Lasciate in pace Falcone: il suo ergastolo ostativo non vietava i benefici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 maggio 2021 Nella proposta di legge dei 5S sulla liberazione condizionale ai non collaboranti si vorrebbero accentrare le decisioni al tribunale di sorveglianza di Roma, snaturando il principio del giudice naturale. Giovanni Falcone viene tirato puntualmente per la giacchetta. Lo si fa quando si parla di “terzo livello”, laddove il giudice in realtà ne stigmatizzò la teoria, parlando di una mafia che non si fa eterodirigere. Così come lo si fa quando si parla dell’ergastolo ostativo: Falcone aveva previsto la possibilità di concedere i benefici penitenziari anche al detenuto che decide di non collaborare con la giustizia. Falcone viene tirato nuovamente in ballo dai parlamentari del M5S, in particolare dal deputato e ex sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, dal capogruppo in commissione Eugenio Saitta e dal senatore dell’Antimafia Marco Pellegrini. Lo hanno citato per presentare la loro proposta di legge sulla concessione della liberazione condizionale ai non collaboranti, dopo che la Consulta ha dato un anno di tempo affinché il Parlamento intervenga per ridisegnare l’ergastolo ostativo, premettendo che la preclusione assoluta ai benefici è incostituzionale. L’ex guardasigilli Alfonso Bonafede ha così esordito: “Non possiamo permetterci che l’impianto normativo fortemente voluto da Giovanni Falcone per contrastare l’azione delle mafie venga gravemente indebolito”. La Consulta ha riportato l’ergastolo ostativo vicino alle intuizioni di Falcone - In realtà, le recenti sentenze della Consulta hanno esattamente riportato l’ergastolo ostativo proprio vicino all’intuizione di Falcone. Se si vuole onorare la sua memoria, bisogna evitare di manipolare il suo pensiero e le sue azioni. Basterebbe approfondire il decreto legge ideato da Falcone quando, appunto, è stato introdotto per la prima volta il 4 bis nell’ordinamento penitenziario. Nella prima formulazione, quella di Falcone, l’articolo 4 bis prevedeva una semplice differenziazione del regime probatorio per accedere ai benefici penitenziari. Esso, infatti, raggruppava i delitti in “due distinte fasce”: nella prima rientravano i delitti ritenuti di certa riferibilità al crimine organizzato; nella seconda, invece, quelli di elevata gravità, ma non direttamente riferibili a tale genere criminale. Nel primo caso si poteva accedere alle misure alternative soltanto se fossero stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”. Viceversa, per i delitti di seconda fascia, l’accesso alle misure alternative e ai benefici penitenziari era condizionato al semplice rilievo oggettivo dell’assenza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata. I paletti per l’ergastolo ostativo ci sono e sono rigidissimi - Ora i grillini, in nome di Falcone, vorrebbero arginare la sentenza della Consulta introducendo dei paletti. In realtà ci sono già e sono rigidissimi. Basterebbe osservare che la concessione dei permessi premio per i non collaboranti, sono numeri da prefisso telefonico. Attualmente, per concedere benefici ai non collaboranti, non si valuta solo la semplice buona condotta penitenziaria, visto che si tratta di un prerequisito minimo per ogni detenuto per qualunque reato. Nei confronti dei detenuti ostativi si effettua una osservazione che deve riguardare invece la riflessione critica sui fatti di reato, il suo atteggiamento verso le vittime e verso lo stile di vita che a suo tempo aveva abbracciato. La stessa nozione di buona condotta deve comprendere un focus sui comportamenti specificamente tenuti: ad esempio l’abbandono nel tempo di atteggiamenti prevaricatori o di pressione su detenuti che abbiano magari un livello criminale più basso. O il mantenimento di uno stile di vita ancora rappresentativo di quegli approcci: ad esempio il rifiuto di lavori semplici e umili, come quelli spesso disponibili in carcere. Vengono già fatte delle valutazioni serie e scrupolose - Diventa inoltre importante valutare le rimesse in denaro che arrivano dai famigliari e gli acquisti che si fanno al sopravvitto. Si può verificare cosa succede alle famiglie sui territori, cioè se vi siano ancora degli stili di vita incompatibili con i redditi dichiarati. Naturalmente a questo poi si aggiunge una valutazione particolarmente seria, che riguarda i profili di pericolosità sul territorio, attraverso le informazioni che arrivano sull’operatività dei gruppi criminali di riferimento. L’accentrare le decisioni fa venire meno il principio del giudice naturale - Forse il Movimento 5Stelle dovrebbe aggiornarsi, magari sentire i magistrati di sorveglianza per informarsi e proporre con cognizione di causa una legge. Invece, nella loro proposta di legge, vogliono accentrare tutte le decisioni al tribunale di sorveglianza di Roma. Senza rendersi conto, non solo delegittimano i magistrati di sorveglianza, ma la previsione di un accentramento confligge con il principio costituzionale del giudice naturale. Per altro allontanerebbe il giudice dalla conoscenza della persona, che è invece fondamentale per apprezzarne le evoluzioni nel tempo. Il disegno di legge grillino sul 4-bis, tra errori e pasticci di Giovanni Guzzetta Il Riformista, 20 maggio 2021 Gli stellati vincolano la concessione del beneficio al risarcimento dei danni per le vittime: folle che debba valere solo per chi non collabora. In secondo luogo, affidano la decisione alla Dna, che dovrebbe decidere anche su cose che non c'entrano con la mafia. Bieca propaganda. La Corte costituzionale, al momento di adottare l'ordinanza sull'ergastolo ostativo, aveva auspicato una leale collaborazione istituzionale, sembra difficile dire che i parlamentari del M5S ne abbiano compreso interamente lo spirito. La conferenza stampa di presentazione del disegno di legge (che attendiamo di leggere nei dettagli) con il quale il movimento intenderebbe “rispondere” alla decisione della Consulta non convince per molti aspetti e, a dire il vero, come collaborazione istituzionale sembra assai poco “leale”. La questione non è ovviamente che si stabilisca una disciplina speciale per la concessione dei benefici agli ergastolani “non collaboranti”. Su questo anche la Corte è stata chiara nel sottolineare la necessità “dell'acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del loro futuro ripristino”. Il problema è invece se, appunto, il meccanismo proposto sia “congruo” (come vuole la Corte) e se bastino queste proposte per dare pienamente attuazione all'invito che proviene dal giudice delle leggi. Cominciamo dalla congruità. A quanto si comprende per il M5S le condizioni per la concessione dei benefici penitenziari sono tre: a) che il condannato abbia adempiuto integralmente alle obbligazioni civili (sostanzialmente, al risarcimento del danno alle vittime); b) che il giudice di sorveglianza chieda un parere al Procuratore Nazionale Antimafia e ad altri soggetti; c) che la decisione sia comunque centralizzata presso il Tribunale di Sorveglianza di Roma e sottratta a quelli periferici. Il primo requisito appare illogico e contraddittorio. Non si comprende perché l'adempimento delle obbligazioni civili dovrebbe valere solo per i non collaboranti e non anche per i collaboranti. Inoltre se la finalità è quella di verificare che non ci siano legami economici con la criminalità, il fatto di aver pagato i risarcimenti non prova nulla, anzi. Quanto al parere del Procuratore Nazionale Antimafia, può anche essere, in alcuni casi, una buona idea, purché però non sia un aggravio che si aggiunge puramente e semplicemente ai tanti pareri che già oggi vengono richiesti (e su cui spesso il giudice di sorveglianza rischia di appiattirsi senza fare una valutazione propria). Con il solo effetto di allungare spropositatamente i tempi della concessione del beneficio. Infine l'accentramento al Tribunale di sorveglianza di Roma è, come è stato già autorevolmente detto, in frontale contraddizione con l'istituto della “sorveglianza”, il quale impone una prossimità del giudice alle vicende carcerarie del condannato. Accentrare la competenza in un unico ufficio nazionale, avrebbe solo l'effetto di intasare il Tribunale di Roma, rendendo più difficile l'acquisizione di tutti quegli elementi sulla condotta del condannato che devono essere alla base dello specifico e rigoroso accertamento del giudice. Ma il difetto di fondo di tali proposte è che esse esprimono un approccio sospettamente parziale e ignorano l'ampiezza della motivazione della Corte costituzionale. Quest'ultima, infatti, non si è limitata a rimettere alla discrezionalità del legislatore la valutazione dell'eventuale aggravio di accertamenti per il caso degli ergastolani non collaboranti, essa ha anche messo in luce ulteriori profili altrettanto cruciali della disciplina. Il primo è che l'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario è una disposizione che comprende “anche reati diversi, relativi alla criminalità terroristica, ma anche delitti addirittura privi di riferimento al crimine organizzato, come i reati contro la pubblica amministrazione o quelli di natura sessuale”. Nel prevedere le misure per la concessione dei benefici - dice la Corte - non si può non considerare questo dato. Pensando, dunque, alla precipitosa proposta dei Cinquestelle, cosa c'entra il parere del Procuratore Antimafia con i reati non riconducibili alla criminalità organizzata? Inoltre la Consulta ha messo in evidenza che una delle ragioni che impedivano di dichiarare immediatamente l'incostituzionalità dell'ergastolo ostativo nasceva dagli effetti irragionevoli e persino paradossali che una tale pronunzia avrebbe determinato. La sentenza della Corte, infatti, avrebbe colpito solo il divieto di concessione della libertà condizionale, ma gli altri possibili benefici, anche se meno allarmanti, sarebbero comunque rimasti preclusi. Sarebbe stato, cioè, di fatto “inibito l'accesso alle altre misure alternative - lavoro all'esterno e semilibertà - cioè proprio alle misure che invece normalmente segnano, in progressione dopo i permessi premio, l'avvio verso il recupero della libertà”. Se i parlamentari volessero effettivamente collaborare lealmente con la Corte costituzionale, di questi ulteriori problemi dovrebbero farsi carico, con onestà intellettuale e finezza giuridica. Finezza e onestà intellettuale che appartenevano certamente a Giovanni Falcone, strattonato anche post-mortem e brandito come icona da professionisti dell'antimafia. Solo immaginare che Egli avrebbe approvato interventi cosi grossolani e propagandistici, tranquillamente ignari dei principi di civiltà giuridica a cominciare dalla garanzia del diritto di non auto-accusarsi, cigni fica non aver capito molto della sua statura umana e professionale e del significato del suo sacrificio. La galera senza speranza dei pedofili di Claudia Osmetti Libero, 20 maggio 2021 Devono essere protetti anche dagli altri carcerati: anche il minimo spostamento è un rischio. Ora d’aria a orari diversi, laboratori e pratiche sportive impossibili: un isolamento senza fine “Quelli si faranno una brutta galera”: così si dice, quando ci si trova di fronte a crimini particolarmente odiosi. Frase in genere seguita da quell’altra, “vanno sbattuti dentro per poi buttar via la chiave”. Che poi, in un certo senso, è pure quello che succede. Quelli che, con espressione anglofona, oggi vengono definiti sex offenders - e dunque stupratori, autori di reati sessuali a vario titolo, in massima parte pedofili - è come se venissero condannati due volte. Prima all'interno dell'aula di tribunale. Poi dentro la stessa prigione. Premessa importante: nessuno, qui, intende in alcun modo giustificare personaggi di tal fatta. I loro sono i crimini più inaccettabili, più incivili che ci siano. Prendiamo il recente caso del ragazzo romeno che, martedì scorso, ha confessato di aver violentato e ucciso di botte la figlioletta della compagna, 18 mesi appena, a Como. Un essere abietto. Un orco. Siamo tutti d'accordo. E che cosa succede a quelli come lui, una volta che le sbarre della cella si chiudono, l'eco mediatica si spegne e il giudice di turno infligge la pena? Perché, signori, l'altro presupposto altrettanto necessario da ricordare è che lo Stato fa giustizia, non fa il giustiziere. E quando manda in galera qualcuno dovrebbe garantire un percorso di riabilitazione. Anche se si tratta del più infimo tra gli assassini. “Per chi commette reati di carattere sessuale sono previste sezioni dedicate speciali, in modo da tenere lontani questi soggetti dagli altri detenuti che potrebbero aggredirli in maniera anche grave” spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell'osservatorio Antigone, l'associazione che da anni monitora quel che avviene negli istituti penitenziari d'Italia. C'è una sorta di “codice d'onore”, tra i carcerati: non tutti i crimini sono uguali e chi tocca un bambino la paga cara. “Addirittura basta un trasferimento. Se un detenuto in regime speciale viene spostato, magari perché deve presenziare a un'udienza, l'amministrazione penitenziaria deve prestare particolare attenzione durante l'operazione, perché è tutt'altro che raro che si verifichino lanci di oggetti, minacce, aggressioni verbali a volte sfociate in vere e proprie aggressioni fisiche”. Ragion per cui, tolti i casi eccezionali, fuori dal braccio speciale i pedofili non si muovono. Per nessun motivo. La mensa? Niente, ricevono i pasti direttamente in cella. Per loro sono banditi i laboratori, quelli nei quali i detenuti imparano un mestiere o proseguono quello che magari facevano “fuori”. Devono dunque scordarsi le varie attività, lavorative e anche sportive o ludiche. L'ora d'aria è garantita soltanto grazie a un proprio passeggio che accede al cortile, e con un turno rigorosamente staccato dal resto della struttura. Distaccati dalla società “di fuori” ma anche da quella “di dentro”. In poche parole, vivono del tutto isolati. Per anni e anni. Certo, se vogliono possono leggere, studiare. Più o meno è tutto. “Alcuni di loro riescono anche a procurarsi dei lavoretti interni, ma sempre limitati alla propria sezione” continua l'esperto. “Fondamentalmente queste persone trascorrono l'intero arco della loro pena a non fare nulla - aggiunge Rita Bernardini del Partito Radicale. Restano chiusi nei loro spazi protetti e, anche se il carcere può contare su opifici e officine, come una falegnameria, per loro rimane inaccessibile. E hanno anche difficoltà pratiche e oggettive a relazionarsi con i volontari e chiedere colloqui con gli esterni”. Altra questione: i pedofili, a differenza dei detenuti comuni, rimangono al gabbio il più a lungo possibile, pressoché