Ergastolo ostativo, M5S contro la Consulta: “Il suo è un colpo mortale alla lotta alla mafia” di Liana Milella La Repubblica, 19 maggio 2021 Dopo le decisioni su permessi premio e liberazione condizionale per i mafiosi non pentiti, i grillini presentano una proposta. E a Cartabia dicono: “Ci sono punti di distanza sulla riforma, ma senza scendere in piazza chiedendo referendum, il Movimento si siederà al tavolo cercando una sintesi”. Rompe il prolungato silenzio sulla giustizia l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. E lo fa su un tema delicatissimo come l’ergastolo ostativo: “Non possiamo permetterci che l’impianto normativo fortemente voluto da Giovanni Falcone e da Paolo Borsellino per contrastare l’azione delle mafie venga gravemente indebolito. Il Parlamento non deve perdere tempo”. È seduto tra il pubblico, in conferenza stampa, mentre i suoi - l’ex sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, Eugenio Saitta e Marco Pellegrini - presentano la proposta di legge. Che lo stesso Bonafede chiosa così: “Dobbiamo essere compatti come Parlamento, perché lo Stato deve tenere altissima la guardia nella lotta contro le mafie e in questo dev’essere unito”. Parole di unità proprio nelle stesse ore in cui M5S non nasconde le sue contrarietà sulla riforma della giustizia che sta maturando nelle stanze della ministra Marta Cartabia. Dalla prescrizione all’inappellabilità delle sentenze, M5S non è affatto d’accordo. Per questo, dopo un incontro dei deputati con Giuseppe Conte, chiede un incontro alla Guardasigilli. Ma intanto ufficializza la sua posizione netta su un tema, quello delle misure sui mafiosi in carcere, che marcano anche in questo caso una differenza con Cartabia. Lei, da ex giudice della Consulta, ha sottoscritto nel 2019 la sentenza che ha reso possibili (anche se poi in numero limitatissimo) le concessioni dei permessi ai mafiosi anche se non sono pentiti. E certo, se fosse stata ancora alla Corte, non avrebbe detto no all’ulteriore ordinanza che ha appena reso possibile anche la liberazione condizionale, sempre per i mafiosi, anche se non collaborano, quando il Parlamento cambierà la legge. Ovviamente, sia per i permessi che per la liberazione, parliamo di misure decise dai giudici di sorveglianza. E della caduta di un automatismo che, secondo la Corte, è palesemente incostituzionale perché non tiene conto del percorso carcerario delle singole persone. Ma cade proprio quell’automatismo che Maria Falcone, la sorella del giudice ucciso a Capaci, ha ben spiegato proprio a Repubblica, e che rischia di fare il gioco della mafia. E qui eccosi al passo di M5S che, con Ferraresi, Saitta e Pellegrini, ironizza sulla Lega che affida il suo dissenso sulla giustizia ai referendum, e rende pubblica la sua proposta di legge sui benefici ai mafiosi all’ergastolo. Se è vero, come dice Ferraresi, che le decisioni della Consulta rappresentano “un colpo mortale alla lotta alla mafia perché i boss mafiosi, all’ergastolo per stragi e omicidi, potranno ottenere permessi premio, anche se non collaborano con la giustizia”, allora la soluzione sta in almeno tre mosse. Rese pubbliche, sottolinea Ferraresi, “nel giorno in cui Falcone avrebbe compiuto 82 anni”. Misure che l’ex sottosegretario sintetizza così: “Il detenuto all’ergastolo dovrà dimostrare lui stesso di aver tagliato i collegamenti con le organizzazioni criminali, dovrà fornire una prova rafforzata, e garantire che non ci sarà più il pericolo in futuro di nuovi collegamenti. Non sarà sufficiente una semplice dichiarazione, né la buona condotta in carcere, né tantomeno un percorso rieducativo. Sarà necessario anche il risarcimento dei danni alle vittime. Durante tutto il periodo della liberazione condizionale chi ha ottenuto il beneficio resterà in libertà vigilata, con il rischio della revoca se riattiva i vecchi canali con la mafia”. Ma non basta. C’è altro nella proposta di legge che da oggi è alla Camera. Al di là dei futuri consensi delle altre forze politiche, si tratta del primo passo che proprio la Consulta ha chiesto al Parlamento, cambiare la legge e sanare le incostituzionalità nell’arco di un anno. È il senatore Marco Pellegrini, componente della commissione Antimafia, a spiegare il ruolo che avranno i pm dei singoli distretti e la procura nazionale antimafia. Saranno loro a “dare un parere obbligatorio, ma non vincolante, sulla richiesta del detenuto, riguardo al pericolo che i collegamenti con la mafia possano rinascere in un periodo breve, medio, o lungo. Sarà un parere di importanza decisiva perché proviene da una fonte qualificata”. E infine l’ultimo aspetto, quello che, secondo M5S, dovrebbe risolvere il rischio che i singoli magistrati di sorveglianza si trovino in una condizione di debolezza e di possibile minaccia rispetto alla decisione su permessi premio e liberazione condizionale. Eugenio Saitta sostiene che “serve una tutela per questi giudici” e serve al contempo “una uniformità di decisioni”. Per questo M5S propone di “accentrare tutte le istanze nel tribunale di Roma, ovviamente rafforzandone la composizione”. Le decisioni saranno “collegiali”. Sull’ergastolo M5S andrà in cerca di consensi. Proprio mentre, sulle riforme della giustizia, si batterà per difendere le sue posizioni, e quella che considera la sua specificità. Alla domanda se tutto questo non rischia di portare M5S allo scontro con la Guardasigilli Cartabia, Saitta risponde: “Come dimostra quanto è avvenuto nei precedenti governi, M5S lavorerà su tutti i tavoli e su tutti i temi. Quindi anche con la ministra Cartabia. Oggi vi sono dei punti di distanza, ma M5S, senza scendere in piazza chiedendo referendum, ma sedendosi ai tavoli e portando la propria impostazione e i propri principi, lavorerà per raggiungere una sintesi. Questo impegno, da parte nostra, ci sarà sempre. Non ci sottraiamo al confronto e chiederemo un incontro alla Guardasigilli perché ci sono riforme che hanno bisogno di approfondimento, come nel penale dove le distanze sono enormi”. Il M5S “sfida” la Consulta: “Così eviteremo un colpo mortale alla lotta contro le mafie” di Simona Musco Il Dubbio, 19 maggio 2021 I grillini presentano una proposta di legge nel giorno del compleanno di Falcone. Che però non voleva escludere per sempre dai benefici i condannati all’ergastolo ostativo. Quello inferto dalla Corte costituzionale con le due sentenze che hanno dichiarato l’incostituzionalità della concessione di permessi premio e della libertà condizionale solo in caso di collaborazione con la giustizia sarebbe un “colpo mortale” all’ergastolo ostativo. Ed è per questo che il M5S, raccogliendo l’invito della Consulta a legiferare entro maggio 2020, ha presentato ieri una proposta di legge di contrasto alle mafie. La giornata scelta da Eugenio Saitta, capogruppo in commissione Giustizia della Camera, Vittorio Ferraresi, deputato e primo firmatario della proposta (sottoscritta dall’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede) e Marco Pellegrini, senatore e membro della commissione Antimafia, è strategica: il giorno in cui Giovanni Falcone avrebbe compiuto 82 anni. “Lo ricordiamo non soltanto come uomo - ha esordito Ferraresi - ma in particolare e soprattutto per le sue idee. Idee che hanno dato vita, insieme a quelle di altri grandi uomini, ad un sistema di contrasto alle mafie quanto mai attuale, fermo e incisivo nel nostro panorama. Un sistema che è stato in questi anni indebolito, ma rimane attuale proprio per la trasformazione che le mafie hanno avuto in questi anni”. L’idea di fondo è che la pronuncia della Consulta renda meno efficace il contrasto alle mafie, tradendo, in qualche modo, l’insegnamento di chi, come Falcone, ha pagato con la propria vita la lotta alla criminalità organizzata. Ma fu proprio il magistrato siciliano il primo ad essere consapevole che l’ergastolo senza condizionale sarebbe stato incostituzionale: con il primo decreto legge del 13 maggio 1991, il numero 152, Falcone, all’epoca Direttore generale degli affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, non aveva infatti escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, bensì aveva allungato i termini per ottenerla. E fu solo dopo la morte di Falcone, dunque, che venne introdotto quell’automatismo oggi considerato incostituzionale dal giudice della legge. La proposta per la quale il M5S ha più volte invocato la collaborazione degli altri partiti, invitando tutti a mettere da parte le bandierine, prevede che i benefici possano essere concessi agli ergastolani ostativi anche in assenza di collaborazione, “purché il condannato dimostri l’integrale adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato o la assoluta impossibilità di tale adempimento, e fornisca elementi concreti, ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo, che consentono di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, e, comunque, con il contesto in cui il reato è stato commesso, nonché di escludere il pericolo di ripristino di tali collegamenti, tenendo conto delle circostanze personali ed ambientali”. La magistratura di sorveglianza, prima di decidere, dovrà chiedere un parere - non vincolante - al procuratore nazionale antimafia e a quello del distretto cui appartiene il tribunale che ha emesso la sentenza, acquisendo informazioni anche dalle carceri e dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza. La proposta prevede anche una delega al governo per accentrare tutte le decisioni presso il Tribunale di sorveglianza di Roma, con una sezione dedicata e un contestuale adeguamento della pianta organica, sezione che dovrà decidere collegialmente e con la partecipazione del procuratore nazionale antimafia e del procuratore presso il tribunale del capoluogo del distretto dove è stata emessa la sentenza, entrambi competenti per l’eventuale ricorso per Cassazione. “Il M5S ha la responsabilità di rispondere e dare una risposta concreta di contrasto alle mafie - ha sottolineato Ferraresi -. Guai a non valutare concretamente quello che le mafie sono diventate e il pericolo delle infiltrazioni mafiose, soprattutto in questo momento di emergenza sanitaria, perché le risorse del Recovery sono ovviamente a rischio”. La proposta mira, con il suo primo punto, a “obbligare” il condannato all’ergastolo ostativo a dimostrare di avere tagliato i collegamenti con associazioni criminali e che non ci sia il pericolo che, in futuro, possa tornare sui propri passi. “È una prova molto più difficile e non basteranno una dichiarazione o la valutazione della buona condotta o il percorso rieducativo”, ha affermato ancora l’ex sottosegretario alla Giustizia. E ciò varrà anche per il risarcimento dei danni alle vittime, che necessiterà di una prova “rinforzata” per quanto riguarda la disponibilità e la provenienza delle risorse. Il passo successivo è un irrigidimento del controllo in caso di concessione, ampliando la previsione della libertà vigilata a tutto il periodo della liberazione condizionale, una volta concessa. “Sarà più difficile concedere i benefici penitenziari ai condannati per gravi reati ma sarà anche più facile il controllo e l’eventuale revoca una volta concessi - ha aggiunto. La prova diventerà più dura, il controllo diventerà più duro e i paletti valutati dal magistrato più ferrei”. Per Pellegrini si tratta di “un disegno di legge equilibrato”, in grado sia di rispondere alle questioni sollevate dalla Consulta sia alle “legittime istanze dei detenuti”. Uno dei pilastri della proposta è proprio il ruolo delle Dda e del procuratore nazionale antimafia nell’iter istruttorio che porterà alla valutazione finale dei Tribunali di sorveglianza. Ciò affinché ci sia “un organismo altamente specializzato che conosce bene i territori e i collegamenti” tra detenuti e organizzazioni d’origine, in grado di “aiutare” il magistrato nella propria valutazione. Un parere che ha una “importanza decisiva”, ferma restando la libertà dei giudici “di disattenderlo”, pur con “l’obbligo di motivare adeguatamente”. “Oggi presentiamo questa proposta di legge affinché all’interno del Parlamento si possa aprire una discussione su questo importantissimo tema - ha concluso Saitta -. Il M5S è in prima linea nella lotta alla mafia e per noi questo diventa un tema prioritario per questo Parlamento e per la società. Siamo aperti ad un dibattito maturo ed anche a proposte migliorative, all’interno della Commissione giustizia e del Parlamento e ci aspettiamo una risposta seria anche da parte delle altre forze politiche”. E da qui, in tema di riforme, arriva il messaggio a Lega e Radicali: “I nodi si possono sciogliere non scendendo in piazza a chiedere i referendum, ma sedendosi attorno ad un tavolo e cercando soluzioni”. E il ruolo di mediatrice toccherà, necessariamente, alla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Ergastolo, il “trucco” dei Cinquestelle per beffare la Consulta di Angela Stella Il Riformista, 19 maggio 2021 Paletti rigidi per i benefici, parere obbligatorio dell’antimafia e tutte le decisioni affidate al tribunale di sorveglianza di Roma. Nessun accenno alla rieducazione. La pdl “contro le mafie” apre la strada a un nuovo fine pena mai. “Altra nuova legge contro le mafie” è il titolo della conferenza stampa di ieri durante la quale il Movimento 5 Stelle ha illustrato la proposta di legge sul “Nuovo ergastolo ostativo”. Sono intervenuti Eugenio Saitta, capogruppo MSS in commissione Giustizia della Camera, Vittorio Ferraresi, deputato, già sottosegretario alla Giustizia, Marco Pellegrini, senatore della commissione Antimafia. Le parole scelte sono importanti, segnano la strada che si vuole intraprendere se la Corte Costituzionale con il comunicato del 15 aprile scriveva che “l’ergastolo ostativo è incompatibile con la Costituzione”, il Movimento 5 Stelle con la sua proposta apre appunto ad un “nuovo ergastolo ostativo” perché fissa paletti stringenti per la concessione dei benefici: sia per quanto concerne la liberazione condizionale sia in merito ai permessi premio. Il leitmotiv lo ha spiegato Ferraresi: “Presentiamo la nostra proposta per il contrasto alle mafie nel giorno del compleanno di Falcone. Lo ricordiamo soprattutto per le sue idee che hanno dato vita, insieme a quelle di altri grandi uomini, ad un sistema di contrasto alle mafie quanto mai attuale nel nostro panorama, ma che è stato in questi anni indebolito. Quindi noi e il Parlamento abbiamo il dovere di intervenire, nel solco di quanto stabilito dalla Corte, nel dare una risposta celere, forte e concreta di contrasto alle mafie. Sono sicuro che ci sarà unità di intenti con le altre forze politiche. Non voglio pensare che si faccia alcun tipo di barricata su questo tema che è urgente affrontare”. Nessun riferimento alla speranza, alla rieducazione che verrebbe vanificata se l’ergastolo restasse un fine pena mai, come ha ribadito il Presidente della Consulta Giancarlo Coraggio nella conferenza stampa di qualche giorno fa: “Non avrebbe senso essere rieducati e rimanere in carcere fino alla morte”. Ma vediamo nel dettaglio le tre proposte. La prima prevede che i benefici potranno essere concessi qualora il detenuto “dimostri l’integrale adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato o la assoluta impossibilità di tale adempimento, e fornisca elementi concreti, ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo, che consentono di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, e, comunque, con il contesto in cui il reato è stato commesso, nonché di escludere il pericolo di ripristino di tali collegamenti, tenendo conto delle circostanze personali ed ambientali”. Per Ferraresi “non basteranno una dichiarazione o la valutazione della buona condotta o il percorso rieducativo”. E ciò varrà anche per il risarcimento dei danni alle vittime, che necessiterà di una prova “rinforzata” per quanto concerne la disponibilità e la provenienza delle risorse. In sintesi, per Ferraresi “sarà più difficile concedere i benefici penitenziari ai condannati per gravi reati ma sarà anche più facile il controllo e l’eventuale revoca una volta concessi. La prova diventerà più dura, il controllo diventerà più duro e i paletti valutati dal magistrato più stringenti”. La seconda proposta prevede che la magistratura di sorveglianza, prima di decidere, dovrà chiedere un parere non vincolante alle DDA e al Procuratore nazionale antimafia. In ultimo si prevede una delega al Governo per accentrare tutte le decisioni presso il Tribunale di Sorveglianza di Roma, “con una sezione dedicata e un contestuale adeguamento della pianta organica”, considerato che li già convergono tutte le istanze relative ai 41bis. La sezione dovrà decidere collegialmente e con la partecipazione del procuratore nazionale antimafia e del procuratore presso il tribunale del capoluogo del distretto dove è stata emessa la sentenza, entrambi competenti per l’eventuale ricorso per Cassazione. Per Pellegrini si tratta di “un disegno di legge equilibrato”, in grado sia di rispondere alle questioni sollevate dalla Consulta sia alle “legittime istanze dei detenuti” e sarebbe “felice se la Ministra Cartabia sottoscrivesse la nostra proposta, se così non fosse useremo argomenti più ficcanti per convincerla della sua bontà. Ma comunque si dovrà esprimere il parlamento”. Per