusivamente in base alla legge provoca turbamento”. Il che, contestualizzando la sua riflessione nella Palermo delle stragi, si tradurrebbe in un gravissimo vulnus per la stessa tenuta democratica e sociale. Il presidente lo dice in modo inequivocabile. “Se la magistratura perdesse credibilità agli occhi della pubblica opinione, s’indebolirebbe anche la lotta al crimine e alla mafia”. E aggiunge: “La credibilità della magistratura e la sua capacità di riscuotere fiducia sono imprescindibili per il funzionamento del sistema costituzionale e per il positivo svolgimento della vita della Repubblica”. Ecco il punto politico, alla luce della babele di proposte (compresa quella d’istituire una Commissione parlamentare) piovute a Montecitorio dopo il nuovo scandalo. Per cambiare le cose “gli strumenti a disposizione non mancano… Si prosegua, rapidamente e rigorosamente, a far luce su dubbi, ombre, sospetti, su responsabilità. Si affrontino sollecitamente e in maniera incisiva i progetti di riforma nelle sedi cui questo compito è affidato dalla Costituzione”. Insomma: non è compito del Quirinale decidere se e come riformare la magistratura, ma se si intende sul serio agire in questa direzione. Le Camere hanno già da adesso il suo avallo a procedere. Idee per un processo alla giustizia malata di Annalisa Chirico Il Foglio, 24 maggio 2021 In un ipotetico “processo alla giustizia” non è chiaro chi vestirebbe i panni dell’accusa e chi della difesa, è azzardato avanzare ipotesi nel paese dove anche i più fieri epigoni del giustizialismo si trasformano in strenui difensori delle garanzie quando si ritrovano a fare i conti, personalmente, con i guasti di una giustizia malata. Che qualcosa - anzi molto, forse tutto - non funzioni negli ingranaggi della macchina, lo confermano gli episodi degli ultimi mesi. Accanto ai casi Palamara, Amara, Davigo, mediaticamente più rumorosi, ci sono le cronache di provincia, le storie dei Signor Nessuno, senza santi in paradiso, che rompono il velo dell’ipocrisia su alcuni tabù della giustizia italiana: l’uso abnorme della custodia cautelare in carcere, l’obbligatorietà dell’azione penale, la lentezza intollerabile, la politicizzazione togata. Franco Bernardini ha ricevuto 13.750 euro a titolo di riparazione per ingiusta detenzione. Oggi quest’uomo non è più un poliziotto: ha chiesto il pensionamento anticipato e si è separato dalla moglie. Nel 1997 Bernardini ha 38 anni ed è sovrintendente di polizia al commissariato Appio nella capitale. Il primo marzo riceve un’ordinanza di custodia cautelare e viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Quel giorno è in corso un’operazione volta a smantellare una presunta banda specializzata nel favorire l’ingresso di clandestini in Italia, nonché responsabile di diversi reati come corruzione, concussione, peculato, falso, uso di sigilli contraffatti. Gli agenti della questura effettuano decine di arresti e tra questi compaiono alcuni poliziotti. Uno di loro è Bernardini. Lui si professa innocente, trascorre più di un mese dietro le sbarre e trentacinque giorni agli arresti domiciliari. Secondo la pubblica accusa, lo incastrerebbero le dichiarazioni di un co-indagato che ha deciso di collaborare con gli inquirenti. Nel processo di primo grado Riccardo Radi, avvocato del poliziotto, costringe il tribunale a riascoltare l’accusatore. “In sede di controinterrogatorio - racconta il penalista al quotidiano La Verità - sono riuscito a far emergere le mille imprecisioni nelle sue dichiarazioni e il fatto che avesse del malanimo nei confronti di Bernardini per la gelosia relativa a una donna. Non vi era nessun riscontro oggettivo in relazione a dazioni di denaro ricevute dallo stesso Bernardini”. Trascorrono sette anni dall’arresto prima che il 5 febbraio 2004 la quarta sezione penale del tribunale di Roma assolva il poliziotto con formula piena, perché il fatto non sussiste. Soltanto il 12 giugno 2008 arriva la decisione della Corte d’appello di Roma in merito alla domanda di indennizzo per i giorni trascorsi in carcere da innocente. A Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore della Repubblica di Milano e storica toga di Md, chiediamo perché l’abuso della custodia cautelare in carcere sia ancora così diffuso nel nostro paese. “La Costituzione e la legge sono nette - replica il magistrato - si deve ricorrere a questo istituto soltanto ove sia strettamente necessario. Per la criminalità organizzata vi è il pericolo di fuga o di reiterazione dei reati e l’intimidazione dei testimoni. Per i reati dei cosiddetti ‘colletti bianchi’ viene in gioco soprattutto l’inquinamento delle prove. Opinione pubblica e settori della politica sono ondivaghi sulle emozioni dei fatti del momento, quando non strabici: in galera, in galera!, ma non quando si tratta dei miei amici. Il rimedio principe è ridurre i tempi del processo. Oggi, anche sotto la spinta di quanto ci è richiesto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, vi sono tutte le condizioni per compiere dei passi avanti e la presenza a Via Arenula della ministra Marta Cartabia è una garanzia”. Lei, dottore, è stato fortemente critico nei confronti dell’ex premier Silvio Berlusconi: adesso, a otto anni di distanza dalla sentenza della Cassazione che rese definitiva la condanna per frode fiscale e costò al Cav. la decadenza dalla carica di senatore, la Corte europea dei diritti umani rivolge dieci domande al governo italiano per verificare l’equità del processo per i diritti tv Mediaset. È tardi? “La lentezza della giustizia è un problema anche a Strasburgo - risponde Bruti Liberati - Va chiarito però che dopo quasi otto anni la Corte ha soltanto accertato la regolarità formale del ricorso. Prima ancora di esaminare la ‘ricevibilità’, la Corte ha posto delle domande, ‘questions’, al governo italiano, alle cui risposte seguirà la replica delle difese e quindi la decisione su ricevibilità e merito. Domande, dunque, non critiche: non è una pignoleria. Non ci si può nascondere che forse abbiano giocato, in questa tardiva ripresa di attenzione, le sconcertanti vicende emerse a contorno della decisione della Cassazione. Ma dal tenore delle domande è chiaro che l’oggetto degli approfondimenti non sono queste vicende, ma il rispetto delle norme procedurali”. Il Csm, dopo i casi Palamara, Amara, Davigo, ha subìto un calo verticale di credibilità. Come se ne esce? “È un momento di crisi e sconcerto. Le dimissioni di sei componenti del Csm, indipendentemente da incriminazioni penali o disciplinari, sono un primo segno di consapevolezza. Il rimedio non passa per le tecnicalità dei sistemi elettorali ma richiede da parte dei magistrati una riforma di cultura: essere capaci di rifuggire da pratiche deteriori e ritrovare l’orgoglio del confronto tra le diverse posizioni ideali nel Csm, valorizzando tutte le potenzialità del modello voluto dalla Costituzione”. Esiste un totem per la corporazione togata: l’obbligatorietà dell’azione penale. A parlarne al Foglio, in maniera alquanto sorprendente, è Nello Rossi, già procuratore aggiunto di Roma e direttore di Questione giustizia, la storica rivista di Magistratura democratica. Per prima cosa, gli chiediamo la sua opinione sullo scandalo più recente che ha investito il Csm, tra dossier secretati e presunti corvi. Una parolina su Piercamillo Davigo? “Nulla da dire, ho scritto di lui soltanto in un’occasione, quando ho esposto le ragioni giuridiche per le quali, una volta andato in pensione, non poteva continuare a far parte del Csm. Le questioni odierne saranno dipanate da altri”. Dalla vicenda Amara emerge anche uno spaccato del rapporto incestuoso tra certe redazioni giornalistiche e certi ambienti giudiziari. “Ho contribuito, con Zagrebelsky e altri colleghi, a redigere il Codice etico della magistratura che ribadisce non soltanto l’obbligo di rispettare il segreto ma anche il divieto di costituire canali privilegiati con la stampa. Quando la diffusione di una notizia è doverosa, ciò deve avvenire secondo modalità che garantiscano la parità di accesso a tutti i giornalisti”. Di fronte alla crisi del Csm, il presidente Sergio Mattarella ha chiesto di “voltare pagina”. “Sarebbe sbagliato demonizzare il Csm in quanto tale, ai miei occhi il bilancio storico del governo autonomo della magistratura è straordinariamente positivo. E tuttavia è innegabile la necessità di una riforma purché ciò non si traduca nella moltiplicazione di criteri e parametri, com’è accaduto in seguito all’intervento dell’ex ministro Bonafede. La discrezionalità del Csm nell’assegnazione di incarichi direttivi e semidirettivi non può essere azzerata. L’esperienza insegna che quanto più aumenti il numero di criteri e parametri tanto più si espande il perimetro di intervento del giudice amministrativo”. Per il Consiglio di stato la nomina di Michele Prestipino a procuratore capo di Roma è illegittima, si ricomincia daccapo. “La capitale è un centro nevralgico dove promuovere ricorsi e controricorsi è attività particolarmente in voga. Io nella mia vita ho ricoperto due soli incarichi: procuratore aggiunto e avvocato generale in Cassazione. Entrambe le volte mi sono dovuto difendere in giudizio, ho sempre vinto. Continuo a credere nella discrezionalità del Csm fortemente motivata, a meno che non si intenda trasferire la competenza delle nomine al Csm”. Il ministro della Giustizia Cartabia ha annunciato una riforma della giustizia civile, penale e ordinamentale. Vaste programme. “Il prossimo numero di Questione giustizia sarà interamente dedicato alla riforma organica del settore, proveremo così a offrire qualche spunto di riflessione. Un tema ineludibile è rappresentato certamente dall’obbligatorietà dell’azione penale: quando gli avvocati ricordano che numerose notizie di reato si prescrivono nel corso delle indagini preliminari hanno ragione”. L’azione penale obbligatoria è un simulacro per l’indipendenza togata. “Nel nostro sistema vale la regola per cui l’azione penale è obbligatoria in quanto l’ordinamento vuole che essa sia esercitata in modo indipendente e imparziale, e il pm deve essere indipendente e imparziale in quanto l’azione penale è obbligatoria. La realtà però va in un’altra direzione. Il ruolo del pm cresce ovunque, e ovunque cresce la sua discrezionalità. È venuto il momento di abbracciare una concezione realistica e temperata dell’obbligatorietà dell’azione penale”. La accuseranno di voler azzoppare un totem della magistratura associata. “La mia è una proposta di buon senso per rendere trasparente ciò che non è. Si potrebbe valorizzare, per esempio, il ricorso all’istituto dell’archiviazione per tenuità del fatto per reati che si collocano entro limiti di pena legislativamente prefissati. Tale strumento dovrebbe essere un criterio preventivo di filtro, sottoposto al controllo giurisdizionale”. Oggi è limitato ai reati sotto i cinque anni. “In realtà, dovrebbe essere sempre consentito al pm di valutare l’opportunità di non procedere, anche in presenza di un reato grave come una bancarotta fraudolenta qualora il caso di specie, a giudizio del pm, presenti le caratteristiche proprie della tenuità”. Rimane un quesito: i criteri di priorità dell’azione penale devono essere fissati dalle procure e dal Csm, come stabilisce il ddl Bonafede, o da istituzioni diverse? “Il compito di tracciare le linee generali della politica criminale non può che essere assolto dai poteri dotati di una investitura democratica diretta o indiretta, come parlamenti e governi. Se infatti è indispensabile assicurare ai magistrati del pubblico ministero forti garanzie di status che li mettano in condizione di resistere a indebite interferenze e preservare la fase delle indagini da favoritismi e inquinamenti, è difficile concepire che, in un ordinamento democratico, siano i singoli uffici di Procura o organismi con compiti di amministrazione della giurisdizione a dettare le priorità dell’intervento penale”. In passato lei è stato tra i pochissimi magistrati a pronunciarsi a favore della inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pm, e non è andata bene. “Mi pare che adesso anche il ministro Cartabia intenda proporre delle limitazioni alla facoltà di impugnazione del pm. In Italia bisogna solo aspettare”. Il contenzioso per la divisione della proprietà di un palazzo a destinazione abitativa, al confine tra i comuni di Rieti e di Cittaducale, ha impiegato trentatré anni per approdare a una soluzione definitiva. La prima causa era partita trentatré anni fa, la sentenza finale è di pochi giorni or sono. Così i due protagonisti, un costruttore e sua cugina, hanno cominciato la battaglia legale da giovani, poco più che trentenni, adesso sono due ultrasessantenni in pensione. Assodato che questi sono i tempi della giustizia italiana, la domanda che s’impone è se siano i tempi di un paese civile. Al Foglio Carlo Gagliardi, managing partner di Deloitte Legal, spiega che “in un sistema processuale fondato sul principio costituzionalmente garantito della ragionevole durata del processo e su termini a carico delle parti da rispettare a pena di preclusione, è importante che il sistema giudiziario dimostri coerenza. Gli ultimi studi della European Commission for the Efficiency of Justice (rapporto Cepej, 2020), aggiornati al 2018, dimostrano un miglioramento ancora non sufficiente dei tempi della giustizia nazionale, soprattutto per quanto riguarda i gradi di giudizio successivi al primo. Con riferimento ai conteziosi in materia civile e commerciale è stata infatti rilevata una durata media complessiva dei procedimenti di circa sette anni: 527 giorni per il primo grado (contro i 362 della Spagna e i 220 della Germania), mentre quasi la metà dei procedimenti in appello dura più di due anni e i procedimenti innanzi alla Cassazione richiedono in media 1.266 giorni. Oggi l’efficienza si traduce in competitività. La lentezza della tutela legale è anacronistica e rischia di apparire quale assenza assoluta di tutele, in grado di ridurre la capacità attrattiva di un paese. Un profondo cambio di marcia della Giustizia rappresenta un elemento essenziale per la ripresa”. La storia giudiziaria della famiglia Ligresti si può riassumere in diversi mesi di carcere e zero condanne. Un patrimonio espropriato, reputazione a brandelli e adesso, dopo otto anni di inchieste e dibattimenti, tutti assolti. Nel luglio 2013 la magistratura di Torino dà inizio a una vicenda che si rivelerà un calvario: “Papà finisce ai domiciliari, io e Giulia in cella, mio fratello evita le manette solo perché cittadino svizzero”, racconta al Giornale Jonella Ligresti, ex presidente di Fonsai, che nell’ottobre 2016 viene condannata a cinque anni e otto mesi per falso in bilancio e aggiotaggio. Nel marzo 2019 la condanna viene