Cresce il lavoro all’interno degli istituti di pena redattoresociale.it, 21 maggio 2021 Grazie alle maggiori risorse destinate negli ultimi anni, il numero dei detenuti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria è aumentato. Meno bene è andata per i detenuti alle dipendenze di datori di lavoro esterni, a causa della pandemia da Covid-19. Cresce il lavoro in carcere. A dare le dimensioni di questo incremento è la Relazione al Parlamento relativa allo svolgimento da parte di detenuti di attività lavorative o corsi di formazione professionale per qualifiche richieste da esigenze territoriali (Legge 22.06.2000 n. 193 art. 5 comma 3) con dati riferiti al 2020. Diversi i settori che vedono aumentare il numero dei detenuti impiegati alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, mentre il numero di dipendenti da datori di lavoro esterni ha subito una battuta d’arresto per via della pandemia da Covid-19. Al 30 giugno 2020, i detenuti impegnati in attività lavorative erano oltre 17 mila, pari a quasi il 32% dei presenti negli istituti di pena. Il dato più evidente, tuttavia, riguarda il capitolo di spesa delle retribuzioni per i detenuti lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria negli ultimi anni: un dato che ha fatto registrare un forte incremento. “Il lavoro è ritenuto dall’Ordinamento penitenziario l’elemento fondamentale per dare concreta attuazione al dettato Costituzionale - si legge nella relazione -, che assegna alla pena una funzione rieducativa, in questo senso l’Amministrazione Penitenziaria è costantemente impegnata ad offrire nuove opportunità lavorative per la popolazione detenuta”. Lavoro che può essere svolto sia alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria (in attività agricole, industriali, di manutenzione ordinaria dei fabbricati e nei servizi vari d’istituto), che alle dipendenze di soggetti terzi, come imprese e cooperative. “Nel corso del 2020 - si legge nella relazione - la competente Direzione Generale del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria si è impegnata, con le risorse a disposizione, per migliorare le strutture produttive e le attività presenti all’interno degli istituti penitenziari (falegnamerie, tessitorie, tipografie ecc.)”. Nel settore “industria” è stata stanziata la somma di 14.336.355 euro per l’esercizio finanziario 2020, mentre i detenuti impiegati alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria in attività di tipo industriale, al 30 giugno 2020 erano 707 contro i 661 del 30 giugno 2019. Cresciuto anche il numero dei detenuti impegnati nella gestione quotidiana dell’istituto: al 30 giugno 2020 risultavano impiegate 14.174 unità contro le 13.582 al 30 giugno del 2019. Per quanto riguarda lo sviluppo, la gestione e la manutenzione delle colonie e dei terreni agricoli presenti all’interno degli istituti penitenziari, per il 2020, sono stati stanziati 8,5 milioni di euro con 299 detenuti impiegati al 30 giugno 2020. Non fa registrare lo stesso incremento il lavoro per datori esterni che proprio a causa del Covid-19 ha mostrato una battuta d’arresto rispetto agli anni precedenti: al 30 giugno 2020, tuttavia, risultano alle dipendenze di datori di lavoro esterni all’Amministrazione penitenziaria 2.072 detenuti. La Costituzione violata con l’ergastolo “ostativo” di Gerardo Mazziotti Il Roma, 21 maggio 2021 “Le pene non possono costituire trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lo stabilisce il secondo comma dell’art 27 della nostra Costituzione. L’ergastolo è previsto dal Codice Penale, voluto dal ministro di Grazia e Giustizia Rocco e dal Capo del governo Mussolini nel 1936 e ancora vigente (con alcune opportune modifiche) perché nessun governo è stato capace di sostituirlo con un Codice rispettoso della Costituzione repubblicana. L’ergastolo “ostativo”, che nega al detenuto ogni beneficio penitenziario, a meno che non sia un collaboratore di giustizia, “è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. L’ha denunciato la Corte Costituzionale che alcuni giorni fa ha esaminato le questioni di legittimità sollevate dalla Cassazione sul regime applicabile ai condannati alla pena dell’ergastolo per reati di mafia, che non abbiano collaborato con la giustizia e che chiedano l’accesso alla liberazione condizionale. I giudici, infatti, hanno rilevato che la “vigente disciplina del cosiddetto ergastolo ostativo preclude in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro”. Tuttavia la Consulta si è resa conto che “l’accoglimento immediato della questione rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata” e ha concesso al Parlamento un anno di tempo, fino al maggio 2022, per modificare la norma. Penso che il nuovo Parlamento debba occuparsi anche del tristemente famoso 41 bis. Si tratta di un provvedimento legislativo noto anche come “carcere duro”, che viene riservato ad una particolare categoria di criminali, ritenuti troppo pericolosi per i loro legami con associazioni mafiose e terroristiche. Venne introdotto dalla cosiddetta legge Gozzini, che modificò la legge 26 luglio 1975, n. 354, ed era in applicabile solo a casi di emergenza interne alle carceri come chiaramente scritto nel dispositivo “In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il ministro della Giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto”. Ma, dato che nel nostro Paese nulla è più definitivo del provvisorio, anche il 41bis è stato prorogato fino a diventare permanente. La misura aveva carattere temporaneo e la sua efficacia era limitata ad un periodo di tre anni dall’entrata in vigore della legge di conversione. Ma fu prorogata una prima volta fino al 31 dicembre 1999, una seconda volta fino al 31 dicembre 2000 e una terza volta fino al 31 dicembre 2002. E poi prorogata senza limiti di tempo. Il condannato al 41bis vive in un isolamento massimo, in una cella di 2 metri per tre, arredata con una branda, un lavabo e un wc. Può godere della tradizionale ora d’aria ma non ha alcun contatto con altri detenuti. Non gli è concesso di fare alcun tipo di lavoro ed è sottoposto ad una stretta sorveglianza senza interruzioni. Un trattamento definito “inumano” dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dal Papa. Totò Riina fu catturato il 15 gennaio 1993 e fu condannato in vari processi a otto ergastoli (laddove ne sarebbe bastato uno solo trattandosi di carcere a vita) ed è morto il 17 novembre 2017 dopo 24 anni vissuti (si fa per dire) in una cella da 41bis. Per quanto criminale sia stato come capo della mafia palermitana penso che abbia subito un trattamento privo di senso di umanità. Meglio giustiziarlo che seppellirlo vivo. È auspicabile che il Parlamento trovi il modo di punire i criminali più efferati nel rigoroso rispetto dell’art. 27 della Costituzione. E che abolisca l’articolo 41bis. Lavori di pubblica utilità: si rafforza la cooperazione Italia-Messico-Unodc di Marco Belli gnewsonline.it, 21 maggio 2021 Si rafforza, anche sotto il profilo operativo, il programma di cooperazione internazionale per il reinserimento sociale dei detenuti di Città del Messico basato sul modello italiano “Mi riscatto per…”. Gli ottimi risultati ottenuti fin qui hanno infatti convinto Italia, Governo di Città del Messico e Ufficio delle Nazioni Unite per la lotta alla droga e al crimine - Unodc ad intensificare l’intesa e le attività di collaborazione. E domani, nel corso di un apposito evento streaming organizzato nell’ambito della 30a Sessione della Commissione delle Nazioni Unite per la prevenzione della criminalità e la giustizia penale, si tiene la presentazione del progetto di “Rafforzamento del Programma di lavoro di pubblica utilità nell’Amministrazione Penitenziaria di Città del Messico”. Previsti gli interventi del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Bernardo Petralia, e del Capo della sezione Ufficio centrale lavoro detenuti del DAP, Vincenzo Lo Cascio, oltre a quelli del responsabile del sistema penitenziario di Città del Messico, Antonio Hazael Ruiz Ortega, e del lavoro penitenziario, Aaron Sanchez Castaneda, del rappresentante UNODC Messico, Kristian Holge, del vicedirettore delle operazioni UNODC, CandiceWelsch, dell’ambasciatore italiano in Messico, Luigi De Chiara, e del direttore di Enel per l’America Centrale e il Messico, Bruno Riga. L’evento potrà essere seguito accreditandosi al seguente link: http://bit.ly/3elmTKx. Nato nel 2019 da un accordo fra le amministrazioni penitenziarie dei due Paesi e promosso dall’UNODC, come rispondente alle Regole di Mandela, il Programma intende promuovere il processo di reinserimento sociale dei detenuti dello Stato messicano attraverso lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, sviluppando un percorso che permette al recluso di sentirsi utile, aumentare la propria autostima e ripagare il proprio debito con la società, e in tal modo riducendo la possibilità di recidiva. Nell’agosto 2019 viene sottoscritto nella capitale messicana il Memorandum di intesa fra i partner per l’implementazione nel sistema penitenziario dello Stato messicano del Progetto Lavori di pubblica utilità sulla base del modello italiano ‘Mi riscatto per...’. Le successive Linee guida, sottoscritte nel dicembre 2019, segnano l’avvio della fase esecutiva. Lo scorso anno, il brusco stop dovuto alla pandemia da Covid19, proprio nel momento di procedere con le prime uscite dei 600 detenuti selezionati e adeguatamente formati alla cura delle aree verdi. Il DAP, attraverso l’Ufficio centrale per il lavoro dei detenuti, ha contribuito fin qui con una intensa attività di consulenza: inizialmente per adattare il modello italiano alla normativa e al contesto messicano e, successivamente, con la pianificazione delle attività e la formazione del personale e dei detenuti degli istituti coinvolti. A metà del prossimo mese di giugno ripartirà la consulenza “sul campo”, con una nuova missione che avrà come obiettivo quello di accompagnare le prime uscite di detenuti per svolgere attività manutentive in alcune aree verdi del centro di Città del Messico. E presto il progetto potrebbe essere replicato oltreoceano: nel marzo scorso il Direttore UNODC di Lima, in Perù, ha scritto al DAP rappresentando l’interesse di diversi Stati sudamericani di aderire al Programma chiedendo assistenza all’Italia. Ancora braccio di ferro sulla prescrizione: mercoledì l’incontro Cartabia-M5S sulla riforma di Liana Milella La Repubblica, 21 maggio 2021 Salta il voto sulla separazione delle carriere in commissione Affari costituzionali, ma Costa di Azione riproporrà l’emendamento in Aula. La Lega rilancia sui referendum ma dice che “non c’è scontro con la ministra”. È senza fine la querelle sul futuro della prescrizione. E su questo, e altro, mercoledì prossimo, di buon mattino, si terrà - come ha appreso Repubblica - l’incontro tra la Guardasigilli Marta Cartabia e il M5S. Chiesto da Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede per discutere in prima battuta della prescrizione, ma non solo. Sul piatto - in questo vertice bilaterale cui parteciperanno i capigruppo di Camera e Senato e chi, nel partito, si occupa di giustizia - M5S è intenzionato a mettere tutte le questioni che non lo convincono in vista della riforma del processo penale. A cominciare da una prescrizione che cancella la riforma dell’ex ministro Bonafede (stop dopo il promo grado) per tornare a quella del suo predecessore Andrea Orlando (solo una sospensione dopo primo e secondo grado). Per passare all’impossibilità di appellare le sentenze per i pm e per gli avvocati. Due temi su cui sono già trapelati gli orientamenti di Cartabia. Per affrontare anche l’ipotesi - che però non dovrebbe entrare nella riforma, di affidare al Parlamento l’indicazione delle priorità dell’azione penale. Sarà il primo faccia a faccia della ministra con un solo partito della maggioranza. Sicuramente non sarà presente Conte, e anche Bonafede potrebbe non esserci. Finora gli incontri della Guardasigilli sono stati collettivi, con tutti i partner della coalizione. Il vertice cade in un momento strategico per le riforme sulla giustizia perché siamo ormai alla stretta sugli emendamenti del processo penale e, subito dopo, su quelli per la riforma del Csm. Testi che dovranno essere definitivamente approvati entro l’anno assieme alla revisione del processo civile per rispettare i tempi imposti dal Recovery. Come dimostra la querelle, che andiamo a raccontare, sulla separazione delle carriere, proprio sulla giustizia la stabilità della maggioranza è sempre in pericolo. Lo scontro sulla separazione delle carriere - Meglio non votare che dividersi. Soprattutto se di mezzo c’è la separazione delle carriere. E per giunta pure un decreto sui concorsi per le toghe che rischia di non essere convertito in tempo. Dando uno smacco - e sarebbe il primo - alla Guardasigilli Marta Cartabia. Che certo, come lo stesso Mario Draghi, nonché il presidente Sergio Mattarella, non vede affatto di buon occhio il nervosismo della maggioranza sulla giustizia. Giusto mentre Matteo Salvini rilancia la prossima campagna sui referendum con i Radicali e preannuncia per luglio i tavoli in piazza, su questioni forti come la separazione delle carriere, la riforma del Csm, la custodia cautelare, anche se fonti leghiste fanno notare che ciò non va letto come una “voglia di crisi sulla giustizia”. Già da lunedì, quando in aula a Montecitorio approderà il decreto sui concorsi, si riaffacceranno le divisioni tra la destra e la sinistra della maggioranza che sono state evitate in commissione grazie al mancato voto sugli emendamenti. L’autore di quello sulle carriere, Enrico Costa di Azione, è deciso ad andare avanti e dice che riproporrà la questione proprio in aula, aggiungendo ironicamente “così si capirà chi è garantista per convinzione e chi per convenienza”. Sul filo delle divisioni - Partiamo dai fatti. La riunione della commissione Affari costituzionali - durata ieri dalle 13 alle 15 - per mandare in aula il decreto sul concorso (quindi uno solo) per i magistrati in tempi di Covid, nel quale la ministra della Giustizia consente ai candidati di affrontare solo due prove scritte su tre, estraendole a sorte. E qui s’innesta la richiesta di Costa, da sempre un fan della separazione delle carriere, che mette in evidenza l’anomalia di un futuro pm che potrebbe non affrontare la prova di diritto penale, ma solo quelle di diritto civile e amministrativo. Quindi propone che l’aspirante toga dichiari subito se vuole fare il giudice o il pm. Nel secondo caso deve affrontare per forza lo scritto di diritto penale. Nei fatti è una separazione delle carriere ante litteram. Forza Italia, Lega, Italia viva e Più Europa sottoscrivono la proposta. Ma dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, per il tramite della sottosegretaria da sempre berlusconiana Deborah Bergamini, giunge uno stop, perché non c’è tempo per cambiare il decreto che scade il 31 maggio. Pd e M5S stanno con Cartabia, e non considerano neppure l’ipotesi del voto sugli emendamenti. A questo punto tocca al sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto convincere la Lega e il suo stesso partito, Forza Italia, dell’impossibilità di votare. Due partiti che però, da sempre, si battono per la separazione delle carriere. Di cui lo stesso Sisto è un convinto assertore. Ma tant’è. L’unico punto di possibile mediazione è quello di evitare il voto, o quantomeno non parteciparvi. Pure Maria Elena Boschi si muove con i suoi per disinnescare la mina. Anche perché, nelle stesse ore, da via Arenula indirettamente trapela l’insofferenza di Cartabia per partiti che “continuano a sventolare bandierine identitarie, mentre al ministero prosegue il lavoro silenzioso, quotidiano e certosino per portare a casa le riforme”. In commissione non si vota - Prevale la linea del non voto. Il presidente della prima commissione Giuseppe Brescia, di M5S, stabilisce che la seduta sul decreto durerà solo dalle 13 alle 15. Un tempo che si esaurisce rapidamente perché i deputati di Fratelli d’Italia, unico gruppo all’opposizione, illustrano tutte le loro perplessità sul decreto, e nei fatti si mangiano buona parte del tempo a disposizione. Si arriva appena a discutere del primo articolo. Inevitabile, alla fine, affidare il provvedimento al relatore, la leghista Simona Bordonali, che lo porterà lunedì in aula. L’impasse viene superata - apparentemente - senza traumi. Anche se Costa, appena esce dalla commissione, dichiara subito che ripresenterà l’emendamento e aggiunge una battuta sui garantisti “per convinzione o per convenienza”. E subito gli