Sono oltre mille i detenuti iscritti all’università di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 maggio 2021 Sono 1.034 gli studenti detenuti iscritti alle università nell’anno accademico in corso (+ 30% nell’ultimo triennio) e, tra questi, spicca l’incremento della componente femminile, che è passata da appena 28 studentesse nel 2018- 2019 alle 64 di quest’anno (+ 129%). I dati sono stati diffusi a tre anni dalla nascita della Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari (Cnupp) istituita dalla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane. In tutta Italia, la collaborazione tra atenei e istituti penitenziari interessa 196 dipartimenti universitari, il 37% dei dipartimenti presenti nei 32 atenei coinvolti. Le aree disciplinari più frequentate dagli studenti in regime di detenzione sono quella politico-sociale (25,4%) seguita dall’area artistico- letteraria (18,6%), giuridica (15,1%), agronomico-ambientale (13,7%), psico-pedagogica (7,4%), storico- filosofica (7,3%) ed economica (6,5%), con una fetta del 6% che riguarda altre aree. Tra i prossimi obiettivi della Cnupp ci sono il miglioramento della qualità della formazione delle persone detenute attraverso modelli didattici innovativi (è in corso una prima sperimentazione per adottare strumenti per la didattica a distanza anche oltre la pandemia), delle performances degli studenti (diminuzione degli abbandoni, incremento degli esami sostenuti e dei laureati) e un lavoro di raccordo tra istruzione secondaria superiore all’interno delle carceri e gli atenei, migliorando la formazione del personale dell’amministrazione penitenziaria e sviluppare attività di ricerca sulle problematiche carcerarie. Il diritto allo studio universitario per i carcerati, ha diversi richiami. Tale diritto si colloca nel contesto della riforma dell’ordinamento carcerario che aprì, nel 1975, gli istituti, se così si può dire, alla logica e ai discorsi - ancorché non al loro effettivo riconoscimento - dei diritti. Qui come in altri testi successivi, le formule utilizzate non sono così nette come l’affermazione di un vero e proprio “diritto” richiederebbe. All’art. 19 della legge 26 luglio 1975, n. 354 si afferma: “È agevolato il compimento degli studi dei corsi universitari ed equiparati”. Una agevolazione (assimilabile a un favore o a una concessione) che è cosa ben diversa dall’affermazione di un diritto pienamente esigibile. Un po’ più diffusamente la questione è affrontata con il Dpr 29 aprile 1976, n. 431 (Regolamento di esecuzione della l. 26 luglio 1975, numero 354) che dedica agli studi universitari due articoli, (il 42 e il 44) in cui si ribadisce il principio dell’agevolazione per il compimento degli studi attraverso “opportune intese con le autorità accademiche per consentire agli studenti di usufruire di ogni possibile aiuto e di sostenere gli esami” e si afferma che gli studenti possono essere esonerati dal lavoro, a loro richiesta, e che vengono rimborsate loro le spese sostenute per tasse, contributi scolastici e libri di testo e viene corrisposto “un premio di rendimento nella misura stabilita dal ministero”. Negli anni successivi, anche sulla base degli accordi sollecitati dal citato art. 42, si avviano in Italia molte esperienze in differenti istituti attraverso l’impegno di un numero crescente di università. Ma poco cambia sul piano normativo quando, con il Dpr 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà) si modifica quello del 1976. L’articolo 44 riproduce il precedente 42, salvo l’aggiunta di un comma che pone l’attenzione sull’esigenza di garantire alcune condizioni che rendano più facile l’impegno per lo studio: “I detenuti e internati, studenti universitari, sono assegnati, ove possibile, in camere e reparti adeguati allo svolgimento dello studio, rendendo, inoltre, disponibili per loro, appositi locali comuni. Gli studenti possono essere autorizzati a tenere nella propria camera e negli altri locali di studio, i libri, le pubblicazioni e tutti gli strumenti didattici necessari al loro studio. La lettura di questi articoli consente di sostenere che la questione entra sì nell’orizzonte del legislatore e del governo, ma in termini di possibili agevolazioni che saranno l’amministrazione penitenziaria e le direzioni dei singoli istituti a definire in termini concreti. Anche l’ultimo comma dell’articolo 44 sopra citato è, al proposito, indicativo: l’assegnazione dei detenuti studenti in camere e reparti adeguati e la messa a disposizione di locali comuni avviene “ove possibile”, così come “possono” essere autorizzati a tenere con sé quanto necessario per lo studio. Nessun reale dovere è in capo ai responsabili degli istituti. E questo sia per le situazioni dei detenuti “comuni”, sia, a maggior ragione, per quei detenuti che, nel tempo e in virtù di specifiche normative riguardanti le loro condizioni, si sono ritrovati in sezioni connotate da esigenze di maggiore controllo (come i vari reparti per “protetti”, “incolumi”, collaboratori di giustizia) o da assoluto rigore rispetto ai contatti con l’esterno (in modo particolare, i reclusi nei circuiti dell’alta sicurezza o in 41 bis) che pure spesso sono interessati allo studio universitario. A questo merita aggiungere che l’unica disposizione formulata in termini indicativi, subordinata solamente all’impegno a superare gli esami e al versare in condizioni economiche disagiate, ovvero il rimborso delle spese sostenute per tasse, contributi e libri, non risulta mai applicata, né qualche detenuto studente ha mai ricevuto il previsto premio di rendimento. Sul piano delle norme di diritto positivo in vigore, questo è praticamente tutto. Negli anni più recenti, la questione del diritto allo studio universitario è tornata ad affacciarsi, purtroppo rimanendo sul piano delle ottime elaborazioni e delle pregevoli intenzioni, nei lavori degli Stati Generali sull’esecuzione penale che, nei loro documenti e nelle loro proposte, ne hanno ripreso il senso. Intanto affermando chiaramente che si doveva entrare in una ottica diversa, quella appunto di considerare lo studio un diritto, e prospettando alcune condizioni per renderlo effettivo: “l’istruzione e la formazione professionale sono da considerare come diritti ‘ permanenti e irrinunciabili’ della persona, nell’ottica di un processo di conoscenze e di consapevolezze che accompagna il soggetto per tutta la sua esistenza”. Sappiamo che l’amplissimo orizzonte di riforme che dai documenti elaborati dagli Stati generali avrebbero dovuto trarre alimento si è tradotto in ben poca cosa. Così non stupisce che nei Decreti legislativi di riforma dell’ordinamento penitenziario approvati il 27 settembre 2018, poco cambi dell’impostazione del quarto comma dell’art. 19 della legge 26 luglio 1975, n. 354, che ribadisce come siano agevolati la frequenza e il compimento degli studi universitari e tecnici superiori, anche attraverso convenzioni e protocolli d’intesa con istituzioni universitarie. Il termine “agevolazione” resta intatto, mentre non compare alcun riferimento al diritto. Solo aspetto interessante la modifica dell’art. 42 che riguarda i trasferimenti, in cui si prospettano due cose importanti: da un lato, l’esigenza di considerare lo studio (dunque anche la non interruzione di percorsi universitari avviati), tra i criteri da considerare per la disposizione di trasferimenti. Dall’altro, la necessità di dare risposta entro termini ragionevoli, alle richieste di trasferimento per motivi di studio, ad esempio per poter frequentare un corso di laurea in una università che offra questa opportunità ai detenuti. Progetto #Ricuciamo: mascherine realizzate in carcere contro le mafie di Antonella Barone gnewsonline.it, 22 maggio 2021 Sono state confezionate dalle detenute del carcere Santa Maria Capua Vetere, le mascherine che saranno indossate dalle personalità presenti, tra le quali il Presidente Sergio Mattarella, in occasione della commemorazione della strage di Capaci. La cerimonia in memoria di Giuseppe Falcone si terrà domenica 23 maggio a Palermo nell’aula bunker dell’Ucciardone, luogo simbolo del Maxiprocesso a Cosa Nostra. In tessuto blu, recano la figura stilizzata dell’albero di Via Notarbartolo, logo della Fondazione Falcone divenuto ormai icona del valore “sempreverde” della legalità. Un’immagine che evoca Il ficus che si trova davanti all’abitazione del giudice ucciso ventinove anni fa, dove sono raccolti messaggi, fotografie, lettere e altre dediche lasciate dai continui visitatori in segno omaggio e di riconoscenza per il suo sacrificio. La produzione industriale di mascherine chirurgiche nata per iniziativa del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria durante il lockdown nel 2020, grazie al progetto #Ricuciamo, viene realizzata negli istituti di Salerno, Milano-Bollate e Roma-Rebibbia, ma si avvale del laboratorio di Santa Maria Capua Vetere come succursale per il confezionamento di dispositivi di protezione in tessuto con loghi e messaggi sociali (come quelle con la scritta “Stop alla violenza sulle donne”). Si tratta di mascherine “di comunità”, che vanno indossate sopra i dispositivi certificati. Per questo motivo oltre alle 4000 mascherine in tessuto prodotte a Santa Maria Capua Vetere ne arriveranno a Palermo altrettante chirurgiche dalla casa circondariale di Salerno. Saranno distribuite oltre che ai presenti alla commemorazione ufficiale anche ai partecipanti alle tante commemorazioni che ogni 23 maggio si ritrovano sotto l’albero Falcone, per il Silenzio, alle 17.58, l’ora della strage di Capaci. Agnese Moro: “Ho visto l’uomo dietro il “mostro” e ho scoperto un dolore simile al mio” di Valentina Stella Il Dubbio, 22 maggio 2021 Agnese Moro, giornalista e figlia di Aldo Moro, a colloquio con Grazia Grena, operatrice sociale ed ex brigatista, in occasione della sessione del Festival della Giustizia Penale dal titolo “La giustizia dell’incontro”. Un incontro che cambia la vita, che permette di superare la dittatura del passato e andare oltre il pregiudizio. Agnese Moro, giornalista e figlia di Aldo Moro, e Grazia Grena, operatrice sociale ed ex brigatista, hanno dialogato nella sessione del Festival della Giustizia Penale “La giustizia dell’incontro”, introdotta dalla presentazione del libro “Il diavolo mi accarezza i capelli. Memorie di un criminologo” da parte dell’autore Adolfo Ceretti. Al centro della sessione virtuale, moderata dal direttore scientifico del Festival Luca Lupária Donati, la giustizia ripartiva come luogo di incontro, capace di cambiare profondamente la vita di vittime e responsabili della lotta armata: “Un’esperienza decisiva, perché ha significato guardare in faccia la realtà - ha spiegato Agnese Moro. Nella mente di chi ha subito un torto così grave, le persone che l’hanno compiuto sono dei mostri e negli anni questa realtà diventa sempre più spaventosa. Nel viso dell’altro incontri qualcosa di concreto e reale, ti accorgi che sono persone come te, e che il tempo è passato. C’è una sorta di dittatura del passato, che ti porta a rivivere tutti i giorni ciò che è avvenuto anni prima. Invece nell’incontro ti specchi nel volto dell’altro e capisci che qualcosa è cambiato, ti rendi conto che di fronte a te ci sono persone profondamente umane, anche se è mostruoso quello che hanno fatto anni prima. Ti accorgi che erano qualcosa e che adesso sono altro, e che il loro dolore è simile al tuo”. Moro parla di disarmo, condizione essenziale per cambiare la prospettiva e non fermarsi al pregiudizio: “Loro si sono presentati a noi totalmente disarmati: persone che hanno scontato le loro pene e che hanno accettato questo faticoso e rischioso confronto con noi. Proprio questo disarmarsi è l’inizio del lasciare andare i pregiudizi, sentimenti feroci che ti hanno abitato per anni, significa poter lasciare questi sentimenti che ti hanno chiuso come un insetto in una goccia d’ambra. Cambiare significa anche accettare il rischio del contagio, qualcosa di loro rimane in noi e viceversa, e si costruisce un legame. Toccare il dolore dell’altro e lasciare che il tuo dolore venga toccato rende un fatto umano un avvenimento irrimediabile come quello che ho vissuto. Rompere quella