il dottor Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, invece “è un ulteriore atto di sfiducia nei confronti della magistratura di sorveglianza che non viene ritenuta affidabile. È davvero incomprensibile che vengano esautorati tutti i magistrati che non appartengono al Tribunale di Sorveglianza di Roma. Si stravolge così un principio fondamentale dell’ordinamento penitenziario - art. 70, comma 6 - che esige che sia a decidere della sorte esecutiva del detenuto sempre e solo il magistrato di sorveglianza sotto la cui giurisdizione lo stesso è posto. Cosa può sapere il Tribunale di Sorveglianza di Roma del percorso trattamentale del detenuto che sta ad esempio ad Udine? È una totale alterazione della giurisdizione di prossimità che è il fondamento di quella rieducativa”. Come ha spiegato l’onorevole Saitta alla base ci sarebbe il fatto che sulla magistratura di sorveglianza potrebbero verificarsi “pericoli di condizionamento e pressioni da parte di detenuti condannati per reati gravissimi”. Replica Bortolato: “Questo vale allora anche per i giudici della cognizione; per lo stesso motivo si dovrebbero accentrare sull’ufficio Gip del Tribunale di Roma tutte le richieste di misure cautelari nei confronti dei mafiosi. Le stesse preoccupazioni dovrebbero valere altresì anche per il giudice di primo grado che emette la condanna”. La Consulta e le pulsioni neo-manicomiali di Katia Poneti Il Manifesto, 19 maggio 2021 Le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) sono strutture ad alta intensità terapeutica, ispirate al principio della recovery, all’idea di recuperare quanto più possibile le capacità della persona con patologia psichiatrica che ha commesso un reato, con l’obiettivo del suo reinserimento sociale. Si tratta di un’idea innovativa, che ha proseguito il percorso iniziato dalla Legge Basaglia con la chiusura dei manicomi civili. Le Rems sono parte di un sistema, formato anche dai servizi psichiatrici sul territorio e dalle strutture che ospitano pazienti in libertà vigilata, che, grazie alla riforma operata con le leggi 9/2012 e 81/2014, ha sostituito gli Ospedali psichiatrici giudiziari. L’esclusiva gestione sanitaria delle strutture e la territorialità, che permette di curare i pazienti nella Regione di provenienza, sono i principi che caratterizzano le Rems, e che saranno oggetto del giudizio della Corte Costituzionale il prossimo 26 maggio. Con un’ordinanza emessa dal Gip presso il Tribunale di Tivoli è stata infatti messa in dubbio la costituzionalità della norma che li prevede perché, si sostiene, lesivi della competenza del Ministero della Giustizia, per il tramite del Dap, ad inserire nelle strutture le persone sottoposte a misura penale. L’udienza si svolgerà in Camera di consiglio, e questo, oltre a essere conseguenza del fatto che nessuna parte si è costituita, può far ipotizzare che la Corte si esprimerà nel senso della non ammissibilità. Rimane, tuttavia, significativo il fatto che la questione sia stata sollevata, perché è espressione del sentire di una parte della società che rimpiange l’istituzione dell’Opg. Certo, il rimpianto non riguarda le condizioni di degrado in cui si trovavano gli Opg prima della loro chiusura, ma piuttosto la loro efficienza nell’aprire le porte a chi vi arrivava, meno a chi aspirava ad uscirne. Quello che infatti si lamenta del nuovo sistema delle Rems è l’impossibilità di inserire persone nelle strutture anche quando sono al completo, superando il numero chiuso, o al di fuori del territorio di provenienza del paziente. Il cuore del sistema delle Rems è la tutela del diritto alla salute dell’autore di reato con patologia psichiatrica, e i principi messi in discussione dell’ordinanza di Tivoli sono proprio finalizzati a dare sostanza a tale diritto. Solo con l’esclusiva gestione sanitaria una struttura può infatti avere come criteri organizzativi quelli finalizzati alla cura dei pazienti, senza essere sottoposta a pressioni dettate da altre esigenze. Già la riforma della sanità penitenziaria aveva stabilito il principio della gestione dei presidi sanitari in carcere esclusivamente da parte della sanità pubblica, con medici e infermieri alle dipendenze delle Asl al pari dei loro colleghi che lavorano all’esterno. Nella disciplina specifica per le Rems si è rimasti fedeli a questo criterio, con il passo ulteriore di eliminare la presenza della polizia e dell’amministrazione penitenziaria all’interno della struttura. La Corte Costituzionale quando si è espressa due anni fa (sentenza 99/2019) sul trattamento dei detenuti con patologia psichiatrica ha affermato la centralità della tutela della salute, fisica e psichica, in ambito penitenziario, consentendo l’accesso a misure alternative al carcere. Una stessa centralità potrà ora essere ribadita per il diritto alla salute nelle Rems. Più che mettere in discussione i risultati raggiunti, è necessario ridurre il numero di persone destinate alle Rems, utilizzandole solo per i casi più gravi, come extrema ratio, secondo la previsione della legge 81/2014. De iure condendo sarebbe importante ripensare l’intera disciplina dell’imputabilità, valorizzando la libertà e la responsabilità invece dell’incapacità, come scritto nella proposta di legge n. 2939 depositata alla Camera dei deputati. Giustizia da salvare, con i fatti di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 19 maggio 2021 I risultati del sondaggio di Pagnoncelli non hanno sorpreso nessuno, se non forse per l’ampiezza del crollo. “Ma possiamo fidarci di loro?”. Quando “loro” sono i magistrati e a chiederlo al suo avvocato non è un piccolo spacciatore o un ladro abituale, ma la vittima di un reato, che si è rivolta al giudice per avere giustizia e diffida di lui, qualche domanda bisogna pur cominciare a farsela. Il sondaggio di Nando Pagnoncelli, sul livello di fiducia nella magistratura, pubblicato sabato e fatto utilizzando “un campione casuale nazionale rappresentativo della popolazione italiana”, con risultati non certo gratificanti per la magistratura, non ha sorpreso nessuno, se non forse per l’ampiezza del crollo di credibilità rilevato, anche al di là dei reali demeriti di alcuni dei suoi componenti, non certo la maggioranza. La giustizia, si sa, funziona solo quando un sentire condiviso la individua come lo strumento necessario per perseguire i colpevoli, in tempi ragionevoli, con pene certe e, così, dissuadere a farlo chi volesse violare la legge. Evidentemente quel sentimento, se pure c’è mai stato, non alberga più nel cittadino comune, che con i tribunali, però, non ha mai avuto a che fare. Chissà quale sarebbe stato l’esito del sondaggio, se quelle stesse domande fossero state poste, invece, ad un campione mirato di operatori e utenti che con la giustizia e chi la gestisce hanno a che fare direttamente: è presumibile ancor meno favorevole per i magistrati, ma anche per motivi diversi da quelli che il sondaggio ha individuato, dalla discutibilità delle sentenze, alla politicizzazione e alla corruzione della magistratura, da un lato e alla sua costante denigrazione, dall’altro. Chi frequenta le aule ogni giorno e assiste imputati e parti civili, spesso coglie nei loro occhi dubbi e paure che non riesce a dissipare; e non solo per l’esito del processo, per sua natura spesso incerto, ma per il tempo che è inesorabilmente passato, per riti spesso incomprensibili ma, soprattutto, perché non si fidano più di loro. E “loro” sono i giudici, le cui decisioni a volte risultano difficili da spiegare, ma assai più spesso i pubblici ministeri, coloro che gettano le basi per il processo che verrà. Invece di discutere fino allo sfinimento di intercettazioni o prescrizione - tema questo che è già una resa, perché dà per scontati i tempi troppo lunghi della giustizia - bisognerebbe convincerli che la legge è davvero uguale per tutti, come leggono in qualunque aula entrino; e che il processo è giusto, come stabilisce l’articolo 111 della Costituzione, con l’uso di un aggettivo, “giusto” appunto, che suonerebbe pleonastico, se non ci fossero anche processi ingiusti. Bisognerebbe convincerli con i fatti che il pubblico ministero, pur essendo una parte, raccoglie elementi di prova a carico, ma anche a favore dell’indagato; e che, quale che sia il suo censo e la sua appartenenza politica, lo porterà al processo e lo farà sempre e solo se quegli elementi lo rendono necessario e non perché è convinto che sia colpevole, al di là degli indizi. Bisognerebbe convincerli, poi e sempre con i fatti, che il giudice che se occupa valuterà tutte le prove raccolte; che, chiunque sia l’imputato, pure se ricco o potente, lo condannerà, ma solo se risulta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio; e che lo farà, quale che sia l’impatto mediatico della decisione adottata; e assolverà tutti gli altri, così che l’eventuale riforma della sua sentenza appaia e sia davvero da ricondursi a errori fatti in buona fede e non sia, come spesso sembra, un modo per ovviare a decisioni impopolari o sgradite a chi conta. Non sarà facile convincerli se, oltre alle storture e ai ritardi, nel silenzio assordante di chi dovrebbe parlare, scoprono che alcuni di “loro” - non pochi - hanno a cuore la carriera assai più del decoro, rispondono alle correnti assai più di quanto non facciano alla legge, nutrono fra loro forti simpatie e assai più severe antipatie, circostanze tutte che possono compromettere seriamente la loro imparzialità e condizionare assai più del denaro - che pure ogni tanto accettano - le decisioni più importanti. E sentono anche che, quando si tratta di “loro”, non è sempre chiaro, come accade per i comuni mortali, se quel che hanno fatto sia o meno un reato, grazie ad un cavillo o ad un’interpretazione benevola della legge che appare così non sempre uguale per tutti. E se si vuole fermare un processo che appare ormai inarrestabile, con il crollo di miti ed eroi, bisogna far presto, perché la spirale che sta avvolgendo la giustizia non diventi irreversibile. “Nessun passo indietro sulla legge Bonafede” di Francesco Cocco Il Foglio, 19 maggio 2021 Sulla riforma della giustizia il M5S si mette contro il governo. Parlano Alessandra Maiorino (“Il referendum di Salvini? Idea bislacca”) e l’ex grillino Nicola Morra (“Dubito che i miei ex compagni di partito possano accettare compromessi di qualunque tipo”). In questi giorni si parla di riforma della Giustizia. La riforma è uno degli impegni che l’Italia si è presa con l’Unione europea per ottenere i circa 200 miliardi di euro di finanziamenti del Recovery fund. L’obiettivo è approvare prima dell’autunno tre leggi delega per la riforma del processo civile, penale e del Consiglio superiore della magistratura. Bisognerà quindi anche mettere mano alla legge che porta il nome dell’ex ministro grillino Alfonso Bonafede, probabilmente tornando a quella dell’ex Guardasigilli Andrea Orlando. Domenica, Giuseppe Conte ha incontrato Bonafede e i deputati della commissione per raccogliere le loro critiche e l’allarme sulle modifiche in arrivo. Per il M5S quello della riforma è un discorso che si può affrontare? “Ma certo, qualsiasi passo migliorativo di una riforma che abbiamo fortemente voluto si può fare”, risponde Alessandra Maiorino, componente della commissione Giustizia in quota M5s. “Se la Bonafede è migliorabile siamo disponibili a sederci a un tavolo e parlarne. Ma non ci devono essere passi indietro”. Salvini sbaglia a cercare la strada del referendum? “Per una riforma sulla giustizia? Mi sembra un’idea bislacca”, dice Maiorino. “Sono questioni talmente tecniche che chiedere alla popolazione è fuori luogo. Poi si può sempre fare ma non è la strada più opportuna. Per il M5s è uno strumento importante ma non può essere usato in modo strumentale, va usato con rispetto”. Per l’ex M5s Nicola Morra, oggi capogruppo del Misto, “la giustizia deve avere tempi più celeri, ragionevoli, ma dev’esserci un pronunciamento del tribunale. Se istruiamo un dibattimento e non lo portiamo a sentenza facciamo capire in maniera plastica l’incapacità dello stato di fare giustizia”. “Credo che sarà difficile trovare all’interno dell’attuale maggioranza di governo trovare quell’equilibrio che possa soddisfare tutte le parti e credo ci saranno fermenti. Dubito che i miei ex compagni di partito possano accettare compromessi di qualunque tipo”. Riforma della giustizia, i 5 Stelle vogliono incontrare Cartabia di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2021 Prescrizione, appelli delle sentenze e priorità dell’azione penale: ecco i tre punti “incompatibili”. Per capire che strada intende seguire Marta Cartabia sulla giustizia penale la data limite era fissata per la prossima settimana. Per allora alla commissione Giustizia della Camera dovevano arrivare gli emendamenti del governo sulla riforma del processo penale. Un termine ultimo che adesso pare sia destinato a slittare, anche se non c’è alcuna ufficialità. Evidentemente, quindi, i tempi per trovare un accordo in maggioranza si allungano. Campo minato di ogni esecutivo recente, stavolta quella della giustizia deve essere una strada condivisa il più possibile dalle eterogenee forze che sostengono Mario Draghi. Mentre la Lega continua a terremotare il governo praticamente ogni giorno, con Matteo Salvini che è arrivato a raccogliere firme coi radicali per riformare la giustizia a colpi di referendum, sul tavolo ci sono i miliardi di fondi in arrivo da Bruxelles. E infatti durante l’ultimo vertice di maggioranza la guardasigilli ha lanciato il suo avvertimento: “Sulla durata dei processi - ha detto - il governo si gioca tutto il Recovery”. Il vertice domenicale con Conte - È stata quella l’occasione in cui la ministra ha illustrato le proposte partorite dallla commissione ministeriale coordinata da Giorgio Lattanzi, che come Cartabia ha presieduto la Corte costituzionale. Di scritto, fino a questo momento, non c’è ancora nulla. Ma negli ultimi giorni da via Arenula sono filtrate varie indicazioni: la ministra ci ha tenuto a spiegare che si tratta delle proposte della commissione, non ancora delle sue. Un distinguo obbligato visto che alcune delle idee di Lattanzi non sono piaciute ai parlamentari del Movimento 5 stelle, molto sensibili ai temi della giustizia. Le leggi anticorruzione e sulla prescrizione - ma pure quelle legate al Recovery plan, confermate in gran parte anche dall’esecutivo Draghi - hanno contraddistinto i due governi di Giuseppe Conte: anzi si può dire che sono state le mine che - in un modo o nell’altro - ne hanno causato la caduta. Adesso, però, le riforme per velocizzare i processi - civile e penale, ma pure quella di riforma del Csm - sono fondamentali per ottenere i miliardi del Recovery. È per questo motivo i 5 stelle hanno deciso di andare “a vedere le carte” della ministra: già dalla scorsa settimana all’interno del gruppo parlamentare si è proposto di chiedere un incontro alla guardasigilli. Una proposta che ha acquisito i crismi dell’ufficialità dopo il vertice domenicale con Conte. In videoconferenza, l’ex premier ha vestito i panni di leader dei 5 stelle e si è fatto informare sullo “stato dell’arte” delle riforme. Dall’altra parte dello schermo c’erano i componenti della commissione Giustizia della Camera, compreso l’ex guardasigilli Alfonso Bonafede. Appello del pm e reati decisi dal parlamento: le proposte incompatibili - Il vertice con Conte ha rafforzato nei 5 stelle l’idea di chiedere un incontro a due con Cartabia: una richiesta ufficiale, in questo senso, partirà nelle prossime ore. Prima che il governo produca i suoi emendamenti, i 5 stelle vogliono illustrare all’inquilina di via Arenula le loro proposte sulle riforme. Ma intendono anche spiegare come la pensano su alcune delle ipotesi della commissione Lattanzi. A cominciare da quelle che vengono definite “incompatibili” con la loro visione. Una è considerata insuperabile: l’ipotesi che sia il Parlamento a indicare ogni anno le priorità sull’azione penale. Cioè che ci sono alcune reati “più urgenti” che i pm devono perseguire, ed altri che invece possono aspettare: significa che sarebbe la politica a dettare l’agenda ai magistrati. Una legge che farebbe la felicità di Forza Italia e che durante il governo gialloverde era stata la Lega a proporre, trovando anche in quel caso il muro dei 5 stelle. La seconda proposta che non piace ai grillini è poi la modifica delle possibilità di appellare le sentenze. La commissione Lattanzi ha proposto di sbarrare la strada del ricorso in secondo grado alla procura, concedendola agli avvocati solo seguendo alcuni paletti: potranno fare quella che si chiama “critica vincolata” seguendo motivi stringenti. Quali? Sarà la legge a stabilirlo. Il nodo prescrizione e l’ergastolo ostativo - Infine c’è ovviamente la prescrizione: dall’1 gennaio 2020 è in vigore la riforma Bonafede che la blocca dopo il primo grado di giudizio. Nell’estate del 2019 la Lega fece cadere il governo Conte 1 anche con l’obiettivo di bloccarne l’entrata in vigore. Poi, quando al governo coi 5 stelle è andato il Pd, si era trovato un accordo per modificare lo stop dopo il primo grado a seconda che l’imputato venisse assolto o condannato. Accordo stracciato da Matteo Renzi, quando ha staccato la spina pure al Conte 2. Adesso la commissione Lattanzi propone di