annullata dalla Corte d’appello di Torino che accoglie le istanze della difesa sulla competenza territoriale e trasmette le carte a Milano. Lo scorso 12 maggio il gip di Milano, accogliendo la richiesta della procura, la proscioglie da tutte le accuse ritenute infondate. “Non avevo fatto niente, non capivo perché ero finita dentro, ma dopo i primi giorni di disorientamento mi sono fatta coraggio: l’importante in prigione è darsi un ritmo, anche se sei in condizioni drammatiche. Scrivevo le lettere per le rom che mandavano notizie ai loro cari, e nel caldo insopportabile dell’estate, seduta o sdraiata sul letto per ventidue ore al giorno, avevo allestito il mio frigo personale nel bidet”, racconta la signora Ligresti che alle Vallette di Torino, nel 2013, trascorre due mesi in una cella, due metri per quattro, con un letto a castello e nemmeno una sedia per mangiare, in compagnia di una donna anziana e semicieca accusata di concorso in omicidio. Le toccherà anche l’esperienza di San Vittore. “Ci hanno tolto tutto, adesso ho aperto un ristorante in Sardegna e ho ripreso ad andare a cavallo. Ma non posso dimenticare che mio padre è morto in solitudine, mentre il gruppo veniva spogliato dei suoi beni, con addosso una condanna pesantissima che è stata cancellata solo ora che non c’è più. Negli ultimi tempi papà aveva lo sguardo disperato di chi vede distruggere tutto quello che ha costruito. Ma papà è ancora con me, la sua firma è tatuata sul mio polso”. Secondo il deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin, ex consigliere del Csm e forzista di lungo corso, “non sarà facile per il governo italiano rispondere ai dieci quesiti che gli sono stati rivolti dalla Corte europea dei diritti umani. Più passa il tempo più la sentenza di condanna di Berlusconi appare viziata sotto molteplici, gravissimi profili. Qualunque sia l’esito del giudizio, esso arriverà comunque troppo tardi. Anche se una eventuale ulteriore riabilitazione non potrà che essere accolta con favore da Berlusconi, come prova della persecuzione giudiziaria subìta”. Che cosa accadrà in seno al Csm? Nei giorni scorsi il presidente David Ermini ha parlato, forse in ritardo, di “modestia etica del correntismo”. “La riforma del Csm è tanto attesa soltanto a parole, nei fatti stenta ad arrivare. All’indomani del cosiddetto ‘scandalo’ Palamara, è stata invocata da più parti una riforma urgente. Sono passati due anni senza che sia accaduto niente. Tra poco più di un anno si dovranno celebrare le elezioni per la componente togata e, se continua così, non è escluso che abbia luogo con le stesse regole di oggi. Sarebbe la prova di un totale fallimento della politica”. “Un diritto oscuro è un’arma per i più forti e i prepotenti” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 24 maggio 2021 Intervista al costituzionalista Michele Ainis: “A differenza del mondo anglosassone in Italia regna il sospetto della divulgazione e, di conseguenza, del farsi comprendere”. “Diritto resiliente”. Un’espressione del genere non è stata ancora utilizzata. Ma visto l’andazzo non si può escludere questo fantasioso ingresso nel linguaggio del legislatore e del giurista del ventunesimo secolo. È, però, stata coniata e importata - potevamo esimerci dalla solita fascinazione esterofila? - la locuzione “soft law”, la legge soffice, nel settore dei contratti pubblici. Giuristi della caratura di Alberto Trabucchi e Temistocle Martines rimarrebbero senza parole di fronte a derive linguistiche del genere. Un altro studioso, il costituzionalista Michele Ainis, è invece convinto che la scrittura, quasi esoterica ed incomprensibile, delle leggi rende la democrazia più fragile. “Con un diritto oscuro - dice al Dubbio Michele Ainis - diventiamo tutti punibili”. Per questo il ruolo dell’avvocato diventa sempre più delicato nella nostra società. Deve avere il coraggio di vigilare sulla qualità linguistica delle norme e degli atti. Solo così potrà essere preservato il diritto delle persone a capire per adempiere. Cosa non da poco. Professor Ainis, la crisi della politica e la sua delegittimazione derivano anche da una legislazione complicata e ai più non fruibile? Sicuramente. Si tratta di un antico problema, tra l’altro, già affrontato da Tacito quando parlava di corruzione delle leggi. Mi sono occupato di questo tema nel 1997, quando scrissi il saggio intitolato “La legge oscura” (edito da Laterza, ndr). Il ceto intellettuale italiano ha una grande responsabilità. Ama parlare in maniera difficile e non comprensibile. A differenza di quanto accade nel mondo anglosassone, in Italia regna il sospetto della divulgazione e, di conseguenza, del farsi comprendere. Assistiamo ad un rifiuto del confronto. Se usi un linguaggio semplice, rischi quasi di essere discriminato. Eppure, Einstein parlò di relatività facendosi comprendere da tutti. Non capisco perché il legislatore debba parlare e scrivere in maniera incomprensibile. Il diritto ha bisogno di un suo linguaggio. Questo è innegabile. Non posso parlare di usucapione, usando un altro termine. Detto questo, sono sotto gli occhi di tutti l’ampollosità di un certo linguaggio giuridico ed il continuo rinvio ad altre leggi quando si scrivono le norme. Questi elementi rendono i testi legislativi più imprecisi. La tecnica, quasi esoterica, della scrittura delle leggi è un modo per una ristretta cerchia di politici, magistrati e giuristi che tende ad autodifendersi? È un effetto ricercato e voluto. Partiamo da una premessa storica. Abbiamo avuto sempre governi di coalizione anche quando la forza politica dominante del Paese era la Dc con le sue correnti interne. Nella coalizione devi fare sintesi, se non ci riesci, devi fingere davanti ai cittadini per dimostrare di avere preso delle decisioni. Scarichi le conseguenze delle tue incapacità sui cittadini. Le leggi adesso le scrivono gli uffici legislativi e la tecnica usata rifugge le clausole generali e si impicca ai micro-provvedimenti. Assistiamo ad uno strapotere della burocrazia e della magistratura. Quest’ultima è destinataria di una delega implicita che la legge incomprensibile produce. La responsabilità della politica su questo è enorme. È inevitabile che il giudice si trovi a fare il legislatore di fronte a norme incomprensibili. Non dimentichiamo, inoltre, che viviamo in un’epoca in piena crisi di idee e valori. Il Novecento è stato il secolo delle grandi ideologie, che ci ha poi condotto ad una legislazione che si è via via svuotata ed è diventata meno organica. Oggi arriviamo al fatto del minuto prima ed il linguaggio giuridico e legislativo è specchio della cultura generale. Chi scrive le leggi si preoccupa solo di sé stesso? L’autoreferenzialità è un’altra malattia del nostro tempo. Il successo delle fake news o il populismo trumpiano hanno a che fare con il brodo di cultura dei tempi che stiamo vivendo. Si tende a parlare ai propri simili. La politica vive di pensieri corti. Quando la politica finisce nelle Gazzette ufficiali le cose cambiano e certi linguaggi diventano incomprensibili. In questo modo si rende il diritto inaccessibile. Una esclusività che porta dei vantaggi a qualcuno? Il diritto serve per proteggere i deboli. Per i forti e prepotenti è di intralcio. Se il diritto non serve i deboli, diventa un favor per il più forte dal quale inevitabilmente si generano delle disparità. Su questo mi viene in mente quanto scritto da un autore molto interessante, un grande filosofo del diritto. Mi riferisco a Lopez de Onate, autore del libro “La certezza del diritto”, secondo il quale quando il diritto è incerto il reo guadagna la riva, mentre il debole è destinato ad affogare. Un diritto scarsamente comprensibile danneggia i cittadini. Qui si innesta un’altra riflessione sui delitti naturali e i delitti di pura creazione legislativa. Questi ultimi sono delle mine sulle quali il cittadino può saltare per aria in qualsiasi momento. Il rischio è che si attribuisca un potere abnorme ai giudici. Esistono nel nostro ordinamento migliaia di reati e siamo dunque tutti processabili. Con un diritto oscuro diventiamo tutti punibili e più deboli. “Una fase non facile, abbiamo bisogno dell’attenzione del Parlamento” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 24 maggio 2021 Intervista a Giuseppe Santalucia, presidente Anm. Il monito del presidente Mattarella sulle “contrapposizioni, contese e polemiche che minano il prestigio della magistratura”, dice il presidente dell’Anm “coglie una preoccupazione che è anche la nostra”. I magistrati nei talk show? “Fare ipotesi in tv, litigando con colleghi, non credo sia la strada”. “Contrapposizioni, contese e polemiche minano il prestigio della magistratura”. Giuseppe Santalucia, da presidente dell’Associazione nazionale magistrati, come accoglie la strigliata del capo dello Stato? “Credo che faccia sempre bene. Coglie una preoccupazione che è anche la nostra”. E quindi che farete? “Abbiamo già cercato di adeguarci a questo monito che ci era stato fatto già a febbraio, quando siamo stati ricevuti dal presidente. E anche prima”. Quindi non vi sentite chiamati in causa? “È un periodo non facile per la magistratura. Ci sono più punti di vista su come superare la crisi. All’interno dell’Anm si discute ma non ci sono conflitti. Tranne con un piccolo gruppo. Ma anche in questo Comitato direttivo centrale ci siamo ritrovati su posizioni comuni, come il ricordo di Giovanni Falcone”. Su quello era facile. “Sui principi generali, autonomia e indipendenza c’è unità. Ma tante cose non dipendono da noi”. E da chi? “Dalla crisi si esce con buone riforme. Abbiamo bisogno dell’attenzione del Parlamento”. Ma il presidente stigmatizza anche liti interne. “Con questa vicenda della presunta loggia Ungheria, abbiamo visto molte liti in tv tra magistrati. Se questo è ciò pensa, mi trova perfettamente adesivo”. Cosa intende? “Siamo tutti in trepidante attesa che ci dicano qualcosa di certo su quelle rivelazioni che tirano in ballo magistrati come presunti affiliati: se sono calunnie o reati gravissimi. Ma il salotto tv non sostituisce l’accertamento della verità”. Sta dicendo: basta magistrati nei talk-show? “Ognuno si determina come ritiene. Ma fare ipotesi in tv, litigando con colleghi, non credo sia la strada. Il tavolo di confronto deve essere serio. O c’è chi deduce che tutto è malato. Non è così”. Le chat di Palamara non mostrano una giustizia sana. A parte espellere lui, l’Anm non ha fatto nulla? “Da mesi ci sono procedimenti aperti per violazioni del codice etico, come le auto sponsorizzazioni. A breve valuteremo”. Vuole dire che sono in arrivo sanzioni? Per quanti? “Sono una cinquantina le posizioni aperte. E alcuni si stanno dimettendo dall’associazione. A quel punto il nostro procedimento si interrompe. Ferma restando l’azione disciplinare del Csm”. Non è a maglie larghe? “No. Dai numeri si vede che non siamo una casta chiusa in atteggiamento corporativo”. Ma auspicate riforme. “Quelle buone. Si è scatenata una reazione che potrebbe portare a soluzioni improvvide”. Quali ritiene tali? “Se ne sono sentite di tutti i colori. Dare la prevalenza numerica alla componente laica del Csm. O la commissione d’inchiesta sulla magistratura. E anche la separazione delle carriere non mi sembra una buona idea. Ma ce ne sono di interessanti”. Ad esempio? “La riforma del processo civile ci trova in gran parte favorevoli. Come le misure allo studio per il recupero di efficienza della giustizia penale”. Ha fatto retromarcia sull’idea di scegliere per sorteggio i consiglieri Csm? “Era l’idea di alcuni nell’Anm, non la mia. È fuori luogo e non è costituzionale. Ci sono altre soluzioni. L’importante è che non ci sia il doppio turno che favorisce gli apparentamenti”. Le cordate decidevano le promozioni. È meglio tornare al criterio di anzianità? “Sì, ma non brutale che lega le mani al Csm”. La magistratura uscirà dalla crisi? “Si, c’è tanta indignazione. Il caso Palamara ha fatto tanto male, ma anche tanto bene” Gianrico Carofiglio: “Giustizia a rischio per i veti incrociati” di Leonardo Petrocelli Gazzetta del Mezzogiorno, 24 maggio 2021 L’ex magistrato e scrittore: “sono ottimista, ma corporazioni e partiti rischiano di ostacolare la riforma”. Una riflessione a tutto campo sulla giustizia, tra necessità di riforma e nodi critici che stanno attraversando il dibattito in queste settimane. È l’equilibrio la bussola di Gianrico Carofiglio, scrittore, ex magistrato e già senatore, da gennaio in libreria con il fortunato “La disciplina di Penelope” (Mondadori, 2021), al momento il secondo libro più venduto dell’anno. Il suo esordio narrativo, invece, Testimone inconsapevole del 2002, è appena giunto alla centesima edizione, caso unico per un autore vivente. Carofiglio ci voleva il Recovery Fund per incoraggiare una seria riforma della giustizia? “A quanto pare sì, ma non è una buona notizia. Sarebbe stato meglio fare questo tipo di riforme in maniera spontanea e soprattutto superando il problema principale, cioè il conservatorismo delle corporazioni. Mi riferisco a magistrati e avvocati, entrambi parte del problema in modi diversi. Sostenevo questo punto anche quando ero magistrato, non è una frase da pentito (ride, ndr)”. C’è di buono che si è anche compreso, finalmente, il legame fra giustizia e sistema Paese, in particolare in riferimento all’economia. Se gira l’una, gira anche l’altra. “È addirittura una ovvietà. Se uno deve investire in un territorio ma un problema con un fornitore rischia di tradursi in una causa di anni allora sposta i propri denari altrove. Il legame è fin troppo evidente”. Iniziamo a entrare nel merito, dunque. Da dove bisognerebbe iniziare per riformare seriamente la giustizia italiana? “Non sono un esperto di procedura civile ma è fin troppo evidente la necessità di semplificare, in modo rilevante, la produzione delle decisioni. Questo si può fare in molti modi ma una chiave di volta è l’alleggerimento degli oneri di motivazione. Naturalmente, è necessario procedere con meccanismi flessibili e con tutte le garanzie del caso, evitando che queste ultime diventino trappole. C’è un percorso scivoloso che può trasformare le garanzie sane in garantismi. Serve la massima attenzione” Un punto che agita il dibattito, dalla vicenda Palamara fino ai recenti casi di Bari, è quello della “moralizzazione” della magistratura. Come intervenire? “La questione c’è ma io distinguerei. Nel caso delle recenti vicende baresi si tratta di fatti criminali, mentre la moralizzazione riguarda costumi, relazioni, comportamenti. C’è un problema aggravatosi negli ultimi anni che oggi impone la definizione delle regole per la formazione dell’autogoverno”. C’è chi invoca la cancellazione delle correnti in magistratura. “Questa è una sciocchezza. Le correnti, se correttamente