arriva contro la rampogna di M5S che con Elisa Scutellà, la portavoce del gruppo in commissione Giustizia, sostiene che “il Paese, specie in questo momento, si aspetta ben altro dalla politica, e c’è bisogno di soluzioni concrete”. Sulla linea Cartabia, un invito a mettere da parte le divisioni. Un cattivo viatico per le riforme - È decisamente improbabile che lunedì si apra una finestra per votare eventuali emendamenti al decreto che comportino un ulteriore invio al Senato. Ed è ipotizzabile che la via d’uscita possa essere quella di un ordine del giorno proposto da Costa che impegni il governo sull’impossibilità di prevedere futuri concorsi per le toghe in cui chi decide di fare il pm non sostenga l’esame di diritto penale. Ma l’episodio rivela l’evidente differenza di vedute nella maggioranza sulla giustizia, la stessa che, ad esempio, ha già portato a un conflitto sulla commissione d’inchiesta sulla magistratura, fortemente voluta dalla destra e ostacolata dall’asse Pd-M5S. A Salvini “piace” Cartabia - Come in un gioco degli specchi però, alla fine tutto si tiene sulla giustizia con l’obiettivo di approvare le riforme e non perdere i fondi del Recovery. Anche se Matteo Salvini annuncia la campagna di luglio sui referendum della giustizia con i Radicali. Ma buone fonti del Carroccio fanno notare che questo passo non va letto come uno schiaffo a Cartabia, né come la voglia di mettere in crisi l’attuale maggioranza. Tutt’altro. Sempre le stesse fonti sostengono che la soluzione adottata sulla prescrizione - si sospende dopo il primo grado per due anni, ma riprende se il processo dura troppo e recupera anche il tempo perso - piace alla Lega (mentre, come abbiamo visto, non piace affatto a M5S). Anzi, è addirittura la proposta che la stessa Lega avrebbe fatto. Quindi, di certo, il governo non cadrà sulla giustizia per mano della Lega. Che oggi ci tiene a sottolineare l’assenza di conflitti con Cartabia. E i referendum sulle carriere, la custodia cautelare e il Csm con i radicali? Quelli, è la risposta che nega la contraddizione, “sono essenziali, certo, ma riguardano il futuro”. Quindi Cartabia può dormire sonni tranquilli. Costa permettendo, ovviamente. Dividere le carriere delle toghe: lo scontro va avanti da 20 anni di Giulia Merlo Il Domani, 21 maggio 2021 Per i sostenitori, la contiguità tra giudici e pm rende i primi non imparziali nel giudizio e viola la parità delle parti. Secondo i contrari questa non imparzialità è indimostrata e il rischio è di creare un pm succube dell’esecutivo. I tentativi di introdurre la riforma sono stati molteplici: iniziative referendarie del partito radicale, la riforma Caselli giudicata incostituzionale e ora un disegno di legge di iniziativa popolare proposta dai penalisti. Sul fronte politico, invece, un emendamento in tal senso è stato proposto dal deputato Enrico Costa di Azione e il tema è oggetto del referendum che verrà promosso dai radicali col sostegno della Lega. Il dibattito sulla separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti prende avvio con forza all’indomani dell’entrata in vigore riforma del codice di procedura penale nel 1989. La cosiddetta riforma Vassalli - dal nome del giurista e allora ministro della Giustizia Giuliano Vassalli - trasforma il nostro sistema processuale penale da inquisitorio ad accusatorio. Nel modello inquisitorio italiano esisteva la figura - oggi eliminata - del giudice istruttore, che presiedeva alla fase preliminare del processo, raccoglieva le prove avvalendosi della polizia giudiziaria e poi le esaminava. In questa fase la difesa non aveva alcun ruolo e si concludeva con una decisione dello stesso giudice istruttore che valutava le prove e, se riteneva che l’indagato non fosse colpevole, lo proscioglieva. Altrimenti disponeva il suo rinvio a giudizio e a quel punto seguiva una fase processuale davanti a un diverso giudice. Il giudice istruttore, dunque, aveva anche funzioni latamente giudicanti e non solo di indagine. Con il nuovo rito processuale penale, invece, il pubblico ministero esercita l’azione penale, svolge le indagini e poi rappresenta la pubblica accusa nel processo, ma nella fase delle indagini i suoi atti sono autorizzati dal giudice per le indagini preliminari e il dibattimento si svolge davanti a un altro giudice. Tuttavia l’esame di magistratura è unico, come lo è l’ordine giudiziario, e chi lo supera può scegliere di diventare pubblico ministero o magistrato giudicante e nel corso della carriera può anche passare da uno all’altro. Il tema viene culturalmente portato avanti dall’Unione camere penali italiane, ma sul piano parlamentare è una battaglia storica del partito radicale di Marco Pannella: nel 1999 il principio del giusto processo viene recepito nell’articolo 111 della Costituzione, che stabilisce che “ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale” e il 21 maggio del 2000 gli italiani sono chiamati a votare a un referendum per la separazione delle carriere, promosso da radicali, socialisti e partito repubblicano. Il referendum, però, non raggiunge il quorum anche perchè Forza Italia, che era all’opposizione e voleva promuovere quella riforma tornando al governo, invita i suoi elettori all’astensione. Berlusconi, tornato al governo nel 2001, inizia l’iter parlamentare per la separazione delle carriere: è la “riforma Castelli”, licenziata nel 2002 e che inizia un lungo iter parlamentare. Tutto si conclude nel 2004: il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, rinvia la riforma alle Camere, sottolineandone alcuni profili di incostituzionalità e la riforma viene approvata, ma senza la separazione delle carriere. Un tentativo di dividere i percorsi delle toghe viene fatto anche dal governo Prodi, con la “riforma Mastella” del 2007, che introduce alcuni limiti al passaggio da pm a giudice: non più di quattro volte in carriera e solo dopo aver svolto le stesse funzioni per almeno cinque anni. Nel 2013 il partito radicale tenta un’altra raccolta firme per la separazione delle carriere, ma non riesce ad ottenere il numero di sottoscrizioni necessario. Nel 2017 l’Unione camere penali italiane promuove un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare che prevede la separazione delle carriere e l’istituzione di due Consigli superiori della magistratura, raccoglie oltre 72 mila firme e l’iter parlamentare inizia nel luglio del 2020. Ora si è tornati a parlare del tema grazie a due ulteriori iniziative. La prima è stata promossa dal deputato di Azione, Enrico Costa, che ha presentato un emendamento al decreto Covid (che disciplina anche le regole eccezionali per il prossimo concorso in magistratura) che prevede a pena di inammissibilità che il candidato dichiari se vuol svolgere funzione requirente o giudicante. L’emendamento, che è stato sottoscritto anche dal centrodestra e da Italia viva, ha poche possibilità di passare, ma è un’avvisaglia. La separazione delle carriere, poi, è anche l’oggetto di uno dei dieci referendum per i quali i Radicali raccoglieranno le firme con l’appoggio della Lega. I sostenitori della separazione delle carriere - insieme ai radicali, è una battaglia storica degli avvocati penalisti - fanno risalire quest’esigenza alla logica che chi giudica non può accusare e viceversa. Dal punto di vista dei principi costituzionali, l’ancoraggio sta nel “giusto processo” enunciato all’articolo 111, che prevede la parità effettiva e sostanziale di accusa e difesa davanti a un giudice terzo. Una parità che non sarebbe possibile se l’accusa e il giudice appartengono allo stesso ordine giudiziario e possono anche invertirsi i ruoli nel corso della carriera. La prima garanzia della terzietà, infatti, sarebbe la separazione del ruolo del giudice rispetto a chi rappresenta una parte: “Alla separazione delle funzioni non può che corrispondere una separazione delle carriere” è uno degli slogan delle Camere penali proprio all’indomani dell’approvazione della riforma Vassalli. “È assolutamente impensabile che da un giorno all’altro chi ha combattuto il crimine da una parte della barricata si trasformi improvvisamente nel garante imparziale di chi criminale potrebbe non essere”, si legge nella scheda che accompagnava il referendum abrogativo respinto nel 2000. Inoltre, il pericolo secondo i sostenitori della divisione delle carriere è che la contiguità tra giudici e pubblici ministeri, che deriva dall’appartenere alla stessa carriera, produca in concreto una maggior predisposizione dei giudici a prestare attenzione alle tesi dell’accusa. Infine, l’unicità della carriera in magistratura in un sistema accusatorio è considerata una peculiarità italiana: gli ordinamenti dei più importanti paesi occidentali, infatti, prevedono percorsi divisi. La separazione delle carriere, tuttavia, non minerebbe all’autonomia e all’indipendenza della magistratura perchè il pubblico ministero rimarrebbe parte del potere giudiziario. Nessuna proposta, infatti, prevede la subordinazione del pm al potere esecutivo. La magistratura associata è storicamente contraria alla separazione delle carriere. Alla tesi che l’eccessiva contiguità tra giudici e pm creerebbe condizionamento, una delle obiezioni è che si tratti di un indimostrato sospetto che non ha alcun riferimento nei dati, un’altra è che sulla base dello stesso presupposto andrebbero separate anche le carriere dei giudici di appello e quelle dei giudici in primo grado. La ragione dell’esistenza di un’unica carriera è che il pm è un magistrato che rappresenta la “parte pubblica” e come tale ricerca la verità processuale e non quella di parte, dunque il principio della parità non comporta che difesa e accusa siano omogenee. Come ha scritto su Giustizia insieme il magistrato Armando Spataro, “sulla parità tra pm e difensore bisogna dire altro ed avere l’onestà di riconoscere che essa non sussiste se riferita al piano istituzionale che vede i due ruoli completamente disomogenei: il difensore è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere, che lo obbliga a ricercare l’assoluzione a prescindere dal dato sostanziale della colpevolezza o innocenza”. Inoltre, separando le carriere e isolando quella del pm, si creerebbe un inedito potere: quello dei magistrati inquirenti, che verrebbe nei fatti attratto dal potere esecutivo fino a fagli perdere la necessaria indipendenza. La Lega prepara già i banchetti per il referendum sulla giustizia di Rocco Vazzana Il Dubbio, 21 maggio 2021 Matteo Salvini non solo ribadisce il sostegno ai quesiti, ma impegna il partito nella battaglia per la raccolta firme: “Dal primo luglio saremo in piazza con i Radicali”. La guerra di nervi tra opposti costretti a condividere la stessa maggioranza prevede una sola regola: rispondere colpo su colpo. E così, se Pd e Movimento 5 Stelle non vogliono sentir ragioni su modifiche al ddl Zan, tanto invocate dalla Lega, Matteo Salvini mira dritto al nervo scoperto dei giallo-rossi: la giustizia. Non solo il leader del Carroccio ha fatto sapere che sosterrà i referendum proposti dai Radicali, ieri ha annunciato la presenza della Lega in piazza, a partire da luglio, per raccogliere le firme necessarie. “Dal 1 luglio saremo nelle piazze italiane insieme agli amici del Partito radicale per la raccolta delle firme su almeno cinque quesiti referendari sulla giustizia per evitare altri casi Palamara, per la separazione delle carriere, per la riforma del Consiglio superiore della magistratura (Csm) e della custodia cautelare”, dice Salvini in conferenza stampa, facendo scattare sull’attenti buona parte degli “alleati” di governo. “Altro che 500mila firme, ne raccoglieremo 5 milioni”, aggiunge il segretario della Lega, piantando anche un bella grana sul cammino della guardasigilli Marta Cartabia. “Siamo pronti a sostenere da domani le riforme del ministro Cartabia”, spiega Salvini per addolcire la pillola. “Se il Parlamento lo farà bene, altrimenti saranno gli italiani a dare la spinta in primavera”. Tradotto: o via Arenula spinge il piede sull’acceleratore, con buona pace delle “sensibilità” pentastellate e dem, o la Lega di governo non avrà alcuna difficoltà a indossare la felpa della lotta e chiamare a raccolta gli elettori. La “minaccia” fa sì parte del repertorio di contrapposizione che di volta in volta interpreta l’una o l’altra parte della maggioranza, ma fa comunque suonare un campanello d’allarme in casa giallo-rossa. Tanto che persino il presidente della Camera, Roberto Fico, ritiene opportuno intervenire nel dibattito per frenare l’iniziativa salviniana. “Abbiamo presentato il Recovery Plan a Bruxelles puntualmente alla fine di aprile. Il Parlamento continua a lavorare a pieno ritmo: sono fiducioso del fatto che entro la fine dell’anno riusciremo ad approvare le riforme della giustizia e del fisco”, dice la terza carica dello Stato, intervistata dal quotidiano austriaco Die Presse. “Sono sicuro che questo Parlamento varerà le riforme in questa legislatura, anche perchè le risorse dell’Ue che vogliamo investire in economia verde, digitalizzazione e infrastrutture sono legate a questa condizione”, insiste Fico, rispondendo proprio alle parole di Salvini che pochi giorni fa aveva messo in dubbio la capacità dell’attuale maggioranza Draghi di portare a casa le riforme. “Salvini ora, come tutti gli altri, deve assumersi la sua responsabilità, e farlo in Parlamento, dove ciascuno è libero di votare a favore o contro le riforme. Questo governo ha un’ampia maggioranza”, sottolinea il presidente della Camera. Ma Salvini non sembra affatto intimorito dall’alzata di scudi messa in mostra da buona parte dei suoi alleati di governo e va dritto per la sua strada. Per Pd e Movimento 5 Stelle, quella della Lega è solo l’ennesima presa di posizione strumentale per alzare il tiro. Un gioco che però mette a rischio le risorse del Recovery, continuano a ripetere dal fronte giallo-rosso, compatto nel sostenere che una forza di governo dovrebbe provare a condizionare la maggioranza dall’interno del Palazzo, non con iniziative referendarie. Per questo sono in tanti, nel centrosinistra, ad apprezzare l’intervento di Roberto Fico. A cominciare da Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera e compagno di Fico, che ringrazia il numero uno di Montecitorio perché, “inappuntabile, ha richiamato Matteo Salvini alle sue responsabilità”, dice Perantoni. “Il leader leghista non può giocare con la pelle degli italiani. Abbiamo un compito molto gravoso e intendiamo portarlo avanti: quello di riformare la giustizia. Vogliamo adempiere a questo dovere nei confronti del Paese discutendo e non perdendo tempo per difenderci dalla rissa che Salvini prova ogni giorno ad accendere”, aggiunge il presidente della commissione Giustizia.Ma le zuffe, a quasi 100 giorni dal giuramento di Draghi, sono solo all’inizio. Il percorso delle riforme, non solo della giustizia, è un campo minato. Trovare una quadra tra opposti senza scontentare nessuno sarà l’impresa più ardua per il premier. Avvocati e Magistrati bocciano la Commissione per la Giustizia nel Sud di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2021 Gli addetti ai lavori lamentano l’ennesimo provvedimento adottato senza prima ascoltarli. Getta acqua sul fuoco il Ministro Carfagna: esperienza magistrati da ascoltare e valorizzare. Continuano le polemiche sulla neo istituita Commissione interministeriale di studio per la Giustizia nel Sud. Si sono adombrati prima i magistrati e poi gli avvocati. I principali attori del settore lamentano ancora una volta che le scelte in materia di giustizia passano sopra le loro teste. “Ci sentiamo trattati come sudditi e non come cittadini”, ha protestato il pm di Catanzaro Alessandro Riello, primo firmatario di un appello che ha infiammato le mailing list e aperto il dibattito fra le toghe. È subito intervenuta la ministra per il Sud Carfagna, che insieme alla ministra Cartabia ha dato il là alla Commissione, dicendosi “dispiaciuta per una polemica che credo derivi da un equivoco che intendo subito chiarire: la Commissione nasce anche per dare ascolto ai magistrati del Sud e accendere i riflettori sulle difficoltà, richieste, proposte organizzative di chi opera nella trincea di territori difficilissimi, spesso correndo anche rischi personali”. “Ma le pare - domanda retoricamente - che potremmo fare un protocollo per sostenere gli uffici giudiziari del Mezzogiorno senza considerare l’esperienza di chi, in quei territori, ha trovato soluzioni efficienti e produttive?”