tornare indietro, alla riforma Orlando: stop alla prescrizione per due anni alla fine del primo grado. Se l’appello dura più di 24 mesi, non solo riparte ma si recupera il tempo perso. Un meccanismo che chiaramente non piace ai 5 stelle. Anche perché l’esordio della guardasigilli era stato di senso completamente opposto. Durante il primo incontro con la maggioranza la ministra aveva spiegato di non avere nessuna fretta di toccare la legge Bonafede e che la priorità era velocizzare i processi. Solo 8 giorni fa ha detto che “con la prescrizione la domanda di giustizia da parte delle vittime rimane frustrata” e “lo Stato manca al suo compito di assicurare l’amministrazione della giustizia”. Insomma parole che sembrano completamente opposte al senso delle proposte della commissione ministeriale. Senza considerare che sul tavolo ci sono anche tutta una serie di norme considerate decisamente più indifferibili. A cominciare da quella sull’ergastolo ostativo, bocciata dalla Consulta che ha dato un anno di tempo al Parlamento per riscrivere l’articolo 4-bis. Una proposta di modifica è stata presentata proprio dai 5 stelle in conferenza stampa e viene definita “molto più urgente” rispetto alle modifiche della riforma Bonafede sulla prescrizione: quest’ultima produrrà i suoi effetti solo dal 2025. Entro il maggio del 2022, invece, bisognerà trovare una soluzione sull’ergastolo ostativo: il rischio è che tornino liberi i boss delle stragi. Verini (Pd): “Mettere da parte totem e tabù. La Riforma deve andare in porto” di Liana Milella La Repubblica, 19 maggio 2021 Una magistratura di nuovo credibile? “Stop a correntismo e carrierismi”. A 360 gradi il tesoriere del Pd Walter Verini, da sempre esperto di giustizia, risponde a Repubblica. Ce la farà la riforma della giustizia ad andare in porto? Glielo chiedo perché ci sono troppe liti in giro.... “Ce la deve fare. Non è un optional, ma un obbligo per un Paese più moderno e civile e per non perdere i finanziamenti europei del Recovery”. Però gli M5S sono davvero nervosi, e non sono d’accordo né sulla prescrizione che sta per proporre Cartabia, né tantomeno sull’inappellabilità delle sentenze... “Capisco le loro posizioni, ma il terreno di confronto offerto dalla Guardasigilli è serio, il Pd lo condivide pienamente, e dovrà portare tutti a mettere da parte totem e tabù”. Conte, che pure appoggia le proposte di Letta, sulla giustizia i suoi non li tiene, come dimostra l’incontro di ieri... “Credo davvero e spero che ci sia la possibilità di trovare sintesi tenendo insieme principi e apertura, senza agitare simboli identitari”. Ma non sono possibili compromessi su prescrizione e appello? “La cosa più rilevante delle proposte riguarda la durata dei processi. La riforma potrebbe rappresentare una rivoluzione copernicana. Che obiettivamente nel penale ridimensionerebbe l’incandescenza del tema prescrizione. Che comunque va rivista. Noi del Pd, assieme ad altre proposte serie, abbiamo indicato una strada coerente con i termini di fase previsti dalla riforma, ma rispettosa del diritto delle vittime dei reati a conoscere un esito dei processi, e degli imputati a non essere sottoposti a un fine processo mai”. Certo, questa è la vostra soluzione, tant’è che M5S lamenta una vittoria della legge Orlando rispetto alla Bonafede. “Qui non c’è una contesa tra proposte di ex Guardasigilli. La riforma Orlando aveva il merito di togliere la giustizia come terreno di scontro politico ultra ventennale. Le proposte del Pd di oggi, come ha detto Letta, offrono l’occasione a tutti di uscire da quella guerra interminabile tra giustizialismo e impunitismo. Oggi è il tempo di fare riforme di sistema, anche per contrastare meglio mafie e corruzione”. E che mi dice delle priorità dell’azione penale decisa dalle Camere? Ci sarà questa misura? “Vedremo. Il Parlamento potrà offrire indirizzi generali, poi lo stesso Csm dovrà dire la sua. Gli stessi Comitati per l’ordine e la sicurezza pubblica potranno a loro volta offrire contributi. Ma l’esercizio dell’azione penale spetterà sempre alla magistratura, la cui indipendenza è un bene costituzionale tra i più preziosi, che ogni tanto qualcuno vorrebbe intaccare”. I referendum di Salvini sono compatibili con questa maggioranza? “Salvini sta minando quotidianamente l’azione di un governo che è nato anche per fare queste riforme. Non è in discussione l’iniziativa dei Radicali, ma la strumentalità con la quale Salvini la cavalca. E chiedo: come fa il Salvini del “marciscano in galera”, del “buttiamo via la chiave”, a essere credibile su referendum garantisti che riguardano anche l’umanizzazione delle carceri?”. Le future riforme basteranno per ridare ai magistrati e soprattutto al Csm la credibilità inesorabilmente intaccata come dimostrano tutti i sondaggi? “È necessario che la magistratura ritrovi questa credibilità con una profonda autorigenerazione che stronchi correntismo e carrierismi. La politica ha il compito di accompagnare con la riforma questo processo tutelando l’autonomia dei magistrati. Il Pd, con le sue proposte tra cui l’Alta Corte, sta offrendo un contributo di spessore”. No ai prof al Csm, meglio il modello Consulta di Armando Mannino Il Riformista, 19 maggio 2021 Il recente intervento di Guido Neppi Modona sui problemi della giustizia stimola, per la sua indiscussa autorevolezza (è stato magistrato, professore d’università, componente della Corte costituzionale), alcune riflessioni sul merito delle sue proposte, che nascono dalla consapevolezza ormai diffusa di una realtà stigmatizzata con espressioni particolarmente dure. Queste sono rivolte non solo a quei magistrati che, accentrando e monopolizzando all’interno delle correnti le decisioni del Consiglio superiore della magistratura (Csm), hanno fatto “scempio… dei principi di legalità su cui avrebbero dovuto basarsi”; ma anche di quelli che per perseguire le loro legittime aspettative di carriera hanno cercato di “ottenere una posizione di favore illegittima”, facendo “mercimonio della propria indipendenza, considerato che qualcuno, in perfetto stile mafioso, sarebbe poi venuto a chiedergli di saldare il conto”. La gestione illegale del Csm non si esaurisce quindi al suo interno, ma si riverbera, anche se questo aspetto troppo spesso viene trascurato o non approfondito in modo sufficiente, su tutto l’apparato giudiziario, compromettendo i principi fondamentali di indipendenza e di autonomia dei magistrati, la loro subordinazione alla legge e di riflesso i diritti dei cittadini. L’incresciosa degenerazione dei comportamenti di una parte della magistratura, purtroppo non marginale, “causata dallo strapotere delle correnti e dall’esasperata autotutela corporativa dei magistrati, soprattutto del pubblico ministero”, lo conduce a una ferma dissociazione, espressione di una onestà intellettuale fondata su una logica coerenza, nutrita dai principi costituzionali e dalla conoscenza della realtà, che sfocia nella contestuale ricerca di soluzioni concrete nel tentativo di impedire il loro ripetersi. È piena, quindi, la consapevolezza non solo della gravità dei fatti emersi, specialmente in questi due ultimi anni, ma anche della conseguente profonda delegittimazione dell’apparato giudiziario nei confronti dei cittadini e della corrispondente ineludibilità di rilevanti ed effettivi interventi di riforma, oggi ancora più urgenti alla luce della concreta possibilità di attivazione di una procedura referendaria. Al di là dei suoi contenuti e degli eventuali risultati, questa finirebbe per un periodo certamente non breve con il mettere sul banco degli imputati la magistratura nel suo complesso, contribuendo da un lato a delegittimarla ulteriormente agli occhi della pubblica opinione, con effetti forse peggiori di quelli prodotti da una commissione parlamentare d’inchiesta, e dall’altro a precostituire le condizioni politiche per interventi limitativi della sua indipendenza. Neppi Modona propone quindi di intervenire su un duplice piano: a medio termine con la procedura di revisione dell’art. 104 della Costituzione per modificare la composizione del Csm; nell’immediato, in vista del rinnovo di questo organo nel settembre dell’anno venturo, con una modifica della legge elettorale che sopprima il prepotere delle correnti sul Csm e di riflesso sulla carriera dei magistrati. Prescindendo per il momento dalla revisione della legge elettorale, la componente cosiddetta “togata” del Csm, attualmente composta per due terzi da magistrati ordinari eletti tra gli appartenenti alle diverse categorie, dovrebbe essere ridotta preferibilmente “a un terzo” o comunque a non più della metà; quella “politica”, eletta dal Parlamento in seduta comune - quindi espressione dei partiti politici - tra professori ordinari di materie giuridiche e avvocati con più di quindici anni di esercizio professionale, oggi pari al terzo rimanente, verrebbe soppressa. La proposta di modifica è quindi radicale, ma al contempo razionale e coerente, perché prende atto delle disfunzioni esistenti, ne individua una causa nelle modalità di composizione del Csm e colpisce entrambe le componenti. La prima, considerata responsabile delle pesanti deviazioni dal principio di legalità e quindi ritenuta di fatto inidonea ad “autogovernarsi”, verrebbe ridotta preferibilmente al ruolo di una minoranza, per quanto consistente; la seconda sarebbe addirittura soppressa, nella consapevolezza che l’attitudine dei partiti a condizionare le decisioni del Csm, subordinandole ai propri interessi, costituisca un fattore di inquinamento della loro limpidità e legalità. Il plenum dell’organo sarebbe poi reintegrato con l’elezione dei consiglieri rimanenti affidata in parte ai presidi dei Dipartimenti universitari della Facoltà di Giurisprudenza e in parte ai Consigli forensi. Alla Conferenza dei rettori spetterebbe infine eleggere un numero imprecisato di esponenti della cultura anche con preparazione non giuridica. Questa proposta, condivisibile nei presupposti che la ispirano, nel merito lascia tuttavia perplessi. La natura giuridica delle decisioni attribuite al Csm e la loro rilevanza politico-istituzionale sconsigliano innanzi tutto di integrarlo con personalità prive di una solida formazione e competenza giuridica; i presidi dei Dipartimenti giuridici, cui sarebbe attribuita la scelta della componente “accademica”, non hanno sotto questo profilo alcuna capacità rappresentativa dei collegi che li hanno eletti e quindi deciderebbero a titolo personale su questioni di particolare rilevanza istituzionale; la presenza di una componente forense, essenziale all’interno dei Consigli giudiziari per la valutazione della professionalità dei magistrati, potrebbe rafforzare la natura corporativa del Csm, sostituendo l’attuale monopolio di fatto dei magistrati con un duopolio magistrati-avvocati, che potrebbe essere fonte di ulteriori disfunzioni. Decisiva e assorbente appare infine la considerazione che il corretto funzionamento dell’apparato giudiziario, nelle sue decisioni di vertice affidato al Csm, è materia di rilevanza anche politico-istituzionale e di preminente interesse pubblico, che non può non essere attribuita a soggetti in modo diretto o indiretto rappresentativi della sovranità popolare. Ferma quindi la presenza nel Csm di una rappresentanza non maggioritaria di magistrati, la selezione dei consiglieri rimanenti non può non essere affidata agli organi costituzionali e in particolare, escluso il governo in quanto derivazione dei soli partiti di maggioranza, al Parlamento in seduta comune, nel quale sono rappresentate tutte le forze politiche espresse dalla consultazione elettorale, e al presidente della Repubblica nella sua funzione di rappresentante dell’unità nazionale e di garante della Costituzione. Il meccanismo di composizione del Csm deve però essere tale da impedire, requisito imprescindibile, che la derivazione politica dei consiglieri li spinga a soddisfare gli interessi contingenti dei soggetti da cui sono designati a detrimento di quelli generali della collettività. Il modello cui ispirarsi dovrebbe allora essere quello della composizione della Corte costituzionale, della cui competenza e imparzialità, consolidate nei decenni, nessuno può dubitare. I componenti del nuovo Csm dovrebbero quindi essere eletti dal Presidente della Repubblica, dal Parlamento in seduta comune e dai magistrati, ciascuno per un terzo, in modo che nessuna componente possa prevalere sulle altre e imporre le proprie decisioni. Il numero dei suoi componenti dovrebbe essere inferiore e non maggiore di quello attuale. Un numero ridotto, preferibilmente quindici, favorisce infatti la selezione dei migliori, specialmente nell’ambito parlamentare, nel quale la previsione per l’elezione di una maggioranza qualificata impedirebbe il successo di candidati ritenuti privi dei requisiti necessari o comunque troppo legati a un partito politico e quindi tendenzialmente parziali. La durata in carica dei consiglieri dovrebbe inoltre essere sufficientemente lunga, comunque maggiore dell’attuale, per dare ad essi stabilità e autorevolezza e svincolarli da eventuali condizionamenti politici: potrebbe essere di sette anni, anche per differenziarla da quella dei componenti la Corte costituzionale, che restano in carica nove anni. Del nuovo Csm non farebbe parte il Presidente della Repubblica. Non è questa una diminuzione della sua funzione costituzionale, perché è compensata dal potere di nominare un terzo dei consiglieri. Questo potere dovrebbe però essere esercitato al fine di riequilibrare la composizione dell’organo, dando cioè espressione a orientamenti culturali importanti nella società ma non rappresentati. D’altronde, se invece gli dovesse essere confermata la presidenza del Csm, questa, unita al potere di nomina del terzo dei consiglieri, lo trasformerebbe nel soggetto dominante al suo interno, rendendolo di fatto responsabile, anche politicamente, delle decisioni di vertice dell’apparato giudiziario, in contrasto con la natura di garante della costituzione che caratterizza la sua funzione. L’ultimo problema da affrontare è quello dei poteri del nuovo Csm. La soluzione più semplice è quella di mantenere quelli attuali individuati dalla Carta costituzionale: assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari (competenza quest’ultima che diventerebbe esclusiva e quindi non soggetta a ricorsi amministrativi) nei confronti dei magistrati. Potrebbe però essere opportuno ampliarli ulteriormente, estendendoli alla responsabilità civile e penale di secondo grado dei magistrati. Se infatti la responsabilità disciplinare oggi non funziona per il corporativismo dei magistrati, non è possibile escludere che ne siano almeno potenzialmente affette anche le decisioni sulla responsabilità civile e penale. Rivolta dei magistrati del Sud contro Cartabia e Carfagna: “Ci trattano come sudditi” di Dario del Porto La Repubblica, 19 maggio 2021 Appello per boicottare la Commissione di studio istituita con un decreto dalle due ministre. Il primo a protestare è stato Alessandro Riello, giovane pm antimafia a Catanzaro: “Noi magistrati del Mezzogiorno, trattati come sudditi e non come cittadini”, ha scritto sulle mailing list per criticare la commissione di studio istituita con un decreto da due ministre, la Guardasigilli Marta Cartabia e la titolare della delega per il Sud, Mara Carfagna, con l’obiettivo di analizzare l’organizzazione della giustizia nel Meridione ed elaborare proposte per garantirne l’efficacia. “Si tratta, innanzitutto, di una sovrastruttura di cui non si avvertiva l’esigenza. Quello che è però più grave è che, nel decreto, si parla espressamente di una “esportazione” al Sud di buone prassi sviluppatesi in uffici giudiziari di altri territori”, scrive il pm Riello. E attacca: “Noi magistrati in servizio negli uffici del Sud dell’Italia riteniamo l’istituzione di questa commissione e le finalità perseguite profondamente offensive della dignità, della professionalità, della dedizione al lavoro che quotidianamente svolgiamo negli uffici giudiziari”. Il post ha subito scatenato il dibattito tra i magistrati raccogliendo consensi da Roma a Bari a Napoli. La commissione è presieduta dal capo dell’Ispettorato di via Arenula, Maria Rosaria Covelli, ed è composta da avvocati, magistrati e docenti universitari di alto profilo, peraltro quasi tutti provenienti da Atenei o uffici giudiziari meridionali. Fra gli altri, sono stati chiamati a farne parte il presidente della Corte di Appello di Reggio Calabria, Luciano Gerardis, quello del tribunale di Aversa Napoli-Nord Pierluigi Picardi e la presidente del tribunale di Marsala Alessandra Camassa. Ma nel mirino dei contestatori non ci sono i nomi, bensì quel passaggio sulle “best practices” da applicare al Sud dopo essere state sperimentate in altri uffici. “È paradossale - dice Riello (figlio del procuratore generale di Napoli) - perché proprio un’amministrazione che deve essere imparziale per definizione si vede destinataria di provvedimenti che rischiano di alimentare una contrapposizione fra Nord e Sud. Molti di noi lavorano in condizioni difficili e in territori complessi. Basti pensare ai tanti giovanissimi giudici che si occupano di processi di mafia. Non chiediamo medaglie né riconoscimenti, ma non possiamo accettare di