senza permessi. “Raramente ottengono misure alternative, sconti e premi per la buona condotta - spiega ancora Scandurra. E come se il sistema si rendesse conto di non poter fare più di tanto e, quindi, li tenesse dentro fino all'ultimo secondo”. Ripetiamo, a scanso di equivoci: dire tutto questo non vuol dire minimizzare la gravità dei crimini, ma non deve neanche diventare l'alibi per dimenticare che uno Stato di diritto si fonda, appunto, sul diritto, non sulla vendetta. Nelle sezioni speciali, tra l'altro, non ci sono solo loro, ma tutti quei soggetti “a rischio”: ex appartenenti alle forze dell'ordine, “collaboratori di giustizia” e poi, come detto, predatori sessuali in genere. La fetta maggiore e più significativa, però, è proprio quella legata ai reati violenti che coinvolgono i minori. Abusi che gli altri carcerati non sono disposti a tollerare e - è successo - in alcuni casi nemmeno le guardie: ovvio, poi scattano le inchieste, le indagini e intervengono le procure. Per fare un esempio, a Torino è in corso un procedimento contro sei agenti penitenziari accusati di ripetuti atti di violenza e tortura nei confronti dei detenuti, in particolare quelli che in carcere perché accusati di reati sessuali o nei confronti di minori. Peraltro, una fotografia di quanti ce ne siano, al momento, nelle patrie galere è difficile anche solo da scattare: qualche anno fa - si parla del 2016 - si contavano 1.332 sex offenders, tra loro 400 stranieri e (sorpresa) anche 98 donne. Prima l’incontro con i 5 Stelle, poi Cartabia cambierà la prescrizione di Errico Novi Il Dubbio, 20 maggio 2021 Ritorno alla “legge Orlando” sgradito a Bonafede, ma la riforma “processuale” dell’istituto è problematica. Ancora pochi giorni. Poi la ministra Marta Cartabia depositerà formalmente i propri emendamenti sul processo penale, prescrizione inclusa. Non si accelera oltre il dovuto. Anche perché è chiaro che la proposta della guardasigilli sulla norma Bonafede finirà per diventare il passaggio più delicato per le riforme della giustizia. Non che la legge delega sul Csm, sempre all’esame della Camera, e la riforma del processo civile, incardinata viceversa a Palazzo Madama, siano irrilevanti, intendiamoci. E anzi, il ddl civile è il vero cuore delle riforme di sostegno al Recovery. Di più: è il dossier sul quale più si farà sentire la voce critica dell’avvocatura: è stato netto l’allarme su uno sbilanciamento verso la presunta celerità a scapito delle garanzie lanciato nei giorni scorsi dal Cnf, a cui si sono uniti l’Ocf, l’Unione Camere civili e altre realtà associative come Movimento forense. Ma nulla più della prescrizione può mettere in pericolo la maggioranza, o almeno la serenità dei suoi leader. E così, nel rispetto di chi dissente, la ministra della Giustizia incontrerà il Movimento 5 Stelle per un ulteriore confronto sul ddl penale almeno qualche giorno prima di depositare alla Camera gli emendamenti di via Arenula. Il colloquio è previsto per la settimana prossima: data da stabilire con precisione, ma l’appuntamento chiesto da Giuseppe Conte è già in programma. Dopo, a cavallo tra la fine della prossima settimana e l’inizio della successiva, arriveranno nella commissione Giustizia di Montecitorio le proposte di modifica studiate dalla commissione sul penale che Cartabia ha istituito al ministero, e che è guidata da Giorgio Lattanzi. Ieri il 5 stelle Mario Perantoni, che della commissione Giustizia è presidente, ha fatto sapere che degli oltre 700 emendamenti al ddl penale depositati nei giorni scorsi dai deputati, 81 sono risultati inammissibili: l’esclusione, spiega, ha riguardato le proposte “non connesse ai temi della prescrizione e della velocizzazione, efficientamento e deflazione del processo penale. Entro lunedì”, ha aggiunto, “sarà possibile presentare ricorsi che saranno discussi mercoledì della prossima settimana”. La tabella di marcia conferma come sia necessaria una decina di giorni perché, dopo l’incontro con i 5 Stelle, Cartabia possa depositare a Montecitorio i propri emendamenti. Ritorno alla legge “Orlando” più indigesto per i 5S, ma l’alternativa è difficile - Sulla prescrizione, com’è noto, sono due le proposte descritte una settimana fa ai capigruppo di maggioranza dalla commissione Lattanzi. Una è di carattere “sostanziale”, ripristina cioè la prescrizione del reato anche dopo le sentenze di primo grado, incluse quelle di condanna, fatta salva una sospensione di due anni in appello e di un anno in Cassazione. Tempo “congelato” che però rientra nel conteggio qualora entro le stesse scadenze (due anni in appello e un anno in Cassazione) non arrivi effettivamente la sentenza. L’altra ipotesi, articolatissima e complicata, è invece di carattere “processuale”, cioè fa addirittura scomparire con la richiesta di rinvio a giudizio il termine di estinzione del reato, ma poi, già per il primo grado, fissa un limite di durata per ciascuna fase del giudizio oltre il quale interviene l’”improcedibilità”: il processo appunto decade. Il Movimento 5 Stelle è critico su qualsiasi modifica della prescrizione di Bonafede. Ne ha parlato persino Conte nella videocall di domenica scorsa con deputati e senatori grillini, lo ha ribadito il capogruppo pentastellato nella commissione Giustizia Eugenio Saitta. Ed è chiaro che il ritorno di fatto alla legge Orlando sa di sconfitta, per i grillini, perché dà l’impressione che la loro legge resti una parentesi da cancellare brutalmente. Dal punto di vista del Movimento, lo schema della proposta processuale di Lattanzi non ripristina, almeno, la norma dell’ex guardasigilli Orlando. Ma dal punto di vista della commissione guidata da Lattanzi, la seconda ipotesi è molto più impegnativa: anche perché, se una norma, come sarebbe in quel caso, è processuale anziché sostanziale, ne è pregiudicata l’efficacia retroattiva. Andrebbe dunque chiarito, con un ulteriore intervento legislativo, a quali processi applicare il nuovo regime della “prescrizione processuale” e a quali no, con non pochi rischi di un rinvio alla Consulta innescato dagli imputati non “coperti” dalla neo-introdotta disciplina. Una situazione insomma non semplice, meno lineare. Ma come si fa a rendere accettabile, per i Cinque Stelle, il ripristino della riforma Orlando? Cartabia per ora non si sbilancia. Non lascia filtrare preferenze per una delle due soluzioni prospettate da Lattanzi. A via Arenula però si confida che tutti i partiti colgano l’urgenza del Recovery e delle riforme che lo accompagnano, e che in virtù di quell’urgenza si stemperino le contrapposizioni, le fughe in avanti e anche le resistenze. Vedremo. Carriere separate già al concorso, sostegno dei garantisti a Costa - Al question time di ieri la guardasigilli ha previsto un termine anche per il lavoro della commissione ministeriale impegnata sulla riforma della magistratura onoraria: “Verosimilmente terminerà i lavori il 25 giugno”. Prima ancora si comprenderà anche il respiro di ipotesi come quella sul sorteggio per eleggere i togati al Csm, rilanciata da Matteo Renzi “per disperazione” due sere fa a “Porta a porta”. Il termine per emendare il ddl sui magistrati scade lunedì. Ieri, in un’intervista a questo giornale, il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa ha prospettato l’idea di pagelle per i magistrati. E sempre ieri, il deputato ed ex viceministro ha ottenuto l’appoggi di Forza Italia, Lega, Italia viva e + Europa sulla proposta di vincolare, già nel Dl Covid, i candidati al concorso in magistratura a scegliere se vogliono fare carriera da pm o da giudici. Difficile in realtà che la conversione del decreto possa subire pur minime modifiche. Probabile che la proposta di Azione e del “fronte garantista” si traduca in un ordine del giorno, riferibile ai futuri concorsi, sul cui esito sarà interessante verificare la posizione del governo. Ma per quanto il ddl sul Csm offra spunti per tante variabili, mai potrà tenere sulla corda la guardasigilli come la norma sulla prescrizione di cui i 5 stelle sono così gelosi. “Carriere separate per le toghe”. E la norma divide la maggioranza di Liana Milella La Repubblica, 20 maggio 2021 Tutto il centrodestra, più Italia Viva, firma l’emendamento di Costa di Azione che impone a chi affronta il concorso in magistratura di scegliere subito se vuole fare il pm o il giudice. E adesso rispunta la separazione delle carriere. Come anticipato lunedì da Repubblica, si materializza alla Camera l'emendamento di Enrico Costa di Azione che impone a chi si presenta per il concorso in magistratura di scegliere subito se vuole fare il pm o il giudice. Naturalmente una proposta del genere viene subito “acchiappata” da tutto il centrodestra. Nonché da Italia viva. Così l'emendamento di Costa viene firmato subito anche da Riccardo Magi di Più Europa, nonché da Riccardo Turri della Lega con il pieno consenso di Giulia Bongiorno, da Catello Vitiello di Italia viva e da Pierantonio Zanettin di Forza Italia. Scontato che la proposta sia condivisa anche da Fratelli d'Italia. E così, per l'ennesima volta, si materializza di nuovo l'endemica spaccatura tra destra e sinistra nel governo che rischia di mettere in crisi le prossime riforme sulla giustizia. Di fatto, per la ministra Marta Cartabia non c'è pace. La mossa di Costa - Deputato con Forza Italia dal 2006, sottosegretario alla Giustizia e poi ministro per gli Affari regionali, il cuneese Enrico Costa, figlio d'arte - suo padre è stato il leader liberale Raffaele Costa - maneggia con abilità ed esperienza tutti i trucchi parlamentari. Tra cui sicuramente il gioco degli emendamenti e degli ordini del giorno. Con obiettivi fissi, da avvocato qual è, pretende una giustizia “giusta” e garantista. Passato con Carlo Carlo Calenda ad agosto dell'anno scorso, Costa sta trascinando la destra della maggioranza sulla giustizia. È stato così, nell'ordine, sul recepimento della direttiva Ue sulla presunzione d'innocenza, sull'obbligo per il pm di ottenere anche il via libera del gip sui tabulati telefonici, adesso sulla separazione delle carriere. Che fa Costa? Sfrutta i provvedimenti che arrivano in aula. Come nel nostro caso. Dal Senato giunge il decreto sulla nuova formulazione dei concorsi per la magistratura in tempi di pandemia. Marta Cartabia, per uscire dall'impasse dei rinvii delle prove, propone una procedura più rapida. Il candidato, anziché affrontare tre prove scritte, diritto penale, diritto civile, diritto amministrativo, potrà scegliere due prove su tre. A questo punto che s'inventa Costa? Che il destino potrebbe giocare un brutto scherzo al futuro pubblico ministero. “Potrebbe verificarsi un paradosso - scrive Costa nella premessa al suo emendamento - ovvero che un futuro pubblico ministero non abbia svolto e non sia stato giudicato sulla prova scritta di diritto penale”. Oplà! E allora? Il nostro stabilisce che “tra le prove concorsuali scritte che devono sostenere i candidati che intendono accedere alla funzione requirente, debba essere inclusa necessariamente quella di diritto penale”. E qual è la strada? Semplice, “il candidato deve integrare la domanda di partecipazione al concorso, dichiarando a pena di inammissibilità se intende accedere a posti nella funzione giudicante ovvero a quelli nella funzione requirente”. Che è come dire, entra nell'ordinamento dalla finestra la separazione delle carriere, per la quale invece sarebbe assolutamente necessaria una modifica costituzionale, visto che la nostra Carta prevede un ordine unico. Invece il furbo Costa che fa? Scrive quanto segue: “L'indicazione fatta dal candidato nella domanda di partecipazione al concorso costituisce, al momento dell'attribuzione delle funzioni, titolo preferenziale per la scelta della sede di prima destinazione e tale scelta, nei limiti delle disponibilità dei posti, avviene nell'ambito della funzione prescelta”. L'entusiasmo di Iv e della destra - Costa mostra l'emendamento ai suoi colleghi, il forzista Zanettin, il leghista Turri, Vitiello di Iv, e subito tutti firmano. Voci raccontano che a essere spiazzato sarebbe il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, recentemente rimproverato dalla Guardasigilli Cartabia per le sue troppe ed entusiastiche interviste in cui dà per scontato che la riforma della giustizia stia virando a destra. Tra lo sconcerto di M5S, che giusto ieri ha chiesto l'incontro bilaterale alla ministra a cui potrebbe partecipare anche Giuseppe Conte, e il Pd costretto a schierarsi con M5S contro le continue pretese super garantiste della destra che rischiano di squilibrare tutta la riforma della giustizia. Un emendamento inammissibile? In realtà il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni - di fronte all'emendamento di Costa e soci - potrebbe giocarsi una carta, quella dell'inammissibilità. Perché contiene di fatto un vulnus costituzionale. Non solo. È chiaro che il decreto sui concorsi non può logicamente diventare la sede per discutere una questione monumentale come la separazione delle carriere. Al massimo, la richiesta di Costa potrebbe diventare un ordine del giorno in sede di voto in aula. Senza considerare che il decreto sui concorsi è chiaramente legato all'emergenza Covid, quindi, a regime, le prove scritte per le future toghe resteranno sempre tre. Un ultimo ostacolo è quello dell'urgenza, perché il decreto risponde all'esigenza - com'è già avvenuto per gli avvocati - gli espletare le procedure concorsuali nel più breve tempo possibile. Un ulteriore passaggio al Senato del decreto per una nuova lettura ne rallenterebbe l'iter. Una zeppa in vista della riforma del Csm - Ma è fin troppo evidente che l'emendamento di Costa guarda alla prossima settimana e agli emendamenti che scadono già lunedì per la riforma del Csm e dell'ordinamento giudiziario. È la terza riforma importante sulla giustizia, dopo quella del penale e del civile. È anche quella che contiene la nuova legge per eleggere il futuro Csm, nonché le regole contro il correntismo. Insomma, forse, dal punto di vista della credibilità morale di un’istituzione come il Csm e della magistratura stessa, è la riforma più importante tra quelle in discussione. Ebbene, l'emendamento di Costa sulle carriere punta proprio all'assetto futuro della magistratura, in cui cada, o sia ridotta al minimo, la possibilità di passare da una carriera all'altra. Ma è altrettanto certo che sugli emendamenti, in commissione Affari costituzionali dov'è in calendario il decreto sul concorso in magistratura, domani si andrà a uno scontro sulla possibilità di votare quello proposto da Costa e sottoscritto dagli altri partiti. Una dinamica tipica per gli emendamenti, come dimostra il caso della “potatura” del presidente Mario Perantoni, di M5S, questa volta in