goccia d’ambra, senza l’incontro con loro, non è possibile”. Tra quei loro c’è Grazia Grena, un passato nelle fila delle Brigate Rosse, alla quale l’incontro con le vittime ha lasciato un segno profondissimo: “Sono rimasta spiazzata da questa richiesta, perché significava rimettere tutto in gioco, dopo aver ricostruito una vita ridotta in cocci dopo i processi e il carcere. Riuscirò ad incontrare il volto dell’altro? Riusciranno loro ad accettarmi? Sono domande che mi sono rimaste dentro, fino al momento dell’incontro vero e proprio. Avevo il timore di non essere ascoltata, invece l’altro ti sta aspettando, perché l’altro ha bisogno di te come tu hai bisogno di lui. In quel momento ritorni ad essere te stesso, c’è qualcosa a cui avevi rinunciato nella tua scelta scellerata della lotta armata e incontrare le vittime è stato come rincontrare quella parte così essenziale di te. Tutte le motivazioni che ci eravamo dati si erano sgretolate in un attimo. Loro sono riusciti ad ascoltare delle parole fortissime, che io stessa faticavo ad ascoltare da me e dagli altri. Uno di noi ha detto che le sue scelte le aveva fatte per amore. Ed era vero. Quella verità loro sono riusciti ad accoglierla, seppur senza giustificarla. L’essere ancora insieme è la conferma di quella ricomposizione che siamo riuscite a fare, in una terra di mezzo che ci ha permesso di incontrarci e che ci allontana un po’ dalle nostre appartenenze reciproche”. Particolarmente delicato l’ultimo tema toccato da Grena, quello del perdono: “Nel nostro percorso - spiega Grena - questa parola non l’abbiamo mai attraversata fino in fondo. Questa contaminazione non so se si può chiamare perdono, ma è comunque qualcosa di unico. Siamo riusciti a trovare una giusta prossimità. È stato un percorso faticoso, perché ognuno ha dovuto rinunciare a qualcosa di sé. Sembra un paradosso, ma gli unici che ci hanno dato la possibilità di raccontare la nostra verità sono stati loro e questo, per me, è stato un dono impagabile”. Il programma completo del Festival della Giustizia Penale è consultabile sul sito dell’evento e tutte le sessioni saranno gratuite e online sul sito e sul canale Youtube del Festival: https://festivalgiustiziapenale.it Ergastolo ostativo, non sconfessiamo l’eredità di Falcone e Borsellino di Stefania Ascari* Il Fatto Quotidiano, 22 maggio 2021 Ecco la proposta del M5S. Nel 1992 dopo le stragi di mafia di Capaci e di Via D’Amelio, si manifestò l’urgenza di reprimere le azioni mafiose in modo più duro. Da ciò, e grazie proprio alle idee dei due giudici Falcone e Borsellino, nacque il cosiddetto ergastolo “ostativo” (alias fine pena “mai”), la cui disciplina è contenuta nell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario. La norma prevede che il detenuto che si è reso responsabile di reati molto gravi, quali quelli di matrice mafiosa e terroristica non possa godere di determinati permessi (come il lavoro esterno, i permessi premio, la liberazione condizionale, la semilibertà e le misure alternative alla detenzione) a meno che, ai sensi dell’art. 58-ter o.p., non collabori con la giustizia. Questo principio fondamentale, tuttavia, nel giro di due anni, dopo trent’anni di vita, è stato completamente smantellato, tanto che non ne rimangono neanche le briciole. Dapprima con la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha ravvisato una violazione dell’art. 3 della Cedu, ritenendo la legge di cui all’art. 4-bis o.p. consistente in un trattamento degradante ed inumano, ed in seguito con la Corte Costituzionale, che nel 2019, ha dichiarato illegittimo l’ergastolo ostativo con riferimento anche ai condannati per delitti di mafia, riconoscendo la possibilità agli stessi di accedere ai permessi premio, anche senza collaborazione, laddove il magistrato di sorveglianza ne verificasse i requisiti, tra cui la piena prova data dal detenuto di partecipare al percorso rieducativo. Successivamente - il 15 aprile 2021 - la Consulta ha stabilito che l’art. 4-bis o.p. è incostituzionale perché in contrasto con gli art. 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Cedu, concedendo al Parlamento un anno di tempo per modificare la normativa (entro maggio 2022). Sarà il legislatore a decidere quali ulteriori elementi possano sostituire la collaborazione e quali correttivi dare per rendere l’intero sistema delle pene per i mafiosi più efficace e coerente. Ed è quello che è stato fatto depositando in Parlamento, alla Camera, una proposta di legge a prima firma Movimento 5 stelle, meglio dire l’unica e la sola. È stata presentata dai colleghi Vittorio Ferraresi, Eugenio Saitta e Marco Pellegrini, il 18 maggio, nel giorno in cui Giovanni Falcone avrebbe compiuto 82 anni. Un segnale importante perché deve essere chiaro a tutti, soprattutto all’interno delle Istituzioni che l’imponente eredità lasciata da Paolo Borsellino e da Giovanni Falcone, che ha reso la nostra legislazione la più avanzata a livello europeo e mondiale nel contrasto alla criminalità organizzata, a trent’anni di distanza, non può essere sconfessata dalla sera al mattino. Con questa proposta di legge si gettano le basi per un “nuovo” ergastolo che fissa paletti stringenti per la concessione dei benefici: sia in merito ai permessi premio, sia per quanto concerne la liberazione condizionale. Paletti che sono stati delineati grazie anche all’importante lavoro della Commissione antimafia e che sono contenuti nella relazione sull’ art. 4 bis o.p., citata nell’ordinanza n. 97 della Consulta, di cui mi onoro di essere stata relatrice assieme al Presidente Pietro Grasso. Criteri che sono stati in gran parte assorbiti in questa proposta di legge. In essa si stabilisce, infatti, che per accedere ai benefici penitenziari si debba dare dimostrazione rafforzata, con onere della prova positiva a carico del detenuto, della mancanza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata terroristica o eversiva, e, comunque, con il contesto in cui il reato è stato commesso, nonché di escludere il pericolo di ripristino di tali collegamenti, tenendo conto delle circostanze personali ed ambientali. Prova ulteriore rispetto alla mera dissociazione, alla buona condotta carceraria, al percorso rieducativo, al trascorrere del tempo e, all’integrale adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato o provando la assoluta impossibilità di tale adempimento. La prova rinforzata sarà necessaria anche per il risarcimento dei danni alle vittime per quanto concerne la disponibilità e la provenienza delle risorse. Dovrà gravare, pertanto, sul detenuto l’onere di fornire allegazioni, basate su elementi fattuali precisi, concreti ed attuali. Vengono richiesti, inoltre, pareri obbligatori della Direzione Distrettuale Antimafia e del Procuratore Nazionale Antimafia, che avranno un ruolo centrale per la concessione dei benefici penitenziari a detenuti per gravi reati come quelli di mafia o terrorismo. Concessione che richiederà una motivazione sempre rafforzata da parte del giudice di sorveglianza che si dovrà esprimere. Si prevede, poi, una delega al governo per accentrare tutte le decisioni in materia di valutazione dell’accesso ai benefici presso il Tribunale di sorveglianza di Roma, con una sezione dedicata e un contestuale adeguamento e rafforzamento della pianta organica considerato che lì già convergono tutte le istanze relative al 41 bis o.p. La sezione dovrà decidere collegialmente e con la partecipazione del Procuratore nazionale antimafia e del Procuratore presso il Tribunale del capoluogo del distretto dove è stata emessa la sentenza, entrambi competenti per l’eventuale ricorso per Cassazione. Questo accentramento si rende indispensabile per evitare il rischio, sempre più dirompente oggi all’interno dei reparti di 41 bis o.p., di una giurisprudenza a macchia di leopardo e cioè del fatto di avere decisioni difformi pur in situazioni identiche o analoghe, creando difficoltà nella gestione dei detenuti che appartengono allo stesso gruppo di socialità. Con queste modalità la prova diventerà più dura, il controllo più rigido e gli elementi valutati dal magistrato più stringenti. Un percorso questo che deve essere, però, fatto in sinergia con il rafforzamento degli aspetti rieducativi della pena ex art. 27 Cost. Sì perché il carcere fine a se stesso non basta, le pene, lo abbiamo visto, prima o poi finiscono, e quelli che erano detenuti, anche per reati di criminalità organizzata, ritorneranno alla vita normale. Se si vuole realmente fare prevenzione bisogna investire soprattutto sul piano della inclusione sociale e culturale e questo vale per tutti i detenuti, compreso chi si trova al 41 bis e in alta sicurezza. Lo scopo del carcere, “quello vero”, è riabilitare la persona e non di certo buttare via la chiave. Questo purtroppo oggi non sempre avviene, a causa di diversi fattori: ambienti insalubri e sovraffollamento, strutture detentive degradanti e vetuste, poche attività riabilitative a causa di carenza di personale, poche risorse, mancanza di progetti individuali e mirati sul singolo detenuto, solo per citarne alcune. L’esperienza detentiva deve, pertanto, essere orientata a un certo obiettivo per verificare “in concreto” se il detenuto abbia “ripensato” alla sua esperienza delinquenziale, sia cambiato abbracciando una strada di legalità e si prepari alla sua scarcerazione. Detto ciò, ovvio che qualora vengano concessi benefici penitenziari a detenuti che non hanno un adeguato percorso rieducativo e di socializzazione alle spalle, e, quindi senza la consapevolezza del male causato, i danni potrebbero essere gravissimi. Per queste ragioni, è fondamentale che il Parlamento in questa battaglia di civiltà sia compatto a 360 gradi. Non possiamo permettere che le porte del carcere si aprano per far uscire indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo né che si concretizzi uno degli obiettivi principali che la mafia stragista voleva raggiungere con gli attentati degli anni ‘92-’94. Tutti a parole sono bravi, soprattutto a commemorare i morti, quello che conta, però, sono i fatti. *Avvocata e deputata Riforma della giustizia: tempo scaduto di Giuliano Pisapia* Avvenire, 22 maggio 2021 “E allora, non chiedere mai per chi suoni la campana. Suona per te”. I versi che hanno dato il titolo a uno dei più celebri romanzi di Ernest Hemingway si adatta perfettamente ai tempi che stiamo vivendo. La campana per la riforma della giustizia in Italia è suonata da troppo tempo e ora siamo all’ultimo rintocco per poter procedere con speditezza. È tempo di mettersi alle spalle decenni di confronto acceso, ideologico e spesso basato su preconcetti. Con asciutta crudezza la ministra Marta Cartabia ha richiamato le forze politiche che sostengono la maggioranza alla realtà dei fatti. Le attese, e da più parti auspicate, riforme non possono più essere rimandate. Non è più tempo di rinvii pena la restituzione all’Europa non solo dei 2,7 miliardi di euro che il Pnrr prevede per la Giustizia, ma di tutti i 191 miliardi destinati alla rinascita economica e sociale italiana. Come sappiamo sul documento trasmesso alla Commissione Europea - dopo un estenuante negoziato - ha offerto la propria garanzia personale il presidente Draghi. Senza quella parola chiara e definitiva, forse, non avremmo avuto il disco verde di Bruxelles, dobbiamo esserne consapevoli. Entrando nel merito degli interventi indispensabili e urgenti una delle priorità non possono che essere quelli finalizzati alla “ragionevole durata del processo”. Così prevede l’articolo 111 della Costituzione riformulato nel 2001. Vent’anni dopo questa modifica siamo ancora al punto di partenza. Commissioni e proposte parlamentari si sono rincorse nel tempo; a passi avanti sono seguiti passi indietro. A speranze sono seguite delusioni. La Commissione ministeriale presieduta dal presidente emerito della Consulta Giorgio Lattanzi ha svolto il suo compito nei tempi che le sono stati dati. L’incaglio, una volta di più, è sulla riforma del processo penale e nello specifico della prescrizione. Certo non risolve il problema, ma anzi lo aggrava, la legge Bonafede che prevede il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Certo, bisogna