essere etichettati come i responsabili delle disfunzioni”. Nel suo appello, il pm di Catanzaro chiede ai magistrati designati nella commissione di “non dare il proprio contributo a una logica di contrapposizione e sottovalutazione culturale dei magistrati del Mezzogiorno rispetto a quelli del resto d’Italia” e invita il Ministero della Giustizia di “valutare l’opportunità di revocare il decreto”. È d’accordo con Riello Giuseppe Visone, pm del pool anticamorra di Napoli, che parla di “iniziativa alquanto sorprendente, sia dal punto di vista dell’opportunità, sia del metodo. Si manda un messaggio assolutamente sbagliato, quello di una giustizia a doppia velocità tra Nord e Sud, quando chi si occupa di giustizia sa benissimo che la situazione è a macchia di leopardo. Ci sono tanti esempi virtuosi nei tribunali del Mezzogiorno, dove si lavora in condizioni spesso al limite, senza risorse, mezzi, con gravissime carenze negli organici di cancellieri e magistrati. Anche dal punto di vista politico - argomenta il pm Visone - trasmettere l’idea di una questione meridionale della giustizia può avere effetti fortemente divisivi in un momento nel quale, al contrario, c’è bisogno di remare tutti dalla stessa parte per soluzioni condivise” Il caso del trojan a Palamara può far saltare altri processi di Giulia Merlo Il Domani, 19 maggio 2021 La società che ha effettuato le captazioni le ha veicolate da server non protetti. Ora la Rcs è indagata e rischiano di essere inutilizzabili tutte le intercettazioni che ha effettuato. I trojan del caso Palamara potrebbero essere la leva che fa saltare non solo i procedimenti disciplinari davanti al Consiglio superiore della magistratura del deputato di Italia viva Cosimo Ferri e dei cinque ex consiglieri che erano alla cena dell’hotel Champagne, ma anche un numero imprecisato di procedimenti penali. Tutto è legato all’inchiesta aperta nei confronti della società di intercettazioni Rcs, che ha eseguito materialmente l’installazione del virus spia nel cellulare dell’ex magistrato Luca Palamara e la successiva captazione. Il rappresentante della società Duilio Bianchi e altri tre dipendenti sono indagati dalla procura di Napoli per accesso abusivo a un sistema informatico o telematico e frode nelle pubbliche forniture. E dalla procura di Firenze per falsa testimonianza e falso ideologico per induzione in errore dei magistrati di Perugia. L’indagine è emersa proprio in relazione al caso dell’ex numero uno dell’Anm e potrebbe dimostrare l’esistenza di un enorme buco nella segretezza e nella conservazione di dati sensibili come quelli raccolti con intercettazioni a fini penali. Il primo sospetto nasce nel corso del procedimento disciplinare al Csm nei confronti di Palamara iniziato nel luglio 2020. Le intercettazioni e le chat sono già state pubblicate da tutti i giornali in violazione del segreto istruttorio, hanno provocato un terremoto al Csm con le dimissioni di alcuni consiglieri e sono il fondamento del procedimento a suo carico, nonché del processo penale che sta per venire istruito davanti al tribunale di Perugia. La difesa dell’ex magistrato al Csm solleva dubbi sulla presenza di server intermedi di Rcs che raccolgono i dati del cellulare di Palamara e li inviano al server della procura della Repubblica di Roma, che sarebbe invece l’unico autorizzato a ricevere le captazioni e a smistarle alla Guardia di finanza. Nel procedimento disciplinare però, la sezione del Csm accoglie come testimone solo Bianchi. L’avvocato generale che sostiene l’accusa, Piero Gaeta, gli chiede delucidazioni: Bianchi dice che non ci sono server intermedi e così si chiude la questione dell’inutilizzabilità delle intercettazioni, che sono poi l’unica prova a sostegno dei capi di incolpazione a carico di Palamara, come sostenuto nella requisitoria finale, “altrimenti il procedimento dovrebbe concludersi con un non luogo a procedere”. Così Palamara viene radiato. Il codice di procedura penale è chiaro nello stabilire che gli impianti su cui vengono veicolate e conservate le intercettazioni debbano essere di proprietà e nella disponibilità della procura della Repubblica. Questo per garantire la segretezza dei contenuti e la non modificabilità dei dati. Così il dubbio che le intercettazioni di Palamara abbiano avuto un diverso iter rimane e viene rilanciato dalla difesa di Cosimo Ferri, anche lui sottoposto a procedimento disciplinare davanti al Csm. L’avvocato Luigi Panella nomina due consulenti tecnici per verificare i dati captati che registrano indirettamente anche Ferri. La prova, però, non è facilmente riscontrabile perché la copia forense delle intercettazioni di Palamara contiene il nome del trojan, “Carrier”, ma non riporta anche i dati di connessione, che permettono di trovare l’indirizzo ip del server. Inoltre risalirvi dal cellulare fisico di Palamara è impossibile perché lui ha continuato a usarlo e gli aggiornamenti del software hanno cancellato i dati. Per un caso fortuito, però, il consulente tecnico Fabio Milana ha seguito un altro procedimento in cui l’imputato era stato intercettato con trojan con lo stesso nome, inoculato sempre da Rcs e nello stesso periodo di Palamara e il cellulare infettato non è stato più utilizzato. Così riesce a risalire all’indirizzo ip e la difesa di Ferri, nell’ambito di indagini difensive, chiede alla ditta telefonica titolare del contratto a quale indirizzo corrisponda quel server. Il server a Napoli - L’indirizzo che emerge è: centro direzionale di Napoli, isola E5, intestatario Rcs. Tradotto: l’indirizzo a cui sono state inviate le intercettazioni di Palamara non è a Roma ma a Napoli e il server, pur trovandosi fisicamente nella struttura della procura, non è di proprietà della procura ma della società privata. Un trasferimento che non era stato segnalato dalla Rcs, tanto che i magistrati partenopei non erano a conoscenza dello spostamento. “Non risultano effettuate comunicazioni da parte di Rcs alla procura di Napoli, né in merito alla ricollocazione degli impianti né in ordine alla effettiva architettura dei sistemi, né alle concrete modalità di funzionamento”, si legge nel decreto di ispezione disposto dalla procura di Napoli. La procura di Firenze iscrive Bianchi nel registro delle notizie di reato e lo convoca: lui ammette che i dati del cellulare di Palamara sono finiti a Napoli invece che a Roma. Oltre alla loro collocazione i server napoletani hanno un altro problema: non si limitano a veicolare i dati ai server delle procure, ma - secondo l’indagine - li riceverebbero, cancellerebbero gli originali e solo dopo li trasmetterebbero alle singole procure che hanno noleggiato i trojan della Rcs. Inoltre tutti i dati non criptati possono essere accessibili agli amministratori del sistema Rcs e dunque ipoteticamente potrebbero essere stati modificati o anche cancellati nel passaggio alle procure. “L’esistenza di server a Napoli non autorizzati dall’autorità giudiziaria, e pertanto in questo senso “occulti”, rende radicalmente e patologicamente inutilizzabili tutte le intercettazioni”, dice l’avvocato Panella. E questo, se fosse riconosciuto in sede giudiziaria, aprirebbe a conseguenze eclatanti. Ovvero la possibile inutilizzabilità di tutte le intercettazioni effettuate da parte di Rcs per conto di moltissime procure italiane che siano state veicolate dal server di Napoli. Enrico Costa: “Ecco il mio emendamento che penalizza le toghe ‘distratte’ sui diritti” di Errico Novi Il Dubbio, 19 maggio 2021 “Pagelle negative ai pm distratti sulle garanzie: la vera riforma del Csm”. “È un’occasione non da poco per separare le funzioni, e di fatto le carriere dei magistrati, a Costituzione invariata”. Scusi onorevole Costa, com’è possibile? Si vietano del tutto i passaggi di funzione? “Non solo, si può fare subito qualcosa di semplice ed efficace. Di qui a poche ore convertiamo il decreto Covid (oggi alla Camera, ndr) in cui compare la norma che riduce da tre a due le prove scritte per il prossimo concorso in magistratura. Motivi straordinari: vanno limitati i rischi di contagio. Giusto: ma il punto è che, per tutti gli aspiranti giudici, saranno sorteggiate solo due fra le tre materie tradizionali, cioè penale, civile e amministrativo. Potrebbe verificarsi che un candidato intenzionato a intraprendere la carriera da requirente non debba dunque sostenere la prova scritta in diritto penale. Paradossale. Io propongo di correggere la norma del decreto in modo che chi intende diventare pm debba per forza sostenere lo scritto sul diritto penale. Sarebbe una breccia nel muro in prospettiva futura, nel senso che anche per gli anni a venire i candidati al concorso in magistratura dovrebbero chiarire subito quale carriera intendono seguire. A quel punto basterebbe vietare i passaggi da una funzione all’altra”. Enrico Costa, già viceministro a via Arenula con Andrea Orlando, poi responsabile Giustizia prima di Forza Italia e ora di Azione, è il terrore dei guardasigilli in carica. Perché è un avvocato penalista che oltre a conoscere benissimo le pieghe della procedura è esperto pure di quelle che si nascondono nei regolamenti parlamentari. Quindi, che si trovi in maggioranza o all’opposizione, riesce spesso a far passare proposte considerate inizialmente blasfeme. Ci risiamo, onorevole: cosa ha preparato per la riforma del Csm? Intanto nell’esame del Dl Covid confido di ottenere, sulla norma per i concorsi, sostegno da altre forze di maggioranza. Credo che la separazione delle carriere si possa realizzare, più che per via referendaria, con norme ordinarie, senza toccare la Costituzione. L’idea di introdurre corsie preselettive già al concorso in magistratura è un primo passo. Gli altri? Si può prevedere che sanzioni disciplinari e soprattutto incarichi direttivi vengano decisi sì dall’unico attuale Csm, ma con percorsi separati per giudicanti e requirenti. Così si assicura autonomia ai due diversi ambiti funzionali senza dover duplicare l’organo di autogoverno, cosa possibile appunto solo con una modifica costituzionale. Ma non c’è il rischio che i garantisti, nel tentativo di stravincere la partita, scatenino in realtà una rissa a centrocampo con chi è in disaccordo, i 5 stelle innanzitutto? Io ho condotto battaglie a difesa dei princìpi quando ero all’opposizione. Se si tratta di affermare lo Stato di diritto, perché dovrei rinnegare quelle battaglie ora che faccio parte della maggioranza? Capisco il timore che si possano creare tensioni soprattutto col Movimento 5 Stelle, ma non è possibile essere tenuti in ostaggio da una componente che è pur sempre minoritaria nella compagine di governo. A parte la prescrizione, i 5 stelle contestano lo stop ai ricorsi dei pm sugli assolti. A me in realtà l’ipotesi prospettata dalla commissione Lattanzi, ma non ancora tradotta in un vero e proprio emendamento della ministra Cartabia, pare problematica per l’altra norma con cui si ritiene di dover bilanciare il divieto di impugnare le assoluzioni, vale a dire l’appello a critica vincolata ipotizzato per la difesa. Si dovrà leggere con attenzione il testo della guardasigilli. Io credo si debba partire da un dato: oggi il 48 per cento delle condanne inflitte in primo grado viene riformato in tutto o in parte in appello. È mai possibile rinunciare a un sindacato di merito che si rivela così spesso necessario? A me pare di no. Torniamo alla riforma del Csm: lei depositerà entro la scadenza di lunedì un emendamento che prevede le “pagelle dei magistrati”. Cosa vuol dire? Non esiste una banca dati sulla qualità delle decisioni: oggi il ministero della Giustizia conteggia e registra solo la loro quantità, non la loro coerenza, la correttezza delle scelte compiute dal magistrato. Ecco, a me sembra già un errore di metodo questo sbilanciamento sui numeri che non tiene conto di quante volte la statistica sui fascicoli smaltiti o le indagini concluse nasconda una scarsa attenzione alle regole. Si rischia una giustizia burocratica, fatta di performance statistiche dei magistrati anziché di valutazioni scrupolose sui diritti? Direi proprio di sì. Attenti, vogliamo processi più veloci, tribunali meno sovraccarichi? La strada c’è: abbiamo centomila assolti in primo grado ogni anno, vuol dire che la metà dei processi non doveva neppure essere celebrata, e invece i pm s’impuntano e fanno appello. Evitiamo di mandare a dibattimento fascicoli nati morti. È importante il segnale offerto dalla commissione Lattanzi, che nella riunione con noi deputati, la settimana scorsa, ha ipotizzato di modificare la regola del giudizio: va a processo solo l’accusa che, carte alla mano, ha elevate probabilità di produrre una condanna. Non è che si va a processo per vedere come sono quelle carte: le si vede prima, nell’udienza preliminare, che non dev’essere più la stazione in cui il treno della giustizia passa senza fermarsi mai. E anche in base alle richieste e alle decisioni prodotte in quella fase dai pm e dai gup, si stabilisce una valutazione sulla qualità del loro lavoro. Valutazione di cui il Csm dovrà poi tenere conto al momento di esprimersi sulla professionalità raggiunta dal magistrato, che determina gli scatti di carriera. Vuole un altro esempio sulla logica di questo screening? Prego... La legge italiana stabilisce che non dev’essere arrestato chi, seppur condannato, otterrebbe la sospensione condizionale della pena. Non si deve far “assaggiare” la galera a chi a fine processo non ci finirebbe... Vuol sapere quanti sono i casi di giudici che accolgono la richiesta del pm sulla custodia in carcere e poi dopo dieci giorni danno via libera a un patteggiamento con pena sospesa? Una marea. Ecco, chi compie scelte simili andrebbe valutato non positivamente. Il ministero della Giustizia non ha ancora depositato il rapporto sull’ingiusta detenzione, in cui dati del genere compaiono. Io dico: facciamo in modo che la linearità delle decisioni assunte da pm e giudici in casi come questo abbia un peso ai fini della loro carriera. Si tratta di vincolare il Csm a valutazioni di professionalità che non siano tutte tarate su un’irrealistica eccellenza: come si fa? La riforma del Csm deve mirare sicuramente a impedire il paradosso per cui il 99 per cento dei magistrati ottiene il massimo nelle valutazioni di professionalità. Serve una gradazione nei giudizi, e la banca dati qualitativa di cui parlavo è strumento indispensabile per arrivarci. Altro presupposto necessario è la partecipazione piena degli avvocati nei Consigli giudiziari, quando si decide sulla carriera di giudici e pm. Nella riforma Bonafede è scritto, il Csm si è opposto... Ma dall’avvocatura, dal Cnf come dall’Unione Camere penali, sono arrivati documenti che rafforzano la necessità di quelle norme. Dobbiamo intervenire per cambiare gli automatismi che impediscono un effettivo sindacato sull’attività di pm e giudici. Nel ddl penale invece chiede di rafforzare il divieto di intercettazione nei riguardi dell’avvocato: come? Non solo ho reso più stringente il divieto, che ora determina l’inutilizzabilità e l’impossibilita di trascrivere i colloqui eventualmente captati fra difensore e assistito: propongo di introdurre anche una sanzione penale per chi viola il divieto, vale a dire per l’ufficiale di polizia giudiziaria che intercetta la telefonata dell’avvocato e anziché bloccare, se possibile, la registrazione, la trascrive, o comunque ne informa il pm. Se una regola c’è va rispettata, e dovrebbe essere così anche per chi sulle regole sarebbe tenuto a vigilare. La giustizia italiana strappa i bimbi rom alle famiglie di Stefania Albanese e Cecilia Ferrara Il Domani, 19 maggio 2021 Secondo un antico stereotipo razzista, gli “zingari” rubano i figli alle madri italiane. In realtà succede il contrario: spesso i tribunali tolgono i bambini a genitori giudicati “inadeguati”. Con la crisi economica e con l’aumento delle nuove povertà il fenomeno degli allontanamenti che finiscono per diventare adozioni non potrà far altro che crescere. “Pensavo di morire. Sono stata quattro mesi con la paura che mi togliessero i bambini. Già ne avevo dati due allo stato. Gli altri no!”