. Nella giornata di ieri poi è intervenuto sul tema il capo dell’Ispettorato generale del Ministero della Giustizia, Maria Rosaria Covelli, che guida anche la Commissione voluta dai Dicasteri del Sud e della Giustizia, promettendo di essere “il più possibile al fianco degli uffici giudiziari del Mezzogiorno”. “Perché - ha spiegato - il rilancio economico del Paese “passa necessariamente attraverso la massima efficienza soprattutto della giustizia civile, di cui si occuperà la commissione”. “E la commissione - ha aggiunto - sarà l’occasione per focalizzare le principali criticità collegate al contesto di un’area specifica del Paese, su cui si concentra una parte significativa degli investimenti del Recovery plan e, nel contempo, individuare, diffondere ed elevare a sistema le esperienze virtuose maturate in tutto il Paese, anche in numerose sedi del meridione, mediante scambi orizzontali tra uffici giudiziari”. Interventi e chiarimenti però non sufficienti a sedere gli animi degli operatori della Giustizia. Per Francesco Greco, consigliere del Cnf: “È vero che la situazione della Giustizia al Sud è disastrosa, tuttavia - lamenta - siamo molto adirati perché abbiamo appreso della costituzione di questa Commissione soltanto a cose fatte, l’avvocatura non è stata interpellata, né sono stati sentiti gli ordini del Meridione. Siamo molto delusi”. Sugli scudi anche il Movimento Forense. “Apprendiamo con stupore la notizia”, commenta il presidente Antonino La Lumia. “Dobbiamo purtroppo rilevare - prosegue - che, ancora una volta, si decide di valutare e porre in essere interventi determinanti, senza il benché minimo coinvolgimento dell’Avvocatura, che ogni giorno è in prima fila nelle aule dei tribunali”. “Non è concepibile, né più accettabile - protesta La Lumia - che qualsivoglia riforma venga ideata, impacchettata e messa in pratica senza ricevere il contributo essenziale di tutte le componenti del sistema della giurisdizione: i tantissimi problemi strutturali devono essere individuati, vagliati e risolti con il supporto di chi ne ha precisa consapevolezza perché li affronta quotidianamente. Vale per il civile, vale per il penale, vale per il tributario, vale per l’amministrativo, vale per il lavoro, vale per la famiglia: vale per ogni singolo settore della Giustizia, perché è lì che gli avvocati operano. Sempre”. “Territorializzare scientemente l’opportunità degli interventi - aggiunge la Lumia -, da un lato, significa mortificare una parte d’Italia, sottintendendone l’arretratezza, e, dall’altro lato, porta a far credere che l’organicità dell’ordinamento non sia un valore. È esattamente il contrario di quello che serve. Serve rafforzare le piante organiche della magistratura, serve aumentare le dotazioni dei tribunali, serve digitalizzare effettivamente, serve formare tutte le risorse delle cancellerie, serve ricostruire l’edilizia giudiziaria, serve mettere mano alla situazione carceraria, serve rimettere “al centro” i diritti. Diciamolo chiaro: servono i soldi per la Giustizia. Le Commissioni? Quelle no, non servono”. Sul punto la Ministra Carfagna ha ricordato che l’efficienza degli uffici giudiziari “è una delle precondizioni indispensabili per la piena realizzazione del Pnrr che, non va dimenticato, assegna al Sud il 40 per cento delle risorse, una quota enorme”. Infine parlando dei magistrati del sud afferma: “Li ho sempre considerati degli eroi”. “Ora sa che oltre a sé esiste l’altro”. Ma i giudici dicono no al bel René di Simona Musco Il Dubbio, 21 maggio 2021 No della Cassazione all’ex bandito Vallanzasca: non usufruirà dei benefici. “Non si è mai pentito e i precedenti sono infelici”. “Ora che ritengo siano altri gli ideali da seguire, quell’etichetta continua a “perseguitarmi”. Per tutti resto il bandito”. Renato Vallanzasca lo scriveva lo scorso anno, in una lettera indirizzata al Tribunale di Sorveglianza di Milano. Era giugno, pochi giorni prima che i giudici decidessero l’attualità di quell’etichetta, sperando di ottenere la liberazione condizionale o la semilibertà. Parole che non avevano colpito nel segno allora e che anche mercoledì scorso ha lasciato indifferenti i giudici della Cassazione, che hanno respinto il ricorso presentato dal suo avvocato, Paolo Antonio Muzzi. Non si è mai pentito, non è mai cambiato, per loro, il “bel René”, che dovrà dunque rimanere dietro le sbarre. “Infelice”, secondo i giudici, è stata l’esperienza della semilibertà, interrotta dall’arresto in flagranza per rapina. Le relazioni più recenti avevano evidenziato il desiderio di riprendere il percorso di “mediazione penale”, il suo isolamento nell’ambiente carcerario, i problemi di salute, l’indebolimento del suo rapporto affettivo con una donna estranea agli ambienti criminali, concludendo per l’utilità di concedere la liberazione condizionale o la semilibertà per proseguire il suo percorso di rieducazione. Ma per i giudici quel ravvedimento richiesto non esiste. Vallanzasca non si è mai davvero pentito e dunque deve rimanere in carcere, a 71 anni, con quattro ergastoli, 295 anni di reclusione. Un percorso penitenziario altalenante, quello del “bandito della Comasina”, con “involuzioni trasgressive” imputabili alla sua “personalità” e al suo mancato affrancamento “dalla subcultura originaria e mai approdata a una reale riabilitazione sociale”. Non ha mai risarcito le vittime, né fatto nulla per “ottenere il perdono o alleviare le loro sofferenze”. Troppe le “contraddizioni”, senza mai arrivare ad un “definitivo ripudio del passato stile di vita e l’irreversibile accettazione di modelli di condotta normativamente e socialmente conformi”. Vallanzasca è stato rimproverato per aver scelto il silenzio nei confronti delle sue vittime, preferendo “non confrontarsi con la dolorosità del male arrecato”. Una scelta che l’ex bandito, che ha ispirato film e band musicali, aveva spiegato nella sua lettera. “Non di rado mi son sentito rimproverare da destra a manca, di aver il più delle volte sottaciuto alle mie vittime e torno a dire per l’ennesima volta che la mia è stata una decisione mirata proprio perché trattasi del silenzio che si deve come il massimo rispetto per le vittime! Non ci sono parole dignitose. Non ci possono essere parole”. Per i giudici, però, non ci sono segni di una “evidente ed effettiva resipiscenza”. Ed il suo percorso sarebbe “inaffidabile”, nell’ottica di “una sufficiente ri-socializzazione che consenta di fare nuovamente affidamento sulla capacità di rispettare le regole della convivenza civile”. In carcere pressoché ininterrottamente dal 1981, dopo l’arresto seguito alla terza evasione, nel 2007 viene ammesso ai permessi di necessità e nel 2009, stabilmente, ai permessi premio. A marzo 2010 gli viene concesso il permesso di lavorare all’esterno, ma a dicembre dello stesso anno viene denunciato e condannato per reati commessi durante il controllo di polizia, con la conseguente revoca dei benefici, salvo l’autorizzazione a svolgere attività di volontariato. Nel 2013 viene ammesso per la prima volta al regime di semilibertà, beneficio revocato nel luglio 2014, dopo una rapina impropria commessa all’Esselunga, quando ruba delle mutande e reagisce all’arresto. Da lì le sue richieste di benefici vengono sistematicamente bocciate, l’ultima nel 2020. La corte presieduta da Carmen D’Elia, nel respingere la richiesta, aveva rimarcato la “pericolosità sociale”, una “prematura e continua devianza che è accresciuta nel corso degli anni e lo ha accompagnato durante tutta la vita”. E in polemica con tale posizione, il suo avvocato di allora, Davide Steccanella, decise di rinunciare alla sua difesa, esprimendo “amarezza” per la totale irrilevanza del suo lavoro, che lo aveva “indotto a rinunciare al mandato difensivo dopo cinque anni di sforzi e di impegni coadiuvato dal lodevole impegno e sforzo di operatori ed educatori del carcere” di Bollate, dove Vallanzasca è detenuto e “dai mediatori e ben due cooperative”, il Gabbiano e la Cooperativa Sociale Opera in Fiore, che erano pronte ad ospitare l’ex bandito. Sforzi che erano volti a fare in modo che “dopo 50 anni il detenuto potesse riacquistare, per quanto residuo potesse rimanergli, uno spiraglio di libertà, in armonia, si ritiene, con il nostro dettato costituzionale”. Proteste cadute nel vuoto, come i tentativi di Muzzi di far riottenere a Vallanzasca i benefici persi. Secondo il legale, il Tribunale non aveva “valorizzato il complesso dei comportamenti” tenuti da Vallanzasca, sottolineando “un effettivo interessamento per le vittime” dimostrato dal “percorso di mediazione intrapreso con una “vittima a-specifica”“, all’esito del quale “ha iniziato a comprendere che, oltre a sé, esiste anche l’altro, ovvero la sofferenza provocata attraverso le proprie condotte”. I giudici, secondo l’avvocato, avrebbero valorizzato soltanto il suo passato, quello iniziato all’età di 7 anni, quando “cominciai a far parlare di me per aver liberato un nugolo di animali dallo zoo/circo Medini - scriveva nella sua lettera -. Da quel momento, quello che avrebbe potuto sembrare un gioco un tantino sopra le righe di un turbolento fanciullo è diventato poi uno stile di vita. I falsi miti, la forza che mi sembrava di dimostrare al mondo intero, i soldi facili. Allora era ed ero proprio così. Ora tutto sembra diverso da quest’ottica, dallo sguardo di un uomo di 70 anni che ripensa agli errori da un’ennesima galera”. Alle spalle una “carriera” a capo della Banda della Comasina, dedita a furti e rapine, che lo fanno diventare ricco. Ma anche omicidi, sequestri di persona, tre evasioni e decine di tentativi. Si sposa anche in carcere, nel 1979, sposa Giuliana Brusa, una delle sue tante ammiratrici. Nel 1983 finisce anche a processo con Enzo Tortora, accusato da alcuni pentiti di far parte della Nuova camorra organizzata, ma viene assolto. Dal 1999 è rinchiuso nella sezione dell’alta sicurezza del carcere di Voghera. “Di anni ne sono passati tanti, ma penso che nessuno possa credere che il tutto sia trascorso senza lasciare la ben minima traccia, il bambino del circo ha fatto il suo tempo, così come il bel René e non si può credere che un’intera vita tribolata possa non essere servita a crescere nulla - scriveva un anno fa -. E seppur nell’attuale silenzio, i pensieri sulla mia vita mi hanno accompagnato, così come la consapevolezza dei danni che le mie scelte hanno creato. A tutti. Il mio futuro ora potrebbe essere quello di un percorso in comunità, magari per poter essere utile a chi, più giovane di me, potrebbe trarre qualche giovamento dalla mia vita assurda”. Ma ciò non avverrà. Vallanzasca, l’appello dell’ex moglie: “Non lasciatelo marcire in carcere” di Ferruccio Pinotti Corriere della Sera, 21 maggio 2021 Antonella D’Agostino lancia una richiesta di clemenza per il “re della Comasina”, cui la Cassazione ha negato la scarcerazione per il furto di un paio di mutande alla cassa di un supermercato nel 2014. Un accorato appello, una richiesta di clemenza per un uomo che ha pagato il suo debito con la società. A lanciarlo, proprio all’indomani della decisione della Cassazione di confermare la carcerazione, è l’ex moglie di Renato Vallanzasca, Antonella D’Agostino, 71 anni, coetanea del bel René e sposata con lui dal 2008 al 2018, ma legata a a lui sin da bambini, in quanto frequentavano le elementari insieme. “Sono distrutta, ma voglio riportarlo a casa”, ha dichiarato al magazine Mow la D’Agostino ex moglie del leader della banda della Comasina. La signora è rimasta fedele all’affetto per il gangster milanese: “Io non lo abbandonerò mai, non ho buttato via 20 anni della mia vita per farlo marcire in carcere, dimostrerò al tribunale di Milano che dal maggio 2005 al febbraio 2012, cioè quando eravamo insieme, non è mai successo niente, Renato non ha mai commesso un reato o non gli è stata contestata una infrazione. Non sarà un caso, no?”. Il furto del 2014 - Antonella D’Agostino si riferisce a un furto alla cassa di un supermercato di cui Vallanzasca si è reso responsabile del 2014, durante il regime di semilibertà concessogli dal carcere di Bollate. In merito ha spiegato a Mow: “Se fossi stata con lui non sarebbe accaduto perché è stata una svista, non una rapina. Renato ha una certa età, non voleva rubare quelle cose. Semplicemente non le aveva messe nel cestello e poi se le era dimenticate addosso. Anche perché - conclude l’ex coniuge del bandito - quelle mutande non poteva neanche mettersele a causa di un intervento alla gamba che non gli avrebbe permesso di utilizzarle”. La tesi non ha convinto i giudici e il 19 maggio 2021 la Cassazione ha respinto il ricorso della difesa confermando il verdetto emesso dal Tribunale di sorveglianza di Milano il 23 giugno 2020. Vallanzasca, tornato in cella nel 2014 dopo l’arresto per rapina all’Esselunga di viale Umbria, aveva chiesto la libertà condizionale o in subordine la semilibertà. Ma la Cassazione ha detto no. Motivo: non si è mai davvero pentito. Peraltro Vallanzasca, cui sono stati comminati 4 ergastoli e 296 anni di carcere, “non ha mai chiesto perdono”, né ha risarcito i familiari delle vittime. Quindi non ha potuto usufruire di sconti e benefici. L’ultimo della vecchia mala milanese - Vallanzasca, anche se non particolarmente anziano, è uno degli ultimi esponenti della vecchia mala milanese rimasti in vita. La “vecchia guardia” se n’è andata. L’ultimo a passare la mano è stato Sante Notarnicola, uno dei duri della banda Cavallero, morto il 22 marzo 2021. Si era preso l’ergastolo ma nel 1978 il suo era stato il primo nome della lista di tredici detenuti da liberare indicati dalle Br in cambio del rilascio di Aldo Moro. Nel 2013 se n’è andato Luciano Lutring, il “solista del mitra” (teneva l’arma in una custodia da violino) che non ha mai ammazzato nessuno e che, uscito di galera, si era dato alla pittura. Un fedelissimo di Vallanzasca, Rossano Cochis, detto Nanu, è morto il 9 luglio 2020, dopo anni in carcere, per un tuffo dal gommone nel mare del Gargano. Ok a sorveglianza speciale riattivata prima del 6 dicembre 2013 senza rivalutare pericolosità di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2021 Misure di prevenzione. L’obbligo procedurale del giudice dell’esecuzione non vale per situazioni già definite contro cui era azionabile la domanda di revoca. La misura di prevenzione personale può essere riattivata al momento della scarcerazione se era stata sospesa in concomitanza del periodo di detenzione carceraria. Riattivazione ex officio senza rivalutazione della pericolosità sociale del soggetto è la strada che nel caso concreto poteva essere seguita senza incorrere in legittimità. Almeno fino alla pronuncia della Corte costituzionale n. 291/2013 che ha invece determinato l’obbligo di rivalutazione da parte del giudice dell’esecuzione. Lo hanno affermato i giudici della prima sezione della Cassazione con la sentenza 20 maggio 2021 n. 20133. La vicenda all’esame della Suprema corte - Il ricorrente era stato, infatti, scarcerato prima del deposito della sentenza costituzionale. E la misura personale riprendeva vigore senza alcuna procedura di rivalutazione della sua idoneità e, in particolare, della pericolosità del condannato. Il ricorrente per cassazione sosteneva che tale lacuna procedurale contrastava di fatto anche con il principio affermato dalle sezioni Unite penali con la sentenza n. 51407/2018 secondo cui è invalida la reviviscenza ex officio della misura di prevenzione sospesa con la conseguenza che le eventuali violazioni della stessa sono penalmente irrilevanti. E, sempre secondo il ricorrente, a nulla rileva che la decisione costituzionale sia successiva alla riattivazione della prevenzione in quanto tale pronuncia ha eradicato dall’ordinamento un “vizio strutturale” con effetti ex tunc. La sentenza della Cassazione n. 20133/2021 nel respingere le pretese difensive ha affermato il riverberarsi di una decisione di incostituzionalità a situazioni sovrapponibili anche se espressa relativamente a una diversa norma incriminatrice. Ma ha ribadito il limite delle situazioni esaurite tra cui rientra anche la riattivazione della misura preventiva sospesa e ancora in corso, che determina la sussistenza della responsabilità penale in caso sia violata. Certo per il futuro sarà obbligatoria la rivalutazione dei presupposti per la riattivazione, ciò che prima avveniva, invece, solo su istanza di revoca del condannato. L’interpretazione della Cassazione - La Corte costituzionale, con la sentenza 6 dicembre 2013 n. 291 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 12 della legge 1423/1956 sulle misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità dove non prevedeva che - se riattivate - il giudice dovesse procedere a una rivalutazione anche d’ufficio della persistenza della