intese, sono espressione del pluralismo culturale della magistratura. Purtroppo, per molte ragioni, sono diventata anche - se non soprattutto - macchine di distribuzione di incarichi. Non tutte allo stesso modo ma è inutile negare che il problema esista”. E dunque come riformare il Csm? Con il metodo del sorteggio secco? “Il sorteggio secco viola le regole democratiche e rischia di mandare al Csm persone incompetenti o peggio. E tuttavia nel sorteggio c’è un principio giusto: il tentativo di sottrarre il rappresentante a un vicolo rigido verso il gruppo organizzato - a volte clientelare - che l’ha fatto eleggere”. Qual è la soluzione allora? “Io un’idea ce l’ho: se i posti per i magistrati al Csm sono 20 allora si procede alle elezioni con liste e correnti per individuare 100 persone che siano espressione della rappresentanza democratica. Ed è tra questi, in seconda battuta, che si può procedere al sorteggio, tenendo così insieme le due legittime esigenze. Sostengo questa soluzione da tempo, ma è bene ricordare che quasi nessuno è d’accordo”. Andiamo avanti con un altro nodo spinoso: la separazione delle carriere. Lei è d’accordo? “Non credo sia una buona idea, innanzitutto per una ragione culturale: se i pubblici ministeri vengono separati dai giudici rischiano di essere attratti da una cultura di polizia e soprattutto di diventare un super potere, una casta di autogovernati con un Csm a parte come sostengono, con scarsa lungimiranza, molti sostenitori della separazione. L’unico antidoto a questo pericolo è che l’autogoverno sia il medesimo per giudici e pm e le carriere non siano separate. Occorre mantenere una cultura comune della giurisdizione e delle garanzie, con vincoli rigidi - ma quelli n gran parte ci sono già - per il passaggio da una funzione all’altra”. L’enfasi mediatica posta sul tema della prescrizione è giustificata secondo lei? “È una questione spesso agitata, da una parte e dall’altra, in modo demagogico. Un giudice o un avvocato americano si metterebbero a ridere stupefatti sentendo i termini di questa disputa tutta italiana. Il cuore del problema è piuttosto evidente: deve essere garantito un tempo accettabile dello svolgimento del processo. Ma questo si fa intervenendo sulle norme che regolano il processo stesso, in modo stringente e con sanzioni per tutti, avvocati e magistrati. Chi accusa la riforma Bonafede di mettere l’imputato sotto processo per sempre lo fa spesso in modo strumentale ma il problema resta e si risolve solo, lo ripeto, andando al cuore della faccenda”. A fronte di tutto questo, qual è alla fine il vero avversario di una buona riforma? “Certamente i veti incrociati che in partiti possono mettere in campo in una maggioranza così variegata come quella attuale” Quindi il governo guidato da Mario Draghi non è quello giusto per portare a casa il cambiamento? “Voglio essere ottimista perché c’è un ministro molto competente oltre che un calendario dettato dalla congiuntura particolare che attraversiamo. Anche la debolezza attuale della magistratura - che in sé non è un bene - può contribuire a depotenziare parte delle spinte conservatrici di cui si parlava prima”. A proposito di veti, crede che negli ultimi anni il Paese abbia assistito a una deriva ideologica su questi temi? Il riferimento è in particolare al Movimento 5 Stelle. “La dimensione ideologica ha caratterizzato la loro azione fin dall’inizio e non solo in riferimento alla giustizia ma anche sul resto. Occorre peraltro registrare un’evoluzione interessante e meno ideologica in questa forza politica. Peraltro non vedo meno ideologia nei temi declinati dalla destra”. E il campo progressista invece? “Al momento ci sono confusioni e sbandamenti. È necessario trovare una linea di indirizzo percepibile dai cittadini, recuperando e dichiarando con coraggio i valori di riferimento - primo fra tutti la lotta contro le disuguaglianze - che giustificano l’esistenza stessa della sinistra. Il mio consiglio ai dirigenti della sinistra e del Pd in particolare è di dimenticare l’esistenza dei sondaggi e concentrarsi sui valori e sul modo migliore per comunicarli ai cittadini”. L’ultima battaglia è quella sulla tassa di successione che pure lei ha difeso. C’è stato un errore di comunicazione? “Poteva essere esplicitata meglio. Una proposta del genere deve essere necessariamente corredata da una comunicazione capace di colpire l’intelligenza e la fantasia dei destinatari e una persona come Letta ha tutti i mezzi per farlo. La destra semplifica dicendo che si vogliono togliere i soldi ai cittadini. In realtà esistono patrimoni spaventosi di decine e decine di milioni piovuti sulla testa di persone senza meriti concreti ma per la casualità dell’eredità. In Francia si chiama tassa sulla fortuna. Qualcuno mi dovrebbe spiegare perché un signore che ha beneficiato di una eredità di 20 milioni di euro non può contribuire al bene e alla vita comune con 200mila euro”. Su questo, però, il premier Mario Draghi ha “silurato” il segretario dem: è il momento di dare soldi, non di prenderli. “Se è vero quello che hanno riferito è stata una esternazione al di sotto del suo livello. Ridurre le terribili disuguaglianze che affliggono questo Paese, dotando anche chi non ha nulla di una capacità di spesa che riattiverebbe l’economia, dovrebbe essere una priorità”. Chiudiamo infine sulla cultura che ricomincia a camminare. Lei si era battuto in prima linea per riaprire le librerie anche nel momento più buio della pandemia. I numeri di vendita dei libri le hanno dato ragione. “Finalmente sta ripartendo un po’ tutto, dai cinema ai teatri ai festival. Quando si parla di cultura si rischia sempre di dire banalità ma durante il lockdown, ed è forse l’unico effetto positivo riscontrato in pandemia, abbiamo constatato l’impennata notevolissima del mercato dei libri. È una lezione da sfruttare e da non disperdere, ma non per mercificare la cultura bensì per comprendere il potenziale vero di questa ricchezza ed estenderlo ben oltre i confini di una piccola casta di privilegiati”. La rassicurante narrazione su Falcone che è stato ucciso “solo dalla mafia” di Attilio Bolzoni Il Domani, 24 maggio 2021 È solo mafia, non vi basta? Ha fatto tutto Totò Riina, sulle bombe ci sono le impronte digitali dei fratelli Graviano, per ogni delitto eccellente la pistola in mano ce l’ha avuta sempre Leoluca Bagarella. Mafia, solo mafia. Non cercate altrove perché altrove c’è il nulla. O complottisti di professione, sceneggiatori, romanzieri. Solo mafia, il resto è fiction e delirio. Questa vigilia del 23 maggio, ventinovesima commemorazione dall’uccisione di Giovanni Falcone, è segnata dal ritorno della mafia come unica ideatrice ed esecutrice degli attentati e delle stragi che hanno sconvolto l’Italia. E non mi riferisco soltanto a Michele Santoro e alla fantasia sospetta di Maurizio Avola, quanto piuttosto a una tendenza che affiora da più parti e cerca di imporre un’idea ignorando decenni di indagini, atti parlamentari, sentenze pronunciate in nome del popolo italiano. Ogni evidenza è seppellita con una battuta in tv, un’arguzia sul profilo Facebook, una contorsione linguistica in un pubblico dibattito. Va di moda, piace che i colpevoli siano solo i mafiosi. Rassicura. Nessun complice, siamo tutti innocenti, indifferenti e favoreggiatori. Sono stati i Corleonesi, in solitudine, a far tremare il paese dal 1979 al 1993. Frequenti distrazioni - Qualche settimana fa, in occasione di un altro doloroso anniversario palermitano - l’uccisione di Pio La Torre e del suo amico Rosario Di Salvo il 30 aprile 1982 - mi è capitato di leggere commenti sulla matrice dell’assassinio (“C’è bisogno della Cia, dei poteri occulti? La mafia è stata: la mafia!!!”) che cancellano dalla memoria ciò che ha rappresentato La Torre per il potere e i fili che ha rintracciato per esempio il giudice Falcone nella sua requisitoria sui cosiddetti delitti politici. Sicari di mafia, mandanti di mafia, ma anche un contesto ostile intorno al quale lo stesso Falcone avrebbe voluto approfondire le sue investigazioni e che però il procuratore capo di allora, Piero Giammanco, impedì. In questi ultimi tempi e in più di un’occasione ho sentito parlare della morte del consigliere istruttore Rocco Chinnici, fatto saltare in aria con un’autobomba il 29 luglio del 1983, con protagonista assoluto di quell’attentato “alla libanese” Giovanni Brusca. Mai una parola sui cugini Salvo, Nino e Ignazio, i baroni mafiosi delle esattorie che finanziavano la corrente andreottiana della Democrazia cristiana siciliana e sui quali Chinnici aveva osato aprire un’inchiesta. I loro nomi sono stati oscurati, accontentiamoci di Brusca. Viene rimosso ogni richiamo a colletti bianchi o neri, a soldi e a banche, a leggi e a legislatori che avevano garantito alle 75 esattorie dei Salvo un aggio che raggiungeva il 10 per cento contro il 3 della media nazionale. Più facile ricordare solo Giovanni Brusca, “u’ Verru”, porco in siciliano. Distrazioni frequenti che valgono anche per gli omicidi del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, per il giudice Cesare Terranova, per Giovanni Falcone. E soprattutto per Paolo Borsellino. Probabilmente quella di via D’Amelio, fra tutte le stragi, è la più subìta da Cosa Nostra. Via D’Amelio - Nella sua ricostruzione ci sono ancora molti pezzi mancanti, sono state acquisite prove di deviazioni istituzionali e non è un caso che la prima istruttoria sul massacro venga ricordata dai pubblici ministeri come “il più grande depistaggio della storia repubblicana”. Tutto ciò sembra non avere più una qualche importanza, nella narrazione che ne fa un dilagante neo conformismo, favorito anche - almeno questa è la mia opinione - dal rumore di certe indagini “clamorosissime” che non vedono mai fine o dalle esasperazioni di chi si spinge a dire che, in fin dei conti, dei grandi delitti di mafia nessuno può ritenersi un vero delitto di mafia. Posizioni estreme che non tengono in debita considerazione la natura della Cosa Nostra siciliana, la sua autonomia da altre entità criminali, la capacità che ha sempre avuto di negoziare con lo stato italiano. Ma mai mi sarei aspettato una campagna “revisionista” come quella di questi ultimi mesi. Con la mafia, per riprendere le parole del presidente della Commissione parlamentare antimafia siciliana Claudio Fava, raccontata come fosse un western, i buoni da una parte, i cattivi dall’altra e in mezzo niente. Diciamo pure che sulla mafia ormai si può scrivere tutto e il contrario di tutto, tanto i Corleonesi dal 41 bis non smentiscono mai. Di recente ho letto un articolo, di contenuto giornalistico indefinibile, sul primo omicidio che avrebbe commesso Totò Riina. Non era riportata l’identità della vittima né la data del delitto, neanche una vaga indicazione di dove era stato compiuto, senza nome anche il magistrato che aveva svelato il mistero e a quanto pare aperto un’indagine. Una fantastica storia che, testuale, “riaffiora nel giorno in cui morì Maradona”. Effetti speciali. Gli influencer dell’antimafia - Poi ci sono gli influencer dell’antimafia che non fanno paura alla mafia, poi ancora ci sono i talk show che in un’ora e mezza pretendono di ribaltare trent’anni di processi. È lo stordimento che ci accompagna verso quest’altra celebrazione della strage del 23 maggio e che per il secondo anno consecutivo, a causa del Covid, ci sarà senza le famose “navi della legalità” che approdano ai moli del porto di Palermo. Sempre più stanca la cerimonia dentro l’aula bunker, nel 2020 disertata da molti per i troppi pennacchi e per l’insopportabile retorica. Falcone e Borsellino, Borsellino e Falcone, esibiti come santini, agitati - il copione è il solito - come il bene contro il male. Siamo sempre al western. Ma cos’è diventata la mafia oggi, quale evoluzione ha avuto dopo quel 23 maggio e quel 19 luglio, nessuno ce lo sa o ce lo vuole spiegare. Periodicamente ci offrono in pasto gli avanzi dei Corleonesi, i feroci allevatori dei Nebrodi, qualche malacarne ragusano presentato come Al Capone o l’ultimo vivandiere (sempre “insospettabile”) di Matteo Messina Denaro che intanto continua la sua latitanza. Ma è davvero questa la mafia che comanda quasi trent’anni dopo le stragi, è davvero questa quell’organizzazione potentissima che non ha mai nascosto l’ambizione di essere “classe dirigente”, che muove così ingenti capitali da condizionare politica ed economia? Nei convegni e nei “pensatoi” si parla e si straparla di una mafia stellare (senza però mai fare un nome) e poi però i resoconti quotidiani delle retate ci consegnano l’estorsore beccato con la bottiglia di benzina che dà fuoco al negozio, i disperati dello Zen che si fanno la guerra a colpi di post su Facebook, il boss ultraottantenne spacciato come il futuro che avanza in Cosa Nostra. Si citano a memoria le frasi del giudice Falcone come al catechismo. Una fra le più gettonate: follow the money, segui i soldi. Ma quante indagini sul grande riciclaggio di denaro sono partite negli ultimi anni? Se le contiamo, forse non arrivano alle dita di una mano. Il “luogo della strage” - Cosa è oggi il sistema criminale italiano? È quello dei poteri apertamente illegali o piuttosto quello dei poteri legali che si muovono illegalmente e naturalmente in combutta con le mafie? Chissà, che ne direbbe Falcone se fosse ancora fra noi. L’ultima volta che sono andato sul “luogo della strage” è stato quattro anni fa, per l’anniversario del quarto di secolo. Sono tornato sul cratere, dove il 23 maggio c’era l’inferno e dove - là sopra, sulla collina - c’è ancora il casotto dell’acquedotto dove Brusca era appostato con il radiocomando. Sotto, da una parte, c’è il giardino della memoria che ha voluto Tina Montinaro, la moglie di Antonio, uno degli angeli custodi di Falcone. Dall’altra parte invece c’è un piccolo villaggio costruito proprio ai margini del cratere, una trentina di villette color pastello attraversate da stradine che portano il nome dei poliziotti e dei magistrati uccisi a Palermo. L’area sulla quale sorge il villaggio faceva parte di un’operazione immobiliare citata nella relazione prefettizia che, nel 2012, ha portato allo scioglimento per mafia del comune di Isola delle Femmine. Fra un incrocio e l’altro gli operai del gas hanno sistemato una centrale per la distribuzione del metano, un parallelepipedo di acciaio con un’avvertenza bene in vista: “Area in cui può formarsi un’atmosfera esplosiva”. Molto sinistro. Il “luogo della strage” è a qualche passo e non è in territorio di Capaci come sempre scriviamo - e per primo io - ma in territorio di Isola delle Femmine. In alcuni atti ufficiali, dopo ventinove anni, non viene più neanche richiamata la località dove Falcone è stato assassinato. Un’altra piccola rimozione. È