commissione Giustizia, sui 721 presentati alla riforma penale. Il presidente annuncia di averne “potati” 80 perché “non sono connessi ai temi della prescrizione e della velocizzazione, efficientamento e deflazione del processo penale”. I gruppi possono fare ricorso entro venerdì. Giovedì prossimo invece, sempre in commissione Giustizia, sarà sentito l'ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, questa volta nella veste di presidente del gruppo di lavoro cui Cartabia ha affidato lo studio degli emendamenti da presentare al processo penale. Referendum dei Radicali e della Lega per la Giustizia giusta di Michele Gelardi L'Opinione, 20 maggio 2021 Stanno venendo al pettine, uno dopo l’altro, i nodi della giustizia italiana. La Corte europea per i Diritti dell’Uomo si accorge che il processo a Silvio Berlusconi forse non è stato equo. Forse, ma solo per caso, c’è stato accanimento giudiziario. Ovviamente, non per ragioni politiche, bensì per fatale congiuntura astrologica. Quella stessa fatalità, che ha indotto il pubblico ministero Luca Palamara a definire “necessario” il processo penale a carico di Matteo Salvini, per quanto fossero chiare l’inconsistenza e la strumentalità dell’accusa, in relazione a un atto di Governo pienamente legittimo. Che il Governo d’Italia fosse ostaggio di una Magistratura politicamente orientata, fino al punto da sottoporre a processo penale gli atti del Consiglio dei ministri, gli sembrava del tutto naturale. Cosa c’era di strano? D’altronde, il suo predecessore Antonio Di Pietro, da magistrato vincolato al rispetto delle leggi, aveva minacciato di “togliersi la toga”, pur di non applicare una legge dello Stato, ossia il decreto-legge Conso entrato già in vigore. E l’insubordinato, autoproclamatosi legibus solutus, non era stato invitato a togliersi la toga, bensì applaudito, coccolato e accontentato. Dunque, ciò che non è mai accaduto in alcuna parte del mondo - ossia l’esplicito atto di prevaricazione dell’ordine giudiziario sul potere politico - in Italia è divenuto normale. I fondamenti dello Stato di diritto sono stati stravolti e nessuno se n’è scandalizzato. Almeno fino a ieri. Forse oggi qualcosa è cambiato. La scoperta del “sistema” Palamara; la squallida vicenda dei fascicoli giudiziari, originati dalle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara sulla “loggia Ungheria”, che rimpallavano su tavoli inappropriati, pronti a essere usati per fini di dossieraggio non istituzionali; lo scandalo della dottoressa Silvana Saguto, campionessa dell’antimafia, si presume personalmente coinvolta negli interessi, economici e relazionali, ruotanti intorno alle amministrazioni giudiziarie, da lei insediate e controllate; hanno aperto gli occhi agli italiani. È divenuto chiaro che la più grande “ammalata” d’Italia è proprio la “Giustizia”. Nel cortocircuito istituzionale, innescato dalla prevalenza de facto dell’ordine giudiziario sul potere politico, abbiamo tutti da perdere qualcosa. Non perde solo la politica, perde in primo luogo la nostra convivenza. Basta riflettere su un dato: in fin dei conti, la potestas del pubblico ministero (la vera anomalia italiana) non consiste nell’esercizio della facoltà di fare, bensì di impedire. Se tale potere si estende a dismisura, prevale il “non fare”, piuttosto che il “fare”. L’interdizione esercitata sull’attività di Tizio paralizza altresì quella di Caio (il quale ha paura di incappare nella stessa sorte di Tizio). A distanza di tanti anni, si scoprirà magari che Tizio è colpevole di nulla, però nel frattempo la nostra convivenza si sarà impoverita, essendosi privata non solo dell’apporto di Tizio (direttamente interdetto), ma anche dell’attività dell’intimidito Caio, rimasto inerte. Quanta ricchezza, per esempio, è stata direttamente sottratta a tutti noi, impedendo ai Riva, colpevoli di nulla, di gestire l’Ilva, la più grande acciaieria italiana? E quanti potenziali investitori si sono convinti che fosse meglio investire altrove, avendo saputo delle peripezie della famiglia Riva? E quanta ricchezza e quanti posti di lavoro sono stati sottratti ai siciliani dalle Amministrazioni giudiziarie controllate dalla dottoressa Saguto, tutte conducenti al fallimento delle aziende sequestrate e confiscate? E tutto questo, si badi bene, è avvenuto in via “preventiva”, non già a seguito di reati accertati, e non solo a carico di persone sospette, ma perfino di soggetti riconosciuti innocenti. Gli incolpevoli Riva e i numerosissimi, anonimi e incolpevoli, imprenditori siciliani sono stati privati delle loro aziende, i dipendenti sono stati licenziati, per il cattivo esercizio di un potere “impeditivo” che non conosce controllo e responsabilità. E questa è solo la parte visibile dell’iceberg. La parte nascosta è ancora più grande: ben pochi imprenditori intendono investire in Italia, nell’incertezza delle regole e nel rischio di un “impedimento” improvviso; ancora peggio in Sicilia, dove nessun imprenditore vuole correre il rischio di un’accusa inesistente in qualsiasi altra parte del mondo (cosiddetto concorso esterno), alla maniera dell’innocente Giulio Andreotti, e di vedersi sequestrata la propria azienda, salvo averla restituita fallita dopo un processo di “prevenzione” interminabile. Insomma, il potere giudiziario absolutus è un grave vulnus alla democrazia e reca un danno immenso alla civile convivenza. Gli italiani se ne stanno rendendo conto, dopo l’ubriacatura giustizialista degli anni scorsi, da cui ha tratto alimento il partito neo-giacobino dei Cinque Stelle, e pare che le forze politiche liberali abbiano colto lo spirito dei tempi. Prima fra tutte la Lega, che appoggerà la raccolta delle firme (promossa dai Radicali), necessarie per sottoporre agli italiani una serie di quesiti referendari sulla questione della giustizia. Non potranno mancare alcuni punti salienti. Ne indichiamo solo alcuni. La separazione delle carriere tra i magistrati che esercitano la funzione inquirente e requirente (pubblici ministeri) e quelli che esercitano la funzione giudicante (giudici propriamente detti) è un presupposto indispensabile, perché le parti processuali siedano in condizioni paritarie innanzi al Giudice super partes. E come possa ritenersi super partes e perciò “imparziale” un giudice che è collega di una “parte” rimane un mistero insoluto e insolubile. Se, in tutto il resto del mondo occidentale, chi investiga e poi accusa e chi giudica appartengono ad Amministrazioni diverse, una ragione ci sarà pure. Uno sguardo si deve volgere pure alla fantomatica “obbligatorietà” dell’azione penale, inidonea a vincolare il pubblico ministero, ma particolarmente idonea a offrirgli il velo, dietro cui celare la scelta delle indagini ad personam (ad Berlusconem o Salvinem oggi, ad Melonem domani). Non è il caso di introdurre, come negli altri Paesi, vincolanti indirizzi, governativi o parlamentari, sulle priorità dell’attività investigativa? Un altro nodo riguarda la cosiddetta custodia cautelare, che sarebbe meglio chiamare, senza ipocrisie, carcerazione preventiva (in attesa di giudizio). Il quesito referendario deve mirare a limitarne i presupposti giustificativi nell’ambito molto ristretto della criminalità violenta o terroristica, posto che la pena deve seguire, non precedere, l’accertamento giudiziale del reato (con condanna pronunciata all’esito di un giusto processo). Siamo consapevoli che, per via referendaria, non tutti i nodi potranno essere sciolti, ma siamo consci altresì che questa è l’unica via percorribile. Al capezzale della più grande ammalata d’Italia non potranno stare i medici ufficialmente preposti alla cura. Dagli atti parlamentari è lecito attendersi nulla, perché l’attuale fase politica è caratterizzata da una maggioranza parlamentare composita, che potrà tutt’al più fronteggiare le emergenze sanitarie ed economiche, ma giammai potrà raggiungere un minimo di coesione sui temi della giustizia, in presenza di un forte schieramento neo-giacobino. È bene allora dare la parola al popolo italiano ed è compito di tutti i veri liberali contribuire a questa battaglia di civiltà, intrapresa dai Radicali e dalla Lega. Giustizia al collasso al Sud, ma i rimedi scontentano tutti di Simona Musco e Valentina Stella Il Dubbio, 20 maggio 2021 Per l’avvocatura la situazione è “disastrosa”. Ma magistrati e legali criticano la scelta di istituire una commissione interministeriale senza essere stati coinvolti. “La situazione della Giustizia al Sud è disastrosa. E siamo molto adirati: abbiamo appreso della costituzione di questa Commissione soltanto a cose fatte, l’avvocatura non è stata interpellata, né sono stati sentiti gli ordini del Meridione. Siamo molto delusi”. È arrabbiato Francesco Greco, consigliere del Cnf, che commenta così la costituzione della commissione interministeriale voluta dai Dicasteri del Sud e della Giustizia, pensata per essere il più possibile al fianco degli uffici giudiziari del Mezzogiorno. “Avremmo desiderato una maggiore partecipazione - spiega - perché la Giustizia, al Meridione, è completamente allo sbando e le parti in causa non sono state consultate né coinvolte. Siamo completamente abbandonati a noi stessi e i cittadini hanno veramente perduto ogni aspettativa di una giustizia giusta. In questo anno e mezzo di pandemia, in cui l’attività giudiziaria è andata enormemente a rilento, non si è stati capaci di recuperare l’arretrato”. Ed è l’arretrato, secondo Greco, il grande assente nella riforma della giustizia attualmente allo studio del governo. “Una Commissione non basta: l’unico sistema per rimettere in piedi questa macchina sgangherata è intervenire sull’organizzazione giudiziaria, sull’attività del giudice”, aggiunge, bocciando in partenza l’idea di Marta Cartabia e Mara Carfagna. Al via i lavori della Commissione - Il primo incontro tra i componenti della squadra voluta dalle due ministre si è svolto ieri. “Il buon funzionamento della giurisdizione passa sempre di più anche da un recupero dei valori di efficienza. Oltre ad essere il garante della legalità delle condotte nell’amministrazione della giustizia, l’Ispettorato intende proporsi come strumento di diffusione delle migliori buone prassi organizzative esistenti sull’intero territorio nazionale. È questo il mandato che la ministra Cartabia mi ha affidato”, ha dichiarato nel primo incontro con i suoi collaboratori la neo capo dell’Ispettorato generale del ministero della Giustizia, Maria Rosaria Covelli. Già presidente del Tribunale di Viterbo, sarà lei a guidare la commissione interministeriale. “Il rilancio economico del Paese - ha aggiunto Covelli - passa necessariamente attraverso la massima efficienza soprattutto della giustizia civile, di cui si occuperà la commissione. Ci saranno audizioni e occasioni di confronto, che potranno anche diventare utili elementi di stimolo per successivi interventi. In questa prospettiva la commissione interministeriale sarà l’occasione per focalizzare le principali criticità collegate al contesto di un’area specifica del Paese, su cui si concentra una parte significativa degli investimenti del Recovery plan e, nel contempo, individuare, diffondere ed elevare a sistema le esperienze virtuose maturate in tutto il Paese, anche in numerose sedi del meridione, mediante scambi orizzontali tra uffici giudiziari”. A ribadire che si tratta di una mano tesa agli uffici del Meridione è anche la ministra Carfagna. Partendo dal fatto che “il colossale investimento del Pnrr sul Mezzogiorno italiano - pari al 40 per cento delle risorse ottenute dall’Europa - richiede l’attivazione di energie speciali sul territorio in tutti i settori e quindi anche negli uffici giudiziari. Il riferimento alle pratiche organizzative migliori terrà ovviamente conto delle singole esperienze positive degli uffici giudiziari del Sud e dei modelli più efficaci da essi espressi. Inoltre, gli approfondimenti effettuati dalla Commissione saranno valorizzati per fornire la dotazione di strutture, beni e risorse umane anche sfruttando i finanziamenti previsti dal Pnrr e dal nuovo ciclo di programmazione”. Lo stato della giustizia civile - Ci siamo chiesti allora quale sia lo stato di salute della giustizia civile nel Paese per area geografica. Lo ammettiamo: reperire dati è compito arduo. Si è costretti a muoversi tra diversi siti, consultare varie fonti, perdersi in tabelle e fogli excel. Forse sarebbe il caso davvero di istituire, come già proposto dall’Unione della Camere Penali e dal deputato di Azione, Enrico Costa, una banca dati della giustizia. Sul sito del ministero, l’ultimo studio organico sulle performance della giustizia civile risale al 2015 e al “Programma Strasburgo 2”, coordinato dal dottor Mario Barbuto, allora Capo del Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria. Riusciamo a fornirvi qualche dato grazie ad un documento dal titolo “L’efficienza giudiziaria dei Tribunali civili in Italia”, elaborato dall’ufficio statistico del Csm nel 2019, anche grazie a dati disaggregati di via Arenula. Complessivamente “gli uffici più efficienti sono situati prevalentemente nel Nord Italia (Biella, Bolzano, Ferrara, Gorizia, Ivrea, Novara e Savona) e sono soprattutto Tribunali piccoli o medio-piccoli. Vi sono cinque uffici del Sud Italia (Avezzano, Campobasso, Crotone, Napoli Nord, e Tempio Pausania) e uno del Centro (Livorno)”. Un caso particolare tra i Tribunali efficienti è quello di Napoli Nord, “ufficio collocato nel Sud Italia e di medio-grandi dimensioni in cui, a fronte di un aumento di pendenze ultra triennali tra il 2016 e il 2017, un numero di procedimenti definiti per magistrato non molto alto e un indice di ricambio inferiore all’unità, si rileva la più bassa percentuale di pendenze ultra triennali sicuramente dovuta al fatto di essere un tribunale molto giovane che non ha “avuto il tempo di accumulare arretrato”. Secondo invece il documento “Conoscere l’arretrato della giustizia civile: una necessità in vista delle imminenti scelte politiche” pubblicato su Questione Giustizia e fermo ai dati della Dgstat del Ministero della Giustizia aggiornati all’intero 2019, “a livello nazionale il 51% della pendenza civile è costituita da contenzioso civile, il 20% da esecuzioni civili, il 17% da lavoro e previdenza, il 4% da procedimenti speciali e il 3% da volontaria giurisdizione. Tali percentuali si differenziano all’interno dei Distretti, la variabilità maggiore è presente nella materia lavoro e previdenza che ha incidenza minima nei Distretti di Trento (4%), Brescia (7%), Milano e Venezia (8%) e massima nei Distretti di Reggio Calabria (36%), Messina (33%), Lecce (30%) e Bari (28%). I sei Distretti con il numero maggiore di cause civili pendenti (Napoli, Roma, Milano, Bari, Catania