pericolosità sociale al momento dell’esecuzione della misura. Partendo dal fatto che la norma nel mirino della Consulta non era quella del codice antimafia violata dal ricorrente, la Cassazione ammette il riverberarsi della pronuncia su una fattispecie completamente sovrapponibile nella sostanza. Ma arresta tale efficacia a fronte di giudicato divenuto definitivo. Tale interpretazione è espressa dalla Cassazione attraverso l’enunciamento di specifico principio: in caso sia intervenuta condanna definitiva per il reato previsto dall’articolo 75 del Codice antimafia (violazioni della sorveglianza speciale) non è proponibile la domanda di revoca per abolizione della fattispecie incriminatrice se la sottoposizione alla misura di prevenzione, prima sospesa, sia avvenuta prima del 6 dicembre 2013 (data di efficacia della sentenza costituzionale) e in assenza di rivalutazione dell’attualità e della persistenza della pericolosità dopo la scarcerazione. Catanzaro. Detenuto, muore per Covid ex sindaco di Castelvetrano Corriere del Mezzogiorno, 21 maggio 2021 I legali: “Omicidio colposo”. È morto nell’ospedale di Catanzaro, città nella quale era detenuto per favoreggiamento. Ma per gli avvocati i giudici avrebbero impiegato troppo tempo per disporre i domiciliari: il suo stato di salute era precario e nel carcere è scoppiato un focolaio. L’ex sindaco di Castelvetrano, nel Trapanese, Antonino Vaccarino, 76 anni, è morto per arresto cardiaco nel reparto Covid dell’ospedale di Catanzaro, dove era stato trasferito dal carcere per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute dopo aver contratto il virus. Qualche settimana fa la Corte d’Appello di Palermo, su richiesta degli avvocati difensori, aveva disposto gli arresti domiciliari. Ma l’uomo, viste le precarie condizioni di salute e il Covid, non ha potuto raggiungere casa a Castelvetrano. E ora i suoi legali accusano i ritardi e sporgono denuncia per omicidio colposo. In cella per favoreggiamento - In carcere Vaccarino, politico dei misteri coinvolto in affari di mafia, massoneria, spionaggio, era finito nuovamente nell’aprile 2019: in primo grado venne condannato a sei anni perché avrebbe ricevuto da un colonnello dei carabinieri in servizio alla Dia di Caltanissetta uno stralcio di una intercettazione che avrebbe poi girato a Vincenzo Santangelo, titolare di un’agenzia funebre, con una vecchia condanna per mafia. Antonio Vaccarino collaborò anche coi Servizi segreti, intrattenendo col boss mafioso latitante Matteo Messina Denaro un rapporto epistolare tramite nomi in codice: lui si definiva “Svetonio”, Messina Denaro “Alessio”. L’obiettivo sarebbe stato quello di far catturare il capomafia, ma l’operazione non andò a buon fine. L’ex sindaco era in attesa anche di un processo di revisione per una vecchia condanna per traffico di droga e del processo d’Appello per la condanna del 2019. I legali: è stato omicidio colposo - Ma ora i difensori dell’ex sindaco Vaccarino, i legali Baldassare Lauria e Giovanna Angelo, hanno presentato una denuncia per omicidio colposo. Secondo l’avvocato Lauria “la Corte d’Appello di Palermo era a conoscenza del precario stato di salute di Vaccarino, ma la decisione di scarcerarlo è arrivata troppo tardi, quando già il nostro assistito aveva contratto il Covid”. Qualche mese fa, sono stati gli stessi avvocati a informare la Corte d’Appello che dentro il carcere di Catanzaro c’era un focolaio Covid, “ma quella nostra istanza di far uscire dal penitenziario Vaccarino fu respinta”, dice l’avvocato Lauria. Dopo 8 giorni l’ex sindaco di Castelvetrano venne ricoverato nell’ospedale di Catanzaro perché positivo al Covid, dove è morto stanotte. “Riteniamo che ci siano responsabilità precise sulla morte di Vaccarino, e chiediamo che si faccia luce”, ha concluso Lauria. Catanzaro. Muore da detenuto l’ex Sindaco che voleva far catturare Messina Denaro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 maggio 2021 Antonio Vaccarino, che per 30 anni ha subito un accanimento giudiziario, era in carcere con gravi patologie in attesa di giudizio. A Catanzaro ha contratto il Covid, le innumerevoli istanze di domiciliari sono state respinte, tranne l’ultima che è arrivata troppo tardi. È morto dopo trent’anni di accanimento giudiziario, così lo definiscono i suoi avvocati, in particolar modo l’avvocata Giovanna Angelo che lo ha assistito per vent’anni. Parliamo dell’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, morto in ospedale dove era stato trasferito di urgenza dopo che il Covid, contratto nel centro clinico del carcere di Catanzaro, ha peggiorato il suo stato clinico già precario. E pensare che, dopo innumerevoli istanze per differimento pena, finalmente i giudici gli hanno concesso i domiciliari. Sì, ma dopo che oramai non c’era più nulla da fare. Vaccarino aveva gravi patologie cardiache - “Nonostante tutto - spiega l’avvocata Giovanna Angelo con un animo scosso dall’accaduto -, il professor Vaccarino credeva nelle istituzioni, è sempre stato disponibile con la giustizia, ha dato tutto sé stesso per poter essere utile alla cattura del latitante Matteo Messina Denaro”. Eppure, il paradosso vuole che è stato recentemente condannato in primo grado per aver addirittura favorito la latitanza del boss da poco condannato per essere stato uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Per questo motivo, da oltre un anno e mezzo, all’età di 76 anni e con gravi patologie cardiache, era in carcerazione preventiva. Nel centro clinico del carcere di Catanzaro ha contratto il Covid - Era in carcere nonostante fosse affetto da cardiopatia ischemica, ipertensione arteriosa, aritmia per fibrillazione atriale persistente. Come avevano scritto, nelle continue istanze, i suoi avvocati Laura Baldassarre e Giovanna Angelo, “il mancato impianto di pacemaker, consigliato dai periti, e la somministrazione del farmaco Cardior stava esponendo l’uomo ultrasettantenne a rischio blocco cardiaco e, conseguentemente, la morte”. Poi è arrivato il Covid che ha infestato il carcere di Catanzaro. Ma si era detto che il centro clinico fosse al sicuro. Invece, alla fine, il terribile scherzo del destino: tra i detenuti del centro, Vaccarino è stato l’unico a subire il contagio. Le istanze di domiciliari sono state sempre rigettate - Nella penultima istanza, gli avvocati hanno chiesto subito un trasferimento a casa, perché gli stessi medici del carcere hanno detto chiaro e tondo che non sarebbero stati in grado di assisterlo. Eppure la Corte ha rigettato e indicato il trasferimento presso un carcere adeguato. Operazione impossibile. Passano i giorni, fin quando il detenuto Vaccarino viene trasferito in ospedale a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni cliniche. Ricoverato in terapia sub intensiva, la Corte d’appello di Palermo, presieduta dalla giudice Adriana Piras, accoglie finalmente l’istanza urgente di concessione dei domiciliari presentata dai suoi difensori, rilevando che sono venute meno le esigenze cautelari. Ma a casa non ci andrà più. Troppo tardi, perché alla fine muore, da solo, sul letto di un ospedale. Parliamo dell’ennesimo arresto che ha subito nella vita. Sei anni di carcere per concorso in rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento con l’aggravante mafiosa, con il coinvolgimento nella vicenda di due carabinieri. Secondo l’accusa - dalla quale scaturì il processo terminato con la sentenza di condanna emessa lo scorso 2 luglio dal Tribunale di Marsala - l’ex sindaco di Castelvetrano avrebbe rivelato a un condannato per mafia il contenuto di un’intercettazione ricevuta da un colonnello della Dia. Quest’ultimo è l tenente colonnello dei carabinieri Marco Alfio Zappalà, colui che lavorava per conto della Procura di Caltanissetta. E proprio lui, coordinato dalla procura, si era rapportato con Vaccarino proprio per avere materiali, che hanno contribuito alla condanna del superlatitante Matteo Messina Denaro. L’accusa di favoreggiamento su intercettazioni insignificanti - C’è il giornalista Gian Joseph Morici, direttore del giornale on line La valle dei Templi, gran conoscitore delle vicissitudini giudiziarie di Vaccarino, che evidenzia come “né l’uomo al quale Vaccarino avrebbe rivelato i contenuti dell’intercettazione, né i soggetti intercettati, erano indagati, e - particolare di non poco conto - i contenuti di quell’intercettazione apparivano del tutto insignificanti ai fini delle indagini sul latitante Matteo Messina Denaro”. Non si comprende, quindi, come possa essere valutata come prova di chissà quale favoreggiamento. Eppure la condanna, seppur ancora di primo grado, arriva. Recluso a Pianosa per le accuse di un pentito rivelatosi inattendibile - Ma com’è detto, Vaccarino è stato già vittima di malagiustizia nel passato, tanto da finire recluso ingiustamente nel supercarcere di Pianosa subendo indicibili torture. Finì lì dentro per associazione mafiosa grazie alle parole di un pentito - tale Vincenzo Calcara - che in seguito sarà dichiarato inattendibile da diversi tribunali. Vaccarino verrà assolto per l’accusa di 416 bis. Gli era rimasta quella sul traffico di droga, ma di recente è stata accolta la richiesta di revisione del processo perché l’accusa si era basata sempre sulle parole di Calcara. L’avvocata Giovanna Angelo che ha lavorato per quella revisione fin dal 2011. Alla fine è riuscita a ottenerla. Vaccarino è morto, ma molto probabilmente i familiari decideranno di proseguire. Non per giustizia, alla quale comprensibilmente non ci credono più, ma per una questione di “dignità”. Collaborò con i Servizi per catturare Messina Denaro - Ricordiamo che Vaccarino, nei primi anni del 2000 ha collaborato con i servizi segreti capitanati da Mario Mori per la cattura di Matteo Messina Denaro. Operazione vanificata dopo una fuga di notizie. Il dramma è che per quella collaborazione, chiara e con un fine genuino, ancora oggi c’è chi la tira fuori adombrando ombre. Parliamo in realtà di una operazione d’intelligence durata dai primi di ottobre 2004 fino a una buona parte del 2006. In sostanza Vaccarino era riuscito a intraprendere dei contatti epistolari con il latitante. Poi tutta l’operazione si fermò quando ci fu una fuga di notizie e un’indagine - poi subito archiviata - della procura di Palermo proprio sul fatto che Vaccarino scrivesse i pizzini al superlatitante firmandosi “Svetonio”, pseudonimo indicato proprio da Matteo Messina Denaro. Una fuga di notizie fece saltare la copertura di Vaccarino - La fuga di notizie svelò tutto e la copertura di Vaccarino saltò. Dopo qualche tempo, esattamente il 2 novembre del 2007, giunge a Vaccarino l’ultima lettera - ma questa volta minacciosa e rabbiosa - di Matteo Messina Denaro. “Non ha neanche da sperare in una mia prematura scomparsa o nel mio arresto - scrive il super boss nella parte conclusiva della lettera - perché qualora accadesse una di queste ipotesi, per lei nulla cambierebbe, in quanto la sua illustre persona fa già parte del mio testamento, ed in mia mancanza verrà sempre qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti, comunque vada lei o chi per lei pagherà questa cambiale che ha forsennatamente firmato. Lei è un essere snaturato che non ha voluto bene neanche alla sua famiglia, si vergogni di esistere”. Matteo Messina Denaro avrà accolto bene la sua morte - Ora che Vaccarino è morto, e la sua famiglia è distrutta dal dolore, sicuramente Matteo Messina Denaro ha accolto con gioia la sua dipartita. Era quello che sperava. Mentre l’avvocata Giovanna Angelo lo ricordo al Dubbio con un commovente messaggio: “Castelvetrano e le Istituzioni tutte abbiamo perso una persona eccezionale. Un Uomo che ha fatto dell’onestà, della correttezza e dell’amore per il prossimo il suo stile di vita. È stato il professore di tutti, il professore di quanti abbiamo avuto il privilegio di stare al suo fianco. Conosco il professore Vaccarino da oltre venti anni. È stato sempre un grande esempio per noi e ci ha lasciato un patrimonio morale immenso. Nonostante le grandi ingiustizie subite ha sempre creduto nelle Istituzioni e nella Giustizia. Mi diceva sempre “bisogna credere nella Giustizia e lottare per la Verità anche a costo della vita”. Che Dio perdoni chi si è reso responsabile di una tale ingiustizia”. A proposito di giustizia c’è la quarta beatitudine del Vangelo che recita così: “Beati gli affamati e gli assetati di giustizia perché saranno saziati”. Da tempo il giornalista Frank Cimini, che grazie al prolungato contatto con i magistrati, ha preso in prestito questa beatitudine del Vangelo per coniare una nuova massima che, anche in questa terribile vicenda, trova fondamento: “Beato chi ha fiducia nella giustizia perché sarà giustiziato”. Brescia. Detenuto si sente male, trasportato in ospedale muore poco dopo elivebrescia.tv, 21 maggio 2021 Un 50enne, di nazionalità italiana, ha accusato un malore nel carcere di Canton Mombello dove stava scontando una pena detentiva di alcuni anni. L’uomo, prontamente soccorso e trasportato in ospedale, sarebbe deceduto poco dopo. Il 50enne era affetto da gravi patologie per le quali stava seguendo le cure necessarie. Non ci sarebbe alcuna connessione tra il malore, lo stato di salute e il conseguente decesso con la situazione denunciata in più occasioni negli ultimi mesi all’interno del carcere cittadino. Il sovraffollamento e la situazione di disagio denunciate ripetutamente dal Sinappe, il sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria non sarebbero in questa circostanza in nessun modo correlate. Canton Mombello rimane, in ogni caso, al centro di numerose polemiche per il sovraffollamento che si registra in questi mesi, tanto che la situazione, come abbiamo scritto in questi giorni, è approdata in Parlamento con un’interrogazione a firma di Simona Bordonali e dei deputati leghisti per chiedere la costruzione del nuovo carcere a Brescia, progettato da anni ma il cui progetto rimane sulla carta. Genova. Epidemia di scabbia nel carcere di Pontedecimo genovatoday.it, 21 maggio 2021 Nella casa circondariale sono presenti 162 persone detenute, di cui 78 donne, nonostante la capienza regolamentare totale sia di 96 detenuti. Dopo il covid-19, nella casa circondariale di Genova Pontedecimo è arrivata anche la scabbia. La notizia è di alcuni giorni fa ma giunta solo quest’oggi alla segreteria regionale del sindacato Osapp. Solo pochi giorni fa nel reparto femminile è stata isolata a scopo precauzionale una ristretta per presunta scabbia. A distanza di alcuni giorni sono stati confermati sette casi di scabbia e due detenute attualmente in isolamento, una sorta di quarantena in attesa di conferma se è stato contratto da quest’ultime l’infezione. Rocco Roberto Meli, segretario regionale del sindacato autonomo della polizia penitenziaria Osapp dichiara: “il sistema penitenziario italiano è stato più volte sanzionato per le condizioni disumane relativamente al suo sovraffollamento e l’assenza di spazi idonei al trattamento e reinserimento sociale dei detenuti”. “Attualmente - prosegue Meli - nella casa circondariale di Genova Pontedecimo sono presenti 162 persone detenute, di cui 78 donne, nonostante la capienza regolamentare totale sia di 96 detenuti, dunque ben oltre la soglia prevista. Situazioni di questo genere non possono essere considerati casi sporadici o poco significativi. Siamo molto preoccupati che ci sia in corso una epidemia. Se cosi fosse la nostra preoccupazione aumenta in relazione alla possibilità di contagio anche nei confronti del personale di polizia penitenziaria”. “Riteniamo superfluo - dice il sindacalista -, inoltre, ricordare che tutti gli opportuni accertamenti clinici e l’eventuale prevenzione sanitaria nei confronti dei poliziotti non dovranno gravare sul loro bilancio economico. Ed è per questo che invitiamo l’amministrazione a voler procedere celermente a una adeguata profilassi”. “Cogliamo l’occasione - conclude Meli - per allertare l’amministrazione locale nonché il settore sanitario nel porre maggiore attenzione ai controlli nei confronti di detenute/i nuovi giunti o di detenuti sottoposti a isolamento sanitario proprio per tale infezione. Speriamo che nelle prossime ore non ci siano altri casi scabbia nei confronti di altre detenute o che qualche poliziotto abbia contratto l’infezione”. Palermo. Risarcito con 56 € per la cella troppo piccola, fa ricorso: condannato a pagarne 2mila di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 21 maggio 2021 La storia paradossale di un palermitano a cui il ministero della Giustizia avrebbe dovuto versare 8 euro al giorno per la settimana trascorsa nel carcere