. Mariana (nome di fantasia) di figli ne ha 6. È una donna rom che vive in uno dei tanti campi che Roma ancora ha, nonostante le condanne internazionali all’Italia e la promessa di superamento della sindaca Virginia Raggi. La famiglia di Mariana è bosniaca, ma lei la Bosnia Erzegovina non l’ha mai vista in vita sua, ha sempre vissuto in Italia, nei campi. Senza mai una casa vera, e senza documenti: mai avuti, come tanti e tante rom nella capitale. Bimbi strappati - Ed è proprio dall’incontro con la burocrazia che cominciano i guai di Mariana. Quando la donna fa richiesta di permesso di soggiorno per motivi familiari - a causa della malattia del figlio più piccolo, l’iter si avvia. Un’assistente sociale la va a trovare, redige una relazione su di lei, il marito e i figli, e alla fine il tribunale dei minori emana un decreto di sospensione della patria potestà su tutta la prole. Salta anche il permesso di soggiorno, perché “senza” più figli, Mariana può essere espulsa. “I paradossi del sistema”, spiega un mediatore sociale che chiede di rimanere anonimo. “Per fortuna l’assistente sociale si è resa conto di quello che aveva fatto, ha chiamato il tribunale, ha redatto una seconda relazione più positiva e l’iter per mandare i bambini in casa famiglia è stato bloccato. Alla madre è stato annullato il foglio di via, ma dovrà rifare tutto da capo per il permesso di soggiorno”. L’udienza è prevista per settembre. Al padre, invece, il decreto di espulsione non è stato revocato. “Se lo fermano lo mettono in un Cie”. Oggi “la povertà è una colpa dei genitori”, prosegue l’anonimo mediatore sociale. Se l’Italia viene condannata dalla Corte europea dei diritti umani perché alle mamme migranti, spesso vittime di tratta, i figli vengono tolti a volte con troppa facilità - come Domani ha raccontato in un’altra inchiesta - alla popolazione rom non va meglio. “Se sei povero, straniero o rom - continua l’operatore - è molto facile che ti piombi addosso un decreto di allontanamento per i tuoi figli”. È il sistema, ancora una volta. E il peccato originale è quello della povertà. “Il benessere dei bambini è solo economico, la sfera affettiva viene dimenticata. La famiglia povera non è adeguata. Ma uno stato sociale che permetta di cambiare quella condizione, dall’altra parte, non c’è”. Dal borseggio all’elemosina - Parlare di rom è sempre faticoso: la loro stessa esistenza viene vista come difficile. Fino a tre anni fa Mariana faceva la borseggiatrice. Ma quando è rimasta incinta dell’ultimo figlio ha deciso di smettere: ora chiede soldi sotto alla metropolitana. Mostra i suoi figli in foto con orgoglio ed è arrabbiatissima con le assistenti sociali. “Sono furbe, ti prendono i figli e ti promettono che li potrai rivedere e che torneranno da te. Poi però non ti fissano i colloqui e non li vedi più”. Pensare che è stata lei stessa a portare la figlia più grande in casa famiglia, visto che si ostinava a non andare a scuola. “Ho messo un sasso al posto del cuore, le ho fatto la valigia e l’ho portata lì. Ha finito la terza media, e fra poco a 18 anni potrà uscire e fare quello che le pare”. Tutti i figli di Mariana hanno la terza media, tranne la più piccola che è alle elementari. Lei ha smesso di rubare, ha aderito a tutti i piani del comune per la fuoriuscita dai campi. Per questo quando l’hanno minacciata di portare tutti i suoi figli in casa famiglia le è sembrato ingiusto. Ha vissuto quei mesi nel terrore, perché le era già capitato. “A 16 anni ho partorito il primo figlio: era molto malato, aveva bisogno di tante cure. Nel campo non ce l’avrei fatta, per questo l’ho dato in adozione. Invece Lucia (nome di fantasia) me l’hanno tolta quando ero in carcere: aveva 3 anni e mezzo e mia madre l’ha portata a fare l’elemosina. Quando me l’hanno detto, mentre ero ancora dentro, ho smesso di mangiare. Pensavo di diventare matta”. Una volta libera Mariana ha preso un avvocato e ha provato a contestare lo stato di abbandono, decretato - dice la donna - non per l’accattonaggio ma perché alla bambina mancavano i vaccini. Un po’ Mariana lo ha capito: sa che avrebbe dovuto vaccinare la bimba, anche se sembra non averlo fatto più per motivi logistici che altro. Racconta che il giudice, quando ha fatto ricorso per riavere Lucia, non è stato cattivo. Ma quasi comprensivo. “Mariana - gli avrebbe detto - tu sei una brava madre. Gli altri figli te li lasciamo. Ma questa piccola no”. Il giudice in Corte d’appello le ha dato torto e lei non ha più visto la figlia. Probabilmente è stata adottata. Il contesto e i numeri - Sui figli dei rom allontanati dai genitori e messi in case famiglia, dati in affidamento o adottati c’è già una corposa letteratura. L’antropologa Carlotta Saletti Salza, nel 2010, ha pubblicato un volume molto duro: “Dalla tutela al genocidio?”, frutto di una ricerca negli archivi di alcuni tribunali minorili italiani. Già lì emerge l’alto numero di decreti di adozione di bambini rom, che rischia di celare tra l’altro pregiudizi nel sistema e tentazioni di assimilazione culturale. Un trend confermato dal dossier del 2013 dell’Associazione 21 luglio sulle adozioni dei minori rom in emergenza abitativa nella regione Lazio. Secondo quanto emerge nel documento, su un totale di 1.416 aperture di adottabilita? in sette anni, i rom costituiscono il 14 per cento. Le sentenze registrate dal 2006 al 2012 inerenti l’adottabilita? di minori rom residenti nei “campi” sono 202: il 52 per cento è di sesso femminile. Il 68 per cento possiede cognomi “slavi” (macedoni, montenegrini, bosniaci, serbi), il 27 per cento rumeni, il 4 per cento cognomi di famiglie franco-marocchine e solo l’1 per cento è di famiglia italiana. Su 202 casi, 117 - ovvero il 58 per cento del totale dei minori rom oggetto di sentenza - “sono stati effettivamente dichiarati adottabili, 47 casi (il 23 per cento) si sono chiusi con una sentenza di non luogo a provvedere”, mentre 38 casi (il 19 per cento) erano all’epoca ancora in attesa di giudizio definitivo. Sul totale, “il 50 per cento dei minori oggetto di una sentenza di apertura di adottabilita? ha meno di 7 anni e il 30 per cento meno di 3”. “Non è cambiato molto da allora”, commenta oggi Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio. “Il fenomeno è proporzionale alla condizione di marginalità e di povertà. Lo stato, invece di rispondere con l’articolo 3 della Costituzione per cui la Repubblica dovrebbe rimuovere le cause che limitano di fatto l’eguaglianza e la libertà dei cittadini, più facilmente procede con questi allontanamenti che finiscono per diventare adozioni quando si tratta di bambini in tenera età”. E con la crisi economica, e con l’aumento delle nuove povertà questo fenomeno non potrà far altro che crescere. “Lo stato toglie i bambini, ma questo ha un costo altissimo”, ricorda il presidente dell’associazione che si occupa di rom a Roma. Già, perché un bambino ospitato in una casa famiglia costa alla regione Lazio circa 2mila euro al mese. “Abbiamo conosciuto mamme a cui hanno tolto 5 bambini, il cui mantenimento costa 10mila euro al mese, 120mila l’anno solo per quel nucleo. Con quei soldi si sarebbero potuti realizzare molti progetti di aiuto più proficui, chiosa Stasolla. “Le madri non sempre hanno gli strumenti per fare ricorso e per capire cosa sta succedendo”, aggiunge. “Ci sono casi in cui la donna, quando le tolgono il bambino, non sa cosa fare e scappa - e naturalmente diventa ancora più incapace come genitore”. E poi c’è il ruolo dei servizi sociali e della burocrazia. “Ci sono campi nomadi in cui l’assistente sociale ha paura a entrare, quindi redige le sue relazioni sulla base del sentito dire. E ci sono notifiche del tribunale che non vengono recepite per motivi logistici. Basta poco: il giudice convoca, i genitori non si presentano perché non è arrivata in tempo la notifica o perché non hanno capito cosa dovevano fare, e quello diventa un caso conclamato di abbandono”. Secondo le fonti di Domani, però c’è stato un aumento di segnalazioni da autunno in poi nella capitale, i motivi non sono chiari. “Almeno una volta a settimana una famiglia mi chiama per possibile allontanamento di minori” dice la nostra fonte. Domani ha provato ripetutamente a chiedere al comune di Roma e a un municipio dove insiste un grosso campo rom di parlare con i servizi sociali, che sono notoriamente “gli occhi dei giudici minorili”. L’Amministrazione comunale ci ha risposto di non avere dati dei minori rom nelle case famiglia e che “l’allontanamento dalle famiglie lo dispone il tribunale dei minorenni su proposta della procura. Se sono colpiti più di altri la procura avrà visto che ne ricorrono i presupposti”. Campi e stereotipi - Melita Cavallo è stata presidente del Tribunale per i minorenni di Roma e giudice minorile a Milano e a Napoli. Di storie ne ha viste tante, tantissime. “Potrei scrivere un libro”. C’è un caso che ricorda tra i tanti: siamo a Napoli. “Mi è rimasto nel cuore: tre bimbi, erano grandicelli, li abbiamo presi che avevano 5 o 6 anni”, racconta. “Bambini gioiello, intelligentissimi. Sono stati in una struttura ottima, la migliore che avevamo all’epoca, dove i genitori potevano incontrarli. Una domenica avevano insistito per portarli fuori a prendere un gelato. L’uscita è stata autorizzata, ma quei tre bambini sono spariti. Pare che li abbiano portati in Spagna. Di certo non li hanno portati a studiare, ma a tenerli come tengono loro spesso i La denuncia “Se sei povero, straniero o rom il rischio di allontanamento è molto alto”, chiosa Cavallo. “Poi sì, ci sono anche persone che, pur essendo rom, sono abbastanza attente e, se prese in carico, capiscono il bene dei loro bambini. Ma sono l’eccezione: i più non rispondono a quello che il giudice cerca loro di fare capire nel migliore dei modi, per il bene di quei bambini”. Come già registrato per i figli di donne migranti, anche nel report dell’Associazione 21 luglio vengono riportate testimonianze che mostrano “una conoscenza estremamente lacunosa e stereotipata delle comunità rom”. La stessa Melita Cavallo lo conferma. “Lo stereotipo scatta perché la situazione è diffusa”, spiega. Tutti i campi hanno delle deficienze: ma invece di darsi da fare per superarle si aspetta che tutto venga dall’alto e si deteriora quello che c’è”, dice la giudice. Ma le ragioni che vengono addotte per allontanare questi bambini, avverte l’Associazione 21 luglio nel dossier, “sono spesso proprio quelle condizioni abitative insostenibili che coincidono con quanto l’Amministrazione comunale realizza con le proprie politiche, per cui il soggetto “i genitori” potrebbe essere facilmente sostituito con la figura del comune di Roma”. E ancora: “Se da un lato un’istituzione da decenni si occupa di segregare i rom in “villaggi” al di fuori del Grande raccordo anulare, di sgomberare tutti quelli che non rientrano negli spazi istituzionali a loro riservati e dall’altro lato un’altra istituzione giudica tali ambienti inadeguati per lo sviluppo psico-fisico dei minori e ritiene opportuno allontanare i figli dai genitori anche alla luce delle condizioni abitative, è possibile parlare di schizofrenia istituzionale?”, si chiede l’Associazione. “Credo ci sia anche una resistenza forte da parte delle famiglie rom ad adeguarsi a quello che ti chiede quello stato che bene o male ti dà una casa” con i campi rom, aggiunge Melita Cavallo. “La persona che viene aiutata non si dà aiuto. È come se ci fosse un’indolenza congenita, la responsabilità non è addebitabile alle istituzioni. Se dici loro “ti voglio aiutare, tuo figlio lascialo, lo seguo e quando sarà più grande verrà da te” ti rispondono “no, deve stare con me, sono io la madre”. E questo a me non sta bene come persona, società comunità e diritto”. Case famiglie e affidi - Una volta che il minore entra in una casa famiglia si innesca un meccanismo così protettivo nei suoi confronti che molto difficilmente ne uscirà. Anche solo perché tra un’udienza e l’altra passano sei mesi, un lasso di tempo nel quale vengono scritte relazioni sul nucleo famigliare senza affrontarne però i problemi. E di relazione in relazione passano gli anni. Cosa succede nel frattempo a quei bambini? “Se sono piccoli vanno in adozione. Se sono più grandi restano in casa famiglia e la loro identità diventa problematica: non si sentono più rom, ma non si sentono neanche cittadini come gli altri”, spiega Carlo Stasolla. “Hanno sofferto carenze affettive tremende perché il momento dell’abbandono è uno spartiacque e potrebbero manifestare grosse problematiche che poi si traducono in atteggiamenti lesivi e devianze”. Lui stesso ha avuto otto bimbi in affido ed è diventato un punto di riferimento degli assistenti sociali, perché i bambini rom in affido non li vuole nessuno. “C’è un servizio sociale totalmente incapace di gestire la questione: ci dovrebbe essere un accompagnamento della famiglia che ha temporaneamente un minore, con l’idea che il bambino debba tornare nel nucleo di origine”. E invece “purtroppo i servizi sociali sono così oberati che, una volta dato il bambino in affido, se lo dimenticano”. Alle famiglie benestanti - “Abbiamo creato una famiglia molto particolare”, racconta Liliana (nome di fantasia) che ha due figli presi in affido che ha poi adottato. Entrambi hanno sempre avuto e continuano ad avere rapporti regolari con i genitori naturali e uno dei due è di origine rom. La situazione della famiglia di Liliana è ideale, perché i genitori naturali hanno acconsentito sia all’affido che poi all’adozione, senza interferire nella nuova vita dei figli. “Rispetto a tante storie, forse questa situazione è meno traumatica”, racconta Liliana. “Non c’è lo strappo definitivo con i genitori naturali, e non resta sospesa quella domanda - che a volte diventa molto urgente - sulla propria identità e le proprie origini. Per loro è tutto alla luce del sole, nel bene e nel male, nei limiti che possono riscontrare in noi e in quelli che possono vedere nei genitori naturali”. Il figlio però non sa nulla delle sue origini rom: il padre è italiano e la madre non vive in un campo. Per Liliana non sta a lei raccontarlo, almeno fino a quando non sarà il figlio stesso a fare domande: non ha ricordi della vita familiare precedente, poiché è stato messo in casa famiglia quando aveva 3 anni e a 6 è stato dato in affidamento. La scelta di mettere i bambini in famiglie benestanti è sicuramente rassicurante, ma non sempre funziona. “Ricordo una donna a cui hanno tolto la figlia perché la portava insieme a lei a chiedere l’elemosina”, racconta il mediatore sociale. La bambina viene affidata a una famiglia italiana che però è “troppo legata alla madre” - che la andava a trovare costantemente - e per questo la “restituisce” alla casa famiglia. Spese Nel Lazio un bambino in casa famiglia costa 2mila euro al mese - E lì la bambina resta, nonostante la mamma avesse nel frattempo trovato una casa e un lavoro. “Ora la ragazza è quasi adolescente e soffre moltissimo: non si sente rom, non si sente non rom ed è ancora in casa famiglia”. A funzionare bene invece, chiosa il mediatore sociale, è il penale per i minorenni. “La fortuna di un minore rom spesso è l’arresto per piccoli reati. Gli fanno fare la messa alla prova (il processo viene sospeso e il minorenne viene “messo alla prova” sulla base di un progetto educativo predisposto dai servizi sociali, ndr), gli trovano una borsa lavoro, gli fanno i documenti: paradossalmente smette di essere invisibile”. Mimmo Lucano e la legge non eguale per tutti di Maurizio Acerbo e Stefano Galieni Il Manifesto, 19 maggio 2021 Lascia interdetti e sconcertati che la Procura di Locri, continui a perseguitare Mimmo Lucano proponendo per lui una pena di quasi 8 anni. Nel luglio scorso il tribunale del riesame aveva definito nelle motivazioni, “inconsistente” il quadro giuridico delle accuse rivolte all’ex sindaco di Riace, “fondato su elementi congetturali e presuntivi”. E pensare che da quando nel 1999, ancora maestro di scuola, Mimmo aveva scelto di far diventare un paese famoso solo per il ritrovamento dei “Bronzi”, luogo di ponte fra culture, si era creata attorno alla sua figura un’aura di affetto e di stima che lo aveva portato a divenire ripetutamente sindaco del piccolo paese ionico. Ma dal 2017 la sua popolarità, il suo lavoro costante, il non adeguarsi alla limitatezza delle burocrazie ministeriali mettendo avanti a tutto i diritti dei richiedenti asilo lo hanno messo nel mirino del potere. Anche in Calabria, come per i giornalisti e i legali che denunciavano quanto avveniva in Libia, sono partite le intercettazioni telefoniche. Il tutto per cercare reati inesistenti. La volontà di screditare l’attività il lavoro di chi, per scelta ideale, ha portato avanti la strada dell’accoglienza degli ultimi chiedendo di condannarlo alla galera, come per dire “chi rispetta i diritti degli indesiderati, chi si oppone al loro sfruttamento nei campi e nei ghetti” va considerato fuorilegge. Una richiesta - e ci assumiamo la responsabilità di affermarlo - a cui non è estranea la scelta di Mimmo Lucano di candidarsi al fianco di Luigi De Magistris per combattere, dalla Regione, la corruzione e la criminalità organizzata in Calabria. Non a caso la Lega festeggia su twitter. Rifondazione Comunista resta al fianco di Mimmo Lucano e continuerà ogni giorno a ribadire quanto da lui affermato: “se per salvare persone ho infranto leggi, lo rifarei ancora”. Perché a Riace si sono infrante le leggi che prevedono di far primeggiare l’odio e il diritto allo sfruttamento e Mimmo ha fatto ciò che dovrebbe fare ogni amministratore. Ci auguriamo che i giudici facciano prevalere la carta costituzionale e non le convenienze politiche e ci domandiamo: che paese è quello che assolve un ministro che sequestra persone e istiga all’odio contro chi salva le vite e condanna uomini di pace come Mimmo Lucano? Non quello in cui vogliamo vivere. Maurizio Acerbo, Segretario nazionale PRC-S.E. Stefano Galieni, Responsabile migrazione PRC-S.E. Niente carcere per il soggetto immunodepresso che rischia la morte se contrae il Covid-19 di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2021 Illegittimo il regime carcerario se l’imputato - gravemente malato e immunodepresso - rischia la vita se contrae il Covid-19. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 19653/21. Con ordinanza del 3 dicembre il tribunale del riesame di Caltanissetta a seguito di appello del pm, ha applicato all’imputato la misura cautelare della custodia in carcere, in sostituzione di quella degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, in relazione ai delitti di estorsione aggravata dal metodo mafioso e dall’uso delle armi, di sequestro di persona e detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Per il ricorrente il giudice non aveva dato seguito alla richiesta di applicare l’art. 275 Cpp, nonostante il suo stato di grave deficienza immunitaria per le cure chemioterapiche. La Suprema corte, nel decidere la questione, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, ha ricordato che, in riferimento al rischio di contagio per la pandemia da Covid 19, l’incompatibilità con il regime carcerario delle condizioni di salute del detenuto per il rischio di contrarre l’infezione, ai sensi dell’art. 275 Cpp, deve essere concreta ed effettiva, dovendo tener conto sia delle patologie di cui risulta affetto il soggetto ristretto, tali da comportare, in caso di contagio, l’insorgere di gravi complicanze o la morte, sia delle obiettive condizioni dell’istituto penitenziario, per l’eventuale presenza di casi di contagio e la possibilità di adottare specifiche misure di prevenzione, atte a impedirne la diffusione. Dunque ha errato, secondo gli Ermellini, il giudice di merito nel ritenere che l’indagato non rientrasse in una delle categorie di soggetti la cui condizione di salute pregressa rendesse certa o altamente probabile l’evento morte in caso di contagio da Covid 19. Valutazione sbagliata in quanto la patologia oncologica del ricorrente rientrava tra quelle segnalate dal Dap come statisticamente collegate a un elevato rischio di complicanze in caso di contagio da Covid-19. Non solo. Per il Palazzaccio non è sufficiente basarsi sull’assenza nell’istituto di casi di contagiati e sulla previsione dell’allocazione in luoghi separati dei detenuti positivi al Covid 19. Al contrario bisogna soffermarsi sull’incompatibilità tra il regime detentivo carcerario e le condizioni di salute del detenuto, Inoltre deve essere valutata l’astratta idoneità dei presidi sanitari sanitari fruibili all’interno del penitenziario e l’adeguatezza concreta del percorso terapeutico idoneo alle esigenze del malato. San Gimignano (Si). Al via il processo per le torture nel penitenziario di Antonella Mollica Corriere Fiorentino, 19 maggio 2021 Si è aperto ed è stato subito rinviato il processo per le violenze nel carcere di San Gimignano che vede imputati cinque di polizia penitenziaria con l’accusa di tortura, per la prima volta in Italia da quando è stato introdotto il reato. All’apertura dell’udienza il ministero della Giustizia, tramite l’avvocato dello Stato, ha chiesto di costituirsi parte civile. Il collegio, presieduto da Luciano Costantini, si pronuncerà nell’udienza del 9 giugno. Anche il Garante nazionale per i diritti dei detenuti ha chiesto di costituirsi parte civile. L’episodio al centro dell’inchiesta, coordinata dalla pm Valentina Magnini, riguarda il pestaggio di un tunisino durante un trasferimento da in cella all’altra, avvenuto nell’ottobre del 2018. Quattro agenti su cinque sono difesi dall’avvocato Manfredi Biotti che ha depositato una lista di 39 testimoni. Il quinto agente, difeso dall’avvocato Fabio D’Amato, ha una lista di 23 testimoni. Per lo stesso episodio sono stati condannati in abbreviato altri 10 agenti con l’accusa di concorso nelle violenze. San Gimignano (Si). Torture nel carcere, il Ministero si costituisce parte civile nel processo di Carmine Di Niro Il Riformista, 19 maggio 2021 Il cambio di passo c’è e si vede. Lontani i ‘fasti’ dell’ormai ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, al dicastero di via Arenula le cose stanno cambiando con l’arrivo del Guardasigilli Marta Cartabia. Non solo per l’attesa riforma, finalmente in chiave garantista, sulla quale è ancora in corso un costante lavoro di ‘taglia e cuci’ per non far scoppiare la maggioranza, ma anche su altri ‘dettagli’, per così dire. Andiamo al punto. È iniziato questa mattina al palazzo di giustizia di Siena il processo nei confronti dei cinque agenti di polizia penitenziaria che devono rispondere dei reati di tortura, minacce aggravate, lesioni, falso ideologico e abuso di potere nei confronti di un detenuto tunisino di 31 anni nella fase di trasferimento da una cella a un’altra. La vicenda risale all’ottobre del 2018, quando nel carcere di Ranza a San Gimignano il detenuto è stato sottoposto a “sofferenze acute e sofferenze fisiche” e ad un trattamento “inumano e degradante”, è l’accusa che arriva dalla Procura. Un processo che potrebbe andare per le lunghe: già oggi è immediatamente slittato per motivi di salute di uno dei giudici del collegio, con la prossima udienza il 9 giugno. Secondo Manfredi Biotti, legale di quattro dei cinque imputati, “potrebbe durare almeno un paio d’anni”. Potrebbero essere almeno un centinaio i testimoni a sfilare in aula, di cui 39, scrive l’Agi, solo di Biotti. A questi si aggiungeranno quelli dell’altro imputato, difeso dall’avvocato romano Fabio D’Amato, quelli della Pm Valentina Magnini, e quelli delle parti civili. A proposito di parti civili, su questo punto è arrivato il deciso e importante cambio di passo del ministero della Giustizia che ha chiesto di costituirsi parte civile al processo tramite l’avvocatura di Stato. Una scelta ben diversa da quella compiuta dal predecessore Bonafede, che scelse di non costituirsi parte civile in quanto persona offesa, dato che gli agenti di polizia penitenziaria sono dipendenti del Ministero di via Arenula. Il processo che si è tenuto oggi, con rito ordinario, segue quello tenuto il 17 febbraio scorso col rito abbreviato nei confronti di altri dieci agenti del carcere di San Gimignano. Due di questi sono stati condannati a 2 anni e tre mesi, sette a due anni e sei mesi, uno a 2 anni e otto mesi, per i reati di tortura in concorso e lesioni aggravate in concorso. Salerno. Carceri, presentato Report sulle criticità e buone prassi Il Roma, 19 maggio 2021 “La funzione punitiva non deve essere centrale o prevalente ma, purtroppo, nella società il vento spira in un’altra direzione, il sistema penale è al collasso e mostra di accanirsi sugli autori di reati marginali, ci vuole una nuova visione, occorre avere tutti la consapevolezza del dettato costituzionale e valorizzare i percorsi che le persone fanno in carcere” ha detto il Procuratore della Repubblica di Salerno Giuseppe Borrelli alla presentazione del Report 2020 sulle criticità e buone prassi dei luoghi di privazione della libertà personale nella provincia di Salerno (carceri, misure alternative, TSO) realizzato dal Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello in collaborazione con l’Osservatorio Regionale sulla vita detentiva. “Mettere insieme, a livello territoriale, i diversi attori impegnati nel settore carcerario e fare sistema”, è stato l’appello del Garante campano Ciambriello. L’incontro, che si è svolto nella Sede della Caritas diocesana di Salerno, ha dato modo ai presenti di fare il punto della situazione in cui si trova attualmente il sistema carcerario provinciale caratterizzato da una popolazione detenuta di 537 persone a fronte di una capienza regolamentare di 482 posti. Dato che conferma, anche in questo territorio, i problemi di sovraffollamento di cui soffrono gli istituti penitenziari della Regione. Una situazione che, col concorso di altre criticità, diventa sempre più insostenibile. “Alla certezza della pena va coniugata la qualità della pena”, ha aggiunto Ciambriello che, nella sua introduzione ha sottolineato il diritto dei detenuti alla formazione, alla vaccinazione contro il Covid 19 e a un percorso riabilitativo che non deve avvenire unicamente in carcere. Da qui la necessità di ricorrere a misure alternative, considerando anche che attualmente ci sono 2.000 ristretti condannati a un solo anno di carcere. Monsignor Andrea Bellandi, arcivescovo metropolita di Salerno, Campagna e Acierno ha contribuito a questa mattina adi riflessione comune evidenziando l’attenzione della Chiesa alla problematica carceraria, come dimostra l’istituzione della Pastorale carceraria che agisce nel solco tracciato dalla Caritas diocesana. “Una persona non va identificata con l’errore che ha commesso - ha detto - ma è molto di più”; e ancora: “La porta del recupero deve essere sempre aperta, ma per il reinserimento dei detenuti nella società occorre creare condizioni ben precise”. Centrali, da questo punto di vista sono i percorsi di rieducazione. Occorrono quindi interventi strutturati, occorre un sistema carcerario diverso, perché quello esistente viola regole chiare fissate per garantire il rispetto dei detenuti; “non si può privare un uomo della sua dignità anche se ha commesso il più odioso dei reati”, ha detto Monica Amirante, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Salerno; le ha fatto eco Rita Romano, direttrice del carcere di Fuorni che nel suo breve intervento ha sottolineato la difficoltà di questi obiettivi, visto il carattere impietoso dei dati, ma ha affermato la sua fiducia in un cambiamento che potrà realizzarsi solo con un impegno corale. Un impegno da svolgere su diversi fronti; come quello menzionato da Florinda Mirabile, referente dell’Osservatorio carcere dell’Unione Camere Penali che ha sottolineato l’importanza di “far rispettare anche in questo campo la Costituzione e i trattati internazionali sottoscritti dal nostro Paese in ambito detentivo. Serve una capacità progettuale, una concezione per cambiare la situazione del carcere, infatti secondo Don Rosario Petrone, responsabile della Pastorale carceraria “la recidiva diminuisce dove ci sono progetti che aiutino la persona a ritrovare sé stessa”. Roma. Carceri, dalla campagna vaccinale ad una visione futura di Emma Barbaro terredifrontiera.info, 19 maggio 2021 Intervista a Gabriella Stramaccioni, Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Roma. Se la campagna vaccinale nelle carceri romane può dirsi quasi completamente conclusa, almeno per quanto riguarda la somministrazione delle prime dosi, allora forse è arrivato il momento di provare a immaginare “il domani”. Perché c’è tutto un mondo oltre la pena da scontare dietro le sbarre di una cella. Un mondo fatto di vissuti, storie e fragilità che esulano da qualsiasi linea guida ministeriale. L’intervista di Terre di frontiera a Gabriella Stramaccioni, Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Roma, è uno squarcio sull’avvenire. Oltre il giustizialismo, oltre le ristrettezze, oltre le privazioni. Dottoressa Stramaccioni, la campagna vaccinale nel Lazio procede a gonfie vele. Infatti, il 70 per cento delle persone detenute ha già ricevuto la prima dose del vaccino anti-Covid. Le stesse proporzioni valgono anche per gli istituti penitenziari di Roma? Sì, sta andando davvero molto bene. Pensi che a Rebibbia femminile, Rebibbia Terza Casa e nelle sezioni penali la prima dose è stata somministrata a tutti, salvo rarissime eccezioni, già qualche giorno fa. Anche nella casa circondariale Rebibbia Nuovo Complesso è andata altrettanto bene. E, in quel caso, dovevano essere vaccinate circa 1300 persone. Lo stesso discorso vale per il personale della polizia penitenziaria. Quindi, ora possiamo dirlo, l’obiettivo è quasi raggiunto. Anche i numeri delle adesioni sono altrettanto soddisfacenti? Assolutamente sì, l’adesione alla campagna vaccinale è stata molto alta. Tuttavia, penso che abbia inciso in tal senso anche la tipologia di vaccino utilizzata. Qui sono state somministrate principalmente dosi di Moderna. Dopo il tam-tam mediatico su AstraZeneca e Johnson&Johnson, il fatto di aver distribuito Moderna, che pare essere abbastanza efficace, ha tranquillizzato tutti. Quindi salvo rarissimi casi, tutti hanno ricevuto la prima dose e ora attendono il richiamo. Quindi sono stati tutti vaccinati a prescindere dalla confusione sui target di vaccinazione per età o fragilità emersi, a più riprese, nelle linee guida ministeriali? Non c’è stata alcuna suddivisione per categorie. Sono solo state monitorate con maggiore attenzione tutte le persone fragili che, come era opportuno, sono state sottoposte a specifici accertamenti medici. Per il resto, si è proceduto uniformemente. La questione anagrafica, insomma, non è stata presa in considerazione. Anche alle persone fragili sono state inoculate dosi del vaccino Moderna? Sì, solo Moderna. Per la Regione Lazio erano state messe a disposizione circa 10.500 dosi di Moderna. O almeno questi sono i dati che ci hanno fornito. La maggior parte di queste dosi sono state utilizzate per il personale della polizia penitenziaria, per i detenuti, per i preti e i cappellani delle carceri e, per fortuna, in qualche caso anche per i volontari che entrano con maggior frequenza negli istituti penitenziari. Insomma, anche loro sono riusciti a vaccinarsi. E questa è un’ottima notizia. Soprattutto perché vaccinare i volontari significa pensare di riprendere tutte quelle attività trattamentali che la pandemia nelle carceri ha sostanzialmente annullato. La speranza è questa. Per quindici mesi gli istituti penitenziari sono stati totalmente chiusi al mondo esterno. Questo ha significato la sospensione delle attività scolastiche e del comparto educativo, comprese le università, delle attività sportive, teatrali, musicali. Di ogni cosa. Questo ha creato un disagio notevole perché i detenuti non hanno svolto alcuna attività. Dal punto di vista psicologico e formativo è una situazione pesantissima. Quindi mi auguro che al buon andamento delle vaccinazioni si accompagni una ripresa effettiva delle attività trattamentali in carcere a tutto tondo. Quali attività si prevede di riprendere a partire dalla seconda metà di maggio? Innanzitutto la scuola e l’università. Più della metà delle donne recluse a Rebibbia femminile va a scuola e frequenta i corsi regolarmente. Sono circa 200 i detenuti iscritti regolarmente all’università. Quindi la ripresa delle attività didattiche rappresenterebbe non soltanto un bel segnale per le persone recluse, ma soprattutto una degna ripartenza del sistema penitenziario. Sono tante le attività rimaste ferme al palo in questi lunghi mesi contrassegnati dalla pandemia di Covid-19. Da un punto di vista educativo e trattamentale, questo purtroppo è stato un anno perso. Forse è stato un anno perso anche sul fronte dei trattamenti sanitari da destinare alle persone con fragilità psichica o con vere e proprie patologie psichiatriche. Lei che ne pensa? Sto cercando di intervenire quasi quotidianamente per sbloccare questioni ferme da tempo. Per trovare, cioè, soluzioni praticabili per tutti quelli che avevano e hanno bisogno di cure immediate. I ritardi, purtroppo, ci sono stati. Adesso si sta cercando di recuperare in ogni modo il tempo perduto anche perché, in questi mesi, si sono rarefatte se non azzerate le prenotazioni per cure esterne agli istituti di pena. Ci sono persone le cui condizioni di salute, soprattutto da un punto di vista psicologico e psichiatrico, sono decisamente peggiorate. Quel che è accaduto all’esterno delle carceri, dietro le sbarre di una cella si è amplificato. È di circa un mese fa la notizia del detenuto di Velletri, malato di cancro, che si è dato fuoco tra le mura del carcere. Possibile che in determinati casi le misure alternative non trovino alcuna applicazione? I disagi psichiatrici nelle carceri sono in drastico aumento. Molte persone vengono recluse per reati commessi proprio a causa dei problemi psicologici o psichiatrici che hanno. Ma il problema reale è un altro. Le strutture non ci sono e l’assistenza del personale qualificato scarseggia. Ci sono casi riguardanti persone che dovrebbero essere alloggiate nelle Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, ndr) ma restano in carcere perché non ci sono posti disponibili. Altri ancora dovrebbero aver accesso a servizi psichiatrici ad hoc, ma ciò non accade. E tutto questo chiaramente crea dei problemi sia alle persone che vivono con difficoltà la propria fragilità psichica, sia a coloro i quali stanno loro vicino. Perché la stessa polizia penitenziaria spesso non riesce a contenerli e, soprattutto, non sa come gestire l’interazione con loro. So che il Garante nazionale Mauro Palma quest’anno, nella propria relazione, dedicherà un focus proprio alla questione sanitaria psichiatrica nelle carceri. E questo mi conforta perché se ne sente davvero la necessità. Perché questo è il problema di tutti i problemi. Quanto incidono le singole Asl sulla capacità trattamentale sanitaria di ciascun istituto penitenziario? Incidono moltissimo. Guardi, personalmente penso che il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale fosse doveroso. Insomma, la riforma è giusta. Ma questo tuttavia ha provocato anche una scarsa collaborazione. Le faccio un esempio banalissimo: la casa circondariale di Regina Coeli gode di un servizio sanitario e medico tutto sommato efficiente, presente e funzionale. A Rebibbia, invece, ci sono problemi in più. Sono due Asl diverse, con metodi diversi di lavorare e due approcci totalmente differenti. Non c’è uniformità di trattamento. E a rimetterci sono le persone detenute. A rimetterci, talvolta, sono persino i bambini. Come hanno vissuto questa doppia chiusura al mondo esterno, per il carcere e per il Covid-19, i bambini che