e Catanzaro) racchiudono la metà della pendenza nazionale”. La protesta dei magistrati - Assodato che ci si concentrerà dunque sul civile, comunque sull’istituzione della Commissione era nate alcune polemiche da parte della magistratura. Gaetano Bono, membro della giunta Anm di Catania, dice al Dubbio: “L’erroneità di fondo del citato decreto interministeriale non sta tanto (e solo) nell’avere focalizzato l’attenzione sulla “organizzazione del settore giustizia nelle aree del Mezzogiorno italiano al fine di verificare eventuali carenze”, quanto piuttosto nella miopia di avere adottato un criterio geografico di analisi, piuttosto che un criterio meritocratico che prescindesse dall’ubicazione geografica. Appare fin troppo scontato ricordare che ci sono tribunali e procure del meridione che eccellono nelle statistiche e nelle best practices, così come ci sono uffici del settentrione che invece sono in grande sofferenza”. Questione ribadita anche da un’altra autorevole toga del Sud, secondo cui “servirebbe una ricognizione di tutti gli uffici, a livello nazionale, perché le differenze possono dipendere da fattori diversissimi. Ben venga la Commissione, ma l’idea che le best practice vengano “esportate” nel Mezzogiorno non è corretta”. Il problema di armonizzazione della produttività degli uffici è reale, spiega ancora il magistrato, che preferisce l’anonimato, ma esistono già dei meccanismi: il Csm ha infatti istituito un servizio che riguarda le best practice degli uffici giudiziari, dal quale ciascuno può attingere per migliorare la gestione dell’ufficio. “Una ricognizione generale può aiutare a mettere a sistema tutte le possibili cause: le carenze degli organici, tra personale amministrativo e magistrati, l’organizzazione degli uffici nonché l’edilizia giudiziaria”. Nuova commissione per la giustizia nel Mezzogiorno inutile, servono le riforme di Riccardo Polidoro Il Riformista, 20 maggio 2021 Apprendiamo che la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e la ministra per il Sud e la Coesione territoriale, Mara Carfagna, hanno firmato un decreto per la costituzione di una Commissione interministeriale per la giustizia nel Mezzogiorno, composta da vertici di uffici giudiziari del Sud, insieme ad avvocati, professori universitari operanti nel Mezzogiorno e dirigenti ministeriali. A presiederla sarà il capo dell’Ispettorato generale di Via Arenula che ogni mese riferirà sull’andamento dei lavori ai ministri competenti. Gli esperti - si legge nel comunicato stampa del Ministero - hanno il compito di individuare e valorizzare le best practices esistenti al fine di superare eventuali criticità. Entro il 30 settembre 2021 la Commissione trasmetterà ai Ministri una relazione sull’esito dei lavori. Le ragioni che hanno indotto la costituzione della Commissione sono una giustizia più efficace ed efficiente per garantire le condizioni di legalità e sicurezza necessarie per lo sviluppo delle aree del Mezzogiorno, in coerenza con le priorità indicate dal Governo nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Dunque, s’inizia con un approccio minimo e limitato, molto lontano, se non contrario, a quell’auspicato intervento strutturale che possa consentire un vero cambio di passo. Si ritiene, evidentemente, che, se è vero che la giustizia è da riformare perché non funziona, i problemi sono soprattutto al Sud. Ma è così solo in minima parte. Le difficoltà sono sull’intero territorio nazionale e i mali della giustizia sono - come dovrebbe essere la legge - uguali per tutti. I problemi del Meridione sono visibili in ogni settore e sono dovuti a una politica cieca e inefficiente a trazione settentrionale che ha investito al Sud sempre in maniera sbagliata. Da sempre scontiamo questa differenziazione tra Nord e Sud che non fa altro che evidenziare il taglio netto di un Paese diviso in due: dalla Cassa per il Mezzogiorno ai ministri per il Sud, con buona pace dell’unità d’Italia. Finché la politica continuerà a coniare etichette di questo tipo, il Meridione - considerato ufficialmente figlio di un dio minore rispetto al Settentrione - non si riprenderà mai. Su questa incomprensibile scia, ecco giungere la Commissione interministeriale per la giustizia nel Mezzogiorno. Nulla di nuovo anche nel metodo di approccio ai molteplici problemi che affliggono il sistema giustizia. Citando la frase di un noto giurista, gli scantinati del Ministero sono strapieni di faldoni con i lavori delle molteplici Commissioni che si sono succedute nel tempo, mai presi in considerazione, ma ottimo cibo per topi. Ovviamente ci auguriamo che non sarà così e che la nuova nata possa davvero offrire suggerimenti utili per interventi concreti non più rinviabili. Ma sorgono spontanei alcuni interrogativi. Che senso ha tale Commissione quando è proprio l’Ispettorato generale del Ministero ad avere il compito di accertare se negli uffici giudiziari i servizi sono conformi a leggi, regolamenti e istruzioni vigenti? Chi è stato nominato a presiedere la Commissione dovrebbe già essere in possesso dei dati necessari per i provvedimenti da adottare in via d’urgenza. Inoltre al Ministero giungono periodicamente notizie sullo stato delle singole Corti di Appello, in particolare sull’organico, sui procedimenti pendenti, su quelli conclusi. Pervengono, inoltre, tutte le notizie relative alle carenze delle strutture dove sono allocati i Palazzi di giustizia. Le conoscenze, dunque, ci sono tutte. Sono i provvedimenti necessari che mancano. Per i quali, tra l’altro, vi è già una forza lavoro all’interno del Ministero e specificamente delegata a tutto ciò: commissioni di studio e comitati scientifici dell’ufficio legislativo e del gabinetto del ministro che elaborano relazioni e proposte normative. Quello che manca è la volontà politica d’intervenire, a causa degli eterni conflitti tra i vari partiti che pensano esclusivamente a un facile consenso popolare. L’istituzione delle commissioni si è sempre - o quasi sempre - rivelato un alibi per prendere tempo, a maggior ragione come nel caso specifico, dove i componenti non devono indicare soluzioni, ma solo evidenziare problemi specifici legati alle caratteristiche dei territori che sono già ben conosciuti da tempo. La diffusione e la valorizzazione delle buone pratiche, alle quali i vertici del Ministero della Giustizia e di quello per la Coesione territoriale hanno fatto riferimento nel presentare la nuova Commissione, possono - volendo - essere esercitate subito e non sarà certo un gruppo di esperti ad accelerare i tempi della loro realizzazione. Né questo tavolo ministeriale potrà essere una preziosa occasione di confronto, come è stato detto, perché il dibattito tra esperti è sempre utile, ma a patto che sia davvero finalizzato a interventi concreti e non a segnalare quanto già conosciuto da tutti. Di recente e di noto per il Sud vi è l’idea di realizzare un nuovo carcere a Bagnoli, oltre quello da tempo progettato per Nola, da 2mila posti. Su queste (per noi) “pazze idee” vorremmo sentire la voce della ministra Cartabia affinché, come ci auguriamo, ponga un tassello importante su una nuova idea di giustizia e, in particolare, di pena. Giustizia, Carfagna: “I magistrati del Sud non temano la commissione. Ascolterà le loro richieste” di Dario del Porto La Repubblica, 20 maggio 2021 La ministra per la coesione territoriale: “Sono eroi che lavorano in trincea. Dobbiamo tutelare tutti insieme il lavoro del Recovery da infiltrazioni e tentativi di illegalità”. “Ma le pare che potremmo fare un protocollo per sostenere gli uffici giudiziari del Mezzogiorno senza considerare l'esperienza di chi, in quei territori, ha trovato soluzioni efficienti e produttive?”. Non immaginava proprio, la ministra Mara Carfagna, che la Commissione di studio per la Giustizia nel Sud, istituita insieme alla Guardasigilli Marta Cartabia con l'obiettivo di migliorare l'efficienza dei processi, potesse suscitare l'ira di alcuni magistrati meridionali. “Ci sentiamo trattati come sudditi e non come cittadini”, ha protestato il pm di Catanzaro Alessandro Riello, primo firmatario di un appello che ha infiammato le mailing list e aperto il dibattito fra le toghe. Ministra Carfagna, si aspettava che la commissione interministeriale sulla giustizia nel Sud scatenasse la polemica dei magistrati meridionali? “Sono dispiaciuta per questa polemica, credo derivi da un equivoco che intendo subito chiarire. La Commissione nasce anche per dare ascolto ai magistrati del Sud e accendere i riflettori sulle difficoltà, richieste, proposte organizzative di chi opera nella trincea di territori difficilissimi, spesso correndo anche rischi personali. Troppo a lungo le loro istanze, talvolta vere e proprie grida di dolore, sono rimaste inascoltate. Tra l'altro, l'efficienza degli uffici giudiziari è una delle precondizioni indispensabili per la piena realizzazione del Pnrr che, non va dimenticato, assegna al Sud il 40 per cento delle risorse, una quota enorme”. Però, a leggere il testo del decreto, il riferimento alle buone prassi adottate “in altri territori” si presta a un'interpretazione come quella attribuita dai magistrati “ribelli”, non trova? “La dottoressa Maria Rosaria Covelli (che si è insediata ieri come nuovo capo dell'ispettorato generale del ministero della Giustizia, ndr) ha ben chiarito: si intendono valorizzare, cito testualmente dal suo comunicato, “le esperienze virtuose maturate in tutto il Paese, anche in numerose sedi del Meridione, mediante scambi orizzontali tra uffici giudiziari”“. I magistrati del Sud lamentano di essere lasciati spesso soli contro le mafie. “Li ho sempre considerati degli eroi. Il loro lavoro è prezioso e deve essere sostenuto con forza soprattutto adesso, non solo per un motivo “etico” ma anche pratico: dobbiamo tutelare le opere del Recovery Plan da ogni tentativo di infiltrazione e manomissione. Il Paese è alla vigilia di uno sforzo titanico per scongiurare una crisi post-pandemica minacciosa per milioni di cittadini, non possiamo permetterci un fallimento, tantomeno sul terreno della legalità”. La commissione andrà avanti così? “Credo che, se ci sono ancora dubbi, saranno presto dissipati dal lavoro della Commissione, che darà il più largo ascolto a tutti gli uffici e soggetti interessati. Personalmente sono a disposizione per ascoltare e incontrare chiunque voglia dare un contributo”. Secondo lei come si può ricomporre questo strappo? “Con il dialogo e il confronto, non conosco altre strade. E poi, guardi, c'è un prima e un dopo la pandemia. Ora chiunque ricopre una posizione pubblica deve mettersi davanti allo specchio e pensare: dai miei comportamenti dipende la soluzione di una crisi potenzialmente catastrofica per milioni di italiani. Credo che i magistrati siano una delle categorie più consapevoli di questo dato”. La giustizia rimane un terreno minato, evidentemente. Perché? “Non confondiamo una questione che riguarda aspetti organizzativi, credo largamente superabile, con lo scontro sulla riforma della Giustizia. Sono due cose diverse. La ministra Cartabia ha uno dei compiti più complessi di questa fase, chiunque ha a cuore il Paese deve sostenerne l'azione”. A due anni dallo scandalo Csm, un solo colpevole: Palamara. Ma era proprio da solo? di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 20 maggio 2021 Pochi giorni fa ha compiuto due anni la mitica cena all’Hotel Champagne, dove l’ex potente capo Anm fu intercettato via trojan mentre definiva strategie per assegnare la Procura di Roma a magistrati graditi. Ma ci sono altre centinaia e centinaia di chat con colleghi pm e giudici. Che non sono stati sanzionati né dal Csm né dall’Anm. Palamara è l’unica eccezione. Vuoi vedere che hanno trovato un comodissimo capro espiatorio? La prossima settimana saranno trascorsi due anni esatti dallo scoppio dello scandalo che ha travolto la magistratura italiana. Il 29 maggio, per la precisione, alcuni quotidiani diedero il via alla pubblicazione delle intercettazioni effettuate con il trojan inserito nel cellulare dell’ex togato Csm, ed ex potente capo della Anm, Luca Palamara, all’epoca sotto indagine a Perugia per corruzione. In particolare vennero pubblicati i colloqui avvenuti durante un dopocena presso l’Hotel Champagne di Roma la sera dell’8 maggio 2019 fra Palamara, alcuni consiglieri togati del Csm, e i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri. Le reazioni a quegli scambi che avevano per oggetto le nomine dei capi di alcune Procure del Paese, a iniziare da Roma, furono durissime. Tutti i consiglieri coinvolti si dimisero, e cambiarono così gli equilibri all’interno del Consiglio superiore. Anche il presidente Anm dell’epoca venne costretto alle dimissioni. Il Capo dello Stato usò toni molto duri per descrive l’accaduto, parlando di “modestia etica”. La pubblicazione delle chat che Palamara intratteneva con numerosissimi colleghi che gli chiedevano nomine e incarichi, avvenuto dopo alcuni mesi, aprì poi altri scenari, mettendo plasticamente in luce la deriva correntizia e i condizionamenti dei gruppi associativi sulle scelte del Csm. A distanza di due anni, però, non è che molto sia cambiato, soprattutto per quanto riguarda l’accertamento delle responsabilità. Dopo il doppio “turboprocesso” a Palamara, sia al Csm che davanti ai probiviri dell’Anm, la voglia di rinnovamento, sanzionando ad esempio le condotte non consone allo status del magistrato, pare essersi fermata. Anzi, nel caso dell’Anm non è iniziata proprio. L’Associazione, presieduta dal giudice di Cassazione Giuseppe Santalucia, dopo aver avuto da Perugia le chat di Palamara, aveva dichiarato che si sarebbe proceduto per verificare le eventuali violazioni del codice deontologico. Le dimissioni dei magistrati coinvolti hanno però bloccato sul nascere ogni possibile iniziativa. Se un magistrato si cancella dall’Anm viene meno, infatti, la possibilità di sanzionarlo, fanno sapere da più parti. Tale “modus operandi” ha suscitato questa settimana la piccata reazione dei togati di Articolo 101, il gruppo nato proprio per contrastare la deriva correntizia. “L’Anm non è un tram, su cui si sale per accumulare punti per Csm, posti dirigenziali e altre posizioni gradite, e dal quale si scende in corsa quando arriva il controllore”, ha scritto Maria Angioni, un’esponente di Articolo 101 nell’Anm. “Male ha fatto la Giunta dell’Anm ad accogliere a rotta di collo le dimissioni di chi fugge dal disciplinare, senza rispettare lo statuto, deliberatamente omettendo di comunicare tali iniziative al Comitato direttivo centrale perché potesse decidere su esse, esercitando le sue legittime prerogative”, ha aggiunto la dottoressa Angioni. E sul fronte disciplinare al Csm, esclusa la punibilità per i