Cara Cartabia, che cosa c’entrano quegli arresti con la rieducazione? di Tiziana Maiolo Il Riformista, 1 maggio 2021 Gli arresti di Parigi e la nostra smemoratezza. Abbiamo lasciato aperto un capitolo tragico della nostra storia, quello degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, dopo aver chiuso a fatica, e non del tutto, quello del fascismo. Neppure quando fu arrestato e processato l’ex capitano delle SS Erich Priebke, il nostro Paese e il nostro sistema giudiziario seppero dimostrare la capacità di fare i conti con la propria storia. Perché non si seppe capire né far capire che non si stava giudicando una persona responsabile (per ordini ricevuti o dati) di migliaia di morti, ma un vecchio di 84 anni che aveva già da solo dato un orientamento diverso della propria vita. Lo aveva capito e realizzato Palmiro Togliatti con l’amnistia del 1946. Dopo di lui non ci sarà più un ministro di Giustizia capace di tenere insieme il proprio vissuto soggettivo, la propria memoria e i conti con la storia. Il contrario di quel che fece Togliatti è stata - è ancora - la politica delle emergenze. L’Italia ha vissuto il fascismo e la resistenza (all’interno della quale ci furono anche atti individuali crudeli, violenti e ingiusti), e poi, negli anni Settanta, che, non dimentichiamolo, furono anche momenti di grandi iniziative riformatrici, la sovversione sociale, una cui parte divenne terrorismo. Non si possono trattare il rapimento e uccisione di Moro e della sua scorta, gli assassinii e ferimenti di decine di uomini politici, magistrati e giornalisti come singoli episodi da giudicare nei tribunali. Il terrorismo è stato un fenomeno tragico della politica e della società. Ripeto, della società. Lo ha capito bene uno che non è certo stato amico di coloro, in gran parte di sinistra, che avevano preso le armi, come Vittorio Feltri, che ha ricordato un tragico applauso in un’assemblea di lavoratori alla notizia del rapimento di Moro. Purtroppo ho anch’io un ricordo analogo, di singole persone, in un ambiente di sinistra non estremistica come era quella de il Manifesto. Fare i conti con il proprio passato, anche il più negativo, il più drammatico, vuoi dire aiutare a ricucire lo strappo che qualcuno ha attuato nei confronti della propria co munita. Ricucire per ricostruire non c’entra niente con il perdono, che è un fatto individuale e intimo e che attiene alla relazione di una persona cori un’altra. E anche il contrario della cancel-culture, che è invece un gesto di violento revisionismo, portato solo a distruggere, a straniare dal mondo vissuto. La politica della ministra Marta Cartabia, nella sua attività di costituzionalista, la sua consapevolezza del fatto che non possa essere il carcere la soluzione di ogni lacerazione, fino al punto di dare battaglia all’ergastolo ostativo, è un insegnamento per tutti. Poi, certo, nella nostra memoria, esiste anche un fatto generazionale. Chi ha cinquant’anni o meno può essere indotto a pensare che la storia delle leggi speciali, la proclamazione di continui stati di emergenza siano iniziati con le stragi di mafia, con gli anni Novanta e con le uccisioni dei magistrati Falcone e Borsellino. Se così non fosse, forse la guardasigilli Cartabia non potrebbe dire che i rifugiati arrestati nei giorni scorsi in Francia, sulla cui estradizione lei stessa insieme al Presidente del consiglio Draghi si è particolarmente impegnata, sono stati giudicati con processi giusti e con tutte le garanzie. Purtroppo non é cosi. Il che non significa affatto che stiamo parlando di innocenti. Non lo era, dal punto di vista processuale, Cesare Battisti, e probabilmente non lo è la gran parte di coloro che sono stati fermati e poi rimessi in libertà vigilata in questi giorni in Francia. Il problema è un altro. E cioè che le leggi speciali non sono in grado di fare giustizia. E non l’hanno fatta con le lunghissime custodie cautelari nelle carceri speciali di persone che saranno poi assolte, né con le leggi sul pentitismo, che pure hanno aiutato a sconfiggere il terrorismo sul piano puramente militare. Ma è stato ben più significativo il gesto del cardinal Martini quando ha ricevuto le armi da Ernesto Balducchi, un militante dell’Autonomia che era stato protagonista di quel fenomeno di “dissociazione” dalla lotta armata con cui centinaia di ex militanti avevano preso le distanze dalla violenza, senza la necessità di denunciare i propri compagni. Un’altra forma di quella giustizia riparativa che sta a cuore alla ministra. E che sarebbe un ottimo programma di governo. E quello che stanno attuando, passo dopo passo, formazioni politiche come Nessuno tocchi Caino e che ha portato alla realizzazione del documentario “Spes contro spem” di Ambroglio Crespi nel carcere di Opera. E siamo arrivati alla seconda emergenza, quella dei reati di mafia. Non è cambiato molto, rispetto al metodo con cui si svolgevano le inchieste per i fatti di terrorismo. Leonardo Sciascia fu critico anche nei confronti del maxiprocesso di Palermo voluto da Giovanni Falcone. Chiariamo naturalmente che nessuno sta paragonando le persone, né i tatti, né le ideologie, laddove ci fossero. Ma processare i contumaci, contestare i concorsi morali (a Renato Curcio o a Toto Riina, il concetto è lo stesso), esibire come prove la sola parola dei pendii: che cosa ha a che fare tutto ciò con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo? Se poi fosse per caso arrivata notizia in terra d’oltralpe delle raccapricciami controriforme prodotte negli ultimi ni dalla subcultura dei grillini e dell’ex ministro Bonafede, tese a equiparare i reati contro la Pubblica Amministrazione a quelli del terrorismo e della mafia, si capirebbe a maggior ragione perché la giustizia italiana sia vista con tanto sospetto negli altri Paesi dell’occidente. Un’ultima osservazione desidero indirizzare alla ministra Cartabia, nel nome della grandissima stima che ho personalmente nei suoi confronti. Lei si è spesa molto perché le autorità francesi mettessero in qualche modo le manette molto rapidamente ai polsi di dieci persone (sulle duecento italiane ancora rifugiate a Parigi e dintorni) condannate per fatti di sangue, appena prima che i reati cadessero in prescrizione, dopo quaranta o cinquant’anni dagli accadimenti. Le domando se ciò abbia un senso. Mi domando se ciò sia coerente con quella “possibilità di rieducazione e conciliazione” che lei giustamente vorrebbe concedere a chiunque, qualunque delitto abbia commesso. Ma quale miglior dimostrazione di rieducazione e conciliazione queste dieci persone (e tutte le altre) devono dare ancora, oltre al fatto di aver rispettato alla lettera per qualche decennio le condizioni poste dal presidente Mitterrand (e poi Chirac, Sarkozy e Hollande) non commettendo nessun reato e integrandosi perfettamente, mettendo su famiglia e lavorando, e sempre rigando diritto? O qualcuno pensa che deportare in Italia un gruppetto di pensionati e far loro assaggiare un po’ di galera serva a riparare il danno fatto e a far finta di niente su quei conti politici ancora aperti? Certo, signora ministra, sarebbe tutto più facile se anche noi del Riformista ci comportassimo come stanno facendo in questi giorni da una parte i quotidiani più schierati con il centrodestra che applaudono con gli occhi chiusi purché vengano mandati in galera quelli di sinistra. E dall’altra parte il quotidiano più forcaiolo della sinistra, cioè Il Manifesto che, con un bell’editoriale di Tommaso Di Francesco, bolla la retata parigina come “la vendetta”. E riscopre improvvisamente, ma solo nei confronti della sinistra, il garantismo di un tempo, ahimè, antico. Noi non siamo cosi. Noi siamo quelli del “metodo Cartabia”. Fino a tre giorni fa, e speriamo ancora per il futuro. Flick: “Lo Stato non si vendica. Il carcere può rieducare anche gli anziani” di Luca Fazzo Il Giornale, 1 maggio 2021 “Questa decisione della Francia deve essere motivo di soddisfazione e di orgoglio per tutti. Perché riconosce che anche di fronte a una tragedia come il terrorismo, davanti ad avversari delle istituzioni che uccidevano indiscriminatamente magistrati e uomini delle forze dell’ordine, giornalisti e sindacalisti, operai e gente comune, l’Italia seppe rispondere con processi veri e credibili, senza ricorrere a leggi eccezionali né tribunali speciali, nel pieno rispetto dei diritti degli imputati e della Costituzione. Gli arresti effettuati mercoledì sono la prova che la Francia riconosce le sentenze emesse in quegli anni terribili nella loro piena autorevolezza. Ammettono finalmente che nella lotta al terrorismo l’Italia non ha nulla da farsi rimproverare”. Giovanni Maria Flick, ex presidente della Corte Costituzionale, è stato ministro della Giustizia nel governo dell’Ulivo. Anche lui ha provato la frustrazione di chiedere a Parigi la riconsegna dei latitanti rossi, e di sentirsi rispondere di no. Adesso la Francia cambia linea, e si apre la strada per il ritorno in patria di dieci terroristi. Ma c’è già chi dice che dopo tutti questi decenni si tratta di uomini assai diversi, e mandarli in carcere è solo una vendetta di Stato. “Ma quale vendetta. Abbiamo delle sentenze che hanno accertato la responsabilità di queste persone nei modi previsti dalla legge italiana e in conformità alla Costituzione. Sono state stabilite delle pene e ora si tratta solo di applicarle. Se poi nel corso degli anni queste persone hanno recuperato un senso di responsabilità ne siamo tutti contenti, e ne terranno conto i giudici di sorveglianza che valuteranno il loro percorso durante la espiazione della pena”. Ma la pena deve rieducare. Come si rieduca un settantenne? “Non si può dire siccome è anziano allora non lo possiamo rieducare”. Anche in età avanzata si può avere una possibilità di rieducazione. Rieducare è il fine fondamentale della pena, ce ne sono anche altri come la prevenzione, la deterrenza, ma il primo obiettivo è quello. Ma non penso che sia una finalità incompatibile col tempo trascorso. Volendo, ci si può rieducare fino all’ultimo momento di vita”. Cosa ha prodotto il cambio di linea francese? La giustizia italiana è diventata improvvisamente più credibile? “Niente affatto. La giustizia italiana è sempre la stessa, con i suoi tanti difetti e con i suoi pochi pregi. Sono i francesi a essersi resi conto della insensatezza di una linea, quella della cosiddetta dottrina Mitterrand, che bloccava qualunque possibilità di estradizione nei reati legati al terrorismo. Si era creata una barriera di tipo politico invalicabile, una barriera che di giuridico non aveva nulla e che non avevamo alcun strumento per superare. Non si poteva toglierla con la forza, non potevamo mandare le truppe a riprendere i latitanti...”. Come le rispondevano i suoi dirimpettai francesi quando chiedeva che i ricercati fossero arrestati e estradati? “Sempre allo stesso modo, eh non si può, c’è la dottrina Mitterrand!”. Ora si sono resi conto che quella dottrina non aveva ragione di esistere: e non lo aveva fin da allora, non viene superata adesso perché l’Italia ha cambiato modo di fare giustizia. É un ripensamento totale”. Che idea si è fatta del motivo che spinse i francesi ad abbracciare quella linea, e a trattare per decenni dei terroristi sanguinari come degli esuli politici meritevoli di accoglienza e riguardi? “Bisognerebbe chiederlo ai francesi. Certamente la dottrina Mitterrand non fu un prodotto autonomo e unilaterale dei francesi. A chiedere che venisse varata e che ai nostri ricercati fosse concesso una sorta di asilo politico furono anche esponenti politici italiani”. I difensori di quella dottrina dicono che tutelava solo i responsabili di reati politici e non chi era ricercato per fatti di sangue... “Ci sono molti modi per macchiarsi le mani di sangue. C’è quello di azionare la pistola, e c’è quello di preordinare la situazione che consente all’esecutore materiale di tirare il grilletto. In questi anni hanno trovato rifugio in Francia sia gli uni che gli altri”. C’è ancora il rischio di una beffa? Che non ci vengano consegnati? “La decisione passerà per la magistratura francese che valuterà secondo le leggi francesi. L’essenziale è che sia saltato il veto politico aprioristico durato finora”. Il lavoro con gli occhi dei detenuti di Lara Mariani informazionesenzafiltro.it, 1 maggio 2021 Carcere e lavoro: l’ingresso delle imprese nel mondo della prigione suscita dubbi e speranze. Le storie dei detenuti raccolte in esclusiva da SenzaFiltro. Siamo stati collegati quasi un’ora e mezza, e anche se non ho potuto incontrarli di persona ho potuto dare un volto ai ragazzi, alle loro esperienze e alle loro difficoltà. Erano tutti riuniti per la lezione del corso di grafica, audio e video del progetto Trial che stanno seguendo da qualche mese. Si tratta di un percorso tra i mestieri delle arti per utenti con limitazioni personali della libertà e il loro responsabile Andrea Cocco ha organizzato una riunione online che mi ha permesso di intrufolarmi in quell’aula romana. E alla fine sono stati i ragazzi detenuti a intervistare me. Mi ha stupito infatti la grande curiosità di alcuni di loro: volevano sapere come vengono visti dall’esterno, che cosa pensa di loro la gente, che cosa dicono i media. Volevano sapere che cosa pensa del carcere chi sta fuori. Ho provato a ripercorrere con loro quello che è emerso dal lavoro di questi mesi di reportage. Gli ho spiegato che il carcere è un mondo completamente sconosciuto e le persone non conoscono minimamente le dinamiche che si articolano al suo interno. La maggioranza degli italiani non sa che si può lavorare dentro gli istituti penitenziari, non sa che il carcere viene pagato dai detenuti e che parte di loro contribuisce al mantenimento della struttura, anzi pensano che tutte le spese siano sulle loro spalle. Un’altra voce delle tasse di cui farebbero volentieri a meno. A loro dispiace, glielo leggo negli sguardi, nei volti coperti dalla mascherina che lascia fuori solo gli occhi, ma questo non inficia la loro energia. Sono quasi tutti alla fine della pena, e non vedono l’ora di riprendere in mano la loro vita. Parlano i giovani detenuti: “In carcere si paga tutto, lavorare è una necessità” - Alberto affronta questo periodo con una certa sicurezza perché mi dice in maniera schietta: “Lara io sono entrato qui dentro che stavo in bianco (senza soldi N.d.R.) e tra qualche mese esco con 6.000 euro in tasca; Paolo Strano mi ha anche proposto di fare il tirocinio in un pub, al ‘Vale la pena’”. Alberto sta seguendo il corso di grafica ma la sua vera vocazione è la cucina, e in carcere hanno in qualche modo assecondato la sua passione, perché ha lavorato tanto come cuciniere. “Facevo sei ore al giorno e prendevo 670 euro, che in galera son soldi. Consumavo solo per il tabacco e per mangiare, però insieme ai miei compagni di cella ci dividevamo le spese del cibo. Facevamo la spesa quasi sempre perché il vitto del carcere non è mangiare”. A quel punto anche Federico vuole intervenire raccontando il suo percorso: “Mi hanno proposto questo corso perché sto finendo la pena. Ho fatto due anni di carcere e uno di sorveglianza speciale e ora ho un residuo di pena di diciotto mesi. In questi mesi mi si è presentata l’occasione del corso di formazione e ho accettato, perché in un certo periodo della mia vita ho fatto il macchinista di teatro e questo corso si occupa di arte e spettacolo, mi piacerebbe molto rimanere in quest’ambito. Però io dentro il carcere non ho lavorato perché avevo la possibilità di non farlo. Sono entrato con una pena piccola e non lavorare è stata una mia scelta, ho lasciato spazio a chi aveva più necessità. C’è chi ha famiglia e chi sta in bianco e ha sicuramente più bisogno di me, non solo per mantenersi dentro il carcere ma anche per mandare i soldi a casa”. “In prigione non insegnano mestieri e ogni cosa costa il doppio” - I ragazzi mi spiegano che la paga dipende molto da quello che fai e da quante ore riesci a lavorare. Secondo la loro esperienza, ad esempio, in cucina si prendono bei soldi, mentre gli scopini di sezione prendono poco. Quello che è chiaro ascoltandoli è che ognuno ha la propria diversissima esperienza, ogni carcerazione cambia, ogni situazione cambia. “Innanzitutto - mi spiegano - dipende dal carcere e dalla cella in cui ti ritrovi. Quella fa davvero la differenza. Inoltre ogni carcere è indipendente, ha un proprio sistema: ci sono istituti punitivi e istituti che credono di più nella rieducazione e il tuo percorso dipende molto dal carcere che ti capita.” I ragazzi sono increduli quando gli spiego che alcuni imprenditori si stanno impegnando per portare il lavoro delle loro aziende dentro il carcere. Mi chiedono che cosa ci guadagnano e perché dovrebbero assumersi questa responsabilità. I loro dubbi sono tanti. Ad esempio Federico il lavoro dentro il carcere lo vede solo funzionale al mantenimento della struttura. Non riesce a immaginare qualche mestiere che può essere professionalizzante per lui. Secondo la sua esperienza “in prigione non ti insegnano un mestiere, anzi prendono perlopiù le persone che quel mestiere lo sanno già fare, come è successo ad Alberto per la cucina. Ma quello che mi fa più rabbia è che tutti pensano che siamo sulle spalle del contribuente ma non è così, anzi in carcere paghiamo tutto, anche da mangiare”. Alberto lo interrompe proprio per raccontare la sua esperienza in cucina: “Dove stavo anni fa c’erano tre persone dedicate al controllo della qualità della carne e un giorno uno di questi signori è andato dall’ispettore per segnalare che la carne puzzava. L’ispettore gli ha risposto ‘se me lo dici un’altra volta ti levo l’incarico’. Noi a quel punto ci siamo uniti, abbiamo fatto una protesta rimandando tutti i carrelli indietro e la direttrice è intervenuta. Le abbiamo fatto sentire la carne e lei stessa ha ammesso che puzzava. Da quel momento le cose sono un po’ migliorate, ma non tanto. Siamo comunque costretti a integrare i pasti con qualcosa di buono”. Secondo i ragazzi la qualità del cibo è appositamente bassa, così il detenuto che può permetterselo fa la spesa autonomamente. “Il problema è che - prosegue Federico - quello che compriamo in prigione costa molto di più di quello che pagate voi al supermercato. Se chiediamo una bottiglia d’olio la paghiamo 9 euro come se fosse un olio di ottima qualità, ma arriva comunque un olio scarso. Dobbiamo comprarci il fornello e il gas e i prezzi sono doppi rispetto a quelli normali. Una taglia capelli ci costa 40 euro, una padella 20 euro. E se mio padre mi vuole dare dei soldi sul conto corrente del carcere, tutte le volte paga l’operazione 2 euro. Anche il servizio internet si paga: 30 mail costano 12 euro, sia per mandare che per ricevere”. Carceri, arrivano le imprese? Dubbi e speranze dei detenuti - Viste le esperienze è lecito dare spazio ai loro dubbi: “Se le imprese devono fare degli utili facendoci lavorare come facciamo a essere sicuri di non essere sfruttati?”