fare di tutto per evitare le prescrizioni dei processi, ma questo obiettivo si può, e si deve, raggiungere accelerando i tempi processuali con la digitalizzazione, con l’aumento dell’organico dei magistrati e degli operatori della giustizia, con una migliore organizzazione dei Tribunali. Per questo è condivisibile una più precisa e definita prescrizione processuale che rispetti i tempi di un processo giusto e in tempi ragionevoli non dimenticando che questo incide positivamente anche sulla richiesta di giustizia e sul risarcimento danni delle vittime dei reati. E ha ragione Cartabia a ricordare come giudizi lunghi diventano anticipo di pena; il “pregiudizio di colpevolezza sociale” così indicato dalla ex presidente della Consulta è una situazione che non può più essere accettata. Come anche la gogna mediatica stigmatizzata dall’attuale presidente della Corte Costituzionale Giancarlo Coraggio; c’è da augurarsi che con il recepimento della direttiva europea sulla presunzione d’innocenza si possa lasciare alle spalle una triste stagione. Al momento la gravità della situazione non pare essere stata colta da tutte le forze politiche. Da parte di alcuni deputati e esponenti di partito si sentono le solite dichiarazioni che suonano più come veti che volontà di raggiungere un giusto e alto compromesso tra le diverse istanze. Rendere i processi civili e penali più celeri, più efficienti, ma non a scapito delle garanzie, sono obiettivi che riguardano non solo tutti i cittadini, ma anche chi, dall’estero, intende investire in Italia. Sappiamo bene quanto spesso operatori internazionali, che intendevano operare e investire nel nostro Paese, vi abbiano rinunciato proprio a causa delle incertezze e delle lungaggini della nostra giustizia. Abbiamo, come Paese, sette mesi per approvare le ‘leggi delega’ per la riforma del processo civile, penale e del Csm. I tempi sono chiari come lo sono gli obiettivi da raggiungere. Ben venga questa scadenza che impone a tutti tempi certi e assunzioni di responsabilità. Non possiamo mancare l’obiettivo perché ne andrebbe della credibilità dell’Italia nel contesto europeo e sarebbe un disastro economico e sociale che non possiamo assolutamente permetterci. Bene ha fatto la ministra Cartabia a parlare chiaro ai membri delle Commissioni Giustizia delle Camere; la sua autorevolezza la rende figura chiave perché siano appianate le difficoltà che ogni giorno si presentano e che rendono accidentato il percorso. Il quadro complessivo delle proposte maturate offre uno scenario che può seriamente riportare l’Italia nell’alveo delle Nazioni più competitive e civili. È il tempo della responsabilità e dell’agire per il bene comune. Si mettano da parte logiche corporative e strumentali e si facciano quei passi in avanti indispensabili per la credibilità e per il futuro della nostra Giustizia e del nostro Paese. *Avvocato, parlamentare europeo “Riporteremo il processo entro l’argine della nostra Costituzione” di Simona Musco Il Dubbio, 22 maggio 2021 Intervista al sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto: “Il vero principio che deve imperare è non soltanto quello del giusto processo, ma anche quello della presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva”. “Non saranno riforme fatte con il solo scopo di velocizzare il processo penale, dovranno, contemporaneamente, offrire del processo penale un’idea fortemente costituzionale. E credo che oggi, come non mai, ci sia nel Paese la sensibilità giusta per dire basta alla sommarietà dei processi mediatici”. L’idea di giustizia del sottosegretario Francesco Paolo Sisto è chiara: fatta di garanzie, di rispetto per tutte le parti e di celerità. Senza quelle distorsioni capaci di rendere quanto avviene fuori dalle aule penali più punitivo di ciò che accade al loro interno, al punto da “hackerare” il senso della giustizia penale. “La comunicazione mediatica - dice Sisto al Dubbio -, ove offra l’idea di un imputato considerato colpevole prima del tempo, è profondamente incostituzionale”. Un aspetto della giustizia contemporanea è la sua mediaticità, che spesso si traduce in processi anticipati e irreversibili celebrati sui giornali e in tv. La riforma affronterà questo problema? Il processo mediatico è, per emendamenti, già all’interno delle tematiche di discussione della riforma. Il suo effetto è quello di opacizzare e aggredire i diritti di vittime e imputati, perché deforma, e spesso travolge, determinati parametri di carattere normativo. Il rischio è quello di un “hackeraggio”, una lettura distorta di quello che avviene all’interno del processo in grado, addirittura, di condizionarlo. Il vero principio che deve imperare è non soltanto quello del giusto processo, ma anche quello della presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva. L’articolo 27 secondo comma è chiaro: si è considerati non colpevoli fino a sentenza definitiva. La parola “considerato” non è casuale: afferisce anche all’immagine, alla percezione, al messaggio che viene fatto passare. E un processo mediatico che mortifichi la presunzione di non colpevolezza è un processo incostituzionale, perché considera tutti fatalmente colpevoli nella sede dove non c’è difesa, la pubblica opinione. Dove bisognerebbe intervenire? Si pensi alle conferenze stampa di seguito agli arresti, le “feste cautelari”, nonostante le misure hanno tutto fuorché il carattere della definitività; si pensi ai protagonismi di certi magistrati, alle interviste rilasciate su processi in corso e ultimo, ma non ultimo, al diritto all’oblio: abbiamo trasformato la rete in una sorta di casellario anomalo, quasi trash, dov’è possibile trovare di tutto e di più. Questa comunicazione inquina, disturba e trasforma negativamente le garanzie all’interno del processo. E il processo mediatico rende tutti vittime, sia le persone offese sia gli indagati. In una sorta di percorso catartico di recupero delle categorie e delle garanzie costituzionali, leitmotiv inevitabile di queste riforme, ritengo si debba valutare di eliminare ciò che disturba la corretta e garantita individuazione dei diritti di vittime e imputati. Il tutto, sia chiaro, nel pieno rispetto del diritto all’informazione, che deve però essere necessariamente costituzionalmente orientato. Un diritto che viene dalla Costituzione non può che vivere nella Costituzione. Ieri, al Festival della giustizia penale, ha evidenziato l’esigenza di introdurre criteri selettivi più stringenti per la costituzione di parte civile. Cosa intende dire? L’idea parte dallo spirito delle riforme, che vanno lette in modo obbligatoriamente sistematico. La velocizzazione del processo non può che avere una lettura che connetta processo civile e penale. Com’è scritto nella relazione Pisapia al codice di procedura penale dell’87-88, consentire la costituzione di parte civile serve a rendere più celere l’accesso ai diritti patrimoniali delle vittime del reato. Se noi velocizziamo il processo civile, è naturale pensare che nell’ambito del processo penale possa effettuarsi un discorso selettivo su chi possa costituirsi parte civile. Il moltiplicarsi delle costituzioni, a volte caratterizzate da finalità… eccentriche, comporta evidenti e note lungaggini. Se il processo civile diventa più veloce si può ben pensare di selezionare con più severità i soggetti legittimati a prendere parte al processo. È una riflessione che, a mio parere, va proposta, tenuto conto che il soggetto che deve avere necessariamente titolo a costituirsi parte civile è soprattutto chi è direttamente offeso dalla condotta illecita. Fa già parte delle proposte emendative? È uno dei temi di riflessione sul quale ci si dovrà necessariamente confrontare, come tutti gli altri provvedimenti tesi a velocizzare il processo: l’ispessimento del filtro all’udienza preliminare e per l’archiviazione, l’ampliamento dei riti alternativi, la giustizia riparativa, fondamentale per la tutela della vittima e per consentire la riappacificazione dell’imputato con il processo. In questa logica, anche eliminare il processo mediatico è una forma di riconciliazione processuale. L’altro tema, in termini di accelerazione, è quello della prescrizione. Nelle formulazioni della Commissione Lattanzi, si cerca di accelerare i tempi di primo grado, appello e Cassazione. In definitiva, i rimedi approntati costituiscono una terapia variegata, una sorta di aggressione a tenaglia alle lungaggini processuali. Ciò include il recepimento della direttiva europea sulla presunzione d’innocenza? È stata inserita nella legge di delegazione europea per recentissima scelta del Parlamento, su impulso della ministra Cartabia. Sarà il Parlamento a stabilire come meglio definire la questione. Dalmio canto, avverto solo l’esigenza di restituire al processo penale una sua purezza, una sua identità. Le distorsioni mediatiche hanno provocato una sorta di progressiva e insinuante decostituzionalizzazione, con il rischio che ciò che è esterno al processo penale sia più sanzionatorio rispetto allo stesso processo. Il tema, a mio avviso, registra una grande sensibilità in questo momento nel Paese. Forse è l’occasione giusta: le riforme non avvengono mai per caso. Ho la netta sensazione che i segnali che ci devono riportare alle garanzie, ai pilastri, ai principi del processo penale, soprattutto quelli di matrice costituzionale, siano, oggi come non mai, chiari e forti, quasi imperativi. Ci sono altre questioni che le Corti europee ci hanno segnalato, come l’esigenza di un giudice terzo per autorizzare l’acquisizione dei tabulati. Questo tema verrà trattato? La sentenza in questione chiarisce che il giudice è la garanzia per determinate “invasioni” della riservatezza, un principio che è già nel nostro codice e che qualche volta merita di essere rimarcato. Ma attendiamo che il Parlamento assuma le proprie determinazioni. Quello che, sul metodo, posso assicurare è che ci sarà, subito, un pieno confronto con i gruppi delle commissioni parlamentari. Il metodo, che mi sembra corretto e in qualche modo innovativo, è chiaro: riflessione giuridica approfondita, confronto con i protagonisti e solo dopo ci si affaccia nelle aule parlamentari. Secondo l’interpretazione data da alcune sentenze della Cassazione, il patteggiamento si traduce in una sorta di “ammissione di colpevolezza” con risvolti in sede civile. È previsto qualche correttivo? Per ridurre i tempi del processo penale è indubbio che gli strumenti alternativi al giudizio ordinario vadano rinvigoriti. Patteggiamento e giudizio abbreviato sono istituti deflattivi che non hanno avuto il successo che avrebbero meritato, forse perché non sufficientemente convenienti. Il che non significa rinunciare alla sanzione, ma cercare una intelligente mediazione. Nella visione del governo, il carcere non rappresenta l’unica alternativa alla libertà e viene affermata la forte componente rieducativa della pena. È evidente che per alleggerire e abbreviare i tempi i riti alternativi devono avere maggiore appeal. L’intento è ampliare il ricorso a questi strumenti per ridurre il numero dei processi, che sono troppi, ed evitare quelli inutili. Mi auguro, in ogni caso, che il senso di responsabilità di tutti i gruppi possa essere il baricentro su cui innestare la rapidità quanto la doverosità di questo intervento. Non ci sarà spazio per piantare bandierine? C’è chi, come il M5S, su temi come la prescrizione rivendica la propria azione passata. Credo che bisognerà comunque rendersi conto che le riforme “s’hanno da fare”, perché da ciò dipendono i rapporti economici con l’Europa. Poi sarà il Parlamento, con la democrazia dei suoi numeri, a decidere percorsi e mete. Come insegnano i giuristi più saggi, la migliore transazione è quella che lascia tutti un po’ scontenti. Ecco, alla fine non dobbiamo avere paura - e forse dobbiamo paradossalmente cercare - di essere tutti un po’ scontenti: questo significherà raggiungere il miglior obiettivo nell’interesse del Paese. Il Paese è in mano ai Pm, i giudici non ci sono più… di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 22 maggio 2021 Cresce nella consapevolezza della pubblica opinione e dello stesso ceto politico l’idea che nessuna