magistrati che si autopromuovevano con Palamara per una nomina, ed eccettuati gli ex consiglieri coinvolti nell’incontro all’hotel Champagne, sono poco più di una decina le toghe attualmente sotto processo a Palazzo dei Marescialli. Il sospetto è che si voglia chiudere il prima possibile una pagina non proprio edificante per la magistratura, dopo aver trovato il capro espiatorio perfetto: Luca Palamara. Per la cronaca, infine, è stata archiviata ieri la pratica aperta da tempo dalla prima commissione del Csm per valutare la sussistenza dei presupposti per un trasferimento d’ufficio del sostituto procuratore generale della Cassazione Mario Fresa, a seguito di una vicenda di maltrattamenti denunciati dalla moglie, che poi aveva ritirato la querela. La delibera di archiviazione è passata con un solo voto di scarto: 9 sì, 8 no e 8 astensioni. La Procura di Roma aveva archiviato il procedimento penale per la remissione della querela ma anche perché le lesioni non sarebbero derivanti da una “condotta intenzionale”. Il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi ha dato atto “delle qualità professionali eccellenti” di Fresa, ricordando che il magistrato era stato sospeso e assegnato a settori diversi. Fresa, infatti, rappresentava spesso l’accusa davanti alla Sezione disciplinare del Csm. Detenuto al 41-bis: il Tribunale di sorveglianza valuta legittimità e merito del reclamo quotidianogiuridico.it, 20 maggio 2021 Cassazione penale, Sez. I, sentenza 12 maggio 2021, n. 18434. Pronunciandosi sul ricorso proposto avverso l’ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza aveva respinto il reclamo proposto da un detenuto, in espiazione di pena detentiva perché condannato irrevocabilmente per i delitti di associazione di stampo mafioso e violazione della disciplina degli stupefacenti - avverso il decreto emesso ai sensi dell’art. 41-bis, L. 26 luglio 1975, n. 354, dal Ministro della Giustizia con il quale era stata disposta la proroga per due anni della sottoposizione al regime detentivo differenziato (c.d. carcere duro), la Corte di Cassazione penale, Sez. I, con la sentenza 12 maggio 2021, n. 18434 - nel disattendere la tesi difensiva, secondo cui il Tribunale di sorveglianza aveva omesso un'analisi individualizzante della posizione del detenuto, svolgendo solo considerazioni generiche e stereotipate, il che rendeva apparente la motivazione - ha invece affermato il principio secondo cui anche a seguito delle modifiche introdotte all'art. 41-bis Ord. Pen. dalla L. n. 94 del 2009, il controllo svolto dal Tribunale di sorveglianza sul decreto di proroga del regime di detenzione differenziato, diversamente dal sindacato conducibile nel giudizio di legittimità, non è limitato ai profili di violazione della legge per inosservanza o erronea applicazione, ma si estende alla motivazione ed alla sussistenza, sulla base delle circostanze di fatto indicate nel provvedimento, dei requisiti della capacità del soggetto di mantenere collegamenti con la criminalità organizzata, della sua pericolosità sociale e del collegamento funzionale tra le prescrizioni imposte e la tutela delle esigenze di ordine e di sicurezza. Cassazione. Niente libertà condizionale a Vallanzasca: “Non ha ripudiato il passato” di Fabio Calcagni Il Riformista, 20 maggio 2021 Renato Vallanzasca, l’ex bandito della Comasina condannato a quattro ergastoli, non ha ripudiato il suo passato e per questo dovrà restare nel carcere milanese di Bollate, non potendo accedere alla libertà condizionale o alla semilibertà. A deciderlo è stata la Corte di Cassazione, confermando la sentenza datata giugno 2020 del tribunale di Sorveglianza di Milano che aveva respinto le istanze del ‘Bel René’ sostenendo che per la sua scarcerazione fosse necessario un “percorso graduale”. Nel 2014 Vallanzasca, all’ora in permesso premio, era tornato in carcere dopo l’arresto per rapina: il 71enne aveva tentato di rubare dei boxer e altri generi di consumo di scarso valore all’Esselunga di viale Umbria a Milano. Fermato dall’addetto alla vigilanza, Vallanzasca, che era in permesso premio, aveva reagito, nel tentativo di evitare l’arresto che lo aveva riportato in carcere a Bollate, dove si trova tutt’ora. I comportamenti del ‘Bel René’ secondo i giudici della Cassazione non sono “oggettivamente tali da riflettere il definitivo ripudio del passato stile di vita e l’irreversibile accettazione di modelli di condotta normativamente e socialmente conformi”. Sostanzialmente quindi la Cassazione conferma quanto chiarito nel giugno 2020 dal tribunale di Sorveglianza di Milano aveva respinto l’istanza che Vallanzasca aveva presentato tramite il suo difensore dell’epoca, l’avvocato Davide Steccanella, per chiedere di riottenere la semilibertà concessagli nel 2013 e revocata appena un anno dopo per il furto all’Esselunga. In quell’occasione Vallanzasca aveva scritto una lettera ai giudici: “Quell’etichetta continua a perseguitarmi - aveva scritto l’ex boss della Comasina, condannato a 4 ergastoli. Per tutti resto il bandito. Eppure di anni ne sono passati tanti”. L’ex bandito della Comasina ‘paga’ dunque nel suo prolungato stato di detenzione, ormai dal lontano 1981, interrotto “varie volte - scrivono i giudici - per benefici e misure premiali poi inevitabilmente revocati a causa dei comportamenti devianti del condannato, sicché non può certo dirsi che la privazione della libertà personale sia stata ininterrotta e senza possibilità di anticipata conclusione”. Emilia Romagna. Carceri, le tecnologie per superare gli ostacoli nell’era della pandemia di Emma Petitti cronacabianca.eu, 20 maggio 2021 “Liberi dentro: la comunicazione al/dal carcere nell’era del distanziamento sociale”, è il titolo del convegno online organizzato dall’ufficio regionale Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale in programma il prossimo 21 maggio dalle 14 alle 19. Si tratta di un’importante occasione di confronto sull’uso dei mezzi tecnologici come modalità per superare gli ostacoli nell’era della pandemia collegati alle attività rieducative. L’occasione del confronto è data dall’esperienza Eduradio, innovativo servizio radio-televisivo nato per “fare ponte tra carcere e città”, che in questo anno di attività ha progressivamente coinvolto un numero crescente di protagonisti nel campo scolastico, educativo, associativo e sanitario. Questa esperienza, dal 19 aprile, è diffusa anche da Lepida TV (oltre a radio Fujiko 103.1 e Teletricolore 636). Il convegno del 21 sarà aperto da alcuni saluti istituzionali, tra cui quelli del vescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi, del ministro della Giustizia Marta Cartabia, della presidente dell’Assemblea legislativa regionale Emma Petitti e della vicepresidente della Regione Emilia-Romagna Elly Schlein. A seguire contributi di accademici, giornalisti, operatori del mondo carcerario, del Prap (Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria) e dell’ispettore nazionale cappellani carcerari. L’incontro sarà in diretta sulla pagina web e sulla pagina Facebook dell’Assemblea legislativa. Modena. Il 7 giugno l’udienza per i morti nella rivolta nel carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 maggio 2021 Si tratta dell’udienza per l’opposizione alla richiesta di archiviazione per la morte di otto dei nove detenuti durante la rivolta nel carcere di Modena. Fissata per il prossimo 7 giugno, alle ore 10, l’udienza per l’opposizione alla richiesta di archiviazione sui morti del carcere di Modena. Ricordiamo, infatti, che i primi di marzo la procura di Modena ha chiesto l’archiviazione per la morte di otto dei nove detenuti che hanno perso la vita l’anno scorso durante la rivolta di Modena dentro la casa circondariale di Sant’Anna. “A seguito degli accertamenti medico legali e chimico tossicologici l’individuazione delle cause del decesso conduce per tutti alle complicazioni respiratorie causate dall’assunzione massiccia di metadone e altri farmaci. Viene esclusa per tutti l’incidenza concausale di altri fattori di carattere violento”, così in sostanza la procura ha liquidato la questione. In realtà, nessuno ha messo in discussione la causa della morte. Senza dubbio è overdose di metadone e altre sostanze. Ma da sola non basta, anche perché, sia pure prendendo atto che la Polizia penitenziaria si è trovata ad affrontare era complicata e delicata, si tratta di una rivolta all’interno di un carcere: un evento prevedibile e, nei limiti del possibile, evitabile. L’otto marzo 2020 scoppiò la rivolta in molte carceri - L’8 marzo 2020 scoppia una grave rivolta nella casa circondariale di Modena e muoiono nove detenuti. Ricordiamo che scoppiarono disordini in numerose carceri. L’impatto della pandemia ha generato paura e spaesamento nei reclusi. Ogni giorno su tv, radio, giornali, si chiedeva di mantenere il distanziamento sociale e di evitare assembramenti: due cose inconciliabili nelle nostre carceri. Queste preoccupazioni e la chiusura dei colloqui, hanno portato poi a far esplodere gli animi e alle proteste che ad inizio marzo del 2020 hanno interessato decine di istituti in tutto il Paese. Ritorniamo ai nove morti al carcere di Modena. Decessi che sarebbero avvenuti per intossicazione da farmaci. Cinque di loro sarebbero morti nello stesso istituto, quattro a seguito di trasferimento in altri istituti. Il trasferimento sarebbe avvenuto con il nulla osta medico. Gli esposti dell’associazione Antigone contro gli agenti - Il 18 marzo del 2020, l’associazione Antigone deposita un esposto contro gli agenti polizia penitenziaria e il personale sanitario per omissioni e colpe per la morte dei detenuti. Il 7 gennaio 2021, Antigone deposita una integrazione all’esposto del 18 marzo 2020. L’associazione prende tale decisione a seguito della formale segnalazione della denuncia presentata da cinque persone detenute per le violenze che sarebbero state commesse da agenti di polizia penitenziaria a danno di alcuni detenuti subito dopo la rivolta scoppiata presso la Casa circondariale di Modena nella data dell’8 marzo 2020. Ma a marzo scorso, la procura chiede archiviazione per i detenuti morti, tranne il caso di Salvatore Piscitelli. A porre opposizione all’archiviazione ci sono anche gli avvocati di Hafedh Chouchane, tunisino ritrovato morto in carcere. Tante sono le incongruenze non chiarite. Due sono i temi non approfonditi. Il primo tema è la mancata custodia dei detenuti, soprattutto quei soggetti vulnerabili come i tossicodipendenti che sono riusciti ad accedere con facilità al metadone. Il secondo tema è la contraddizione sugli orari e il luogo dove è stato portato il corpo del tunisino in stato comatoso. Senza fare ulteriori indagini, non si potrà mai chiarire davvero cosa sia successo in quei giorni nel carcere durante la rivolta di Modena. Roma. I detenuti di Rebibbia denunciano presunti abusi dei magistrati di sorveglianza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 maggio 2021 Un centinaio di detenuti di Rebibbia ha sottoscritto una lettera inviata al presidente della Corte d’appello di Roma, alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, al Csm e ai garanti per denunciare i continui rigetti alle richieste dei benefici. Ci sarebbero stati continui rigetti alle richieste dei benefici, valutazione del differimento pena a distanza da diversi mesi dai primi contagi da Covid, nessuna concessione dei giorni di liberazione anticipata. Un centinaio di detenuti della casa di reclusione di Rebibbia ha sottoscritto una lettera inviata alla presidente della Corte d’appello di Roma, e per conoscenza alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, al Csm e i garanti. Una denuncia durissima nei confronti dei magistrati di sorveglianza. I detenuti di Rebibbia scrivono nero su bianco che quest’ultimi avrebbero disapplicato l’ordinamento penitenziario, interpretandolo “sempre nel senso più restrittivo - si legge nella missiva -, al limite dell’arbitrio come la mancata concessione dei benefici penitenziari, con le motivazioni più inverosimili e fantasiose possibili”. I detenuti hanno denunciato un clima di insofferenza - La denuncia, ricordiamo, è sottoscritta da un centinaio di detenuti di Rebibbia. La garante del comune di Roma, Gabriella Stramaccioni, ha ricevuto la segnalazione dell’esistenza di questa lettera dai detenuti stessi, i quali hanno descritto un clima di insofferenza e di ribellione a ciò che secondo loro sono dei “soprusi e umiliazioni” da parte della magistratura di sorveglianza. Nella lettera inviata alle autorità, i detenuti parlano di ultraottantenni o quelli con patologie multiple, in attesa della ex 147 cp (il differimento pena), che sarebbe stata “valutata dopo moltissimi mesi, nonostante la presenza del Covid”. La lettera prosegue denunciando l’impossibilità di ottenere un permesso “se non quando il familiare è già deceduto” e ci sarebbero stati numerosi casi “in cui anche far visita alla tomba dopo giorni dal decesso è stato negato”. Dal tenore della lettera, si denota molta insofferenza. I detenuti denunciano che si sentono frustati “da un trattamento arbitrario e parziale dei Magistrati che concedono i benefici o pochi giorni dal fine pensa, che inventano ragioni inesistenti alla prova per tabulas di fatti e/o precedenti inverosimili o scuse fantasiose come i permessi premio negati”. Aggiungono che diventano “inutili le osservazioni delle relazioni di sintesi redatte dall’equipe incaricata dell’istituto di reclusione, le quali non vengono minimamente apprezzate né valutate”. Per i detenuti i fatti denunciati sarebbero facilmente dimostrabili - I detenuti, rivolgendosi al presidente della Corte d’appello, tengono a specificare che tutti questi fatti sarebbero dimostrabili attraverso “le numerosissime richieste presentate e bocciate che rimangono nelle nostre mani e sono a vostra disposizione, perché siano valutate con equità ed equilibrio, cosa che oggi non è in atti, che l’arbitrio e l’abuso di potere che il Magistrato perpetra costantemente”. Non solo. I detenuti aggiungono che l’azione dei magistrati, “svilisce anche il ruolo dei garanti dei detenuti, che nulla possono per i continui casi di prepotenza e iniquità nelle decisioni dei magistrati di sorveglianza”. Per tutti questi motivi, i detenuti sono in attesa di un riscontro o di una richiesta di documentazione probatoria che a detta loro, si ripete e rimane a disposizione di chi “voglia assumersi delle responsabilità di fronte ai continui abusi e soprusi dei magistrati di sorveglianza”, che a detta dei detenuti, sarebbero “dediti oramai al solo rincorrere di pregiudizi e intolleranza nei confronti di legittime richieste dei detenuti”. Ribadiamo che quanto riportato è il contenuto della lettera inviata alle