di Vigevano in uno spazio troppo angusto e in condizioni inumane e degradanti. Chiedeva lo stesso risarcimento per la reclusione al Pagliarelli, ma la Cassazione ha respinto l’istanza Era stato recluso per una settimana in una cella troppo piccola e questo, come previsto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, avrebbe comportato un trattamento “inumano e degradante”. Il tribunale aveva accolto la rimostranza di un detenuto palermitano in relazione alla sua detenzione nel carcere di Vigevano, concedendogli 8 euro al giorno di risarcimento e condannando il ministero della Giustizia a versargli 56 euro in tutto. Salvatore D’Anna, però, voleva di più, perché a suo avviso la cella sarebbe stata troppo angusta anche quando era stato detenuto al Pagliarelli e per questo aveva impugnato l’ordinanza davanti alla Cassazione. Che, però, ha dichiarato inammissibile il suo ricorso e lo ha condannato a pagare le spese di giudizio per oltre duemila euro. La decisione è della sesta sezione civile della Suprema Corte, presieduta da Chiara Graziosi. D’Anna aveva impugnato l’ordinanza emessa dal tribunale di Palermo il 18 luglio del 2019, con cui gli erano stati concessi i 56 euro per la reclusione “in condizioni inumane e degradanti” a Vigevano perché avrebbe avuto a disposizione in cella solo 2,6 metri quadrati e quindi meno dei 3 sanciti dalla Cedu. A Pagliarelli, invece, D’Anna avrebbe avuto a disposizione 9,35 metri quadrati di spazio personale quando era stato solo in cella e 4,67 metri quadrati quando era assieme ad un altro detenuto. Secondo il palermitano, però, il tribunale avrebbe sbagliato i calcoli su Pagliarelli perché non avrebbe detratto dallo spazio utilizzabile nella cella l’area occupata dai letti, considerandolo invece come uno spazio fruibile. Ma, dice ora la Cassazione, nel calcolo in realtà era stato detratto l’intero spazio occupato da “arredi fissi”, compresi i letti. Da qui il rigetto del ricorso e la condanna a pagare duemila euro di spese di giudizio al ministero della Giustizia. Genova. Genitori detenuti e figli, un legame da mantenere acri.it, 21 maggio 2021 Quando un genitore entra in carcere, l’intero sistema famigliare viene stravolto e, spesso, i figli rischiano di esse-re messi in penombra. Le Case Circondariali di Marassi e di Pontedecimo di Genova, consapevoli di questa problematica, hanno coinvolto le realtà, con cui da sempre collaboravano, dando il via a “La barchetta rossa e la zebra”, un progetto sostenuto dall’Impresa sociale Con i Bambini, nell’ambito del Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile, che ha rimesso al centro l’importanza della genitorialità e del legame affettivo tra genitori detenuti e figli. Con la Fondazione Rava, e tanti altri enti del territorio, hanno ridato vita e colore alle sale d’attesa e agli spazi per i colloqui, trasformandoli in luoghi accoglienti e a por-tata di bambino. Il progetto, però, non si ferma a tutelare i bambini, ma valorizza il ruolo genitoriale dei detenuti, ritenendolo fattore positivo nel loro percorso riabilitativo. Come ci spiega Livia Botto della cooperativa sociale il Biscione, uno dei partner del progetto, “La genitorialità per-mette di rafforzare gli strumenti positivi che ogni persona possiede, anche chi ha commesso un reato, perché stimola gli aspetti affettivi, la generosità, una visione a lungo termina e, soprattutto, infonde speranza che, spesso, nelle carceri, manca”. I detenuti, infatti, vengono accompagnati in un percorso che li fa riscoprire genitori, dando loro il supporto psicologico e pedagogico di cui necessitano. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: “Se prima i genitori parlavano tra loro, lasciando il bambino in disparte, ora invece lo coinvolgono e giocano con lui”. Piccoli cambiamenti che toccano le famiglie e tutta la realtà carceraria. “Per gli agenti, vedere i detenuti che giocano con i propri figli significa identificarsi, scoprire lati comuni, in un clima di comprensione reciproca”. An-che per il genitore che non si trova in carcere il progetto ha previ-sto un sostegno per superare la vergogna della detenzione e affrontare la vita quotidiana in mancanza dell’altra figura genitoriale. Inoltre, grazie alla collaborazione con l’UEPE (Ufficio l’esecuzione della pena esterna), l’iniziativa accompagna le famiglie anche dopo l’uscita dal carcere, nella ricerca lavoro necessaria per una reintegrazione dignitosa nella vita sociale. Quello de “La Barchetta rossa e la zebra” è quindi un lavoro a 360° che ha coinvolto tutte le realtà del territorio in un lavoro sinergico, che può davvero rappresentare un modello innovativo di programmare la vita in carcere. Come afferma Mariavittoria Rava, presidente della Fon-dazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus e project manager del progetto, “l’obiettivo è mutuare l’esperienza maturata a Genova anche in altre carceri italiane, tenendo conto della specificità di ogni territorio. I genitori devono poter essere genitori sia fuori che dentro il carcere. Come afferma Mariavittoria Rava, presidente della Fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus e project manager del progetto, “l’obiettivo è mutuare l’esperienza maturata a Genova anche in altre carceri italiane, tenendo conto della specificità di ogni territorio. I geni-tori devono poter essere genitori sia fuori che dentro il carcere. Ci auguriamo davvero che nasca la figura dell’operatore “barchetta rossa” a livello nazionale”. Il progetto coinvolge il Privato Sociale e le Istituzioni Pubbliche ed è sviluppato in sinergia con l’Amministrazione penitenziaria locale e dell’esecuzione penale esterna e con il Comune di Genova.Il Cerchio delle Relazioni è capofila del Progetto coordinato, in prima linea, dalle Associazioni territoriali genovesi del Terzo Settore: la Cooperativa Sociale Il Biscione, Veneranda Compagnia di Misericordia, il Centro Medico psicologico pedagogico LiberaMente, ARCI Genova e CEIS Genova. La Fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus, a cui è stata affidata l’opera di riqualificazione delle aree dedicate all’incontro dei bambini con i genitori detenuti nelle due Case Circondariali, è project manager, partner e promotore del Progetto. Torino. Carcere: studio, investimento per la società di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 21 maggio 2021 Ancora un riconoscimento al Polo Universitario torinese per gli studenti detenuti, il primo nato in Italia nel 1998, grazie a un protocollo d’intesa tra Università degli Studi di Torino, Tribunale di Sorveglianza e Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Franco Prina (nella foto), ordinario di Sociologia giuridica e della devianza, delegato del rettore dell’Ateneo Torinese per il Polo Universitario per studenti detenuti è stato riconfermato l’8 maggio scorso presidente della Cnupp, la Conferenza nazionale delegati poli universitari penitenziari istituita dalla Crui (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) tre anni fa. L’Università di Torino è tra i fondatori della Conferenza, quale primo Ateneo in Italia a costituire un Polo Universitario in carcere a partire dagli anni ‘90, grazie all’impegno volontario di alcuni docenti, e poi ufficializzato nel 1998. Una tradizione che continua, come sottolinea il professor Prina, con la firma dell’Ateneo torinese per l’Anno Accademico 2020-21 della convenzione con il carcere di Saluzzo che ospita detenuti in regime di Alta Sicurezza con lunghe pene da scontare che hanno richiesto di iscriversi ai corsi universitari. Attualmente sono 60 i reclusi, di cui 4 donne, iscritti all’Ateneo torinese nella Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” e nella Casa di reclusione “Rodolfo Morandi” di Saluzzo (14). Dei 60 iscritti, 11 stanno completando gli studi dopo aver lasciato il carcere e aver ottenuto misure alternative. 5 gli studenti laureati. Gli atenei italiani aderenti alla Cnupp con studenti iscritti sono passati da 22 nell’anno accademico 2018-19 a 37 nel 2020-21 (+18,5%); le carceri in cui operano i Poli Universitari penitenziari da 70 a 82 (+17,1%); gli studenti iscritti da 796 a 1034 (+29,9%). In aumento le donne da 28 studentesse nel 2018-19 a 64 nel 2020-21 (+128,6%). In occasione della conclusione del primo triennio di vita della Cnupp, venerdì 7 maggio si è tenuto un seminario on line sul tema “Il diritto agli studi universitari in carcere”, in cui hanno partecipato tra gli altri Franco Prina, la vice-rettrice dell’Università di Torino, Laura Scomparin, Pietro Buffa, già direttore della Casa Circondariale torinese ora provveditore dell’amministrazione penitenziaria Lombardia (Prap). Franco Prina ha sottolineato come la presenza delle Università negli Istituti penitenziari va intesa non più come impegno volontaristico “ma di sistema: garantire il diritto allo studio a chi è privato della libertà, per alcuni di proseguire gli studi universitari, per altri di iniziarli è dare un senso al tempo della pena e darsi una prospettiva per il dopo pena. Entrambi i ‘sistemi’ (universitario e penitenziario) debbono maturare la condivisione del principio di adempiere congiuntamente a un proprio dovere imprescindibile: garantire a tutti coloro che lo desiderano e ne hanno i requisiti, la possibilità di esercitare il diritto allo studio. Per questa via offrendo opportunità di maturazione alle persone detenute, di ricostruzione del proprio sé culturale, favorendo un loro positivo rientro nella società”. Se la detenzione con percorsi di avviamento al lavoro, allo studio, al volontariato, da tempo “sospeso” diventa periodo fecondo, ci guadagniamo tutti: “investendo sull’istruzione i rischi di recidiva calano drasticamente, con benefici non solo per il singolo ma per tutta la società italiana”. Modena. Al via il Festival della Giustizia Penale, dedicato alle vittime di reato Il Dubbio, 21 maggio 2021 Al via oggi la seconda edizione del Festival della Giustizia Penale, che dopo il grande successo del 2019 torna quest’anno con una tre giorni dal titolo “Vittime di ieri, vittime di oggi”. L’evento, in programma fino al 23 maggio, si terrà interamente online e tutte le sessioni saranno disponibili gratuitamente sul sito e sul canale Youtube del Festival. Cifra stilistica di questo appuntamento con la giustizia è proprio il rapporto diretto con i cittadini, al fine di avvicinare i non addetti ai lavori al linguaggio giuridico e alla materia penale attraverso registri comunicativi e organizzativi non convenzionali. Nomi eccellenti del panorama italiano - tra cui giuristi, magistrati, avvocati, politici, intellettuali ed artisti - introdurranno al tema delle vittime di reato, con la partecipazione degli stessi protagonisti di alcune delle vicende giudiziarie più note a livello nazionale e internazionale. “È un tema molto importante, quello delle vittime, che ci consente di andare al cuore dei problemi della nostra giustizia penale e della giustizia penale di tutto il mondo”, spiega il direttore scientifico Luca Lupária Donati, certificando la vocazione internazionale propria dell’incontro promosso e organizzato dall’Associazione Festival Giustizia Penale Onlus che da Modena quest’anno si apre anche agli Stati Uniti e all’America Latina. Nato da un’idea di Donati e Guido Sola, avvocato e presidente dell’Associazione, insime a Martina Cagossi, Elena Lenzini, Andrea Lodi, Chiara Padovani, Roberto Ricco e Gianpaolo Ronsisvalle, il Festival propone un programma ricchissimo con la partecipazione di oltre 100 relatori e 35 panel. Nei primi due giorni gli incontri saranno dedicati alle vittime secondo la formula del confronto, con richiamo alla giustizia riparativa. La figlia di Aldo Moro, Agnese, dialogherà con l’ex brigatista Grazia Grena; il nipote di Piersanti Mattarella, omonimo dell’ex presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia, andrà a colloquio con il Procuratore Nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho; Vittorio Occorsio nipote del magistrato ucciso dal terrorismo nero, si confronterà con l’ex magistrato di Mani Pulite Gherardo Colombo. La terza giornata sarà invece dedicata alle “prospettive di riforma del diritto e del processo penale”, con una tavola rotonda a cui prenderanno parte Giovanni Canzio, Glauco Giostra, Giacomo Caliendo, Valerio Spigarelli, Gian Luigi Gatta e Mitja Gialuz. Il Festival dedicherà ampio spazio anche all’universo penitenziario, con un focus sul carcere ai tempi della pandemia. “Abbiamo inteso parlare di carcere sotto questo profilo perché ritieniamo che si sia giunti a un’ulteriore vittimizzazione del soggetto detenuto, per via delle restrizioni imposte soprattutto nella prima fase dell’emergenza sanitaria”, spiega Gianpaolo Ronsisvalle, del comitato organizzativo. Nella prima giornata, dopo i saluti istituzionali a cui prender parte anche la presidente del Cnf, Maria Masi, si segnala un evento dedicato agli avvocati in pericolo con la legale turca Aysegül Çagatay insieme al presidente dell’Oiad, Francesco Caia, coordinatore della Commissione diritti umani del Cnf, e l’avvocato Roberto Giovene di Girasole, componente della Commissione per i Rapporti Internazionali Paesi del Mediterraneo del Cnf. Il Festival è patrocinato dal Senato, della Corte Costituzionale, dal garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, dalla Regione Emilia- Romagna, dai comuni di Modena, Carpi, Sassuolo e Pavullo, dal Consiglio Nazionale Forense, da Unimore, dall’Università di Roma Tre, dall’Ordine degli Avvocati di Modena, da Croce Rossa Italiana e Non sono un bersaglio, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi, dalla Fondazione ex campo di Fossoli, da Fondazione Vittorio Occorsio, dalla Rete universitaria per la pace, dal Lions di Pavullo e del Frignano, da rete Dafne Italia, dalla Camera Penale di Modena Carl’Alberto Perroux, da Italy Innocence Project. La scelta di aiutarsi di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 21 maggio 2021 Mattarella ha parlato ai bambini nella speranza, forse, che anche i grandi intendessero. Adesso che sembra quasi finita col virus, adesso che siamo inebriati dall’idea che tutto torni come prima senza badare troppo a come saremo poi, adesso che ci sarebbe da ricostruire un Paese dopo il brutale finimondo del Covid, ancora una volta è stato un bambino a fare la domanda giusta. Seduto al primo banco di una scuola elementare di Roma, intitolata al tenero topo Geronimo Stilton, candidamente ha chiesto: “Mi chiamo Alessio e vorrei sapere qual è secondo lei la cosa migliore che possiamo fare per l’Italia. Grazie”. Il suo interlocutore, Sergio Mattarella, gli ha indicato la strada più semplice, che spesso è il contrario di quella più facile: “Di solito agli alunni si raccomanda di studiare. Vero, giusto. Ma io voglio dirvi che, oggi, la cosa più importante è un’altra: aiutarsi. Se qualcuno ha un problema con una materia, se ha difficoltà a camminare, se è rimasto indietro: aiutarsi vicendevolmente rende migliore la propria vita e quella degli altri. In questo anno di pandemia lo abbiamo imparato ancora una volta. C’è stato tanto bisogno dei medici, degli infermieri, delle persone che sono rimaste a lavorare nei supermercati, di chi conduceva gli autobus per potersi muovere e così via. Quando ci si aiuta, si vive meglio: questa è probabilmente la prima cosa che potete fare. Da adulti a volte ce lo si dimentica, non ci si aiuta abbastanza, e si vive peggio”. Il presidente della nostra Repubblica parlava ai piccoli nella speranza, forse, che anche i grandi intendessero. E i grandi sono il governo, i partiti, le associazioni di categoria, le istituzioni, i poteri forti e quelli furbi, tutti coloro insomma che reggono i fili di un Paese alle prese con una prova di portata storica. Che cosa possiamo fare per l’Italia del dopo tunnel? Come ce la immaginiamo, questa Italia che verrà, afflitta da un debito pubblico insostenibile, imprigionata da nodi cruciali irrisolti (dal fisco alla giustizia, per finire o cominciare dall’ambiente), ma beneficiata da un tesoretto europeo che ci offrirà l’occasione di recuperare il troppo tempo perduto, e non solo per colpa del Covid? Il contrario dell’”aiutare” evocato da Mattarella non è ostacolare o contrastare. Il vero opposto è ignorare, trascurare, disfarsi del carico delle disuguaglianze invece di farsene carico. La differenza cruciale la fa l’indifferenza. Non si tratta di essere buoni, nel senso cattolico del termine, ma coscienti e responsabili, questo sì, che le scelte di questi mesi disegneranno il tipo di Paese che abiteremo per i prossimi decenni. E questo vale per le questioni nazionali ma anche