seria riforma dell’ordinamento giudiziario potrà prescindere dalla necessità di garantire, ai cittadini ed alla giurisdizione, la effettiva terzietà del Giudice. Lo vuole la Costituzione, lo vuole la logica del giusto processo, lo vuole il buon senso. Un giudice terzo, equidistante dalle parti processuali -Accusa e Difesa- poste in condizioni di parità. La c.d. “vicenda Palamara” ha reso chiara alla pubblica opinione soprattutto una cosa, e cioè che gli Uffici di Procura, nel nostro Paese, hanno assunto una dimensione politica del tutto impropria, letteralmente devastante per l’indispensabile equilibrio tra i poteri dello Stato. Non “la Magistratura”, come genericamente si tende a dire, bensì, per l’esattezza, gli Uffici di Procura. Che diventano perciò terreno di contaminazione e di scontro con il potere politico, giacché i primi - gli uffici di Procura - hanno da tempo definitivamente assunto la forza di determinare le sorti di quest’ultimo, a livello sia locale che nazionale. Quando un potere esonda dal proprio alveo costituzionale, occorre chiedersi responsabilmente quale sia il meccanismo regolatore che è saltato, che è venuto meno, così consentendo quella esondazione. E qui non ci sono dubbi sulla risposta: è il Giudice ad essere venuto meno. Cioè, per essere più precisi, il controllo giurisdizionale sui poteri di indagine e sull’esercizio dell’azione penale. Forse continua a sfuggire ai più che intercettazioni telefoniche, misure cautelari, sequestri, misure di prevenzione patrimoniali, rinvii a giudizio - cioè i provvedimenti che più impattano sul cittadino indagato- possono essere solo richiesti dai Pubblici Ministeri. Chi li dispone (o li convalida) è un Giudice, il cui compito è proprio quello di vagliare la fondatezza e la legittimità di quelle richieste. Così come si continua ad ignorare - per dirne un’altra- che la durata delle indagini, altro tema caldissimo, è (sarebbe) rimessa al Giudice, che ne autorizza la proroga solo quando motivatamente richiesta dal Pubblico Ministero. E potremmo continuare. Funziona nella realtà questo controllo? Niente affatto. Il GIP che nega al PM l’autorizzazione alla installazione di un trojan o la custodia cautelare dell’indagato è l’eccezione. Non a caso da anni chiediamo un dato statistico che invece nessuno vuole rendere pubblico: la percentuale di accoglimento da parte dei GIP delle richieste (cautelari, intercettative) dei P.M. E sapete quale è la percentuale di accoglimento delle richieste di proroga delle indagini avanzate dai P.M.? Pressoché il cento per cento. E di rinvii a giudizio da parte dei GUP? 97%. Dunque, è la terzietà del Giudice, soprattutto del Giudice designato al controllo giurisdizionale delle indagini e dell’esercizio dell’azione penale, il cuore del problema. E c’è un solo modo per assicurare questa terzietà: separando le carriere di Giudici e PP.MM., separando i CSM, separandone reclutamento, formazione e se possibile gli stessi organismi di rappresentanza associativa. L’idea che la terzietà del giudice possa essere garantita dalla famosa “cultura della giurisdizione” ha dato i risultati che sono sotto gli occhi di tutti: un Paese, le sue istituzioni politiche e la sua economia, totalmente nelle mani degli Uffici di Procura. Ora, vediamo moltiplicarsi iniziative politiche e parlamentari di vario segno che invocano a chiare lettere la necessità di questa riforma, chi proponendo interessanti emendamenti perfino alla riforma del concorso in magistratura, chi preannunciando referendum abrogativi. Di questi ultimi nulla sappiamo, valuteremo leggendone il testo; ma siamo da tempo consapevoli che la strada della legge ordinaria, per di più attraverso lo strumento non agevole della abrogazione parziale di leggi vigenti, nasce inesorabilmente come un’anatra zoppa. È invece in Parlamento da tempo -ora di nuovo in Commissione affari costituzionali, addirittura dopo uno storico approdo in Aula- la proposta di legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere presentata dall’Unione Camere Penali insieme a 75mila cittadini italiani. È una proposta di legge di riforma costituzionale, perché è bene si sappia che è quella la strada maestra per realizzare davvero, in modo compiuto e strutturato, questa ormai indispensabile riforma. Tutto il resto potrà approdare, nella migliore delle ipotesi, ad una separazione delle funzioni, già dimostratasi un inadeguato pannicello caldo. Quella proposta di legge prevede due concorsi, e soprattutto due Consigli Superiori, nonché la modifica del principio di obbligatorietà dell’azione penale con affidamento al Parlamento delle scelte di priorità del suo esercizio. È quella la strada maestra, già segnata da un significativo consenso popolare e già arricchita di un lungo approfondimento parlamentare. Senza nulla togliere alla bontà di ogni altra iniziativa, sarebbe il caso di chiedersi se non valga la pena innanzitutto puntare su una forte ripresa del dibattito parlamentare intorno a quella proposta di legge. 75mila cittadini italiani, insieme ai penalisti italiani, attendono una risposta. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Ecco il “gioco grande” nel quale era entrato Giovanni Falcone di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 maggio 2021 La Corte di Caltanissetta, nella sentenza Capaci bis, ha individuato una sinergia che “si avvaleva della cooperazione (almeno) colposa di alcuni settori della Magistratura e che agevolava il processo di isolamento intrapreso nei confronti di Giovanni Falcone”. Giovanni Falcone ha spiegato molto bene perché in Sicilia si viene uccisi dalla mafia. Il riferimento è agli omicidi eccellenti, quelli che definiva di “terzo livello”, ma che non ha nulla a che vedere con la narrazione distorta che gli continuano, senza pudore, ad affibbiare. La mafia corleonese non era quella con la coppola in testa, Totò Riina non era un contadinotto. Non a caso, nel suo ultimo libro, Cose di Cosa Nostra, scritto a quattro mani con Marcelle Padovani, scrive quanto siano “abili, decisi, intelligenti i mafiosi” e, aggiunge, “quanta capacità e professionalità è necessaria per contrastare la violenza mafiosa”. Falcone, professionale lo era. Una mente che Totò Riina ha voluto sopprimere con un’azione eclatante e che ha rivendicato in segreto, parlandone a più riprese con il suo compagno d’ora d’aria al chiuso del 41 bis. Lo stesso Falcone scrisse come anche Mattarella, Reina e La Torre erano rimasti isolati - Ma qual è il “gioco grande” che tanto viene tirato in ballo, travisando il significato molto più profondo che Falcone gli dava? Lui stesso, scrive nero su bianco nel libro Cose di cosa nostra, che gli uomini come Mattarella, Reina e La Torre erano rimasti isolati a causa delle battaglie politiche in cui erano impegnati. “Il condizionamento dell’ambiente siciliano - scrive Falcone - l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto”. Più avanti diventa esplicito. Dice che si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un “gioco troppo grande”. Quale? Non bisogna andare troppo lontano, ma molto più vicino di quanto uno pensi ed è talmente sconvolgente che mai nessun servizio televisivo ne parla nonostante sia agli atti. La sentenza della sentenza Capaci bis - Ci viene in aiuto la motivazione della sentenza Capaci Bis depositata nel 2017. Il “gioco troppo grande” è stato individuato dalla Corte di Caltanissetta in una sinergia che “si avvaleva della cooperazione (almeno) colposa di alcuni settori della Magistratura e che agevolava il processo di isolamento intrapreso nei confronti di Giovanni Falcone”. Ed ecco che si arriva al movente che singolarmente viene continuamente insabbiato da presunte “inchieste” televisive: “Alla base di questa campagna di delegittimazione - scrive la Corte - vi era una precisa consapevolezza del pericolo che l’attività di Giovanni Falcone rappresentava non solo per “Cosa nostra”, ma anche per una molteplicità di ambienti economico-politici abituati a stabilire rapporti di reciproco tornaconto con l’organizzazione criminale, a partire dal settore degli appalti e delle forniture pubbliche”. Ha osservato che le connessioni fra una politica affarista e una criminalità mafiosa - Lo stesso Falcone, sempre tramite i suoi scritti, ha considerato che la ricchezza crescente di Cosa nostra le dava un potere accresciuto, che “l’organizzazione cerca di usare per bloccare le indagini”. Ha osservato che le connessioni fra una politica affarista e una criminalità mafiosa sempre più implicata nell’economia, rendono ancora più inestricabili le indagini. Non è un caso che, nelle sentenze, tra i mandanti della strage di Capaci (ma anche di Via D’Amelio) compare anche Salvatore Buscemi. Non è un personaggio secondario, visto che, assieme al fratello Antonino, erano fondamentali all’interno di Cosa nostra visto che ricoprivano un ruolo assolutamente dominante nella cosiddetta imprenditoria mafiosa avvalendosi della compiacente “collaborazione” fornitagli da taluni esponenti delle istituzioni di allora e da enormi settori del mondo dell’imprenditoria e della finanza. Le dichiarazioni di Angelo Siino e Giovanni Brusca - Ma i Buscemi erano anche coloro che avrebbero avuto rapporti all’interno della magistratura. Ci sono due dichiarazioni dei pentiti Angelo Siino e Giovanni Brusca che sono state riportati nelle motivazioni della sentenza d’appello del Capaci uno. “Sul punto - scrive la Corte d’Appello -, Angelo Siino ha evidenziato di avere appreso che Pino Lipari aveva contattato l’onorevole Mario D’Acquisto affinché intervenisse nei confronti dell’allora Procuratore della Repubblica di Palermo, dottor Giammanco, al fine di neutralizzare le indagini trasfuse nel rapporto “mafia-appalti” ed in quelle che si potevano stimolare in esito a tali risultanze”. I rapporti tra i fratelli Buscemi e il gruppo Ferruzzi-Gardini - C’è anche la dichiarazione di Brusca. “Quanto ai rapporti tra i fratelli Buscemi, il gruppo Ferruzzi-Gardini e l’ingegner Bini - scrive la Corte -, Brusca ha evidenziato di avere appreso da Salvatore Riina che, a seguito della legge Rognoni-La Torre, i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese al gruppo Ferruzzi; che Antonino Buscemi era rimasto all’interno della struttura societaria come impiegato; che i fratelli Buscemi si “tenevano in mano... questo gruppo imprenditoriale in maniera molto forte” e potevano contare sulla disponibilità di un magistrato appartenente alla Procura di Palermo, di cui non ha voluto rivelare il nome”. L’importanza degli appalti per la mafia - Falcone, che ha sempre esplicitato quanto sia importante la questione degli appalti riguardanti anche imprese nazionali (convegno del 15 marzo 1991 e che ha provocato la reazione dei Buscemi “questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare”), andava eliminato per un insieme di concause. Dall’esito del maxiprocesso, alle indagini verso anche Cosa nostra americana (da qui anche la loro attenzione per l’attentato, come è emerso dalle dichiarazioni dei pentiti e contatti telefonici con utenze americane) fino ad arrivare alla questione mafia-appalti. Andava eliminato con un’azione eclatante - Falcone, quindi, andava eliminato attraverso un’azione eclatante. Dagli atti emerge che è stata condotta esclusivamente dalla manovalanza mafiosa. Gioacchino La Barbera, tra coloro che hanno partecipato all’attentato, mai ha parlato di soggetti esterni che hanno partecipato all’azione. Si è ricordato, a distanza di molti anni, di aver visto due soggetti “estranei” per pochi minuti rispettivamente presso la villetta dove era avvenuto il travaso dell’esplosivo e il casolare da ultimo scelto quale base logistica del gruppo: non ha attribuito a questi individui alcuna condotta significativa, tanto che egli ha specificato di avere ritenuto che si trattasse del proprietario dell’immobile o di un giardiniere. Brusca, colui che ha diretto la fase esecutiva e ha poi premuto il telecomando per azionare il tritolo, è stato chiaro sul punto. Alla domanda se nessun estraneo è mai intervenuto nelle operazioni, lui ha risposto: “Assolutamente no”. Falcone andava a ledere i rapporti tra mafia e interessi economici - La mafia aveva