autorità, tra i quali la ministra della Giustizia Cartabia, il Csm e il presidente della Corte d’appello. Saranno loro, con strumenti adeguati, a vagliare la fondatezza di tale denuncia. Salerno. “Il carcere è terra di nessuno per 17 ore su 24” di Marco Rarità La Città di Salerno, 20 maggio 2021 Il garante Ciambriello lancia l’sos: negli istituti penitenziari della provincia la media è di un agente ogni due detenuti. “Abbiamo bisogno di qualche agente penitenziario in più, dopo le 15 il carcere è una terra di nessuno fino alle 8 del mattino”. Suonano come una preghiera le parole del garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello, una nota legata al mondo della comunità carceraria che tocca tutti, non solo il personale ma anche gli stessi detenuti, una criticità che emerge nel report presentato nella giornata di ieri alla Caritas Diocesana proprio da Ciambriello con la collaborazione dell’Osservatorio Regionale sulla detenzione. Ciambriello ha puntato l’attenzione sulla rieducazione, reinserimento, della detenzione come “non unica” strada bensì solo una delle pene che si possono attuare, è stata messa in risalto anche la questione riguardante il personale negli istituti penitenziari della provincia di Salerno, Fuorni, Eboli e Vallo della Lucania. Per quanto riguarda Salerno il garante Ciambriello ha evidenziato una carenza di agenti di custodia, così come di personale socio educativo: il rapporto è di 1 agente ogni due detenuti, nei tre istituti nel Salernitano sono 537, gli agenti di polizia penitenziaria sono 265. “Per Fuorni ho già avuto modo di sollecitare l’attenzione delle amministrazioni carcerarie competenti sulla carenza di agenti di custodia e di personale socioeducativo - ha dichiarato Ciambriello - C’è la necessità di avere educatori non a distanza, sono figure importanti, anche per gli eventi critici, lo scorso anno sono stati 15 i tentativi di suicidio nel carcere di Salerno. È importante capire come si sviluppa la vita detentiva, un’altra cosa che vorrei far notare ad esempio è che in molte università non c’è esame di diritto penitenziario, questa è sicuramente una mancanza”. Nel carcere di Salerno, inoltre, ci sono 53 detenuti stranieri e il garante campano parla anche in relazione a questo dato: “Devo rilevare, anche in questo territorio, l’assenza di mediatori culturali coerentemente con l’andamento generale degli istituti di detenzione della Regione Campania. È importante il ruolo dei Funzionari Giuridico Pedagogici per migliorare l’esecuzione penale affinché sia improntato al trattamento e non all’afflizione”. Su questo tema si è espresso con forza anche monsignor Andrea Bellandi, arcivescovo metropolita di Salerno, Campagna e Acerno. “C’è attenzione da parte nostra verso la realtà carceraria, non parliamo di numeri ma di persone, una persona non è lo sbaglio che ha commesso ma è più grande, c’è sempre una possibilità di recupero aperta, una possibilità di ricominciare. La pena non può essere identificata come una chiusura e una detenzione. A noi interessa una rieducazione, può passare dalla separazione della vita civile ma deve comprendere momenti diversi, di socializzazione anche con la realtà esterna altrimenti non ci sono passi per ripartire”. Sulla qualità del reinserimento si è espresso il procuratore di Salerno Giuseppe Borrelli: “La situazione del carcere risponde a una esigenza di civiltà, è evidente che una funzione rieducativa della pena pone la necessità di svolgersi anche in ambienti che siano dedicati a questo scopo. La Procura di Salerno ha iniziato una interlocuzione anche con gli organi forensi per favorire la possibilità, anche per i soggetti deboli, di potersi avvalere dei benefici che sono alternativi alla detenzione. Una esigenza importante in questo momento di pandemia. Il carcere dovrebbe essere l’ultimo dei rimedi possibili, corrisponde all’esigenza di salvaguardare la società, l’ordine pubblico ma non deve trasformarsi in una vendetta postuma”. Verifiche sono state annunciate dalla presidente del Tribunale di Sorveglianza di Salerno Monica Almirante: “Il carcere si porta dietro un pregiudizio. Non è solo un discorso di bontà ma di intelligenza, le persone sono chiamate a una condanna ma dobbiamo pensare a come possiamo reinserirle nella società. Per me non è quanto manca alla pena che fa la differenza ma è il percorso che viene fatto da ogni singola persona. La necessità di investimenti sulla qualità dei percorsi, verifichiamo l’idoneità delle strutture in un percorso di reinserimento”. Pontremoli (Ms). Detenuta partorisce all'Ipm. Uno degli agenti sostituisce l’ostetrica di Manuela Ribolla La Nazione, 20 maggio 2021 Doglie prima del previsto per una 17enne straniera: la Polizia penitenziaria ha fatto nascere la bimba. Mamma e figlia stanno bene. La nascita di una nuova vita. Una giovanissima madre. Un’ostetrica improvvisata. Gli elementi per una bella storia ci sono tutti. Ancor di più se il teatro di questa singolare trama è la cella di un Istituto Penale per Minorenni, quello di Pontremoli. Tutto è accaduto nella notte tra lunedì e martedì, quando una delle giovani ragazze da poco arrivata all’interno della struttura, incinta di ventisei settimane, ha iniziato ad avvertire i dolori del travaglio. Una situazione mai accaduta tra le mura della struttura di via IV Novembre e resa ancor più difficoltosa dal fatto che la giovane mamma, una diciassettenne di nazionalità straniera, non parlasse la lingua italiana. “Quando l’agente di Polizia Penitenziaria in turno ha capito che aveva mal di pancia - ha raccontato il rappresentante sindacale locale della Uil Polizia Penitenziaria dell’Ipm Alessandro Atzeni - ha fatto chiamare subito la Guardia medica. Dopo, come mi ha raccontato, è andato nel suo ufficio, si è seduto sulla scrivania, ha respirato a fondo e si è detto che doveva affrontare la situazione ed andare a vedere come stava”. Minuti che sembrano ore, la paura, l’emozione e l’eccitazione di qualcosa di inaspettato e talmente grande che potrebbe accadere di lì a poco in un luogo di certo inusuale per avvenimenti di questo tipo. “L’agente è corso in sezione. Ha chiesto alla collega - ha spiegato ancora il rappresentante Uil Atzeni - se la ragazza stesse ancora piangendo. Così ha fatto aprire la cella e l’hanno controllata. La giovane ha iniziato a piangere e a gridare dal dolore. È stato in quel momento che ha fatto capire che stava per partorire. L’hanno controllata e le si erano rotte le acque. Così hanno fatto subito chiamare il 118”. Una situazione inaspettata visto che gli Agenti pensavano fosse di 26 settimane. “Quando l’hanno controllata si vedeva già la testa della bambina - ha raccontato entusiasta il rappresentante sindacale Atzeni. L’hanno incitata a respirare e a spingere ma è bastata solo una spinta. E la bambina è uscita. È stata avvolta in una coperta improvvisata e adagiata sulle sue gambe in attesa dei medici del 118, che sono arrivati pochi minuti dopo. Ma neanche loro si aspettavano questa situazione”. Una bambina di 3.200 Kg, sana e robusta. Gli agenti hanno poi scortato la ragazza fino all’Ospedale Noa di Massa, dove il primario del reparto di ginecologia si è complimentato per la prontezza dell’intervento con i due agenti, che non hanno abbandonato la nuova nata sino all’arrivo alla struttura ospedaliera. “Tutto è andato benissimo, come doveva andare, senza intoppi - ha commentato il rappresentante sindacale: la ragazza ha rischiato tantissimo”. Un’emozione di certo unica quella vissuta dagli agenti e dalla giovane mamma, e una storia davvero particolare quella che la bimba potrà raccontare da grande. “Una situazione che di certo i due agenti non si scorderanno - ha concluso Alessandro Atzeni. Un’emozione unica che si rifletteva nelle parole e negli occhi di chi lo ha vissuto in prima persona e che oggi lo ha voluto raccontare per condividere un’esperienza unica e, probabilmente, irripetibile”. Napoli. Giovani detenuti si raccontano al Rotary Pozzuoli cronacaflegrea.it, 20 maggio 2021 A Nisida la conclusione del progetto “Storie Distanziate”. Non volendosi arrendere alla stasi pandemica, il Rotary Club Pozzuoli ha provato ad esplorare un mondo scomodo e poco conosciuto, raccogliendo storie personali scritte da alcuni giovani reclusi negli Istituti Penitenziari Minorili di Airola, Catanzaro e Nisida, per pubblicarle, poi, nel volume “Storie Distanziate”. Testimonianze che, valicando le mura perimetrali delle strutture in cui i giovani sono confinati, esprimono un grande disagio e una forte volontà di riscatto, su cui, tutti, siamo chiamati a riflettere. Un’occasione di visibilità per i giovani detenuti, ma anche per le istituzioni impegnate nelle funzioni, educativa, riabilitativa ed inclusiva della pena. Appena stampato il libro, una delegazione del Rotary Club Pozzuoli, composta dalla Presidente Daniela Gravino, dalla Responsabile del Progetto Distrettuale “Storie Distanziate” Patrizia Leone, dal Presidente incoming Raffaello Mastantuono e dal Socio Brunello Canessa, è stata ricevuta all’I.P.M. di Nisida dal suo Direttore, Gianluca Guida, con la prof.ssa Anna Zazo ed una rappresentanza dei ragazzi autori degli scritti pubblicati. Alla consegna dei volumetti e dei completini da calcio, donati a tutti i ragazzi internati, hanno presenziato le massime autorità rotariane, a cominciare dal Governatore del Distretto 2100, Massimo Franco con la gentile consorte Antonella ed il suo Assistente, Corrado Moschitti, per continuare con i Presidenti dei Club, Acerra- Casalnuovo A. Montano, Teresa De Dominicis, Campagna Valle del Sele, Giuseppina Maiuri, E-Club Italy South 2100, Claudio De Luca, e Pompei Villa dei Misteri, Gaetano Agovino, che hanno sostenuto finanziariamente il progetto insieme ad altri nove Club ed al Distretto. Molto interessante la visita ai laboratori, illustrati da Gianluca Guida, che testimoniano le tante attività formative praticate nell’Istituto per accrescere competenze ed autostima dei reclusi, nell’intento di progettare per loro un futuro migliore. Prossime le consegne di “Storie Distanziate” e dei completini da calcio anche ai giovani reclusi negli I.P.M. di Airola e Catanzaro. Ai Club sostenitori che non sono potuti intervenire all’incontro di Nisida saranno recapitati a domicilio i volumetti per i soci. Vaccini. Stop ai brevetti, l’Europa è divisa e prende tempo di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 20 maggio 2021 L’europarlamento non trova una linea comune, ma chiede a Usa e Gran Bretagna di cominciare a esportare le dosi. Mentre il piano Covax, destinato ai paesi poveri, va a rilento a causa dell’India che ha bloccato l’export da marzo. Quando ci sarà una posizione comune della Ue sui brevetti dei vaccini anti-Covid? L’unica cosa certa, oggi, è che la Ue non si presenterà alla riunione alla Wto (8-9 giugno) su questa questione con una linea definita. Il Parlamento europeo, che ha discusso ieri mattina per preparare una posizione condivisa, non voterà in questa sessione e ha rimandato tutto alla plenaria del 7-10 giugno. Nel frattempo, l’apartheid vaccinale si sta mettendo in atto. Per il gruppo S&D (socialisti), i vaccini sono “beni pubblici”, bisogna levare le barriere commerciali e imporre la trasparenza nei contratti con Big Pharma. La sinistra Gue denuncia che il 50% delle capacità di produzione di vaccini nel mondo non sono utilizzate, mentre i paesi ricchi, con il 16% della popolazione hanno concentrato finora il 90% delle dosi. La direttrice generale della Wto, la nigeriana Ngozi Okonjo-Iweala conferma: Pakistan, Bangladesh, Indonesia, Sud Africa, Senegal possono produrre se i brevetti sono condivisi. La direttrice generale chiede ai grandi produttori farmaceutici di avere “uno sguardo onesto” sulla situazione. “Il finanziamento pubblico ha permesso di trovare i vaccini”, incalzano i Verdi che premono per la sospensione dei brevetti per evitare “il disastro” che si prepara nel sud del mondo. Contro, invece, il Ppe, che insiste sul ruolo che ha avuto la ricerca privata e teme una destabilizzazione della produzione con la fine della protezione dei brevetti. I centristi di Renew, d’accordo sull’idea di levare i brevetti a medio termine, insistono sull’urgenza, che è l’esportazione di vaccini. L’Europa ha esportato finora 200 milioni di dosi, la metà della sua produzione, Renew chiede che, al di là delle belle parole di Joe Biden, gli Usa (e la Gran Bretagna) facciano lo stesso, subito. Tra gli stati Ue non c’è unità, la Germania continua a frenare (difende la sua industria), mentre al summit internazionale per il rilancio dell’economia in Africa, martedì a Parigi, Emmanuel Macron si è dichiarato favorevole alla liberalizzazione dei brevetti. Ma tra il dire e il fare c’è grande distanza. Nel documento finale del summit per l’Africa si afferma infatti che “nell’immediato la priorità assoluta è sviluppare la produzione”. Per Macron, la questione è “sviluppare la produzione in Africa nelle prossime settimane”, favorendo partnership finanziarie e industriali. L’azione immediata resta però l’export, che potrebbe far aumentare dal 20 al 40% il numero di vaccinati in Africa (oggi solo l’1,3% della popolazione). Biden ha promesso l’esportazione di 80 milioni di dosi entro fine giugno, annullando così il Defense Production Act di Donald Trump, che aveva riservato agli statunitensi l’assoluta priorità. Nel cuore di questo approccio resta Covax, il trasferimento di dosi ai paesi poveri, di cui la Ue è il principale contribuente, ma adesso c’è l’ostacolo del Serum Institute indiano, principale produttore per Covax: l’India in crisi ha bloccato l’export da marzo e potrebbe riprendere solo “entro fine anno”. Covax ha dato vaccini ai Palestinesi, mentre Israele, considerato il campione mondiale della vaccinazione rapida, non ha dato dosi nei territori occupati, invocando i trattati di Oslo (la sanità è questione “nazionale”, anche per chi non ha uno stato), ma contravvenendo la Convenzione di Ginevra (che obbliga un occupante a farsi carico della salute delle popolazioni sottomesse). Le grandi case farmaceutiche continuano a rifiutare la sospensione dei brevetti. Affermano che non ci sono problemi di produzione. Vedono malissimo l’accordo concluso dalla canadese Biolyse per produrre 15 milioni di dosi di vaccini in Bolivia, grazie a un meccanismo di licenza obbligatoria, e frenano decisamente contro le proposte di Incepta del Bangladesh, Teva in Israele, Bavarian Nordic in Danimarca, industrie che si dicono pronte a produrre se viene tolto l’ostacolo dei brevetti. Continua anche la confusione sul corona-pass europeo, per permettere la libera circolazione nella Ue, oggi ostacolata fortemente dall’addizione di misure nazionali. Il certificato dovrebbe