. Spiego loro che piccole e grandi imprese stanno entrando in carcere usufruendo di locali gratuiti e degli incentivi della legge Smuraglia. Hanno così importanti tagli di costi, e in cambio i detenuti avranno formazione e regolari contratti di assunzione nazionale. Soprattutto, saranno lavori spendibili anche fuori. Rimangono colpiti, tutti tranne Alberto, che oltre al cuciniere ha lavorato anche per un forno (un laboratorio privato che è entrato dentro il carcere). Mi conferma che aveva un regolare contratto di assunzione e un buon stipendio, ma l’esperienza non è stata del tutto proficua perché il forno è fallito e lui avanza ancora gli ultimi tre stipendi e il TFR. “Avevo un contratto di assunzione, c’erano le telecamere che testimoniavano che lavoravo e ad oggi ho tutte le carte in mano. Mi hanno detto di denunciarli, ma io da detenuto non denuncerò mai nessuno”. Insomma l’entrata dei privati dentro il carcere in qualche modo preoccupa. “È giusto far lavorare”, interviene Andrea, l’insegnante del corso, “dare energia positiva, far passare il tempo in maniera migliore, perché le persone che escono dal carcere non sono le stesse che sono entrate. Ognuno ha dei talenti che, se valorizzati, possono essere utili alla comunità, però quando girano soldi io mi preoccupo. Non è che con i privati possiamo sempre riuscire a risolvere tutto, lo Stato prima degli altri deve garantire e favorire la crescita”. L’esperienza di chi esce dal carcere con una laurea e un lavoro - Grazie all’impegno di Fausto Gritti, presidente dell’Associazione Carcere e Territorio che si occupa del Reinserimento sociale di detenuti ed ex detenuti, riesco a raggiungere anche Enza, una signora che è in carcere a Bergamo da dodici anni e che oggi lavora all’esterno presso la cooperativa sociale bergamasca Calimero che da 30 anni si occupa di detenuti e persone svantaggiate. “Dal punto di vista lavorativo sono sempre stata abbastanza fortunata perché, quando sono entrata, la sezione femminile di Bergamo non era sovraffollata e c’era quasi sempre la possibilità di lavorare. Ho lavorato in lavanderia, in cucina ma ho fatto anche la spesina e le pulizie. In carcere sono sempre riuscita a mantenermi, mi sono sempre comprata il mangiare, i prodotti per l’igiene personale e per pulire la cella, anche perché la prigione passa solo la carta igienica e gli assorbenti.” “Poi cinque anni fa mi hanno dato l’articolo 21 e quindi la possibilità di lavorare all’esterno. Ho fatto un tirocinio come aiuto bidella e da tre anni sono alla Calimero e lavoro all’assemblaggio caschi (da equitazione, da bici, da arrampicata). Il lavoro mi piace e sono assunta a tempo indeterminato per sei ore al giorno, lo stipendio è buono. Fino all’anno scorso facevo otto ore, ma ultimamente ho chiesto di ridurmi l’orario perché ho bisogno di un po’ di tempo per studiare”. Enza infatti è entrata in carcere con la terza media, ma mentre lavorava per l’istituto penitenziario ha preso anche il diploma di ragioneria e ora sta facendo l’università. Le mancano otto esami alla laurea in scienze dell’educazione e le manca poco alla fine della pena. Uscirà dal carcere con qualche risparmio e una laurea in tasca. Come mi spiegavano i ragazzi, le esperienze in carcere non potrebbero essere più diverse. Costo del lavoro: troppo alto, anche per i detenuti di Stefania Zolotti informazionesenzafiltro.it, 1 maggio 2021 Intervista a Carmelo Cantone. “Creare un fascino attorno al mondo delle carceri per attirare le imprese”: il binomio non è impossibile. Raggiungere Carmelo Cantone per parlare di rivoluzioni oltre le sbarre è avere ben chiaro di parlare con qualcuno che ha già preparato l’assedio ai luoghi comuni delle carceri italiane. Le conosce più di casa sua. È Provveditore per Lazio, Abruzzo e Molise e gestisce venticinque istituti penitenziari, ma in contemporanea è tornato a occuparsi nuovamente della Toscana che aveva diretto dal 2011 al 2016 dato che al momento la sede di Firenze è scoperta. Di Italia dalle carceri ne ha vista parecchia, Carmelo Cantone. Le prime esperienze a Belluno e Trieste per un anno e mezzo come vicedirettore e poi, come si usava allora, gli diedero la direzione di un istituto: lo mandarono a Brescia, che ha diretto per undici anni. Poi la casa di reclusione di Padova per 5 e, da lì, il nuovo complesso di Rebibbia per dieci anni fino a essere nominato dirigente generale e occuparsi quindi dei provveditorati, partendo da Toscana, Puglia e Basilicata. Carmelo Cantone: “Creare un fascino attorno al mondo delle carceri per attirare le imprese” - “Siamo sempre troppo distratti da sanità e sicurezza nel gestire le carceri e passano in secondo piano tutte quelle occasioni di vederlo come uno spazio capace di generare servizi collettivi o vere e proprie forme di lavoro e di impresa. Il linguaggio che parlano le Amministrazioni Pubbliche è ancora troppo distante dal senso concreto delle cose, per non parlare dei gineprai burocratici che le imprese si trovano davanti quando entrano in contatto con gli apparati della giustizia. L’ostacolo riguarda tutte le amministrazioni: lo sforzo che facciamo ogni giorno coi miei uffici, coi colleghi, con le direzioni degli istituti penitenziari è anche quello di creare un fascino intorno al nostro mondo, alleggerendolo dalle pastoie e dagli intralci. Intorno alle carceri, ancora più che altrove, è urgente che le cose semplici vengano gestite in modo ancora più semplice e che le cose complicate vengano rese un po’ meno complicate”. I progetti di progressiva riabilitazione, capaci di sfruttare le misure alternative, non sono affatto attrattivi per buona parte della nostra società civile. “Chi me lo fa fare?” è la risposta più istintiva, temendo i rischi che potrebbero ricadere sull’immagine reputazionale della propria azienda o della propria comunità in caso di errori o progetti finiti male. Ecco la ragione per cui le imprese più mature sono quelle di cui ha bisogno il Ministero della Giustizia che promuove con fermezza la spinta di attività lavorative e produttive dentro le carceri: mature per solidità finanziaria e per bilanci, ma ancor più per una centratura culturale interna all’organizzazione. Capire le resistenze che oppongono le imprese è il primo passo, nonostante dalla Legge Smuraglia (Legge n. 193/2000 e successivi decreti attuativi) siano previsti sgravi fiscali e vantaggi economici in termini di riduzione dei costi fissi di locazione. “Cerchiamo imprese in crescita e desiderose di guardare con originalità al tema dell’inclusione riletto in un’ottica produttiva. Se realtà sane, con almeno cento dipendenti, si facessero carico ognuna anche di un solo detenuto, il nostro progetto vedrebbe una luce diversa. Non lo possiamo pretendere dalla piccola o piccolissima azienda di famiglia, per quanto siano benvenute anche loro. C’è grande interesse perché gli interlocutori avvertono subito il senso di novità, ma c’è un gap enorme da coprire tra il mondo dell’imprenditoria che ha voglia di investire e di crescere - anche in un periodo di recessione come questo - e il nostro mondo che non ha mai dialogato a sufficienza con l’esterno.” C’è un settore o un mercato che prediligete nella scelta delle imprese partner? Noi andiamo a collocare professionalità basse e medio basse, difficilmente abbiamo profili tecnici o laureati. Però abbiamo già risorse preziose pronte da impiegare, ad esempio nel campo dell’edilizia, così come sarebbe altamente fattibile improntare una formazione specifica se necessaria. Non a caso alcune settimane fa abbiamo chiuso l’accordo con la segreteria nazionale di Ance (Associazione Nazionale Costruttori Edili) per Lazio, Abruzzo e Molise. Se parliamo di interventi all’esterno, ritengo che l’edilizia sia in assoluto il nostro bacino principe, tanto più se pensiamo all’avvio dei cantieri italiani in previsione dei fondi UE in arrivo. Mai come ora dobbiamo essere bravi a intercettare gli sviluppi dei territori e a cogliere gli incentivi per l’utilizzo della nostra manodopera che, seppure considerata per legge “svantaggiata” in base alla legge sul volontariato n. 381/1981, garantisce comunque altissime prestazioni. Pochi sanno che proprio dalle carceri sono partiti anni fa i primi progetti pionieristici e sociali nel mondo dei call center. Qui entriamo nel secondo filone che vorremmo potenziare per far comprendere che anche il mondo dei servizi può appoggiarsi a noi. Mi battei per l’esperienza fatta a Rebibbia nel 2006 e ancor prima a San Vittore con Telecom per il servizio 1257: avevamo strutturato veri e propri call center interni al carcere che collaboravano con quelli esterni; l’avvento dei cellulari aveva poi reso inutile quel servizio per gli abbonati e dopo alcuni anni non fu più ritenuto funzionale. Ma nel 2011, sempre a Rebibbia, facemmo un accordo con l’ospedale pediatrico Bambin Gesù: partecipavamo al servizio CUP e ci occupavamo di prenotare le prestazioni specialistiche per le famiglie dei piccoli ricoverati. Quel nostro CUP si affiancava al CUP dell’ospedale e nel giro di un mese permise l’abbattimento del 50% dei tempi di attesa a cui andavano incontro le famiglie: oggi, a distanza di dieci anni, quel CUP esiste ancora, si è rafforzato e accoglie anche persone in misure alternative che lavorano nel CUP esterno del Bambin Gesù. La digitalizzazione del lavoro vi permette di oliare meglio le difficoltà? Senza dubbio. Ma ci tengo anche a dire che il nostro lavoro non sottrae risorse al lavoro esterno, non c’è alcuna forma di cannibalismo. Le resistenze italiane sono diverse rispetto a quelle di altri Paesi europei... Nei Paesi a democrazia avanzata la grande differenza in progetti di inserimento lavorativo dei detenuti - e lo dico soprattutto per il lavoro interno alle strutture - è che in Italia il costo della manodopera è altissimo. Altrove si parla di piccoli emolumenti più a titolo di gratificazione, mentre in Italia la linea giurisprudenziale in materia lavoristica ha sempre ribadito che al detenuto si debba garantire un trattamento retributivo adeguato e in linea con l’art. 36 della Costituzione. Aggiungo: giustamente. Almeno in questo siamo un Paese che riconosce il valore del lavoro dei detenuti alla stregua di quello che accade per la stessa figura professionale all’esterno; l’altra faccia della medaglia è che questa garanzia rende meno appetibile il mercato dei detenuti da parte delle imprese nonostante possano avvalersi di tutti gli sgravi fiscali della Legge Smuraglia (Legge 193/2000). Non c’è dubbio che, se negli anni avessimo detto alle imprese che il costo del lavoro dei detenuti per 36 ore settimanali sarebbe costato un decimo come retribuzione netta rispetto a quanto viene quotato fuori, ci sarebbe stata la fila per creare attività lavorativa fuori dal carcere e infatti prima della riforma penitenziaria del 1975, che ha generato l’adeguamento del costo del lavoro, c’erano moltissime cosiddette “lavorazioni” portate all’interno da grandi gruppi industriali: per esperienza diretta posso citare le Officine Rizzato di Padova. In quegli anni il detenuto costava pochissimo alle imprese ma nel giro di pochi anni, con la riforma, le imprese hanno iniziato a sparire dai nostri circuiti. Obiettivo rieducazione in carcere, con arte e cultura di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 1 maggio 2021 Portare in carcere arte e cultura come mezzi di svago e crescita per coloro che sono condannati a vivere in spazi ristretti e in carenza di stimoli. Questo l’obiettivo dell’Associazione Artisti dentro onlus, che ha bandito per il 2021 tre concorsi destinati alle persone detenute: “Scrittori dentro”, “Pittori dentro” e “Cuochi dentro”. L’associazione è stata fondata da persone che hanno ritenuto di volersi impegnare per offrire un’occasione in più ai detenuti: come risulta infatti dalla Statuto, l’associazione, a carattere culturale, si impegna nel promuovere attività di vario genere, prescindendo dai motivi che abbiamo determinato la condizione di detenzione. “Scrittori dentro”, alla ottava edizione, è destinato a tutti gli istituti penitenziari italiani e della Repubblica di San Marino e vuole incoraggiare la scrittura creativa fra i detenuti: i testi devono essere redatti in italiano da detenuti condannati con sentenza definitiva. Ogni autore può partecipare con un massimo di tre opere inedite; tre le sezioni previste a seconda del tipo di opera, possono essere racconti brevi, poesie a tema libero ma anche testi rap. La partecipazione di ogni concorrente non si esaurisce con la presentazione dell’opera, perché i finalisti proseguiranno con il lavoro di editing, per via postale, in collaborazione con l’editor che gli verrà assegnato. “Pittori dentro”, ideato per incoraggiare l’arte pittorica, è realizzato in una sola sezione “Mail art”: sono infatti ammesse solo opere realizzate su cartoline postali e inviate a mezzo posta. Il bando prevede anche il rischio “che l’opera non giunga mai a destinazione” ma, prosegue “è un rischio che ogni artista si deve assumere”. Rivolto a istituti penitenziari in Italia e all’estero, ogni autore potrà inviare fino a tre opere, anche coperte dall’anonimato consentito dall’uso di uno pseudonimo. Termine ultimo per l’invio è il 30 giugno. I finalisti vedranno le loro opere esposte in mostre organizzate dall’Associazione Artisti dentro Onlus. Infine, il terzo concorso è “Cuochi dentro”, che vuole incoraggiare la cucina creativa negli istituti di detenzione e “far riflettere sul valore del cibo, quale espressione d’arte, collante sociale e stimolo della memoria storica”, come recita il bando. Destinato a istituti italiani e della Repubblica di San Marino, prevede la realizzazione di ricette che possano essere eseguite esclusivamente con prodotti disponibili nei penitenziari stessi. Anche per questo concorso, è previsto un invio massimo di tre ricette. Il termine massimo è il 31 maggio e “sono gradite indicazioni del tipo di attrezzatura usata, provenienza della materia prima…e anche brevi commenti sul cibo proposto, ricordi a esso legati e disegni”. Insomma, il cibo della memoria o la memoria come cibo. Tutti i concorsi sono stati indetti con il patrocinio della Città metropolitana di Milano.4 Carcere. Self empowerment per le donne detenute, al via la formazione fuoriluogo.it, 1 maggio 2021 Al via il 3 maggio il progetto WOM, Women on Movement per la diffusione dei processi di self empowerment per le detenute italiane. Promosso dalla Società della Ragione con il sostegno dell’8 per mille della Chiesa Valdese. Con un webinar di presentazione lunedì 3 maggio (ore 17,30 iscrizione su https://attendee.gotowebinar.com/register/5933265324334509582) partirà il progetto “WOM - Women on Movement - Self empowerment per donne detenute” promosso da la Società della Ragione con il sostegno dell’otto per mille della Chiesa Valdese. Il progetto prende spunto dall’esperienza positiva di un precedente progetto di ricerca-azione denominato WIT - Women in Transition, anch’esso finanziato dall’otto per mille della Chiesa Valdese, grazie al quale nel 2018 sono stati sperimentati gruppi di self-empowerment tra donne detenute in due carceri della Toscana, condotti da esperte dell’associazione. L’approccio di empowerment in carcere e l’esperienza dei “laboratori” di self empowerment sono stati documentati anche nel volume di S. Ronconi e G. Zuffa La prigione delle donne. Idee e pratiche per i diritti, Ediesse, Roma (2020, pp.206). Il nuovo progetto si propone di estendere l’esperienza dei laboratori di self empowerment fra donne detenute primariamente attraverso l’apertura di un confronto generale nell’ambito del contesto carcerario sulla tematica della differenza di genere e sull’approccio di empowerment in carcere. Saranno quindi attivati moduli di formazione rivolti a operatori e a operatrici del settore penitenziario (volontari e professionisti) per la conduzione dei gruppi di self empowerment con le donne detenute. L’obiettivo finale è quello di promuovere nuove esperienze di laboratori di self empowerment in carcere, con la conduzione di operatori/ci formati ad hoc e con opportuna supervisione. Il modello di self empowerment mira a promuovere l’autostima delle donne detenute, sviluppare i punti forza della loro esperienza e le loro competenze e facilitare la relazione fra detenute e con le varie figure professionali nella quotidianità del carcere. Si propone anche di elaborare strategie di prevenzione rispetto a momenti di crisi, che si presentano nella detenzione particolarmente nei momenti di ingresso in carcere. Attraverso la formazione e il training alla conduzione dei gruppi, verranno offerti agli operatori e discussi strumenti per portare alla consapevolezza delle donne i fattori di stress e di sofferenza in modo da permetterne la elaborazione e sviluppare le capacità di coping detenute. Allo stesso tempo si lavorerà sulla ricognizione e l’auto-riconoscimento da parte delle donne delle loro competenze, sia in campo cognitivo che emotivo/relazionale con la rivisitazione e la rielaborazione delle relazioni familiari, in particolare le relazioni coi figli/figlie, area significativa e sensibile dell’esperienza femminile. Infine, si cercherà di capire come identificare insieme alle donne i momenti di crisi, per operare in modalità preventiva e proattiva. Il 3 maggio dalle 17,30 Grazia Zuffa, Presidente de la Società della Ragione, insieme a Susanna Ronconi e Liz O’Neill, conduttrici dei primi laboratori sperimentali e Serena Franchi, direttrice dell’Associazione presenteranno nel dettaglio il progetto. Hanno per ora assicurato la partecipazione Maria Teresa Menotto, Elena Zizioli, Monica Gallo, Nicoletta Gandus, Ornella Favero, Giusi Furnari e Giulia Fabini. Per iscriversi al seminario: https://attendee.gotowebinar.com/register/5933265324334509582. Per informazioni sul progetto: https://www.societadellaragione.it/wom - wom@societadellaragione.it La giustizia è una patacca di Claudio Cerasa Il Foglio, 1 maggio 2021 È una storia di pizzini, di patacche, di fango, di infamie, di sospetti, di cialtronate, di calunnie e di mille altri ingredienti molto maleodoranti che da anni arricchiscono le pagine quotidiane del circo mediatico italiano. Ma lo scandalo dei verbali segreti o dei verbali patacca contenenti le deposizioni dell’avvocato siciliano Piero Amara, consegnati un anno fa da un pm della procura di Milano all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo e finiti successivamente sulla scrivania del consigliere del Csm Nino Di Matteo e su quella di alcuni giornalisti italiani, è qualcosa di molto più importante di un piccolo e casuale incendio al di là del fiume. Ed è qualcosa che contribuisce a rafforzare l’idea che la giustizia italiana sia sempre di più simile alla famosa “Lotteria a Babilonia” descritta da Jorge Luis Borges, all’interno della quale i possessori di un biglietto ricevevano premi oppure punizioni sulla base di un criterio molto semplice: il caso assoluto. L’immagine della giustizia offerta dallo scandalo Amara (lo scandalo è relativo ad alcuni verbali d’interrogatorio coperti da segreto istruttorio consegnati a un ex membro del Consiglio superiore della magistratura, contenenti una serie di rivelazioni sulla attività di una presunta loggia massonica, all’interno della quale vi sarebbero anche delle presunte rivelazioni sull’ex premier Giuseppe Conte) è l’immagine di una giustizia certamente impazzita che si limita però a utilizzare molto semplicemente gli strumenti della gogna che l’apparato politico-giudiziario gli ha messo a disposizione. E’ una storia che fotografa la presenza di correnti della magistratura che duellano da anni in modo fratricida tra loro (ogni volta che Milano sta per cambiare il capo della procura - Francesco Greco scade tra pochi mesi - le correnti iniziano a combattere battaglie con colpi sotto la cintura, come sa bene anche il predecessore di Greco a Milano Edmondo Bruti Liberati, uno dei padri nobili di Magistratura democratica, che negli ultimi mesi della sua esperienza a Milano ha combattuto una battaglia contro un esponente di Magistratura indipendente come Alfredo Robledo) seguendo modalità simili a quelle tra bande nell’indifferenza operativa anche dei garanti del Csm (il Csm, oltre che riformato, andrebbe sciolto il prima possibile). E’ una storia che fotografa un meccanismo perverso considerato naturale da un pezzo della magistratura in base al quale si considera automatico provare a ottenere attraverso le leve del processo mediatico ciò che non si riesce a ottenere attraverso un’indagine giudiziaria (il pm milanese che ha diffuso i verbali di Amara ha compiuto quella scelta, secondo una ricostruzione offerta ieri da Repubblica, “perché preoccupato dall’immobilismo che registrava in procura intorno a quelle accuse”). E’ una storia che fotografa in modo mostruoso quanto possa essere pericoloso per il nostro stato di diritto avere una macchina giudiziaria governata più che dal principio della semplice aleatorietà dal principio dell’assoluta arbitrarietà (in una società dominata dalla