chiaramente adoperato in connessione con altri interessi. Il pentito Antonino Giuffrè ha esplicitato che i “motivi più gravi” che determinarono l’isolamento, al quale seguì l’uccisione di Falcone, consistevano nel fatto che quest’ultimo “andava a ledere quelli che erano i rapporti professionali, economici, questo intrigo tra la mafia e organi esterni”, facendo riferimento anche ai grandi canali del riciclaggio internazionale. Giuffrè ha poi evidenziato il pericolo rappresentato da Falcone per i “livelli alti” della politica, specificando che “c’era questo intreccio tra Cosa nostra, politica di un certo livello e imprenditoria in modo particolare”. Anche Borsellino aveva individuato il “gioco grande” - Ecco il “gioco grande” che Falcone ben conosceva. Lo sapeva anche il suo collega e fraterno amico Paolo Borsellino che non a caso, ha deciso di approfondire quelle connessioni che lo hanno portato all’isolamento, alla solitudine, alla mancanza di fiducia in alcuni colleghi. Borsellino aveva individuato il “gioco grande”, tanto che Riina ha dovuto accelerare l’esecuzione dell’attentato di Via D’Amelio. Oggi si parla di altro, di “entità”, di trattative, “facce da mostro”, perfino di donne bionde. E forse ancora per tanti altri anni si andrà avanti con l’astratto e l’indefinibile. Ma poi conterà ciò che si tocca con mano. Ci penseranno i posteri, quando non sarà più possibile intossicare, manipolare e prendere in giro gli ignari lettori e spettatori. Accadrà che si potrà serenamente raccontare tutto ciò che è visibile agli occhi. A quel punto si potrà per davvero onorare la memoria di Falcone e Borsellino. Il cuore del processo a Lucano è il rapporto tra politica e magistratura di Enzo Ciconte Il Domani, 22 maggio 2021 Quasi otto anni di carcere per Mimmo Lucano. Questa è la richiesta del pubblico ministero di Locri, richiesta che a molti è parsa per lo meno spropositata rispetto alle accuse rivolte all’ex sindaco, ammesso, e non concesso, che abbia commesso tutti, o solo in parte, i reati contestati. Vorrei provare a ragionare su alcuni aspetti che meritano una riflessione su un tema, quello del rapporto tra magistratura e politica, che è di stretta attualità e che appare come il cuore del processo. Il ruolo dei prefetti - La domanda è: come è nato il processo? È nato su input politico? Il procuratore di Locri assicura di no e porta a sostegno della sua tesi l’invio di una “relazione prefettizia molto dettagliata” da parte del prefetto di Reggio Calabria. È ovvio che la procura della Repubblica di Locri, di fronte a una notizia di reato che proviene da una fonte così qualificata e autorevole doveva agire, e ha fatto bene ad agire. Ma dire che l’input non è politico vuol dire disconoscere il ruolo e la funzione che i prefetti hanno avuto nella storia d’Italia dall’Unità a oggi. Memorabile è la denunzia di Salvemini contro l’uso improprio dei prefetti da parte di Giolitti, “il ministro della mala vita”, com’ebbe a definirlo. Per non parlare del ruolo dei prefetti in epoca fascista o in molti anni dell’Italia repubblicana tanto da provocare addirittura la richiesta dell’abolizione delle prefetture. La prefettura è un organo periferico del ministero dell’Interno e perciò il prefetto ha un ruolo eminentemente politico, che non vuol dire partitico, ma politico nel senso più alto del termine. C’è solo da appurare se è stata un’iniziativa autonoma o se sia stata sollecitata. Il pubblico ministero, da parte sua, ha incentrato tutta l’accusa sostenendo la tesi che Lucano ha messo in piedi quel sistema d’accoglienza perché voleva creare uno strumento clientelare basato sullo scambio di posti di lavoro per ricavarne un vantaggio elettorale, e a conferma di questo suo assunto ha richiesto al tribunale l’acquisizione di un articolo di giornale che annunciava la candidatura di Lucano alle prossime elezioni, richiesta giustamente respinta dal presidente. Il modello Riace di accoglienza verso i migranti non nasce dal nulla, nasce da una capacità antica dei calabresi, di accogliere gli stranieri, quelli che vengono da altri mondi o da altre regioni d’Italia. Lucano è figlio di questa storia antica, e si può capire quello che ha fatto solo se lo si inquadra in questo contesto. Il modello Riace - La cosa che colpisce nella richiesta del pm è che si ritiene illegittima la condotta del sindaco perché finalizzata al consenso elettorale, come se accrescere il consenso fosse disdicevole o, peggio, un reato. Si scontrano due visioni. Da una parte quella di un magistrato che legge con la rigidità degli articoli del codice penale condotte che sono politiche e che non debbono cadere sotto l’imperio della magistratura. Dare lavoro ai giovani di Riace e aiutare i migranti può essere censurabile dai riacesi - e lo hanno fatto non votando la lista sostenuta da Lucano alle ultime elezioni comunali - ma non può essere censurabile in alcun modo da un pm. L’accusa a Lucano è di “aver costruito il welfare dei riacesi. La continua disponibilità alla ricezione dei migranti è l’economia associata all’accoglienza”. E allora non li può allontanare “per un’immagine pubblica che si è creato, e soprattutto perché deve tenere in piedi un sistema che fa lavorare i riacesi. I quali stanno zitti”. Queste - mi perdoni il pm - sono tutte accuse politiche e ideologiche che può legittimamente fare da cittadino della Repubblica italiana ma che non possono essere avanzate nell’aula di tribunale vestendo la toga. Tra politica e magistratura non ci può essere un’invasione di campo, o un’intromissione, né da una parte né dall’altra. È questo il cuore del problema dell’accanimento della pubblica accusa. Non è la prima volta che ciò accade. Ma in questa, come in altre vicende che hanno devastato la politica regionale, c’è una responsabilità della politica che ha delegato alla magistratura la definizione dell’onorabilità degli amministratori o iscritti accusati e che non ha saputo difendere i propri rappresentanti quando sapeva essere innocenti (e ovviamente ha fatto bene a non difendere gli indifendibili). La delega, come sappiamo, c’è stata anche in tema di lotta alla ‘ndrangheta, ed è stato un male per la politica e la magistratura. C’è in arrivo in libreria, edito da Rubbettino, un libro di Danilo Chirico, Storia dell’anti ‘ndrangheta, che dimostra come sia stata la politica a fare la lotta alla ‘ndrangheta mentre la magistratura ha girato la testa dall’altra parte e come questo rapporto si sia invertito negli ultimi anni. Forse è arrivato il momento di riequilibrare i rapporti e di tornare al rispetto dei rispettivi ruoli sanciti dalla Costituzione. Assoluzione definitiva, non parte il rimborso delle spese legali: manca il decreto attuativo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2021 La denuncia del responsabile Giustizia e deputato di Azione Enrico Costa: i Ministeri avevano due mesi di tempo ne sono passati cinque. Salutato come una svolta epocale nei rapporti tra cittadini e Giustizia, l’emendamento Costa alla Manovra 2021 che ha introdotto il rimborso delle spese legali per chi è assolto con sentenza definitiva, non è ancora operativo. Manca infatti ancora una volta il tassello finale: il decreto auttativo. La denuncia arriva dallo stesso deputato di Azione. “A dicembre - afferma Costa - il Parlamento ha approvato, una norma per cui se lo Stato sottopone un cittadino innocente al lungo, defatigante e spesso umiliante calvario delle indagini e del processo, è giusto che lo risarcisca”. “In assenza del decreto del Ministro della giustizia di concerto con il Ministro dell’economia - prosegue Costa - i rimborsi non possono essere concessi”. La legge ha previsto che il decreto con cui avrebbero dovuto essere definiti anche i criteri e le modalità di erogazione dei rimborsi fosse adottato entro sessanta giorni. Il budget annuale è di 8 milioni di euro e si prevede un limite massimo di 10.500 euro di rimborso. “Di giorni - continua il Responsabile Giustizia di Azione - ne sono trascorsi ben più del doppio di quelli ma del regolamento ancora non c’è traccia”. “Auspichiamo - aggiunge con una nota polemica - che il quotidiano, silenzioso e certosino lavoro del Governo si estenda anche a questi atti che, ove ritardati ulteriormente, manderebbero in fumo l’applicazione di norme di civiltà, che non sono bandierine identitarie, approvate dal Parlamento”. Cosa dice la norma - La norma ha previsto che, all’imputato assolto, con sentenza divenuta irrevocabile, “perché il fatto non sussiste, perché non ha commesso il fatto o perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, è riconosciuto il rimborso delle spese legali nel limite massimo di euro 10.500”. Il rimborso viene ripartito in tre quote annuali di pari importo, a partire dall’anno successivo a quello in cui la sentenza è divenuta irrevocabile, e non concorre alla formazione del reddito. Per ottenerlo è necessario presentare la fattura del difensore, con espressa indicazione della causale e dell’avvenuto pagamento, corredata di parere di congruità del competente Consiglio dell’ordine degli avvocati, “nonché di copia della sentenza di assoluzione con attestazione di cancelleria della sua irrevocabilità”. Nessun ristoro invece nei casi di: a) assoluzione da uno o più capi di imputazione e condanna per altri reati; b) estinzione del reato per avvenuta amnistia o prescrizione; c) sopravvenuta depenalizzazione dei fatti oggetto di imputazione. Il beneficio si applica soltanto nei casi di sentenze di assoluzione divenute irrevocabili successivamente al 1° gennaio 2021. Cedu: il lockdown per Covid non è assimilabile ai domiciliari Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2021 Il ricorso era stato presentato da un eurodeputato rumeno contro il proprio Paese. Il politico sosteneva che l’interdizione a uscire di casa, se non per una serie di motivi limitati, ha violato il suo diritto a non essere privato della libertà, sancito dall’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti umani. “Le misure di confinamento adottate dalle autorità per lottare contro la pandemia Covid-19 non possono essere equiparate agli arresti domiciliari”. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani (Cedu) nella sentenza sul ricorso presentato da un eurodeputato rumeno, Cristian-Vasile Terhes, del Partito Social Democratico contro il suo Paese. Il politico sostiene che l’interdizione a uscire di casa, se non per una serie di motivi limitati che dovevano essere provati con un’attestazione, ha violato il suo diritto a non essere privato della libertà, sancito dall’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti umani. Nel dichiarare il ricorso “inammissibile”, la Cedu afferma che le restrizioni non hanno raggiunto un’intensità tale da poter essere equiparate agli arresti domiciliari. I giudici di Strasburgo evidenziano che le restrizioni si applicavano a tutti e che le autorità non avevano adottato alcuna misura individuale contro Terhes. La Cedu osserva che l’uomo era libero di uscire di casa per vari motivi a qualsiasi ora fosse necessario e che non è stato soggetto a sorveglianza da parte delle autorità. Inoltre, si sottolinea che Terhes non ha detto di essere stato costretto a vivere in uno spazio angusto o di essere stato privato di contatti sociali, e che non ha fornito alcuna informazione che potesse descrivere la sua esperienza personale del lockdown. Nella sentenza infine la Cedu sottolinea che con il suo ricorso Terhes voleva provare che il confinamento equivaleva agli arresti domiciliari piuttosto che costituire una violazione del diritto alla libertà di circolazione. Novara. Suicida in carcere: aveva confessato sui social il delitto del suo migliore amico di Floriana Rullo Corriere della Sera, 22 maggio 2021 La morte dopo un mese di agonia. L’omicidio era avvenuto nell’agosto del 2019. È morto dopo più di un mese di agonia Alberto Pastore, 24 anni di Cureggio, nel Novarese, che aveva ucciso l’amico Yoan Leonardi a coltellate e aveva affidato ai social la confessione con delle stories su Instagram e un post su Facebook. Il giovane aveva tentato il suicidio in cella dove stava scontando la condanna a 14 anni e mezzo. Era stato anche trasferito a Torino dove poi è stato dichiarato il decesso. L’assassinio era avvenuto quasi due anni fa, il 26 agosto 2019. Da allora Pastore si trovava in carcere a Novara. Da sempre aveva dichiarato la sua intenzione di uccidersi. Una decisione già manifestata al giudice per le indagini preliminari appena dopo l’arresto. Nei mesi scorsi in cella era anche stato aggredito e aveva rimediato una ferita al ciglio e un’emorragia all’occhio, a seguito delle quali c’era stato un distacco della retina. Episodi che l’avevano portato a vivere la reclusione con enorme disagio. Il decesso risale al 14 maggio. La famiglia ha deciso di mantenere massimo riserbo, saranno donati gli organi e non ci saranno funerali. Quel 26 agosto i due ragazzi erano in auto insieme quando hanno iniziato a litigare a causa della gelosia. Pastore aveva fermato l’auto in una piazzola vicino a Borgo Ticino e poi aveva colpito l’amico più volte con un coltello. Infine era fuggito. Era in auto sull’autostrada quando aveva girato dei video sui social. Dopo essersi schiantato fu arrestato dai carabinieri e condannato. “Voglio scusarmi ho fatto una c... per amore, ho scoperto troppe cose dal mio migliore amico, non potevo continuare in questo modo, sono stato preso in giro... Nella mia vita ho commesso troppi errori e il mio errore più grande è questo...”