vivono con le proprie madri nel nido di Rebibbia? L’hanno vissuta malissimo, anche se i numeri dei bambini reclusi al nido di Rebibbia per fortuna sono piuttosto bassi. Qualche mese fa è stata reclusa una donna, proveniente da un campo Rom, insieme al proprio bambino di un mese. Questa donna, purtroppo, è risultata positiva al Covid-19. Quindi è rimasta in quarantena, completamente isolata insieme al proprio bambino, finché non si è negativizzata. Poi, per fortuna, scontata la propria pena è ritornata a casa. Potrei raccontarle di donne incinte che dovevano essere trasferite da Civitavecchia a Rebibbia femminile per le quali, fortunatamente, siamo riusciti a ottenere misure alternative al carcere. Il punto è che il sistema dovrebbe intercettarle prima di arrivare negli istituti di pena, e non dopo. Perché la si dovrebbe finire con questa oscenità dei bambini reclusi, insieme alle proprie madri, fino ai sei anni. A Roma ci sono realtà che ospitano donne con bambini, come Casa di Leda, che funzionano davvero molto bene. E ora, con la proposta di legge firmata dal parlamentare Siani, sarà previsto anche il finanziamento per queste realtà che si preoccupano di offrire misure alternative al carcere proprio in un’ottica di salvaguardia del benessere dei minori. Quindi spero che il nido di Rebibbia, per quanto sia un’eccellenza, resti sempre più vuoto. Ma la giustizia, talvolta, è un po’ squilibrata. Eppure le regole ci sono, basterebbe applicarle. Sarebbe sufficiente questo per migliorare l’esistente. Trasformare in realtà ciò che la legge astrattamente prevede già. Palermo. Consiglio comunale, sì al regolamento che istituisce il Garante dei detenuti palermotoday.it, 19 maggio 2021 Via libera da Sala delle Lapidi al regolamento che istituisce il garante comunale per i diritti dei detenuti. La delibera porta in calce la firma del Consiglio comunale, ma è soprattutto un successo del Comitato Esistono i Diritti, che si è battuto sino in fondo per introdurre questa figura a tutela dei reclusi nelle carceri cittadine. Lo ha fatto con una battaglia non violenta e transpartitica, in pieno stile radicale, che ha fatto breccia nel Consiglio. “Ci sono voluti un bel po’ di mesi” dice Gaetano D’Amico, co-presidente del Comitato Esistono i Diritti, senza nascondere una certa commozione: “Ancora una volta il metodo transpartito si è rivelato vincente e convincente. Questo risultato lo abbiamo ottenuto perché siamo andati oltre la logica dell’appartenenza. D’altronde su temi come la tutela dei più deboli non ci possono essere divisioni di sorta”. Come prevede il regolamento, la funzione del garante è quella di migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà personale. In che modo? Attraverso la tutela e la promozione dei diritti, l’esame e la predisposizione di iniziative rispetto a segnalazioni che riguardino violazioni dei diritti dei detenuti, l’informazione e il confronto con l’istituzione carceraria, le autorità competenti, il Comune e la cittadinanza. “Il Consiglio comunale - dice in una nota il gruppo Avanti Insieme (Valentina Chinnici, Massimo Giaconia, Claudia Rini, Toni Sala) - sancisce oggi un principio di civiltà giuridica per l’affermazione dello stato di diritto che assicura la salvaguardia ed il rispetto dei diritti di ogni uomo. La proposta di delibera di iniziativa consiliare permette a Palermo di dotarsi di un regolamento che consentirà di nominare il garante dei detenuti, figura prima d’ora non prevista al livello comunale, ma presente e attiva al livello nazionale e regionale”. “Era una battaglia per i diritti della tutela degli ultimi che non poteva essere più rimandata” dice Rosario Arcoleo (Pd), che presidente della Settima commissione ha portato in Aula la delibera. “Quella del garante dei detenuti - aggiunge - è una figura di mediazione che potrà agire al fine di tutelare gli ultimi e le loro famiglie. Troppo spesso in questi mesi abbiamo assistito a grandi difficoltà nelle carceri, legate anche alla pandemia, che hanno finito per calpestare troppo spesso i diritti dei carcerati. Auspichiamo che la figura del garante faccia da pungolo per le istituzioni al fine di creare occasioni di inserimento lavorativo e di formazione necessaria per acquisire quelle competenze che sono indispensabili per il reinserimento nella società”. Esprime soddisfazione il gruppo del M5S, che sottolinea: “Dopo l’istituzione del garante nazionale e regionale, anche a livello locale, sarà possibile individuare una figura dotata di autonomia e indipendenza di giudizio che avrà il compito di vigilare sul rispetto di diritti imprescindibili. Come sempre - concludono Viviana Lo Monaco, Antonino Randazzo e Concetta Amella - il M5S non ha fatto mancare il proprio contributo nell’elaborazione di proposte migliorative dell’atto, che hanno reso più chiari gli ambiti di competenza e i requisiti richiesti a una figura di garanzia che deve avere le mani libere per operare al meglio”. “Grazie al lavoro del consiglio comunale, anche Palermo avrà al pari di altre città italiane un Garante per i diritti dei detenuti: l’approvazione del regolamento, che consentirà la nomina del Garante, favorirà il reinserimento sociale e aiuterà i detenuti a rapportarsi al meglio con le istituzioni”. Così i capigruppo di Italia Viva e Italia Viva-Sicilia Futura in Consiglio, Dario Chinnici e Gianluca Inzerillo. Per Igor Gelarda, capogruppo della Lega, si tratta di “un segno di profonda civiltà e democrazia espressa da questo Consiglio comunale”. Il Carroccio ha inoltre presentato un ordine del giorno di sostegno alla polizia penitenziaria: l’atto è stato votato dalla maggioranza del Consiglio con 16 voti favorevoli e 8 contrari. “Otto voti contrari - rimarca Gelarda - che ci hanno lasciati esterrefatti. Peggio di tutti ha fatto Sinistra Comune, che non smentisce mai la sua matrice ideologica, che addirittura con una dichiarazione di voto ha annunciato la sua astensione sul documento proposto dalla Lega. I sacrifici che ogni giorno fanno gli uomini e le donne della polizia penitenziaria per garantire la democrazia dei cittadini, ma anche dei detenuti, non possono essere ignorati in questo modo, specie a Palermo dove le aggressioni a carico degli uomini della penitenziaria sono quasi all’ordine del giorno. La Lega esprime ancora una volta vicinanza a tutti gli uomini in divisa e disappunto per chi non è stato in grado di farlo oggi in Aula”. Milano. Un video per raccontare il progetto “Il carcere come quartiere della città” Ristretti Orizzonti, 19 maggio 2021 L’associazione “Verso Itaca APS” con la “Casa Circondariale San Vittore” propone un video che sintetizza l’attività del progetto “Il carcere come quartiere della città” sostenuto da Fondazione Cariplo dove l’Istituto penitenziario che poggia sul cuore di Milano viene narrato attraverso la sensibilità della fotografa Margherita Lazzati con la collaborazione della Galleria L’Affiche e con le parole di 54 operatori penitenziari, persone detenute, volontari, insegnanti, il medico, il cappellano, il Garante... raccolte da un gruppo di biografi volontari. Il senso di questo progetto è quello di raccontare i luoghi e l’umanità di un carcere a cui è legata tanta storia del nostro Paese, di rintracciare i fili che uniscono persone provenienti da culture, geografie e storie molto differenti con la speranza che possano riscoprire relazioni positive anche in un luogo di sofferenza come è indubbiamente il carcere. Il link al video: https://www.youtube.com/watch?v=2sDoy3-go5w&t=547s “Se dicessimo la verità”, viaggio tra le voci di chi ha il coraggio di denunciare la ‘ndrangheta di Renato Franco Corriere della Sera, 19 maggio 2021 Il documentario di Giulia Minoli ed Emanuela Giordano in onda domenica su Rai 1. Un progetto partito dal teatro 10 anni fa che oggi diventa un documentario e approda in tv: Se dicessimo la verità di Giulia Minoli ed Emanuela Giordano è un viaggio nella legalità, tra le voci di chi ha il coraggio di denunciare la ‘ndrangheta: i magistrati che indagano, gli insegnanti che si impegnano in prima persona, i giornalisti che nonostante le minacce non si tirano indietro, i parenti delle vittime che non gettano la spugna, gli imprenditori che denunciano, le associazioni e le imprese che si uniscono e propongono nuove forme di imprenditoria. “La ‘ndrangheta è la più sconosciuta ma la più potente di tutte le mafie - spiega Giulia Minoli -. L’obiettivo di questo progetto è capire cosa si può fare per reagire a questo colpevole torpore, a questa rimozione di massa che elude il problema della criminalità organizzata, un rifiuto collettivo che riguarda istituzioni e cittadini”. La voce narrante, il punto di vista e lo sguardo che si ferma sui luoghi e le persone, è di un gruppo di giovani attori e formatori che, da dieci anni, si occupa di attività legate al contrasto alla criminalità organizzata. Fanno domande, ascoltano, elaborano in una narrazione che diventa corale, motivata e coinvolta. “È corale perché il contrasto alla criminalità organizzata deve partire da una consapevolezza di gruppo. L’individuo (giornalista, cittadino comune, magistrato o amministratore che sia) se lasciato solo, diviene vittima designata del potere criminale. Cinquant’anni di storia ci insegnano che solo la “comunità”, solo una rete sociale ricca articolata e consapevole, può costituire un deterrente valido contro le mafie”. In onda domenica su Rai 1 nello Speciale Tg1 delle 23.30, Se dicessimo la verità - una coproduzione JMovie e Lux Vide in collaborazione con Rai Cinema - parte dalla Calabria e continua il viaggio da Vienna a Copenaghen, da Malta ad Amsterdam, e accende una luce su un fenomeno “rimasto confinato a dinamiche sociali e ad archetipi che fanno parte del passato: la ‘ndrangheta ha pochissimi pentiti, il patto di sangue è fortissimo, per questo riesce a non far parlare di sé. E poi si muove nel terreno degli affari, è mimetizzata nella zona grigia che coinvolge avvocati e commercialisti, non aggredisce l’impresa, ma piuttosto le tende una mano, si offre come interlocutore disponibile, veloce e con i soldi in tasca. Sono persone difficili da riconoscere. Questo film è l’occasione di sviluppare gli anticorpi all’indifferenza”. Covid, le riaperture e le tre responsabilità di Carlo Galli La Repubblica, 19 maggio 2021 Dopo il governo e i partiti sono chiamati in causa anche i cittadini. L’Italia riapre, riparte. Con universale soddisfazione, la “medicinale prigionia”, durata più di un anno, si allenta. Ma non si è arrivati linearmente a questo risultato, né il futuro che si dischiude è privo di problemi. Il concetto centrale, per la comprensione della fase, è “responsabilità”. Che implica una risposta a una domanda, a un dilemma. Il governo Draghi quando si è assunto la responsabilità della graduale riapertura, il “rischio calcolato”, ha onorato l’essenza del proprio mandato: portare l’Italia fuori dal Covid, con tutte le strategie securitarie e immunitarie disponibili, attraverso una momentanea sospensione del conflitto politico. Alla responsabilità del governo - usare la propria autorità senza commettere errori nel decidere il dilemma fra vita e sviluppo, fra salute ed economia - doveva corrispondere una responsabilità dei partiti, che da un lato dovevano farsi garanti dell’azione governativa, apportandovi l’indispensabile consenso, e dall’altro dovevano astenersi dall’enfatizzare le ragioni della contrapposizione; che in sé è del tutto fisiologica in una democrazia, soprattutto nel momento in cui grazie al Recovery Fund si reimposta (o almeno ci si prova) la struttura e l’orientamento del Paese, ma che non può sovrapporsi alle operazioni di salvataggio. Quindi, la responsabilità davanti alla quale si sono trovati i partiti non è stata tanto quella di collocarsi al governo o all’opposizione, ma di contemperare le ragioni, ora impellenti, dell’unità, con quelle, altrettanto essenziali ma nel breve periodo rinviabili, della dialettica politica. Dire che questa responsabilità è stata piena e convinta sarebbe improprio: le dispute fra i partiti, le prese di distanze dal governo, le reciproche recriminazioni, non sono certo mancate. Ma una rottura della maggioranza non dovrebbe essere all’ordine del giorno: per ora è nell’interesse di tutti farne parte, per quanto il semestre bianco, ormai in arrivo, possa costituire una tentazione per forzature, rese dei conti, riposizionamenti in chiave pre-elettorale. Se non sulla responsabilità, si è potuto contare, finora, sul calcolo dell’utilità - perfino da parte di chi, fuori dal governo, esercita un’opposizione “patriottica”. Auguriamoci che i partiti non sbaglino calcoli nei prossimi mesi - per l’ingordigia di alcuni, per il panico di altri. Un ostacolo all’esercizio della responsabilità da parte dei partiti sta nel fatto che - deboli come sono - si sentono in dovere di interpretare, con disinvoltura, le istanze contrapposte che, legittimamente, sono espresse da vari settori della società: così, si è aperta una contesa tra i fautori di un’euforica bulimia aperturista e chi invece è stato fatto apparire favorevole a una penitenziale quaresima chiusurista - ciascuna fazione dispone di virologi ed epidemiologi di riferimento. L’ora del coprifuoco è divenuta una linea del Piave, il colore delle Regioni una bandiera identitaria, la mascherina un’appartenenza politica (o generazionale); e se le tesi no-vax non hanno trovato un’esplicita sponda politica, certo la contrapposizione fra destra e sinistra si è arricchita di una nuova sfumatura: l’enfatizzazione o la minimizzazione dei rischi del contagio (o del vaccino), la propensione più o meno accentuata al rispetto delle norme. E qui si giunge al terzo livello di responsabilità, quella dei cittadini. A questi, e alle Regioni, si chiede fortemente, da parte del generale Figliuolo, un ultimo sforzo per completare l’immunizzazione delle persone over 60. Il che significa che, complessivamente, agli italiani non si chiedono sacrifici e rinunce: si tratta piuttosto di rispondere alla domanda se valga più il godimento incontrollato della libertà, anche al di là delle poche misure ormai rimaste in vigore, con i rischi connessi, o se non sia meglio affrontare un’ultima fatica per approdare a una stabile normalità - che, appunto, si nutre di norme, non di arbitrio. Si tratta in un certo senso di scegliere fra il presente e il futuro. Così, se al governo è toccato l’uso responsabile della propria autorità, se ai partiti si chiede il calcolo responsabile delle rispettive utilità, ai cittadini è demandato l’esercizio responsabile della libertà. Con una parola un po’ fuori moda nell’epoca dei diritti, eppure solennemente presente nella Costituzione, ciascuno è ancora chiamato - nel declino del Covid, nel dopo-Covid - alla serietà di un dovere verso il Paese. Covid-19 e brevetti, i diritti di proprietà contro il diritto alla vita di Marco Bascetta Il Manifesto, 19 maggio 2021 La pandemia ha sfondato diversi solidi muri come il tabù europeo del rapporto tra deficit e Pil. A tempo determinato e a precise condizioni, come non si stancano comunque di ricordare i guardiani momentaneamente in difficoltà dell’ortodossia finanziaria. Ma sul fronte dei brevetti, quelli farmacologici in particolare, e dunque sul terreno che riguarda più direttamente e immediatamente gli effetti della pandemia, l’Unione europea e gran parte degli stati che la compongono non hanno mosso un passo, quando non esercitato una ferma resistenza. Nemmeno in quella logica dell’emergenza che ha determinato la prudente apertura del presidente americano Biden alla sospensione temporanea dei diritti di proprietà che gravano sulla produzione dei vaccini tagliando fuori vaste aree del mondo dalla protezione contro il Coronavirus. “Nessun profitto sulla Pandemia” proclama il mondo cattolico italiano per bocca di Romano Prodi, anche se di profitti sulla pandemia ne sono stati già fatti a iosa e se ne continuano a fare. Ma non sono tanto i profitti da realizzare oggi sul mercato dei vaccini la principale posta in gioco quanto l’intangibilità della proprietà intellettuale il cui sistema difensivo non può presentare alcuna crepa, alcun varco, sia pure condizionato e temporaneo. E questo essenzialmente per due ragioni: la prima è che la proprietà intellettuale, ovverosia l’appropriazione dei risultati della scienza, delle sue metodologie e dei suoi strumenti costituisce non solo il futuro della proprietà privata, ma già oggi la sua forma più decisiva e potente. Basti vedere come le multinazionali farmaceutiche hanno potuto ricattare stati e governi manovrando il rubinetto delle forniture di vaccini, trasformando le inadempienze in posizioni di forza. Inoltre, in un contesto che promette il frequente ripetersi di crisi globali i padroni delle conoscenze capaci di fronteggiarle non possono consentire che queste comportino sospensioni dei loro diritti proprietari. Le catastrofi devono restare buoni affari. La seconda ragione risiede nella espansione piuttosto recente e nella discutibile legittimità della proprietà intellettuale tendenzialmente senza limiti (era ancora decisamente circoscritta fino al primo Novecento) in rapporto ai bisogni della collettività. Fino a non troppi decenni fa un ricercatore che avesse individuato un elemento ancora ignoto esistente in