cultura del sospetto la salvezza dell’incolpato è impossibile e può bastare a volte uno schizzo di fango per ottenere una soddisfacente condanna mediatica). Ed è una storia che in un certo senso mette in evidenza ancora una volta tutti i peggiori vizi del circo mediatico-giudiziario italiano. Un vizio come quello di credere in modo disinvolto alle patacche (chi oggi si indigna per i giornali che hanno creduto alle parole dell’avvocato Amara, come il Fatto, sono gli stessi giornali che fino a qualche mese fa pendevano dalle labbra di Amara quando le parole di Amara erano lì a colpire non gli amici di quel giornale, come Conte, ma i nemici di quel giornale, come l’Eni). Un vizio come quello di denunciare le oscenità causate dalla violazione del segreto istruttorio solo quando le notizie veicolate da quella violazione interessano poco (i giornali come il Fatto e come la Verità specializzati nella gogna, abituati a pubblicare qualsiasi atto di indagine giunga nelle loro mani senza preoccuparsi delle ripercussioni per le persone coinvolte, oggi danno grandi lezioni di deontologia giornalistica). Un vizio come quello di trasformare i magistrati (come Davigo) in custodi assoluti della morale (l’impiegata del Csm che avrebbe inviato ad alcuni giornali delle missive anonime per sollecitare la pubblicazione dei verbali di Amara è la segretaria dell’allora consigliere Davigo, che ora è indagata per calunnia) attribuendo loro la funzione taumaturgica di combattere non più i reati (i corrotti) ma i problemi della società (la corruzione). Il problema non è, come ha detto ieri Repubblica, il modo in cui funziona il Csm e non è neppure la mela marcia chiamata Luca Palamara. Il problema è la presenza di un sistema giudiziario a vocazione inquisitoria, devastato da correnti in lotta tra loro che la politica ha accettato di mettere al servizio di quello che il professor Filippo Sgubbi definì in un famoso libro pubblicato per il Mulino il “diritto penale totale”. Un diritto che da un lato ha permesso al sistema giudiziario italiano di “legittimare provvedimenti adottati sì dalla magistratura, ma aventi natura di amministrazione e di governo e ispirati all’opportunità politica” e dall’altro ha permesso di avere “un processo penale ideato non più per accertare un fatto ma per creare un fatto” e dove il diritto non è più destinato a stabilire la giustizia, bensì ad affermare la vittoria dell’uno sull’altro. La Norimberga delle toghe non serve, serve la separazione delle carriere di Davide Varì Il Dubbio, 1 maggio 2021 Davvero qualcuno pensa di risolvere la deriva della nostra magistratura mettendo sul banco degli imputati la magistratura? Serve una riforma radicale della Giustizia: separazione delle carriere, responsabilità civile, riforma del Csm.. e non una Norimberga dei giudici. Ci risiamo: avevamo appena finito di commentare gli obbrobri del “sistema” Palamara, pensando e illudendoci di intravedere una luce in fondo al tunnel, ed ecco invece arrivare una nuova ondata di fango che travolge ancora una volta la nostra magistratura. La dinamica è sempre la stessa: un magistrato confeziona un’inchiesta e questa stessa inchiesta spunta miracolosamente nelle redazioni di alcuni giornali, i quali decidono di pubblicarla o non pubblicarla in base alle relazioni personali con questa o quella procura. Questa brutta storia arriva dopo lo stillicidio quotidiano delle chat di Palamara; dopo le istantanee dell’hotel Champagne e dopo la rivelazione di una guerra tra bande tra le varie correnti di magistrati che lottavano (e forse lottano ancora) per il controllo delle procure. Un tutti contro tutti senza fine e gestito in nome del potere per il potere. È dunque evidente che ci troviamo di fronte a un atteggiamento autodistruttivo che deve essere fermato o quantomeno arginato. Una magistratura in queste condizioni è infatti un pericolo, un pericolo per noi tutti. La crisi, il vero e proprio collasso, e la delegittimazione di uno degli attori principali della nostra giurisdizione mettono in pericolo l’intera giustizia italiana. Per questo, chi assiste a questa guerra deve trovare la forza per fermare questa deriva. Pensiamo alla politica naturalmente. Chi altri, se non la politica, ha infatti il diritto e il dovere di fermare questa resa dei conti e portare questa guerra sporca all’interno di un percorso di riforme? E allora in questo contesto così lacerato ci domandiamo: a che serve una commissione d’inchiesta parlamentare sulla magistratura? Intendiamoci, una commissione parlamentare è sempre legittima. Chi scrive pensa che la politica debba avere il ruolo di guida all’interno di una democrazia. La politica è quel potere legittimato dal voto popolare che deve esercitare un controllo critico sulle altre istituzioni. Magistratura compresa. E conosciamo bene le derive di alcune procure. In questi decenni alcuni magistrati hanno fatto e disfatto governi, hanno mandato a rotoli, spesso con gratuita ferocia, la carriera politica di decine di parlamentari, ministri, governatori, sindaci, semplici consiglieri comunali e semplicissimi cittadini. Spesso sulla base di indizi fragilissimi e attraverso inchieste che si sono sciolte come neve al sole già nel primo grado di giudizio. Ci sono procure che hanno sfruttato con grande spregiudicatezza i media, utilizzando giornali e tv come amplificatori delle loro inchieste. Hanno messo in piazza la vita privata di migliaia di persone senza alcun riguardo e hanno usato la galera preventiva trasformandola in una sorta di strumento di tortura. E hanno fatto tutto questo pensando di essere investiti di una missione di rieducazione etica e morale del nostro paese da realizzare per via giudiziaria. Insomma, di fronte a questa galleria degli orrori la tentazione di “fargliela pagare”, di chiedere il conto e di mettere la magistratura sul banco degli imputati è assai forte. Ma chi immagina una “Norimberga” delle toghe incorrerebbe in un gravissimo errore. Questo impulso dal deciso retrogusto vendicativo va frenato per quel che dicevamo prima: perché la politica ha il primato sul controllo della nostra democrazia e sull’equilibrio dei poteri. E questo primato va usato con grande responsabilità. Alla magistratura non servono processi, serve piuttosto il soccorso di qualcuno che la aiuti a uscire dal buco nero nel quale si è infilata. La politica deve trovare la forza e il coraggio di trasformare questa sciagura in opportunità andando a caccia di soluzioni radicalmente riformiste. Magari iniziando da una riforma radicale del Csm (consigliatissima, al riguardo, la lettura della proposta Vietti-Casini), dalla separazione delle carriere e dalla responsabilità civile dei magistrati. Così facendo raggiungerebbe due risultati: troverebbe la sua credibilità perduta e guiderebbe una riforma davvero radicale della nostra giustizia. Quando la politica lascia campo libero alla polizia di Franco Corleone Il Manifesto, 1 maggio 2021 La “retata” di Parigi. Inevitabilmente ci si interroga sul senso della impresa “Ombre rosse” e pare che sia più a uso e consumo della Francia di Macron che della ministra Cartabia, che pare abbia rassicurato che non si ripeteranno sceneggiate squallide come quelle messe in atto dall’ex ministro Bonafede per l’arrivo di Cesare Battisti. C’è un grande merito nell’operazione congiunta di servizi e polizie italo-francesi per gli arresti effettuati all’alba nelle abitazioni con le modalità di un blitz degno di miglior causa. Quello di farci ringiovanire di colpo di cinquant’anni e di questo personalmente sono grato perché posso pensare che cosa mi accadrà di vedere nel 2068. Io ricordo bene quegli anni a Milano e di avere scritto di Feltrinelli dilaniato sul traliccio di Segrate e ricordo anche il giorno in cui si diffuse la notizia dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi, così come ho impresso nella mente l’esplosione della bomba in piazza Fontana e il defenestramento di Pino Pinelli. In Parlamento sono stato protagonista della approvazione della legge Gozzini del 1986 e in particolare dell’emendamento che alzava i giorni di liberazione anticipata a 45 giorni a semestre e soprattutto della sua retroattività. Nelle visite nelle carceri era accolto con grande entusiasmo. Mi occupai intensamente anche della legge sulla dissociazione del 1987 e presentai emendamenti che erano stati preventivamente discussi nelle patrie galere; in particolare non ebbe successo la proposta di definire la legge come desistenza, suggerita da Sergio Segio. Se fosse stata approvata quella ipotesi probabilmente si sarebbe potuta aprire una stagione di confronto su una esperienza tragica e avrebbe potuto ottenere una adesione più ampia e con una spinta a un confronto senza reticenze. È bene ricordare che anche le proposte di amnistia e indulto per i fatti legati alla lotta armata, presentate anche da una personalità insospettabile come Ugo Pecchioli del Partito Comunista, caratterizzato da durezza e intransigenza, non ebbero successo e quindi si trattò di una occasione mancata per una riflessione storica. Proporre oggi una commissione per verità e riconciliazione come fu fatto in Sudafrica è assolutamente fuori tempo. Nel 1988 appena avvenuto l’arresto di Sofri, Pietrostefani e Bompressi dopo la confessione di Leonardo Marino, mi recai nella caserma dei carabinieri di via Moscova dove Sofri era sequestrato. Da allora mi occupai della carcerazione e dei processi dei tre esponenti di Lotta Continua fino alla fine controversa della vicenda giudiziaria, che ebbe il culmine vergognoso in una sentenza suicida che portò all’annullamento di una assoluzione. Ricordo tutto questo perché è evidente che la carcerazione di sette condannati per fatti risalenti nel tempo non porterà a nessun risultato di chiarificazione storica e personale. Inevitabilmente ci si interroga sul senso della impresa “Ombre rosse” e pare che sia più a uso e consumo della Francia di Macron che della ministra Cartabia, che pare abbia rassicurato che non si ripeteranno sceneggiate squallide come quelle messe in atto dall’ex ministro Bonafede per l’arrivo di Cesare Battisti. Certo il passaggio dal gigante Mitterrand al micro Macron, conferma che la politica si rimpicciolisce fino ad annullarsi. Il senso assai modesto dell’operazione è stato messo efficacemente in luce da Giuliano Ferrara; anche il dolore dei parenti delle vittime non troverà grande ristoro e riaprirà ferite senza la consolazione neppure della vendetta. La retorica e la demagogia non aiutano mai, tanto meno in questo caso. Il governo italiano avrebbe dovuto avvertire il ministro della giustizia francese che Giorgio Pietrostefani non ha una condanna per terrorismo e così anche televisioni e giornali avrebbero evitato errori di classificazione. Per finire. Se davvero si volesse chiudere una pagina di dolore e sangue, sarebbe il caso che il Presidente Mattarella pensasse alla concessione di qualche grazia per persone che sono in carcere da più di quaranta anni come accade a Cesare Di Lenardo, torturato e condannato per il sequestro del generale americano James Dozier. Quando ero sottosegretario alla Giustizia il Presidente Scalfaro, democristiano e conservatore, concesse alcune grazie a condannati per fatti di terrorismo. Ebbene dopo venti anni sembra che in Italia la storia vada indietro. Un orologio che scandisce riletture e revisionismi incomprensibili. Come nella Comune di Parigi, dovremmo rompere questi orologi impazziti e crudeli. Vendetta, giustizia, verità, soddisfazione. A giusto passo senza passerelle di Mario Chiavario Avvenire, 1 maggio 2021 Vendetta. Giustizia. Verità. Soddisfazione. Sono alcune tra le parole lette o ascoltate a primissimo commento dell’operazione di polizia che ha portato all’arresto, in Francia, di alcune persone condannate per gravi delitti durante quelli che furono chiamati gli “anni di piombo”. No. Non si può liquidare come vendetta la rimozione di un ostacolo all’esecuzione di condanne penali come queste. Ed è vero che circa il giudizio di colpevolezza con cui si è conclusa qualcuna di tali sentenze si possono nutrire legittimi dubbi, tanto sotto il profilo dei fondamenti “in fatto” quanto sotto quello di certi aspetti o momenti della genesi processuale; ma è altrettanto vero che non sono mancati gli strumenti per ripararvi; e, soprattutto, è falsa l’accusa che quelle condanne siano state dovute a repressione del dissenso politico, trattandosi comunque di terribili fatti di sangue; così come non è vero che agli imputati sia stata addirittura negata la possibilità di difendersi. Non vendetta, dunque, ma giustizia. O meglio, un passo verso la risposta, seppur tardiva, a un’istanza di giustizia. Non è ancora l’estradizione, giacché in Francia come in Italia esiste al riguardo una specifica, opportunissima, “garanzia giurisdizionale”. Dev’essere insomma la magistratura a vagliare sotto ogni aspetto la legittimità e la correttezza delle relative richieste; e un suo “no” blocca ogni possibile, diversa volontà dell’Esecutivo. Ma il segnale di una svolta c’è, quantomeno nell’atteggiamento di fondo delle istituzioni governative transalpine, fino al Capo dello Stato. Verità è la terza delle parole evocate; ed esprime l’oggetto di una speranza. Senza troppe illusioni. Non è facile prevedere che quest’estradizione, se e quando ci sarà, possa davvero contribuire a sollevare, a distanza di così tanti anni, certi veli che ancora avvolgono, se non il “come”, il “perché” di quegli orrori. Ad avere il diritto di chiederlo, però, non sono soltanto i familiari delle vittime, ma l’intera collettività. L’ultima parola - soddisfazione - è forse la più problematica, al di là delle apparenze. Ha a sua volta un senso, sulla bocca dei responsabili del dialogo, con le massime autorità francesi, che ha avuto questo sbocco. Più ancora possono sentirsi soddisfatti coloro i quali, anche e soprattutto in ruoli meno appariscenti, hanno tessuto per anni una preziosa tela di cooperazione diplomatica e giudiziaria. Ma colpisce il diverso accento usato, ad esempio, da Mario Calabresi, il giornalista figlio del commissario trucidato nel 1972: “Oggi è stato ristabilito un principio fondamentale: non devono esistere zone franche per chi ha ucciso. La giustizia è stata finalmente rispettata. Ma non riesco a provare soddisfazione nel vedere una persona vecchia e malata in carcere dopo così tanto tempo”. È un’affermazione nobilissima, tanto più perché espressiva di un idem sentire con la propria madre, Gemma. Non smentisce il netto rifiuto dell’acquiescenza a un’impunità troppo facilmente cercata e ottenuta, ma al tempo stesso testimonia della capacità di superare un sentimento di mera ostilità, pur comprensibilissimo e da non imputare a chi vi accede perché colpito direttamente e irrimediabilmente negli affetti e nei legami più stretti e profondi. Si può esprimere un’altra speranza? Che cioè, una volta compiuto l’iter dell’eventuale estradizione degli arrestati, il nostro diritto penale e penitenziario possa dare concreto riscontro anche istituzionale ad affermazioni come quella? Trovando e creando - se del caso, e ovviamente non soltanto per questo caso - strumenti adatti a non trasformare, appunto, un atto di giustizia in una vendetta di Stato? Nessuno, no, deve forzare una frase sulla giustizia riparativa, pronunciata ‘a caldo’ dalla ministra Cartabia in risposta a una domanda sul seguito da dare a questi arresti; c’è il tempo per capire se potranno trarsene frutti tangibili e insieme rassicuranti chiunque abbia a cuore l’autentica giustizia. Ma in ogni caso si può esser sicuri che non si ripeterà quella che anche la figlia di un’altra vittima del terrorismo, Benedetta Tobagi, ha definito la “vergognosa passerella mediatica” che accompagnò lo sbarco in Italia di Cesare Battisti, dopo il suo arresto in Sudamerica, pur definito “giusto e sacrosanto”. La rinuncia alla violenza e l’estradizione che incombe su giusti e ingiusti di Adriano Sofri Il Foglio, 1 maggio 2021 Chiudiamo la settimana italofrancese. Avevo fatto notare che la dizione grossista “ex terroristi” era indebita. Sono stato ascoltato. Tutti (tutti: ho raccolto le riproduzioni) i quotidiani maggiori di ieri intitolavano: “terroristi”. Senza più ex. “Economia, Orazio, economia” (Amleto, atto primo, scena seconda). In Francia un certo numero di personalità ha pubblicato una lettera collettiva che ho apprezzato per la sua argomentazione di fondo. “L’espressa condizione”, dice, alla quale quegli autori di violenze politiche negli anni 70 “sono stati accolti nel nostro paese, era di abbandonare ogni attività illegale. Quarant’anni fa diverse decine di persone sono uscite dalla clandestinità, hanno deposto le armi, hanno fatto esaminare i loro fascicoli dalle massime autorità dei servizi di intelligence, polizia e giustizia francesi... Tutti hanno mantenuto il loro impegno a rinunciare alla violenza”. È l’argomento per me decisivo, quello che mi fa auspicare il riconoscimento di una partita chiusa con persone dalle quali a suo tempo mi separò un’avversione radicale. Ho provato, come potevo e senza indiscrezione, a informarmi sulla vita di alcune di queste persone. I giornali, benevoli o nemici, avrebbero potuto farlo. Hanno preferito riprodurre a oltranza foto segnaletiche di un’altra età, altrettanti rovesciati ritratti di Dorian Gray. Ho visto un frammento televisivo in cui Corrado Formigli chiedeva a Mario Calabresi che cosa pensasse della mia opinione (non riguardava Pietrostefani) che “la cosiddetta dottrina Mitterrand ha realizzato il fine più ambizioso e solenne che la giustizia persegua: il ripudio sincero della violenza da parte dei suoi autori, e così, con la loro restituzione civile, la sicurezza della comunità. La Francia repubblicana è riuscita dove il carcere fallisce metodicamente”. Calabresi l’ha respinta dicendo che, se così fosse, “potremmo prendere un omicida di oggi, anziché arrestarlo e metterlo in carcere, mandarlo in una bella isola siciliana a vivere, non compie più delitti, quindi abbiamo dimostrato che l’isola siciliana ha fatto bene alla sua vita”. Con la migliore volontà, non trovo alcuna pertinenza nel paragone. Alla Francia e ai suoi appelli si rimprovera soprattutto di aver fatto passare l’Italia come un paese in cui l’amministrazione della giustizia di quegli anni è stata distorta da leggi speciali e sospensione dei diritti. Non è un tema del quale io sia competente: distorsioni, forzature, perfino documentati ricorsi a torture, ci furono. Altri sono tornati a discuterne in questi giorni, con miglior conoscenza di causa. Io non direi che l’Italia non fosse democratica, perché sono convinto che la democrazia non sia una condizione statica, bensì una tensione permanente fra forze diverse e anche opposte. Nell’Italia del 12 dicembre quella tensione si fece estrema, e lo restò per alcuni anni successivi. Ma io ho, e provai a sollevarlo già più di quarant’anni fa, un altro argomento a sostegno della revisione della giustizia di allora, un argomento non giuridico ma tragicamente psicologico. Un gran numero degli imputati per violenze politiche o per terrorismo parteciparono ai processi sentendosi ancora, anzi di più per l’esposizione in cui si trovavano, militanti della loro rivoluzione e negatori sprezzanti della giustizia dei tribunali. Questa oltranza raggiunse episodi terribili come a Torino nel 1977, quando gli imputati brigatisti, alla vigilia del processo, revocarono i difensori di fiducia e minacciarono di morte qualunque avvocato avesse accettato di difenderli d’ufficio. Il presidente dell’Ordine torinese, Fulvio Croce, designato d’ufficio a difenderli, fu assassinato da un gruppo di brigatisti (il processo si sarebbe aperto solo un anno dopo, quando Adelaide Aglietta, dopo 134 rinunce di cittadini estratti, accettò di far parte della giuria popolare). Fu il caso estremo di una situazione ripetuta: gli imputati rifiutavano di difendersi, denunciavano la giustizia “borghese”. Era una loro esclusiva responsabilità, naturalmente, del