. Era stato questo il post lasciato da Alberto Pastore, 23 anni, su Facebook, subito dopo l’accoltellamento. “Ero andato a trovare Alberto in carcere - ricorda Angelo Barbaglia, sindaco del paese. L’avevo trovato molto provato. Poi c’è stata l’esplosione del Covid e non è stato più possibile fargli visita. È un dramma che si aggiunge al dramma”. Benevento. Vaccini ad agenti e detenuti: adesione altissima di Alessandro Fallarino ottopagine.it, 22 maggio 2021 Il 98 per cento del personale che lavora all’interno degli istituti di pensa sanniti vaccinato al pari dell’80 per cento dei detenuti. Numeri importanti quelli che emergono anche oggi dal prospetto dell’aSl sul fronte dell’immunizzazione. Due le parole d’ordine che regnano ormai da settimane in provincia di Benevento: prevenzione e vaccinazioni a quante più persone possibili come ha più volte rimarcato il direttore generale dell’Asl di Benevento, Gennaro Volpe. “Serve uno sforzo congiunto tra enti ed istituzioni. Uno sforzo che è arrivato puntuale ormai mesi fa e che continua ad essere in campo”. Una sinergia vincente che, almeno in provincia di Benevento sta facendo moltiplicare le iniziative, gli open day ed ha consentito la creazione di numerosi maxi hub vaccinali che giorno dopo giorno iniettano migliaia di dosi di vaccino contro il coronavirus. Superata infatti la quota del 40 per cento di almeno una dose per i residenti nel Sannio, ora si punta in alto e si spera che nelle prossime ore i vaccini continuino ad arrivare in maniera regolare. Tornando ai numeri delle vaccinazioni somministrate agli agenti della Polizia penitenziaria, agli impiegati e dirigenti del ministero in servizio presso la casa circondariale di Benevento ed il carcere minorile di Airola, il dottore Volpe è ampiamente soddisfatto per i numeri raggiunti e per il particolare che nessuno abbia rifiutato il vaccino. Ora si punta alla completa immunizzazione di detenuti e agenti. Vaccini, urgente una deroga ai brevetti per salvare vite umane di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 maggio 2021 La scorsa settimana nell’America meridionale e nell’Asia meridionale sono morte oltre 60.000 persone, il 70 per cento del totale dei decessi da Covid-19 in quel periodo. Le scorte di ossigeno scarseggiano e i sistemi sanitari di quelle due regioni sono prossimi al collasso. In Pakistan, solo una persona su 75 è stata vaccinata mentre negli Usa una persona su due ha ricevuto almeno la prima dose. Questi dati sono certamente noti ai leader che oggi parteciperanno al Summit globale della salute. Così come nota, perché è argomento di cui si sta discutendo molto, è la soluzione per uscire presto e soprattutto tutti insieme dalla pandemia: una deroga ai diritti di proprietà intellettuale per poter aumentare la produzione dei vaccini. La bozza di dichiarazione che dovrebbe essere approvata dal Summit, chiamata “Dichiarazione di Roma”, non contiene purtroppo alcun riferimento alla proposta avanzata mesi fa da India e Sudafrica, sostenuta da un centinaio di paesi in via di sviluppo e, da poco, anche dagli Usa. Germania, Australia, Regno Unito e vari stati membri dell’Unione europea hanno una posizione contraria (anche se ieri il Parlamento europeo si è espresso a favore), come se di fronte alla morte quotidiana di migliaia di persone, i profitti delle aziende farmaceutiche dovessero considerarsi ancora prioritari rispetto alle vite delle persone. Se le cose non cambieranno, gli stati meno sviluppati non riceveranno dosi tali da assicurare un’adeguata copertura vaccinale almeno fino al 2023. Pertanto, milioni di persone continueranno a morire senza le medicine e le cure mediche necessarie. Se, invece, le aziende farmaceutiche daranno seguito alla loro responsabilità in materia di diritti umani, smetteranno di contrastare i tentativi di aumentare l’accesso ai vaccini e inizieranno a condividere le loro tecnologie e conoscenze, molti più vaccini saranno prodotti e a un costo più basso. Purtroppo, finora nessuna azienda ha accettato di condividere brevetti e conoscenze attraverso l’Organizzazione mondiale della sanità. L’alibi, alquanto discriminatorio, è che gli stati in via di sviluppo non sarebbero in grado di produrre vaccini equivalenti sicuri e di buona qualità. Medio Oriente. Tra Israele e Hamas regge la tregua. Incognite sul futuro di Sharon Nizza La Repubblica, 22 maggio 2021 Il “mediatore” Al Sisi rilancia la sua immagine. Hanyeh ringrazia l’Iran. Ora negoziato per la fase 2 della pace. Gli Usa: ricostruire Gaza. Il giorno dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco tra Israele e Hamas, il frastuono della guerra è sostituito da una serie infinita di speculazioni intorno alla domanda “cosa succederà ora?”. Regge per ora la tregua, “reciproca e senza condizioni”, mediata dagli egiziani (che consente ad al-Sisi si riaccreditarsi sullo scacchiere internazionale). Completata la fase uno con il silenzio delle armi, i mediatori egiziani hanno già iniziato a muoversi tra la Striscia e Israele per tastare il terreno sulla fase due, che riguarda questioni critiche come l’avvio della ricostruzione di Gaza, l’ampliamento della zona di pesca, l’apertura dei valichi, che hanno ripreso a funzionare a intermittenza per il passaggio di aiuti umanitari e giornalisti. La grande incognita resta la fase tre, quella che dovrebbe portare a intese di più ampio respiro riguardo a progetti civili, concessione di permessi di lavoro verso Israele e l’ingresso delle valige di contanti per i funzionari pubblici, un ruolo che è spettato al Qatar negli ultimi anni dopo la chiusura dei canali tra Ramallah e Gaza. I discorsi di febbraio sull’estensione del gasdotto israeliano dal giacimento Leviatano fino a Gaza sembrano ora molto lontani. Gaza, tra le macerie, si festeggia la vittoria divina di cui parla Ismail Hanyeh in un discorso pubblico da Doha (nel quale ringrazia tra gli altri anche l’Iran per il “sostegno economico e gli armamenti”). Anche in Cisgiordania e a Gerusalemme est ci sono manifestazioni con fuochi di artifici e canti che inneggiano a Mohammad Deif. Di nuovo sventolano bandiere di Hamas non lontano dalla Muqata a Ramallah e sulla Spianata, dove si registrano tensioni nel pomeriggio quando, nella Moschea di Al Aqsa, l’Imam vicino a Fatah, viene contestato da una folla dopo un sermone troppo mite, e poi scoppiano nuovi scontri con la polizia israeliana che portano a 20 arresti. La tregua regge però anche questo primo banco di prova, ma ci si interroga cosa accadrà tra due settimane quando la Corte suprema israeliana dovrà discutere nuovamente la questione degli sfratti di quattro famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah, di cui Hamas si è fatto portavoce. Il ritratto della vittoria dipinto da Netanyahu è dibattuto molto dai media: Hamas è stato colpito duramente, oltre 100 km della “metro” sono stati distrutti, ma si tratta solo di un terzo del sistema di tunnel che collega la Striscia sottoterra. La deterrenza è stata ripristinata, ma nessuno sa dire se si tratta di un colpo come quello inflitto al Libano nel 2006 - un fronte che a oggi non si è ancora riaperto salvo incidenti sporadici. Netanyahu dice che non ci sarà più tolleranza per i lanci di razzi da Gaza che hanno colpito periodicamente il sud del Paese e che da ora “le cose cambiano”, ma è attaccato per non aver sollevato la questione degli ostaggi a Gaza (2 corpi di soldati e 2 civili israeliani entrati per errore nella Striscia e detenuti da anni). “È arrivato il momento delle azioni politiche: sulle macerie delle case dei leader di Hamas e dei tunnel, dobbiamo costruire una nuova realtà” è un passaggio del discorso di Gantz che delinea la necessità di rimettere in discussione le dinamiche cicliche che governano il triangolo infernale Israele-Gaza-Cisgiordania dalla spaccatura Hamas-Fatah del 2007. Molto di quanto potrebbe succedere dipende dalle azioni che vorrà o non vorrà intraprendere Biden, che si trova catapultato nel pantano israelo-palestinese prima del previsto. Per ora la Casa Bianca si limita a dire che “la ricostruzione di Gaza è prioritaria, non per Hamas ma per la popolazione palestinese” e che non ha in programma di cambiare l’assistenza per la sicurezza a Israele. Le due vittorie. Hamas: “ora libereremo Al Aqsa”. Netanyahu: “risultato straordinario” di Michele Giorgio Il Manifesto, 22 maggio 2021 Tregua. Sullo sfondo dei proclami delle due parti ci sono le sofferenze e le distruzioni di Gaza e un cessate il fuoco fragile. Torna lentamente alla normalità la vita nel sud di Israele. È da ieri a Gaza la delegazione dei servizi di sicurezza egiziani incaricata di completare i colloqui sul cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Avrà incontri con i rappresentanti del movimento islamico e di altre fazioni palestinesi. Nei giorni scorsi aveva incontrato gli israeliani. La tregua scattata alle 2 di venerdì comunque regge ed è opinione di molti che sarà così anche nei prossimi giorni sebbene anche un singolo episodio potrebbe innescare un secondo round. I leader di Hamas, da Ismail Haniyeh a Khalil al Hayya, ieri rivolgendosi alla folla di sostenitori hanno esaltato la “vittoria” su Israele e proclamano che “la lotta andrà avanti fino alla liberazione della moschea di Al Aqsa (a Gerusalemme)”. Il successo vero di Hamas però è politico, non militare. La sua popolarità è in aumento anche in Cisgiordania e fra i palestinesi cittadini di Israele. Ieri sulla Spianata delle moschee durante le preghiere - segnate da una incursione della polizia israeliana - e nelle strade di Gerusalemme Est qualche dimostrante sventolava la bandiera verde di Hamas assieme a quella palestinese. Gli analisti sottolineano che Hamas pur non avendo vinto la battaglia con le armi ha ugualmente imposto a Israele un cessate il fuoco unilaterale e generato sostegno alla sua scelta, il 10 maggio, di affrontare le forze armate dello Stato ebraico. A offuscare questa immagine vittoriosa c’è il prezzo pagato dai suoi uomini sotto le bombe sganciate dai jet israeliani. I dati delle perdite subite dai combattenti islamisti non sono noti e difficilmente saranno comunicati nella loro reale entità. Su questo punta Benyamin Netanyahu per accreditare la sua “vittoria” e convincere un’opinione pubblica israeliana scettica e che in maggioranza voleva continuare i bombardamenti su Gaza. “Abbiamo ucciso oltre 200 terroristi e distrutto 100 chilometri di tunnel di Hamas. Abbiamo causato il massimo delle perdite riducendo al minimo quelle israeliane. Un risultato straordinario”, ha proclamato il premier israeliano poche ore dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco. Israele, ha concluso Netanyahu, ha inflitto ad Hamas un “colpo che non poteva immaginare”, la sua rete di tunnel si è trasformata in una “trappola mortale”. Risultati che vengono messi in dubbio dal quotidiano Haaretz