Capaci, per tutti. Qualcuno obietterà che è un dettaglio irrilevante. Ma cosa c’è di irrilevante in fondo a quel cratere? “Mio nonno Piersanti e quel delitto su cui non si è ancora fatta piena luce” di Davide Varì Il Dubbio, 24 maggio 2021 Il nipote di Mattarella al Festival della Giustizia Penale. Piersanti Mattarella, avvocato omonimo del presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia nel 1980, interviene al Festival della Giustizia Penale di Modena. “Sono nato 6 anni dopo la morte di mio nonno”. Comincia così il racconto di Piersanti Mattarella, avvocato omonimo del presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia nel 1980, al Festival della Giustizia Penale di Modena in corso di svolgimento online. “Come le vittime delle mafie possono contribuire all’antimafia?”, si è chiesto Mattarella. “Lo Stato ha l’obbligo di assistere le vittime, ma non è scontato che le vittime contribuiscano all’antimafia, ad esempio con la propria testimonianza. Ho subito indirettamente le conseguenze della vicenda, ho vissuto l’assenza insieme all’onere e all’onore di portare il nome di mio nonno. Far conoscere i diversi percorsi di vita, le storie e i valori delle vittime di mafia è importante: le vittime di mafia sono pilastri della storia del nostro Paese e meritano che le loro storie vengano conosciute anche dalle nuove generazioni. In quest’ottica è necessario che il familiare della vittima non sia solo un testimone, ma che riesca a dare una voce concreta al proprio vissuto familiare dentro la storia del Paese”. Mattarella ha tratteggiato allora la vita del nonno, fratello del Presidente della Repubblica, Sergio: “Fu sostenitore della dottrina sociale cattolica, entrò nella Democrazia Cristiana nei primi anni ‘60 e a soli 32 anni entrò nell’assemblea regionale siciliana e si fece notare per trasparenza e cura del bene comune. Nel 1978, a 43 anni, venne eletto alla presidenza della Regione, con l’appoggio esterno del Pci di Pio La Torre. Fu molto fermo e deciso nel mettere un freno alla speculazione edilizia approvando la legge urbanistica e tentò di fare una programmazione a lungo termine delle risorse regionali. Andò contro i centri di interessi e di potere occulti, infiltrati dalla mafia, ed ebbe la forza di prendere le distanze con la parte più marcia della Dc di quei tempi. Fece un discorso molto duro contro la mafia ricordando Peppino Impastato, e fu un seguace politico di Aldo Moro. Il nonno venne ucciso il 6 gennaio 1980: i magistrati dell’epoca trovarono un filo conduttore con l’omicidio del segretario della Dc siciliana Reina, nel 1979, e quello di Pio La Torre nel 1982. Tuttavia depistaggi, false testimonianze, sparizioni di prove e documenti portarono fuori strada. I Nar, gruppo di estrema destra, furono indagati e poi anche la mafia: secondo Giovanni Falcone Piersanti Mattarella sarebbe stato ucciso perché la sua azione di rinnovamento confliggeva con Cosa Nostra e soprattutto con i corleonesi, che si servirono dell’intervento dei terroristi di destra”. Anche il finale è didascalico, quanto amaro: “Il processo si è chiuso con la condanna dei mandanti corleonesi, ma ancora oggi a 41 anni dall’omicidio non si conoscono i nomi degli assassini di Piersanti Mattarella e non si è fatta ancora luce su quanto sia realmente accaduto il 6 gennaio del 1980”. Campania. Il Garante Ciambriello: “Più vaccini per far ripartire colloqui e attività” di Francesca Sabella Il Riformista, 24 maggio 2021 Se l’arrivo del Covid ha sconvolto le vite di tutti, all’interno del carcere è stato un dramma nel dramma, ma ora il vaccino consentirà ai detenuti di rincontrare i propri cari. “Carcere è l’anagramma di cercare. Cercare per ricostruire, ritrovarsi, per seguire una strada tracciata anche dalla Costituzione - afferma il garante campano dei soggetti privati della libertà personale Samuele Ciambriello - Mai privare il detenuto del diritto a ricominciare. Mai privarlo del diritto alla salute, alla protezione del Covid. Paura e solitudine, mancanza di relazioni, di trattamento, di attività, di presenza di volontari in questo tempo di pandemia, hanno reso la pena ben più afflittiva rispetto a quella già normalmente sofferta”. Intanto la vaccinazione di agenti, personale e detenuti sta consentendo la ripresa di una vita che era ferma. La massiccia e responsabile adesione alla campagna di vaccinazione dei detenuti campani sta portando a una normalizzazione di attività e progetti di inclusione sociale. L’ultima relazione del garante riferisce di 3.799 detenuti vaccinati in Campania su una popolazione carceraria di 6. 554 persone. In questi mesi sono stati vaccinati anche i ristretti nelle carceri minorili di Airola e Nisida (28 vaccinati complessivamente) e nelle due Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di Calvi Risorta e San Nicola Baronia (33 internati complessivamente). Nel carcere di Poggioreale, invece, sono stati 584 detenuti ad aver ricevuto il vaccino su un totale di 2125 reclusi, mentre a Secondigliano su popolazione di 1.166 ristretti, già 973 hanno ricevuto il siero anti-Covid. Il carcere di Poggioreale è tra i più affollati della Regione: vi è ristretto il 35% della popolazione campana. Complice l’avanzamento del piano vaccinale e l’allentamento delle misure restrittive imposte dal Governo, il garante ha comunicato che sono ripresi i colloqui nelle carceri campane e a giorni ci saranno anche delle linee guida da parte del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per evitare che si ritorni alla “normalità” in modo disomogeneo. “A Poggioreale - sottolinea Ciambriello - dal primo giugno l’ingresso sarà garantito a un massimo di tre persone (comprensivo di minori) e l’esecuzione delle videochiamate sarà garantito esclusivamente ai detenuti in quarantena, ovvero risultati positivi al Covid, e laddove il familiare sia impossibilitato a spostarsi”. Questo, però, non vuol dire abbassare la guardia e dare vita a un via libera. “Visti i casi ancora di contagio occorre continuare ad adottare misure di prevenzione e distanziamento fisico - afferma Ciambriello - mi auguro che anche familiari e parenti aderiscano alla campagna di vaccinazione. È un obbligo morale farlo”. Il Garante torna poi sulla questione del sovraffollamento carcerario, un problema che affligge i penitenziari di tutto il Paese, senza eccezioni per quelli campani: a fronte di una capienza regolamentare di 6.156 persone, nelle quindici carceri della Regione si registrano 6.329 reclusi, di cui 2.349 in attesa di giudizio. “Bisogna superare il populismo sociale e penale - conclude Ciambriello - perché il sovraffollamento di tante carceri italiane e in primis di Poggioreale, rischia di essere una pena accessoria che offende il diritto e la dignità umana”. Torino. Si impicca nel Cpr il migrante aggredito a Ventimiglia: “Perché mi hanno rinchiuso?” di Michela Bompani e Cristina Palazzo La Repubblica, 24 maggio 2021 Irregolarmente in Italia, era stato picchiato selvaggiamente da tre uomini con bastoni e spranghe, il video aveva fatto il giro della Rete: ma dopo essere stato dimesso dall’ospedale era stato portato al centro di permanenza per il rimpatrio di Torino. Si è impiccato con le lenzuola del suo letto. “Io non riesco più a stare rinchiuso qui dentro: quanto manca a farmi uscire? Perché mi hanno rinchiuso? Voglio uscire: io uscirò di qui”, sono le ultime parole che Musa Balde, 23 anni, originario della Guinea, ha detto al suo avvocato, Gianluca Vitale, venerdì scorso, nel Cpr, centro di permanenza per il rimpatrio, di corso Brunelleschi a Torino. Sabato notte, Musa si è tolto la vita, nella sua stanza nel cosiddetto “ospedaletto”, dopo due settimane di isolamento sanitario. Per impiccarsi ha usato l’unica cosa che aveva a disposizione, le lenzuola del suo letto: le ha avvolte a una struttura della stanza da bagno. Musa voleva uscire perché non capiva la sua prigionia, essendo vittima di violenza. Il video che lo ritrae rannicchiato a terra, sotto le sprangate feroci di tre aggressori italiani, a Ventimiglia, aveva fatto il giro del web. I tre sono stati denunciati per lesioni aggravate, ma la polizia aveva velocemente escluso l’aggravante razziale. Nei mesi scorsi nei confronti di Musa, che aveva alcuni precedenti, era stato emesso un decreto di espulsione e poiché ancora irregolare è stato trasferito nel Cpr di Torino, dove è arrivato il 10 maggio, giorno successivo al pestaggio e dopo essere stato dimesso dall’ospedale di Bordighera con una prognosi di dieci giorni. Ieri mattina, gli operatori del centro, che non avevano notato nulla di strano nel comportamento del ragazzo, sono stati i primi a trovare Musa senza vita. Sul fatto indaga la squadra mobile di Torino. Le condizioni psicologiche del giovane, invece, come denuncia il suo avvocato, erano preoccupanti: “L’ho incontrato due volte, giovedì e venerdì scorso - spiega Vitale - era molto provato ed era incredulo di trovarsi nel Cpr. Gli ho mostrato il video dell’aggressione, lui mi ha spiegato di essere stato picchiato mentre stava chiedendo l’elemosina. Però finora è stata divulgata solo la versione degli aggressori, che denunciano un tentato furto di un cellulare. Quello che è sicuro è che non ha avuto assistenza psicologica adeguata, era palesemente molto provato. Gli sono state fatte firmare tante carte sulla sua espulsione, ma nessun atto riguardo alla violenza di cui è stato vittima. Non si dava pace di essere chiuso nel Cpr, non sopportava la reclusione”. A confermare la drammatica situazione in cui si trovava il ragazzo è Monica Gallo, garante per i detenuti del Comune di Torino e referente per il monitoraggio delle condizioni delle persone accolte nel Cpr di corso Brunelleschi: lo doveva incontrare domani e aveva già sottoposto il caso al garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personali, Mauro Palma. “Musa era estremamente vulnerabile, sono addolorata - dice Gallo - Non ho ancora visto le carte, non so quante visite psicologiche e psichiatriche abbia ricevuto, ma quel caso doveva avere la massima attenzione, avevo sollecitato su questo la direzione del Cpr. Avevo contattato l’area migranti del garante nazionale proprio per capire gli aspetti cui porre più attenzione: da un punto di vista giuridico, Musa era la parte offesa di un procedimento penale”. E l’avvocato: “Adesso sto cercando di contattare i familiari in Guinea, potranno istruire azioni legali e difenderlo”. E rimane l’immagine degli ultimi istanti del video del pestaggio: Musa è riverso a terra, i tre picchiatori fuggono e la voce di una donna si chiede, più volte, sempre più flebile, “Ma perché?” Augusta (Sr). Detenuto nisseno trovato morto in carcere, disposta l’autopsia La Sicilia, 24 maggio 2021 La Procura di Siracusa ha avviato una inchiesta, dando incarico a un medico legale di Catania di effettuare l’autopsia sul cadavere di Emanuele Puzzanghera, 40 anni, di Caltanissetta, che si è tolto la vita nei giorni scorsi. Un episodio che presenta ancora diversi lati oscuri e sul quale la magistratura aretusea ha deciso di fare chiarezza, disponendo l’esame autoptico sul cadavere del detenuto originario di Caltanissetta. Puzzanghera stava scontando in carcere una condanna per fatti che gli erano contestati diversi anni fa. Emanuele Puzzanghera, dopo gli arresti per spaccio di stupefacenti subiti in passato, ha scelto di cambiare vita e ha per un certo periodo ha pure deciso di collaborare con la giustizia, rivelando agli inquirenti dettagli sul traffico di droga a Caltanissetta e anche particolari appresi in carcere da alcuni boss mafiosi, i quali volevano organizzare attentati dell’ex presidente della Regione e sindaco di Gela, Rosario Crocetta e del giudice, attuale consigliere della Corte d’Appello, Giovanbattista Tona. Padova. Garante dei detenuti, ecco le regole da rispettare di Alberto Rodighiero Il Gazzettino, 24 maggio 2021 L’amministrazione comunale mette i suoi “paletti” all’attività del Garante dei detenuti. Non è, dunque, rimasta senza conseguenze la polemica che ha accompagnato la nomina a garante - arrivata alla terza votazione del consiglio comunale - di Antonio Bincoletto. Polemica che ha visto particolarmente attivo su questo fronte il consigliere della lista Giordani Luigi Tarzia. “Sarebbe servita più partecipazione e più moderazione nella scelta di questa figura - aveva tuonato, infatti, Tarzia al momento del voto - Con questo provvedimento andiamo a penalizzare chi meritava di più. Il confronto con le associazioni che lavorano in carcere lo fa fatto solamente Coalizione. Il Garante avrebbe dovuto essere equidistante tra la direzione carceraria e le associazioni. Così, purtroppo, non è”. Parole, quelle dell’esponente della lista Giordani che, evidentemente, non sono cadute nel vuoto. Martedì scorso, infatti, la giunta ha dato il via libera al “Disciplinare sulle azioni, funzioni e organizzazione dell’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale”, che va a normare anche il rapporto tra questa figura e le associazioni. “Il Garante - si legge nel testo - evita di partecipare attivamente e di assumere incarichi presso associazioni, circoli o altri organismi, ove possano derivarne obblighi, vincoli o aspettative tali da poter pregiudicare l’imparzialità di comportamento nello svolgimento delle attività istituzionali o delle prestazioni lavorative”. Anche se non vengono citate esplicitamente le associazioni che si occupano di detenuti, è del tutto evidente che le realtà a cui si rivolge il dispositivo sono esattamente quelle. Con questa disposizione si vuole, dunque, evitare che la figura designata dal parlamentino di palazzo Moroni sia eccessivamente sbilanciata rispetto all’associazionismo che si occupa del mondo carcerario. Nel disciplinare si consiglia, poi, a Bincoletto una certa sobrietà per quel che riguarda l’utilizzo dei social network. “Il Garante - si spiega ancora nel documento - si astiene dal rendere pubbliche con qualsiasi mezzo, compresi il web o i social network, i blog o i forum, commenti, informazioni e/o foto/video/audio che possano ledere l’immagine del Garante, l’onorabilità dei colleghi, nonché la dignità e la riservatezza rispetto alla sua funzione”. “L’ufficio del Garante è gratuito - si spiega - Al Garante può essere riconosciuto esclusivamente il rimborso di spese documentate nel limite massimo da determinarsi con deliberazione della Giunta comunale” Quanto alle competenze di questa figura, “il garante dovrà diffondere e promuovere una cultura dei diritti delle persone sottoposte a limitazioni o a misure restrittive della libertà personale, nella prospettiva costituzionale della rieducazione, del recupero e del reinserimento sociale e segnalare e raccomandare azioni normative e legislative a favore dei diritti di