resto platealmente rivendicata. Ma la conseguenza obiettiva fu lo stravolgimento dello svolgimento dei processi, delle sentenze e delle pene che deriva dall’assenza della difesa. A distanza di tempo, quando quell’atteggiamento era caduto se non per pochi cosiddetti “irriducibili”, non c’era una ragione per rivedere, non più nei tribunali, ma in Parlamento, quel retaggio? Qualcuno oggi riparla di amnistia. Non se ne farà niente, il puntiglio è più inesorabile. E proprio il troppo tempo che è passato ha allontanato definitivamente la prospettiva di una misura politica. E ha avvicinato, nonostante la longevità contemporanea, così sottovalutata dai giovani di allora, la soluzione biologica della questione. C’è un’estradizione che incombe sui giusti e sugli ingiusti. Nell’Italia degli odiatori per fortuna c’è il perdono della vedova di Calabresi per gli ex terroristi di Piero Sansonetti Il Riformista, 1 maggio 2021 Ieri è stato un grande giorno di unità nazionale. Altro che 25 aprile. A mia memoria non è mai esistita tanta compattezza nell’opinione pubblica e nell’establishment. I partiti hanno parlato all’unisono. Anche i giornali. Hanno esultato per l’operazione della polizia francese che su richiesta dell’Italia, anzi - credo - di Draghi, ha incarcerato sette signori, tutti intorno ai settant’anni, alcuni molto malati, che vivevano liberi a Parigi da svariati decenni, e che sono accusati di delitti gravi, avvenuti trent’anni fa - i più recenti - o quaranta o cinquanta. Quando erano ragazzi. Uno di loro, il più anziano e il più noto, Giorgio Pietrostefani, 78 anni, ex numero 2 di Lotta Continua nei primi anni Settanta, è anche, con qualche probabilità, innocente. Lui ha sempre negato la responsabilità nell’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, avvenuto il 17 maggio del 1972. È questo il delitto per il quale è stato condannato. Al processo è emerso un solo elemento di accusa: la chiamata di correo di un altro militante di Lotta Continua, Leonardo Marino, che ha accusato se stesso di aver partecipato all’uccisione di Calabresi, guidando l’auto, e ha sostenuto di essere stato incaricato di eseguire l’omicidio, insieme ad un altro militante di Lotta Continua (Ovidio Bompressi) da Adriano Sofri, leader assoluto del gruppo politico, e da Giorgio Pietrostefani. Marino è stato premiato in modo consistente per questo atto di accusa: ha avuto un salvacondotto, lieve pena, poi sconto di pena, prescrizione, nessun giorno di prigione, ottenimento della piena libertà. Ai processi contro Sofri, Pietrostefani e Bompressi sono emersi molti elementi che contrastavano con la versione di Marino, ma alcune Corti li hanno considerati insufficienti. Alcune corti: non tutte. I processi a Sofri e Pietrostefani e Bompressi hanno avuto sorti alterne: assoluzioni, condanne, rinvii. Io penso sempre che se fosse applicato davvero quel principio stabilito dall’articolo 533 del codice di procedura penale (“Il giudice pronuncia la sentenza di condanna se l’imputato appare colpevole oltre ogni ragionevole dubbio…”) le sentenze di assoluzione sarebbero molte di più di quelle che nella realtà sono. Si può dire che sia stato superato ogni ragionevole dubbio in presenza di sentenze di assoluzione pronunciate da un’altra Corte (come è successo nel caso Sofri)? A me pare di no. Io credo che una assoluzione valga come dubbio sulla colpevolezza, non vi pare? In verità, il principio del “ragionevole dubbio”, che fa parte del diritto occidentale da qualche secolo, è stato introdotto nel Codice italiano solo qualche anno fa, nel 2006, dopo la sentenza contro Sofri e Pietrostefani, e comunque resta amplissimamente inapplicato. Tutto questo non ha minimamente scalfito la compattezza del paese. Né la compattezza è stata scalfita dal fatto che ci stiamo preparando a eseguire pene commesse da ragazzi che avevano vent’anni, e che ora sono vecchie signore o vecchi signori di oltre 65 anni, esuli da almeno trenta. Tantomeno sono stati sollevati dubbi sullo svolgimento discutibilissimo dei processi nei quali queste persone erano state condannate. Che poi è la ragione per la quale in tutti questi anni moltissimi paesi del mondo hanno sempre rifiutato l’estradizione in Italia. Non perché si considerasse l’Italia una dittatura - come ogni tanto amano scrivere i giornali per evidenziare un paradosso - ma semplicemente perché non si aveva fiducia in una giustizia che era considerata al di sotto dei livelli minimi dello stato di diritto. È un problema molto serio, questo. Se davvero volessimo iniziare una discussione sugli anni di piombo (diciamo sul ventennio 1971-1989) non potremmo in nessun modo aggirare la questione di come, proprio in quel periodo, la giustizia italiana iniziò ad arrotolarsi in una spirale “discrezionalista” che aumentò in modo abnorme il potere della magistratura, e le sue competenze, e la sua funzione incontrollata, e la sua missione giustiziera, non solo con il consenso ma con una vera e propria delega da parte della politica. Probabilmente, se vogliamo capire alcune delle questioni che riguardano oggi la crisi della giustizia, e l’eccesso di potere della magistratura, è da lì che dobbiamo partire: dagli anni di piombo e dell’emergenza. Dai metodi, e dai principi, e dalle politiche con le quali fu condotta la battaglia contro l’estremismo (soprattutto di sinistra, che era largamente il più ampio, ma anche di destra) e contro la lotta armata. Questa discussione però appassiona quasi nessuno. Su questi temi (purtroppo non solo su questi temi) prevale, nella discussione pubblica (tra i politici, i giornalisti, gli intellettuali), il bisogno di propaganda. La ricerca, l’analisi, la ricostruzione delle verità storiche interessa pochissimo. La spettacolarità della retata francese conquista tutti. Autorizza il grido che smuove il popolo: “pàghino, pàghino, certezza della pena!” È in questi momenti che si riconosce, su alcuni temi, il vero dislocamento delle forze e dei pensieri. In Italia, il garantismo - cioè la religione dello Stato di diritto contrapposta alla religione dello Stato economico e alla religione dello Stato etico - riguarda un numero ridottissimo di persone e di intellettuali, un quarantina di giornalisti (sono generoso) e un numero di politici talmente esiguo che diventa persino difficile contarli. Il garantismo è considerato un sottoprodotto della politica, e un semplice strumento di alcune battaglie, da usare con cura e solo in certe occasioni. Uno strumento - capite cosa voglio dire? - non un’idea, un principio, un fine. E dentro questa concezione del garantismo c’è un modo di pensare che accomuna praticamente tutti: considerare le garanzie proporzionali o comunque adattabili al delitto. Delitto più grave (secondo criteri peraltro variabili, che cambiano radicalmente a seconda delle opinioni e degli schieramenti politici) meno garanzie; delitto più lieve, più garanzie. Questo è tuttalpiù “indulgenzialismo”, ma non ha niente a che fare con il garantismo che, al contrario, richiede garanzie crescenti nel caso dei delitti più gravi. Non c’è da stupirsi, credo, partendo da queste osservazioni, se in pochi anni i Cinque stelle sono riusciti a guadagnare milioni di voti e a sottomettere al loro modo di ragionare quasi tutti i partiti politici (tranne, credo, un pezzo di Forza Italia e i radicali). I Cinque stelle hanno costruito il loro impero ideologico sull’unica ideologia sopravvissuta alla caduta del comunismo: il giustizialismo. Inteso come sfogo, come riequilibratore sociale, come costruttore di estremismi compatibili con il sistema. Ieri è stata la festa di questo giustizialismo. Dai capi del Pd a Fratelli d’Italia, da Salvini ai cattolici, da Repubblica al Fatto. P.S. Può sembrare una provocazione, questo post scriptum, ma non lo è. Anzi, vuole essere un omaggio. A una signora che non conosco ma che ha sempre avuto su di me una suggestione forte, anche se credo che abbiamo idee opposte su moltissime cose, compreso il garantismo. Ma per la quale non posso avere che ammirazione per la straordinaria forza umana che ha sempre espresso. Leggete questa frase, secondo me bellissima, pronunciata in una intervista pubblicata ieri su Repubblica: “Una persona ha fatto cose negative ma anche tante cose positive, ricordiamolo per le cose positive, per il buon esempio, per il suo affetto, per la capacità di amare gli altri, ognuno ha un suo cammino. E così ho pensato anche di queste persone responsabili della morte di Gigi. Posso io relegare tutta la vita all’atto più brutto che probabilmente hanno compiuto? Forse sono stati dei bravi padri. Forse hanno aiutato gli altri. Forse hanno fatto…Questo non sta a me. Però loro non sono solo quella cosa lì, assassini, sono anche tante altre cose. Ecco, questo mi ha aiutato nel mio percorso di perdono”. Chi parla così è la signora Gemma Calabresi. L’intervistatore è suo figlio. Io, personalmente, penso che la signora si sbagli, e che Pietrostefani e Sofri siano innocenti. Ma questo non c’entra niente con la grandiosa profondità e saggezza della sua idea di umanità e di perdono. “Non sono perseguitati politici, ma ora è il tempo della riconciliazione” di Valentina Stella Il Dubbio, 1 maggio 2021 Per il dottor Guido Salvini, che a Milano ha condotto molte inchieste in materia di terrorismo di sinistra e di destra riaprendo anche le indagini sulla strage di piazza Fontana, le estradizioni dalla Francia degli ex terroristi sono “giuste” ma al fine di determinare l’esecuzione delle pene “bisognerà capire anche se questi ex terroristi siano cambiati e se siano ancora pericolosi”. Per il dottor Guido Salvini, che a Milano ha condotto molte inchieste in materia di terrorismo di sinistra e di destra riaprendo anche le indagini sulla strage di piazza Fontana, le estradizioni dalla Francia degli ex terroristi sono “giuste” ma al fine di determinare l’esecuzione delle pene “bisognerà capire anche se questi ex terroristi siano cambiati e se siano ancora pericolosi”. Dottor Salvini cosa ne pensa degli arresti effettuati in Francia? Serve una premessa: la dottrina Mitterand si basava su un equivoco, ossia che queste persone, come altre arrestate in quegli anni, fossero dei perseguitati politici. Questo non è vero: le Corti italiane li hanno giudicati e condannati, quasi tutti per una serie di omicidi, con il rispetto di tutti i diritti di difesa. Nessuno di loro può ragionevolmente proclamarsi innocente. Lo dimostra il caso di Battisti che dopo l’estradizione ha confessato tutti e quattro i delitti per cui era stato condannato. Premesso questo, la richiesta di estradizione e la loro consegna al nostro Paese sono normale giustizia. Però ritengo che per l’eventuale trattamento penitenziario che seguirà quando saranno in Italia bisognerà tener conto se in questo lungo periodo di latitanza abbiano fatto una riflessione critica di quegli anni, se siano cambiati e se la loro pericolosità siano venuta meno. Se così fosse potrebbero essere concessi, certo non subito ma col tempo, anche benefici come ad esempio la semilibertà. Ogni caso andrà valutato per capire se la persona che si ha davanti, sempre nel rispetto dei familiari delle vittime, sia ancora la stessa che ha commesso quei delitti trenta o quarant’anni fa. A proposito di vittime, non ritiene che questo sarebbe difficile da accettare da parte loro? Bisognerà trovare delle forme, già sperimentate in molti altri casi, di riconciliazione e di dialogo tra le vittime e gli autori dei delitti. Lei fu Giudice Istruttore nell’inchiesta sull’omicidio del vicebrigadiere Antonino Custra per il quale è stato condannato proprio Raffaele Ventura, attualmente irreperibile in Francia... Mi stupisce un po’ che Ventura, che era uno dei capi dell’Autonomia milanese, si sia reso, come sembra in queste ore, ancora latitante perché negli anni aveva dimostrato il suo distacco e la sua riflessione sugli eventi di allora e si era reinserito nella società francese. Dovrebbe finalmente accettare di confrontarsi con la giustizia italiana e non fuggire ancora. Tra gli arrestati c’è anche Giorgio Pietrostefani, condannato per l’omicidio Calabresi... Di quell’omicidio, nonostante le condanne, non si sa tutto, non si conosce se non in parte come fu deciso e organizzato e nemmeno tutta la fase esecutiva. Pietrostefani è a conoscenza di quei segreti e con il suo ritorno in Italia potrebbe rivelarli. Non dimentichiamo che quello del Commissario non fu un crimine qualsiasi, è stato il primo omicidio politico, legato a piazza Fontana e ideato prima ancora che iniziasse il terrorismo con i suoi crimini seriali. Credo che Pietrostefani abbia il dovere civile di raccontare quanto accaduto in quel maggio 1972 perché se si vuole la verità su piazza Fontana si deve volerla anche per tutto il resto, dalla morte di Calabresi a quella di Pinelli. Aggiungo però che Pietrostefani è gravemente malato e questo dovrà essere tenuto in considerazione perché per una persona in quello stato il carcere sarebbe ingiusto. A distanza di più di 40 anni secondo Lei è giusto fare i conti con quel passato solo affidandoci a nuovi arresti? Sono state moltissime le iniziative di riconciliazione tra terroristi e vittime. Ad esempio l’ex militante dell’Autonomia Mario Ferrandi, che uccise il vicebrigadiere di Polizia Antonio Custra a Milano nel maggio 1977, dopo aver scontato la pena ha incontrato la figlia di Custra proprio in via De Amicis, sul luogo dell’omicidio. E su esperienze simili di dialogo sono stati scritti anche dei libri come ‘ Un’azalea in via Fani Da Piazza Fontana a oggi: terroristi, vittime, riscatto e riconciliazione’ di Angelo Picariello (Edizioni San Paolo) o ‘ Il libro dell’incontro’ (Saggiatore) curato dal mio collega di Università il prof. Adolfo Ceretti. Chi torna adesso in Italia può intraprendere anche lui questo percorso magari con i familiari di chi tanto tempo fa ha ucciso. L’ex Presidente Cossiga invece chiese la clemenza per alcuni terroristi... Non parlerei di clemenza ma di percorso di riconciliazione e comprensione. Secondo Lei è possibile salvaguardare, negli stati di emergenza, la sicurezza senza ledere i diritti? Qualcuno sostiene che in quegli anni ci siano stati tribunali e processi speciali. Non è vero, questo è un ingiusto luogo comune. I processi sono stati del tutto regolari, le condanne non sono certo state pronunciate da Tribunali speciali e ne sono testimone non solo in prima persona ma anche ricordando il lavoro di mio padre Angelo che allora presiedeva la Corte d’Assise e condusse, tra grandi rischi anche personali, il primo processo per l’omicidio del gioielliere Torreggiani, uno dei delitti per cui è stato condannato Cesare Battisti. Il problema è che alcune persone si sono sottratte ai processi. Battisti ad esempio evase dal carcere di Frosinone mentre era in corso il dibattimento a suo carico. Certo ci sono state condanne dure ma poi con la dissociazione e con i benefici penitenziari molti ex terroristi sono stati scarcerati molto prima di scontare l’intera pena; una volta usciti non hanno più commesso reati e si sono reinseriti nella società. Fiammetta Borsellino e Antonio Di Pietro smontano la trasmissione di La7 sulla mafia di Fabrizio Cicchitto Il Riformista, 1 maggio 2021 Sono molte le questioni da discutere in seguito alla trasmissione svoltasi nella sera di mercoledì a La7 con Mentana, Purgatori e Fiammetta Borsellino su un’intervista fatta da Michele Santoro al pentito Avola che ha narrato come insieme ad altri realizzò sul piano tecnico-operativo l’attentato contro Paolo Borsellino in via D’Amelio facendo saltare un’auto imbottita di tritolo e piazzata lì da tempo. Ovviamente quella ricostruzione si è intrecciata con una discussione sul quadro politico, giudiziario e criminale nel quale si svolsero i due grandi attentati di mafia, quello contro Falcone e quello poco tempo dopo contro Borsellino. Siccome, specialmente da Purgatori, sono state fatte affermazioni politiche e giudiziarie molto discutibili allora vale la pena fare alcune osservazioni a margine. È difficilmente discutibile che il governo Andreotti con Martelli alla Giustizia e Scotti all’Interno fu così impegnato contro la mafia che Martelli diede un rifugio a Falcone presso il ministero della Giustizia in un ruolo fondamentale, quello di direttore generale degli Affari Penali. Infatti, Falcone era rimasto isolato nell’ambito della magistratura e anche, come vedremo, nel quadro politico. L’azione di Martelli e Falcone dal ministero della Giustizia, di Scotti dal ministero dell’Interno, non sarebbe stata possibile se anche Andreotti non fosse stato della partita. Fu il governo in quanto tale a prendere un provvedimento al limite della costituzionalità quale fu il decreto che consentì di rimettere in carcere i boss malgrado la decorrenza dei termini, decreto contestato frontalmente dai comunisti. Un’altra operazione fu fatta in quella fase da parte di Martelli e dello stesso Falcone e fu quella di far sì che la Cassazione nella sua collegialità con un procedimento di rotazione fu investita per gli aspetti giuridici del maxiprocesso evitando che esso cadesse sotto la mannaia della prima sezione guidata da Carnevale. Ovviamente ciò spiega perché la mafia mise nel mirino Falcone, e per una fase pensò anche ad un attentato a Martelli, e prima ancora uccise Salvo Lima, e poi gestì la stessa tempistica dell’attentato a Falcone, in modo da togliere ad Andreotti la possibilità di diventare presidente della Repubblica. Evidentemente a questo punto c’è un “questione Andreotti”. A nostro avviso, sul terreno dei rapporti con la mafia la posizione di Andreotti è stata caratterizzata da due fasi che hanno trovato un riflesso anche nella sentenza che lo ha assolto dal concorso in associazione mafiosa dal 1980 e per prescrizione per quello che riguarda gli anni precedenti. Andreotti ebbe un rapporto “contrattuale” attraverso Lima (che non era mafioso, ma teneva i rapporti con la mafia come anche altri esponenti delle varie correnti della Dc) con la mafia “normale”, quella negli ultimi anni rappresentata da Bontade, poi ucciso dai corleonesi, cioè con la mafia che aveva rapporti con tutti, anche gli imprenditori del Nord, ma che non sparava ai magistrati e agli alti gradi della Polizia e dei Carabinieri. Invece Andreotti fu frontalmente contro la mafia quando ne assunsero la guida i corleonesi, che volevano sfidare lo Stato e i partiti. Di conseguenza, egli diede mano libera e anzi sostenne Scotti e Martelli che a sua volta sostenne in tutti i modi l’azione di Falcone dal ministero. Falcone poté continuare la lotta alla mafia dalla direzione degli Affari Penali della Giustizia essendo stato isolato nell’ambito della magistratura e anche a livello politico. Da chi fu isolato Falcone nell’ambito della magistratura? Certamente dall’area ambigua e grigia composta da Giammanco e simili, ma dall’altro lato in modo assai netto da Magistratura Democratica e da una parte del Pci per non parlare degli infami attacchi rivoltigli da Leoluca Orlando. Se i sostenitori della trattativa Stato-mafia applicassero con coerenza logica fino in fondo i loro teoremi, allora dovrebbero affermare che i comunisti e Md isolando Falcone fecero il gioco della mafia. Ciò è obiettivamente vero, anche se le ragioni di questo attacco di Md e del Pci a Falcone erano tutte politiche. Ma se va smontata questa forzatura, vanno smontate anche tutte le altre. Sono nella memoria di tutti l’articolo sull’Unità del prof. Pizzorusso, allora esponente del Csm, che affermava che mai Falcone avrebbe potuto guidare la procura Antimafia perché oramai subalterno al potere politico (cioè al governo e a Martelli). Così come il discorso di Elena Paciotti di Md al Csm a favore di Meli e contro Falcone. A tagliare la testa al toro è stata ricordata anche nella trasmissione de La7 l’autentica requisitoria che Ilda Boccassini fece contro Magistratura Democratica, prendendo di petto personalmente Gherardo Colombo, a un’assemblea svoltasi a Milano per commemorare Falcone. Per ciò che