che ha raccolto le dichiarazioni di funzionari della sicurezza. Gli attacchi contro l’arsenale missilistico di Hamas, hanno spiegato, non sono stati così devastanti e precisi. L’aviazione e l’artiglieria hanno attaccato circa il 40% delle rampe di lancio dei razzi ma hanno avuto difficoltà a colpire altri siti e il braccio militare del movimento islamico ha mantenuto la sua capacità di fare fuoco contro Israele (4.360 razzi e colpi di mortaio). Dati che alimentano le tesi di chi in Israele pensa che gli 11 giorni di bombardamenti non siano serviti a raggiungere gli obiettivi di cui ha parlato Netanyahu. Yair Lapid, il leader centrista al quale è stato ha affidato il mandato di formare il nuovo governo israeliano, ha sparato a zero sul primo ministro: “I cittadini e soprattutto le comunità al confine con Gaza hanno sofferto per il pesante lancio di razzi e non hanno ottenuto nessun risultato”. Ma proprio lui venerdì sera aveva esortato il governo ad ascoltare l’invito di Joe Biden al cessate il fuoco. Dietro i proclami di vittoria delle due parti, ci sono Gaza, i suoi morti e le sue distruzioni. Ieri gli abitanti sono riemersi nelle strade e non solo per celebrare l’inizio del cessate il fuoco e l’aver tenuto testa a uno degli eserciti più potenti al mondo. Molti hanno scoperto la vastità delle distruzioni. Alcuni quartieri di Gaza city sono stati trasformati dalle esplosioni, interi palazzi sono svaniti. Le squadre di soccorso hanno ripreso la ricerca nelle macerie di eventuali superstiti e per recuperare i cadaveri di quanti erano dati per dispersi. A Tel al-Hawa è stato estratto il corpo di una bimba di tre anni. Dei 243 morti registrati dal ministero della sanità, 66 erano bambini o ragazzi. Per migliaia di sfollati è iniziato il ritorno verso casa. Tanti non la ritroveranno: sono centinaia le abitazioni distrutte o danneggiate. Nel sud di Israele la vita è ripresa quasi normale ma diverse famiglie fanno i conti con i danni causati da razzi. Altre piangono i loro morti: 12, tra cui un bimbo di 6 anni. Joe Biden vuole svolgere un ruolo di primo piano nella ricostruzione di Gaza investendo miliardi di dollari. Lo scrive il New York Times, aggiungendo che il presidente Usa intende prendere anche altre iniziative, forse tenendo conto di una analisi conclusa nel 2017 dal prestigioso Brookings Institution. Gli sforzi di ricostruzione di Gaza, scrisse quattro anni fa l’istituto, sono in gran parte falliti per l’ingestibile opposizione ad Hamas, non solo da parte di Israele ma anche dell’Egitto, che diffida dei legami di Hamas con i Fratelli Musulmani. Siria, la tempesta perfetta dopo dieci anni di guerra di Fadi Hassan e Andrea Presbitero Il Domani, 22 maggio 2021 Sono passati dieci anni dall’inizio della guerra in Siria. A tratti ci siamo sentiti toccati da vicino da questo conflitto, specie con le immagini dei rifugiati che cercavano di raggiungere i paesi europei. Ma come sta la popolazione rimasta in Siria? Male, e da quest’anno peggio. Secondo il World Food Programme, oltre 12 milioni di siriani (il 70 per cento della popolazione residente) sono in stato di insicurezza alimentare; 4,5 milioni lo sono diventati quest’anno. Il paese, già prostrato da anni di guerra civile, è stato colpito in rapida successione da tre shock negativi, ciascuno in grado di mettere in ginocchio economie ben più solide. Sono passati dieci anni dall’inizio della guerra in Siria. A tratti ci siamo sentiti toccati da vicino da questo conflitto, specie con le immagini dei rifugiati che cercavano di raggiungere i paesi europei. Ma come sta la popolazione rimasta in Siria? Male, e da quest’anno peggio. Secondo il World Food Programme, oltre 12 milioni di siriani (il 70 per cento della popolazione residente) sono in stato di insicurezza alimentare; 4,5 milioni lo sono diventati quest’anno. Oggi un chilo di carne costa un quarto dello stipendio medio di un impiegato, è come se da noi la carne costasse 700 euro al chilo. I beni primari come il riso, lo zucchero o la benzina sono di fatto contingentati: lo stato garantisce dei quantitativi minimi a dei prezzi calmierati, ad esempio un chilo di riso al mese per persona o 25 litri di benzina a settimana per macchina; quantità maggiori possono essere acquistate sul mercato libero, ma a dei prezzi spesso proibitivi per la maggior parte delle persone. Il problema è che il paese, già prostrato da anni di guerra civile, è stato colpito in rapida successione da tre shock negativi, ciascuno in grado di mettere in ginocchio economie ben più solide. Le sanzioni americane - Innanzitutto nel giugno dello scorso anno c’è stato l’inasprimento delle sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti con il Caesar Act voluto dall’amministrazione Trump e assecondato dall’Unione europea. L’obiettivo delle sanzioni era di indebolire il regime di Assad, ma di fatto hanno avuto l’effetto di aggravare la crisi umanitaria, come dichiarato recentemente dalle Nazioni Unite, e di bloccare la ricostruzione del paese, che potrebbe iniziare sfruttando il forte calo dell’intensità del conflitto bellico. La particolarità di queste sanzioni è che non si applicano solo a cittadini e aziende americane, ma si estendono anche a quelle di paesi terzi, come i paesi europei e il Libano, che intrattengono rapporti economici e finanziari con la Siria classificati come proibiti. Le sanzioni hanno avuto un forte impatto economico colpendo in particolare il settore delle costruzioni e infrastrutture, quello energetico e quello finanziario. Tuttavia non si applicano alla parte nord-est del paese controllata dai curdi, dove c’è una presenza militare americana e dove imprese americane stanno estraendo petrolio. Inoltre, le sanzioni hanno portato a un deprezzamento della sterlina siriana rispetto al dollaro di oltre il 70 per cento e questa perdita di valore della moneta ha innescato un drastico aumento dei prezzi che ha coinvolto anche i principali beni alimentari. La crisi del Libano - In secondo luogo, la crisi finanziaria ed economica in Libano, esplosa alla fine del 2019, ha avuto forti ripercussioni sulla Siria. Il sistema finanziario siriano ha un legame molto stretto con quello libanese da cui dipende per l’intermediazione dei flussi di capitale con l’estero. Molte imprese e famiglie siriane hanno depositi in valuta per diversi miliardi di dollari presso le banche libanesi, ma il blocco generale dei depositi in Libano ha impedito l’accesso ad un’importante fonte di liquidità. La crisi libanese si è tradotta anche in una riduzione della domanda per i prodotti siriani, le cui esportazioni dipendono in buona parte dagli acquisti di cittadini libanesi. A tutto questo nell’agosto 2020 si è aggiunta la terribile esplosione nel porto di Beirut che ha distrutto il silos più importante del paese, diminuendo la disponibilità di grano anche in Siria. L’arrivo del Covid-19 - Il terzo shock è stato l’arrivo del Covid-19, un ulteriore elemento di fragilità che si è inserito in una situazione già ingestibile e di piena emergenza. Dopo dieci anni di guerra il sistema sanitario è ormai allo stremo: poco più della metà degli ospedali è operativo e circa il 70 per cento del personale medico ha lasciato il paese. La pandemia avrebbe potuto avere un esito tragico, ma il relativo isolamento internazionale e la scarsa mobilità interna hanno contribuito a contenere la diffusione del virus e ridotto gli effetti sanitari. Tuttavia gli effetti economici si sono fatti sentire, non solo per le chiusure, ma anche per il drastico calo delle rimesse degli emigrati (stimato tra il 50 per cento e l’80 per cento) dovuto sia alla perdita di lavoro nel loro paese di residenza, sia al blocco degli spostamenti internazionali che ha impedito trasferimenti in contante. Ciò nonostante, una delle conseguenze più rilevanti del Covid-19 è stata la disattenzione internazionale verso la crisi siriana. Con il mondo impegnato a combattere la pandemia, si è trascurato l’aggravarsi della situazione umanitaria. Sono mancati il supporto economico, l’attenzione mediatica, e lo sforzo politico per cercare di risolvere una crisi che si protrae da troppo tempo. Per fronteggiare l’emergenza alimentare e stabilizzare l’economia diventa sempre più urgente e necessaria una risposta da parte della comunità internazionale diretta a eliminare (o almeno ridurre) le sanzioni, incrementare lo stanziamento di aiuti e agevolare l’attività delle agenzie internazionali, spesso ostacolate da interessi geo-politici. Tuttavia, i segnali più recenti non sono incoraggianti. Le Nazioni unite hanno dichiarato che servono 10 miliardi di dollari nel 2021 per arginare la crisi umanitaria e sostenere i rifugiati nei paesi limitrofi, ma alla conferenza di Bruxelles di marzo i paesi donatori si sono impegnati per 4,4 miliardi, meno della metà di quanto servirebbe e un miliardo in meno degli aiuti dello scorso anno, nonostante l’aggravarsi della situazione. Occasione G20 - Spesso si dice che l’Italia dovrebbe avere un ruolo di leadership nella politica estera nel Mediterraneo, ma sulla crisi siriana ha avuto un ruolo molto defilato. Sarebbe opportuno che l’Italia sfruttasse la presidenza del G20 di quest’anno per gettare le basi di una conferenza internazionale sulla Siria, con l’obiettivo di affrontare non tanto il tema di aiuti e donazioni (per quello c’è già la conferenza di Bruxelles), ma quello delle sanzioni creando un dialogo politico per risolvere la crisi. L’Italia ha una ricca storia di legami commerciali e culturali con la Siria, priva di sfaccettature coloniali, che la renderebbero un mediatore internazionale credibile e ben accetto. Nell’estate del 2019 uno di noi era in viaggio in Siria. Durante una gita al Krak dei Cavalieri a un certo punto si sente il classico vociare degli italiani in gita. C’era un gruppetto di toscani, sembrava un miraggio. Noi eravamo stupiti di trovare loro e loro erano stupiti di trovare noi. Una piccola onlus fiorentina guidata dal signor Saverio si era attrezzata, fra mille difficoltà, per organizzare viaggi di turismo solidale in Siria come messaggio di pace; probabilmente era l’unico in grado di portare occidentali in visita nella regione. Sono quelle cose che quando le vedi ti danno un senso di speranza. A livello micro, quando si tratta di iniziative basate su generosità e caparbietà personale l’Italia arriva prima, ma quando si deve passare a livello macro e guidare proposte internazionali non ce la facciamo. Varrebbe la pena cogliere l’occasione del G20 per provarci, basterebbe avere la volontà politica di farlo e ci sono in ballo 20 milioni di persone. Egitto. Che non si dica Balaha di Francisco Soriano carmillaonline.com, 22 maggio 2021 Il 2 maggio è morto nelle carceri egiziane Shadi Habash. Il giovane regista era stato incarcerato e torturato per la sua collaborazione artistica con il cantante Ramy Essam, esiliato in terra svedese dal 2015 a causa delle persecuzioni per le sue attività dissidenti nei confronti del regime egiziano. Habash aveva realizzato nel 2018 un video musicale dal titolo “Balaha”: significa “dattero” ed è il nomignolo che gli egiziani hanno riservato al loro dittatore. In realtà il riferimento sarcastico si riferisce al personaggio di un film degli anni ottanta in cui si narra la storia di un malato psichiatrico di nome Balaha, finito in isolamento proprio per il suo disagio mentale. La canzone che ha reso Habash un detenuto dissidente conteneva parole di denuncia sociale e non semplicemente di ilarità nei confronti del regime: “Tu vivi nei giardini e noi, invece, dentro le celle… ti hanno rubato le terre promettendoti grappoli d’uva, ci hanno rubato il nostro Nilo e ti hanno lasciato qualche goccia …”. Per comprendere il grave stato di persecuzione, tortura e violazione di qualsiasi diritto umano in Egitto è necessario riportare qualche statistica ufficiale. Nel mese di aprile di quest’anno sono stati giustiziati nove prigionieri: erano accusati dell’uccisione di altrettanti agenti durante gli attacchi al commissariato di Kerdasa nell’agosto del 2013. L’esecuzione è avvenuta nel mese sacro del ramadan e ha visto coinvolto nella mattanza anche un uomo di 82 anni. A causa di questa spirale