per gli scenari più vasti, dove l’influenza che abbiamo riconquistato con la guida di Mario Draghi può giocare ruoli decisivi in partite altrettanto decisive. Il fatto che una parte di mondo, per lo più africana, sia ancora a zero vaccini, come documentato da questo giornale, è una disparità preoccupante dal punto di vista sanitario e angosciante da quello umanitario. La foto del neonato marocchino salvato nel mare di Ceuta da un sub della Guardia civile spagnola (“ho visto spuntare la testolina e ho pensato a una bambola”) è soltanto l’ultima sconvolgente istantanea di una tragedia senza fine e senza confini, di fronte alla quale il nostro Continente si gioca la patente di democrazia, oltre a quella di civiltà. E noi dobbiamo avere voce in capitolo, se non altro per la posizione geografica da primo sbarco che occupiamo. Tra pretendere un’effettiva strategia comune di gestione e di accoglienza e fingere di non vedere, c’è di mezzo, appunto, il mare. Essere un partner di rilievo della comunità internazionale significa anche spendere qualcosa di più del cauto riserbo riguardo all’incendio che ha devastato le residue speranze di un qualche accordo nella striscia di Gaza. L’America di Biden, dopo 11 giorni di fuoco e di morte, ha chiesto e ottenuto da Netanyahu “una riduzione del conflitto, che porti a una tregua”. Partecipare alla costruzione di ponti, per quanto fragili e pericolanti, è certamente più in linea con la politica dell’aiutare rispetto a una presenza marginale sullo sfondo. Ogni energia spesa per un più di pace è un’energia spesa bene. E rinnovabile. Anche la pace sociale rientra nel perimetro. E sarà messa a dura prova, nonostante le misure che il governo sta mettendo in atto per arginare l’impatto di una marginalità crescente. Misure che rischiano di non bastare e che, al di là delle intenzioni dei ministeri coinvolti, quasi di certo non basteranno. La Comunità di Sant’Egidio a Roma aveva 3 punti di distribuzione di beni primari, ora sono 28. Alla Caritas lanciano da tempo l’allarme di una povertà senza precedenti tra gli italiani, che colpisce soprattutto donne, precari e giovani, mandandoli a ingrossare le fila di chi aspetta almeno un pasto al giorno, con la sorpresa amara di trovarsi davanti una persona su quattro che mai avrebbe pensato né osato mettersi nelle colonne in fame. A fine marzo, un anno di Covid aveva portato alla chiusura di 300 mila imprese, la cessazione di 220 mila partite Iva, più 800 mila lavoratori in cassa integrazione. Nei prossimi mesi, la situazione deflagrerà, con più di 500 mila licenziamenti previsti per inizio luglio (fine del blocco nelle imprese più grandi), più una cifra simile quando a novembre verrà tolto del tutto il freno di salvaguardia. A questa marea montante, vanno aggiunti gli ultimi della scala, gli “scoraggiati” che un lavoro neanche lo cercano più (circa 700 mila) e gli “invisibili” (approssimativamente, stesso numero) che comprendono braccianti con paghe indegne, rider, immigrati regolarmente sfruttati ma senza tutele né possibilità di ottenerne. All’Italia che già non ce la faceva, si sovrappone un’altra Italia che non ce la farà, e qualche risposta non ancora prevista bisognerà pure trovarla. Con il coraggio indispensabile per evitare una frattura sociale di cui si avvertono le prime profonde crepe. “Se venisse chiesto un piccolo sacrificio ai grandi patrimoni, per il bene del Paese mi sentirei di farlo”, ha detto al Corriere Diego Della Valle, il signor Tod’s, aprendo a un’ipotesi che potrebbe coinvolgere il famoso 1 per cento dei più ricchi, 5 mila persone, lo 0,01 per cento della popolazione. Ipotesi che potrebbe anche allargarsi ad altre fasce più che benestanti, nelle forme e nelle modalità che di fronte all’enormità del danno atteso andranno presto studiate, sperimentate e con consapevolezza proposte. È in fondo la seconda sfida che si è dato il governo straordinario presieduto da Draghi. La prima era portarci fuori dal Covid, e quasi ci siamo. L’altra è evitare che la pandemia sanitaria di trasformi in pandemia sociale. E qui ci troviamo e ci troveremo. Caro bambino Alessio, della scuola del topo Geronimo, il presidente della Repubblica ha fatto un grande dono a te e ai tuoi compagni: vi ha detto la verità. La cosa più importante oggi è imparare ad aiutarsi. Cominciando dall’alto e continuando fino agli ultimi banchi. Vaccini. Sorpresa a Bruxelles, il parlamento dice Sì alla sospensione dei brevetti di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 21 maggio 2021 L’emendamento della sinistra passa nella notte con 293 voti a favore: oltre al gruppo Gue, S&D e Verdi. 284 i contrari e 119 le astensioni. Il risultato non è vincolante, l’appuntamento cruciale è a giugno per una proposta da presentare al Wto. Qualcosa si muove sul fronte della sospensione dei brevetti dei vaccini anti-Covid. L’Europarlamento voterà solo a giugno su una posizione definitiva, nella discussione in plenaria i gruppi politici hanno mostrato divisioni profonde, ma nella notte tra mercoledì e giovedì, a sorpresa, è passato a Bruxelles un emendamento della Gue (sinistra) che invita la Ue a “sostenere l’iniziativa presentata da India e Sudafrica al Wto per la sospensione temporanea dei diritti di proprietà intellettuale sui vaccini, le attrezzature e le terapie per far fronte al Covid-19”. Il risultato non è vincolante, l’appuntamento cruciale è a giugno, ma ci sono stati 293 voti a favore (con il gruppo Gue hanno votato S&D e Verdi), 284 contrari e 119 astensioni. Pd e M5s si sono espressi a favore, Fratelli d’Italia e Forza Italia contro, la Lega si è astenuta. Con una maggioranza molto più ampia (468 a favore) è passata anche la proposta di garantire un “accesso equo, tempestivo e a prezzi contenuti al vaccino per i paesi in via di sviluppo, in particolare per quanti appartengono a gruppi vulnerabili e a alto rischio”, come i malati di Aids. L’Europarlamento chiede a Big Pharma di “condividere le proprie conoscenze e i propri dati” seguendo le indicazioni dell’Oms. “Abbiamo vinto una battaglia culturale” afferma Manon Aubry, eurodeputata francese (France Insoumise), alla punta di questa battaglia. “Ma eravamo ben soli” aggiunge. Adesso la Ue deve “riconoscere l’errore” e prendere posizione per l’accesso di tutti ai vaccini, in modo “immediato, senza condizioni, integrale, durevole”, la Ue e i suoi dirigenti devono “vergognarsi” per essere stati gli “idioti utili” di Big Pharma, avendo permesso che i vaccini fossero “beni privati mentre sono stati finanziati da soldi pubblici”, commenta Aubry. Per la presidente del gruppo S&D, Iratxe Garcia Perez, il mantenimento dei “monopoli dei laboratori farmaceutici durante la pandemia” ha causato “inevitabilmente milioni di morti che avrebbero potuto essere evitati”. Il Comitato del parlamento europeo sul commercio ieri ha incontrato la direttrice generale della Wto, Nogozi Okonjo-Iweala, che ha affermato che “ottenere la sospensione dei diritti di proprietà intellettuale non sarà sufficiente”. “È un argomento scottante”, ha detto Okonjo-Iweala che non prende posizione, ma afferma: “Abbiamo bisogno di più flessibilità, di un accesso automatico ai vaccini per i paesi emergenti e contemporaneamente dobbiamo proteggere ricerca e sviluppo”. Limitare il più possibile le restrizioni all’export e aumentare la capacità produttiva, anche nei paesi emergenti, sono due dei tre punti della proposta che la Commissione ha preparato per presentarla alla Wto a luglio. Il terzo punto è usare la leva degli accordi Trips (Agreements on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights) sulle licenze obbligatorie, “strumento assolutamente legittimo” secondo il vice-presidente della Commissione, Valdis Dombrovskis. Il ricorso al meccanismo delle licenze obbligatorie è criticato dal movimento a favore della sospensione dei brevetti, perché è complesso e prevede anche compensi finanziari per il “prestito” del brevetto. La Commissione spiega però che il voto alla Wto è più semplice, perché non richiede l’unanimità, prevista invece per la revoca dei brevetti (con esito incerto, visto che finora non solo la Ue, ma anche Usa, Giappone e altri si sono opposti). Per Augusto Santos Silva, ministro degli Esteri del Portogallo, paese che ha fino a fine giugno la presidenza a rotazione del Consiglio Ue, “è nel nostro interesse adoperarci senza attendere per garantire l’universalità di accesso ai vaccini e la vaccinazione dell’insieme della popolazione mondiale”. Per Silva, “tutte le proposte sono le benvenute e dovranno essere esaminate”. L’invito è agli Usa, di “precisare” l’affermazione di Joe Biden a favore della sospensione dei brevetti. Per quanto riguarda la Ue, “prima di tutto ampliare e rafforzare la capacità produttiva”, poi “garantire l’accesso al vaccino per i paesi che non producono, grazie all’export”. L’Ue ha esportato 200 milioni di dosi, quasi il 50% di quelle prodotte, verso 45 paesi, è il primo contributore del meccanismo Covax, mentre Usa e Gran Bretagna hanno bloccato le esportazioni. “Siamo aperti a tutte le possibilità che mirano a garantire il vaccino universale - ha aggiunto Silva - ma adesso lasciateci fare quello che possiamo fare: aumentare la capacità produttiva e invitare i paesi produttori a impegnarsi, a fianco della Ue, a esportare per assicurare l’accesso ai vaccini nel mondo intero”. La legge Zan e le ragioni del femminismo della differenza di Silvia Niccolai Il Manifesto, 21 maggio 2021 Il ddl Zan introduce i delitti di istigazione a delinquere e compimento di atti discriminatori e violenti fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere. Finanzia politiche contro la violenza legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere e istituisce la Giornata contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, in cui sono organizzate, anche da parte delle amministrazioni pubbliche e nelle scuole, iniziative per promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione e a contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivate dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere. Per sesso, spiegano le definizioni di cui la legge è corredata, si intende quello biologico; per identità di genere la percezione che una persona ha di sé come uomo o donna, anche se non corrispondente al sesso biologico; per ruolo di genere qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse all’essere uomo o donna; per orientamento sessuale l’attrazione emotiva o sessuale nei confronti di persone dello stesso sesso, di sesso opposto o di entrambi i sessi. Con questa terminologia e queste definizioni il disegno di legge richiama teorie secondo le quali la distinzione tra i due sessi femminile e maschile si risolve in costruzioni sociali che si ripercuotono sugli individui come una gabbia repressiva, il ‘binarismo sessuale’, che esclude e stigmatizza chi in tale binarismo non si riconosce. Di qui il valore dell’autopercezione, e il suo significato contestativo: la possibilità di dirsi maschio femmina o nessuna delle due cose - l’identità di genere - indipendentemente dal corpo che si ha, romperebbe il giogo del binarismo. A quest’ultimo, autoritario, tende a essere associata, in questo ordine di idee, la differenza sessuale. In Italia esiste un pensiero femminista radicale noto come pensiero della differenza, molto vitale. Questo pensiero ha lavorato per far emergere la soggettività femminile, che consiste appunto nella differenza. Differenza rispetto a cosa? Rispetto al soggetto neutro della storia e del pensiero, per esempio l’Hegel che “si mette nella posizione di un soggetto universale mentre in realtà parla secondo l’esperienza di un soggetto maschile”. E cosa sarebbe questa differenza? Il femminismo radicale ‘essenzializza’ le donne, sacralizza per caso il ruolo materno? No, la differenza non è un ‘ruolo’ o un ‘comportamento’, perché non è una cosa. È una qualità, un processo, un divenire: è l’atto del differire, che scompagina i modelli ereditati, mette al mondo qualcosa che non era prima previsto e che non si può sapere mai che cosa sarà. E per iniziare a differire, occorre un primo atto di disobbedienza: scoprire che il corpo in cui una è nata, proprio quel corpo così a lungo squalificato e così spesso asservito, è invece intelligente, è il veicolo di molte esperienze, è una parte di noi che ci permette di dire “quel che ci risulta”, di dire la nostra, a modo nostro: compone la nostra soggettività. C’è stato dunque nel tempo un impegno appassionato affinché le donne si sentissero autorizzate a parlare partendo dalla loro esperienza, onde questa, e non quella del soggetto neutro, entrasse a comporre i modi comuni di pensare, di vivere, di giudicare; impegno per restituire unità alla soggettività femminile, che il patriarcato spezzava tra sesso e costrutti sociali, e così consegnava all’irrilevanza. “Noi siamo e abbiamo un corpo e questo avere ed essere struttura il nostro porci nei confronti degli altri e del mondo”; nessuna e nessuno può partire da sé, dire il mondo come lo vede, se accetta di stare “alle determinazioni della sua natura o della sua condizione che sono precostituite: prima delle determinazioni esterne c’è lei, c’è un soggetto pensante capace di ragionare e concludere in base a quello che le risulta” (Luisa Muraro 1994). Le donne hanno o non hanno (finalmente) il diritto di parlare ciascuna per sé? E dopotutto, le donne esistono? Dopo decenni di lotta al patriarcato il dubbio si ripropone. Torna in voga il modello-Hegel, che il ddl Zan presuppone: il corpo è un nulla - un dato biologico, in effetti, non pensa e non sente - da cui si può prescindere con le sole operazioni della mente (l’autopercezione o identità di genere). L’unità corpo-mente del pensiero femminista è un’idea polemica e critica quanto meno alla pari - lo si concederà - dell’idea di identità di genere. Quest’ultima, per molte persone, ha un valore di liberazione, ma per molte altre è la prima idea ad avere quel significato. Non sta al legislatore stabilire se il corpo è solo biologia, o se esso è senso, storia e intelligenza perché tutto questo è, per ognuna e ognuno, la materia viva del nostro proprio esistere. Ma non si può ignorare che promuovendo azioni educative orientate a insegnare alle bambine che il loro sesso è solo biologia il legislatore si mette contro l’azione delle tante donne che porgono alle bambine l’idea opposta, affinché diano a se stesse valore e possano essere ciò che desiderano. La storia della rivolta femminile contro la cancellazione del proprio sesso non va sacrificata alla sacrosanta tutela delle persone omosessuali e bisessuali, transessuali e transgender. Questa la si può ottenere semplicemente nominandole, senza ricorrere alle parole-chiave di modernissime teorie, dall’antichissimo sapore patriarcale. Migranti. Italia e Tunisia: “Rimpatri rapidi”. Intesa con la Ue contro gli sbarchi di Fabio Tonacci La Repubblica, 21 maggio 2021 Lamorgese: “Lotta comune agli scafisti”. Linea rossa sui salvataggi in mare. Verso l’accordo anche con l’Europa: soldi e visti per chiudere le frontiere. Il nuovo approccio europeo all’immigrazione comincia dalla Tunisia. Al Palazzo di Cartagine, ieri, sono state gettate le fondamenta del primo accordo globale tra un Paese africano e l’Unione Europea. Un accordo che poggia su quattro gambe: investimenti, aumento dei visti e degli ingressi legali, rimpatri più facili e la riduzione delle partenze dei barchini dalle coste tunisine. L’Italia è in prima linea. Il negoziato è ben avviato e dovrebbe perfezionarsi entro l’anno, con l’ambizione di diventare un modello. Più visti e sostegno all’export - A Cartagine il presidente Kais Saied e il primo ministro Hichem Mechichi hanno incontrato la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson e la ministra dell’Interno italiana. “Ho manifestato loro la vicinanza dell’Italia e dell’Ue, li aiuteremo ad affrontare la sfida che riguarda il futuro dei giovani che legittimamente aspirano, come i loro coetanei europei, a soddisfacenti condizioni lavorative e di vita”, ha detto, a colloqui finiti, Luciana Lamorgese. La visita congiunta, la seconda dopo quella del 17 agosto scorso, è il frutto del lavoro durato mesi della nostra diplomazia a Tunisi. La proposta di partenariato strategico illustrata da Johansson è piaciuta e ha ottenuto il via libera politico: l’idea è pompare soldi europei nella disastrata economia della Repubblica dei gelsomini per finanziare aziende e progetti per i giovani. La cifra non è stata messa nero su bianco, ma sarà consistente e - stando a fonti vicine al dossier - ammonterà alla quota degli