Cartabia: “Ergastolo ostativo, la sfida è un regime adeguato” di Davide Varì Il Dubbio, 23 maggio 2021 Le parole della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, in un colloquio con Maria Falcone, pubblicato sul Foglio e che andrà in onda oggi su Rai Storia. “Rinviando il compito di modificare la legge al Parlamento, mi pare che la Corte riconosca la specificità del regime da applicarsi ai condannati per mafia. Perciò richiede che per questi casi il Parlamento stabilisca regole specifiche per l’accesso alla liberazione condizionale, accompagnate eventualmente da specifiche prescrizioni che governino il periodo di libertà vigilata. Il Parlamento ha un anno di tempo per stabilire regole speciali. La sfida sarà proprio questa: stabilire un regime adeguato, che consenta la liberazione condizionale per i condannati di mafia, anche se non collaboranti, tenendo conto però delle particolari caratteristiche dei reati di associazione mafiosa, i particolari legami che potrebbero perdurare nel tempo o ricostituirsi con l’uscita dal carcere”. Lo ha detto la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, in un colloquio con Maria Falcone, pubblicato ieri sul Foglio e che andrà in onda oggi su Rai Storia in occasione della Giornata della legalità nel 29esimo anniversario della strage di Capaci. “Credo che qui veramente la responsabilità del Parlamento debba entrare in gioco. Sono state già preannunciate proposte di legge da alcune forze politiche. Seguiamo con attenzione il dibattito. Tra l’altro, consideriamo anche un altro elemento. Ci furono preoccupazioni anche dopo la prima sentenza della Corte del 2019, che ammetteva ai permessi premio anche i detenuti condannati per reati ostativi. Tuttavia, dal momento della sentenza, sono state presentate solo sei richieste di ammissione al permesso premio, ma in nessun caso è stato accordato. Decisioni di questo tipo sono circondate da molte garanzie”, aggiunge. Secondo il guardasigilli: “tutto questo serve proprio a cercare di evitare il rischio che un’eventuale uscita dall’isolamento permetta di ricreare i legami con le organizzazioni criminali. Credo che questo debba essere un elemento da tenere ben presente quando il Parlamento elaborerà questa legislazione di attuazione della sentenza: occorrerà superare quel divieto di liberazione condizionale senza collaborazione, ma occorrerà anche circondarlo di garanzie, senza mai dimenticare, come dicevamo prima, la difficoltà di recidere quel legame fortissimo dei condannati per mafia con il loro contesto”. Follia della burocrazia: lo Stato non può calcolare i costi della malagiustizia di Stefano Zurlo Il Giornale, 23 maggio 2021 Costa (Azione) chiede al Mise i dati sulle ingiuste detenzioni. La replica: impossibile. Spiacente, ma non si può. Il ministro dell’Economia Daniele Franco alza bandiera bianca: impossibile mandare alla Commissione giustizia della Camera tutte le ordinanze di ingiusta detenzione accumulatesi le une sulle altre nell’arco di un lustro, fra il 2015 e il 2020. O meglio, si potrebbe pure fare, ma questo richiederebbe uno sforzo titanico e manderebbe gli uffici del ministero in tilt: i documenti sono tanti, tantissimi, solo in parte digitalizzati e sparpagliati qua e là. Dunque, Franco dice no alla Commissione e in particolare a Enrico Costa, il deputato di Azione che conduce da tempo una battaglia su questo fronte incandescente. Una risposta del genere potrebbe sembrare uno scherzo di pessimo gusto, certo non sembra all’altezza di uno dei Paesi più avanzati del pianeta, ma è inutile girarci intorno. E Franco, che tiene i cordoni della borsa ed è colui che paga e risarcisce le vittime di questi disastrosi errori, va dritto al punto: “In tale contesto, pur disponendo delle ordinanze integrali per coloro ai quali gli uffici competenti hanno effettuato i pagamenti, le stesse non sono detenute in una base dati strutturata, bensì classificate all’Interno dei singoli fascicoli di pagamento, solo in parte digitalizzati”. Insomma, il materiale in questione, a dirla tutta una densa pagina di vergogna nazionale, c’è ma è come se non ci fosse, dovrebbe essere recuperato e ordinato per metterlo a disposizione di Costa e degli altri deputati. “Per poterle trasmettere a codesta Commissione - prosegue la nota - occorre, come peraltro già rappresentato all’onorevole Costa nelle precedenti interlocuzioni, uno sforzo organizzativo e operativo che porterebbe a impegnare l’Ufficio competente per diverse settimane, in considerazione dell’elevato numero di ordinanze (circa 5.900)”. Un numero impressionante di errori riconosciuti dal nostro sistema giudiziario. Quasi seimila storie, più di mille l’anno, quasi tre al giorno. Uomini e donne che sono rimasti in cella per qualche giorno, ma anche per settimane o mesi, magari con una condanna di primo o addirittura di secondo grado. A voler essere fiscali, restano fuori da questi conteggi gli errori giudiziari: il girone più buio e per fortuna meno popolato, quello in cui si entra solo con una sentenza di condanna definitiva e da cui si esce solo con un verdetto di revisione. Ma, anche a voler mettere da parte gli errori veri e propri, la sostanza non cambia. Troppo lavoro e allora Franco alza le mani: “Ciò condurrebbe a convogliare le risorse umane impegnate nelle istruttorie e nei pagamenti degli indennizzi e, più in generale, per il normale funzionamento dell’ufficio, verso un’attività straordinaria rilevante e non programmata, che potrebbe determinare ritardi nell’erogazione degli indennizzi”. Il lavoro di catalogazione e di informazione potrebbe mandare in crisi la macchina organizzativa del ministero. “Siamo davanti a una risposta stupefacente - spiega al Giornale Costa - che si fa fatica ad accettare”. Poche risorse, al ministero fanno quello che possono. Il Parlamento può attendere, anche se sarebbe di grande interesse conoscere nel dettaglio le vicende di chi è stato in cella per essere poi riconosciuto innocente. Anzi, l’opinione pubblica è disorientata dal susseguirsi di arresti che poi evaporano nel nulla. Magari dopo anni e anni, con danni sul piano personale non più recuperabili. Ingiusta detenzione, uno scandalo che nessun indennizzo attenua di Francesco Cavallo centrostudilivatino.it, 23 maggio 2021 Dal 1992 al 31 dicembre 2020, 29.452 italiani sono stati sottoposti a ingiusta detenzione: in media, negli ultimi 29 anni in Italia ogni anno 1015 innocenti finiscono in custodia cautelare. Il tutto per una spesa che supera i 794 milioni e 771 mila euro in indennizzi, per una media di poco superiore ai 27.405.915,00 di euro l’anno. Vogliamo discuterne? 1. Poco più di un anno fa, in occasione della Via Crucis presieduta sul sagrato della Basilica di S. Pietro, Papa Francesco fece risuonare “il silenzio delle prigioni”, meditando gli scritti di cinque detenuti, due dei quali condannati alla pena dell’ergastolo, della figlia di un ergastolano e della madre di un carcerato, di un sacerdote accusato ingiustamente e poi assolto, di un’educatrice e un magistrato di sorveglianza. Qualche giorno prima, meditando la persecuzione giudiziaria di Nostro Signore e offrendo la Messa mattutina in Santa Marta agli innocenti sotto processo, o peggio condannati, chiese di pregare per tutti coloro che incappano nella malagiustizia e portano addosso ferite che il decorso del tempo non guarisce, sempre aperte e sanguinanti. Non è immaginabile la sofferenza di chi senza colpa è sottoposto a un giudizio, un giudizio che non è confinato nell’aula di giustizia né in un arco temporale circoscritto, ma che si svolge quotidianamente in tutti i luoghi abitati dall’accusato e tendenzialmente non finirà mai: dalla famiglia agli amici al luogo di lavoro (se non li perde a causa dell’accusa), dallo sportello bancario agli uffici della pubblica amministrazione, la vita dell’accusato è compromessa dalla semplice accusa giudiziaria; e quand’anche essa dovesse cadere, il marchio di infamia apposto attraverso i media, e la registrazione di dati nel web e in sistemi informatici ad uso pubblico e privato continuerà a segnare tutti gli ambiti di vita dell’accusato. Ancor meno immaginabile è la sofferenza di chi senza colpa deve scontare un tempo in carcere, senza darsi una spiegazione dell’accaduto, struggendosi al pensiero dei propri cari e del loro dolore e attendendo, spesso invano, che si faccia chiarezza. Un solo giorno in carcere da innocente è un’offesa permanente che mille assoluzioni e risarcimenti non riescono cancellare. 2. Il gesto pastorale e spirituale del Pontefice, però, non era rivolto a luoghi remoti, che pure esistono, nei quali l’esercizio della giustizia è massimamente sommario: a oltre due mila anni di distanza, anche la occidentale, europea e democratica Italia fa i conti con una giustizia nella quale è abnorme il numero il numero di coloro che scontano la pena della mera sottoposizione a processo risultando poi prosciolti o assolti, ma soprattutto è abnorme il numero di coloro che subiscono una misura cautelare prima del processo, salvo poi venire prosciolti o assolti. Accanto a costoro vi sono poi coloro che, addirittura, dopo essere stati condannati con sentenza definitiva vengono assolti in seguito a un processo di revisione che certifica un errore giudiziario in senso stretto. Una minima parte di questi innocenti, ovvero una parte di coloro che hanno subito una ingiusta detenzione, è tracciabile, perché chiede un indennizzo allo Stato. Tutti gli altri, però, i c.d. “innocenti invisibili”, o non hanno diritto nemmeno a un risarcimento, oppure rimangono così segnati da decidere di non voler avere più a che fare con la giustizia, né correre anche solo alla lontana il rischio di essere nuovamente sottoposti a sgradevoli ribalte mediatiche, al punto da non voler chiedere alcuna riparazione per l’ingiusta detenzione subita. Il Ministero dell’Economia, così come annualmente fa dal 1991, ha recentemente reso noti i dati relativi alle pronunce del 2020. 207 sono le pronunce di risarcimento da errore giudiziario in senso stretto dal 1991 al 2020, per una spesa complessiva di € 74.983.300,01, ovvero in medica circa 7 casi l’anno per una spesa di 2 milioni e 500 mila euro l’anno. Va notato con una certa preoccupazione, però, che nel 2020 i casi accertati di errore giudiziario sono stati 16, nel 2019 sono stati 20 e che la media dei casi annuali nei soli ultimi dieci anni è il doppio della media dei casi annuali nei trent’anni di rilevazioni. 3. Ma è il numero dei casi di ingiusta detenzione per i quali è stato riconosciuto l’indennizzo a rendere ancor più evidente la drammaticità e l’emergenza del fenomeno se si considera che, come detto, essi sono solo una parte dei casi reali. Dal 1992 al 31 dicembre 2020, 29.452 italiani sono stati sottoposti a ingiusta detenzione, significa che in media, negli ultimi 29 anni in Italia ogni anno 1015 innocenti finiscono in custodia cautelare. Il tutto per una spesa che supera i 794 milioni e 771 mila euro in indennizzi, per una media di poco superiore ai 27.405.915,00 di euro l’anno. Nel 2020 i casi di ingiusta detenzione sono stati “solo” 750, per una spesa complessiva in indennizzi di € 36.958.648,64 euro. Il calo nel numero di casi e nella spesa rispetto al 2019 non deve, però, indurre ad ottimismo in quanto la flessione è meramente il frutto del pesante (ulteriore) rallentamento dell’attività giudiziaria a tutti i livelli, compreso quello delle Corti d’Appello incaricate di valutare le istanze di riparazione per ingiusta detenzione. 