di vendetta il sistema giudiziario egiziano ha triplicato le esecuzioni che, nel 2020, ha portato l’Egitto al terzo posto nel vergognoso primato dei Paesi che applicano questa orribile pratica. Le ultime esecuzioni sono solo una parte di quelle riservate a un gruppo di 183 persone condannate a morte con sentenza emessa nel 2014 da un tribunale di Giza e confermate dalla Corte di Cassazione. Nei due mesi di ottobre e novembre del 2020, secondo fonti di Amnesty International, ci sono state 87 esecuzioni di cittadini condannati alla pena di morte. Il Committee for Justice (CFJ) è una associazione indipendente dei diritti umani con sede a Ginevra e attiva negli studi e ricerche sulle violazioni dei diritti umani nell’area Mena, acronimo di Medio Oriente e Africa del Nord. Questa associazione ha stilato un ultimo report dal titolo emblematico: The Giulio Regenis of Egypt. Il documento rappresenta un quadro inquietante perché fa emergere il grado di disumanità delle autorità egiziane che, dalla seconda metà del 2013 (anno del golpe del generale Abdel Fattah Al-Sisi) all’ottobre del 2020, hanno intensificato nelle carceri le loro pratiche repressive: sono deceduti almeno 1.058 prigionieri a causa di torture o morti provocate dal rifiuto di prestare le adeguate cure mediche. In questo caso la pandemia da Covid-19 ha dato una mano al regime. La volontaria astensione da parte delle autorità alle cure mediche nei confronti dei detenuti è una delle modalità preferite dal regime del faraone Abdel Fattah Al-Sisi per spegnere il dissenso dei prigionieri politici. Infatti secondo le stime ufficiali delle associazioni umanitarie il 71% dei decessi totali nelle prigioni, dal 2013 al 2020, è determinato dalla carenza di cure mediche. Nel 2021 la percentuale potrebbe essere addirittura superiore: questa tragedia denota un’inaccettabile deriva umanitaria senza precedenti nel mondo. Queste sono le stime ufficiali che non tengono conto delle sparizioni e delle detenzioni nei centri di carcerazione “informali”: attività che avvengono secondo modelli di tortura di tipo “sudamericano”, tristemente ricordati per il fenomeno dei “desaparecidos”, cioè persone uccise dopo strazianti torture e occultate in fosse comuni o lanciate ancora in vita nell’oceano da aerei in volo. In particolare bisogna sottolineare il valore perverso di un articolo del codice penale egiziano, l’articolo 143, che prevede la custodia cautelare a tempo indeterminato quando si viene accusati di reati punibili con la pena di morte: terrorismo, sedizione, reati di opinione e pericolosità nei confronti dell’ordine pubblico. Come in Turchia il reato di terrorismo mantiene una volontaria ambiguità. Questo determina l’allargamento della sua sfera di applicabilità in pene severissime nei confronti di cittadini che, con il terrorismo non hanno nulla a che fare: è un atto pensato e programmato per poter perseguitare con maggiore legittimità e con una parvenza di “legalità”. Meglio sottolineare che, al contrario, i metodi di un terrorismo di stato si riconoscono meglio nei rastrellamenti, nella tortura, nella sparizione di inermi cittadini accusati di aver contestato il regime o, semplicemente, di averne studiato contraddizioni e illegalità. In questo quadro insopportabile di ingiustizie come non ricordare la vile messinscena della cattura e l’uccisione di fantomatici rapinatori accusati di essere coinvolti nell’uccisione di Giulio Regeni, al fine di depistare le indagini dei magistrati italiani nei confronti dei servizi di sicurezza egiziani. Secondo il Committee for Justice (CFJ), dal luglio al settembre del 2020 si sono verificati 557 casi di sparizione forzata nelle carceri e 20 casi di tortura che hanno provocato la morte o danni irreversibili nelle vittime. Questi sono numeri recenti che non considerano tutti i casi dal 2013. Un periodo in cui vi è stato un proliferare di migliaia di incredibili crimini nei confronti di cittadini inermi. Sembra a questo punto naturale sottolineare che le violazioni sono determinate e possibili in sede processuale dalla mancanza di indipendenza del potere giudiziario. Le persone vengono sottoposte all’insostenibile pratica delle carcerazioni preventive arbitrarie e prolungate secondo il sistema delle “porte girevoli”, condizione che si aggiunge alla mancanza di tutele ai fini di un processo equo fra chi accusa e chi si difende. Infatti è “normale” in Egitto la persecuzione dei difensori delle vittime anche attraverso la carcerazione con incriminazioni simili a quelle riservate ai propri clienti. In questo quadro come non ricordare la sorte riservata a Bahey El Din Hassan direttore del Center oh Human Rights Studies of Cairo, condannato in contumacia l’anno scorso a 15 anni di reclusione. Il caso di Patrick Zaki è ancora più paradossale se si pensa che il giovane studente copto è stato incarcerato e mai più rilasciato per aver scritto sui social media pensieri che offendevano e addirittura avrebbero messo in pericolo la sicurezza delle istituzioni egiziane. Il presidente del CFJ ben evidenzia, in molteplici interventi a mezzo stampa, che le autorità egiziane dispongono di elenchi che osiamo definire ‘preconfezionati’, contenenti una serie di accuse che possono essere mosse contro oppositori, difensori dei diritti umani e giornalisti: adesione e finanziamento di gruppi terroristici, spionaggio, incitamento alla violenza e al terrorismo. […] Sostanzialmente servono da pretesto per poter procedere con la custodia cautelare in carcere, da prolungare poi ad libitum, per sbarazzarsi dei cittadini scomodi”. Nell’ottobre del 2019 Shadi Habash riusciva a far diffondere un suo messaggio con l’obiettivo di chiedere aiuto alle autorità internazionali e testimoniare la condizione dei detenuti politici in Egitto: Resistere in prigione significa resistere a te stesso. Proteggi te stesso e la tua umanità dall’impatto di quello che tu vedi ogni giorno. Ti fermi, vai di matto o lentamente muori perché sei stato buttato dentro una stanza due anni fa e sei stato dimenticato, non sapendo quando ne verrai fuori. Sono alcune settimane che l’attivista Alaa Abdel Fattah ha cominciato uno sciopero della fame e della sete per sensibilizzare l’opinione pubblica sul trattamento sanitario insufficiente o dolosamente assente nelle carceri, soprattutto nel contenimento del Covid-19. Ai familiari della donna sono state proibite le visite e la possibilità di farle pervenire medicinali. Altre due attiviste, Marwa Arafa e Kholoud Said, hanno subito una carcerazione dopo essere scomparse dalle loro abitazioni: sono ricomparse in mano alle forze di sicurezza egiziane qualche settimana dopo. Alle due donne viene tuttora riservato un trattamento davvero “speciale” perché detenute nella sezione Scorpion, che ospita detenuti politici accusati di reati d’opinione. Sembra segnato il destino di Patrick Zaki: nei suoi confronti le autorità si distinguono ancora una volta per la loro sistematica opera di annientamento psicologico e fisico dello studente. Il regime mostra sempre di più atteggiamenti paranoici, disumani e punitivi al limite della sopportazione. La verità è che il sistema economico egiziano getta sempre di più la popolazione in uno stato di depressione provocata da fame e disoccupazione: un sistema sfrontatamente liberista improntato alla corruzione e allo smantellamento dei servizi pubblici. Le risorse vengono spese in sistemi di controllo interno della popolazione e di acquisto di armi come deterrente esterno. Il Cairo è partner privilegiato dell’Italia nell’acquisto di strumenti bellici, secondo le stime più attendibili per un giro di affari di in decine di miliardi di euro. Secondo quanto riferisce la Rete italiana per la pace e il disarmo (Ripd), l’Egitto “è il Paese destinatario del maggior numero di licenze; è in aumento la propria quota fino a 991,2 milioni di euro grazie alla licenza di vendita delle due Fregate Fremm”. E questa è solo una parte delle spese egiziane nel nostro Paese. Pertanto è evidente constatare che gli affari valgono molto di più della vita delle persone, anche se si tratta di un cittadino italiano come nel caso di Giulio Regeni. Una vergogna ben imbandita sull’altare dell’ipocrisia e della complicità silente a crimini efferati. Guantanámo, Usa: è arrivato il “sì” al rilascio del detenuto più anziano La Repubblica, 22 maggio 2021 Altri 40 sono ancora detenuti. Saifullah Paracha, 73 anni, è nel supercarcere dal 2004 senza essere stato mai processato. Scarcerato, dopo 19 anni, anche un cittadino yemenita, anche lui senza accuse formali. Le autorità degli Stati Uniti hanno approvato il rilascio del prigioniero più anziano del carcere di massima sicurezza a Guantánamo. Si tratta di Saifullah Paracha, 73 anni, detenuto dal 2004, senza mai essere stato processato per rispondere ad accuse precise. La pratica della detenzione senza accuse né processo. Paracha, che in passato ha vissuto a New York, era un ricco uomo d’affari del Pakistan prima di essere catturato in Tailandia nel 2003. L’uomo, tra le altre cose, soffre di cuore e di diabete. Oltre a lui è stata approvata anche la scarcerazione di Uthman Abd al-Rahim Uthman, yemenita, detenuto a Guantánamo dal 2002 (anno dell’apertura del supercarcere) e senza che - anche per lui - sia mai stata formalizzata alcuna accusa. Attualmente il carcere ospita 40 detenuti contro i 700 del 2003, quando si raggiunse il picco. Come l’ex presidente Barack Obama anche Joe Biden vuole chiudere Guantánamo. Le sistematiche violazioni della Convenzione di Ginevra. La struttura detentiva statunitense di massima sicurezza si trova nella base navale USA, sull’isola di Cuba. Il campo è noto all’opinione pubblica mondiale per via delle sistematiche violazioni delle Convenzioni di Ginevra riguardo ai prigionieri di guerra, quali detenzioni a tempo indefinito senza previo processo e torture su prigionieri ritenuti connessi al terrorismo di matrice islamica. L’area di detenzione era inizialmente composta da tre campi: il Camp Delta (che include il “Camp Echo”), il Camp Iguana e il “Camp X-Ray” (al quale è ispirato l’omonimo film); quest’ultimo è stato chiuso il 29 aprile 2002. Nel 2021 la prigione “festeggia” il suo 20° compleanno. In occasione dell’ingresso nel ventesimo anno di operatività, con un nuovo presidente alla Casa Bianca, Amnesty International all’inizio dell’anno ha diffuso un nuovo rapporto sulle violazioni dei diritti umani ancora in corso nel centro di detenzione di Guantánamo Bay. “Il nostro rapporto - aveva detto Daphne Eviatar, direttrice del programma sicurezza e diritti umani di Amnesty - Usa - non riguarda solo le 40 persone ancora detenute, ma anche i crimini di diritto internazionale commessi a Guantánamo negli ultimi 19 anni e la continua mancanza di accertamento delle responsabilità. Riguarda allo stesso tempo il futuro, dato che nel 2021 saranno trascorsi 20 anni dagli attacchi dell’11 settembre e dall’inizio della ricerca di una giustizia autentica”. Le profanazioni descritte nel rapporto. Il rapporto descrive tutta una serie di violazioni dei diritti umani commesse ai danni dei detenuti di Guantánamo, dove ancora oggi vittime di tortura sono trattenute a tempo indeterminate, senza cure mediche adeguate e in assenza di un processo equo. I trasferimenti si sono fermati e anche i detenuti per i quali è stato deciso il rilascio anni fa restano lì. Il centro di detenzione di Guantánamo è stato aperto nel contesto della “guerra globale al terrore”, la risposta statunitense agli attacchi dell’11 settembre, con l’obiettivo di ottenere informazioni d’intelligence a spese delle tutele sui diritti umani. Torture e sparizioni forzate. Nei confronti di persone sottratte alla supervisione giudiziaria e trattenute a Guantánamo o in centri segreti di detenzione diretti dalla Central intelligence agency (Cia), sono stati commessi crimini di diritto internazionale come torture e sparizioni forzate. Il rapporto di Amnesty International ha chiesto un urgente e autentico impegno in favore della verità, dell’accertamento delle responsabilità e dei rimedi giudiziari assieme al riconoscimento che la detenzione a tempo indeterminate a Guantánamo non può proseguire oltre.