introiti persi dalla Tunisia nel settore turistico. Previste anche misure di sostegno alle esportazioni. Contemporaneamente le maglie dell’ingresso legale in Europa saranno allargate, concedendo più visti e permessi di soggiorno a chi intenda lavorare nel circuito della legalità. In cambio, il governo di Mechichi si impegna a ridurre il più possibile, fino ad azzerarlo, il flusso della partenze via mare. E ad accettare che tutti i connazionali rintracciati sul suolo europeo privi di titolo vengano rimpatriati. La svolta sui rimpatri - L’esodo dalla Tunisia è diventato, per l’Italia, un problema. Lo raccontano i numeri. Gli sbarchi di provenienza tunisina sono dieci volte quelli di due anni fa. Al 20 maggio del 2019 si contavano 326 persone, l’anno scorso 1.150, quest’anno 3.041. Nella classifica dei Paesi di partenza, la Tunisia è seconda dopo la Libia. Dall’inizio del 2021 i migranti rimpatriati sono stati 1.400: di questi 641 in Tunisia. Si capisce, dunque, perché in attesa dell’accordo globale con la Ue, Lamorgese ha incassato con favore la promessa bilaterale di maggiore flessibilità. Oggi l’accordo del 1998 prevede 80 rimpatri alla settimana e due voli fissi, il martedì e il giovedì, nella fascia oraria 13-15. Con il Covid e la necessità di sottoporre a tampone i rimpatriabili, le procedure sono diventate più faticose, quindi i rientri si sono ridotti. Adesso il governo di Mechichi ha accettato voli charter in giorni e in orari diversi da quelli prestabiliti, a seconda delle esigenze, e in estate saranno programmati voli supplementari, pur rimanendo il tetto settimanale. La linea diretta Roma-Tunisi - Sempre con un accordo Italia-Tunisia, le motovedette della guardia costiera tunisina (la cui manutenzione è fornita dall’Italia) potranno contare h24 su una linea rossa con il Centro soccorsi di Roma, che permetterà di individuare più rapidamente i gommoni. È un sistema di allerta che irrobustisce la già solida collaborazione tra i due apparati di polizia, anche in chiave di contrasto al terrorismo. Non a caso ieri a Cartagine il Capo della polizia Lamberto Giannini si è incontrato con l’omologo tunisino. “Italia e Tunisia”, ha ribadito la ministra Lamorgese, “hanno il comune interesse smantellare il business criminale dei trafficanti di migranti”. Migranti. L’Italia “guiderà” la Guardia costiera tunisina di Carlo Lania Il Manifesto, 21 maggio 2021 Sì di Tunisi a una maggiore flessibilità nei rimpatri. Da effettuare anche con i traghetti. Alla fine Luciana Lamorgese ha otternuto ciò che voleva. La ministra dell’Interno è arrivata ieri in Tunisia insieme alla commissaria Ue agli Affari Interni Ylva Johansson con l’obiettivo di assicurarsi una maggiore collaborazione delle autorità del Paese nel fermare le partenze del giovani tunisini verso l’Italia. Un viaggio che è parte di una più ampia strategia che l’Unione europea, a dir poco preoccupata da quanto potrebbe accadere con l’estate, ha messo in campo per contrastare i numerosi arrivi di imbarcazioni cariche di migranti, e di cui fa parte anche la missione che la prossima settimana vedrà tornare in Libia il ministro degli Esteri Luigi Di Maio con il commissario Ue all’Allargamento Oliver Varhelyi. A Tunisi Lamorgese e Johansson non sono certo arrivate con le mani vuote. Le due politiche europee hanno assicurato al presidente della Repubblica Kais Saied e al premier Hichem Mechichi, che ha anche l’interim del ministero dell’Interno, un cospicuo pacchetto di investimenti, italiani ma sopratutto europei, che dovrebbero aiutare il Paese nordafricano a ridare ossigeno a un’economia resa ancora più fragile dalla pandemia: “Con la commissaria Johansson abbiamo tracciato con le autorità tunisine le direttrici politiche lungo le quali si dovrà sviluppare il partenariato strategico tra Unione europea e Repubblica tunisina”, ha spiegato Lamorgese. Due gli obiettivi di maggiore interesse per l’Italia e vero motivo della missione: ottenere una maggiore flessibilità sui rimpatri dei tunisini che sbarcano in Italia, tutti considerati migranti economici, e assicurarsi - anche attraverso un intervento diretto - un controllo più stretto delle coste del Paese nordafricano. Fino a oggi Tunisi ha imposto un’applicazione estremamente rigida dell’accordo bilaterale siglato con Roma e che prevede 80 rimpatri a settimana da effettuare con due voli charter in partenza il martedì e il giovedì. In caso di ritardi - nell’ultimo anno dovuti anche all’emergenza Covid - l’appuntamento salta. “Questa rigidità rallenta la possibilità di effettuare i rimpatri”, ha spiegato Lamorgese. Il risultato ottenuto non incide sui numeri delle persone destinate a tornare indietro, che restano 80 a settimana, ma Tunisi ha accettato di fissare nuove date in sostituzione di quelle che potrebbero saltare. In più ha aperto alla possibilità, oggi negata, che i rimpatri possano essere effettuati anche imbarcando i migranti sui normali traghetti di linea che collegano l’Italia alla Tunisia. Altro capitolo riguarda la collaborazione con la Guardia costiera tunisina. Oggi l’Italia si occupa della manutenzione dei mezzi navali provvedendo anche alla fornitura di pezzi di ricambio. Roma ha chiesto e ottenuto di più. In particolare di poter attivare un sistema di allerta con navi e aerei italiani che, pur operando in acque internazionali, avvertano le motovedette tunisine delle partenze dei barconi permettendogli di bloccarli quando sono ancora nelle acque territoriali del Paese. La contropartita a tutto ciò è, come si è detto, economica ma il governo tunisino deve tener conto anche dell’opinione pubblica interna. In un Paese stremato dalla crisi economica, e con una disoccupazione sopra al 17%, a partire sono soprattutto le generazioni più giovani spinte dalla speranza di riuscire a trovare in Europa un lavoro e un futuro che non riescono a vedere nel loro Paese. Esigenze legittime, alle quali non si può rispondere solo con l’ennesimo giro di vite. Saied l’ha spiegato chiaramente parlando con Lamorgese: l’approccio incentrato sui soli aspetti securitari, ha detto il presidente tunisino, “ha dimostrato i propri limiti per affrontare le cause profonde dei fenomeni migratori”. Cause che invece si risolvono “combattendo la povertà e la disoccupazione e sostenendo le politiche di sviluppo dei Paesi di origine”. L’Italia ha già in corso programmi che riguardano il microcredito. Da parte sua l’Unione europea promette molti soldi che rappresentano altrettante promesse di sviluppo. Le incognite semmai riguardano i tempi. Quello raggiunto ieri da Lamorgese e Johansson con le autorità tunisine è infatti un via libera politico. Ora andrà avviato un tavolo tecnico che dovrà dare seguito agli accordi presi. Stati Uniti. Delazione digitale ultima frontiera: una app telefonica scova i “criminali” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 21 maggio 2021 Il 17 maggio scorso, a Palisades, nei dintorni di Los Angeles, è divampato un violento incendio che ha mandato in fumo più di 1300 acri di vegetazione, 1000 persone sono state costrette ad evacuare le loro abitazioni mentre la “città degli Angeli” veniva avvolta da fumo e cenere. La polizia annunciò di aver preso in custodia un sospetto piromane, una circostanza confermata anche dallo stesso sindaco della megalopoli Eric Garcetti durante una conferenza stampa. Ciò che invece non ha avuto risalto immediato sulle cronache è che il possibile piromane era stato individuato grazie ad un’applicazione scaricabile sugli smartphone dei cittadini. Si tratta di Citizen, un app che fornisce agli utenti informazioni sulla criminalità locale tramite scanner della polizia e altre fonti. Il problema è che il sospettato è stato poi scagionato perché risultato estraneo ai fatti (la polizia ha successivamente arrestato il vero autore del crimine), era un senza tetto finito ingabbiato in una vicenda kafkiana che apre scenari inquietanti per la giustizia penale, la privacy e le nuove frontiere del controllo sociale. Citizen ha inviato un alert sull’incendio includendo una foto dell’uomo ingiustamente accusato, il suo viso è stato visto immediatamente da oltre 861mila persone, inoltre l’app ha offerto anche una ricompensa (sarebbe meglio dire una taglia) di ben 30mila dollari per chiunque avesse fornito informazioni utili all’arresto. Citizen ha riconosciuto l’errore è ha tolto la foto che però è rimasta visibile per più di 15 ore, inoltre ha ammesso che la ricompensa era stata promessa senza un effettivo coordinamento con le agenzie preposte al caso. A questo punto è emersa tutta la pericolosità di un tale sistema tecnologico. Per Jim Braden, lo sceriffo che ha interrogato l’uomo ingiustamente accusato, le azioni di Citizen sono state “potenzialmente disastrose”, in molti si chiedono dove porterà l’uso di app come questa che si stanno diffondendo però in molte città degli Stati Uniti. La giustizia dunque finisce per essere privatizzata, si incoraggia il fenomeno del “vigilantismo” aumentando il rischio che false accuse diventino virali. Secondo Sarah Esther Lageson, assistente professore alla Rutgers School of Criminal Justice, “una falsa accusa è quasi come una condanna ora, a causa del modo in cui le persone sono così rapidamente esposte al pubblico. Con la loro immagine e il nome online, la notorietà è per sempre.” Esiste poi un pericolo ancora maggiore e cioè che vengano incoraggiati gli stereotipi razziali e sociali. Per la studiosa infatti “Queste app spostano quella dinamica di potere della sorveglianza e della risposta ai crimini, consentendo al possessore del telefono di determinare chi è sospetto e perché”. In realtà Citizen ha una storia breve ma già costellata di critiche ed accuse. E’ stata infatti lanciata nel 2017 a New York con il nome originario di Vigilante, l’idea è stata quella di usare i dati sulla posizione per fornire agli utenti informazioni sulla criminalità nella loro area, una trovata vincente per una società evidentemente impaurita e insicura. Non a caso si è estesa in più di 20 città tra cui Baltimora, Los Angeles, Filadelfia e Detroit. Il claim con il quale viene pubblicizzata è chiaro: “Proteggere te stesso, le persone e i luoghi a cui tieni”. E probabilmente non è un caso che, sempre a Los Angeles, l’app sia stata impiegata per consentire il tracciamento dei contatti durante la pandemia di Covid. Il vero problema è che gli utenti sono invitati a trasmettere in streaming i filmati delle conseguenze di crimini e incidenti di varia natura, evidentemente questo non allontana le persone dal pericolo come viene propagandato e può mettere a rischio la vita di altri. Una stortura che è stata alla base dello stesso cambiamento di nome dell’applicazione che venne ritirata dopo un anno dalla sua nascita dall’app store di Apple. Fin da subito infatti apparve chiaro che offrire la possibilità di riprendere crimini e commentarli sarebbe sfociato nel vigilantismo. Non esiste poi un vero e proprio criterio di valutazione sui fatti segnalati, è lo stesso CEO di spOn (l’azienda creatrice di Citizen) ad affermare che ogni giorno vengono raccolte solo 3- 400 chiamate sulle circa 10mila che arrivano al 911 a New York. Resta il fatto che applicazioni di questo tipo rappresentano sempre più un grande business con rivolti discriminatori e si stanno moltiplicando. Basti pensare a Ghetto Tracker o SketchFactor che fondamentalmente, nelle loro prime versioni, utilizzavano dati pubblici per “aiutare” le persone bianche a evitare quartieri apparentemente ‘ pericolosi’ e cioè popolati da neri o ispanici. Lo stesso criterio utilizzato da Nextdoor dove a causa del “profilo razziale” il prodotto ha dovuto cambiare pelle e scopo. Per capire l’entità dell’affare basta vedere la quantità di denaro immesso dagli investitori per il lancio di Citizen: 3 milioni di dollari di finanziamento iniziale da parte del fondo Founders di Peter Thiel (tramite FF Angel), Slow Ventures, RRE Ventures, Kapor Capital con il suporto di Ben Jealous, ex CEO della NAACP) e altri soggetti. Stati Uniti. Ronald Greene, un altro afroamericano picchiato a morte dalla polizia di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 21 maggio 2021 Dopo la condanna dell’agente che ha ucciso George Floyd, un video ottenuto dall’Associated Press mostra la morte di un 49enne afroamericano: “Sono spaventato”, grida l’uomo prima di essere colpito con il taser e picchiato. Ancora un video alla George Floyd: un afroamericano trascinato fuori dall’auto dai poliziotti, preso a calci e a pugni. Sanguinante, colpito più volte con il taser, la pistola elettrica, mentre grida: “Non fatemi niente, sono vostro fratello, sono spaventato, sono spaventato”. Il suo nome era Ronald Greene, aveva 49 anni. È morto sull’autoambulanza che lo trasportava in ospedale. I fatti risalgono al 10 maggio 2019, ma solo ieri notte, mercoledì 19 maggio, l’Associated Press ha ottenuto il video registrato dalla body camera di uno degli agenti. Sono tre clip che durano in totale due minuti: il condensato di una sequenza da 46 minuti. La dinamica, purtroppo, è fin troppo familiare. Green stava viaggiando in macchina, nei dintorni di Monroe, una cittadina della Louisiana, profondo Sud degli Stati Uniti. Secondo il primo rapporto compilato dalla Louisiana State Patrol, una pattuglia di agenti nota una qualche infrazione al codice stradale. Comincia l’inseguimento. Greene accosta e subito dopo un poliziotto si avvicina al finestrino, con la pistola in pugno: “Fammi vedere le tue c... di mani”; poi un insulto pesante. L’uomo al volante apre la portiera: “Ok, ok agente. Sono spaventato, agente. Sono spaventato, sono tuo fratello, sono spaventato. A quel punto uno degli uomini in divisa urla: “Taser, taser”. Ronald viene colpito dalla scarica elettrica, trascinato a terra e ammanettato. Perde sangue. Si sente un poliziotto dire: “Mi sono sporcato le mani di sangue, spero che questo tizio non abbia l’Aids”. Il “sospetto” continua a lamentarsi, mentre gli agenti si passano dei fazzolettini per pulirsi. Al momento abbiamo solo il rapporto ufficiale del Dipartimento di Polizia per capire che cosa sia successo subito dopo: “Greene è stato preso in custodia, dopo aver resistito all’arresto e lottato con un agente. Poi ha perso i sensi ed è stato trasportato al Glenwood Medical Center. È morto nel tragitto verso l’ospedale”. Quella stessa sera, due dei tre agenti di pattuglia furono censurati dai superiori; il terzo è morto in un incidente stradale lo scorso settembre. La famiglia di Greene ha presentato denuncia il 6 maggio 2020, accusando la polizia di “aver brutalizzato” Ronald “usando forza letale”. Vedremo se ora, dopo che le immagini sono diventate pubbliche, ci sarà un processo, seguendo quello che è diventato il precedente cardine: la condanna a Minneapolis di Derek Chauvin per l’omicidio di George Floyd. Il video diffuso dalla Ap ha riacceso la discussione sulla riforma della polizia, approvata dalla Camera, ma ancora bloccata al Senato dall’opposizione dei repubblicani. Medio Oriente. Israele e Hamas accettano il cessate il fuoco di Michele Giorgio Il Manifesto, 21 maggio 2021 L’entrata in vigore era attesa la scorsa notte all’una ora italiana. Si tratta di una tregua molto fragile frutto delle pressioni internazionali sul governo Netanyahu. Sullo sfondo c’è Gaza con i suoi 232 morti e le sue distruzioni. Si è chiusa ieri sera con un via libera unanime al cessate il fuoco con Hamas la riunione del gabinetto di sicurezza israeliano. Lo ha annunciato il Jerusalem Post aggiungendo che i punti dell’intesa mediata dall’Egitto sarebbero stati definiti nel corso della notte. Si sono rincorse per tutta la serata le indiscrezioni sulla disponibilità data da Israele ai mediatori egiziani per un cessate il fuoco unilaterale. Mentre Tom Wennesland, l’inviato Onu per il Medio Oriente, è andato in Qatar per strappare il sì alla tregua dei dirigenti di Hamas, tra cui Ismail Haniyeh, che vivono a Doha. Che morte e distruzione stiano per avere fine dopo oltre dieci giorni, è tutto da dimostrare. Il quadro è fluido e incerto. Alle Nazioni unite il ministro degli esteri palestinese Riad al Malki e l’ambasciatore israeliano Gilad Erdan si sono scambiati accuse durissime, anche di genocidio. Poco dopo è intervenuta anche l’ambasciatrice americana Linda Thomas-Greenfield. “Non siamo stati in silenzio. Non credo ci sia un Paese che lavori più urgentemente e con fervore degli Stati uniti per la pace tra israeliani e palestinesi”, ha detto in risposta a chi ha accusato Washington di aver avallato l’offensiva militare israeliana contro Gaza. Il gabinetto di sicurezza israeliano, presieduto dal premier