4. In conclusione, in Italia, che dal 1991 al 31 dicembre 2020, le vittime “tracciate” di ingiusta detenzione e di errori giudiziari in senso stretto sono state 29.659: in media, quasi 1000 l’anno. Il tutto per una spesa complessiva, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri, gigantesca: € 869.754.850,00, per una media di circa 29 milioni di euro l’anno. Si tratta di cifre spaventose, denari che non piovono dal cielo, ma provengono dalle tasche degli altri cittadini italiani, innocenti pure loro. La giustizia italiana esce sconfitta e con sempre minore credibilità anche da tutto questo, oltre che dagli scandali, collettivi e individuali, che ormai quotidianamente la travolgono. Rappresenta, infatti, certamente un corto circuito il fatto che quando è lo Stato a porre in essere condotte lesive di quegli stessi beni giuridici dei consociati che protegge, sanzionando con la pena detentiva coloro che li offendono, esso se la cavi con un indennizzo: certo, non ripara un tempo di detenzione ingiusta, e per giunta, viene pagato con i proventi delle tasse dei cittadini, cioè di altri innocenti che, con il loro contributo, sopportano il peso degli errori giudiziari venendo così ingiustamente “condannati” a una pena pecuniaria. A fronte di tutto ciò, i rimedi immaginati dal Governo nel recentissimo Recovery Plan, paiono ignorare tutto questo. Referendum sulla giustizia: contro lo strapotere togato servono interventi drastici di Astolfo Di Amato Il Riformista, 23 maggio 2021 Otto referendum per una giustizia giusta. La notizia, al di là del merito dei quesiti referendari, ha il sapore di una ventata di libertà. Sono ormai circa dieci anni che il paese è oppresso in nome della responsabilità. Non si vota… per senso di responsabilità; non si consente l’accesso ai verbali del Comitato Scientifico relativi alle decisioni sul lockdown, nonostante l’ordine dato dal Tar… per senso di responsabilità; non si affrontano le questioni sollevate dal caso Palamara… per senso di responsabilità; non si mettono sul tappeto le riforme radicali di cui il paese ha bisogno… per senso di responsabilità. Si potrebbe proseguire all’infinito. Il senso di responsabilità è diventato una cappa di piombo, che deve proteggere da ogni sussulto il palazzo e gli intrighi che si consumano al suo interno. E, oggi, il senso di responsabilità dovrebbe indurre a non aprire nemmeno la stagione referendaria. Per fortuna ci sono i radicali! I quali, per l’ennesima volta, provano a scuotere il paese da quel torpore, in cui le classi dirigenti cercano di tenerlo costantemente immerso. C’è qualcuno che storce il naso perché le firme saranno raccolte con il contributo della Lega. È il solito gioco di non prestare attenzione alla luna, ma al dito che la indica. Come se la portata dei referendum, ove fossero accolti, avesse un significato normativo diverso a seconda di chi li propone. Lo aveva ben teorizzato Marco Pannella, quando aveva rifiutato di collocarsi organicamente in un determinato schieramento, sostenendo la necessità e l’opportunità di trovare di volta in volta i compagni di strada, essendo il vero obiettivo la approvazione delle proposte referendarie e non il mantenimento delle alleanze. Ed è la scelta che ha consentito ai radicali di conservare la loro invidiabile assoluta libertà di azione e, prima ancora, di pensiero. Certamente fa impressione che la Lega, oggi, si impegni per sostenere dei referendum garantisti, mentre è ancora fresca la memoria dei suoi esponenti, che mostravano il cappio in Parlamento durante Mani Pulite. E, tuttavia, se una evoluzione in senso garantista vi è stata, va apprezzata. Ed ancora più incomprensibile è che storca il naso chi, in nome della conservazione delle poltrone ministeriali, è stato disponibile in questi anni ad affermare tutto e il contrario di tutto, giungendo addirittura a far decadere una riforma, prima voluta e poi completata, del sistema penitenziario per potere con più credibilità sollevare la bandiera giustizialista in sede elettorale. Questa volta, il senso di responsabilità che avrebbe dovuto impedire l’iniziativa referendaria avrebbe dovuto essere sollecitato dalla circostanza che le riforme sarebbero in corso di elaborazione e ne sarebbe urgente l’approvazione, per poter accedere ai fondi europei, mentre l’iniziativa referendaria costituirebbe un ostacolo. È difficile, tuttavia, comprendere il senso di un tale ragionamento. I referendum, nella storia repubblicana, non hanno mai costituito un ostacolo alla approvazione delle riforme e, anzi, spesso hanno costituito uno stimolo al lavoro del Parlamento. In questo caso, l’opportunità dell’iniziativa referendaria è ancora più evidente. Gli scandali, che stanno travolgendo i residui della credibilità e del prestigio del sistema giustizia, richiederebbero interventi coraggiosi e radicali. Essi, difatti, non riguardano più alcuni singoli, ma il sistema di potere nel suo complesso. La politica di far finta che si tratti della condotta censurabile di pochi, attuata impedendo a Palamara di citare i testi che avrebbero aiutato a far luce sulla dimensione complessiva del fenomeno, può aver aiutato a far restare a galla l’attuale Csm, ma certamente non ha impedito alla pubblica opinione di cogliere l’ampiezza del fenomeno. Ciò, nonostante che molta parte della stampa e dei partiti politici abbia osservato la consegna di una imbarazzata reticenza sul tema. Reticenza che oggi si traduce nel tentativo di annacquare il più possibile le riforme. Ciò in una duplice direzione: da un lato si cerca di non incrinare quel grumo di potere autoreferenziale che ha consentito al sistema giustizia, negli ultimi trenta anni, di collocarsi al di sopra di tutti gli altri poteri dello Stato; dall’altro, si cerca di soffocare qualsiasi prospettiva garantista, che possa comunque intaccare l’ampiezza dei poteri di quel sistema. Il perché questo avviene è evidente. Avanzare protetti dai carri armati della giustizia è molto conveniente: così è stato possibile prima far fuori gli altri partiti della Prima Repubblica e, successivamente, neutralizzare Berlusconi. Oggi, la prospettiva è, con lo stesso sistema, quella di far fuori Salvini. Frutti, evidentemente, troppo succosi per rinunciavi. E, tuttavia, si tratta di frutti avvelenati per il paese. Ecco, allora, che i referendum per una giustizia giusta, proprio perché dirompenti rispetto alla situazione che si cerca di preservare, hanno una utilità che addirittura trascende e supera gli specifici contenuti referendari. Innanzitutto, servono a rilegittimare il fatto che il potere appartiene in primo luogo al popolo, che si pronuncia nelle urne. In secondo luogo, smascherano quell’ipocrisia che, in nome della responsabilità, impedisce la modernizzazione del paese e la costruzione di un corretto equilibrio tra i poteri dello stato. Ora, come sempre, si farà di tutto per boicottare i referendum: giornali e televisioni taceranno, certi partiti e certi intellettuali si esprimeranno in modo sprezzante. Ma la presenza della Lega e la sua capacità di muovere alcuni sentimenti profondi della popolazione renderà rischioso il consueto gioco dell’insabbiamento delle iniziative referendarie. Per di più, la partecipazione alla campagna referendaria non potrà non avere ripercussioni sullo stesso DNA della Lega. Ben vengano, dunque, gli otto referendum. E con questa iniziativa cresce il debito di gratitudine che il paese ha con i Radicali. Protagonisti, ancora una volta, di una iniziativa che non è di potere, ma di conquista di spazi di libertà e di democrazia nell’interesse dell’intera collettività. Santoro scopre i “professionisti dell’antimafia” di Davide Varì Il Dubbio, 23 maggio 2021 Santoro mette in dubbio la teoria complottista delle stragi mafiose e le schiere dell’antimafia da parata lo processano. C’è un piccolo libello, un pamphlet non recentissimo ma assai prezioso: si chiama il “Circo mediatico giudiziario” e lo ha scritto Daniel Soulez Lariviere, un avvocato francese che in un centinaio di pagine, o poco più, ha fotografato il momento esatto in cui - e siamo alla fine degli anni 80 - i processi si sono spostati dalle aule di giustizia agli studi televisivi e sulle pagine dei giornali, fino a tracimare sui social. Ma questa è storia più recente. Insomma, Lariviere è il primo che ha fotografato il big bang, l’esplosione iniziale che ha cambiato i connotati al processo trasformandolo per sempre in processo mediatico. Inutile dire che l’istantanea di Lariviere riguarda anche il nostro Paese. I media italiani in questi anni hanno esasperato e viziato a tal punto il racconto della giustizia, che oggi assistiamo a veri e propri “dibattimenti” mediatici e a “condanne” a mezzo stampa. E sì perché nel processo mediatico l’indagato è sempre colpevole e le sue garanzie vengono calpestate e triturate nel nome di un non meglio specificato “diritto di cronaca”. Ovviamente ci sono interpreti che hanno intonato la musica del processo mediatico giudiziario in modo diverso: ci sono direttori d’orchestra che suonano marce trionfali calpestando “impunemente” almeno un paio di articoli della nostra Costituzione (il diritto alla difesa e la presunzione di innocenza) e chi invece lo fa in modo più sottile e intelligente. Insomma, come dire, c’è modo e modo…Ecco, tra questi ultimi, tra i più intelligenti e preparati, c’è senza dubbio Michele Santoro. Ecco, Santoro è stato un interprete alto e non “sbragato” del processo mediatico, e per anni è stato il faro della lotta alla mafia e dell’antiberlusconismo: spesso e volentieri mischiando i due fenomeni. Era il custode della legalità, il riferimento dei militanti dell’antimafia da parata e il cantore del racconto complottista che voleva pezzi di Stato impegnati a organizzare i grandi delitti di mafia. A cominciare da quello di Borsellino. Ecco, ora Santoro non crede più in questo racconto e l’abiura gli è costata gli strali dei professionisti dell’antimafia. Proprio così ha detto: “professionisti dell’antimafia”. Un’espressione che porta alla mente Leonardo Sciascia, anche lui finito nel mirino di chi è convinto che la lotta alle mafie giustifichi la notte della ragione e la macelleria dei diritti. E allora ci permettiamo di recapitare a Santoro la lettera di un tale Enzo Tortora, un signore che più di ogni altro ha vissuto sulla propria pelle la violenza dei professionisti dell’antimafia e della giustizia mediatica: “Se un cittadino, sbattuto in galera innocente, processato e condannato a pene enormi sulla sola parola di criminali “pentiti”, se dunque, osa protestare, urlare alla vergogna, chiedere un tipo di giustizia diverso e degno dell’Occidente, allora salta su, da una delle “correnti” della nostra beneamata Magistratura il solito (disinformato) colonnello in toga che accusa (la citazione è testuale) “di screditare l’immagine di una giustizia impegnata sul difficile fronte della criminalità organizzata” (Sic!). Ma che c’entra? Vien voglia di dirgli. Voi mi parlate di giustizia. lo grido all’ingiustizia, io vi parlo dei diritti di ogni cittadino e voi mi rispondete gargarizzando retorica”. La sfida di Falcone che tolse ai boss l’antica impunità di Isaia Sales La Repubblica, 23 maggio 2021 Ventinove anni dopo la strage del 23 maggio 1992 che costò la vita al magistrato, alla moglie e ai tre uomini della scorta, l’analisi della strategia attraverso la quale, al fianco di Borsellino, permise al pool antimafia di Palermo di infliggere centinaia di ergastoli ai mafiosi. E che servirebbe ora per sradicare camorra e ‘ndrangheta. Se vogliamo comprendere il ruolo che spetta a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nella storia d’Italia dobbiamo ricordare questo semplice dato: fino alle soglie degli anni 80 del Novecento, cioè 150 anni dopo la nascita della mafia, il 99% dei processi ai mafiosi si risolveva con l’assoluzione dei capi e con leggere condanne per i subalterni. Secondo i dati forniti dal magistrato Gioacchino Natoli, dall’Unità d’Italia fino al 1992 ci furono solo 10 ergastoli di mafiosi nel distretto giudiziario di Palermo (a fronte di almeno 10.000 delitti) mentre ben 430 ergastoli saranno erogati solo tra il 1993 e il 2006. La rottura dell’impunità storica dei mafiosi siciliani è la più grande azione giudiziaria, civile, sociale, culturale nella lunga storia della lotta alla mafia. Uno spartiacque fondamentale. Una rivoluzione. Anche altri magistrati prima avevano cominciato a condannare mafiosi, ma poi negli altri gradi del processo non si riuscivano a confermare le pene. Falcone portò tenacemente avanti la sua strategia fino a cambiare il ruolo “assolutorio” della Cassazione. Gli intoccabili dei clan - L’impunità dei mafiosi si era trasformata nel tempo in immunità, cioè nella prerogativa feudale di non poter essere toccati dalla legge. Ma i feudatari dovevano questo loro potere alla nascita e allo status sociale, i mafiosi lo dovevano alle relazioni con coloro che dovevano contrastarli e sanzionarli. La loro era una impunità relazionale. Dovuta, cioè, a un atteggiamento comprensivo e accomodante di rappresentanti delle istituzioni. Mafioso, dunque, diventa agli occhi della popolazione colui che è capace di sfuggire alla pena e alla condanna per i reati che commette, o che fa commettere, grazie alle sue relazioni e al terrore. La reputazione principale del mafioso è legata, dunque, all’impunità e non all’onore. Anzi l’onore è una costruzione basata proprio sulla capacità di sfuggire alla legge. E una volta che si è circondati dall’aureola di impunito arriva anche l’ammirazione popolare per chi riesce a farla franca. Non dimentichiamo che anche fuori dal mondo mafioso, è considerato potente colui che aggira a legge e non chi la segue e l’applica. Insomma, Falcone e Borsellino colpiscono un tratto identitario della mafia e sradicano consolidate convinzioni: una volta che si dimostra che possono essere puniti, i mafiosi si trasformano in