tali persone”. Napoli. La crisi delle istituzioni mette in moto la giustizia fai da te di Salvatore Prisco Il Riformista, 24 maggio 2021 Dopo il linciaggio di un uomo a Scampia. Questo giornale ha dato, in pochi mesi, due notizie di cronaca: in un caso, un giovane extracomunitario sospettato di furti è stato preso letteralmente “a mazzate” con bastoni da una folla inferocita; da poco analoga sorte è toccata a un uomo, che si diceva avere abusato di nipoti minorenni. Percosso da un gruppo di residenti che voleva impartirgli una lezione, rovesciato in un cassonetto dell’immondizia, ne è riemerso preannunciando querela per diffamazione verso chi avrebbe propalato contro di lui notizie turpi; intanto nel quartiere non può tornare. Qui non si parlerà dei seguiti giudiziari di tali episodi, per i quali ci sono riti, tempi, organi e luoghi deputati, ma si formulerà un ragionamento generale. Una comunità è civile se, tra l’altro, affida a indagini e decisioni di apposite autorità la tutela della sua sicurezza (punizione di colpevoli, assoluzione e risarcimento di innocenti). Diversamente, si tornerebbe all’homo homini lupus di hobbesiana memoria. Alla base di una corretta convivenza c’è un patto di reciproca fiducia tra chi deve reggere una società e chi accetta di farsene guidare, chiamando chi comanda e controlla a farlo rispettivamente in forma elettiva o dopo un vaglio concorsuale di competenza. Si chiama divisione dei poteri, dicono i classici del costituzionalismo e del pensiero politico. A Napoli - e, quanto ai magistrati, nell’intero Paese - questi presupposti non ci sono purtroppo più. Il vaso di Pandora delle contiguità imbarazzanti tra certi politici e alcuni aspiranti a dirigere prestigiose Procure è stato scoperchiato. Il Sistema, titolo del libro di successo scritto dal direttore di un famoso quotidiano e da un ex potentissimo pubblico accusatore manovriero, cacciato dalla sua corporazione bisognosa di rifarsi una verginità, è messo a nudo. Nessun addebito può muoversi al procuratore capo della città, però il problema è un altro: mentre un ex pubblico ministero, dopo dieci anni di mandato amministrativo la cui brillantezza ognuno può giudicare da solo, cerca ventura altrove, non potendo essere rieletto, un altro (stavolta su un fronte politico locale opposto) ha alimentato per mesi un segreto di Pulcinella: è stato “uno e bino” e, prima di chiedere l’aspettativa, si è chiesto se indossare la toga che si addice alla funzione da lui svolta per anni o immergersi nelle incombenze propagandistiche di quella che spera di esercitare domani. Quanto al centrosinistra, un illustre già ministro e rettore della più antica delle sue università, constatato il disastro dei conti pubblici, inorridisce all’offerta di essere il prossimo sindaco. Onore alla serietà, anche se un bravo vignettista gli ricorda che, per sapere che il capoluogo della Campania non è Zurigo, non ci voleva la sfera di cristallo. In disparte, la pupilla del primo cittadino uscente si scalda da mesi per raccoglierne il testimone e l’Antico Compagno Ripudiato dai suoi medita (redivivo conte di Montecristo) la rivincita. Napoli è insomma sgovernata, tra un passato che non muore e un futuro che non nasce. Ovvio (tra la camorra e i chiari di luna degli umori populisti che si agitano da tempo nel dibattito politico) che qualcuno si faccia assieme legislatore giudice e comminatore della pena, solo per poco non essendoci scappato il morto. L’unica speranza è affidarsi a Rossella O’Hara: “Domani è un altro giorno”. Nel frattempo (insegna il nostro grande Nume) “adda passa’ ‘a nuttata”. Roma. Cinque detenuti diventano arbitri dell’Us Acli farebene.info, 24 maggio 2021 Cinque detenuti ospiti dell’Isola solidale hanno ricevuto l’attestato per aver partecipato al corso per arbitri di calcio promosso dall’Us Acli di Roma. L’Isola Solidale è una struttura che ospita persone che hanno commesso reati per i quali sono state condannate, che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunte a fine pena, si ritrovano prive di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica. L’iniziativa dell’Us Acli è stata realizzata nel quadro del progetto “Lo sport generAttore di comunità” finanziato dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Il corso, avviato nel 2019 e poi interrotto a causa della pandemia, è stato tenuto dal responsabile della formazione arbitrale calcio dell’Us Acli di Roma Francesco Paone e ha previsto 13 lezioni e un esame finale, orale e scritto. I partecipanti hanno anche effettuato delle prove pratiche, dirigendo gare di calcio a 5, calcio a 8 e calcio a 11. “I nostri ospiti - ha spiegato il presidente dell’Isola Solidale Andrea Valeriani - hanno avuto la possibilità di mettersi in gioco e muovere nuovamente i primi passi all’interno di una società dalla quale, a causa della detenzione, rischiano troppo spesso di rimanere esclusi. Iniziative come questa sono fondamentali per abbattere barriere e pregiudizi”. Bologna. Carceri, il 5 giugno maratona oratoria con il cardinale Zuppi ansa.it, 24 maggio 2021 L’evento della Camera penale dal vivo e in streaming dalla Dozza. Una maratona oratoria dal titolo “Umanità, dignità, eccezionalità: il carcere e la pena” è organizzata dalla Camera penale di Bologna per il 5 giugno, dalle 9.30 alle 13.30, davanti al Carcere della Dozza in via del Gomito. L’iniziativa avrà la collaborazione di Radio Radicale ed è previsto un intervento del cardinale Matteo Zuppi. Si alterneranno avvocati, magistrati, accademici, esponenti della società civile, della politica e delle istituzioni Gli ospiti prenderanno la parola dal vivo in presenza o attraverso un contributo registrato audio-video che sarà trasmesso durante la manifestazione. Chi vorrà partecipare dal vivo, informa la Camera penale, potrà preannunciare l’orario approssimativo di arrivo alla postazione dandone previa comunicazione mail alla segreteria dell’evento. Chi preferisse registrare il proprio intervento audio-video (preferibilmente non oltre i 3 minuti di durata) provvederà ad inviarlo via mail. Lo scopo dell’iniziativa è quello di creare un ponte ideale di parole e pensieri verso chi vive “al di là del muro” la realtà quotidiana del carcere. L’evento sarà trasmesso in diretta attraverso i canali Youtube della Camera Penale di Bologna ‘Franco Bricola’ e le antenne di Radio Radicale: questo consentirà a tutti i detenuti di seguire la Maratona che avrà diffusione nazionale. Lidia Ravera: “Ai pensionati degli Anni di piombo dovremmo dire: Avanti, parlate” di Maria Luisa Agnese Corriere della Sera, 24 maggio 2021 Nel nuovo romanzo della scrittrice, ex ragazza del ‘68, fa i conti con una stagione di violenza. “L’età avanzata è un momento in cui puoi essere autentico, hai la giusta distanza per ricostruire”. “Per me il Novecento non è ancora finito. È da quarant’anni che vivo fra le macerie di quello che avrebbe potuto essere e non è stato”. Giovanna è una donna tormentata che ha vissuto la gioventù dalla parte sbagliata della storia, negli anni Settanta, e ora vive la sua vita con la stessa accorta prudenza di una clandestina, anche se clandestina non lo è più, negandosi al mondo. Ha pagato il suo debito con la Giustizia, anche se non ha mai ucciso, ma la sua anima non riesce a perdonarsi. Proprio quando, grazie agli estradati di Francia, si torna a parlare di verità sugli Anni di piombo, arriva in libreria “Avanti, parla”, trentesimo romanzo di Lidia Ravera, scrittrice e ragazza del ‘68 che dei fasti, i tormenti e le colpe della generazione nata nel dopoguerra si è fatta interprete attraverso la lente addomesticata della letteratura. Siamo al bilancio dei baby boomer, la generazione che ha inventato la libertà e la gioventù, che ha marciato nel ‘68, ha ballato e cantato a Woodstock nel ‘69 e poi ha portato il peso e le corresponsabilità, dirette o indirette, della violenza dei 70. E Lidia Ravera negli anni si è fatta interprete di “questa autobiografia collettiva”. Dal primo romanzo “Porci con le ali”, una love story generazionale di folgorante successo che ha venduto tre milioni di copie, fino a “La festa è finita” e alla trilogia sulla vecchiaia: “Piangi pure”, “Gli Scaduti”, “Terzo Tempo”. “Lo strumento della letteratura è l’unico che so usare ed è anche l’unico che voglio usare, perché la letteratura è il territorio della sospensione del giudizio, la letteratura evoca, non giudica, E attraverso l’identificazione sperimenta l’empatia. Per capire, e raccontare. Ora questo libro che completa il cerchio... “Volevo andare a vedere come se la cava col suo passato una donna della mia età che ha un trascorso più pesante del mio perché già noi, con un passato più leggero ma formate in quegli anni, abbiamo avuto qualche problema ad invecchiare... Non certo per le rughe, chi se ne frega, ma perché abbiamo idolatrato la giovinezza, abbiamo scritto che la giovinezza era ontologicamente rivoluzionaria... e abbiamo costruito, parallelamente, una caricatura di età adulta, senza spessore, senza qualità, per poter scappare di casa e sbattere la porta. Questo mio ultimo libro racconta un decennio molto particolare ricordato come anni di piombo, ma che fu quello e anche tutt’altro, è stato un po’ tutto e il contrario di tutto. Gli anni Settanta sono stati anche quelli in cui la nostra società si è svecchiata, è cambiato molto, dal diritto di famiglia al divorzio all’interruzione di gravidanza, insomma è stato un decennio molto più ricco di sfumature di quanto non venga normalmente ricordato. Sono stati anni di gioia e di noia, di piombo e di velluto, di grandi conquiste civili e di piccole sconfitte personali”. E soprattutto c’è stato da fare i conti con la Violenza... “Sì, sono stati anni molto particolari, la violenza era nell’aria. Io non ho mai torto un’aluccia a una mosca, il massimo della violenza immaginata era saltare le transenne al concerto dei Led Zeppelin, però mi ricordo di essermi sintonizzata con certi cori, certe frasi tipo “Per i fascisti non basta una sfilata prognosi, prognosi riservata”, di cui, oggi, mi vergogno. A diciannove, vent’anni non lo capisci davvero che cos’è, la violenza. Dopo si, quando hai vissuto e sai che cos’è il dolore. C’è un gran bisogno di chiarezza nel terzo tempo della vita. E la scrittura è uno strumento d’indagine: ti metti nei panni di un personaggio e incominci a pensare come lui/lei, entri nella sua anima e nel suo corpo... Mi sono chiesta: com’è ripensare ai propri vent’anni per una che a 20 anni ha fatto degli errori così drammatici, non dei peccati veniali ma dei peccati mortali come la mia protagonista Giovanna, che non ha mai ucciso nessuno, ma questo è abbastanza inessenziale. Lei stessa, onestamente, ammette che se glielo avessero chiesto, l’avrebbe fatto. Invece evidentemente non veniva considerata una compagna sufficientemente dura da compiere l’atto in sè, però faceva tutto il resto: quindi lei non cerca di sminuire le sue colpe, anzi continua a castigarsi”. Tu prima citavi quello slogan che è sicuramente uno di quelli brutti, per quanto ce ne siano altri. Hai anche brindato alla morte del Commissario Luigi Calabresi? “Diciamo non personalmente; però nell’ambiente in cui vivevo, che era l’ambiente di Lotta Continua, è successo. Ero connivente? Ero conformista? Ero superficiale? Sono stata come molti giovanissimi dell’epoca, sconvolta dalla bomba alla Banca dell’Agricoltura. Ero convinta che Calabresi fosse responsabile della morte di Pinelli? Ora non lo sono più, ma non sono neanche convinta che Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani fossero i mandanti. Non sono disposta a mettere la mano sul fuoco su nulla a questo punto, né che Calabresi fosse responsabile di quell’orrore della morte di Pinelli, né che Pietrostefani e Sofri lo fossero di quell’altro orrore che è stato l’omicidio Calabresi. Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Soltanto di questo sono sicura, adesso. Confusamente, lo ero anche allora. Però non nego che c’era un terreno comune, fra noi, quelli de “Il pane e le rose” e loro, quelli della lotta armata: anche loro volevano cambiare il mondo, eravamo intrappolati dentro lo stesso sogno, la stessa utopia. Loro erano convinti che l’insurrezione fosse vicina e soffiavano sul fuoco per farla divampare. Noi no. Io, dentro Lotta Continua, stavo in modo molto marginale, scrivevo un giornalino che si chiamava, appunto, “Il pane e le rose”, che era una specie di nuovo umanesimo rosé, nemmeno troppo rosso, dove si discuteva di libertà sessuale e musica pop e femminismo. Le femministe furono le prime a esprimere una critica radicale di certi comportamenti. Lotta Continua fu spaccata proprio dall’onda montante del femminismo: c’era uno slogan, all’epoca, che ripeterei anche adesso “a sinistra in piazza a destra nel letto”, che in una frase diceva tutto di certe incongruenze e di certe resistenze del vecchio, che minavano la voglia di cambiare. Io, che nel 68 ero una adolescente, me le ricordo bene”. Come hai detto tu c’era un clima... “C’era un clima che non giustifica, però fa capire. Chi è nato dopo, chi all’epoca era un bambino non lo sa. Ed è difficile spiegare. Io ho cercato di raccontare questa estraneità mettendo la mia protagonista in relazione con Michele Maria Malcolm e Malvina, una famiglia composta tutta di figli, gente giovane (lei li definisce beniamini degli dei) che viene ad abitare nell’appartamento accanto... È attraverso di loro, una bambina di 3 anni e un ragazzo di 13, che la vita ricomincia a scorrere anche per Giovanna. Lei ha scelto il silenzio: ma è davvero possibile finché sei viva? Ha scelto il silenzio per non dover mentire. Vive come un eremita e questo appare come una patologia. Oggi nessuno sceglie il silenzio. O la solitudine. È una patologia che peraltro ho visto poco diffusa fra i brigatisti che hanno scritto libri di racconti e autobiografie dove non mi pare che circoli molto questo atteggiamento di espiazione, di pentimento, di revisione critica di quello che hanno fatto da giovani. Uno solo si stacca dagli altri, Enrico Fenzi, un uomo colto che ha scritto Armi e bagagli sulla sua esperienza. È un libro molto interessante dove Fenzi, qua e là, coraggiosamente, sembra anche alludere alla stupidità dell’insieme”. Anche il presidente Mattarella chiede verità su quegli anni, per ricostruire la storia del nostro Paese... “Si, questo sarebbe bello: fare chiarezza, a cominciare da chi ha messo le bombe alla Banca dell’Agricoltura nel 1969, tutto incomincia lì, io me lo ricordo, ero al liceo, è stata veramente la perdita dell’innocenza e anche la perdita della fiducia nello Stato, il che è molto pesante sul piano personale, è come vedere tuo padre che scivola su una buccia di banana, appena sei sgusciata fuori dall’infanzia. E poi tutti gli insabbiamenti, tutte le false piste, tutti i vari ballerini o i ferrovieri presi a capro espiatorio... Quindi sì, magari riuscissimo, con l’igiene determinata dalla distanza, a fare chiarezza su tutto. A tanti dovremmo dire: “Avanti, parla”. Anche ai militanti della lotta armata estradati da Parigi in Italia, tutte persone intorno ai 70 quando non 80 anni. Parlassero, facendosi forti dell’età avanzata, che è un momento della vita in cui finalmente puoi essere autentico, e non hai bisogno di vederti riflesso negli occhi degli altri per capire chi sei, sarebbe bene che ciascuno facesse uno sforzo per dire, per spiegare, per ricostruire”. Se tutti i pensionati di piombo parlassero... “Si, uno sforzo dovrebbero farlo, ma allora dovrebbe esserci un clima diverso, un clima di generale desiderio di ricomporre una fotografia il più possibile obiettiva di quell’epoca. Dopo 50 anni quando ti guardi indietro capisci chi eri, com’era il mondo e gli sbagli che hai fatto tu e gli sbagli che hanno fatto gli altri. Lo capisci perché hai la distanza giusta per vedere interamente la scena che, quando c’eri dentro, vedevi soltanto per particolari. Nel terzo tempo della vita sei come immerso in un romanzo dell’Ottocento, quando gli scrittori volavano sopra la terra e vedevano tutto dall’alto. Paesaggi coerenti. Dal Novecento in avanti siamo tutti limitati dal nostro punto di vista. Io ho scelto quello di Giovanna e della sua amica, Laura, mi sono sdoppiata. Giovanna e Laura, fin da quando erano ragazzine, sono il giorno e la notte: una ama Dostoevskij e i Rolling Stones (Giovanna, io). L’altra i Beatles e Tolstoj. Le divide la politica. Le ricompone la letteratura: a tutte e due piace Joyce”. I Rolling Stones e i Beatles, vera discriminante generazionale fra due tipi di gioventù. E ora hai cambiato idea? “Sono sempre per i Rolling Stones e Dostoevskij, ma ho fatto posto a Tolstoj. Con il tempo si diventa più inclusivi. Resta: I Can’t Get No Satisfaction... Un verso che mi rappresenta perfettamente. Anche a distanza di 40 anni?”