riguarda sia Falcone che Borsellino è stata ricordata la grande importanza del rapporto mafia-appalti costruito a suo tempo anche dal Ros (Mori e De Donno) sottratto dal procuratore Giammanco per lungo tempa alla richiesta di indagine da parte di Borsellino fino all’inopinata assegnazione avvenuta proprio alla vigilia del suo assassinio. Subito dopo il procedimento su mafia-appalti fu archiviato in gran fretta dalla procura di Palermo. Orbene, anche su questo snodo sono emerse alcune vicende del tutto contradditorie con la demonizzazione di Mori e di De Donno. È singolare che Purgatori e Santoro siano così duri contro Mori e De Donno e così morbidi nei confronti del procuratore Giammanco contro il quale Fiammetta Borsellino ha detto cose molto significative. Per di più è emerso che a parte la vicenda riguardante l’assegnazione del procedimento mafia-appalti Borsellino era addirittura infuriato con il procuratore Giammanco che non lo aveva messo al corrente del fatto che se non abbiamo capito male il generale Subranni aveva portato un’informativa su un carico di tritolo T4 arrivato alla mafia. Se abbiamo capito bene la titolarità dell’informazione, allora il generale Subranni era un ben strano “punciutu” dalla mafia se aveva comunicato un’informazione così delicata. In ogni caso quale che sia stata la fonte dell’informazione a Giammanco questi si era guardato bene dall’informare Borsellino. In secondo luogo, Di Pietro ha raccontato che da un lato era stato contattato da Borsellino perché, proprio dal rapporto mafia-appalti, sviluppasse le indagini su alcuni imprenditori del Nord, dall’altro lato era stato contattato dall’allora capitano De Donno il quale lo pregò di occuparsi appunto della questione mafia-appalti perché a Palermo il Ros non trovava ascolto da parte della procura. Quindi anche su questo nodo essenziale, quello del rapporto mafia-appalti, Mori e De Donno erano in prima linea, così come nell’arresto di Riina. In questo quadro poi c’è l’ulteriore incredibile scandalo costituito dal depistaggio verificatosi nella gestione del processo Borsellino, depistaggio costruito da un alto funzionario della Polizia, quale fu La Barbera. Ora, La Barbera non era un poliziotto qualunque, basti pensare che fu mandato dall’allora capo della Polizia De Gennaro come suo rappresentante al G8 di Genova. È stato detto nella trasmissione che il depistaggio fondato sulla costruzione di un falso pentito come Scarantino fu un’operazione del tutto grossolana, peccato però che malgrado questa grossolanità, ad essa credettero fior di Pm come Di Matteo e la magistratura giudicante che mandò all’ergastolo un bel numero di innocenti. Anche su questo va ricordato che chi nutrì dei dubbi sulla vicenda fu la Pm Boccassini, che però poi fu trasferita a Milano. Nella trasmissione ci sono state a nostro avviso due testimonianze assai significative anche dal punto di vista umano. In primo luogo, quella di Fiammetta Borsellino, che è portatrice di un’esigenza di verità e che lo fa in piena autonomia di pensiero non concedendo nulla ai fabbricanti di teoremi e anzi come si è visto anche nella trasmissione di ieri entrando in sostanziale contrasto con essi che infatti cercavano di darle sulla voce. In secondo luogo, la testimonianza di Avola, agghiacciante nella sua lucidità. Egli ha ripercorso con grande precisione tutti i suoi interventi tecnici volti a collegare il detonatore al tritolo, ma al di là di questo Avola ha detto anche altre cose interessanti: ha escluso in modo netto la presenza di altre forze come i servizi segreti nella vicenda sottolineando invece con una sorta di passione ideologica che si trattava di una sfida della mafia allo Stato senza la presenza di soggetti esterni e sulle basi di questa mafia egli evidentemente ha agito sentendosi un soldato. La parte civile non appellante può impugnare per cassazione la sentenza di assoluzione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 1 maggio 2021 La Cassazione nel risolvere un contrasto - definito apparente - tra due orientamenti mette al centro il principio di immanenza. La costituzione di parte civile non perde la sua validità nel caso in cui a proporre appello contro l’assoluzione sia solo il procuratore o la parte offesa. E non perdono il loro valore le deduzioni fatte in primo grado. Con la sentenza n. 16492/2021 la Cassazione penale pur respingendo il ricorso tanto degli imputati quanto quelli della persona offesa e delle parti civili non appellanti ha avuto modo di chiarire la portata dell’efficacia della costituzione della parte civile nel processo penale. Sul punto, come si legge in sentenza, sono emersi due orientamenti diversi che la Cassazione definisce però in apparente contrasto. L’affermazione chiara fatta dai giudici di legittimità è che, in base al principio di immanenza della costituzione nel processo, la sua effettività venga meno solo se la parte civile espressamente vi rinunci o la revochi. Ma la legittimazione a proporre ricorso per cassazione per la parte civile non appellante si limita alla proposizione di questioni di diritto rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo e/o di pura legittimità o di puro diritto insorte dopo la decisione di secondo grado a causa di ius superveniens o di interventi della Corte costituzionale. Infine, chiarIsce la Cassazione che la mancata impugnazione della sentenza di assoluzione di primo grado non equivale a rinuncia alla costituzione della parte civile nel processo. Nella sostanza però il ricorso per cassazione di chi non ha fatto appello incontra gli stessi limiti di chi ricorrente porta questioni di diritto o di fatto non svolte in sede di appello: non può avvvalersi dei motivi dedotti dalle altre parti del processo. Non scatta alcun effetto devolutivo a integrazione della propria mancata deduzione. Campania. Covid nelle carceri, Ciambriello fa il quadro della situazione ottopagine.it, 1 maggio 2021 Su vaccinazioni apprezziamo avvio, ma è a macchia di leopardo”. Ad oggi, i detenuti positivi al Covid- 19 in Campania sono 11, tra i quali 10 a Poggioreale e 1 a Santa Maria Capua Vetere. Solo nella giornata di ieri, nel carcere di Poggioreale sono stati effettuati 286 tamponi in un carcere nel quale ad oggi sono presenti 2121 detenuti. Il personale di polizia penitenziario contagiato in Campania ad oggi è di 37 unità. I detenuti vaccinati in Campania sono 551 tra il carcere di Santa Maria Capua Vetere, Salerno, Eboli, Vallo della Lucania, Poggioreale, Secondigliano e nell’Istituto penale per minorenni di Nisida. Lunedì inizieranno le vaccinazioni nelle carceri di Benevento, Aversa, Carinola, Arienzo e nell’Istituto penale per minorenni di Airola. Martedì invece saranno vaccinati i primi 115 detenuti (over 60 e soggetti fragili) delle carceri di Sant’Angelo dei Lombardi, Ariano Irpino e Bellizzi Irpino, sempre su base volontaria Queste notizie sono comunicate dal Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, che sul tema delle vaccinazioni in carcere conclude: “Esprimo apprezzamento per l’avvio della campagna vaccinale. Purtroppo però è a macchia di leopardo. Ribadisco che occorre fare presto perché il contagio tra i detenuti, agenti di polizia penitenziaria e personale continua, ribadisco che non ci sono limitazioni per fasce d’età, così come hanno fatto bene le Asl competenti per le carceri del Casertano e Salernitano, penso che il vaccino a dose unica eviterebbe complicazioni burocratiche e svantaggi organizzativi. Considero la vaccinazione un diritto - dovere per chi entra in carcere e per chi è dentro in carcere la considero un obbligo morale. Voglio ringraziare gli operatori sanitari ai vari livelli che stanno eseguendo con premura e professionalità la vaccinazione sia per il personale, per gli agenti penitenziari che per i detenuti”. Porto Azzurro, il carcere-azienda di Francesco D’Anselmo di Frediano Finucci Frediano Finucci, 1 maggio 2021 Che cos’hanno in comune Sergio Marchionne e il direttore di un penitenziario? La risposta nell’intervista al dirigente del carcere dell’isola d’Elba, Francesco D’Anselmo. Certi manager dovrebbero andare in galera. Ma non in una prigione qualsiasi, bensì al penitenziario di Porto Azzurro, all’Isola d’Elba. Non per scontare chissà quale pena in cella, ma semplicemente per fare due chiacchere costruttive col direttore di quella struttura, Francesco D’Anselmo. Da uno come lui ti aspetti di sentire le storie drammatiche di chi ha perso la libertà o le classiche lamentele del dirigente pubblico alle prese con l’elefantiaca e farraginosa amministrazione statale. Invece no. D’Anselmo - napoletano, 63 anni, una straordinaria somiglianza con Jep Gambardella, il protagonista del film La Grande Bellezza di Sorrentino - tra uno sguardo all’azzurro del mare antistante e una tirata alla sigaretta esordisce con una citazione di Sergio Marchionne. “Si dice che gli esseri umani possono vivere quaranta giorni senza cibo, quattro giorni senza acqua e quattro minuti senza aria. Ma nessuno di noi può vivere quattro secondi senza speranza. Guardi, avrei dato un anno di stipendio per lavorare con Marchionne, che per me rimane il più grande manager di tutti i tempi… è un mio grande rimpianto. Non è forse una bella frase? Perché la speranza è una cosa fondamentale, soprattutto per chi vive dentro un carcere.” In effetti a ben vedere D’Anselmo qualcosina in comune con Marchionne ce l’ha: sono entrambi manager con la doppia laurea (in filosofia e in legge, nel caso del nostro direttore), con la duplice specializzazione in diritto del lavoro e sicurezza sociale e in diritto amministrativo. Sì, perché D’Anselmo si considera un manager e ci tiene a dirlo: “Guardi che è più difficile gestire un carcere che un’azienda perché io qua sono al tempo stesso datore di lavoro, con tutto quel che ne comporta per la normativa sulla sicurezza, e responsabile per tutte le figure che varcano il portone: medici, insegnanti, parenti dei detenuti, senza contare le politiche penitenziarie, il rapporto con i magistrati di sorveglianza che devono decidere per le misure alternative e di semilibertà. Siamo un’azienda, e sa che cosa produciamo? Rieducazione e risocializzazione per creare un utile cittadino”. A sentir parlare D’Anselmo dei progetti lavorativi in carcere sembra di ascoltare uno di quegli imprenditori seriali che ti snocciolano tutte le startup sulle quali stanno investendo o vogliono imbarcarsi. La differenza è che la molla che fa scattare l’entusiasmo dei normali imprenditori quasi sempre è la voglia di fare soldi, mentre al nostro direttore brillano gli occhi solo quando racconta dell’entusiasmo che i suoi detenuti mettono nella falegnameria o nell’azienda agricola del penitenziario. Questione di priorità, insomma, che nel suo caso è il reinserimento dell’uomo o della donna nella società. E allora vediamola, l’”azienda” che D’Anselmo dirige dal 2015. Porto Azzurro, il carcere che non sembra un carcere - Il carcere di Porto Azzurro è ospitato all’interno di Forte San Giacomo, una fortezza spagnola seicentesca che aveva il compito di vegliare sulle navi dei pirati saraceni che già dal Cinquecento, guidati dal famigerato Barbarossa, bazzicavano le acque antistanti Longone, località che offriva un ottimo riparo da venti e tempeste. Un destino dunque che sembra segnato per questo fazzoletto di terra abituato ad avere a che fare con gente poco raccomandabile (i pirati), e in seguito con uno dei più illustri uomini privati della libertà, quel Napoleone Bonaparte che nell’isola fu esiliato e governò per dieci mesi, lasciando un’eredità tutt’ora viva a partire dalla bandiera dell’Elba con le tre api, ideata da lui in persona. Varcato il cancello, il cortile del penitenziario ha quell’alone di ordine dimesso caratteristico delle caserme ai tempi della naja: non si bada troppo all’estetica e alle finiture ma tutto è al suo posto, in ordine e pulito; compreso il parchetto giochi, con una vista stupenda della baia per i figli dei detenuti, struttura che D’Anselmo ha voluto come un luogo per le visite che fosse il meno possibile simile a un carcere. Vedendo in lontananza i traghetti e le barche a vela, il sole, i ristoratori dell’isola che fanno capolino in cortile per prendere le cassette di verdura prodotte dai detenuti, per un attimo ci si scorda che dietro il grande portone 350 cristiani (ma anche appartenenti ad altre fedi) scontano le loro pene, anche per reati efferati che qua avremmo difficoltà a raccontare. Il carcere in cui i reati restano fuori: “Solo con il lavoro si può risocializzare” - L’”azienda” impiega 130 agenti di polizia penitenziaria, incluse cinque donne tra cui - alla faccia delle ipocrite discussioni sulle quote rosa - “la” comandante. Al momento in cui scriviamo il carcere è “COVID free”, uno dei primi in Italia. Oltre ai vaccini, la pandemia ha portato al di là delle sbarre anche altre novità prima impensabili: le videochiamate, sia per i famigliari che per gli avvocati. “Vede”, continua D’Anselmo con la sua cadenza partenopea, “il compito del direttore è quello di creare lavoro per i detenuti, spingere perché lavorino di più: solo con il lavoro si può risocializzare. Intendiamoci: questo è un mestiere complesso e quando si parla di carcere bisogna tenere conto innanzitutto del fattore sicurezza, e perché no anche dell’ordine. Ma, di nuovo: più i detenuti lavorano più sono sereni; più il carcere è tranquillo, maggiore è la sicurezza. Certo, c’è sempre il rischio che qualcuno ne approfitti e magari evada, ma un direttore che fa il suo lavoro deve avere anche il coraggio di prendersi qualche rischio”. E finora i rischi che D’Anselmo ha preso sono stati fruttuosi per chi, sbarcato in manette all’Elba, ha deciso di rifarsi una vita rimboccandosi le maniche. Gli ortaggi dicevamo, a chilometro zero, coltivati dentro il Forte San Giacomo (che ospita anche una succursale dell’istituto agrario di Portoferraio), ma anche sul fertile terreno dell’isola antistante, Pianosa, storico penitenziario e sanatorio trasformato dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa in carcere duro per i mafiosi, chiuso nell’agosto del 1998. “C’è una frase scritta su di un muro a Pianosa”, dice D’Anselmo: “qua entra l’uomo, il reato resta fuori. Per questo io non guardo mai al passato della persona. Il nostro compito è quello innanzitutto di tracciare un profilo psicologico del detenuto, poi cercare di fare uscire il disvalore, verificare le possibilità di risocializzazione mettendolo alla prova prima con dei lavoretti in carcere, poi magari con un permesso premio che può portare anche al cosiddetto articolo 21, ossia al lavoro all’esterno del carcere”. E qua entrano in campo gli albergatori e i ristoratori dell’isola. Il turismo è una manna per il manager D’Anselmo che d’estate riesce a piazzare i suoi “dipendenti” come baristi, cuochi, camerieri e addetti alle pulizie nelle strutture ricettive, e a volte anche in qualcuno degli otto comuni dell’Isola: ogni stagione vengono attivati almeno 30-35 contratti a tempo determinato. Senza contare i detenuti che lavorano nella cooperativa che a Pianosa gestisce la locanda e il self service. Artigianato e matrimoni in carcere - Come accade agli imprenditori seriali, anche D’Anselmo ogni tanto deve fare i conti con le fortune alterne del business. Oggi ad esempio, per vari motivi, non è più attivo il forno dei detenuti, inaugurato nel 2017, che produceva pane senza glutine e prodotti freschi per celiaci, e li forniva, unico, a tutta l’isola. Ma poco importa. La falegnameria, ad esempio, continua ad andare alla grande, soprattutto la manutenzione degli infissi in legno degli alberghi (dove i detenuti si recano di persona accompagnati da un agente), al punto che il nostro manager-direttore è costretto a rifiutare qualche richiesta perché anche le finestre del carcere hanno le loro necessità. Per un progetto che muore un altro però nasce, e con una data certa: il 25 luglio 2021, quando verrà inaugurato il restauro della seicentesca chiesa del carcere dedicata a San Giacomo Martire. Gli stanziamenti arrivano dalla Fondazione Terzo Pilastro di Roma (per il 70%) e da una ONLUS elbana appositamente creata, mentre il restauro del frontespizio è finanziato dall’Amministrazione Penitenziaria. D’Anselmo vorrebbe usarla per i matrimoni, con tanto di catering fatto dai detenuti: nozze “chiavi in mano” insomma, al punto che è in allestimento un forno per ceramica dove creare le bomboniere. E qua, di nuovo, quando parla di questa folle e geniale idea, a D’Anselmo si illuminano gli occhi: “Vede, mi sono sempre chiesto da dove venisse questa mia inclinazione, direi attrazione, per i detenuti e per il mondo del carcere in generale. Le confesso una cosa. Anni fa, agli inizi del Duemila - allora dirigevo un carcere in Emilia - andai in analisi con uno psicologo per conoscermi meglio. Durante quelle sessioni, durate tre anni, mi sottoposi al cosiddetto processo di regressione, e proprio in quei momenti mi rividi in un lontano passato rinchiuso in una cella con vista mare, condannato per un reato che sapevo non aver commesso, insomma ingiustamente. Certo, da cristiano non credo alla reincarnazione, davvero non so se questo sia vero o falso, ma certo la cosa, tutt’oggi, mi lascia abbastanza perplesso.” Lucca. Tutte le criticità del carcere San Giorgio di chiara grassini Gazzetta di Lucca, 1 maggio 2021 La casa circondariale San Giorgio presenta tre criticità: sovraffollamento, carenza di personale e la struttura stessa. E’ quanto emerso dal report annuale illustrato dall’osservatorio carcere della camera penale di Lucca presieduta dall’avvocato Eros Baldin. I relatori dell’evento Giovanni Mastria, Tiziana Pedonese e Francesca Trasatti. “L’obiettivo è offrire legalità all’interno del carcere che deve essere costantemente monitorato - ha affermato Mastria - Studiare problemi pratici e normativi dell’ordinamento penitenziario e della situazione carceraria in generale oltre ad avvicinare l’opinione pubblica al tema”. Tiziana Pedonese ha fornito maggiori dettagli e spiegato la relazione fatta dopo la visita al San Giorgio in data 12 marzo. Quali sono dunque le criticità riscontrate? La prima sezione è molto sovraffollata. Qui si trovano 49 detenuti in celle piccole, tre in ciascuna di esse. In questa parte del carcere c’è carenza di personale. “Un’agente che è preposto alla vigilanza deve occuparsi anche della vigilanza dell’altra, cioè della seconda”- ha detto Pedonese. La seconda sezione invece non presenta criticità di sovraffollamento ma continua a sussistere il problema della mancanza di agenti. Poi la terza formata da due sottosezioni di cui una “sezione bis”. Le celle sono inagibili e “14 su dieci sono operative”. Mentre l’ottava possiede tutti gli standard: attività ricreative, sicurezza, telecamere, ambienti nuovi e curati. In quest’area si trovano due biblioteche dove è possibile consultare i libri, una sala lettura, una sala Tv e una destinata a psicologi e psichiatri. Per non parlare della sala somministrazione metadone e tre palestre. “Il tre maggio ci sarà l’apertura parziale di quei luoghi, e nello specifico alcune attività come palestra e la biblioteca. Tra i progetti uno di digitalizzazione, un corso di cucina e una serie di sportelli aperti, cioè patronato, altro diritto e il centro per l’impiego”. Il piano superiore era stato pensato come refettorio ma secondo Tiziana Pedonese “non verrà ancora messo in funzione perché per farlo funzionare occorrono 15 agenti di polizia penitenziaria in più”. Ed è anche vero che sono stati incontri i sindacati ma senza esito. “Ho percepito un disagio da parte dei detenuti per motivi di sovraffollamento poiché si rendono conto che il personale è poco. Se hanno bisogno di qualsiasi esigenza sono spaesati. Lo stesso disagio lo prova anche chi ci lavora”. Il dato allarmante è che siamo in piena pandemia e da un anno a questa parte il problema che è stato messo in evidenza dall’osservatorio non è ancora risolto. “Tre in una cella - ha ribadito Francesca