delinquenti comuni e cominciano ad essere avvertiti come tali anche dall’opinione pubblica meridionale prodottasi con la scuola di massa, una delle più importanti rivoluzioni culturali del Sud d’Italia. È del tutto evidente che se la violenza omicida fosse stata stabilmente punita nel tempo dai magistrati e dalle forze di sicurezza non ci sarebbe stata nessuna mafia. Camorra e ‘ndrangheta - Che succede nel mondo mafioso dopo la fine dell’impunità di Cosa nostra? O meglio, come mai la repressione di massa ha effetti così devastanti in Sicilia e non in altri regioni mafiose? Infatti, dalla seconda metà degli anni Novanta del Novecento, dopo il maxiprocesso di Palermo, dopo le condanne di massa dei mafiosi siciliani e dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino, le camorre campane e le ‘ndrine calabresi hanno scalzato Cosa nostra siciliana dal ruolo leader rivestito ininterrottamente dal secondo dopoguerra. Sono cambiate, cioè, da quel momento storico le gerarchie nell’universo mafioso. E nessuna istituzione di contrasto alle mafie aveva mai avanzato una previsione del genere, nessuno studioso della materia aveva ritenuto possibile una scalata simile. Una spaventosa sottovalutazione ha accompagnato il divenire delle camorre napoletane e della ‘ndrangheta calabrese. Basti qui ricordare che solo nel 1993 la camorra sarà oggetto di una relazione del presidente della Commissione parlamentare antimafia Luciano Violante, mentre bisognerà aspettare addirittura il 2008 per una specifica relazione sulla ‘ndrangheta da parte del presidente Francesco Forgione. Eppure nel periodo 1970-1988, la ‘ndrangheta aveva effettuato ben 207 sequestri di persone, di cui 121 in Calabria e gli altri nel Nord dell’Italia, accumulando risorse tali da consentirle di partecipare da protagonista ai lavori per la costruzione (poi abbandonata) del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro, poi a quelli dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria e infine a ritagliarsi un ruolo da protagonista nel traffico internazionale di stupefacenti. Numeri delle condanne a confronto - È dunque tutto da esplorare il nesso tra la strategia (perdente) di attacco allo Stato e ai suoi rappresentanti messa in campo da Riina e quella (finora vincente) delle altre due mafie. Sicuramente c’è un rapporto tra il ridimensionamento di Cosa nostra e il successo delle altre due mafie. I riscontri di questo cambiamento di gerarchie all’interno dell’universo mafioso sono estremamente chiari: camorra e ‘ndrangheta cumulano oggi, secondo uno studio del ministero degli Interni, ben il 67% di tutti i ricavi mafiosi. Le ordinanze di custodia cautelare dal 1992 al 31 dicembre del 2020 per il reato di 416 bis riguardano 3219 camorristi (il numero più alto in assoluto), 2800 ‘ndranghetisti (il numero più alto in rapporto alla popolazione), mentre Cosa nostra arriva a 2.193 e la criminalità mafiosa pugliese si ferma a 811. Dei 759 reclusi al 41 bis, cioè al carcere speciale per i mafiosi, 266 sono camorristi, 210 ‘ndranghetisti e 203 appartenenti a Cosa nostra: i calabresi e i campani superano il 60% del totale. Se poi si prendono in considerazione gli omicidi (ufficialmente riconosciuti) dal 1983 al 2018, la camorra ne ha commessi 3026 (ben il 45,4% di tutti gli omicidi di mafia), Cosa nostra 1701 (il 25, 5%) e la ‘ndrangheta 1320 (il 19,85) dato quest’ultimo che se rapportato alla popolazione è di gran lunga il più alto. Significativo anche il numero di scioglimenti dei consigli comunali per mafia: la Calabria è la prima (124), segue la Campania (111) e dopo la Sicilia (86). Nessuna criminalità diventa da un giorno all’altro così potente, se non ha un lungo retroterra storico, un lungo apprendimento, una lunga sedimentazione alle spalle, una lunga disattenzione o sottovalutazione degli ambienti istituzionali, delle forze di sicurezza e svariate agevolazioni da parte di chi doveva contrastarla e combatterla. Il (fragile) modello piramidale della Cupola - Come mai, dunque, due mafie che sembrano secondarie sono diventare primarie? E come mai sono emerse e si sono rafforzate nel mentre l’azione repressiva dello Stato si faceva più forte e abbandonava l’impunità che aveva caratterizzato un lungo passato? Provando a rispondere a questa domanda viene fuori qualcosa di sorprendente, cioè che quelle caratteristiche che sembravano differenziare in negativo camorra e ‘ndrangheta rispetto al modo di operare di Cosa nostra si sono dimostrate invece più adatte alla sopravvivenza e all’espansione nelle mutate condizioni apertesi dopo la repressione permanente che ha caratterizzato l’ultimo trentennio. L’impressione è che il modello piramidale della mafia siciliana si è dimostrato più esposto a una repressione massiccia dello Stato, mentre i modelli organizzativi della ‘ndrangheta e della camorra, più elastici e reticolari, si sono dimostrati in grado di assorbire meglio i colpi repressivi senza intaccarne la riproducibilità. Il colpo letale alla catena di comando - Insomma, è indubbio che la catena repressiva è stata agevolata nella sua efficacia dal modello piramidale della mafia siciliana. Colpendo i capi della struttura di comando si è indebolita tutta la catena, cosa che invece non è avvenuto nelle altre due organizzazioni. Nel caso della camorra la frammentarietà e l’assenza di un comando unico si sono dimostrate più adatte a resistere alla repressione, la struttura organizzativa più elastica è stata capace di assorbire meglio la decapitazione dei vertici dei clan. D’altra parte, date le caratteristiche sociali di massa, la camorra difficilmente poteva darsi un modello piramidale. Per la ‘ndrangheta, invece, la struttura organizzativa basata sulla famiglia di sangue ha assorbito più efficacemente i danni delle rivelazioni dei pentiti. Il diverso legame col mondo politico - Si aggiunga a ciò che la mafia siciliana è stata vittima della sua aspirazione a egemonizzare le relazioni con il mondo politico e istituzionale, mentre la camorra e la ‘ndrangheta non hanno mai coltivato un’aspirazione simile. La ricerca del monopolio del comando, la bramosia di un potere assoluto ha condotto Cosa nostra sulla via degli attentati ai vertici delle istituzioni politiche e repressive. Ma quella scia di sangue dei “delitti eccellenti” ha determinato una reazione dello Stato che è andata ben al di là della stessa volontà di coloro che con la mafia siciliana avevano stabilito lunghe e proficue relazioni. Due modelli criminali a confronto - Dunque, Cosa nostra ha pagato il prezzo della inadeguatezza, nel mutato quadro repressivo dello Stato, del suo modello organizzativo piramidale (di élite criminale) e la sua pretesa di dominio sulla politica, mentre camorra e ‘ndrangheta hanno beneficiato, in diverso modo, della loro modalità organizzativa originale rispetto a Cosa nostra e della mai manifestata sete di dominio sulla politica, accontentandosi di proficue relazioni alla pari e mai di sfida aperta per l’egemonia. Quando si colpisce un élite criminale che esercita un comando centralizzato e dall’alto in basso, la possibilità di una riproposizione del fenomeno ha bisogno di più tempo per realizzarsi con la stessa pericolosità di prima. Nel modello orizzontale della camorra napoletana, basata sulla disponibilità di massa di manodopera criminale, se si colpiscono i capi non si assesta di per sé un colpo risolutivo all’organizzazione, la quale si rigenera continuamente proprio per la fluidità degli apparati di comando e per la bassa soglia di accesso all’élite. E nella ‘ndrangheta è la famiglia di sangue a riproporrete gerarchie intaccate dalla repressione. La capacità di mimetizzazione - Secondo lo studioso Maurizio Catino i diversi modi di organizzazione tra le mafie influenzano i comportamenti, i conflitti, l’impiego della violenza e la capacità di mimetizzarsi nei mercati legali o di aderire meglio ad essi. I modelli basati su clan senza strutturazione sovraordinate sono più caratterizzati da delitti diffusi e meno da delitti politici. Camorra e ‘ndrangheta adottano un modello organizzativo più reticolare, più duttile e più congeniale a introdursi in quel confine opaco tra impresa legale e attività illegali. Forse anche in ciò consiste il loro attuale successo. “Falcone iniziò a morire quando il Csm, per invidia, non lo difese” di Giulia Merlo Il Domani, 23 maggio 2021 Fernanda Contri, avvocato e giurista, è stata la prima donna giudice della Corte costituzionale e nel quadriennio 1986-1990 è stata membro laico del Csm, durante la stagione dei veleni a Palermo contro Giovanni Falcone. Falcone, che era suo carissimo amico, iniziò a morire quando il Csm lo indicò come soggetto debole e indifeso: “Tutti gli ostacoli che il Consiglio gli ha frapposto derivavano dalla sua volontà di rimanere fuori dalla dinamica delle correnti”. Già allora, le dinamiche correntizie erano avvertibili: “Quando i togati si impuntavano su qualcosa nascevano faide interne ma allo stesso tempo esercitavano una difesa castale impenetrabile. Il Csm era governato dai grandi personalismi e la regola era che solo il più potente ce la fa”.? Nella sua lunga carriera, l’avvocato e giurista Fernanda Contri ha attraversato più di vent’anni di storia della Repubblica: nel 1993 è stata la prima donna segretaria generale del Consiglio dei ministri del governo Amato, poi ministra del governo Ciampi e nel 1996 è diventata la prima donna giudice della Corte costituzionale. Prima ancora, però, ha ricoperto il ruolo di membro laico del Consiglio superiore della magistratura nel quadriennio dal 1986 al 1990. Erano gli anni duri del maxi processo a Cosa nostra e della stagione dei veleni a Palermo contro Giovanni Falcone, che è stato suo carissimo amico fino alla strage di Capaci del 23 maggio 1992, quando il giudice venne assassinato dalla mafia insieme alla moglie e agli uomini della sua scorta. A quel tragico epilogo lega il ricordo di quel periodo e per questo del suo mandato al Csm parla poco e malvolentieri. Ancora oggi “se capita di dover passare per piazza Indipendenza, chiedo all’autista di cambiare strada”. Perché questo fastidio? Perché lego quella stagione, gli anni dal 1986 al 1990, all’omicidio di Falcone. Avvenne due anni dopo ma, col senno di poi, è indirettamente derivato anche dalle scelte di quel Csm di cui ho fatto parte. E perché ricordo il clima che si respirava in Consiglio: allora come oggi era attraversato da fortissime tensioni e soprattutto pressioni interne. Qualcosa che noi laici non avevamo mai avvertito, eppure la nostra nomina era di matrice politica e ci si aspetterebbe che proprio noi fossimo maggiormente condizionati. Lei era stata nominata in quota socialista. Non riceveva indicazioni di voto dal Psi? Assolutamente no. Io e il collega Mauro Ferri non abbiamo mai ricevuto mandati da parte del Psi, che pure ci aveva proposto per quel ruolo. Abbiamo sempre mantenuto totale autonomia di giudizio e di voto, tanto è vero che i nostri voti spesso divergevano. Lo stesso accadeva per i laici indicati dalla Democrazia cristiana e alcune volte anche per quelli del partito comunista. Per i togati, invece, non era così? Tra di loro le dinamiche correntizie erano molto avvertibili, quando si impuntavano su qualcosa nascevano faide interne ma allo stesso tempo esercitavano una difesa castale impenetrabile. Già nel mio quadriennio il Consiglio era governato dai grandi personalismi e la regola era che solo il più potente ce la fa. In cosa si traduceva, concretamente, questa difesa castale? Io sono stata vicepresidente della sezione disciplinare, quella che giudica gli illeciti dei magistrati. Le assicuro che nei confronti di alcuni di loro era impossibile formulare alcuna ipotesi di responsabilità. Perché ritiene che il Csm di cui lei ha fatto parte abbia avuto colpe indirette per l’assassinio di Falcone? Per colpa di alcune decisioni, prese nel 1988 e nel 1989. In una bisognava scegliere il nuovo capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, il successore del giudice Antonio Caponnetto. Il Csm si divise a metà e fu scelto Antonino Meli e bocciato Falcone, 14 voti contro 10. In un’altra occasione, poco dopo il fallito attentato dell’Addaura, il Csm in qualche modo lo indicò come soggetto debole, non difeso dai suoi stessi colleghi. È così che Falcone ha iniziato a morire. Sa dire per quale ragione il Csm tenne questa linea? Invidia. Non ho mai visto tanta invidia nei confronti di qualcuno. La solitudine di Falcone è nata per questo e tutti gli ostacoli che il Consiglio gli ha frapposto derivavano dalla sua volontà di rimanere fuori dalla dinamica delle correnti. Lui era cosciente di quel che stava succedendo? Dopo il voto contro di lui, incontrai Falcone