. Vaccini, il dovere di salvare il mondo di Ezio Mauro La Repubblica, 24 maggio 2021 Il gap tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri si supera con un’inversione culturale rispetto alla stagione dei nazionalismi, degli egoismi, dei particolarismi. Per attaccare il virus bisogna immunizzare il mondo, come ha detto Draghi, e al più presto. Dovevamo capire che nell’era della mondializzazione anche il Male - che è il riflesso dell’opera umana - avrebbe agito su scala globale, adottando le nostre stesse misure, inseguendoci nella superficie e nei volumi su cui estendevamo via via la nostra potestà, ricalcolando la proporzione tra gli spazi di offesa e difesa. In ritardo oggi prendiamo atto che prima di noi, delle nostre faticose proiezioni istituzionali, delle nostre organizzazioni internazionali, il virus ha già unificato il mondo nella paura, cortocircuitando la storia e la geografia con il contagio, e sottoponendolo alla stessa minaccia di morte. È saltata l’ultima illusione modernista, che ci spingeva a guardare alle pandemie come a morbi relegati nell’antichità e nella povertà, e di conseguenza ci faceva sentire protetti dallo scudo del progresso, della scienza, della medicina, appannaggio del Primo Mondo in cui viviamo. Un sistema che sembrava inattaccabile come una fortezza: noi produciamo il benessere che consumiamo, e il ricavato di questo benessere ci tutela e ci garantisce. Fino a un anno fa. Penetrando in questo equilibrio, infatti, il Covid ha azzerato le nostre pretese di invulnerabilità e ha annullato la falsa equivalenza tra privilegio e immunità. Ci siamo trovati tutti esposti, tutti candidati, tutti possibili bersagli, semplicemente per la nostra natura di esseri viventi, organismi di cui il virus ha bisogno per svolgere il mandato genetico impresso nel suo Dna, infettare per riprodursi, moltiplicarsi e assicurare la continuità della specie. Non avevamo mai conosciuto una minaccia così totale, che riguarda l’umanità nel suo insieme, a qualsiasi latitudine, come se il divenire del mondo avesse interrotto il suo transito. È la totalità di un assedio che non ha vie di fuga, prevede una sola distinzione, tra i condannati e i salvati, come un giudizio universale anticipato. Poi è arrivato il vaccino, che ci ha permesso di uscire dalle case dove ci eravamo rifugiati, ha ripopolato il vuoto che avevamo aperto come unica difesa davanti all’avanzare dell’epidemia, ha ricostruito lo spazio sociale che il contagio era riuscito a occupare, disgregandolo. Appena rialziamo la testa, oggi, dobbiamo fare il conto con le nostre diversità che riemergono e c’interpellano, dopo i mesi del lockdown in cui eravamo tutti precipitati sentendoci uguali, anche nel primitivismo delle uniche armi di difesa, la distanza, la maschera, le mani lavate continuamente. Adesso si riaffacciano le distinzioni: tra chi è vaccinato e chi no, tra chi è fragile e chi invece deve aspettare il turno dell’età, tra i giovani che d’estate e in vacanza rischiano di diventare una categoria esposta, e gli anziani protetti per primi. Ma tutto questo, che pure ci riguarda da vicino, è una parte del problema. Perché attorno a noi c’è il mondo, interamente attaccato dal virus. E quel mondo sembra uguale soltanto sotto l’attacco della pandemia, quando è inerme e indifeso. Appena comincia la fase di recupero, si intravvede una via d’uscita e ritorna la speranza, il mondo si divide, perché ritornano immediatamente le differenze, incolmabili. Il Primo Mondo è riuscito a concentrare lo sforzo del progresso sul vaccino: lo ha trovato (a tempo di record), lo ha prodotto, lo distribuisce a se stesso, introiettandolo. Dunque forse si sta salvando. Ma proprio qui, proprio a questo punto, nasce una domanda: può salvarsi da solo, consumando il suo privilegio anche davanti a un fenomeno mondiale come la pandemia? Il primo dato a consuntivo del rimedio vaccinale, richiamato dal capo del governo italiano Draghi e dalla presidente della commissione europea von der Leyen a Roma durante il Global Health Summit, è impressionante. Per immunizzare tutta la terra, bisognerebbe vaccinare sette miliardi di persone, una quantità impossibile da raggiungere: ma oggi sul miliardo e 625 milioni di dosi somministrate in 186 Stati, l’85 per cento è finito agli abitanti dei Paesi più ricchi, e soltanto lo 0,3 per cento è stato destinato ai Paesi poveri. Uno squilibrio confermato dalle analisi di dettaglio: la prima dose (o la monodose) nel mondo è arrivata a 748 milioni di persone, il 9,6 per cento della popolazione, la seconda dose al 5,31 per cento, cioè 383 milioni di cittadini. Nella classifica totale della distribuzione l’Italia è all’ottavo posto coi suoi 30 milioni di dosi, e passa al ventunesimo nel calcolo delle dosi somministrate in rapporto alla popolazione, col 49,57 per cento rispetto al 121,9 di Israele, al 120,7 degli Emirati Arabi, al 90,35 del Cile, all’87,1 del Regno Unito. Ma il resto del mondo? Scopriamo che il Brasile è a quota 26,6, l’Albania a 24,4, l’Argentina a 23,8, la Bulgaria al 18, la Colombia al 15, l’India al 13,6, la Bolivia all’11, l’Ecuador al 9,7, la Malesia al 7,55, Cuba al 6,53, la Tunisia al 5,70, le Filippine al 3,39, il Ghana al 2,74, la Guinea all’1,8, la Nigeria allo 0,92, il Sudan allo 0,66, l’Algeria allo 0,17. Se la Cina distribuisce 10 mila dosi per milione di abitanti, la Grecia 8.600 e l’Italia 7.900, l’Uzbekistan scende a 780, dieci volte di meno, la Libia a 669, l’Armenia a 411, il Bangladesh a 230, l’Etiopia a 129, il Kenya a 47, il Rwanda a 6. Dunque il mondo si unifica nella paura, si separa nella fiducia. L’autorizzazione a sperare sembra valere soltanto per la zona del benessere, dove sono concentrate la ricerca, la tecnologia e il sapere, come se quest’area avanzata del pianeta fosse legittimata a usufruire in monopolio dello sviluppo che produce. Ma proprio la natura globale dell’attacco virale cancella l’idea che sia venuto meno il vincolo d’interdipendenza tra la parte ricca e la parte disperata del mondo, e che la partita della salvezza si possa quindi giocare tutta e soltanto dentro il recinto protetto della prosperità, trasformando il vaccino in un moltiplicatore delle disuguaglianze. La metodica stessa del contagio, che affida all’uomo infettato il compito della trasmissione virale, abbatte le divisioni artificiali tra il Primo Mondo e gli altri, nella falsa convinzione che si possa raggiungere l’esclusiva della salvezza. È vero il contrario, per un problema morale e per un calcolo strategico: questo squilibrio politico rivelato dalle cifre non può reggere, e la stessa sicurezza dei Paesi più ricchi resterà minacciata dall’azione del Covid anche dopo una vaccinazione di massa se il vaccino non raggiungerà le popolazioni dei Paesi più poveri e più esposti, condannandole ad essere riserve permanenti e attive di riproduzione del virus, e strumenti potenziali di contagio. Come si supera il gap economico, tecnologico, di conoscenza tra i due mondi? Trasferendo il know how, aumentando la produzione dei vaccini, rendendo le licenze obbligatorie, minacciando Big Pharma di una sospensione dei brevetti per arrivare a una distribuzione massiccia dei rimedi a prezzo di costo, incentivando donazioni e aiuti da parte dei Paesi ricchi, eliminando il blocco all’export dei componenti vaccinali negli Usa e nel Regno Unito. Ma soprattutto con un’inversione culturale, rispetto alla stagione dei nazionalismi, degli egoismi, dei particolarismi. Combattere un assedio pandemico nel chiuso del recinto di casa è illusorio, o meglio è solo l’inizio, un’operazione di difesa: per attaccare il virus bisogna uscire, “vaccinare il mondo - come ha detto Draghi - e al più presto”. La sfida va giocata a livello planetario, con manovre continentali, intese internazionali, organizzazioni sovranazionali. All’universale si risponde solo con l’universale. Finisce l’epoca che voleva privatizzare il benessere dietro i muri, riemerge la cooperazione, il tentativo di governare la globalizzazione. E mentre il sovranismo si dimostra un’ideologia fallace anche in termini di sicurezza, rispunta addirittura il concetto di solidarietà che sembrava in esilio dal nuovo secolo: e invece torna a indicare come soluzione il vincolo tra gli individui, quel legame volontario, non contrattuale ma naturale, che sta a metà strada tra la libertà e l’uguaglianza. Rosy Bindi: “Il Pd abbia più coraggio. Deve intestarsi la battaglia per la sospensione dei brevetti” di Giovanna Casadio La Repubblica, 24 maggio 2021 Nei giorni scorsi il premier Draghi al G20 ha proposto lo stop al diritto esclusivo delle aziende produttrici del farmaco immunizzante. L’ex ministra della Salute: “Nessun interesse privato può frapporsi alla produzione e alla disponibilità di un bene comune, che è l’unica strada per assicurare la salute di tutti”. “Il Pd dovrebbe avere più coraggio e intestarsi la battaglia per la sospensione dei brevetti sui vaccini. Ora poi, ci saranno risorse importanti per la sanità nel Pnrr: serviranno anche se aumenterà il fondo sanitario nazionale. L’impreparazione del nostro sistema sanitario davanti alla pandemia, è dipesa anche dal sottofinanziamento degli ultimi vent’anni”. Rosy Bindi, ex ministra della Salute, ex presidente della commissione Antimafia, cattolica democratica, dà battaglia su vaccini e riforma della sanità. “Il sistema sanitario italiano va ricondotto a unità: 21 sistemi sanitari regionali non ne fanno uno nazionale”, denuncia. Bindi, lei ha scritto con lo scienziato Silvio Garattini una lettera-appello al premier Draghi per una moratoria temporanea dei brevetti sui vaccini, ora il governo italiano si sta impegnando in quella direzione: la strada è stata presa? “Penso che la nostra lettera abbia avuto una risposta che lascia ben sperare, anche se ci sono incertezze, non tanto in Italia ma in Europa. L’apertura del presidente Usa, Biden ha spianato la strada a una decisione giusta ma anche conveniente. Il Parlamento europeo ha fatto la sua parte e vanno ringraziati coloro che in quella sede si sono battuti”. Tuttavia il vaccino bene comune è un imperativo etico su cui Papa Bergoglio insiste, ma realizzare questo obiettivo è difficile, non crede? “Papa Francesco ha cominciato a parlare di vaccini per tutti e a tutti quando i vaccini non c’erano ancora e ha aperto la strada. Non sempre le cose giuste sono facili da realizzare, soprattutto quando per ottenerle bisogna intervenire sul sistema che è organizzato in tutt’altro modo. Non abbiamo mai avuto un atteggiamento semplicistico su questo e sappiamo quanto sia complicato arrivare alla soluzione. Non solo bisogna liberalizzare o sospendere provvisoriamente i brevetti, ma è anche necessario avere l’apparato produttivo adeguato. Sono pochi i Paesi al mondo che lo hanno e persino l’Europa si è trovata spiazzata rispetto ai vaccini più innovativi: i processi da mettere in atto sono molti per mettersi in condizione di avere un apparato industriale in grado di produrli. E la disponibilità di produrli a basso prezzo e renderli accessibili a tutti è l’altra buona notizia venuta dal summit sulla Salute del G20 a Roma”. Ma la ricerca delle aziende private va sostenuta... “Certo va sostenuta come avvenuto in questi mesi. I costi per l’innovazione che sono messi a vantaggio di tutto il mondo vanno supportati con risorse pubbliche, però…” Però? “La decisione della sospensione dei brevetti è giusta e anche, ripeto, conveniente. Nessun interesse privato può frapporsi alla produzione e alla disponibilità di un bene comune, che è l’unica strada per assicurare la salute di tutti. Questa pandemia ci ha imposto l’interdipendenza reciproca. Un virus ha fermato tutto il mondo, un vaccino può rimettere in moto tutto il mondo. Solo se tutto il mondo riparte siamo sicuri e in grado di progettare un nuovo futuro. Ma non ci dobbiamo vaccinare per tornare come prima. Dobbiamo vaccinarci, vaccinare tutto il mondo e essere in grado di cambiare il paradigma che ci ha portato fin qui e che ha prodotto questo disastro”. Concretamente? “Questo modello di sviluppo non regge. La politica e le istituzioni devono essere in grado di guidare il mercato, non di subirne la potenza. Si è scatenata una guerra commerciale persino sui vaccini. Ci sono beni comuni imprescindibili: la salute, il lavoro, l’ambiente, la cultura. Sono le priorità che riguardano il nostro stare insieme. I processi sono globali e devono essere governati globalmente. È la lezione di questa pandemia, altro che sovranismi! Ci vuole una politica in grado di orientare i processi globali”. Vorrebbe che il Pd si intestasse questa battaglia? “Il Pd dovrebbe avere più coraggio. La battaglia in Europa ha visto protagonisti gli europarlamentari