Trasatti - Per aprire una finestra uno deve uscire per ragioni di spazio- E se scoppiasse un focolaio? “. Poi la proposta: “Come osservatorio carcere sentiamo l’esigenza di costruire un tavolo permanente e che possa mettere in rete e in costante aggiornamento continuo sia la camera penale che lea garante dei detenuti. Ma anche tutte le associazioni che si occupano di tale tematiche”. Napoli. Carcere e spazi: studenti di Giurisprudenza e Architettura a confronto ateneapoli.it, 1 maggio 2021 Carcere. Spazi, diritti e cambiamento culturale: il tema affrontato nel ‘Seminario Interdipartimentale’ promosso dalla cattedra di Diritto Penitenziario della prof.ssa Clelia Iasevoli e dalla prof.ssa Marella Santangelo, docente di Composizione architettonica e urbana del Dipartimento di Architettura. Gli incontri, partiti il 9 aprile su piattaforma Teams, hanno lo scopo mettere in luce il ruolo fondamentale degli ‘spazi’ nelle carceri, ai fini della rieducabilità della pena. “Un carcere sovraffollato implica spazio ristretto e non igienico, mancanza di privacy, ridotte attività fuori cella, sovraccarico dei servizi di assistenza sanitaria, spersonalizzazione, tensione crescente, violenza - spiega la prof.ssa Iasevoli, docente di Procedura Penale - La privazione della libertà personale non comporta di per sé il venir meno dei diritti riconosciuti dalla Convenzione europea e dalla nostra Costituzione; al contrario, essi assumono peculiare rilevanza proprio a causa della situazione di vulnerabilità in cui si trova la persona sottoposta al controllo esclusivo degli agenti dello Stato”. Ad ogni detenuto vanno assicurate condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana. Recentemente le Sezioni unite “hanno affermato che nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve aver riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello. Senza spazi adeguati è difficile pensare a come una persona possa essere reindirizzata ed inserita nella normalità. Senza gli spazi non può avvenire la rieducazione e il passaggio, che la stessa persona si ravveda, della rottura del patto sociale con la collettività”. I seminari partono da questo stato di cose, “che è il risultato di forti resistenze culturali che lasciano prevalere la funzione repressiva della pena”. Da qui la necessità di coinvolgere non solo i giuristi, “ma anche i colleghi di Architettura che si occupano di costruire la struttura penitenziaria a misura delle esigenze della persona, con spazi funzionali dedicati all’affettività, alle attività di miglioramento del processo evolutivo della personalità”. Un confronto che vedrà gli studenti di Giurisprudenza e quelli di Architettura discorrere sul tema venerdì 7 maggio. “I ragazzi hanno incontrato i Direttori di alcune carceri, poi ascoltato le esperienze dei magistrati di sorveglianza”. Il seminario si concluderà il 14 maggio con la Lectio Magistralis di Nicolò Zanon, Giudice della Corte Costituzionale. Gli studenti. “Il tema dei diritti dei detenuti non è adeguatamente conosciuto. L’argomento dello spazio contiene una molteplicità di diritti, tra cui quello alla dignità e all’affettività”, dice Claudia Aquilino, studentessa al V anno. Grazie al confronto con la docente di Architettura, “ho capito che il carcere deve essere inteso come elemento della città, mentre spesso non lo è. È necessaria “una trasformazione culturale della società e una conformità delle Istituzioni all’art. 27 della Costituzione che sancisce la funzione rieducativa della pena”. Il corso di Diritto Penitenziario e quello di Legislazione Penale Minorile seguito in passato hanno consentito a Claudia di individuare una strada praticabile nel dopo laurea: “mi piacerebbe lavorare in ambito penitenziario. Per ora sto pensando di dedicarmi ad attività di volontariato”. Anche per Maria Rosa Tancredi, studentessa all’ultimo anno, l’esperienza si è rivelata “molto interessante, soprattutto per l’interdisciplinarietà degli argomenti. Raramente possiamo confrontarci con ambiti diversi dal giurista, mi ha fatto piacere ascoltare un punto di vista differente”. L’incongruenza con il dettato Costituzionale: “C’è un filo rosso che lega gli spazi e le persone: in tre metri si può mettere in atto la funzione rieducativa?”. Se l’obiettivo è la rieducazione, “è giusto, allora, occuparci dell’affettività, della sessualità, dei bisogni di chi è detenuto. È impensabile che non siano previsti spazi riservati per gli incontri con le famiglie. Prossima alla laurea, “mi auguro di diventare magistrato e dopo questi incontri non mi dispiacerebbe occuparmi di sorveglianza”. Sottolinea l’innovatività dei seminari Mattia Volante: “Non avevo mai sentito accostare l’architettura alla giurisprudenza. Sono venuti fuori spunti interessanti”. Grazie all’intervento dei relatori, “che sono stati puntuali nei loro racconti, ho scoperto ambiti che non ritenevo conciliabili, tematiche nuove e rivelanti fatte oggetto di studio”. Pur non avendo ancora le idee chiare sul futuro professionale, Mattia non chiuderà nel cassetto gli spunti emersi durante il seminario: “mi serviranno da ispirazione”. Anche per Palmira Marino, gli incontri sono stati “molto stimolanti, come studentessa e come cittadina”. Sottolinea: “Noi giuristi in formazione non possiamo prescindere dal fatto che i detenuti siano persone, esseri umani che hanno tutti i diritti che ne salvaguardino la dignità”. L’esperienza “ha acceso un faro su queste problematiche”. A settembre inizierà il tirocinio da avvocato ma “non mi precludo alcuna strada. Ho un forte interesse per la materia penitenziaria”. Paglia e Manconi, dialogo sulla vita. La sofferenza e il diritto di decidere di Ferruccio De Bortoli Corriere della Sera, 1 maggio 2021 Dignità, coscienza, autodeterminazione: ne discutono l’arcivescovo e il sociologo che confrontano con franchezza le loro visioni differenti in un volume Einaudi Stile libero. Il dialogo fra un “piccolo credente” - come si autodefinisce schermendosi l’arcivescovo Vincenzo Paglia - e un “poco credente”, da scrivere tutto attaccato, raccomanda il sociologo Luigi Manconi, ha un grande pregio: il meraviglioso dono del dubbio. Il lettore che si accostasse a questo testo nella speranza di ricevere solo risposte certe sui temi, assai delicati, che ruotano intorno all’impegnativo titolo del libro (Il senso della vita, Einaudi Stile libero), forse ne rimarrebbe deluso. Ma se invece volesse approfondire alcune questioni fondamentali del nostro essere cittadini contemporanei - libertà, uguaglianza, giustizia, fraternità - in uno scambio di opinioni franco e senza troppe reciproche cortesie, ne resterebbe affascinato. Perché nel tentare di comprendere le ragioni dell’altro - cosa non sempre possibile né agevole - c’è il forte impegno a costruire qualcosa insieme, una nuova alleanza fra laici e cattolici, un diverso senso di comunità. Nella valorizzazione e nel rispetto delle differenze, però. Non nello slancio indistinto delle sole buone intenzioni. Una questione, oseremmo dire, di vita civile. Irrinunciabile. Specialmente dopo l’aprirsi nella società di una colossale ferita, la pandemia, che non sarà rimarginata a breve e già muta la condizione personale di ogni individuo. “Siamo due mendicanti sulla soglia del mistero - scrive il presidente della Pontificia Accademia per la vita - sulla via per cercare di cogliere il senso dell’esistenza. Non l’abbiamo in tasca, la vita. Essa ci supera ed è per questo che ne cerchiamo il senso”. Lo studioso dei fenomeni politici, ex parlamentare e oggi editorialista di “Repubblica” e “Stampa”, richiama il principio di speranza di Ernst Bloch, evoca la formazione di una “coscienza anticipante”, promuove un pessimismo della ragione che ci consenta di “incedere eretti”, di difendere meglio libertà personali e diritti. Paglia contesta la deriva individualistica di una società prigioniera dei desideri e, riprendendo il pensiero di don Lorenzo Milani, afferma che “la vita di ciascuno di noi dipende anche da quella degli altri”. A maggior ragione nel mezzo di una pandemia e nel pieno di una campagna vaccinale. Il duetto si trasforma presto in un duello. Manconi contesta che la vita sia un dono di cui non possiamo disporre e, citando il cattolico filosofo del diritto Vittorio Possenti, nota la singolarità di un dono che resta di proprietà del donatore. Paglia controbatte: “La vita l’abbiamo ricevuta in dono ma non per farne ciò che vogliamo”. È anche un compito, una missione, un servizio per gli altri. E qui arriviamo ai temi del fine vita, dell’accompagnamento alla morte, della terapia del dolore sui quali i contrasti sono netti, ma la reciproca comprensione dei dilemmi etici e religiosi ancora più elevata. “Io non nego il diritto all’autodeterminazione - sostiene don Paglia - ma la libertà della decisione la metterei dentro la cornice di un amore reciproco che deve presiedere l’incontro”. “La mia disponibilità a considerare l’eutanasia - scrive Manconi - viene dopo, solo dopo che tutta la pratica dell’accompagnamento, come assistenza materiale e conforto spirituale, si è esaurita”. Manconi non parla di diritto all’eutanasia quanto di libertà negativa, cioè di sottrarsi a un “dolore non lenibile”. E non nega che il principio dell’autodeterminazione “possa tradursi in una sorta di nichilismo egotico”. L’arcivescovo - che avrebbe celebrato i funerali di Piergiorgio Welby, proibiti dalla gerarchia cattolica - vede nella propaganda per il diritto alla morte la “strada dell’assoluzione dell’atto di dare la morte a una vita, ossia una persona giudicata indegna della vita”. E quale sarebbe il discrimine tra una vita degna e indegna di essere vissuta? Paglia nega che il dolore nella dottrina cristiana sia di per sé un valore. E cita Paul Claudel: “Dio non è venuto a spiegare la sofferenza; è venuto a riempirla della sua presenza”. Aggiunge: “Anestetizzare la vita di ogni dolore non solo è vano ma è anche pericoloso”. E richiama la decisa presa di posizione di papa Francesco contro l’accanimento terapeutico. Carlo Maria Martini comprese la sofferenza di Welby che morì nel 2006 e non per eutanasia. Il cardinale, alla soglia della propria vita, non volle su di sé alcun accanimento nelle cure. La legge sul biotestamento, ovvero sulle Disposizioni di trattamento anticipato (Dat), è il frutto di un confronto aperto, senza preclusioni ideologiche. Peccato sia poco conosciuta. E scarsamente valorizzata nel dibattito pubblico come le cure palliative. Manconi ricorda che la sospensione di nutrizione e idratazione artificiali avviene “perché ritenute, come vuole la gran parte della letteratura scientifica, atti terapeutici”. Paglia è preoccupato per la “crescita di una sensibilità che legittima il suicidio”. Riprende le parole di Luciana Castellina che non riuscì a perdonare l’atto di un suo amico (riteniamo Lucio Magri) che si diede la morte: “Un gesto autoreferenziale - scriveva Castellina - vuol dire che i legami di amicizia non servono a fermarti. E che il tuo dolore conta più del dolore che procuri”. Parole piene di umanità, secondo Paglia, che sottolinea come il tema della dignità “va considerato con cura, altrimenti diventa una trappola crudele”. Claudio Magris scrisse che “l’eutanasia può divenire facilmente un’obbrobriosa, anche se inconscia, igiene sociale”. “E se tu Luigi mi chiedessi - si rivolge così a un certo punto Paglia a Manconi - di aiutarti per toglierti la vita, non so se ti obbedirei. È una questione d’amore. Mi piazzerò lì al tuo capezzale e non ti darò tregua, parlandoti e ascoltandoti, ventiquattr’ore su ventiquattro”. “Sarebbe un incubo - gli risponde Manconi - come le prefiche dei riti meridionali, i monatti manzoniani e i monaci medievali che gridano: pentiti!”. Nel parlare del senso della vita e anche del fine della vita, un sorriso non è mai superfluo. Anzi, rilancia il desiderio di amore e di tanti contatti, abbracci, di cui siamo privi ormai da troppo tempo. I numeri e i rischi: la verità sul lavoro perduto di Dario Di Vico Corriere della Sera, 1 maggio 2021 La pandemia non ha uccisi il lavoro, ma ha generato un fenomeno dei disoccupazione selettiva. I guai maggiori si intravedono fuori dal perimetro dell’industria e si appuntano sul trio giovani-donne-partite Iva. Il cambiamento nella classificazione degli occupati, deciso da tempo in sede europea, ha reso meno lineare l’interpretazione dei dati che l’Istat sforna mensilmente. Traslocare i cassaintegrati oltre i tre mesi da occupati a inattivi per un mercato del lavoro come il nostro è una discontinuità radicale, che oggi è confinata al puro monitoraggio statistico ma che in una fase successiva non potrà che implicare differenti scelte a monte. Non si dovrebbero più, per un minimo di coerenza, poter raggiungere intese favorite da dosi elefantiache di ammortizzatori sociali. Ma al di là delle puntualizzazioni statistiche, che pure sono necessarie per evitare una comunicazione ansiogena, si può dire che la pandemia non ha ucciso il lavoro bensì per il combinato disposto della reattività delle filiere produttive e di scelte politiche mirate (il blocco dei licenziamenti) ha generato un fenomeno di disoccupazione selettiva. La cittadella del lavoro manifatturiero e in qualche modo novecentesco ha tenuto, le imprese più strutturate hanno difeso la loro posizione nelle catene del valore internazionale e così la crisi dell’occupazione si è scaricata prevalentemente sull’hinterland del lavoro ovvero giovani, donne e partite Iva. Questa piccola verità non è stata adeguatamente focalizzata in questi mesi nei quali si è discusso per lo più del timing dello sblocco dei licenziamenti e delle aperture dei ristoranti. Molto meno si è discusso di una polarizzazione del mercato tra lavori buoni e lavori deboli che ha delle conseguenze di lungo periodo. Tanto da poter diventare il tratto di fondo delle trasformazioni che ci attendono. Nel dossier pubblicato recentemente dall’Economist, che ha fatto discutere animatamente gli addetti ai lavori e nel quale si sostiene con forza che l’avanzata dell’automazione non distruggerà l’occupazione (smentendo così decine di studi pubblicati in questi anni a cominciare dalla mitica ricerca dei professori Osborne e Frey), si propone però una fotografia dei prossimi anni in cui le distanze tra i due mercati si allargano e l’unica possibilità di conoscersi che avranno un giovane ingegnere e un rider suo coetaneo sarà quella di aprire la porta per il ritiro del cibo. Mi è capitato già in un’altra occasione di avvertire però come una visione totalmente verticale della disuguaglianza, un pugno di pochi super-privilegiati e l’esercito dei tanti retrocessi, sia più letteraria che reale. La realtà ci parla di differenti dislocazioni sul mercato dei vari segmenti della società a seconda degli shock esterni (lo abbiamo imparato catalogando dipendenti pubblici e pensionati come “i garantiti” della pandemia) e la disoccupazione selettiva rientra nel novero di queste moderne disparità. Con ciò nessuno può sottovalutare il rischio che si apra un ciclo pesante di ristrutturazioni aziendali dentro la cittadella manifatturiera ma le stime sui possibili licenziamenti di tute blu sono nettamente minori all’enfasi esibita dai commentatori improvvisati e comunque per ora sono state annunciate due sole drastiche riorganizzazioni: il gruppo Elica (elettrodomestici) e Sky Italia. I maggiori guai oggi si intravvedono fuori dal perimetro dell’industria e si appuntano sul trio giovani-donne-partite Ivache rappresenta il cuore dell’occupazione terziaria. I rischi della polarizzazione sono purtroppo facili da individuare: tagliare le gambe a una intera generazione e ridimensionare la partecipazione femminile al lavoro invece di accrescerla. Ma, ed è questa la domanda più insidiosa, gli indirizzi del Pnrr che abbiamo presentato a Bruxelles, oltre alle coerenti scelte di fondo necessarie a far ripartire l’economia italiana, hanno concesso altrettanta attenzione al rebus del lavoro dualizzato con l’idea di chiudere la forbice? È difficile dare una risposta affermativa. La sensazione è che il capitolo lavoro del Pnrr risenta innanzitutto di alcune contraddizioni politiche legate alle convinzioni dei ministri che si sono avvicendati alla guida del dicastero negli ultimi due governi. È vero che la nuova stesura ne ha eliminate alcune più stridenti, resta però l’illusione che basti un’iniezione di risorse su strutture largamente inefficienti come i Centri per l’impiego e portare a casa l’inclusione dei soggetti deboli del mercato. Forse ci sarebbe voluta un’altra convinzione, quella di inserire il lavoro tra le riforme-chiave legate al Pnrr ma evidentemente non si è raggiunta dentro il governo una sufficiente condivisione sia di metodo sia di merito. Così si è preferito scommettere sulla forza trainante degli investimenti nelle due grandi transizioni, il digitale e l’ecologica, e auspicare che l’intendenza segua. O, come si dice nel gergo degli economisti, che gli effetti positivi sgocciolino fino in basso. Il lavoro perduto di donne, giovani e migranti di Linda Laura Sabbadini La Repubblica, 1 maggio 2021 Il governo dovrà assicurarsi che le risorse del Recovery favoriscano le categorie più fragili, che sono state anche quelle più colpite dalla pandemia. Primo Maggio del lavoro, che non c’è. Del lavoro perduto. Un Primo Maggio triste. Per molti doloroso. Il lavoro è dignità della persona, è un pezzo della nostra identità, di noi stessi. Indipendentemente dal tipo di attività che ciascuno di noi svolge. È la bellezza del dare un contributo alla comunità di cui si fa parte e di migliorarsi. L’Italia ha indici di soddisfazione alti del lavoro. Indipendentemente dalle mansioni svolte. E questa è una bella cosa. È l’Italia operosa, creativa, innovativa, che abbiamo sempre conosciuto ma che ora, in molte sue parti, soffre, non vede futuro. D’altro canto c’è il lavoro più garantito e quello meno, o per nulla. Esistono anche lo sfruttamento e la schiavitù. E i momenti più critici sono proprio quelli che stiamo attraversando. Quanto più la situazione economica è difficile, tanto più il rischio di sfruttamento cresce. Perchè molti cittadini, soprattutto i più vulnerabili e fragili, sono maggiormente esposti al ricatto di non avere di che sfamarsi o mantenere la famiglia. Mai come ora è fondamentale che il governo vigili sulle forme di sfruttamento che assumono tipologie tra le più varie e nuove e spesso fin troppo visibili. Ma quale è il lavoro perduto? I dati sono stati diffusi ieri dall’Istat sul mese di marzo 2021. Quasi 900 mila occupati in meno rispetto a febbraio 2020, prima dell’inizio della pandemia. Nonostante il blocco dei licenziamenti. Nonostante la cassa integrazione. Il lavoro perduto è soprattutto femminile (-4,5% contro -3,4%), donne giovani che vivono con i genitori o con il partner, senza o con figli. E ciò perchè il settore dei servizi è stato più colpito dagli effetti della pandemia, e in particolare i servizi alle famiglie, turismo, ristorazione dove le donne sono più presenti, per di più con contratti più precari e spesso lavori irregolari. Il lavoro perduto è quello dei dipendenti a tempo determinato (-9,4%) e dei lavoratori indipendenti (-6,6%) che hanno raggiunto il minimo, 345 mila in meno, per un totale di 4 milioni 893 mila autonomi. Il lavoro perduto è soprattutto giovanile. E qui la questione è seria. Tra i 25 e i 34 anni il tasso di occupazione è arrivato al 60,3%, 10 punti sotto marzo 2008, e cioè prima della precedente crisi. Il 40% dei giovani che dovrebbero cominciare a costruirsi una vita indipendente non ha lavoro. Come e quando riusciranno a costruire percorsi di autonomia? Il lavoro perduto è il lavoro dei migranti, sempre più invisibili, assenti dalla narrazione collettiva. Sono loro ad aver subito le conseguenze peggiori. Molto più degli italiani. E tra loro soprattutto le donne. Perché le donne con cittadinanza straniera lavorano soprattutto nei servizi domestici e nella ristorazione. Al contrario gli uomini sono più