per cena insieme a Vito d’Ambrosio, togato che come me lo aveva sostenuto nella candidatura a Palermo. Quando insieme provammo a spiegargli la ragione della bocciatura, lui lasciò la stanza in silenzio e andò sul balcone. Quando rientrò ci chiese se ci rendevamo conto di quello che il Csm aveva fatto. Da allora a oggi, il problema del Csm continuano ad essere le nomine e le dinamiche che le determinano. Crede che il problema abbia origine da come il Consiglio è strutturato? No, tutto dipende da chi ne fa parte e dalle decisioni che prende. Non riesco a immaginare un Csm diverso dal punto di vista della sua divisione tra membri laici e togati: l’equilibrio immaginato dai costituenti è perfettamente bilanciato. Oggi chi si dichiara contro i meccanismi correntizi chiede che il sistema elettorale dei togati al Csm sia corretto con un meccanismo di sorteggio... Mi sembra una conseguenza estrema e non sono certa che sia auspicabile, ma capisco il senso con cui viene proposta. Si obbietta che scegliere per sorteggio i membri togati del Csm li renda meno qualificati e rappresentativi, rispetto a candidati scelti con un meccanismo elettivo... Ma i magistrati per definizione dovrebbero essere qualificati. Sia mentre svolgono il servizio che quando diventano membri del Csm, dovrebbero conservare i requisiti che indica la Costituzione per loro: autonomia e indipendenza. Eppure le assicuro che, nel mio quadriennio al Csm, ho visto spesso una grande mancanza del distacco necessario a prendere le decisioni senza schieramenti preconfezionati. Mentre la politica lavora alla riforma dell’ordinamento giudiziario, dentro la magistratura si ripete che la prima riforma dovrebbe essere etica e avvenire dall’interno della categoria stessa, perché non è con la legge che si risolve una crisi come quella attuale. Crede sia possibile? Non mi sembra positivo che la magistratura si dica da sola come deve essere, perché ogni giudizio su se stessi è viziato. Inoltre in questa fase mi sembra che la magistratura manchi di due requisiti necessari per fare questo percorso: la serenità e la freddezza. Quindi serve la politica, che prova a recuperare spazio. Avrà la forza per riformare la magistratura? La politica dovrebbe recuperare spazio in tutti i settori, perché lo ha perso ovunque e non solo nei confronti della magistratura. Mi sembra che il presidente del Consiglio Mario Draghi stia provando a farlo, bisogna vedere se i partiti lo seguiranno oppure proveranno a ostacolarlo. A non aiutare la serenità del rapporto tra politica e magistratura, però, è anche la stampa. Perché? Glielo spiego in questi termini. Nel 1960, quando ho iniziato a fare l’avvocato, il rispetto per il ruolo di terzietà del magistrato era tale e talmente forte che si aveva pudore di dire di averlo incontrato al di fuori dei luoghi di lavoro. Oggi, invece, sembra che i magistrati siano ovunque e, se non li intervistano, i giornalisti sentono di non aver fatto il loro lavoro. Ci vorrebbe maggior riserbo, a tutela di tutti. Oltre che membro del Csm, lei è stata anche ministra per gli Affari sociali del governo Ciampi e la prima donna giudice della Corte costituzionale. Si può dire che lei abbia aperto la strada alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, che della Consulta è stata la prima donna presidente... Per me essere donna è stato difficile solo all’inizio della mia carriera. Ho dovuto faticare molto per entrare all’università di giurisprudenza e poi per iniziare la professione di avvocato, che negli anni Sessanta in Italia era ancora difficile per le donne, anche se nel mio campo, che è sempre stato il diritto civile, la difficoltà si sopportava meglio. In tutti gli altri ruoli che ho avuto la fortuna di ricoprire, invece, non ho mai avvertito discriminazioni. Meno che mai alla Corte costituzionale, dove il rapporto coi colleghi è sempre stato di assoluta parità, anche nei confronti più duri. L’unica incomprensione, se vuole saperla, l’ho avuta quando mi sono insediata e ho dovuto insistere per farmi cucire i bottoni della toga nel verso giusto, perché li avevano messi al maschile. Napoli. Nisida, l’isola dove si può sconfiggere il destino segnato acri.it, 23 maggio 2021 In Italia esistono 17 istituti penali minorili; uno di questi si trova a Nisida, un’i-sola nel territorio del comune di Napoli, collegata alla terraferma da una strada. Non si tratta di un isolotto qualunque però: “Nisida è prima di tutto un luogo meraviglioso, una piccolissima isola del Golfo che ha una flora mediterranea splendida. È un’isola che è stata raccontata da Cicerone, Boccaccio, Dumas, Cervantes…” - ci ha raccontato Maria Franco, che all’istituto minorile - fatto costruire dai Borboni nell’800 - ha insegnato per 35 anni. A differenza dalle altre carceri minorili d’Italia, dove c’è un’altissima percentuale di ragazzi stranieri, qui gli ospiti sono quasi esclusivamente ragazzi napoletani e dell’hinterland. Nisida è una delle carceri “virtuose”, che ha programmato moltissime attività per i ragazzi, dai laboratori di ceramica a quelli di scrittura. La professoressa Franco si è spesa tanti anni per coinvolgere alcuni scrittori in laboratori di scrittura insieme ai ragazzi. Questo lavoro ha portato anche alla pubblicazione di un libro “Dietro l’angolo c’è ancora strada” (Guida Editori 2020), con il contributo di sette autori, tra i quali Viola Ardone e Patrizia Rinaldi. Perché, per adempiere alla sua funzione rieducativa, il carcere non può ignorare il nesso strettissimo tra bellezza ed educazione: “Se produci una ceramica, rappresenti una commedia, scrivi, disegni o coltivi una pianta, mostri a te stesso di essere capace di raggiungere un risultato che non ha a che fare solo con il negativo. In qualche modo sconfiggi il concetto di desti-no segnato”. Questo, però, non basta, soprattutto dopo una pandemia che ha marcato ancora più fortemente le disuguaglianze tra i ragazzi. “Io non riesco a smettere di pensare che in questo periodo alcuni ragazzi provenienti da contesti difficili abbiano continuato a perdere parole, parole che non hanno appreso. Non apprendere parole aggrava fortemente il percorso futuro di un ragazzo, anche quando tornerà a scuola, se mai ci tornerà” dice Maria Franco. Come qualsiasi altra persona costretta a scontare una pena, la vita esiste anche prima e dopo il carcere e questo è un concetto che anche i ragazzi detenuti a Nisida hanno ben presente. Sulla quarta di copertina del libro recentemente pubblicato è scritta una frase di uno dei ragazzi detenuti, Giovanni A.: “Credo che lo Stato debba mettere più risorse per i giovani problematici come me che, una volta usci-ti dal carcere, si ritrovano da soli nello stesso contesto da dove venivano e magari han-no anche quella luce dentro di loro, che vorrebbero tirare fuori, ma non hanno gli strumenti per farlo. Lo Stato non pensa a questo, si fa carico di te solo quando sei in carcere, ma una volta libero sei solo”. Gorgona (Li). Visita del Capo Dipartimento Bernardo Petralia maremmanews.it, 23 maggio 2021 Nel pomeriggio di ieri, in occasione della visita all’isola di Gorgona dei massimi vertici dell’Amministrazione Penitenziaria, il Coordinamento Provinciale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria di Livorno, ha consegnato nelle mani del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Presidente Bernardo Petralia e del Direttore generale dei detenuti e del trattamento Dott. Gianfranco De Gesu, un documento che delinea la reale situazione delle criticità maggiormente rilevanti, che condizionano fortemente la qualità lavorativa del personale di Polizia Penitenziaria che opera sull’unica isola carcere, ma anche la vivibilità di essa. Ne dà comunicazione il Segretario Generale Provinciale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria di Livorno Mauro Barile - Oltre agli aspetti strettamente legati alla gestione delle risorse umane ed economiche destinate al penitenziario insulare, ciò che segna è la mancanza di progettualità di attualizzare ogni possibile idea per ridurre, se non evitare del tutto, l’impatto ambientale che sta portando al declino un territorio spontaneamente rigoglioso, seppur distante dalla terra ferma e mal collegato con la città di Livorno, che allo stato dei fatti è negletto! - Aggiunge Barile - La mancanza di acqua potabile, corrente elettrica, riscaldamento e di collegamenti con la terra ferma, è un punto importantissimo a cui le istituzioni e la politica nazionale, ma anche regionale, dovrebbero interessarsi. Ovviamente, abbiamo chiesto una dirigenza che dia attenzione ai problemi che denunciamo da tempo, ma anche che sia capace di concordare con le OO.SS. un accordo decentrato chiaro, confacente alle aspettative lavorative e al benessere di quel personale che presta servizio sull’Isola di Gorgona, ma anche su quella di Porto Azzurro, attribuendo ad essi un punteggio maggiore per essere trasferito poi nella sede prescelta, essendo le isole sedi di servizio disagiate e che a lungo andare comportano stress da lavoro correlato. - Sulla questione interviene e conclude il Segretario Generale Regionale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Eleuterio Grieco - È importante in questo momento cogliere l’occasione per catalizzare i fondi destinati dall’Europa, affinché l’Italia indirizzi alle due isole carcere della Toscana, come Gorgona e Porto Azzurro-Pianosa, specifici fondi essendo istituti penitenziari particolari, che solo la Nazione possiede, per cui la loro valorizzazione è importantissima, così come è importante ripristinare da subito la Base navale di Porto Azzurro, con nuovi navigli per il ruolo che svolge per Pianosa, essendo stata ricollegata con un progetto di recupero dei reclusi. Naturalmente, insistiamo affinché si ridisegni la geografia penitenziaria della Toscana con nuovi istituti di pena, partendo da quello di Grosseto, che nonostante sia stata destinata l’area da edificare da più di un anno (ex caserma Barbetti), ancora non sono giunte notizie dell’avvio dei lavori, per cui anche la Regione dovrebbe intervenire affinché questa situazione di stallo si sbocchi immediatamente. S.M. Capua Vetere. Dalle detenute le mascherine per la ricorrenza della strage di Capaci di Raffaele Sardo La Repubblica, 23 maggio 2021 Saranno distribuite il 23 maggio si ritroveranno sotto l’Albero Falcone, per il “Silenzio” delle 17.58, ora dell’attentato. Sono in tessuto di colore blu e portano su di un lato l’immagine stilizzata dell’albero di via Notarbartolo 23 a Palermo, logo della Fondazione Falcone. Sono le mascherine prodotte dalle detenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in numero di 4000, che saranno indossate dalle personalità presenti in occasione della commemorazione della strage di Capaci, che avrà luogo a Palermo domenica 23 maggio nell’aula bunker dell’Ucciardone, il luogo dove si svolse il Maxiprocesso a Cosa Nostra, divenuto uno dei simboli di quella stagione antimafia. Nella strage avvenuta il 23 maggio del 1992, a Capaci, morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro. Vi furono 23 anche feriti. Tra i presenti alla cerimonia per ricordare quell’attentato mafioso, anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Le mascherine saranno distribuite anche a coloro che il 23 maggio si ritroveranno sotto l’albero Falcone, per il “Silenzio”, alle 17.58, l’ora della strage. L’iniziativa di produrre mascherine su scala industriale nelle carceri, è nata grazie al progetto #Ricuciamo. Si tratta di un progetto nato durante il lockdown nel 2020 frutto della partnership fra Ministero della Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Commissario straordinario di governo per l’emergenza Covid-19, e sottoscritto dall’allora Commissario Domenico Arcuri e dall’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Il progetto viene realizzato nelle carceri di Milano-Bollate, Roma-Rebibbia e Salerno. Nel progetto rientra anche il laboratorio di Santa Maria Capua Vetere come succursale per il confezionamento di dispositivi di protezione in tessuto con loghi e messaggi sociali come quello prodotto in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne con la scritta “Stop alla violenza sulle donne” riportata su 20mila mascherine. In Campania, dunque, vi sono due punti di produzione. A Salerno, dove alle due macchine per la produzione di mascherine chirurgiche allestite a Salerno lavorano su due turni 40 detenuti, e Santa Maria Capua Vetere, dove, invece, sono una decina le detenute del laboratorio sartoriale della sezione femminile dell’istituto a realizzare mascherine. Quelle prodotte in occasione della ricorrenza della strage di Capaci, sono mascherine “di comunità”, e dunque vanno indossate