entrare in vigore il 17 giugno, ma c’è l’ostacolo di un forte disaccordo tra Parlamento europeo o stati membri (sulla gratuità dei test, sulle dosi, sulle marche dei vaccini ecc.). La Grecia va avanti da sola per accogliere i turisti, la Danimarca ha già il suo corona-pass, l’Olanda sta per varare un corona-check nazionale, l’Ungheria vuole far riconoscere la sua card che evita di menzionare quale vaccino è stato fatto (Budapest ha approvato Sputnik e Sinopharm). Francia, Svezia, Lussemburgo, Croazia e Austria hanno testato la compatibilità dei rispettivi pass nazionali, con identificazione dei test e delle attestazioni di vaccinazione, per evitare truffe. Immigrazione, l'esodo alle porte del Mediterraneo di Gianluca Di Feo La Repubblica, 20 maggio 2021 I migranti arrivati a Ceuta, gli sbarchi a Lampedusa e i naufragi nel Canale di Sicilia obbligano l'Unione europea ad aprire gli occhi. La marea umana che ha varcato le barriere di Ceuta, l'ondata di migranti sbarcata la scorsa settimana a Lampedusa, i naufragi sempre più frequenti nel Canale di Sicilia stanno obbligando l'Unione Europea ad aprire gli occhi sul Mediterraneo e rendersi conto di una situazione senza precedenti. La pandemia, il terrorismo, il moltiplicarsi degli Stati sull'orlo del fallimento rischiano di spingere verso il mare una moltitudine di persone disperate, pronte a tutto per trovare condizioni di vita decenti. I fronti aperti sono tanti, con cause diverse che spesso si innestano in crisi antiche o sono alimentate da interessi geopolitici spregiudicati, come quello della Turchia. L'effetto complessivo però questa estate potrebbe assumere le dimensioni di una catastrofe umanitaria. Al primo posto c'è la Tunisia, l'unica fragile democrazia partorita dalla Primavera araba, dove le condizioni economiche continuano a precipitare. Il Paese non ha più risorse: il turismo è stato spazzato via dagli attentati islamisti e il Covid ha messo al tappeto le poche imprese attive nelle esportazioni. Per una popolazione giovane non esistono alternative all'emigrazione e neppure le forze dell'ordine sembrano in grado di frenare la tentazione a mettersi in viaggio verso Lampedusa, che dista poche ore di gommone. Un lungo sciopero dei funzionari fiscali minaccia di bloccare gli stipendi di tutta la pubblica amministrazione, polizia inclusa, e alle intelligence occidentali arrivano segnali preoccupanti sulla tenuta degli apparati di sicurezza. Non a caso, la commissaria europea Ylva Johansson oggi sarà a Tunisi assieme alla ministra dell'Interno Luciana Lamorgese. L'Italia da sola può fare poco e il governo Draghi ha chiesto che la questione entri prepotentemente nell'agenda del vertice di Bruxelles della prossima settimana: soltanto un intervento su scala globale dell'intera Unione può affrontare la situazione prima che sia troppo tardi. E non si tratta di tamponare le crisi, distribuendo fondi per incentivare governi e polizie a fermare le partenze. Mai come ora è diventata impellente una vera politica estera che renda la Commissione protagonista di una stabilizzazione del Mediterraneo. Comprare brevi moratorie non risolve i problemi strutturali, che finiscono per riproporsi a ogni estate, e aumenta lo sfruttamento della disperazione. Lo si vede in Libia: la tregua nella guerra civile ha riaperto le rotte del traffico di esseri umani, come testimoniano gli oltre duemila migranti del Bangladesh arrivati in Sicilia in pochi giorni. Il business degli scafisti si è rimesso in moto con ricche prospettive di guadagno tra chi scappa dal virus, tra chi fugge dall'Afghanistan abbandonato ai talebani e tra i profughi dell'escalation jihadista nel Sahel. In Niger, Mali e Burkhina Faso le milizie fondamentaliste dilagano. Secondo l'ultimo rapporto dell'Onu, solamente nella regione nigerina al confine con il Mali più di centomila persone hanno dovuto lasciare i loro villaggi. Altre undicimila si stanno dirigendo in queste ore verso la capitale Niamey: molti cercheranno di attraversare il deserto diretti in Libia e in Tunisia. Non a caso, la Farnesina lo scorso mese ha riunito i leader dei tuareg maliani, trattando un accordo che prevede finanziamenti in cambio del rimpatrio dei migranti. E la stessa linea di diplomazia economica viene seguita con le tribù del Fezzan libico, snodo delle carovaniere che dal Sahel puntano sul litorale. Si tenta di costruire muri nella sabbia, senza riuscire a intaccare il male che sta divorando l'Africa centrale. Se si allarga lo sguardo, allora bisogna tenere conto di un'altra realtà esplosiva. Nel Libano senza governo e senza finanze, senza lavoro e senza nemmeno più l'illuminazione stradale, c'è un popolo dimenticato: un milione e mezzo di rifugiati siriani, i più poveri in una nazione sul lastrico. Le autorità locali non possono occuparsi di loro, la comunità internazionale li ignora. Solo le tariffe esose chieste dagli scafisti li fermano dal salpare verso Cipro, frontiera orientale dell'Europa. Ma nelle ultime settimane già due barche sono state intercettate, altre forse sono riuscite a passare. L'avanguardia della prossima emergenza. Lamorgese, missione in Tunisia per fermare i migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 20 maggio 2021 Con la commissaria Ue Johansson. Finanziamenti Ue in cambio di un maggior controllo delle frontiere marittime. È una Tunisia indebolita da una forte crisi economica e politica quella in cui oggi arriva la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese insieme alla commissaria Ue per gli Affari interni Ylva Johansson. Viaggio non certo di piacere. L’Europa e l’Italia in particolare vorrebbero che le autorità di Tunisi si impegnassero maggiormente nel fermare le partenze di giovani tunisini verso l’Italia e facilitassero ulteriormente i rimpatri del loro cittadini. Le stesse richieste avanzate un anno fa quando, ad agosto del 2020, sempre Lamorgese e Johansson, ma in quell’occasione era presente anche il commissario per l’Allargamento Oliver Varhelyi, si recarono per la prima volta a Tunisi. A differenza di allora, oggi Lamorgese e Johansson offrono alla Tunisia l’impegno per un rafforzamento del partenariato con l’Unione europea. Significa più investimenti nel Paese contando anche sui sette miliardi di euro annunciati a febbraio scorso da Bruxelles con la nuova agenda per il Mediterraneo per aiutare i Paesi partner dell’area ad uscire dalla crisi del Covid. A patto che fermino l’immigrazione. Come si è detto non sarà un viaggio facile. Dal punto di vista politico la Tunisia è lacerata dallo scontro che da mesi contrappone il presidente Kais Saied al primo ministro Hichem Mechichi, uno scontro che di fatto paralizza la vita politica del Paese. Ma l’aspetto più pesante, specialmente per la popolazione, è quello economico, ulteriormente aggravato dalla pandemia che ha portato la disoccupazione al 17,4 per cento. Una situazione che, tra l’altro, ha provocato il crollo del fatturato derivante dal turismo che stando ai dati forniti dalla stessa Banca centrale tunisina nel 2020 è sceso a due miliardi di dinari (circa 605 milioni di euro), il 62% in meno rispetto ai 5,2 miliardi di dinari del 2019. Senza contare le centinaia di manifestazioni di protesta avute in tutto il Paese. Chiaro dunque, che per i giovani tunisini l’Europa rappresenta l’unica speranza di un futuro che sia migliore del presente. Dall’inizio dell’anno, ha spiegato ieri Lamorgese al Comitato Schengen, hanno attraversato il Mediterraneo in 1.781, dei quali 678 sono stati rimpatriati (contro i 2016 di tutto il 2020). Un numero, quello relativo ai rimpatri, che Lamorgese vorrebbe incrementare aumentando ulteriormente il numero di voli charter settimanali. Un ruolo particolarmente importante l’Italia lo attribuisce poi alla Guardia costiera tunisina con la quale si propone di collaborare segnalando le partenze dei barconi in modo da permettere alle motovedette di intercettarli. Un ruolo che da tempo preoccupa la società civile tunisina, come dimostra la denuncia fatta a febbraio scorso dal responsabile informazione del Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Fides), Ben Amor: “La Guardia costiera tunisina è diventata ormai una forza affiliata all’Agenzia europea per il controllo delle frontiere Frontex, ed agisce su sua procura per intercettare migranti irregolari al di fuori delle acque territoriali”, ha detto Amor. La contropartita offerta alla Tunisia da Ue e Italia è economica e si articola su più livelli, L’Italia si offre di aiutare il Paese nordafricano ad accedere ai progetti di sviluppo dell’Unione europea, cosa sulla quale finora Tunisia avrebbe mostrato qualche difficoltà. Ma non solo: “Sul piatto ci - spiegano al Viminale - sono aiuti finanziari internazionali a cui l’unione europea dovrebbe contribuire con impegno di spessore”. Quarantene alle navi Ong. Depositata interrogazione per il ministro Speranza di Giansandro Merli Il Manifesto Dopo le inchieste del manifesto. Gregorio De Falco: “La misura discriminatoria disposta dall’Usmaf non ha ragioni sanitarie, ma sembra rientrare in una strategia di ostacolo al soccorso”. Il senatore Gregorio De Falco (Gruppo misto) ha depositato un’interrogazione parlamentare rivolta al ministro della Salute Roberto Speranza (LeU) per chiedere “quali siano le basi giuridico normative che possano ragionevolmente consentire all’Usmaf [Ufficio di sanità marittima, aerea e di frontiera, nda] di adottare le decisioni discriminatorie” delle quarantene riservate esclusivamente agli equipaggi delle navi Ong. Il caso delle misure di isolamento sanitario disposte in maniera selettiva è stato denunciato da il manifesto. Il 26 febbraio scorso nell’inchiesta “Covid, quarantene mirate per fermare le navi delle Ong” abbiamo ricostruito il diverso trattamento tra le navi umanitarie e quelle commerciali che avevano salvato dei migranti e mostrato come le deroghe previste a livello normativo per “equipaggi e personale viaggiante” venivano disapplicate soltanto rispetto alle organizzazioni non governative del Mediterraneo. Il 6 maggio, poi, con l’articolo “Le misure anti Covid diminuiscono per tutti, tranne per le navi delle Ong” abbiamo messo in luce un ulteriore paradosso relativo all’ultima missione della Sea-Watch 4: i naufraghi sono finiti in quarantena per 10 giorni, mentre l’equipaggio per due settimane. Questo termine è rimasto in vigore solo per il personale di bordo delle navi umanitarie, dal momento che l’ordinanza del ministero della Salute del 16 aprile ha ridotto le quarantene a un massimo di 10 giorni. Senza dimenticare che tutti i 484 tamponi effettuati sulla Sea-Watch 4, tra migranti ed equipaggio, erano risultati negativi. Nell’interrogazione De Falco afferma che “la misura discriminatoria disposta dall’Usmaf non trova fondamento in ragioni di carattere sanitario, ma sembra rientrare in una strategia di costante ostacolo alle attività meritorie delle navi umanitarie gestite da Ong, strategia che si basa, dalla fine del governo Conte 1, sulla quarantena e sui fermi amministrativi”. Parole dure che nel testo sono combinate con i numeri delle oltre 500 vittime registrate nel 2021 lungo la rotta mediterranea centrale e l’impennata al 3,6% del tasso di letalità rispetto alle partenze totali durante lo stesso periodo di tempo. “La morte usata di fatto come strumento di deterrenza è qualcosa di terribile che fa venire i brividi”, ha commentato il senatore. Sulla questione delle quarantene selettive si sono mosse il mese scorso anche le Ong. Il 2 aprile Emergency, Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Open Arms, Sea-Watch e Sos Mediterranée hanno scritto ai dottori Giovanni Rezza (direzione generale delle prevenzione sanitaria del ministero della Salute), Mauro Dionisio (direttore del coordinamento tecnico Usmaf-Sasn) e Ulrico Angeloni (direttore sanitario nazionale Croce Rossa Italiana) per chiedere un incontro sulle misure anti-Covid relative al personale delle navi. “Alla luce della necessità di continuare a svolgere ininterrottamente la nostra attività di soccorso in mare e di rispettare al contempo le misure preventive che siano ritenute idonee e applicabili per la salvaguardia della salute pubblica, riteniamo fondamentale concordare con voi delle linee guida”, si legge nella lettera. Fino ad oggi, però, non ha avuto nessuna risposta. Italiani detenuti alla frontiera, l'Ue contro il Regno Unito di Antonello Guerrera La Repubblica, 20 maggio 2021 “Rispettare i diritti dei cittadini europei”. Si muove anche Bruxelles dopo le detenzioni in prigione di decine di europei al confine britannico perché considerati “migranti irregolari”, come nel caso dell'italiana Marta Lomartire. L'Unione europea si prepara a richiamare pubblicamente il Regno Unito affinché “rispetti i diritti dei cittadini Ue” dopo i casi di italiani ed europei detenuti alla frontiera britannica, come raccontato nei giorni scorsi da Repubblica attraverso il caso della giovane 24enne pugliese Marta Lomartire. Lo rivela Politico: secondo le bozze che stanno circolando tra gli sherpa, per il Consiglio europeo di giovedì prossimo i 27 leader Ue avrebbero preparato una sezione dedicata alla preoccupante questione che ha generato molte proteste nel continente, a causa della detenzione in vere e proprie prigioni di decine di cittadini italiani ed europei fermati alla frontiera britannica nel 2021 perché non in possesso dei visti o della documentazione necessaria per entrare nel Regno Unito come lavoratori. “Il Consiglio europeo chiede al Regno Unito di rispettare il principio di non discriminazione tra Stati membri e i diritti dei cittadini Ue”, c'è scritto in una bozza delle conclusioni che il vertice dei Paesi europei diramerà la settimana prossima. Il richiamo arriva dopo la retromarcia del Ministero dell'Interno britannico che, dopo gli articoli di Repubblica e altre testate europee sui molti casi occorsi, ha annunciato una nuova direttiva sulle detenzioni dei cittadini Ue considerati migranti irregolari al confine: ora, quando possibile, non saranno più trasferiti nei centri di detenzione ed espulsione, dove venivano privati di ogni effetto personale cellulari inclusi, bensì potranno essere rilasciati “su cauzione” e trascorrere il periodo fino alla loro espulsione dal Paese presso un indirizzo di fiducia. Nelle ultime settimane si sono accumulati i casi di decine di cittadini Ue e italiani detenuti anche per giorni in quelle che le stesse autorità britanniche hanno definito “prigioni” con i diretti interessati. Esemplare il caso della giovane Marta Lomartire, capitato, a quanto si apprende, anche ad altre decine di italiani dal primo gennaio scorso, quando si è concretizzata la Brexit e sono cambiate radicalmente le politiche di immigrazione per