dem. Ma la questione dei brevetti sui vaccini e della sanità penso qualifichi la politica di un partito in questo momento. Ci saranno risorse importanti nel Pnrr per la sanità: sono risorse per investimenti, non sono utilizzabili per la spesa corrente. Se vogliamo che quelle risorse producano gli effetti sperati, dobbiamo aumentare il fondo sanitario nazionale. L’impreparazione del nostro sistema sanitario davanti alla pandemia è dipesa anche dal sottofinanziamento degli ultimi vent’anni”. Sui brevetti per Enrico Letta sarebbe battere un colpo di sinistra come la dote ai diciottenni finanziata con la tassa di successione? “La battaglia per la tassa di successione per i grandi patrimoni da destinare ai giovani è una proposta che creerebbe più giustizia. Me ne aspetto un’altra. Oggi è l’anniversario della strage di Capaci e della morte di Giovanni Falcone, della moglie e della sua scorta: non si possono allentare le regole per gli appalti, perché questo sarebbe il più grande regalo alla mafia”. Tornando alla Sanità. Il commissario Figliuolo sui vaccini cerca di mettere in riga le Regioni, non riuscendoci... “Il sistema sanitario italiano va ricondotto all’unità: 21 sistemi sanitari regionali differenziati non fanno un sistema sanitario nazionale. Una forte regionalizzazione come la nostra ha bisogno di una forte guida sanitaria nazionale”. Migranti. Il mercato dei profughi in Europa: così gli Stati li comprano e poi li vendono di Gianfranco Schiavone Il Riformista, 24 maggio 2021 Le diversità all’interno dell’Europa per ciò che riguarda la presenza di richiedenti asilo e di rifugiati rimangono estreme: nel 2020 (dati Eurostat) il numero dei richiedenti asilo in Europa è crollato del 34% rispetto all’anno precedente (da 631mila a 416mila domande) e in Italia persino del 39,4% (smentendo ancora una volta i tradizionali luoghi comuni) ma solo 5 stati membri su 27 hanno assorbito l’80% di tutte le domande di asilo: si tratta della Germania con quasi il 25%, della Spagna con il 21%, della Francia con il 20% e della Grecia con il 9%. Chiude l’Italia con un 5.1%. Ancor più che questi dati, a confermare una situazione di squilibrio è l’analisi delle presenze di richiedenti asilo rispetto al numero di abitanti. La media europea è di solo 931 persone ogni milione di abitanti ma nella maggior parte dei paesi pressoché non c’è nessuno. Giova, per una volta, elencarli: si tratta di Romania, Irlanda, Finlandia, Danimarca, Lituania, Portogallo, Lettonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia. Chiude beffarda l’Ungheria con 9 richiedenti asilo ogni milione di abitanti. Dove si trova in tutto ciò l’Italia? Ancora una volta la percezione diffusa viene smentita, in quanto nel nostro Paese ci sono solo 355 richiedenti asilo ogni milione di abitanti: due terzi al di sotto della media europea. Al di sotto di questa media troviamo anche i Paesi Bassi, la Bulgaria e la Croazia. Ci sono molte ragioni storiche che spiegano gli squilibri sopra illustrati e certo la soluzione non è quella di forzare per decreto i tempi di cambiamenti sociali e culturali profondi, che non possono che essere progressivi. Tuttavia il cambiamento non può essere ulteriormente rinviato perché il quadro attuale rende impossibile la costruzione di un sistema unico di asilo in Europa. Chi non accoglie nessuno, infatti, difende questa posizione e vi costruisce grandi rendite di posizione politica; in particolare nei paesi (quasi) refugee-free (ma anche in tutti quelli con basso tasso di presenze) i governi agiscono con ogni mezzo a loro disposizione per rendere non attrattivo il loro paese per i rifugiati tramite azioni molto concrete quale la destrutturazione dei sistemi di accoglienza, l’inasprimento dei criteri per l’esame delle domande, la mancanza di politiche per l’inclusione sociale dei rifugiati. Il Parlamento europeo provò con determinazione nella scorsa legislatura a modificare questo quadro approvando, nel novembre 2017, una riforma del Regolamento Dublino III incardinata su due pilastri. Il primo: superare il criterio che, ancora oggi, lega la competenza all’esame della domanda di asilo al primo paese dello spazio europeo in cui il richiedente fa il suo primo ingresso. Si tratta di una nozione giuridica introdotta nel 1990, ovvero in un contesto storico del tutto diverso da quello attuale, proprio con la finalità di riequilibrare le presenze tra i paesi dell’allora CEE, ma che rapidamente si è trasformata proprio nel più micidiale dei meccanismi distorsivi. La Commissione Juncker aveva proposto di temperare questo criterio prevedendo di non applicarlo in caso di pressione migratoria sproporzionata su un dato Paese; il Parlamento europeo, con più decisione, votò per cancellarlo del tutto sostituendolo con un principio di redistribuzione vincolante, a regime, calcolato sul PIL e la popolazione dei diversi Stati. Il secondo pilastro della riforma prevedeva una forte valorizzazione dei legami significativi di un richiedente asilo con un dato paese europeo (legami famigliari allargati, precedenti soggiorni per studio e lavoro, conoscenza della lingua, presenza di sponsorizzazioni) cercando un bilanciamento tra l’obbligo per il richiedente di accettare la destinazione in un dato Paese e il rispetto dei suoi legami più importanti. Il Parlamento si scontrò con l’opposizione generalizzata degli Stati (anche di quelli che a parole si presentano favorevoli alla redistribuzione) e la riforma fallì. La redistribuzione delle presenze dei richiedenti asilo tra i diversi paesi europei è tornata al centro del dibattito politico di questi giorni, ma quali sono da parte della Commissione europea a guida von der Leyen le proposte in campo? Tentando di trovare il consenso tra posizioni spesso inconciliabili, nella sua “Proposta di Regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione” COM (2020) 610 final che sta iniziando l’esame nella commissione LIBE del Parlamento Europeo, la Commissione ha scelto di mantenere il criterio che lega la domanda di asilo al paese di primo ingresso “irregolare”, prevedendo la distribuzione tra i diversi Paesi solo in caso di pressione migratoria considerata elevata su un Paese membro. Diversamente dalla Commissione Juncker, però, quella attuale non ripropone più la definizione di una soglia di crisi oltre la quale scatterebbe la ricollocazione obbligatoria dal paese di primo ingresso. La Commissione ritiene che gli Stati possano rispettare gli obblighi di cui all’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Ue su solidarietà e ed equa distribuzione delle responsabilità in materia di asilo scegliendo all’interno di una sorta di menù composto da quattro opzioni: 1) l’effettiva ricollocazione di quote di richiedenti asilo dal Paese membro sottoposto a pressione migratoria. Da ciò, salvo deroghe, verrebbero però esclusi i richiedenti provenienti da paesi terzi il cui tasso medio di riconoscimento del diritto d’asilo è inferiore al 20%, i quali verrebbero invece bloccati nel paese di primo arrivo e lì sottoposti alla cosiddetta “procedura di frontiera”; 2) la ricollocazione di quote di stranieri che hanno già ottenuto il riconoscimento di una delle due forme della protezione internazionale (status di rifugiato o status di protezione sussidiaria); 3) la sponsorizzazione dei rimpatri dei migranti irregolari presenti in altri stati; 4) il sostegno a paesi terzi per sviluppare sistemi di asilo, ma anche per attuare politiche generali di respingimento e di contrasto dei flussi migratori. Nel caso di pressioni migratorie legate a “sbarchi a seguito di operazioni di ricerca e soccorso” i quali “generano arrivi ricorrenti” la Commissione può proporre quote di ricollocamento dei richiedenti asilo (anche vulnerabili), ma gli Stati possono accogliere questa proposta o parzialmente sottrarvisi scegliendo di elargire più fondi per potenziare il controllo dei flussi migratori nei paesi terzi. La nozione di solidarietà, quindi, si monetizza in “contributi di solidarietà”. Se l’ammontare dei contributi è nettamente inferiore a quanto stabilito dalla Commissione, la stessa invita “gli Stati membri ad adeguare il numero e, se del caso, il tipo di contributi.” Se infine, dopo un complesso meccanismo di trattative, “il numero totale e il tipo di contributi” è ancora insufficiente la Commissione adotta un “piano di esecuzione” che prevede “il numero totale di cittadini di paesi terzi da ricollocare”. Nuovamente si tratta di un vincolo alla ricollocazione solo in apparenza, perché aggirabile attraverso la scelta di una nuova erogazione finanziaria destinata al potenziamento dei controlli nei paesi terzi. Infine, solo se “dalle indicazioni fornite dagli Stati membri risulti un deficit superiore al 30% del numero totale di ricollocazioni” gli Stati saranno “tenuti a coprire il 50% della loro quota anche mediante la ricollocazione o la sponsorizzazione dei rimpatri o una combinazione di entrambi”. In questa concezione di tipo mercantile della solidarietà proposta dalla Commissione Ue gli Stati possono, di fatto, sempre evitare i ricollocamenti o ridurli a numeri risibili, mentre vengono spinti a una maggiore coesione tra loro per realizzare politiche comuni sulla esternalizzazione dell’asilo in paesi terzi e per una strategia comune di rimpatri forzati. L’obiettivo di andare verso una lenta, ma progressiva presenza dei richiedenti asilo e dei rifugiati in tutta l’Europa, correggendo le distorsioni attuali e costringendo gli stati riottosi a diventare paesi di asilo, non solo non viene dunque realizzato ma al contrario viene abbandonato. La non-riforma proposta dalla Commissione produce infatti almeno due effetti gravissimi che minano ulteriormente il fragilissimo sistema unico di asilo in Europa. Il primo è il rafforzamento delle forze politiche che galvanizzano il consenso popolare attorno alle politiche identitarie e di totale chiusura verso l’accoglienza. Il secondo, non meno paradossale, è quello di aumentare la pressione sui paesi aventi confini esterni marittimi o terrestri, tramite la scelta di bloccare in tali paesi il maggior numero possibile di richiedenti da sottoporre alla procedura di frontiera e, come tali, non soggetti alla ricollocazione. Applicando ad essi la finzione giuridica del “non ingresso”, secondo la quale i richiedenti sono presenti ma non soggiornanti nel paese di primo ingresso, verrebbero dunque inviati, anche in Italia, a campi di confinamento non dissimili a quelli che sono stati sperimentati in Grecia e lungo la rotta balcanica. In caso di esito negativo della loro domanda di asilo verrebbero infine respinti alla frontiera attingendo al fondo di solidarietà creato dalle sponsorizzazioni dei rimpatri. Non intravedo in questo cupo contesto molti margini di mediazione; nel loro complesso le proposte di riforma avanzate dalla Commissione, frutto di assoluta ed inquietante cecità politica, non possono che essere respinte perché accelerano la disgregazione dei valori fondanti dell’Unione. Medio Oriente. A Gaza con l’Onu: “Vano ricostruire se non c’è accordo Israele-Hamas” di Vincenzo Nigro La Repubblica, 24 maggio 2021 Philippe Lazzarini: “Calma illusoria se non risolviamo le cause del conflitto”. La spola degli emissari di Al Sisi per consolidare la tregua. L’Onu vuole ricostruire Gaza. Ma vuole anche che il gioco cambi, che riparta un negoziato politico fra Israele e i palestinesi. “Non dobbiamo soltanto ricostruire Gaza per l’ennesima volta. Altrimenti sarebbe ancora una follia: Gaza viene bombardata, poi si ricostruisce, viene bombardata ancora, e poi si ricostruisce ancora…”. Philippe Lazzarini è da un anno capo dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i palestinesi. Da tre giorni il diplomatico svizzero è rientrato a Gaza per capire lo stato della Striscia dopo la guerra degli 11 giorni. E soprattutto quali sono le necessità delle città e della popolazione. Ha terminato una conferenza stampa, ora parla con Repubblica al centro della base Onu, sotto un grande tendone azzurro, il colore delle Nazioni Unite. “Gaza è stata riportata indietro ancora una volta di anni. È un altro episodio insensato di violenza estrema, che ha ucciso civili, distrutto infrastrutture”. E poi ripete la parte politicamente più dura del suo messaggio: “Senza affrontare le cause profonde del conflitto, l’occupazione, i profughi, di cui abbiamo avuto un forte segnale a Gerusalemme Est e Sheikh Jarrah, senza discutere il blocco di Gaza e il continuo ciclo di violenza, questa tregua sarà solo un’illusione fino alla prossima guerra”. A Gaza la popolazione è ancora inebriata dalla fine della guerra. Le strade sono piene a ogni ora, i negozi, le bancarelle, il lungomare. “Arriverà in tutti quanti noi il momento della depressione, quando anche chi ha la casa ancora in piedi si accorgerà che siamo ancora in prigione, qui a Gaza”, dice Alì Al Masri, un piccolo imprenditore. I danni sono importanti, si aggiungono all’eterna catastrofe delle strutture, della sanità, delle scuole. Oltre 300 palazzi distrutti, fra cui mille abitazioni. Altre centinaia danneggiati. Centomila sfollati sono nelle scuole o altrove, e 600 mila studenti dovrebbero tornare a scuola. Sei ospedali e un centro medico per le emergenze danneggiati, 800mila persone non hanno acqua potabile. Tutti i “gazawi” sono anche analisti politici, e nel futuro dei giochi palestinesi per Gaza vedono solo nebbia. “Cambia tutto nel rapporto fra i movimenti palestinesi”, dice ancora Alì, “Abu Mazen e il suo Fatah sono sempre più in difficoltà, per la prima volta è stata Hamas a rispondere all’appello dei palestinesi di Gerusalemme Est. Sono loro i difensori della nostra capitale, della moschea di Al Aqsa”. Ieri sulla Spianata delle moschee è andata in scena un’altra puntata dell’eterna contesa fra ebrei e palestinesi. Vogliono il controllo di pietre, muri, edifici che sono sacri a entrambi. La polizia israeliana al mattino presto ha aperto cancello laterale di quello che gli ebrei chiamano il “Monte del tempio” per fare entrare un piccolo gruppo di fedeli. I palestinesi hanno protestato, e dal governo del moderato presidente Abu Mazen è arrivato un attacco al governo di Bibi Netanyahu: “Ancora una volta è stata una brutale e irresponsabile provocazione dei sentimenti dei musulmani”. A Gaza tutti, anche i laici, i più liberali, o quelli vicini al Fatah di Abu Mazen, aggiungono che a questo punto Hamas si è anche assegnata un posto al tavolo dei grandi, quello dove si negozierà per il futuro. “La scintilla è poco conosciuta: sono stati i poliziotti israeliani che sono entrati nella moschea di Al Aqsa il 10 maggio per staccare i fili degli altoparlanti del mufti”, dice il professor Mkaihar Abu Sada, che insegna scienze politiche all’università di Al Azhar a