sopra altre mascherine certificate. Per questo motivo oltre alle prodotte a Santa Maria Capua Vetere ne arriveranno altrettante chirurgiche prodotte nel carcere di Salerno. Vaccini. Ecco la nuova proposta di India e Sudafrica per i brevetti liberi di Francesca De Benedetti Il Domani, 23 maggio 2021 Mentre l’Ue con la sua “terza via” mette in salvo la proprietà intellettuale e Big Pharma annuncia le sue concessioni al Global Health Summit, i paesi che da ottobre chiedono la sospensione dei brevetti mostrano la loro determinazione e compattezza. In anticipo sulla tabella di marcia arriva la nuova proposta, il “waiver rivisto”. Domani ha potuto leggere il testo che arriva sul tavolo della World Trade Organization. La nuova bozza definisce una durata precisa della deroga (3 anni) ma rimane più ampia dell’idea Usa, che era limitata ai vaccini. Il “nuovo waiver” considera molto altro. Mentre l’Unione europea con la sua “terza via” mette in salvo la proprietà intellettuale e Big Pharma annuncia le sue concessioni al Global Health Summit, i paesi che da ottobre chiedono la sospensione dei brevetti mostrano la loro determinazione e compattezza. In anticipo sulla tabella di marcia - perché era attesa per la prossima settimana - arriva la nuova proposta, il “waiver rivisto”. Domani ha potuto leggere il testo che arriva sul tavolo della World Trade Organization. Perché un testo rivisto - “Il 2 ottobre India e Sudafrica hanno presentato al consiglio Trips una comunicazione contenente la proposta per il waiver - la deroga - su alcuni provvedimenti dell’accordo Trips e hanno proposto una bozza di decisione. Il consiglio Trips ha avuto una estesa discussione sulla proposta”. Come dire, molti mesi sono passati, molti chiarimenti e dettagli sono stati chiesti a India e Sudafrica. Soprattutto da parte di Unione europea e altri paesi ricchi, che hanno tenuto in ostaggio la proposta. Ma intanto l’iniziativa di India e Sudafrica ha raccolto più di sessanta co-sponsor, i paesi favorevoli sono 118. E ultimamente gli Stati Uniti hanno scongelato l’impasse dichiarandosi favorevoli a discutere la sospensione dei brevetti dei vaccini. Di più: Washington è pronta a discutere su un testo (“text-based negotiation”, insomma un livello avanzato di negoziato). “Allo scopo di passare alla negoziazione su un testo, prendiamo in considerazione i feedback ricevuti e presentiamo una bozza di decisione rivista”. Così viene emendato il “waiver” - Stavolta i fautori della proposta sono India e Sudafrica ma anche altri paesi africani, come pure il Pakistan, la Bolivia, Venezuela, Indonesia e ulteriori delegazioni. Gli emendamenti al testo precedente sono riassunti così: anzitutto, stavolta c’è una attenzione al problema delle varianti, che a ottobre non era così evidente. “Abbiamo rivisto il testo alla luce della preoccupazione per le continue mutazioni e dell’emergere di nuove varianti”. Poi, i paesi tengono conto dell’obiezione che “la deroga è troppo vasta” e che va precisata meglio. Dunque chiariscono nella nuova versione che “la deroga alla proprietà intellettuale è limitata in relazione a Covid-19” e definiscono meglio anche l’ambito temporale in cui i brevetti andrebbero sospesi. Tre anni - “Questa deroga dovrebbe essere in vigore per almeno tre anni dalla data in cui la decisione viene presa”. Viene prevista una verifica annuale da parte del consiglio generale, che deve accertarsi che sussistano le condizioni di emergenza che hanno consentito la deroga. “Il consiglio generale dovrebbe, da allora, farsi carico di verificare l’esistenza delle circostanze eccezionali che giustificano la deroga. Qualora queste circostanze cessino, il consiglio generale può definire una data in cui interrompere il waiver”. Più ampia degli Usa - La proposta statunitense, ancora non finalizzata in un testo sul tavolo della Wto, si limitava a discutere la sospensione dei brevetti dei vaccini. Il “waiver rivisto” invece mantiene un raggio di azione più ampio: “La deroga andrebbe applicata in relazione a prodotti sanitari e tecnologie che includano diagnostica, terapeutica, vaccini, dispositivi medici, equipaggiamento di protezione per il personale sanitario, i relativi materiali o componenti, e i loro metodi e mezzi di manifattura, per la prevenzione, il trattamento o il contenimento di Covid-19”. È il momento di fare un referendum sull’eutanasia: il solo modo per ottenere una legge civile di Marco Cappato* L’Espresso, 23 maggio 2021 I capi partito hanno troppa paura di impegnarsi per i diritti civili. Per questo serve ancora una volta la mobilitazione dal basso. F. è malata terminale di cancro, entro poche settimane sarà morta, mi ha chiesto aiuto per ottenere l’eutanasia e risparmiarsi l’agonia degli ultimi giorni. Se fosse “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale” avrebbe diritto a farsi aiutare dai medici dell’Asl per la somministrazione di un farmaco letale. Ma i pazienti oncologici come lei, pur se sottoposti a sofferenze insopportabili e irreversibili, sono esclusi da questo diritto introdotto dalla Corte costituzionale nella sentenza del 2019 sul processo a mio carico per l’aiuto a Fabiano Antoniani. In questi due anni il numero di persone che ha ottenuto l’aiuto alla morte volontaria è zero. Le Asl hanno sempre negato il rispetto della volontà del malato anche quando rientra nei criteri stabiliti dalla Corte. Con Filomena Gallo e l’Associazione Luca Coscioni forniamo assistenza legale e informazioni, con il Numero Bianco sul fine vita 0699313409, ma servirebbe una legge per definire procedure, scadenze e responsabilità. La stessa Consulta aveva rivolto un “monito al legislatore affinché provvedesse all’adozione della disciplina necessaria al fine di rimuovere il vulnus costituzionale riscontrato”, perché “l’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore”. Ma il Parlamento ha fatto orecchie da mercante. Già, il Parlamento. Nel 1984 Loris Fortuna, già padre della legge sul divorzio, firmò la prima proposta di legge per la legalizzazione dell’eutanasia. Il Parlamento non la discusse. Nel 2006, in occasione della lotta di Piergiorgio Welby per la propria “morte opportuna”, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scrisse che davanti alla richiesta di Welby “l’unico atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio”. Il Parlamento restò muto. Nel 2013 abbiamo depositato una proposta di legge di iniziativa popolare per l’eutanasia legale, il Parlamento non ne ha discusso nemmeno per un minuto. Alla fine della scorsa legislatura, nei giorni del processo “Cappato-DJ Fabo”, fu adottata la legge sul consenso informato e le dichiarazioni anticipate di trattamento: un’ottima legge ma sconosciuta ai più. Da allora sono arrivati due richiami della Corte costituzionale e le assoluzioni di Mina Welby e mie nei processi per altre azioni di disobbedienza civile. E in Parlamento? Forza Italia ha bloccato la discussione senza che dai vertici del Pd né da quelli del M5S sia stata spesa una parola di impegno a discutere la legge. I sondaggi danno costantemente i favorevoli alla legalizzazione oltre il 70%, viene da chiedersi perché i capi dei partiti - inclusi quelli in teoria più favorevoli - continuino a impedire il dibattito. Se un tempo si sarebbe potuta attribuire la responsabilità al Vaticano, oggi Papa Francesco, che non ha cambiato posizione sulla “morte naturale”, non organizza truppe parlamentari come i suoi predecessori. Le ragioni vanno piuttosto ricercate nella paura dei capi partito che temi relativi ai diritti civili non rientrino nelle logiche di coalizione, o fazioni e correnti, che occupano strutturalmente gruppi sempre meno rappresentativi di realtà sociali. Il Governo di larghissime intese di Mario Draghi, nato per fronteggiare la pandemia e risollevare il Paese, dovrebbe suggerire al Parlamento la libertà di assumersi la responsabilità di decisioni slegate dalle sorti dell’esecutivo. Il fine vita sarebbe un tema su cui esercitarle, ma le possibilità di approvare una legge per l’eutanasia, come accaduto il mese scorso in Spagna, non si materializzeranno prima della fine della Legislatura. F. non ha tempo, come non ne hanno decine di migliaia di malati che nei prossimi anni, senza un intervento legislativo, si troveranno a subire condizioni di tortura insopportabile. L’Associazione Luca Coscioni ha promosso un referendum per depenalizzare l’aiuto attivo a morire e aprire la strada a una legge sul modello olandese, belga e spagnolo. La raccolta inizia a luglio per finire a settembre. Se i partiti non vogliono decidere, lo potranno fare gli elettori. *Tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni Migranti. Il Parlamento sta per decidere se rifinanziare la guardia costiera libica di Francesca Mannocchi L’Espresso, 23 maggio 2021 Nei prossimi giorni si discuterà il decreto. Una sfida per il governo Draghi con in maggioranza Salvini e il Pd di Letta. L’Italia continuerà a chiudere gli occhi sul tema dei diritti, dei centri di reclusione e delle violenze sui migranti? Nella notte tra il sette e l’otto aprile scorso un uomo è stato ucciso e due giovani, un diciassettenne e un diciottenne, sono rimasti feriti nel centro di raccolta di Al-Mabani, a Tripoli. Secondo le ricostruzioni dei testimoni della sparatoria raccolte dalle organizzazioni umanitarie che hanno raggiunto il posto, nel centro di detenzione, gravemente sovraffollato, è scoppiata una rissa, le guardie hanno reagito ai disordini aprendo il fuoco indiscriminatamente e alcuni colpi hanno raggiunto le celle uccidendo l’uomo e ferendo i due ragazzi. Il centro di detenzione di Al-Mabani è un edificio che solo lo scorso anno è stato adibito a centro di smistamento per i migranti riportati indietro dalla Guardia Costiera libica. È lì che dopo le operazioni di sbarco vengono portate le persone, è lì che restano per un tempo indefinito prima di essere spostate in uno dei diciassette centri ufficiali. Oggi il centro di Al-Mabani è il più affollato a Tripoli. A febbraio, nel giro di poche settimane, è passato dalla capienza prevista - circa 300 persone - a 1500, significa che in ogni stanzone ci sono tra le duecento e le duecentocinquanta persone e che, insieme ai migranti, sono aumentate le tensioni. Le condizioni nel centro di Al-Mabani sono invivibili: c’è poca luce e ventilazione, non arriva abbastanza cibo né acqua, non ci sono bagni per tutti, solo tre o quattro ogni duecento persone, ben al di sotto degli standard internazionali. Secondo Medici senza Frontiere si contano tre persone per metro quadrato, lo staff medico continua a riscontrare casi di scabbia e tubercolosi e le persone chiedono di dormire vicino alle latrine perché è l’unico posto da cui entri un po’ di aria e di luce naturale. Non è la prima volta che emergono racconti di rifugiati e migranti esposti a violenza nei centri di detenzione libici. Negli ultimi mesi sono state segnalate varie sparatorie e conseguenti morti, nel solo mese di febbraio Msf ha curato 36 detenuti per fratture, traumi contusivi, abrasioni e ferite da arma da fuoco. Tutte recenti, tutte riportate nei centri di detenzione. È a queste condizioni di invivibilità e pericolo che sono esposti i migranti una volta ripresi in mare dalla Guardia Costiera libica, finanziata anche dall’Italia. E non sono solo i migranti a rischiare di fronte all’intervento dei libici. Il sette maggio scorso i pescherecci italiani Artemide, Aliseo e Nuovo Cosimo sono stati avvicinati da una motovedetta libica in acque internazionali a 35 miglia nautiche dalle coste di Misurata. La motovedetta che ha aperto il fuoco ferendo a un braccio e alla testa il comandante della Aliseo, Giuseppe Giacalone, è la Ubari 660, una delle sei motovedette donate dall’Italia alla Libia a seguito della firma del Memorandum di Intesa del 2017, ai tempi dell’esecutivo Gentiloni, quando Marco Minniti era ministro dell’Interno. È sulla base di questi fatti, più volte documentati e denunciati, che il Parlamento italiano sarà chiamato tra qualche settimana a rivotare il Decreto Missioni che include la Scheda 22 cioè il rifinanziamento alla Guardia Costiera libica. Negli ultimi quattro anni, secondo i calcoli forniti da Oxfam, il totale delle quattro missioni in Libia è costato all’Italia 213 milioni di euro. Ma i fondi delle missioni militari sono solo una parte dei soldi spesi dall’Italia in attuazione dell’accordo italo-libico del 2017: non vi sono conteggiati i 30 milioni di euro del Fondo Africa destinati alla Libia nel triennio 2017-2019, né i fondi di difficile quantificazione che transitano dal Ministero dell’Interno e dal Ministero della Difesa e, se aggiungiamo i soldi destinati alle missioni navali nel Mediterraneo che contengono