impiegati nell’edilizia ed hanno così risentito meno degli effetti della pandemia. Tra le donne sono state le cinesi ad essere tra le più colpite, per lo più lavoratrici indipendenti nella ristorazione, e le filippine inserite soprattutto nei servizi domestici. Il lavoro perduto è il lavoro in tutte le zone del Paese, ma nel Sud la situazione è gravissima. Stiamo affrontando la prova più dura della nostra vita, la più dura dalla Seconda Guerra Mondiale. Dobbiamo metterci la volontà, l’impegno, la forza, la creatività dei nostri genitori e nonni per uscirne fuori. E ce la faremo. L’Unione Europea ed il nostro Governo stanno mettendo in campo risorse straordinarie che permetteranno la creazione di nuovo lavoro ed una nuova crescita. Ma attenzione, dovranno vigilare perchè la crescita non sia disuguale. E dovranno mettere in campo strumenti per la valutazione di impatto delle politiche per correre ai ripari nel momento in cui si verificheranno le distorsioni. Si sarebbe dovuto fare prima. Lo si faccia al più presto, valutando l’impatto delle misure adottate. Soprattutto di genere, visto che la massa degli investimenti si concentrerà in settori ad alta intensità occupazionale maschile e il nostro Paese è sprofondato nella classifica europea dell’occupazione femminile. E soprattutto si sia immediatamente disponibili a cambiare rotta ai primi segnali negativi. Il Paese se lo aspetta. *Linda Laura Sabbadini è direttora centrale Istat Crimini d’odio. Con il ddl Zan un cambiamento sociale non più prorogabile di Be Free Il Manifesto, 1 maggio 2021 Il d.d.l. Zan, approvato alla Camera il 4 novembre del 2020, ha una forte potenzialità trasformativa, capace di contribuire alla evoluzione di un diritto penale contemporaneo concretamente antidiscriminatorio. Il disegno di legge, tuttavia, continua ad incontrare le critiche e le opposizioni di alcuni/e ed a dividere anche chi da sempre è insieme nelle lotte per i diritti civili; questo breve contributo vuole dimostrare che tali critiche sono superabili. È opportuno premettere che obiettivo della proposta di legge è quello di contrastare ogni forma di violenza e di discriminazione fondata sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere - nella dimensione relazionale ed affettiva di tali espressioni - nonché su specifiche condizioni di vita, quali sono quelle delle persone con disabilità, tramite un intervento legislativo di triplice natura: inclusiva perché riconosce tutte le dimensioni dell’identità, estendendone le tutele normative già esistenti per i soggetti vulnerabili; repressiva, mediante l’integrazione degli articoli 604 bis e 604 ter (che disciplinano crimini d’odio basati sulla razza, l’origine etnica, la nazionalità e la religione), estendendo la relativa tutela a diverse condizioni, proprie di un individuo e della sua identità, più esposte al rischio di subire atti di aggressione e di odio; propulsiva laddove il d.d.l. prevede alcune misure che mirano a promuovere socialmente l’eguaglianza e ad offrire supporto alle vittime del reato. Ciò posto, una delle più diffuse fra le critiche mosse contro il d.d.l. è l’inserimento del genere femminile fra le minoranze da tutelare, poiché le donne costituiscono la metà della popolazione mondiale. È evidente, tuttavia, come il concetto di “minoranza” non sia qui da intendersi in senso numerico, bensì concettuale, a fronte delle discriminazioni e violenze che le donne - a tutt’oggi - continuano a sperimentare in ambito privato, pubblico, istituzionale; è proprio a fronte della diffusione del fenomeno e della sua sistematicità, culturalmente radicata, che il genere femminile intero è stato pertanto preso in considerazione dal progetto legislativo. Il termine minoranza, inoltre, non deve far pensare ad una condizione di minorità, intesa come “debolezza” o “fragilità”, bensì allo svantaggio sociale di partenza che costituisce un dato di fatto, anche statistico, per tutte le categorie indicate, donne comprese, svantaggio che il d.d.l. si propone di contribuire a rimuovere. Altra critica si è focalizzata su una presunta incompatibilità del d.d.l. con gli artt. 21 Cost. E 10 CEDU, ossia con il principio della libertà di manifestazione del pensiero: al riguardo si osserva che è stata prevista una clausola c.d. “salva - idee” all’art. 4, che in linea con la giurisprudenza costituzionale e convenzionale fa salva la libera espressione, le convinzioni personali, le opinioni e le condotte legittime riconducibili alla libertà delle scelte. Il d.d.l. Zan, dunque, prende atto dell’inadeguatezza degli strumenti giuridici preesistenti a tutelare anche quelle discriminazioni e quei crimini d’odio che - in particolar modo in Italia - colpiscono donne cisgender e transgender, altre soggettività LGBTQI+ e persone con disabilità nella propria imprescindibile libertà di autodeterminazione, garantendo loro il diritto ad esistere come gli altri, in un’ottica di universalità. Peraltro, il testo dell’art. 604 bis, salvo che il fatto costituisca più grave reato, punisce chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione fondati sui motivi di cui all’art. medesimo, ed ancora chi propaganda idee fondate sulla superiorità e sull’odio nei medesimi casi, e ancora chi istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza. Ciò posto, il d.d.l. Zan non inserisce nella norma la punizione per chi propaganda idee, ma solo per chi istiga alla violenza o la commette. Non si comprende quindi come possa contrastare con un’idea pluralista di democrazia un progetto di legge che si rivolge alla tutela di dimensioni identitarie, affettive, relazionali, afferenti alla libertà di autodeterminazione degli individui, mettendone in risalto il bene giuridico da proteggere - piuttosto che concentrandosi sulla circoscrizione delle singole condotte da reprimere. Ancora, si sostiene che il d.d.l. Zan contrasti con l’art. 25 Cost., che prevede il principio di determinatezza della legge penale. A ciò si replica che le definizioni contenute nell’art. 1 del testo, peraltro limitate, non solo fanno ormai ampiamente parte del linguaggio comune ed hanno acquistato col tempo una riconoscibilità sociale, ma la stessa Corte Costituzionale, oltre alla normativa e giurisprudenza sovranazionale, ha avuto più volte modo di riconoscere e sottolineare il fondamento di tali espressioni (cfr. a titolo esemplificativo C. Cost. sent. 138/2010, C. Cost. sent. 221/2015, C. Cost sent. 221/2019, C. Cost. sent. n. 230/2020). Ulteriori obiezioni si sono poi focalizzate sull’opportunità di configurare i moventi d’odio come aggravanti, senza introdurre fattispecie autonome di reato. Si deve tuttavia osservare come la configurazione di reati autonomi anziché di aggravanti abbia, fra le altre, la funzione di modificare ed indirizzare la cultura dei Magistrati stessi, così come avvenuto in materia di violenza di genere che col tempo è quasi andata a costituire una “parte speciale” nel Codice Penale ed ha consentito di contrastare stereotipi e pregiudizi di genere ancora purtroppo esistenti nelle aule giudiziarie. La previsione di semplici aggravanti non sembra idonea a sollecitare quel cambiamento giuridico-culturale che il d.d.l. Zan si propone di ottenere. Inoltre, si rileva come la contestazione di una aggravante debba passare prima dalla valutazione, non scevra da un certo grado di discrezionalità, del Pubblico Ministero nella formulazione del capo di imputazione, rientrando tra gli elementi contenuti nella richiesta di rinvio a giudizio proprio “l’enunciazione in forma chiara e precisa del fatto-reato e delle circostanze aggravanti”, in linea con le disposizioni del nostro Codice di Procedura Penale e dell’art. 6 lettera a) CEDU, per il quale ogni accusato ha diritto ad essere informato della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico. Tale esigenza, nel caso di circostanze aggravanti le cui fattispecie si esauriscono in comportamenti materiali, non presenta grossi problemi; ma nel caso di aggravanti come quelle per i crimini d’odio, nelle quali - in luogo dei fatti materiali o in aggiunta agli stessi - la previsione normativa include componenti valutative, occorre che il risultato di questa valutazione sia esplicitato nell’imputazione medesima, altrimenti la contestazione risulterebbe priva della compiuta indicazione degli elementi costitutivi della fattispecie circostanziale. Tale discrezionalità, aggiunta a quella dell’organo giudicante nell’interpretare il fatto in ottica antidiscriminatoria, demandata anche qui alla sensibilità del singolo giudice, spiega perché ad oggi, i casi di discriminazione raramente sono presenti nelle aule giudiziarie. Basti citare i dati dell’OSCAD (Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori - http://hatecrime.osce.org/italy) per rendersi conto del deserto giudiziario esistente, dato dalla esiguità dei casi denunciati e di quelli sentenziati (In Italia, nel 2018, su 1111 casi tra denunciati e segnalati, solo 613 sono stati perseguiti e dui questi 46 sentenziati). Dai dati raccolti, combinando le segnalazioni OSCAD e i dati ufficiali contenuti nel “Sistema di Indagine - SDI”, differenziando quindi le due tipologie di dati: quelli SDI - estratti dal CED interforze - che riguardano reati con finalità discriminatorie che hanno “copertura normativa” e le solo segnalazioni OSCAD che comprendono invece ambiti discriminatori privi di specifica copertura normativa, emergono: la lacuna normativa esistente, l’enorme sommerso, la scarsa sensibilità da parte della società civile e la poca formazione sui crimini d’odio da parte di tutti quei soggetti, potenzialmente destinatari di questi fatti (Forze dell’Ordine, presidi sanitari, ecc.). Di fatto, i crimini d’odio non vengono né denunciati (fenomeno del c.d. under-recording) per motivazioni quali: il non aver consapevolezza che l’aggressione subita sia motivata dal pregiudizio, la scarsa fiducia nelle Forze dell’Ordine, la paura di compromettere la propria privacy, il timore di subire ritorsioni; né vengono riconosciuti (fenomeno del c.d. under-reporting: scarsa sensibilità, mancanza di formazione, pregiudizi). A questo si aggiunge la necessità di prevenire al massimo il rischio di escalation delle condotte che trova fondamento dalla degenerazione di comportamenti discriminatori minori, considerati erroneamente inoffensivi, che gradualmente degenerano in reati. E’ dunque quanto mai urgente, come già si è sta facendo da anni per contrastare il fenomeno della violenza contro le donne, intervenire su tutte le diverse declinazioni dei crimini d’odio. Tutte le critiche mosse nei confronti del d.d.l. Zan dovrebbero cadere di fronte al principale punto di forza di questa legge: l’effetto propulsivo nei confronti di un cambiamento sociale non più prorogabile. Queste norme non mirano a creare alcuna corsia preferenziale o categoria privilegiata, il che costituirebbe tra l’altro un’ulteriore ghettizzazione, ma ad assicurare pieno riconoscimento giuridico a condizioni di vita e di esperienza che paiono ad oggi particolarmente meritevoli di protezione, con un approccio concretamente antidiscriminatorio, nel pieno rispetto degli art. 2 e 3 della Costituzione. Il d.d.l. Zan costituisce un passaggio fondamentale verso il riconoscimento della matrice comune di tutte queste forme di discriminazione: una società patriarcale, dominata dalla cultura del potere maschile, realtà profondamente ineguale ed etero-normata che il femminismo da sempre combatte e che ad oggi dovrebbe costituire motivo di alleanza e non di scontro. Covid 19, la paura delle varianti che ci fa scoprire gli schiavi dei campi di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 1 maggio 2021 Agro Pontino, a un’ora da Roma si cercano alcune centinaia di sikh, appartenenti a una comunità di circa trentamila indiani ormai stanziali, quali possibili vettori umani del virus mutato. Il Covid-19 è una lente d’ingrandimento puntata su guasti da cui tendiamo a distrarci: un monito che può perfino migliorare la nostra comunità, a saperlo intendere. La nuova ondata di paura, che monta adesso con la variante indiana e le sue incognite, sale ad esempio da un allarme in apparenza abbastanza localizzato ma del quale potrebbe essere utile cogliere il senso generale, la lezione che sembra impartire a tutti coloro che si voltano dall’altra parte di fronte alle iniquità: come, in fondo, capita talvolta a ciascuno di noi. Nell’Agro Pontino, a un’ora di macchina da Roma, medici e protezione civile tentano di rintracciare alcune centinaia di sikh, appartenenti a una comunità di circa trentamila indiani ormai stanziali in quelle zone, quali possibili vettori umani del virus mutato. Chi sono costoro e perché si trovano qui? Sono i lavoratori dei campi, quei miti omini barbuti dal turbante arancione che i vacanzieri di Sabaudia o del Circeo possono intravedere talvolta di scorcio, sudati e chini sulle zolle, passando in macchina accanto a un campo di pomodori o di zucchine nel tragitto verso la spiaggia delle famose dune care a Moravia e Pasolini. Sono, e sono stati, anche la fortuna della filiera agricola della provincia di Latina, perché costano nemmeno un terzo dei braccianti italiani, accampano zero diritti, si lasciano sfruttare assai facilmente. Almeno cinquemila di loro sono irregolari, per via di permessi scaduti o mai neppure ottenuti. Tutti hanno sgobbato per anni in silenzio, chiamando “padrone” il signorotto italiano del campo, spesso imbottiti di anfetamine dai suoi sgherri per rendere al di là dell’umana resistenza: in tredici negli ultimi tre anni, non resistendo più, si sono suicidati. Se le parole hanno un senso, i sikh dell’Agro Pontino sono in buona parte schiavi, anche se non più invisibili come prima: perché da tempo un coraggioso sociologo del posto, Marco Omizzolo, li ha studiati, ha riempito denunce e dossier contro i caporali, e ha infine organizzato il loro primo sciopero, ricevendone in cambio un titolo di Cavaliere al merito dal presidente Mattarella e minacce di ritorsione dal sistema agromafioso (che, nota Eurispes, sviluppa su base nazionale un business da 25 miliardi di euro l’anno e governa a tutt’oggi la grama esistenza di circa 450 mila lavoratori e lavoratrici nelle campagne italiane). Questo sistema, del quale - ricordiamolo - si avvantaggia parte della filiera agricola anche legale, si regge su irregolarità e oscurità: proprio gli spettri che, in tempi di Covid-19, si rivolgono adesso contro di noi. Perché gli schiavi e gli invisibili sono restii a farsi ritracciare per definizione, temendo che un ricovero significhi perdere la misera paga giornaliera se non addirittura il rimpatrio forzato, e dunque sappiamo che circa sessanta o settanta braccianti stanno male ma vanno ugualmente a lavorare, che quasi trecento potrebbero essere positivi ai tamponi: la speranza, dal nostro angusto punto di vista, è che portino addosso solo il Covid “tradizionale”, addomesticabile dai vaccini, e non quello ancora sconosciuto e mutato in India, da dove alcuni sono arrivati nelle ultime settimane, prima che alzassimo le barricate sanitarie. L’infamia di questo ragionamento contiene una morale facilmente intuibile: la moderna schiavitù è una peste che infetta non solo chi la subisce ma anche chi la pratica. Perché non è difficile capire che gli schiavi delle campagne laziali potrebbero generare un cluster. Ne basterebbe anche solo il timore per provocare conseguenze gravi sul turismo del litorale e del Lazio, tali da assestare il colpo di grazia ad albergatori, ristoratori, balneari. La scelta di limitare, per ora, la zona rossa a Bella Farnia, la frazione di Sabaudia dove i sikh vivono in condizioni assai precarie, rientra appunto nell’ottica di limitare il danno. Ma la questione bracciantile ha una ricaduta generale ancora più larga. È di un mese fa, su queste colonne, la constatazione che la sanatoria voluta nel 2020 dall’allora ministra Teresa Bellanova, a fronte di un’emergenza provocata dall’incrocio sul nostro territorio tra 600 mila stranieri irregolari e la pandemia, si è tradotta in un fallimento per mancanza di univoca volontà politica e per le strutturali lentezze della nostra macchina burocratica. Rivolta soprattutto ai lavoratori dei campi, è stata colta quasi solo da colf e badanti, e con esiti assai scarsi. “Oltre 207 mila persone si sono fidate dello Stato”, scriveva proprio sul Corriere la Bellanova. Vero e confortante. Ma al 9 marzo, stando a un’interrogazione parlamentare del deputato Riccardo Magi, il numero delle domande finalizzate a sei mesi dalla chiusura dei termini era inferiore all’1% di quelle presentate. Un flop, salutato dalla destra come una vittoria del fronte anti-immigrazione. A raccontarci quanto sia miope questa posizione non c’è solo l’Agro Pontino, ci sono le cento baraccopoli, con altrettante etnie di migranti, sparse da Nord a Sud, ovunque la filiera agroalimentare abbia bisogno di braccia a buon mercato: potenziali focolai, un tempo di tensioni fra ultimi e penultimi, adesso anche di contagio. Posto che gli irregolari esistono (e nemmeno un ministro molto di destra è riuscito a diminuirne il numero, anzi), prendersela con chi vuole regolarizzarli è come mordere il dito che indica la luna. Il Covid-19, nel suo infinito orrore, ha il merito di avere strappato un velo. L’umanità dolente, che prima sfruttavamo senza darcene pena, adesso ci sgomenta: perché non censita, perché non vaccinata, perché altro da noi. Joban Singh, l’ultimo sikh suicida, aveva implorato i padroni di regolarizzarlo: loro gli avevano chiesto in cambio diecimila euro, consegnandolo ai suoi demoni e alla nostra indifferenza. Un Paese che promette di rinascere dalla pandemia più giusto e più equo non può distogliere ancora lo sguardo. Migranti. Rispetto dei diritti negli hotspot: l’Italia di nuovo sotto esame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 maggio 2021 Sono passati cinque anni da quanto la Corte Europea di Strasburgo ha condannato l’Italia per la detenzione arbitraria di cittadini stranieri nel Centro di soccorso e prima accoglienza, ma non è ancora garantito l’effettivo rispetto dei diritti negli hotspot. Per questo motivo, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, in seguito alle criticità e violazioni segnalate da Asgi, A Buon Diritto Onlus e Cild, ha deciso sottoporre a esame il nostro Paese nel mese di dicembre 2021. Come ricorda l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), nel 2016 la Cedu aveva condannato l’Italia nel caso Khlaifia c. Italia per la detenzione arbitraria di cittadini stranieri nel Centro di soccorso e prima accoglienza (Cspa) di Contrada Imbriacola a Lampedusa e a bordo delle navi Vincent e Audacia e per l’assenza di mezzi di ricorso effettivo contro tale trattenimento e le sue condizioni. Lo Stato italiano, dal 2016 ad oggi, non ha ancora introdotto disposizioni volte a colmare i vuoti legislativi continuando a implementare prassi illegittime funzionali a politiche di contenimento e selezione dei flussi migratori che comportano una gravissima violazione dei diritti dei cittadini stranieri in ingresso sul territorio in una condizione di sostanziale invisibilità. Nel mese di gennaio 2021, Asgi, A Buon Diritto Onlus e Cild sono nuovamente intervenute nel procedimento di supervisione, sottoponendo due comunicazioni al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa in cui vengono dettagliate le criticità e le violazioni che malgrado la sentenza della Cedu ancora permangono e caratterizzano gli hotspot in Italia. Per quanto riguarda l’assenza di un rimedio efficace per contestare le condizioni di detenzione, le possibilità prospettata dal governo di fare reclamo in un procedimento d’urgenza e di chiedere un risarcimento economico sono state messe in discussione dalla società civile. Di conseguenza il Comitato, in linea con quanto osservato dalle associazioni, ha richiesto alle autorità italiane di fornire decisioni giudiziarie in grado di dimostrarne l’efficacia, specificando che in mancanza