i cittadini europei. Marta era arrivata lo scorso 17 aprile alla frontiera per fare la ragazza alla pari a Londra in casa di suo cugino, ma considerata migrante illegale “senza visto lavorativo” nell'era post Brexit e dunque subito trasportata in un carcere vicino all’aeroporto di Heathrow. “Mi hanno sequestrato tutto”, aveva rivelato Marta, “anche il cellulare per non divulgare foto o video. Poi la prigione: filo spinato, sbarre alle finestre. Sono scoppiata a piangere. Con me c'era anche una ragazza toscana, “detenuta da 5 giorni”. Successivamente, il Guardian invece aveva parlato della “drammatica e umiliante esperienza subita negli ultimi mesi da altri cittadini europei”, anche coloro che avevano colloqui di lavoro già fissati e che in teoria potevano entrare nel Regno Unito anche senza visto. Invece no: fermati, detenuti in questi centri di “rimozione” ed espulsi. In Italia, il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova, con delega ai rapporti con i Paesi europei e agli italiani all'estero, ha seguito la vicenda nei giorni scorsi ed è stato in contatto con le autorità diplomatico-consolari a Londra. L’Ambasciata d'Italia ha svolto passi formali con le autorità britanniche per chiedere che vengano rispettate le previsioni del diritto consolare internazionale e che le nostre autorità diplomatiche vengano informate immediatamente in caso di detenzione di cittadini italiani affinché possa essere prestata loro assistenza consolare. Il Sottosegretario ha fatto analoga richiesta all'Ambasciatrice del Regno Unito a Roma, Jill Morris, in un colloquio alla Farnesina. Della Vedova si recherà la settimana prossima in visita nella capitale britannica. Medio Oriente. I palestinesi hanno diritto a uno Stato, ma non basato sulla tirannia di Bernarnd Henry-Lévy* La Repubblica, 20 maggio 2021 È Hamas ad avere trasformato Gaza in una prigione a cielo aperto e in una rampa di lancio per i missili. La pioggia di obici di mortaio che Hamas ha iniziato a lanciare sulle città israeliane nella notte dell'11 maggio suscita una domanda semplice, che è impossibile non farsi: che cosa pretendeva? che cosa vuole? qual è l'obiettivo della sua guerra? Di certo non “la fine dell'occupazione israeliana”, perché dal 2005 - e il ritiro lo decise Ariel Sharon - non c'è più nemmeno l'ombra di un soldato israeliano a Gaza, di conseguenza non esiste occupazione di sorta, né colonizzazione o disputa territoriale di alcun tipo. Tenuto conto della guerra fratricida che combattono l'uno contro l'altro da quando Hamas, due anni dopo, ha avuto il sopravvento a forza di seminare il terrore, l'obiettivo dell'organizzazione non è nemmeno di esprimere una qualche forma di “solidarietà” all'Autorità Nazionale Palestinese di Mahmoud Abbas, a capo, a Ovest del Giordano, del territorio “fratello”, la Cisgiordania. L'obiettivo non è nemmeno quello di rompere il cosiddetto “blocco”, accusato di asfissiare il territorio, poiché: a) Gaza non ha un'unica frontiera con il resto del mondo, ma due e, nel caso, bisognerebbe tenere d'occhio anche l'Egitto, che sì mette il chiavistello alla sua frontiera Sud; b) se proprio si vuol parlare di frontiere, la frontiera con Israele è di gran lunga la meno dotata di serrature a tenuta stagna, perché è proprio da lì che passano, ogni giorno e persino in tempo di guerra, non solo acqua, luce e gas, ma anche centinaia di camion che riforniscono di merci, quotidianamente, l'enclave; inoltre, in senso di marcia opposto, viaggiano centinaia di civili palestinesi, che vanno a farsi curare, quotidianamente anche loro, negli ospedali di Tel Aviv; c) in quanto al blocco dei prodotti che servono a fabbricare materiali militari come quelli che si utilizzano nell'aggressione di questi giorni, basterebbe che finisse l'aggressione e il blocco cesserebbe d'immediato; l'aggressione, invece, non fa che rafforzarlo. No. Hamas non ha un obiettivo chiaro, quando invece dialogo e impegno potrebbero incarnare un obiettivo in sé. O, per essere più esatti e usare il linguaggio militare prussiano di Clausewitz, “obiettivo” può essere inteso in due modi: in questo caso non esiste uno “Ziel”, un obiettivo concreto, razionale, intorno al quale un cessate il fuoco permetterebbe di confrontarsi e di trovare un accordo; esiste invece uno “Zweck”, ossia un obiettivo strategico, uno solo, che non è altro se non la riaffermazione dell'odio cieco, implacabile e dichiarato all'“entità sionista”, di cui Hamas esige l'annientamento. Mi faccio anche una seconda domanda molto semplice, che in realtà dovremmo farci ogni volta che vediamo migliaia di manifestanti scendere in piazza a Parigi, Londra o Berlino per “difendere la Palestina”. È la morte dei civili palestinesi a ripugnarli? Allora non si capisce perché non aprano bocca quando sono i palestinesi a perseguitare, torturare, mutilare con armi da fuoco, assassinare o attaccare con l'artiglieria pesante altri palestinesi, sospettati di collaborare con Israele o con chissà chi. Hanno davvero cura di appellarsi ai diritti umani in ogni luogo e in ogni circostanza? Ci si stupisce del fatto che, senza dover risalire fino al genocidio dei Tutsi in Ruanda o allo sterminio dei musulmani in Bosnia o nel conflitto del Darfur, non facciano mai sentire la loro voce in difesa degli Uiguri, “fatti fuori” dalla dittatura cinese; dei Rohingya, “invitati a sloggiare” dalla giunta birmana; o dei cristiani della Nigeria, sterminati da Boko Haram o dai gruppi di fulani islamici; e che non aprano bocca nemmeno a proposito delle colossali violazioni dei diritti umani in Afghanistan, in Somalia, nel Burundi, sulle montagne di Nuba, tutti posti che conosco abbastanza bene e dove non sono qualche centinaio ma migliaia, anzi, decine o centinaia di migliaia i civili che muoiono sotto i colpi delle armi da fuoco. Sono dunque ripugnati dall'indifferenza complice dell'Occidente, che permette i bombardamenti a Gaza, contro una città e contro dei civili musulmani? Allora non si spiega perché non siano scesi in piazza a manifestare la loro solidarietà ai curdi del Kirkuk, aggrediti, nell'ottobre del 2017, dagli squadroni assoldati dai Guardiani della Rivoluzione Islamica dell'Iran; o non si siano mostrati solidali con i civili che, l'anno dopo, furono bombardati a tappeto da Erdogan a Ovest del Rojava; oppure, sia prima che dopo, con le città della Siria bombardate dagli aerei del dittatore arabo Bashar al Assad, che dispiegò attacchi di un'atrocità inaudita, con l'appoggio, anche bellico, di Vladimir Putin. No. Comunque la si giri o la si volti, non rimane che constatare che in Francia, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna ci sono tantissime persone che non hanno veramente a cuore né i diritti umani, né le guerre dimenticate e nemmeno i palestinesi, e che si prendono la briga di manifestare solamente quando mobilitarsi consente loro di prendere due piccioni con una fava e gridare, en passant, “morte a Israele” o “morte agli ebrei”. Io, dal canto mio, di fronte a tanto fariseismo non ho mai cambiato giacca, negli ultimi cinquant'anni. Il numero di vittime civili causate da questa guerra assurda, criminale e voluta da Hamas mi sbriciola il cuore, indiscutibilmente. E pur essendo piuttosto recenti le loro rivendicazioni a livello di nazione e anche se mi dispiace che i loro dirigenti politici non abbiano usato i cospicui aiuti e le sovvenzioni economiche internazionali degli anni scorsi per creare anche solo l'abbozzo di un'amministrazione degna di questo nome, ritengo che i palestinesi abbiano diritto a uno Stato. Ma non a uno Stato basato sulla tirannia. Non a uno Stato assassino che prende in ostaggio il proprio popolo, lo costringe a vivere in una prigione a cielo aperto e, ogni tre o quattro anni, quando il suo assetto politico vacilla, manda al sacrificio un contingente di scudi umani per poi ostentarne il martirio e lavare l'immagine della propria legittimità perduta. Infine, non a uno Stato la cui essenza è servire da rampa di lancio ai missili che puntano a distruggere Israele. *Traduzione di Monica Rita Bedana La Turchia che sfida l’Europa (e l’altra che guarda a Ovest) di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 20 maggio 2021 Negli ultimi anni il Paese si è ri-islamizzato, ma nonostante la “cura” Erdogan la società resta divisa. Nella vita internazionale ci si imbatte spesso in due tipi di problemi: quelli affrontabili e quelli non affrontabili. I primi, tipicamente, tengono impegnata la diplomazia. A esempio, molti in questo momento si stanno dando da fare per ottenere un cessate il fuoco fra Israele e Hamas. Nessuno pensa di “risolvere” alcunché: si tratta di un conflitto destinato a durare per chissà quanti anni o decenni ancora. Ma il problema è “affrontabile” nel senso che sarà forse possibile metterci una toppa provvisoria. Ci sono poi problemi di altra natura, del tutto intrattabili. Nessuno sa come affrontarli. In genere, si cerca di rimuoverli, di fingere che non esistano. Nella speranza che sia la storia futura, nella sua costitutiva imprevedibilità, a scioglierne i nodi. Per quanto tempo ancora il mondo occidentale potrà fare finta che la Turchia - ossia un membro della propria principale organizzazione militare (la Nato) - non sia diventato un nemico? Come si fa a essere alleati militarmente del nemico? Ricapitoliamo, per sommi capi, i fatti. La Turchia fa parte della Nato dal 1952. Per decenni è stata dunque parte integrante dell’alleanza occidentale. Una colonna. Per conseguenza, era anche alleata di Israele. C’era un rapporto stretto fra la collocazione internazionale della Turchia e il suo regime interno. La Turchia moderna fu plasmata da Mustafa Kemal Atatürk che la volle laica ed “europea”. Una eredità che i militari, vera struttura portante del regime turco (anche nelle fasi in cui vigeva la democrazia parlamentare) difendevano e mantenevano viva. Laicità in politica interna, filo-occidentalismo in politica estera. Poi le cose sono cambiate: la Turchia islamica, quella ridotta al silenzio o quasi sotto Atatürk, si prese la rivincita sconfiggendo o mettendo nell’angolo la Turchia europea. Il partito islamico guidato da Recep Tayyip Erdogan ha, passo dopo passo, smantellato l’eredità di Atatürk, ha messo fuori gioco i militari (e ha dato loro la spallata decisiva dopo il fallito colpo di Stato del 2016), ha ri-islamizzato gran parte della società. Con la ri-islamizzazione è finito l’occidentalismo turco. Si può discutere se l’Europa abbia o no una qualche responsabilità: il fuoco di sbarramento contro la richiesta della Turchia di entrare nella Unione Europea, sicuramente contribuì a indebolire e umiliare i turchi europei a tutto vantaggio della Turchia islamica. Ma forse la ri-islamizzazione ha cause molteplici e complesse, non è solo responsabilità dell’Europa. Il primo segno del cambiamento di collocazione internazionale risale al 2003 quando, essendo già al governo il partito islamico, la Turchia, per la prima volta dal dopoguerra, rispose picche a una richiesta degli Stati Uniti, e rifiutò di permettere all’esercito americano di usare le basi in Turchia per colpire l’Iraq di Saddam Hussein. Ma forse l’anno in cui il cambiamento di collocazione internazionale per effetto del mutamento di regime interno e della ri-islamizzazione in atto della società turca diventò più evidente fu il 2010: l’attacco israeliano a una nave turca che portava ufficialmente aiuti umanitari ai palestinesi (ma, secondo gli israeliani, anche armi) segnalò al mondo che era in atto un rivolgimento delle alleanze. Finiva l’intesa, durata decenni, fra Israele e la Turchia. Il progressivo indebolimento dell’alleanza turca con gli occidentali si sposava (coerentemente) con un cambiamento di fronte dei turchi anche in Medio Oriente. Finiva l’avventura filo-occidentale voluta da Atatürk, cominciava quella neo-ottomana. Oggi la Turchia gioca su tutti i tavoli possibili. Il fatto di essere tuttora membro della Nato le consente di tenere a bada gli occidentali. Nel frattempo, mantiene stretti rapporti con Putin (con cui pure è rivale nella competizione per la spartizione della Libia). Grazie a tali rapporti può permettersi anche di sfidare (fino ad ora con successo) quella Nato di cui pure è parte. Come dimostrò quando ruppe la solidarietà atlantica acquistando missili dalla Russia. Grande sponsor, insieme al Qatar, dei Fratelli Musulmani, Erdogan gioca contro Arabia Saudita ed Egitto puntando alla leadership del mondo sunnita. Il che non gli impedisce di trovare punti di contatto e convergenze con l’Iran sciita. Come in questo momento (ma non da oggi) nel sostegno ad Hamas. Chi pensa che comunque l’azione turca riguardi il solo Medio Oriente e non tocchi l’Europa si sbaglia di grosso. Prima di tutto perché ciò che accade là ha conseguenze qua. L’appoggio turco al radicalismo islamico in Medio Oriente non può non riguardarci. Inoltre, se il Mediterraneo risulterà stabilmente spartito fra turchi e russi, saranno mani diverse da quelle europee (e ostili all’Europa) ad avere il controllo su vitali fonti energetiche nonché sui rubinetti che regolano i flussi migratori. Ma, per giunta, l’azione turca, e le ambizioni di Erdogan, travalicano i confini mediorientali. Come hanno dimostrato le tensioni fra Turchia e Grecia per il controllo dei giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale. Come dimostra anche il massiccio intervento nell’area balcanica dove la Turchia combina investimenti economici e indottrinamento religioso. E non è ancora tutto. Si pensi al durissimo scontro fra il presidente francese Emmanuel Macron e il dittatore Erdogan. La Turchia, infatti, ci riprova, questa volta con altri mezzi. Per ben due volte (con gli assedi di Vienna del 1529 e del 1683), l’impero ottomano cercò la strada per invadere l’Europa. Ora la Turchia vuole accrescere la sua influenza politica nel Vecchio Continente finanziando moschee che sponsorizzano l’islam più radicale. Per condizionare dall’interno i Paesi europei. Talvolta, come già si è detto, è la storia, nella sua imprevedibilità, a sciogliere i nodi che gli umani non sanno come affrontare. Magari (chissà?), la Turchia europea, per quanto colpita duramente e indebolita da quella asiatico-islamica, prima o poi risolleverà la testa. Nonostante la “cura” Erdogan, la Turchia resta una società divisa, a cavallo fra Europa e Asia. Se le due Turchie torneranno a scontrarsi, questo avrà certamente conseguenze e ripercussioni anche sulla politica estera di quel Paese. Forse ne ridimensionerà le ambizioni, forse lo renderà meno aggressivo sia in Medio Oriente che nei confronti dell’Europa. Se tu non puoi cavare le castagne dal fuoco, devi sperare che ci riesca ciò che alcuni chiamano Provvidenza e altri Fortuna.