attività di pattugliamento e coordinamento con la Guardia Costiera Libica (Irini, Mare Sicuro, Sea Guardian), i fondi raggiungono i 755 milioni di euro. La posizione di Mario Draghi che, nel suo primo viaggio a Tripoli all’inizio di aprile, ha ringraziato la Libia per “i salvataggi in mare”, è chiara. Durante il question time del 12 maggio scorso ha ribadito: “La priorità nel breve periodo è il contenimento della pressione migratoria nei mesi estivi. Siamo impegnati a ottenere dai Paesi di partenza, in particolare da Libia e Tunisia, una collaborazione più intensa ed efficace nel controllo delle frontiere marittime a terrestri”. Breve periodo, controllo delle frontiere e contenimento, dunque. Draghi oggi ha di fronte due sfide, la prima in Europa: in occasione del vertice del Consiglio Europeo il prossimo 24 maggio deve tentare di convincere gli altri stati membri a tenere fede agli accordi presi e ripristinare le posizioni dell’accordo di Malta su una effettiva redistribuzione delle persone migranti. La seconda è tutta interna e altrettanto ostica: sintetizzare le posizioni nella sua compagine di governo, la politica dei porti chiusi di Matteo Salvini e le posizioni del nuovo segretario del Pd Enrico Letta. Sfida nella sfida è quella interna al Pd, chiamato a risolvere una crisi di identità. Il Pd del 2021 sarà lo stesso partito che l’anno scorso, a luglio, disconoscendo l’ordine del giorno emerso dall’Assemblea Nazionale, votò quasi compattamente il rifinanziamento alla Missione in Libia o sarà un partito più vicino alla biografia del segretario? La memoria corre al 3 ottobre del 2013: un barcone con a bordo 500 migranti naufragò vicino all’Isola dei Conigli, a Lampedusa. Morirono 366 persone. Fu proprio il governo Letta a dare vita a Mare Nostrum, una missione pensata per “garantire la salvaguardia della vita in mare e assicurare alla giustizia coloro che lucrano sul traffico di uomini”. L’Italia mise in campo mezzi navali e aerei della Marina, dell’Aeronautica, della Guardia di Finanza e delle Capitanerie di porto. In un anno, tanto durò Mare Nostrum, vennero effettuati quasi seicento interventi e salvate centomila persone. “Per l’operazione della Marina italiana”, disse l’anno successivo il ministro Angelino Alfano decretandone la sospensione, “l’Italia ha speso 114 milioni di euro, 9 milioni al mese”. La palla passò poi all’operazione Triton gestita da Frontex, e a poco a poco i governi europei hanno svuotato il Mediterraneo dai mezzi militari e ostacolato il lavoro delle organizzazioni umanitarie e gradualmente impostato le politiche migratorie non sulla ricerca e il soccorso, ma sulle politiche securitarie e l’esternalizzazione dei confini, delegando il controllo delle coste a istituzioni fragili e compromesse come la Guardia Costiera Libica addestrata e ampiamente finanziata dall’Italia. Contraddizioni interne ai partiti, contraddizioni interne al governo. Letta, per uscire dall’impasse, rilancia l’idea che la missione Eunavfor Med Irini si trasformi in una missione che consenta anche di gestire i salvataggi in mare, allontanandosi dal proprio mandato. Difficile che avvenga tenendo conto che l’obiettivo principale di Irini è “quello di contribuire all’attuazione dell’embargo sulle armi imposto dall’Onu nei confronti della Libia con mezzi aerei, satellitari e marittimi” e “tenendo conto che la missione è stata appena rinnovata per altri due anni, fino a marzo del 2023”, nota Paolo Pezzati di Oxfam che aggiunge: “Molto più probabile che tutti gli sforzi verranno concentrati nel tentativo di cancellazione della Missione alla scheda 22”. Avrebbe un alto valore simbolico, significherebbe cioè ammettere che fino ad ora l’Italia ha sbagliato a finanziare una istituzione compromessa con le milizie armate e i trafficanti ma avrebbe un grande risultato politico: demolire la narrazione costruita intorno al Mediterraneo Centrale negli ultimi anni. Cioè che il problema sia solo in mare e non molto più concretamente a terra. Quello che è invece più probabile che accada, analizzando le dichiarazioni seguite alle ultime visite di stato (Lamorgese, Draghi e Di Maio in Libia) è che i fondi alla missione verranno sostanziosamente aumentati in continuità con l’esigenza di “contenere i flussi migratori” e per rafforzare il legame con il nuovo esecutivo di Tripoli, legame minacciato dalla presenza sempre più massiccia della Turchia. Nelle settimane che precedono il voto, il Mediterraneo è praticamente privo di pattugliamento e di un coordinamento dei soccorsi, poche le Ong ancora in condizione di effettuare recuperi (singolare a tale proposito quanto sottolineato da Matteo Villa, analista dell’Ispi: durante il governo Conte II si è arrivati al fermo amministrativo di sette imbarcazioni tra ottobre e dicembre del 2020, lasciando il Mediterraneo privo di assetti di ricerca e soccorso, durante il Conte I erano quattro). Nelle stesse settimane sono sempre più i migranti riportati in Libia: 9 mila dall’inizio dell’anno, che si aggiungono ai 50 mila dei quattro anni precedenti. A poche settimane dal voto, dunque, l’equazione sulla Guardia Costiera libica è presto fatta: quante più persone vengono riportate a Tripoli, sulla terraferma, dai mezzi della Guardia costiera, tante più persone finiranno nei centri di detenzione, le cui condizioni - inalterate negli anni - espongono i migranti al rischio di abusi, sfruttamento e di violenze. L’incognita dell’equazione è quali siano le parole d’ordine con cui l’Europa - compattamente - vuole gestire il fenomeno nel lungo periodo. E dunque se, prima di (non) agire in mare intenda agire a terra. Per ottenere una soluzione a terra è necessario che la politica si chieda e proponga progetti di stabilizzazione, sviluppo e lotta alla povertà di medio e lungo termine, non tamponi estivi durante la (ampiamente prevedibile dal calendario) stagione delle partenze. Continuare a finanziare la Guardia Costiera libica, per l’Italia, significa destinare (sapendolo) un numero crescente di persone a una detenzione arbitraria in luoghi in cui ogni negoziazione sul rispetto dei diritti umani dal 2017 a oggi è fallita. Della discussione sui diritti umani, e la riformulazione del Memorandum, nonostante ripetuti annunci, dopo anni non c’è traccia. Il Parlamento è chiamato a questo, nell’estate del 2021, non a decidere se spendere ma come. Non se negoziare, ma su cosa. Se sul contenimento e la protezione dei confini o sul rispetto dei diritti umani. Colombia. Mario Paciolla, molta solidarietà ma ancora nessuna giustizia di Gianpaolo Contestabile Il Manifesto, 23 maggio 2021 Dai genitori del dipendente Onu trovato senza vita lo scorso luglio nuovo appello ai suoi colleghi: “Possibile che non sappiano nulla?”. A oltre 10 mesi dalla morte di Mario Paciolla, avvenuta durante la Missione di Verificazione degli Accordi di Pace dell’Onu in Colombia, i genitori, Anna e Giuseppe, continuano a chiedere giustizia e verità per loro figlio: “Purtroppo non abbiamo notizie precise di quello di cui la procura di Roma è venuta a conoscenza, sappiamo che sono molto impegnati per svolgere un’approfondita istruttoria e che hanno presentato diverse rogatorie. Sappiamo che la giustizia colombiana appare collaborativa, poco sappiamo invece dell’Onu. Ultimamente abbiamo appreso dai giornali che sia i Ros che la procura si sono recati in Colombia, in tempo di pandemia davvero un fatto straordinario. Noi immaginiamo che riguardo all’autopsia ci siano ancora approfondimenti da svolgere e che ci siano documenti che dovranno ancora arrivare dalla Colombia, pertanto, tutto è coperto da assoluto riserbo”. La mancanza di informazioni provenienti dalle autorità giudiziarie non è l’unica difficoltà riscontrata, infatti i genitori chiariscono che: “A livello istituzionale centrale non abbiamo avuto nessun contatto”. Se la politica nazionale non sembra volersi esporre per fare luce sulla vicenda, la comunità politica e sociale che sostiene la causa della famiglia Paciolla continua invece a ingrandirsi: “Abbiamo avuto la solidarietà di sindaci, presidi e gente comune che hanno aderito all’iniziativa di esporre dei banner per chiedere giustizia per Mario”. Alla lista dei municipi solidali che hanno deciso di esporre gli striscioni figurano Casoria, Crispano, Caivano, Mugnano, Frattamaggiore, Sant’Anastasia e lo stesso comune di Napoli. Nel capoluogo campano, nel quartiere del Vomero, nel nuovo campo sportivo intitolato al cestista Kobe Bryant, è stato inaugurato un murales dedicato a Mario Paciolla. L’artista Luca Carnevale lo ha raffigurato in compagnia di Corto Maltese, il celebre marinaio protagonista delle opere di Hugo Pratt, e di una scogliera affacciata sul mare, lo stesso mare in cui sognava di poter tornare a bagnarsi, come confidò ai genitori pochi giorni prima della sua morte violenta. Un murales che fa da monito per il rispetto dei diritti umani e che costruisce un legame tra chi vive nell’hinterland napoletano e le centinaia di migliaia di persone che chiedono giustizia e verità dall’altra parte dell’oceano, in un Paese, la Colombia, dove chi difende i diritti umani continua a essere ucciso impunemente. Se già durante il 2020 la Colombia deteneva il triste record di uccisioni di attivisti e attiviste dei diritti umani, 177 omicidi su 331 commessi a livello mondiale, nelle ultime settimane le violenze contro movimenti sociali e manifestanti si è intensificata ulteriormente. Dal 28 aprile, il giorno in cui è iniziato lo sciopero nazionale, sono stati assassinati circa 40 manifestanti, si contano più di 500 desaparecidos, più di mille arresti arbitrari, centinaia di feriti, decine dei quali con gravi lesioni oculari e diversi casi di violenze sessuali e di genere. Sono decine anche i casi di aggressioni alle organizzazioni umanitarie, tra cui l’Onu che ha denunciato violenze e esecuzioni perpetrate dalla polizia colombiana. Già nel 2018 Mario Paciolla, con lo pseudonimo Astolfo Bergman, descriveva sulle pagine di Limes i rischi insiti nell’elezione, allora appena avvenuta, dell’attuale presidente della Repubblica colombiana Ivan Duque. Mario definiva la vittoria di Duque come “il successo di uno dei più fermi oppositori di quanto pattuito a L’Avana”, cioè gli Accordi di Pace, lasciando presagire un nuovo periodo di guerra e di violenze contro la popolazione colombiana. In questo contesto di ingiustizia sociale e sistematica violazione dei diritti umani diventa fondamentale la presa di posizione degli organismi internazionali come le Nazioni Unite. I genitori di Mario Paciolla si rivolgono proprio all’Onu: “Un’organizzazione molto importante e potente, secondo noi poco disposta a collaborare coi nostri legali forse per un diretto coinvolgimento e tarda a darci risposte su ciò che è successo in quella discussione che Mario ebbe proprio con membri dell’organizzazione”. E concludono con un appello diretto a “chi lavorava con Mario, chi ha condiviso con lui momenti di amicizia, vacanze e si dichiarava amico di nostro figlio, possibile che non sappiano nulla, non hanno una loro etica e coscienza che li richiama a dire la verità e soprattutto si fidano di un’organizzazione che non è capace di proteggere e tutelare i suoi dipendenti? O la morte di un amico e di un collega vale meno di uno stipendio?”