di tale prova vi è la necessità improrogabile di adottare misure che garantiscano rimedi giurisdizionali per contestare le condizioni di detenzione. Relativamente alle gravi violazioni connesse all’arbitrarietà della detenzione, laddove le associazioni hanno specificato come gli hotspot continuano ad essere luoghi dove il trattenimento viene attuato in maniera informale, senza alcuna base giuridica e garanzia giurisdizionale, il Comitato non si è espresso su tale profilo riservandosi di analizzare l’attuale quadro legislativo delineato nella memoria del governo. Le associazioni sono già intervenute in precedenza nel procedimento di supervisione dell’esecuzione della sentenza Khlaifia, avvalendosi anche dell’aiuto dell’European Implementation Network (Ein). Il Governo italiano dovrà fornire al Comitato dei Ministri una risposta alle specifiche violazioni riscontrate entro il prossimo 15 settembre. Per questi motivi, Asgi, A Buon Diritto Onlus e Cild insistono affinché non venga chiusa la procedura di supervisione e si continui a monitorare, anche da parte della società civile, lo stato di attuazione della sentenza Khlaifia. “Nonostante la modifica, prassi illegittime che ostacolano l’accesso alla protezione” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 maggio 2021 La denuncia delle associazioni dopo l’approvazione delle riforme al “Decreto sicurezza”. Lo scorso dicembre il Senato ha definitivamente approvato il decreto legge 130, convertito in legge n. 173/ 2020. Parliamo di una parziale modifica dei cosiddetti “decreti sicurezza” voluti dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, “ma - denunciano le associazioni - le modifiche per essere tali devono ripercuotersi sulla realtà e trovare effettiva applicazione, altrimenti restano carta morta”. E’ per questo motivo che il Forum Cambiare l’Ordine delle cose insieme a GREI250, Refugees Welcome Italia, Fondazione Migrantes, Rete EuropAsilo, e alle decine di associazioni che fanno parte del Forum e che si muovono operativamente sul territorio nazionale hanno realizzato un monitoraggio in 16 città italiane (Reggio Calabria, Lecce, Brindisi, Bari, Foggia, Termoli, Napoli, Caserta, Roma, Firenze, Bologna, Ancona, Parma, Trieste, Bolzano) per capire cosa stesse succedendo dopo l’approvazione del DL 130, con il timore che una legge rimanesse solo carta. “Abbiamo verificato le prassi degli uffici immigrazione delle Questure locali e delle Commissione territoriali per la protezione umanitaria, oltre che le posizioni assunte dai tribunali ordinari, concentrandoci in particolare sull’accesso alla protezione speciale prevista dal DL130. Il risultato - denunciano le associazioni del forum - è allarmante: centinaia di persone che avevano già subito le conseguenze dei decreti sicurezza continuano a essere intrappolati in un pericoloso limbo giuridico e di irregolarità”. Il coordinamento di associazioni ha inoltre registrato che le richieste di protezione speciale sono bloccate, come i casi pendenti e i rinnovi dei permessi di soggiorno. “Il motivo di questo stop al cambiamento - sottolineano con forza -, è da rintracciare nell’assenza di indicazioni pratiche da parte dell’amministrazione centrale: una mancanza che lascia spazio a prassi illegittime da parte delle Questure e delle Commissioni territoriali. Istanze non ricevute, o ricevute ma non prese in esame; documentazioni integrative che non vengono prese in considerazione, nonostante così sancisca la legge 173/ 2020; richiesta, da parte delle Questure, di requisiti previsti dai ‘ decreti sicurezza’ ma eliminati dalla legge attuale, sono solo alcune delle prassi che mantengono migliaia di persone in un limbo burocratico e giuridico”. Il DL130, sempre secondo le associazioni del Forum Cambiare l’Ordine delle cose, invece, potrebbe sanare una situazione che aveva escluso e marginalizzato migliaia di cittadini stranieri, persone che si trovano in una situazione di precarietà giuridica o che non sono riusciti a rientrare nei requisiti della cosiddetta sanatoria. Di fronte a questa situazione le organizzazioni hanno scritto una lettera aperta al Ministro Lamorgese, ai sottosegretari agli Interni, ai capo dipartimenti della Pubblica sicurezza, per le Libertà Civili e l’immigrazione e al presidente della Commissione Nazionale Asilo. Ma finora non hanno ricevuto alcuna risposta. “Dopo aver constatato la disapplicazione della legge, vogliamo informare e formare i/ le migranti - le prime persone colpite da questa situazione - così come chiunque voglia capire meglio la normativa, anche per contrastare le prassi illegittime. Sosterremo concretamente operatori e operatrici, che invitiamo a rivolgersi a noi per un sostegno nella presentazione delle istanze. Vogliamo essere spazio di aggiornamento sulla situazione, di denuncia per chi vuole segnalare criticità e problematiche sul proprio territorio, e di sintesi di quanto osservato sul campo, attraverso la diffusione di un report di analisi delle criticità”. “Chiediamo - concludono le organizzazioni - alle realtà impegnate sul campo di aderire alla campagna: è importante che chi ogni giorno è impegnato sui territori svolga un lavoro di monitoraggio del reale affinché si applichi, finalmente, la legge”. Russia. Perché al Cremlino fa paura la democrazia del Vecchio continente di Andrea Bonanni La Repubblica, 1 maggio 2021 Le sanzioni della Russia all’Europa sono la “risposta asimmetrica” annunciata il 21 aprile: Putin ha voluto alzare il tiro. Eccola qua, la “linea rossa” di Vladimir Putin. Ed ecco anche la “risposta asimmetrica” che il presidente russo aveva minacciato nel suo discorso del 21 aprile. E asimmetrica lo è davvero. Perché l’Europa aveva sanzionato poliziotti e giudici direttamente coinvolti nella persecuzione di dissidenti, come Aleksej Navalnyj, o degli omosessuali in Cecenia. Invece il Cremlino alza decisamente il tiro e colpisce, tra gli altri, nientemeno che il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, che secondo i Trattati è la più alta carica istituzionale della Ue, oltre alla vicepresidente della Commissione, Vera Jurova, responsabile per i valori e la trasparenza. E’ come se la Ue avesse sanzionato lo stesso Putin e uno dei nove vicepresidenti del governo russo. Una vera aggressione. Sarà un caso, ma sia Sassoli sia Jurova sono membri del Partico socialista europeo (PSE). E forse un caso non è, visto che ormai, dalla Brexit al Covid, dai Balcani alle elezioni francesi il Cremlino ambisce ad essere un interlocutore fisso del dibattito politico interno alla Ue, dove le sue simpatie (e i suoi soldi) vanno in direzione della destra estrema. Così, mentre la Russia cerca di inserirsi nella politica interna europea (e americana), l’Europa, pur non avendone i mezzi, cerca di fare politica estera. Lo fa, appunto, in nome dei valori democratici che sono la sua ragione essere. Ed è proprio questo che manda fuori dai gangheri i vecchi e nuovi autocrati. Come spiega il comunicato del ministero degli Esteri russo, la colpa della Ue è quella di “imporre il concetto sbilenco di un ordine mondiale basato sui valori che mina il diritto internazionale”. È la stessa rimostranza espressa a marzo dai cinesi, quando hanno risposto alle sanzioni Ue contro quattro ufficiali di Pechino responsabili della repressione contro gli Uiguri sanzionando una decina di personalità europee, tra cui numerosi eurodeputati. È evidente, a questo punto, che il più grande Parlamento democratico dell’Occidente dà fastidio ai molti despoti che bullizzano il Pianeta con i loro soldati, i loro mercenari e i loro poliziotti, da Putin, a Xi Jinping, al presidente turco Recep Tayyp Erdogan. Ed è ancora più evidente che l’Europa, nelle sue componenti sovrannazionali come il Parlamento e la Commissione, dà molto più fastidio della somma dei suoi Stati e delle loro diplomazie, sempre attente alla Realpolitik dell’interesse immediato. Sono pochi i leader nazionali che, come Mario Draghi con Erdogan che maltratta Ursula von der Leyen, sanno uscire dai binari del diplomaticamente corretto. Che le istituzioni europee fossero la vera bestia nera di Putin, del resto, era già apparso chiaro dal trattamento offensivo che il Cremlino aveva riservato a febbraio all’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Josep Borrell, andato a perorare la causa di Navalnyj. È da quello sgarbo, rimasto senza risposta adeguata da parte dell’Europa, che è cominciata l’ultima slavina delle relazioni tra Mosca e Bruxelles. Adesso, dunque, si pone il problema di una risposta commisurata all’aggressione russa. “Quanto peggio deve andare prima che l’Ue vada oltre le sanzioni simboliche e colpisca gli oligarchi intorno a Putin?”, ha scritto ieri il parlamentare belga Guy Verhofstadt, già da tempo sulla lista nera del Cremlino. “Risponderemo con misure appropriate”, hanno comunicato i tre presidenti delle istituzioni Ue. All’Unione non mancano gli strumenti per colpire la Russia. Ma, politicamente, la risposta più importante dovrebbe venire da governi e parlamenti nazionali, per dimostrare che chi colpisce le istituzioni dell’Europa colpisce anche i suoi Stati membri e sanare così la frattura che i nemici della democrazia cercano di creare nella costruzione comunitaria. Purtroppo, ieri, le capitali hanno taciuto. Stati Uniti. Arrestato da un software, ma era la faccia di un altro di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 1 maggio 2021 L’odissea di Nijeer Parks “inchiodato” dal riconoscimento facciale. Centinaia ogni anno gli errori giudiziari, tutti a scapito di neri e latinos. “Non mi somiglia per niente!” aveva detto ai poliziotti che lo stavano arrestando. Ma Nijeer Parks, un afroamericano di 30 anni residente nel New Jersey non sapeva che a “inchiodarlo” non erano stati gli agenti ma un... software di riconoscimento facciale. Una macchina, che lo aveva identificato con l’autore di almeno sette reati: lesioni aggravate, possesso illegale d’armi da fuoco, possesso di droga, falsificazione di documenti d’identità, abbandono della scena del crimine e resistenza all’arresto (avrebbe ferito uno sceriffo con la sua automobile mentre si dava alla fuga).. Il problema è che Parks non aveva fatto nulla, era semplicemente la vittima di un terribile scambio di persona. E con i con i capi d’accusa che pendevano sulla sua testa avrebbe potuto scontare fino a 15 anni di reclusione in un penitenziario del New Jersey. I fatti risalgono a febbraio di due anni fa quando Parks riceve una telefonata dalla nonna: voleva avvertire che due agenti lo avevano cercato nel suo appartamento e che avrebbe dovuto presentarsi il prima possibile nella stazione di polizia di Woodbridge: “Non avendo niente da nascondere sono andato immediatamente in commissariato per capire cosa volevano, ma pochi minuti dopo che sono entrato mi hanno detto di mettere le mani dietro la schiena e mi hanno ammanettato: ero in stato d’arresto”, racconta l’uomo. Come spiega la Cnn la “prova” regina della sua colpevolezza era la “forte somiglianza” tra Parks e la foto di un ricercato rinvenuta su una patente falsa. A scovarlo la scansione di un software di riconoscimento facciale chiamato FACES (Face Analysis Comparison Examination System) che pesca su una banca dati di oltre trentatré milioni di profili individuali. In dotazione alle forze dell’ordine dal 2001 (la Florida fu il primo Stato ad adottarlo), nel corso degli anni ha conosciuto decine di upgrade e miglioramenti, tanto che per molti investigatori di polizia sarebbe quasi infallibile. E quando ti affidi a una macchina la tua capacità di giudizio sfuma a poco a poco, obnubilando il buon senso e prevalgono l’inerzia e il pregiudizio. “Com’è possibile - racconta ancora Parks- che ci abbiano confusi? Il sospetto portava degli orecchini mentre io non ho nemmeno i buchi alle orecchie. E com’è possibile che non abbiano controllato il mio alibi?”. In effetti quando il ricercato aveva ferito il poliziotto per darsi alla macchia Parks si trovava a 50 chilometri di distanza in un ufficio della Western Union per spedire del denaro alla sua compagna. A testimoniarlo c’è la ricevuta della transazione e le immagini di videosorveglianza dell’ufficio. Niente da fare, le autorità non hanno voluto controllare convalidando l’arresto”. Fortunatamente gli avvocati di Parks si sono mossi con rapidità ed efficacia, smontando il fragile castello accusatorio: dopo 15 giorni di detenzione è stato rimesso in libertà. Il vero ricercato invece non è mai stato identificato. “So che per molti bianchi noi neri siamo tutti uguali, non credevo che anche i computer potessero avere simili pregiudizi”, ironizza la madre Patricia Parks. Nonostante la tecnologia di riconoscimento facciale diventi sempre più accurata, le cronache giudiziarie sono piene di errori clamorosi, in particolare per le persone con la pelle scura, afroamericani e latinos. Un “bug” che pesa come un macigno sull’affidabilità di questo strumento e che sta spingendo i tribunali a utilizzare Faces soltanto per le indagini e non come prova di accusa. Peraltro il software è stato espressamente proibito dalle autorità di San Francisco, Boston, Portland e Oakland. Turchia, il filantropo Kavala resta in carcere di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 1 maggio 2021 Una corte di Istanbul ha respinto la richiesta di scarcerazione presentata dagli avvocati di Osman Kavala, filantropo, difensore e promotore di diritti umani in carcere da più di tre anni e mezzo, in attesa di giudizio. L’uomo è stato rinviato a giudizio in due diversi processi: nel primo il pubblico ministero ha formulato, il 4 marzo 2019, una richiesta di ergastolo per le proteste di Gezi Park nel 2013, che secondo il pubblico ministero puntavano a rovesciare il governo ed erano, secondo l’accusa, dirette dallo stesso Kavala. Il 18 febbraio 2020 il filantropo era stato assolto ma poche ore dopo il procuratore di Istanbul aveva chiesto la continuazione della sua detenzione con l’accusa di spionaggio. Il 5 dicembre del 2020 il Comitato del ministri del Consiglio d’Europa aveva sollecitato la Turchia a rimettere in libertà l’imprenditore, cofondatore di Iletisim Yayiniari, una delle più gtandi case editrici turche e presidente dell’Istituto Anadolu Kültür, da lui fondato. Il 10 dicembre 2019 Kavala rimane in carcere nonostante la sentenza emessa lo scorso 10 dicembre la Corte europea dei diritti umani aveva chiesto il suo rilascio immediato, valutando che la sua detenzione e l’inchiesta ai suoi danni siano mosse dall’obiettivo di ridurre al silenzio lui e la società civile turca. prima la Corte Europea dei diritti umani aveva ritenuto politicamente motivata la detenzione dell’imprenditore. Ankara ha ritenuto non vincolante la decisione della corte con sede a Strasburgo, che aveva accolto le richieste degli avvocati del filantropo, precedente al successivo procedimento e alla richiesta del nuovo ergastolo. Gli altri 13 imputati, nessuno dei quali in carcere, rischiano invece pene tra i 15 e i 20 anni; tra questi ci sono alcuni avvocati e diversi attivisti. Un’ulteriore richiesta di ergastolo per l’attivista è arrivata lo scorso 9 ottobre, in un processo relativo al tentato golpe del luglio 2016. Burundi. Il presidente Ndayishimiye grazia il 40% dei detenuti di Giovanni Gugg focusonafrica.info, 1 maggio 2021 In Burundi è stata avviata la scarcerazione di 5.255 detenuti, secondo il decreto di amnistia firmato dal presidente Evariste Ndayishimiye il 5 marzo scorso. Si tratta del 40% dei circa 13.200 reclusi del Paese, le cui prigioni hanno una capacità complessiva di circa 4.100 posti, dunque al momento sono ampiamente e drammaticamente sovrappopolate. 3.000 persone sono state rilasciate questa settimana, mentre altre 2.000 hanno avuto una riduzione della pena. Alla presenza del capo di Stato, di alcuni funzionari e diplomatici, nonché di molti giornalisti, lunedì 26 aprile si è tenuta una vera e propria cerimonia nella prigione centrale di Mpimpa, la più grande del Paese, nella città di Bujumbura. In quella sede, le persone liberate sono state 1.400 (più di un terzo del totale), comprese tante donne con bambini o incinte, persone vulnerabili o che soffrono di malattie croniche. È stata un’occasione sia di riconciliazione, sia di propaganda: i prigionieri sono stati radunati nel cortile, tutti vestiti con la loro uniforme verde, e, in silenzio come ordinato dal direttore dell’istituto penitenziario, hanno ascoltato il discorso del presidente. Ndayishimiye ha sottolineato che il carcere dovrebbe essere un’eccezione e che il suo scopo non è punire, ma riabilitare, anche perché, ha aggiunto, “un carcerato è un peso per il Paese e per la famiglia, perché consuma senza produrre e la famiglia si impoverisce”, per cui ha esortato i beneficiari della grazia a non ricadere nel crimine, ma, al contrario, a cercare un lavoro per reintegrarsi nella società. Oltre a ribadire ulteriori principi dello stato di diritto, invitando gli ufficiali di polizia giudiziaria a registrare tutti i prigionieri al loro arrivo, perché “dobbiamo evitare che una persona passi tre mesi senza essere processata”, il presidente ha poi assistito a delle danze organizzate dalle detenute e ha seguito i discorsi delle altre autorità presenti. Come ha osservato Jeanine Nibizi, ministro della giustizia, si tratta della più grande amnistia presidenziale del Burundi, un atto resosi necessario a causa del sovraffollamento delle carceri, specie in questo periodo di pandemia da Covid-19, ma che vuole essere anche un segno di discontinuità con il recente passato. Molti dei graziati, infatti, erano stati arrestati in occasione delle forti proteste del 2015, quando l’allora presidente Nkurunziza si ricandidò per un terzo mandato, vietato dalla Costituzione. Evariste Ndayishimiye, eletto nel maggio 2020 e appartenente al medesimo partito dell’antesignano, ha emesso il decreto di grazia il 5 marzo 2021. Nel testo, il capo di Stato scrive di essere”convinto della necessità di una eccezionale misura di clemenza per decongestionare le prigioni e per migliorare le condizioni di detenzione”. Tra i requisiti previsti dal decreto per poter accedere alla scarcerazione c’è la condanna inferiore ai cinque anni di reclusione, mentre è inammissibile al provvedimento chi ha fatto parte di gruppi armati o ha messo in pericolo la sicurezza nazionale. Altro caso ammesso alla grazia è la corruzione: chi è condannato per tale reato può essere liberato, a patto che rimborsi i fondi e indennizzi le vittime delle frodi. Presente alla cerimonia di Mbimpa, la stampa burundese ha raccolto molte reazioni tra gli amnistiati: tanti ringraziano il presidente la sua benevolenza, altri lo benedicono, altri ancora esprimono grande emozione per quello che definiscono “un giorno indimenticabile”. Una ragazza ha dichiarato: “Ho appena trovato la mia libertà. Incontrerò di nuovo i miei amici. La vita in prigione è stata un vero calvario”. Un’altra, tenendo in braccio due figli piccoli, ha detto: “Ero quasi disperata. Mi chiedevo come avrei potuto crescere i miei figli in prigione. E ora sono libera”. Favorevoli anche le reazioni istituzionali, ad esempio dalla Commissione Nazionale Indipendente dei Diritti Umani (Cnidh) e dall’ambasciata statunitense, ospite dell’occasione. Ci sono, tuttavia, alcune inquietudini, come per il caso di Alexis Nsabimana, incarcerato dal gennaio 2016, che, liberato lunedì da Mpimba, non è mai arrivato a casa dalla sua famiglia, per cui si teme che possa essere stato prelevato con la forza e condotto in un luogo ignoto. Le amnistie in Burundi non sono una novità. Già nel maggio del 2015 Nkurunziza promise una grazia per alcune centinaia di detenuti, al fine di fermare le proteste, come poi annunciò ancora una volta alla fine del 2016. Questa volta, però, le dimensioni del rilascio sono molto più grandi e, soprattutto, sembrano voler marcare una discontinuità che renda Ndayishimiye un presidente con una personalità propria, uscendo dal cono d’ombra del suo predecessore.