Netanyahu, si era riunito alle 18 locali sotto l’onda delle pressioni giunte da più parti, dagli Usa all’Onu, dall’Unione europea alle agenzie umanitarie. Mentre i raid aerei su Gaza proseguivano seppur con minore intensità. E così i lanci di razzi - circa 300 (in totale oltre 4000 dal 10 maggio) - di Hamas e dei suoi alleati verso le città adiacenti a Gaza e del sud di Israele. La sirena dell’allarme ha riecheggiato più volte durante tutto il giorno. Decine di migliaia di persone ad Ashkelon, Ashdod, Sderot e nel Negev hanno dovuto trascorrere ore nei rifugi. A Beer Sheva nella zona industriale è stato centrato un edificio ma non ci sono stati feriti. Secondo le previsioni che si facevano ieri, gli egiziani avrebbero comunicato nel corso della notte l’ora in cui oggi dovrebbe scattare il cessate il fuoco. Non c’è certezza che le cose andranno nella direzione auspicata da molti nonostante l’annuncio del cessate il fuoco. Netanyahu - che ha incontrato il ministro degli esteri tedesco Maas - e il ministro della difesa Benny Gantz ieri mattina insistevano ancora per intensificare le operazioni militari. A spingere per il cessate il fuoco è stato invece il leader dell’opposizione, il centrista Yair Lapid, a cui il capo dello stato Rivlin ha affidato l’incarico di formare il nuovo governo. Lapid ha avvertito che Israele non poteva ignorare l’appello di Joe Biden per una tregua immediata. “Il presidente Usa - ha spiegato - vuole una fine delle operazioni dopo 11 giorni, quando l’esercito ha già raggiunto i suoi obiettivi. Israele non può ignorare questa richiesta”. Contro la fine dell’attacco a Gaza è schierata la maggioranza dei cittadini di Israele. Un sondaggio citato dalla tv Channel 12, rivela che il 72% degli intervistati vuole che la guerra ad Hamas continui. Solo il 24 per cento ritiene che Israele “debba concordare” un cessate il fuoco. Il 66% delle persone interpellate pensa che l’esercito israeliano abbia ottenuto importanti risultati con la sua campagna di attacchi aerei. Non mancano voci che chiedono che Israele cessi unilateralmente le operazioni senza giungere a una tregua, per lasciarsi la possibilità di tornare a colpire in futuro senza dover rompere alcun accordo. Una situazione di totale incertezza in cui la ripresa dello scontro sarebbe inevitabile in breve tempo. I raid aerei ieri hanno ucciso altri due palestinesi di Gaza a bordo di auto e ferito almeno altri quattro. Per Israele erano miliziani armati. Il primo attacco è avvenuto a Jabalya nel nord della Striscia, il secondo a Beit Hanoun nel nord est. Israele afferma di aver colpito la cellula di Hamas che qualche ora prima aveva sparato un razzo anticarro Kornet contro un bus militare israeliano ferendo un soldato. E ha centrato, sempre secondo la versione del portavoce dell’esercito, le imboccature di due tunnel di Hamas. Aumentano nel frattempo gli sfollati. Sono 75mila le persone in fuga dai bombardamenti israeliani, avvertono le Nazioni Unite. Di questi, circa 47.000 sono stati accolti in 58 scuole gestite dall’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi, mentre altri 28.700 sono stati accolti in case private. L’Onu e le ong internazionali premono per ottenere corridoi umanitari ma Israele continua ad aprire ad intermittenza i valichi con Gaza anche, spiega, a causa dei lanci di razzi. Un team di Medici senza frontiere (Msf) si è visto negare l’autorizzazione ad entrare e non ha potuto consegnare materiali ed attrezzature destinati al vacillante sistema sanitario palestinese. Israele-Palestina: perché le guerre scoppiano sempre a Gaza di Francesco Battistini e Milena Gabanelli Corriere della Sera, 21 maggio 2021 La pace impossibile. Uno dei più lunghi conflitti della storia moderna. L’origine di tutti i focolai in Medio Oriente. Dal 1946 a oggi, l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato 700 risoluzioni, più di 100 ne ha votate il Consiglio di sicurezza. La comunità internazionale ha esaminato almeno 20 piani di pace. Ma dopo 54 anni d’occupazione dei Territori palestinesi, adesso che fra arabi e israeliani siamo entrati nella dodicesima guerra in più di 70 anni, qualunque soluzione sembra lontanissima. Sette anni di calma - Era dall’estate 2014 che non si sentivano squillare le sirene con tanta frequenza. Una quiete, solo apparente, perché negli ultimi sette anni quasi 200 palestinesi sono rimasti vittime d’attacchi aerei o d’operazioni di terra; diversi soldati israeliani sono stati uccisi, con decine di civili feriti, e 163 attentati a quei coloni ebrei che, dal 1967, hanno progressivamente occupato la Cisgiordania. E 1.920 palestinesi sono stati feriti dalla polizia, con 8.139 uliveti di proprietà araba vandalizzati dai coloni. Come mai questa linea è stata superata proprio ora? Da una parte c’è Netanyahu, al quinto mandato, bersagliato da inchieste per corruzione, frode e abuso d’ufficio, e senza una maggioranza di governo. Dall’altra parte, i palestinesi che restano divisi. In Cisgiordania, dal 2006 è presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, 85 anni, leader del partito Fatah, ma il suo mandato è scaduto da dodici anni: non si va mai alle urne perché tutti i sondaggi prevedono una vittoria del movimento islamico di resistenza Hamas. Nato negli anni ‘80, durante la protesta palestinese della Prima Intifada, nel 2006 prese il controllo della Striscia di Gaza. È un movimento che dichiara incompatibile Israele con una Repubblica islamica di Palestina. E Israele, al pari degli Usa e della Ue, lo considera un’organizzazione terroristica. Gli amici di Hamas - È questa spaccatura palestinese a spiegare perché, negli ultimi quindici anni, il conflitto si sia concentrato sempre su Gaza. Hamas gode dell’amicizia d’un grande sponsor politico come la Turchia di Recep Erdogan, che dal 2010 tenta di forzare il blocco israeliano intorno alla Striscia. Secondo i servizi israeliani e lo stesso Abu Mazen, però, oggi è l’Iran il grande amico di Hamas. Il finanziamento diretto è per circa 6 milioni di dollari al mese, arrivati fino a 30 negli ultimi due anni. Una cifra versata attraverso gli islamici di Hezbollah che controllano il Sud del Libano. Gli Hezbollah sono sciiti come gli ayatollah di Teheran e si battono, come Hamas, per la distruzione del vicino Israele. 2015: accordo sul nucleare - Dunque per Netanyahu, gli iraniani sono il nemico numero uno. A causa del programma atomico, ripreso nel 2002, che secondo l’Onu ha anche scopi militari e viola il Trattato internazionale di non proliferazione nucleare. Nel 2015 i cinque Paesi del Consiglio di sicurezza Onu, Germania e Ue, hanno firmato con l’Iran un accordo voluto dal presidente americano Obama e osteggiato da Netanyahu, che prevede tra l’altro la fine delle sanzioni economiche imposte dall’Occidente a Teheran. Quel patto è stato una svolta. Ha normalizzato le relazioni tempestose con l’Iran. È da quel momento che contro Israele si sono raffreddate anche le ostilità di Hamas e del piccolo gruppo sunnita che lo fiancheggia, il Movimento per il Jihad in Palestina responsabile di molti attacchi suicidi e finanziato, pure lui, dagli Hezbollah filoiraniani. 2018: l’inversione di Trump - Poi è arrivato Trump, che nel 2018 ha stracciato l’accordo sul nucleare. Non solo: trasferisce l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendola come capitale unica e indivisibile d’Israele. E ha ribaltato le alleanze, riavvicinandosi ai tradizionali alleati dell’Arabia Saudita, grandi nemici tanto dell’Iran quanto della Turchia. L’inversione a U americana è stata la grande vittoria diplomatica di Netanyahu. E infatti dopo di essa, con la stessa puntualità con cui s’erano fermati, sono ricominciati fra Israele e Teheran gli scontri per aria (colpite in Siria le postazioni delle milizie sciite, finanziate dall’Iran), per mare (con incursioni sui cargo israeliani e sulle petroliere iraniane che transitano per il Golfo d’Arabia) e per terra, con due attentati alle centrifughe nucleari di Natanz. Dall’Iran, sono ripartite verso Gaza forniture d’armi sempre più sofisticate. E dopo dieci anni, è ripresa la campagna di eliminazione degli scienziati iraniani che lavorano al nucleare: il 27 novembre scorso è stato ucciso Mohsen Fakhrizadeh, capo del programma atomico di Teheran. Un assassinio che è seguito a quello, nel gennaio 2020, del generale Qassem Soleimani, il potente capo delle Guardie della Rivoluzione, colpito sulla sua auto da un drone americano. Pioggia di dollari - La rottura definitiva dell’amministrazione Trump con l’Iran ha portato, il 13 agosto 2020, alla cosiddetta “Pace di Abramo”: l’accordo tra Israele e i più ricchi dei Paesi arabi, Emirati e Bahrein, di tradizione musulmana sunnita e quindi contrapposti agli sciiti iraniani. La “Pace di Abramo” ha un significato politico ben preciso e serve a dirci una cosa: che la soluzione dei Due Popoli e Due Stati, ipotizzata dagli accordi di pace di Oslo e firmata nel 1993 da Rabin e Arafat, non è più una condizione. In altre parole: il mondo arabo non si impunta per contendersi Gerusalemme, i confini restano quelli di oggi senza tirare più in ballo quelli precedenti la guerra dei Sei Giorni del 1967, e i profughi del 1948 in Libano e Giordania restano dove stanno. L’accordo - ammesso che il presidente Joe Biden voglia mantenerlo - prevede una pioggia di soldi sulla Cisgiordania di Abu Mazen, sempre più corrotta e dipendente dagli aiuti internazionali: 50 miliardi di dollari in investimenti stranieri per i prossimi dieci anni, assieme alla promessa d’un Pil raddoppiato entro il 2030, d’un milione di posti di lavoro, della povertà ridotta del 50%, d’un export schizzato dal 17 al 40% del Pil, d’un ranking della Banca mondiale pari a quello del Qatar. L’avanzata degli insediamenti - Non è detto che i soldi bastino. E basti un accordo disegnato a tavolino nel 2020, peraltro senza i palestinesi. Il pericolo d’una Terza Intifada, se mai scoppierà, è legato a quel che s’è mosso in questi anni di tregua armata. Il complotto di corte contro il re di Giordania - che in aprile ha portato all’arresto del fratellastro del sovrano Abdallah, sospettato di voler rovesciare una famiglia regnante dove la regina (Rania) è una palestinese - anche questo rientra nei timori d’un allargamento della questione palestinese, dove i profughi dalla Cisgiordania sono il 70%. Il sogno d’Abramo rivela i suoi limiti. Due dei tre Paesi che hanno aderito - Emirati, Bahrein - hanno già protestato per le bombe su Gaza. E intanto nei Territori palestinesi non s’è fermata la sistematica violazione dei diritti umani, assieme alla politica degli espropri e degli insediamenti illegali d’Israele. “Più che coi nemici, mi sembra di trattare con agenti immobiliari”, un giorno ironizzò amaro il negoziatore palestinese Saeb Erekat, calcolando il tempo a favore delle betoniere che costruiscono insediamenti: nel 2025, i coloni saranno più di 700mila. Un settimo della popolazione palestinese in Cisgiordania. A quel punto sarà la geografia, prima di qualsiasi guerra con Hamas, a impedire definitivamente la nascita di uno Stato palestinese. E l’Europa - Piccola postilla. C’era una volta la Ue, che si batteva per il rispetto degli accordi di Oslo. “Ormai il conflitto coinvolge più gli euro che l’Europa”, disse il famoso mediorientalista, Nathan Brown. E infatti ci laviamo la coscienza finanziando l’Autorità palestinese, che senza i nostri soldi non vivacchierebbe: abbiamo evitato di disturbare il manovratore politico, finché era solo l’America, ma i giochi adesso possono farsi più complessi. Le guerre, più dure. E agli europei si chiederebbe un ruolo diverso. Guatemala. 7 detenuti uccisi in carcere di Chiara Gentili sicurezzainternazionale.luiss.it, 21 maggio 2021 Almeno 7 detenuti sono morti, la maggior parte dei quali decapitati, in scontri tra bande rivali all’interno della prigione di Cantel, a Quetzaltenango, nell’Ovest del Guatemala. Centinaia di poliziotti sono stati schierati per ristabilire l’ordine nella struttura carceraria, che ospita sia membri della banda Mara Salvatrucha sia i loro rivali del Barrio 18. I decessi sono stati registrati a seguito delle violenze avvenute mercoledì 19 maggio. “In via preliminare, è nota la morte di 7 detenuti”, ha riferito in un comunicato il Ministero dell’Interno, definendo l’episodio una “sommossa”. Il bilancio è stato confermato dalla Procura, il cui personale è riuscito ad accedere alla prigione, situata a 205 chilometri dalla capitale. Un portavoce della Polizia Civile Nazionale (PNC), Jorge Aguilar, ha precisato all’agenzia di stampa Agence France Presse che la violenza sarebbe stata causata da uno scontro tra due bande rivali e che almeno 6 prigionieri sarebbero stati decapitati. Le autorità sospettano che una delle bande abbia attaccato l’altra per vendicarsi di un incidente passato, avvenuto alcuni giorni fa, ha aggiunto Aguilar. La violenza tra bande e le sommosse sono comuni nella prigione di Cantel, criticata da diversi gruppi per la difesa dei diritti umani a causa delle sue condizioni difficili. Costruita per ospitare 500 detenuti, al momento ne contiene un numero quattro volte superiore, pari a circa 2.000 persone. Le bande guatemalteche sono note per i racket e le estorsioni, con le quali costringono uomini d’affari e piccoli imprenditori a pagare per la loro protezione. In caso contrario, rischiano di essere uccisi. I gruppi criminali del Guatemala sono responsabili di quasi la metà delle 3.500 morti violente registrate all’anno nel Paese. Si tratta di uno dei più alti tassi al mondo. Il Guatemala sta ancora cercando di riprendersi da un conflitto civile durato circa 36 anni. La guerra si concluse nel 1996 e contrappose gli insorti di sinistra, per lo più Maya, al governo, che, sostenuto dagli Stati Uniti, intraprese una dura campagna per eliminare i guerriglieri. Più di 200.000 persone, la maggior parte civili, sono state uccise o sono scomparse negli anni degli scontri. Il Paese possiede ancora oggi una forte cultura indigena. Tuttavia, i Maya, pur costituendo circa la metà della popolazione, sono costretti ad affrontare situazioni di profonda disuguaglianza, come testimoniato da vari gruppi di attivisti per i diritti umani. La nazione rappresenta poi un importante corridoio per il contrabbando di droga. A livello politico, una recente crisi ha scosso la presidenza di Alejandro Giammattei, leader conservatore eletto a capo di Stato nel gennaio 2020. Il 20 novembre dello scorso anno, ampie proteste erano esplose contro il suo governo dopo l’approvazione di un bilancio controverso relativo all’anno 2021 che prevedeva, tra le altre cose, tagli alla spesa per l’istruzione e la salute. In particolare, i manifestanti ritenevano che i legislatori guatemaltechi avessero negoziato e approvato il bilancio in segreto e che avessero approfittato della distrazione causata dalle conseguenze della diffusione del coronavirus e dell’arrivo degli uragani Eta e Iota nel Paese centro-americano. Oltre a questo, i manifestanti lamentavano anche recenti mosse della Corte Suprema e del procuratore generale che, a loro dire, avrebbero ostacolato la lotta alla corruzione. La popolazione aveva dunque iniziato ad esprimere il proprio malcontento sulle piattaforme dei social media, per poi ritrovarsi in strada, dove si erano verificati i primi scontri. Le proteste avevano raggiunto il culmine il 21 novembre, con l’incendio del Parlamento e l’aperta contestazione al presidente Giammattei da parte del suo stesso vicepresidente. Tuttavia, gli analisti avevano attribuito le cause del dissenso non solo alla legge di bilancio e alla concentrazione di potere nelle mani del presidente, ma anche ad una tensione che covava nel Paese da almeno cinque anni. La democrazia nata dalla fine della guerra civile, nel 1996, è sempre stata debole, ma l’escalation delle recenti tensioni andava ricondotta soprattutto ad una crisi politico-giudiziaria che si trascinava dal 2015. Cinque anni fa, a seguito di indagini da parte delle Nazioni Unite, era venuta alla luce una serie di atti di corruzione che legavano le autorità doganali del Paese centroamericano a politici e narcotrafficanti, coinvolgendo direttamente l’allora presidente Otto Pérez Molina, arrestato a settembre del 2015, e il suo successore, Jimmy Morales, nonché familiari e collaboratori dei due ex-presidenti e di numerosi politici di primo piano. Già allora iniziarono alcune proteste contro la corruzione nel Paese e a sostegno del lavoro del Procuratore speciale contro l’impunità, che aveva indagato sulle irregolarità, e della Commissione internazionale contro l’impunità in Guatemala (Cicig).