. “Io, prigioniero in Sudan: fatemi tornare a casa” di Andrea Priante Corriere del Veneto, 23 maggio 2021 La disperazione dell’imprenditore veneziano arrestato in Africa. Trovato morto il suo accusatore. “Dormo sul pavimento assieme ad altri detenuti in attesa di una decisione dell’autorità che sembra non arrivare mai”. Sono le parole dell’imprenditore veneziano da 52 giorni recluso in Sudan. “Sono stanco e confuso, non so neppure con certezza quel che sta accadendo fuori di qui”. Marco (la famiglia chiede di non diffondere il cognome) è l’imprenditore veneziano di 46 anni che dall’1 aprile è rinchiuso in una cella del commissariato di Khartum, la capitale del Sudan. Cinquantadue giorni in condizioni disumane. “Dormo sul pavimento assieme ad altri detenuti - sono le parole che affida a chi, in queste ore, ha potuto parlarci - in attesa di una decisione dell’autorità locale che sembra non arrivare mai. E tutto a causa di una persona con la quale non ho mai avuto alcun rapporto commerciale”. Il colloquio dura pochi minuti, poi si deve interrompere. “Ci sono le guardie fuori dalla cella. Spero che la situazione si sblocchi subito, per tornare da mia moglie e dai miei figli”. Fuori dal carcere, suo padre si sta dannando per riuscire a salvarlo. “È uno strazio, mio figlio è sfinito, non può resistere ancora a lungo”. L’imprenditore è accusato di frode e, stando alle ricostruzioni che giungono dal Paese africano, dietro al suo arresto ci sarebbe il miliziano Abdallah Ahamed, considerato vicino al clan del feroce generale Mohamed Hamdan Dagalo, protagonista del colpo di Sato del 2009 e accusato del massacro e degli stupri di Adwa del novembre 2004 nel Darfur meridionale. “Il consolato italiano finora non è riuscito a risolvere la situazione, la politica italiana non può rimanere ferma perché ogni giorno che passa i pericoli aumentano”, prosegue il padre, che da giorni si trova a Khartum per stargli accanto. La vicenda, così come la racconta la famiglia, gira intorno a un affare concluso nei mesi scorsi dall’azienda dell’imprenditore, che ha sede a Venezia ed è specializzata nella produzione di materiale elettrico. Da lì sarebbe uscita una grossa partita di trasformatori acquistati da un distributore sudanese, Ayman Gallabi, e destinati all’azienda elettrica del Paese. Il cliente avrebbe fatto testare il prodotto dai tecnici dei laboratori di un’azienda locale, concorrente di quella veneziana. Secondo loro, i trasformatori non rispettavano gli standard necessari. Per sbloccare la situazione, a metà marzo Marco è volato in Sudan e lì è stato arrestato una prima volta dalla polizia, su richiesta di Gallabi che l’aveva denunciato per frode. Trasferito in un albergo, e piantonato dalle forze dell’ordine sudanesi, il veneziano ne è uscito il primo aprile dopo aver convinto il suo accusatore a ritirare le accuse in cambio di un versamento di 400mila euro e un accordo commerciale. L’incubo sembrava concluso. “E invece, arrivato all’aeroporto, è stato nuovamente arrestato, stavolta su denuncia di un soggetto che si fa forza delle strette relazioni con potenti miliziani locali” aggiunge un altro parente che segue la vicenda da Venezia. Abdallah Ahamed, il fedelissimo del generale Mohamed Hamdan Dagalo, sarebbe parte in causa perché viene considerato il principale finanziatore dell’azienda di distribuzione di Gallabi. “Vuole soltanto spillargli altro denaro”, è la convinzione di molti. Si parla di una richiesta di 700mila euro. “Ma mio figlio tutti quei soldi non li ha” assicura il padre. Sbattuto in una cella del commissariato di Khartum, l’imprenditore è tuttora rinchiuso in condizioni che vengono descritte come “terribili”, con seri problemi igienico-sanitari. “Condivide uno stanzone con altre trenta persone, un solo bagno e le temperature arrivano a 46 gradi è costantemente vessato dal punto di vista psicologico”, assicurano. A rendere ancora più inquietante il quadro, dal Sudan giunge una notizia: Ayman Gallabi - descritto come “un esperto nuotatore” - è stato ritrovato morto venerdì pomeriggio, “annegato nel Nilo Azzurro” spiega il cugino Mohammed Elsayir, a poca distanza dall’area archeologica di Soba. “Ucciso per una vendetta dei miliziani” è invece la voce che si rincorre a Khartum, anche se in un Paese travagliato come il Sudan, dove regna la corruzione e le violenze sono all’ordine del giorno, è difficile trovare conferme ufficiali. Nelle prossime ore è in programma l’udienza davanti alle autorità di Khartum per decidere le sorti del veneziano. Ma è già slittata diverse volte e in pochi credono che davvero si possa arrivare a una decisione senza che dall’Italia giungano delle pressioni politiche. “È un ricatto insopportabile, bisogna riportarlo a casa” ammette il parlamentare veneziano Nicola Pellicani, che da settimane sta seguendo il caso assieme a Piero Fassino, che presiede la commissione Affari esteri. Della questione è stato informato anche il ministro Luigi Di Maio, che avrebbe già avuto un primo colloquio con la sua omologa sudanese. “Stiamo facendo il possibile - conclude Pellicani - speriamo di risolvere la questione nel più breve tempo possibile”. Medio Oriente. Gaza, caccia agli aiuti nella Striscia distrutta di Davide Frattini Corriere della Sera, 23 maggio 2021 Tra le case danneggiate dai raid Gli Usa: soldi solo ad Abu Mazen. “Ma non c’è alcuna trasparenza”. La strada sterrata taglia attraverso i campi verso Est e verso la torretta di guardia dall’altra parte della barriera. I fichi d’India fanno da guardrail spinoso, la pianta è un simbolo sia per i palestinesi che per gli israeliani (sabra in ebraico è il soprannome dei primi pionieri), entrambi ne ammirano la determinazione graffiante. Oltre ai paramilitari in mimetica chiara è vietato andare, attorno a loro siedono all’ombra altri gruppi di uomini che la mimetica l’hanno lasciata a casa. Passano qui tutta la giornata, ci sono già stati venerdì dalle prime ore della tregua fino al tramonto, guardano le scavatrici poco lontano, aspettano di vedere se dalla sabbia emerga un corpo, là sotto ci sono i loro commilitoni. “Non rispondo”. Nessuno tra i miliziani parla ma a Khan Younis tutti sanno che al giorno 4 della guerra alcuni di loro sono scesi nel sistema di gallerie per rifornirle di cibo e acqua, mentre i comandanti delle Brigate Ezzedin Al Qassam credevano che gli israeliani stessero per invadere la Striscia. Era uno stratagemma e, sepolta nei tunnel bombardati dall’aviazione, è rimasta quella avanguardia. Quanti siano - per ora sono stati recuperati una ventina di cadaveri - potrebbe fare la differenza per il governo israeliano che fino all’ultimo ha perseguito un’immagine di vittoria. Forse è troppo tardi. Mohammed Deif - il capo militare di Hamas, nato proprio a Khan Younis - è già il più celebrato tra i leader fondamentalisti, il buio della clandestinità in cui vive da 30 anni ha contribuito a illuminarne la leggenda anche tra i palestinesi di Gerusalemme Est e della Cisgiordania. Tutto a sfavore del rispetto portato al presidente Abu Mazen, che sta al potere da 16 anni: ieri avrebbero dovuto tenersi - il raìs le ha annunciate e cancellate - le prime elezioni parlamentari dal 2006, allora le aveva vinte Hamas che un anno dopo ha tolto con un golpe il controllo della Striscia all’Autorità di Ramallah. Così la partita per i cuori e le menti - come la chiamava il generale americano Stanley McChrystal in Afghanistan - passa attraverso il portafoglio dei donatori e su chi debba averne accesso. Joe Biden dalla Casa Bianca ripete che qualunque finanziamento per la ricostruzione di Gaza verrà versato al governo di Abu Mazen. “Il problema è che non c’è trasparenza - spiega Omar Shaban, fondatore dell’organizzazione indipendente PalThink - e i Paesi esitano a versare all’Autorità palestinese le cifre promesse perché temono vadano disperse. È già successo con la conferenza dei donatori dopo la guerra nell’estate del 2014”. Il Qatar ha deciso di aprirsi la sua rappresentanza - un cubo di marmo bianco sul lungomare della Striscia - e le centinaia di milioni di dollari trasportate nelle valigie dall’ambasciatore sono state distribuite ad Hamas. Con il beneplacito del governo di Benjamin Netanyahu. “In questo modo gli israeliani hanno di fatto permesso agli integralisti di rafforzarsi - continua Shaban. Io propongo di creare un fondo speciale, con un consiglio di garanzia, che stabilisca le priorità e supervisioni l’uso degli aiuti”. Il piccolo emirato del Golfo, in cerca di grandezza diplomatica, fa consegne in contanti e diventa impossibile verificare come siano utilizzati. Seicento famiglie ancora aspettano di ricevere i contributi per ricostruire le case distrutte nei quasi due mesi di conflitto tra luglio e agosto di sette anni fa. Abdelhadi Musallam deve ancora restituire i soldi chiesti allora ad amici e parenti. Per rendere di nuovo abitabile la palazzina di famiglia nel campo rifugiati di Bureij aveva bisogno di 8 mila dollari, nella Striscia oltre la metà dei due milioni di abitanti vive sotto la soglia di povertà estrema, fissata dai burocrati della disperazione a 1.90 dollari al giorno. I funzionari locali delle Nazioni Unite gli hanno detto di anticipare la cifra, gli sarebbe stata rimborsata appena il suo nome fosse salito nella lista. “Sto ancora aspettando. Intanto è successo questo”, dice mentre impasta il cemento e ripara gli squarci sul tetto. La casa accanto è stata bersagliata la settimana scorsa, appartiene a un comandante di Hamas, i blocchi di cemento e metallo sono volati dall’altra parte del vicolo, hanno devastato anche le stanze di Abdelhadi. L’Onu calcola che in questi 11 giorni di conflitto - i palestinesi uccisi dai bombardamenti sono quasi 250, 13 gli israeliani ammazzati dai razzi lanciati dai fondamentalisti - le abitazioni distrutte siano 2 mila, quelle danneggiate 17 mila. Medio Oriente. Israele-Hamas, perché la prossima guerra sarà peggiore di Alberto Stabile L’Espresso, 23 maggio 2021 Senza aprire un dialogo non c’è alternativa al conflitto. E anche quest’ultima tregua appare come un espediente per allentare le pressioni politiche e diplomatiche sui due contendenti. Il problema dunque non è se, ma quando ci sarà una nuova esplosione. Netanyahu si compiace, senza dimostrarlo, di aver “cambiato l’equazione con Hamas”. Di contro, i capi del movimento integralista che governano sulla distesa di macerie chiamata Gaza, mandano i loro giovani per le strade a festeggiare la “vittoria”. E lo stesso copione trionfalistico e auto-assolutorio che si ripete da quasi vent’anni a questa parte ad ogni round di violenza tra Israele e Hamas. Anche quest’ultima tregua, come le precedenti, appare come un espediente per allentare le pressioni politiche e diplomatiche sui due contendenti; un modo per congelare lo status quo precedente; un modesto esercizio di diplomazia dilatoria che non si sogna neanche di affrontare le dure questioni alla base dello scontro. In questo quadro il problema non è se, ma quando ci sarà una nuova esplosione. Con un inevitabile corollario: la prossima guerra sarà peggiore di quella che l’ha preceduta. Basta dare un ‘occhiata alla contabilità del dolore. In dieci giorni di bombardamenti aerei e di artiglieria delle forze armate israeliane sulla Striscia di Gaza si son avuti 243 morti (di cui 63 bambini) e 1.910 feriti, in maggioranza tra i civili. Secondo i dirigenti di Hamas, sono state distrutte, o rese inagibili, 1.335 abitazioni; altre 12.800 sono state danneggiate. Il che ha provocato la fuga di 75 mila civili dalle loro case verso altre sistemazioni. Fra i danni, chiamiamoli così “collaterali” delle bombe di precisione telecomandate c’è Nahda, l’unica libreria e casa editrice della Striscia; la clinica al Rimal, con l’unico laboratorio di analisi capace di decifrare i test anti Covid; 33 redazioni e uffici di corrispondenza giornalistici; un orfanotrofio, 184 strutture necessarie al funzionamento dei servizi (acque, luce, fognature) che adesso sono ai minimi termini. La potenza militare convenzionale israeliana, come la capacità della sua Intelligence, ha scritto il giornale liberal, Haartez, è sicuramente cresciuta, prova ne sia la distruzione dei tunnel di Hamas, ma la presunta cuera nell’evitare di colpire i civili, avvertendoli dell’imminente attacco, resta alla luce del bilancio delle vittime un’esercitazione propagandistica tutta da dimostrare. Le perdite tra la popolazione di Gaza, pur avendo provocato indignazione negli ambienti democratici americani, non impediranno, comunque, la fornitura di altre micidiali bombe intelligenti made in Usa per 735 milioni di dollari. Anche le milizie di Hamas appaiono oggi più agguerrite e meglio equipaggiate che in passato. I razzi lanciati contro le zone abitate israeliane (4.000 ordigni, secondo il portavoce dell’Idf, che hanno provocato 12 morti e un centinaio di feriti) non sono più i “Kassam” fatti in casa degli inizi degli anni 90. Anche se i nuovi “Ayash” (a quanto pare così chiamati in omaggio all’inventore degli attentati con le cinture esplosive messi a segno negli anni ‘90, Yijieh Ayash, soprannominato dalla stampa israeliana “l’ingegnere”) non sono in grado di superare la barriera del sistema antimissile “Iron Dome”, se non in minima percentuale, pare comunque che siano capaci di portare più testate. In Israele si dice che vengano dall’Iran, anche se l’ala militare di Hamas ha dimostrato di essere in grado di produrre le sue armi. A favorire le più fosche previsioni sul futuro di questo conflitto tra Israele ed Hamas, che è parte del più ampio scontro israelo-palestinese, è anche la manifesta incapacità delle due parti di parlare un linguaggio diverso da quello della violenza. Durante il suo lungo regno, giunto ormai al dodicesimo anno, Netanyahu è qualche volta sceso a compromessi con il nemico islamista. È successo, per esempio, nel 2011 quando ha accettato di liberare 1.200 detenuti politici di Hamas in cambio della liberazione del soldato Shalit, tenuto in ostaggio per sei anni. Ma subito dopo ha nuovamente optato per la guerra. Come nel 2014: tre o quattro tentativi di mediazione andati a vuoto, poi l’operazione “Margine di