Gaza, quella fondata da Yasser Arafat. “In basso al muro del pianto stava per parlare il presidente israeliano Rivlin, e i poliziotti non volevano che la voce del mufti gli desse fastidio”. Da allora tutto è precipitato. Gli “esplosivi”, il rancore che cresceva fra i palestinesi da mesi, sono esplosi come una santabarbara. A che punto siamo? Uno dei risultati politici è che da giorni gli inviati del presidente egiziano Al Sisi fanno la spola, entrano a Gaza e volano a Gerusalemme per consolidare ancora meglio la tregua. L’Egitto ha fatto crescere il suo ruolo rapidamente: ha un rapporto di intesa profonda con Hamas. Il movimento negli ultimi anni ha progressivamente abbandonato (perlomeno a parole) la sua ideologia di appartenenza ai Fratelli musulmani. Il Cairo è il paese arabo che confina per un terzo con Gaza, al quale Israele non può che ricorrere di continuo in questi casi, con la supervisione degli Stati Uniti di Joe Biden. Vedremo come andranno avanti nei loro passi. Ma come dice l’uomo dell’Onu, per ricostruire Gaza bisognerà ricostruire anche un nuovo “grande gioco” del Medio Oriente. Medio Oriente. Sulla tregua Biden si è mosso sottotraccia, l’Europa divisa e assente di Marta Dassù La Repubblica, 24 maggio 2021 Il conflitto israelo-palestinese è diventato parte dei dossier “intrattabili” per la diplomazia internazionale: è lì per restare. L’ultimo conflitto israelo-palestinese dà cinque indicazioni sul futuro. Più una postilla, alquanto sconfortante, sull’impotenza europea. Prima lezione: lo scontro fra comunità ebree e palestinesi sta contagiando Israele. Non è più solo uno scontro esterno ma interno a Israele stessa. Questo cambia la natura del conflitto: si sta tornando agli attacchi diretti fra comunità ebree ed arabe precedenti alla formazione dello Stato di Israele. E si è passati nell’arco di dieci giorni dalla eventualità di un governo di coalizione israeliano che includesse per la prima volta un partito arabo, a incidenti violenti di natura etnica e religiosa che hanno coinvolto, dopo Gerusalemme Est, le cosiddette “città miste” e la periferia di Tel Aviv. Il rischio è una guerra civile, più o meno strisciante. Seconda lezione: il mantra diplomatico di una soluzione fondata su due Stati indipendenti e sovrani, appare oggi una formula vuota. Dal punto di vista di Benjamin Netanyahu, risuscitato politicamente dalla guerra con Hamas, lo status quo attuale è da preservare: un solo Stato nei fatti, lasciando che la parte islamica-radicale del fronte palestinese, tenuta sotto controllo dalla superiorità militare di Israele, controlli Gaza; e che una discreditata Autorità palestinese faccia finta di governare la Cisgiordania. Senza elezioni, preferibilmente. Per Hamas, persuasa che il tempo giochi a suo favore, il futuro è un unico Stato, cancellando Israele. Per la destra israeliana in ascesa, esiste solo lo Stato degli ebrei, con i suoi insediamenti ben al di là degli obsoleti confini del 1967. Se queste sono le posizioni, il cessate il fuoco è soltanto una tregua, fino alla prossima eruzione violenta. Il conflitto israelo-palestinese è diventato parte dei dossier “intrattabili” per la diplomazia internazionale: è lì per restare. Terza lezione: l’unica vera democrazia mediorientale, Israele, è in stallo politico. Se i palestinesi non votano quasi mai, gli israeliani continuano a votare senza riuscire a raggiungere un assetto stabile. Appare ormai clamorosa, in effetti, la distanza che esiste fra la vitalità intellettuale e tecnologica di Israele e la paralisi della vita politica. Messa di fronte a una minaccia esistenziale, Israele risponde con uno strumento necessario - la dissuasione militare - ma non sufficiente a garantire una vittoria o una soluzione politica. Il che rafforza l’indicazione precedente: il conflitto riesploderà. Se era illusorio pensare che la questione palestinese potesse essere rimossa dalle mappe della politica mediorientale - è la quarta lezione - i diritti dei palestinesi non torneranno tuttavia ad essere centrali nell’agenda dei Paesi arabi che hanno firmato con Israele gli Accordi di Abramo e che guardano soprattutto agli equilibri regionali con l’Iran, sponsor di Hamas. La questione palestinese verrà piuttosto utilizzata da attori in ascesa come l’Egitto per affermare il proprio ruolo regionale. Saranno insomma le dinamiche interne alla regione, più che la diplomazia internazionale, a condizionare l’andamento dello scontro. La quinta lezione è che Joe Biden non intende farsi risucchiare dal conflitto o tentare soluzioni di pace irrealistiche. Ma dopo avere riconosciuto il diritto fondamentale di Israele a difendersi, Biden ha premuto su Netanyahu per un cessate il fuoco e ha parallelamente appoggiato il tentativo del presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi di “portare a casa” Hamas. Il presidente americano ha giocato quindi la carta della diplomazia sotto traccia. È una scelta che lo ha esposto alle critiche di parte dei democratici, favorevoli a una pressione più rapida e aperta su Israele. Resta il punto di arrivo: dopo alcune esitazioni, la Casa Bianca ha utilizzato le sue leve di influenza per ottenere la tregua e rafforzare la mediazione egiziana. Molto di più è “sfortunatamente” impossibile fare oggi- ha scritto su Foreign Affairs Martin Indyk, a suo tempo inviato speciale in Medio Oriente di Obama. Una postilla sull’Europa: in questo caso le lezioni non riguardano il conflitto israeliano-palestinese - su cui l’Unione non è riuscita neanche ad esprimere in modo unitario (per il dissenso dell’Ungheria) le solite dichiarazioni di principio - ma piuttosto confermano la crisi delle ambizioni geopolitiche enunciate da Ursula von der Leyen. L’Europa ha interessi importanti in gioco, insieme alle responsabilità storiche derivanti dalla Shoah. Ma non sembra pienamente consapevole né dei primi né delle seconde. Sudan. Imprenditore veneziano in carcere da due mesi di Giuseppe Pietrobelli Il Fatto Quotidiano, 24 maggio 2021 Secondo quanto ha riferito la famiglia, sono arrivate richieste di pagamento accompagnate da riferimenti al caso di Giulio Regeni, per intimidire ancor di più Zennaro. Della vicenda si stanno interessando il ministro degli esteri Luigi Di Maio e il presidente della Commissione esteri della camera, Piero Fassino. Un imprenditore veneziano da due mesi è detenuto in un carcere del Sudan per un’accusa di frode inserita in un intrigo internazionale di cui si dice vittima. “Dormo per terra insieme ad altri detenuti. L’ambasciata e mio padre mi portano da mangiare una volta al giorno. Non ho mai visto un carcere prima, non mi era mai capitata una cosa del genere, ma quello in cui sono rinchiuso dall’1 aprile è tremendo. Sono qui a causa di una persona che non ho mai incontrato e con cui non ho mai avuto nulla a che fare”. È questa la drammatica testimonianza del quarantaseienne Marco Zennaro, rimbalzata in Italia attraverso la famiglia. Si sono attivati i canali diplomatici della Farnesina per dare assistenza al connazionale e sbloccare una situazione kafkiana e preoccupante, soprattutto dopo che è stato trovato annegato nel Nilo il mediatore con il quale l’italiano aveva trattato la vendita di una partita di trasformatori elettrici destinata alla Sedec, la società nazionale di energia elettrica. Ayman Gallabi è morto, secondo una versione ufficiale, durante un’immersione sub, ma la famiglia di Zennaro non ne è convinta e teme altre cause. Gallabi aveva acquistato la fornitura con il finanziamento di Abdallah Esa Yousif Ahamed, un militare che fa parte del clan del potente generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, capo di Rsf (Rapid Support Force), le milizie che operano nella capitale Khartoum e che furono protagoniste durante il golpe del 2019. È stato proprio Abdallah a far arrestare l’imprenditore italiano, accusandolo di frode nella fornitura di apparecchi elettrici. L’azienda di Zennaro opera in Sudan da un quarto di secolo e l’attività legata ai trasformatori elettrici fu avviata dal padre in terra africana. A marzo una prima contestazione della fornitura. Secondo Gallabi c’era una difformità tra le caratteristiche tecniche e i parametri indicati nei certificati di collaudo. È per questo che Zennaro ha preso un aereo e ha raggiunto Khartoum. Qui si è sentito contestare la fornitura, sulla base di un’analisi di laboratorio effettuata da una ditta concorrente. A sua volta ha replicato che ci si sarebbe dovuti affidare a un soggetto neutrale. Per tutta risposta è stato denunciato e arrestato per frode. In un primo tempo è rimasto agli arresti in albergo. Avrebbe a quel punto trattato con Gallabi (ora defunto) versando 400mila euro. Ma non bastava perché Abdallah chiedeva altri 700mila euro. Mentre stava per imbarcarsi su un aereo per tornare a casa, Zennaro è stato arrestato di nuovo. E questa volta è finito in una cella della Polizia. Le sue condizioni di salute avrebbero richiesto un ricovero in ospedale, ma finora non si è provveduto. Secondo quanto ha riferito la famiglia, le richieste di pagamento - per intimidirlo ancor di più - sono state accompagnate da riferimenti al caso di Giulio Regeni, il ricercatore friulano rapito e ucciso in Egitto nel 2016. “Regeni! Regeni! Paga”, gli è stato detto. Questo il messaggio (riportato da Il Gazzettino di Venezia) spedito dal segretario di Abdallah al padre di Zennaro: “Il problema, signore, è che la fiducia tra tutte le parti è crollata e il motivo è Gallabi. Questo è il motivo per cui il signor Abdallah non permetterà che i suoi soldi vengano pagati attraverso un credito bancario… Vuole i suoi soldi in contanti fino al rilascio di Marco. Spero che si trovi una soluzione, perché la situazione di tuo figlio è difficile in carcere… ho parlato con la polizia per farlo sedere in un ufficio, non in cella, e per essere trattato con gentilezza… Ma credimi, fai il tuo lavoro e salva tuo figlio da questa tragedia”. Zennaro è chiuso in una cella con altri 30 detenuti e una temperatura infernale. Della vicenda si stanno interessando il ministro degli esteri Luigi Di Maio e il presidente della Commissione esteri della camera, Piero Fassino. Gianluigi Vassallo, ambasciatore in Sudan, sottolinea: “Il personale dell’ambasciata segue il caso, portando in cella generi alimentari”. Bielorussia. Dirottato su Minsk volo Ryanair per arrestare un giornalista e attivista di Rosalba Castelletti La Repubblica, 24 maggio 2021 Un caccia Mig-29 ha dirottato e scortato l’aereo con altre 170 persone a bordo con il pretesto di un “allarme bomba”. Condanna Ue: “Atto di terrorismo di Stato”. Oggi a capo di “Belamova”, Roman Protasevich è l’ex direttore del canale Telegram “Nexta”, punto di riferimento dell’opposizione a Lukashenko. “Rischio la pena di morte”, ha detto a un passeggero. Con lui fermata anche la fidanzata. Il velivolo è ripartito dopo ore per la Lituania. Non si è più sicuri neppure nei cieli di Minsk. “L’ultimo dittatore d’Europa” Aleksandr Lukashenko ha ordinato a un caccia Mig-29 e a un elicottero Mi-24 di intercettare un aereo di linea che volava da Atene a Vilnius, un Boeing 737-800 della compagnia irlandese Ryanair, per costringerlo a un atterraggio di emergenza nell’aeroporto della capitale bielorussa pur di arrestare un attivista dell’opposizione, Roman Protasevich, che si trovava a bordo. Di fronte al dirottamento di un volo operato da una compagnia aerea europea tra due capitali europee, i presidenti del Parlamento, della Commissione e del Consiglio Ue e l’Alto rappresentante per la politica estera si sono uniti alle cancellerie dei Ventisette in un coro unanime di condanna. Un “atto di terrorismo di Stato”, lo ha definito il premier polacco Mateusz Morawiecki. Il presidente lituano Gitanas Nauseda ha chiesto “agli alleati Nato e Ue di reagire immediatamente alla minaccia posta all’aviazione civile internazionale dal regime bielorusso” e di discutere nuove sanzioni al vertice Ue di oggi e domani. “Assolutamente inaccettabile”, hanno commentato Ursula von der Leyen e Josep Borrell, mentre David Sassoli ha chiesto “spiegazioni immediate” e Charles Michel ha sollecitato un’inchiesta dell’agenzia Onu Icao, l’Organizzazione internazionale per l’aviazione civile. “Ferma condanna” anche del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, con Piero Fassino, presidente della commissione Esteri della Camera, che ha parlato di “un atto illegale, arrogante e in dispregio di ogni diritto”. Anche gli Stati Uniti “condannano duramente” il comportamento della Bielorussia e chiedono l’immediato rilascio del giornalista. Oggi a capo di Belamova (noto anche come BGMnews), Protasevich, 26 anni, è l’ex direttore e cofondatore di Nexta (pronuncia niek-ta, “qualcuno” in bielorusso), il canale Telegram che, dopo le contestate presidenziali dell’agosto 2020, è diventato non solo una delle fonti essenziali d’informazione sulla rivolta contro il sesto mandato rivendicato da Lukashenko, ma il coordinatore di fatto delle proteste. Lo scorso novembre i servizi di sicurezza bielorussi, che portano ancora la famigerata sigla sovietica Kgb, hanno inserito Protasevich, insieme al cofondatore di Nexta Stepan Putilo, nella lista di “individui coinvolti in atti di terrorismo” ed emesso un mandato d’arresto internazionale a suo nome incriminandolo per tre capi d’imputazione legati alle proteste che prevedono una condanna fino a 15 anni di carcere. Da allora Protasevich viveva in esilio, come la maggior parte degli esponenti dell’opposizione bielorussa, compresa la leader Svetlana Tikhanovskaja che aveva sfidato Lukashenko alle elezioni. Il giornalista ventiseienne aveva notato di essere seguito già mentre si trovava nell’area partenze di Atene. Aveva scritto ai suoi colleghi che un uomo in coda dietro di lui agli imbarchi aveva tentato di scattare una foto dei suoi documenti, gli aveva fatto una “domanda stupida” in russo ed era andato via. Quando l’aereo è entrato nello spazio aereo bielorusso, ha poi dichiarato Ryanair, le autorità di Minsk hanno informato il pilota di una “potenziale minaccia” e hanno scortato il velivolo fino all’atterraggio di emergenza nella capitale, dove non è stato trovato alcun ordigno, ma è stato prelevato Protasevich insieme alla fidanzata. Un’operazione pianificata che ha messo a rischio anche le altre 170 persone a bordo prima che, ore dopo, al Boeing fosse consentito ripartire. Protasevich, ha raccontato un passeggero al sito lituano Delfi, “era calmo, ma tremava”. “Gli abbiamo chiesto che cosa stesse succedendo. Ci ha detto chi fosse e ha aggiunto: “Rischio la pena di morte qui”. Oltre a essere stata definita l’ultima dittatura d’Europa dall’allora segretario di Stato Usa Condoleezza Rice, la Bielorussia è l’ultimo Paese d’Europa dove è in vigore la pena capitale.