sicurezza”, sempre contro Gaza, conclusa dopo 50 giorni, con oltre duemila morti tra i palestinesi e 170 fra gli israeliani. A maggior ragione, dopo aver visto il suo potere personale insidiato dalle inchieste della magistratura, Netanyahu non ha minimamente pensato di cambiare la sua strategia che resta sempre la stessa: indebolire e delegittimare il presidente dell’Autorità palestinese, Abu Mazen, la cui credibilità è ormai prossima allo zero, dopo aver annullato la decisione di tenere le elezioni attese da 14 anni, e lasciare che Hamas governi, per così dire, a Gaza. Un territorio accerchiato e sbarrato come una prigione, isolato, impoverito, dove due milioni e mezzo di persone non possono che lottare per sopravvivere. Quanto all’ipotetico Stato palestinese che per anni è stato evocato nei negoziati seguiti agli accordi di Oslo del 1993, l’occupazione militare, nonostante la condanna della comunità internazionale e il via libera alla colonizzazione dei Territori occupati, bandiera dell’estrema destra nazionalista e religiosa ascesa con Netanyahiu al governo, lo hanno materialmente fatto scomparire dai radar. Ma tutti sanno, che senza aprire un dialogo con Hamas non c’è alternativa alla guerra. Afghanistan. Il coraggio delle ragazze di Kabul di Franco Venturini Corriere della Sera, 23 maggio 2021 La scuola colpita dall’attentato di poche settimane fa ha riaperto. Insegnanti e allieve (sopravvissute) fanno a gara a tornare in classe. Se dall’Afghanistan arriva una buona notizia non perdetela, perché potrebbe essere l’ultima. La battuta che a Kabul accompagna il ritiro delle forze americane e alleate va tenuta in conto. Soprattutto ora che le buone notizie sono addirittura due. La prima è che i talebani hanno accettato la nuova data dell’11 settembre per il ritiro di tutte le forze occidentali tenendo fede alla promessa di non colpire chi fa i bagagli. La seconda è più importante, e dice qualcosa del futuro prossimo di questo martoriato Paese. Ricordate lo spaventoso attacco dell’8 maggio contro una scuola femminile del quartiere sciita di Kabul, 80 morti e 160 feriti molti dei quali ancora in pericolo di vita? Ebbene la scuola Sayed Ul-Shuhada ha riaperto i battenti (parzialmente), e le studentesse sopravvissute, alcune ferite, fanno a gara per tornare in aula. Le loro famiglie le incoraggiano pubblicamente. Le insegnanti, quelle vive, sono tornate tutte, e da altre scuole piovono richieste di essere trasferite in “quella” scuola. Una grande sfida, e un forte messaggio lanciato ai talebani (anche se loro hanno messo l’attentato, in conto all’Isis): guardate, voi che volete prendere il potere dopo la ritirata delle forze straniere, che il Paese è cambiato e che noi donne afghane siamo cambiate, non abbiamo paura, continueremo ad istruirci e a lavorare, non ci rimetteremo il burqa, non obbediremo soltanto alla Sharia come voi l’avete applicata nel 1996 o nel 2001. Era da molto tempo, in effetti, che da Kabul non arrivava una notizia tanto potente. Ma corrisponde alla realtà del Paese? Più sì che no. Gli alfabetizzati nei vent’anni di guerra sono il 43% della popolazione (tra le donne soltanto il 30) e tre milioni e mezzo di bambine e ragazze vanno a scuola. Nelle città, meno nelle campagne. Ma godiamocela, la buona notizia, e speriamo che non sia l’ultima. Burkina Faso. Il Che Guevara d’Africa che voleva cambiare il Paese aspetta ancora giustizia di Giovanni Pigatto L’Espresso, 23 maggio 2021 Thomas Sankara: rivoluzionario, carismatico, il presidente dello Stato africano fu ucciso da un commando il 15 ottobre 1987, in una congiura internazionale. Ora finalmente si apre il processo contro i suoi assassini. Rivoluzionario, ma senza l’idealismo di Che Guevara, fervente socialista, ma senza le derive staliniste o maoiste, terzomondista, ma senza mai piangersi addosso, pur da presidente di una delle Nazioni più povere e arretrate del mondo, mente libera, ma pratica e tutto fuorché utopista. Nell’Africa nera è molto difficile incontrare qualcuno che non sappia chi sia Thomas Sankara. Il presidente del Burkina Faso morto nel 1987 è diventato un simbolo grazie al suo esempio, perché ha fatto vedere al mondo che non servivano tante utopie per cambiare le cose, ma volontà, carisma e idee chiare. Per questo è stato ucciso dopo neanche quattro anni di governo, in una congiura internazionale dalle tinte fosche che proprio in queste settimane si tenta di definire grazie, finalmente, a un processo formale nei confronti dei suoi assassini, quasi trentaquattro anni dopo quel 15 ottobre 1987, “giorno in cui uccisero la felicità”, come recita un documentario dedicato a questa storia. Il 12 aprile, infatti, il tribunale militare di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, ha aperto ufficialmente un processo nei confronti di Blaise Compaoré, il successore di Sankara alla presidenza, nonché amico e compagno di una vita, accusato di attentato alla sicurezza dello Stato e complicità nell’assassinio. Un processo tardivo, ma necessario, perché attorno alla morte di Sankara non c’è solo una vendetta o la sete di potere di un compagno che diventa traditore, ma c’è un caso internazionale che ha coinvolto Stati stranieri e che si inserisce nel periodo storico dell’ultima fase della Guerra Fredda. Thomas Sankara è stato senza ombra di dubbio un personaggio diverso da tutti gli altri, e per questo difficile da inquadrare con comode etichette. Nei suoi appena quattro anni di governo intervenne in tutti gli aspetti della vita dei suoi concittadini, dimostrando una lungimiranza e una visione molto concreta: fece costruire pozzi, scuole, centri per la maternità, ospedali, farmacie, cercando però allo stesso tempo di emancipare il proprio Paese dagli aiuti internazionali che, sosteneva, altro non erano se non un nuovo controllo neocolonialista sugli Stati dell’Africa. Invitava a consumare “burkinabé”, prodotti locali, fece costruire ferrovie, formò insegnanti per abbattere il tasso altissimo di analfabetismo, fece coltivare milioni di piante per fermare la desertificazione (ogni occasione pubblica era buona per mettere un albero a dimora). Iniziò una imponente campagna vaccinale contro morbillo, meningite e febbre gialla che coinvolse volontari e militari dell’esercito, arrivando a vaccinare fino a un milione di bambini a settimana, e ora più che mai ci rendiamo conto di che numero impressionante potesse essere, a maggior ragione in condizioni difficili come quelle del Burkina Faso degli anni Ottanta. Si adoperò fin da subito per combattere la piaga della fame che colpiva la maggior parte del suo popolo e che fu il suo vero chiodo fisso, promettendo e riuscendo a garantire almeno due pasti e dieci litri di acqua al giorno per tutti i burkinabé. Quando a cavallo tra anni Settanta e Ottanta il Partito Radicale di Marco Pannella fece propria la battaglia contro la fame nel mondo, l’interlocutore simbolico e naturale divenne proprio Sankara, incontrato a Ouagadougou da Pannella e dall’allora segretario del Partito Radicale Giovanni Negri, nel marzo del 1985. Duro nei confronti dei Paesi del Nord del mondo, non ebbe mai paura di pronunciare interventi scomodi scegliendo le occasioni di maggiore portata e mediaticità. Celeberrimo il suo discorso alle Nazioni Unite del 4 ottobre 1984 in cui fece un discorso sferzante contro il neocolonialismo: “Parlo, anche, in nome dei bambini. Di quel figlio di poveri che ha fame e guarda furtivo l’abbondanza accumulata in una bottega di ricchi. Il negozio è protetto da una finestra di vetro spesso; la finestra è protetta da inferriate; queste sono custodite da una guardia con elmetto, guanti e manganello, messa là dal padre di un altro bambino che può, lui, venire a servirsi”. Il discorso fu talmente dirompente e scomodo che venne presto tolto dagli archivi delle Nazioni Unite, e sopravvisse a lungo solo grazie alla registrazione audio di un giornalista burkinabé che aveva seguito il presidente a New York. Sankara ereditava un Paese poverissimo, all’entrata del deserto del Sahara, senza un accesso al mare, che aveva ottenuto l’indipendenza dalla Francia nel 1960, in cui si erano susseguiti uno dopo l’altro diversi colpi di Stato che di volta in volta avevano apparentemente sconvolto le istituzioni, per poi in realtà non cambiare niente per davvero. Ma il colpo di Stato del 1983, quello di Sankara e compagni, sarebbe stato profondamente diverso. Per il primo anniversario del golpe, il 4 agosto 1984, Sankara volle dare una svolta al suo Paese, a partire dagli odiosi simboli che ancora ricordavano il passato coloniale. Quel giorno sarebbe partito proprio dal nome, Alto Volta, e l’avrebbe cambiato in Burkina Faso, “la terra degli uomini integri” nelle lingue dioula e mooré. Poi avrebbe annunciato che anche tutti gli altri simboli dello Stato sarebbero cambiati: la bandiera, l’inno nazionale. Il Burkina Faso era veramente uno degli Stati più poveri del mondo, senza alcuna materia prima da vendere o da sfruttare, senza il petrolio che aveva la Nigeria, senza le miniere del Mali, senza le pietre preziose del Congo, solo un vasto territorio semidesertico, terra di pastori e agricoltori che vivevano lì da secoli combattendo con le stagioni. I sette milioni di persone che ci vivevano contavano un medico ogni 50 mila abitanti, una mortalità infantile di 107 neonati ogni mille nascite, un tasso di scolarizzazione del 2 per cento, un’aspettativa di vita che sfiorava appena i 44 anni, un debito estero di oltre il 40 per cento del Pil, una desertificazione galoppante, e così via. Ma tutto questo, e tantissimo altro, venne stroncato violentemente il 15 ottobre del 1987, quando un commando di uomini armati fece irruzione nell’edificio dove Sankara stava presiedendo un consiglio dei ministri, aprì il fuoco e ammazzò il presidente insieme a una dozzina di collaboratori. Se da una parte fu chiaro fin da subito che in mezzo ci doveva essere Blaise Compaoré, l’amico e il compagno di una vita che decise di tradirlo per diventare lui presidente (cosa che puntualmente accadde), dall’altra negli anni sono emersi sospetti e accuse che hanno fatto diventare la morte di Sankara un caso internazionale che conserva ancora oggi diverse zone d’ombra. Sono molti i motivi per cui della morte di Sankara non sappiamo ancora tutto e per cui l’istituzione di un processo è arrivata così tardivamente. Prima di tutto, Blaise Compaoré riuscì a rimanere presidente del Burkina Faso fino al 2014, quando una serie di manifestazioni di protesta lo costrinsero a dimettersi e a fuggire e chiedere asilo in Costa d’Avorio, Paese del quale ha la cittadinanza per via del suo matrimonio con una ivoriana. Durante la sua presidenza, Compaoré non solo ha sempre negato la sua complicità nell’assassinio di Sankara, ma ha anche (inutilmente) tentato in tutti i modi di cancellarne la memoria, costringendo la sua famiglia a fuggire all’estero, impedendo di fatto che venissero condotte delle indagini per trovare la verità, facendo sequestrare e distruggere diversi documenti e carte di Sankara. In secondo luogo, la Francia, che aveva mantenuto (e mantiene tuttora) un certo controllo sulle sue ex colonie, possedeva nei suoi archivi sottoposti a segreto di Stato una serie di documenti riguardanti la morte di Sankara e i fatti immediatamente precedenti e immediatamente successivi. Questi documenti sono stati desecretati solo negli ultimi anni, e addirittura l’ultimo collo è stato consegnato alle autorità burkinabé solo nel marzo di quest’anno, per volontà del presidente Macron. Infine, quello che c’è dietro la morte di Sankara è oggettivamente intricato, e risalire alle responsabilità precise di ciascuno è e sarà molto complicato. Negli anni, grazie al lavoro di molti giornalisti, tra i quali è doveroso citare l’italiano Silvestro Montanaro (scomparso da poco) e il suo documentario “Ombre africane”, si è riusciti a fare un po’ di chiarezza almeno su chi fossero gli autori e gli Stati stranieri coinvolti. Una rete che parte da Oltreoceano, con un ruolo degli Stati Uniti e della Cia, coinvolge la Liberia del signore della guerra Charles Taylor, la già citata Costa d’Avorio del presidente filofrancese Félix Houphouët-Boigny, fino alla Francia, con tutti i suoi “Monsieur Afrique” usati nel tempo per mantenere i contatti politici ed economici con le ex colonie, e alla Libia di Gheddafi, allora terra di addestramento e fornitore di armi a chi volesse avventurarsi in un colpo di Stato. Questo processo ora ha tutte le carte in regola per poter proseguire e arrivare finalmente alla verità, se non alla giustizia. Verità forse tardiva, ma importante anche e soprattutto per comprendere i rapporti sovranazionali spesso tossici tra il Nord e il Sud del mondo.