natura, avrebbe potuto brevettare il metodo utilizzato per isolare e depurare la sostanza, ma non la sostanza stessa. A titolo di esempio Jeremy Rifkin riferiva anni fa del rifiuto di brevettare il tungsteno opposto a un gruppo di scienziati dal Patent and Trademark Office degli Stati uniti nel 1928. Meno di 60 anni dopo lo stesso ufficio dichiarava brevettabili le componenti di organismi biologici a favore di “chiunque ne isoli per primo le proprietà, ne descriva le funzioni e ne individui applicazioni commerciali utili”. A partire dalla fine degli anni Settanta la sfera della proprietà intellettuale si è estesa a dismisura, includendo non solo elementi biologici, ma anche l’insieme delle acquisizioni scientifiche conseguite attraverso una cooperazione in larga misura estranea agli investimenti privati. Il modello del copyright si è esteso sia in senso temporale (prolungamento costante della durata dei diritti d’autore e di sfruttamento dei brevetti) sia includendo ambiti immateriali da sempre oggetto di libera fruizione. Per fare un esempio italiano il diritto proprietario dello stato non solo sulla consistenza fisica, ma anche sull’immagine stessa del patrimonio storico-culturale che amministra (legge Ronchey). La conversione aziendale dello stato, e soprattutto delle università e degli istituti di ricerca, si è esercitata in larga misura sul terreno della proprietà intellettuale nella forma della produzione e cessione di sapere in favore delle imprese private. Come è noto, l’argomento principe in difesa di questo assetto è che la ricerca e lo sviluppo di nuove conoscenze non avrebbero luogo se non garantissero cospicui profitti. Una banalità tutta interna alla convinzione che non si dia sviluppo senza accumulazione del capitale, puntualmente ripresa dalle grandi imprese farmaceutiche anche nell’attuale crisi pandemica. Di contro è evidente che un processo della conoscenza, gravato di dazi e gabelle, interamente dipendente da una molteplicità di interessi proprietari che ostacolano la circolazione delle acquisizioni scientifiche ne subisca pesantemente il condizionamento. È inevitabile che la mercificazione del sapere ne delimiti i contorni, ne determini la struttura e gli obiettivi e dunque le esclusioni. Questo è lo sfondo della battaglia in corso intorno alla licenza obbligatoria per la produzione di vaccini, laddove la difesa della proprietà intellettuale si scontra con la consapevolezza che l’esclusione di vaste aree del pianeta dall’accesso ai vaccini e ai farmaci contro il Coronavirus non solo ne decimerebbe le popolazioni, ma non metterebbe concretamente fine alla pandemia. La risposta, buona a salvaguardare il mercato ma non la certezza dei risultati né l’autonomia dei beneficiari, è una vasta azione di aiuto internazionale che, una volta raggiunto il volume sufficiente di produzione dei vaccini, ne possa destinare una certa quota ai paesi poveri. La crisi sanitaria globale e la guerra dei vaccini dovrebbero invece rappresentare l’occasione per mettere in discussione il regime della proprietà intellettuale e gli accordi internazionali che lo hanno configurato. Migranti. Respingimenti illegali: oltre 2.000 nei Paesi Ue nei primi 3 mesi del 2021 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 maggio 2021 In soli tre mesi, nel 2021, le autorità hanno impedito illegalmente a 2.162 uomini, donne e bambini di cercare protezione. È ciò che emerge da un nuovo rapporto dal nome “Responsabilità respinte: violazioni dei diritti umani come trattamento di benvenuto alle frontiere europee” e redatto da sette organizzazioni, tra le quali l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), le quali hanno raccolto le testimonianze di migliaia di respingimenti illegali di migranti e rifugiati che cercavano di attraversare i confini dell’Europa. I casi di respingimenti illegali sono stati registrati da gennaio ad aprile in diversi valichi di frontiera in Italia, Grecia, Serbia, Bosnia- Erzegovina, Ungheria e Macedonia del Nord. Più di un terzo dei respingimenti documentati ha comportato abusi fisici e aggressioni, furti, estorsioni e distruzione di beni personali, per mano delle polizie di frontiera e delle forze dell’ordine nonché violazioni di diritti come quello di accesso alla procedura di asilo. “Il quadro agghiacciante che emerge da questo report ci palesa ancora una volta le dimensioni e le atroci conseguenze dei respingimenti alle frontiere. Appare chiaro quanto sia urgente fare luce sulle procedure attuate tanto più se, come spesso accade e come nel caso affrontato di recente dal Tribunale di Roma, i respingimenti non sono agevolmente contestabili e perseguibili in giudizio perché attuati senza la consegna agli interessati di provvedimenti scritti dunque in totale assenza di prove formali”, spiega Caterina Bove dell’Asgi. Inoltre il rapporto documenta 176 casi dei cosiddetti “respingimenti a catena” in cui i rifugiati e i migranti sono stati forzatamente inviati attraverso più frontiere tramite una cooperazione informale tra gli Stati per aggirare la loro responsabilità e spingere gruppi indesiderati fuori dall’Ue. Questo potrebbe essere avvenuto dall’Italia o dall’Austria passando per paesi come la Slovenia e la Croazia fino a un terzo paese come la Bosnia- Erzegovina. “È estremamente preoccupante vedere che così tante persone subiscono respingimenti e violenze alla frontiera. È evidente che gli Stati devono fermare la violenza e queste pratiche illegali, e i responsabili devono essere ritenuti responsabili”, dice Charlotte Slente, segretaria generale del consiglio danese per i rifugiati, una delle sette organizzazioni che hanno redatto il rapporto. Secondo il rapporto, per monitorare il rispetto dei diritti, è essenziale istituire meccanismi nazionali indipendenti per monitorare le frontiere e avviare automaticamente le indagini una volta che le prove vengono raccolte dal meccanismo o gli vengono riferite. Questo sarebbe uno strumento per ritenere i colpevoli responsabili, porre fine all’impunità e garantire l’accesso alla giustizia. A tal fine, si sottolinea nel rapporto, non c’è bisogno di “reinventare la ruota”, poiché esistono già molti meccanismi di monitoraggio. “È tuttavia necessario che il meccanismo possa eseguire efficacemente il suo mandato e che le sue conclusioni siano rispettate e attuate”, concludono nel rapporto le organizzazioni, che hanno avviato questa azione congiunta denominata Protecting Rights at Borders (Prab) Initiative, unendo le proprie forze per promuovere la tutela dei diritti umani lungo le frontiere europee. Il rapporto “Responsabilità respinte: violazioni dei diritti umani come trattamento di benvenuto alle frontiere europee” si basa sui dati relativi alla limitazione illegale all’accesso alla protezione lungo i confini dell’Europa, raccolti sistematicamente e analizzati accanto alla previsione di rimedi legali per le persone coinvolte. Si stima che il rapporto riveli solo la punta dell’iceberg. In molti luoghi lungo le rotte monitorate, alle Ong viene impedito di documentare la portata delle pratiche illegali. Altre sfide sono rappresentate dal fatto che le persone temono ripercussioni sul loro status o che viene loro impedito di proseguire il viaggio. Ricorrere ai respingimenti come mezzo per proteggere le frontiere degli Stati è illegale. Gli Stati hanno l’obbligo, secondo la Dichiarazione universale dei diritti umani e la Convenzione europea dei diritti umani, di assicurare che le persone possano effettivamente chiedere asilo e di rispettare il principio di non respingimento. Gli Stati hanno inoltre, secondo gli stessi ordinamenti giuridici, il divieto di effettuare espulsioni collettive e l’obbligo di trattare ogni persona con dignità umana. Migranti. Involucri vuoti: il rapporto del Garante sui Centri di Permanenza per il Rimpatrio di Gennaro Santoro openmigration.org, 19 maggio 2021 Assenza totale di attività, sostegno sanitario e standard abitativi e igienico-sanitari insufficienti, mancanza di trasparenza nel negato accesso a giornalisti e società civile. La situazione dei CPR, tratteggiata dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale nel suo nuovo rapporto, racconta di un sistema inefficace e che viola i diritti umani di persone che perdono la propria identità per essere ridotte a corpo da trattenere e confinare. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha da poco pubblicato il Rapporto sulle visite effettuate nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (Cpr) nel corso degli anni 2019 e 2020. Il quadro restituito dalle 44 pagine che compongono il dossier è desolante: minori detenuti, bagni senza porte e totale assenza di privacy, docce o servizi igienici non funzionanti e maleodoranti, ozio totale per assenza di attività, polizia sistematicamente presente durante le visite mediche e tanti eventi critici (5 morti nel solo 2020). Il rapporto si compone di una prima parte introduttiva con raccomandazioni di carattere generale per poi dedicarsi alle singole visite in tutti i CPR presenti sul territorio nazionale (Torino, Roma, Bari, Brindisi, Caltanissetta, Trapani, Gradisca d’Isonzo, Macomer, Milano) rispetto ai quali l’Ombudsman offre approfondimenti tematici relativi alle condizioni materiali di detenzione, alla tutela della salute, alla qualità della vita detentiva, alla libertà di comunicazione, alla sicurezza e all’ordine, all’isolamento, all’accertamento dell’età dei presunti minori, alla tutela dei diritti e ai registri (ad es. quello relativo agli eventi critici, del tutto assente nei CPR). Il Garante riporta casi concreti riscontrati durante le visite in quelli che definisce “involucri vuoti”, per sottolinearne la totale assenza di attività e far capire la necessità di un intervento normativo complessivo che compiutamente disciplini la vita detentiva. La necessità, ancora, di assicurare in concreto adeguati standard igienico-sanitari e abitativi (come da ultimo stabilito nel decreto Lamorgese), l’accesso a cure adeguate e ad una pronta e approfondita verifica di idoneità alla vita in comunità ristretta. Casi concreti, come quello relativo al decesso di due giovani nel 2020: A.E. a Caltanissetta, ed E.V., a Gradisca d’Isonzo. In entrambi i casi i giovani erano stati colti da malori e avevano richiesto l’intervento di un sanitario. Le cure prestate all’interno dei centri non sono state sufficienti ed entrambi sono morti. Il Garante osserva saggiamente che, al di là degli esiti dei procedimenti penali relativi ai singoli casi, ciò che manca è un raccordo con il Sistema Sanitario nazionale e, all’interno degli istituti, l’assenza di locali di osservazione sanitaria adeguati, per evitare di continuare a trattenere nei settori detentivi, privi dell’assidua supervisione e assistenza sanitaria, persone che chiedono o necessitano di un intervento medico immediato. “Manifestazioni di protesta, ribellioni e danneggiamenti alle strutture si sono succeduti senza sosta; inoltre, mai come in passato, si è verificato un numero così elevato di eventi tragici (…) Appare difficile non considerare tale serie di eventi infausti quantomeno il sintomo di realtà detentive gravemente e fisiologicamente problematiche, non sempre in grado di proteggere e tutelare la sicurezza e la vita delle persone poste sotto custodia”. Ma il rapporto non si limita a denunciare soltanto gli eventi critici e l’inefficienza dell’assistenza sanitaria, spingendosi a ribadire - come già fatto dal Garante Mauro Palma in altre occasioni - l’assenza di ragionevolezza e proporzionalità nel detenere per rimpatriare quando, da oltre 20 anni, si continua ad avere una media di rimpatri delle persone trattenute al di sotto del 50%. Assenza di legalità nel detenere, durante la pandemia, allorquando le frontiere erano chiuse e impossibile il rimpatrio, come ampiamente denunciato anche dalla CILD nel rapporto Detenzione migrante ai tempi del Covid. Il rapporto prosegue poi denunciando il totale isolamento di queste strutture dove alla società civile (ONG e giornalisti) non è consentito l’accesso. “Le visite realizzate - si legge - hanno confermato la sostanziale opacità delle strutture di detenzione amministrativa, generalmente chiuse al mondo dell’informazione e della società civile organizzata, che anche prima dell’emergenza sanitaria si vedevano regolarmente negare dalle Prefetture le richieste di accesso”. E dove ai trattenuti sono sequestrati i cellulari impedendo di fatto - ancor di più drammaticamente durante la pandemia - di poter conferire con i propri difensori e familiari. Insomma, un rapporto che tratteggia l’anatomia di un fallimento di una carcerazione senza pena, dove per un mero illecito amministrativo si finisce rinchiusi in “involucri vuoti”; dove non vi è un magistrato di sorveglianza che vigila sul rispetto della dignità umana (come avviene in carcere); dove il sistema sanitario viene delegato a soggetti privati (ente gestore) in luoghi insalubri e dove non vi è nulla aldilà dell’ozio e degli eventi critici. Dove in definitiva il migrante è trattato come hostis, come nemico pubblico, ci dice in premessa il Garante. Come se “l’individuo smettesse di essere persona con una propria totalità umana da preservare nella sua intrinseca dignità, dimensione sociale, culturale relazionale e religiosa per essere ridotta esclusivamente a corpo da trattenere e confinare”. Insomma, un rapporto da leggere e dal quale il Governo ed il Parlamento dovrebbero trarre conclusioni per finalmente implementare alternative alla detenzione e all’irregolarità, come sostenuto anche da tanti attori della società civile (vedi in ultimo il progetto pilota finanziato da Epim “Alternative alla detenzione: verso una gestione più efficace e umana della migrazione”). La riduzione, se non il superamento, del trattenimento in questi “involucri vuoti”, come li ha definiti il Garante è ormai improcrastinabile. Il fallimento, in termini di efficienza e, ancor prima, in termini di rispetto dei diritti umani è ormai sotto gli occhi di tutti e non ha senso continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto. Migranti. La “vendetta” del Marocco, in ottomila arrivano in Spagna di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 19 maggio 2021 Crisi a Ceuta, Pedro Sánchez vola nell’enclave: “Ristabiliremo l’ordine con la massima celerità. La sua integrità come parte della Spagna sarà garantita”, dice il primo ministro. Ieri, a metà giornata, il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez annulla un viaggio a Parigi, vola a Ceuta e parla al Paese. Usa toni gravi, decisi. “Voglio comunicare agli spagnoli, specialmente a quelli che vivono a Ceuta e Melilla, che ristabiliremo l’ordine con la massima celerità. Saremo fermi di fronte a qualsiasi sfida. L’integrità di Ceuta come parte della nazione spagnola sarà garantita dal governo con tutti i mezzi disponibili”. Cos’era successo? Ottomila migranti hanno assaltato le barriere tra il Marocco e l’enclave spagnola di Ceuta. Tra loro almeno 1.500 minori. La città costiera, come la gemella Melilla, è l’ultimo frammento dell’impero su cui non tramontava mai il sole. Pochi chilometri quadrati che per il Marocco sono fastidiosi, per la Spagna costosi, per chi tenta di lasciare l’Africa vie d’accesso all’Ue. Certo più sorvegliate, ma meno letali rispetto a Lampedusa o alle Canarie. La Spagna ha costruito muri alti 20 metri, piazzato filo spinato, posto barriere subacquee e, di solito, la collaborazione della polizia marocchina basta a evitare infiltrazioni. Lunedì e ieri no. Improvvisamente, come per un ordine, migliaia di migranti dal Mali, dal Niger, dal Senegal, ma anche tantissimi marocchini sono partiti a nuoto per aggirare le barriere che si spingono nel mare per decine di metri. Molti sono abitanti della città confinante che, dalla chiusura dei valichi per il Covid un anno fa, hanno perso il lavoro nelle enclavi. Un’ottantina ha tentato lo stesso anche a Melilla. Un centinaio è riuscito ad entrare a Ceuta all’alba di ieri e a disperdersi tra gli 80 mila spagnoli. La maggior parte, invece, è stata fermata sulla spiaggia. Ci sono state scene strazianti e altre più degne. Qualche blindato militare di Madrid è arrivato sulla sabbia scaricando soldati in giubbotto antiproiettile, elmetto e manganello. Alcuni migranti erano sfiniti e sono stati soccorsi. Tra loro un neonato. I minorenni sono stati separati. La maggior parte però è stata tenuta con i piedi in acqua per evitare che, anche simbolicamente, toccassero il suolo europeo. A sera meno della metà degli 8mila era già stata espulsa verso il Marocco in base ad un accordo in vigore. Gli altri, tranne i minori, dovrebbero essere mandati indietro oggi. Nella notte un migrante è morto annegato. L’ondata di ieri arriva al culmine di una crisi diplomatica tra Spagna e Marocco che dura da mesi. L’ambasciatrice del re Mohamed VI a Madrid, Karima Benyaich, non si è nascosta: “Ci sono azioni che hanno delle conseguenze”. Si riferiva alla presenza in un ospedale spagnolo di Brahim Ghali, il leader del Fronte Polisario per l’indipendenza del Sahara Occidentale. Ex colonia spagnola, la regione è occupata dal Marocco da trent’anni. A dicembre, però, gli Stati Uniti hanno cambiato gli equilibri. Pur di aumentare il numero dei Paesi musulmani che riconoscono Israele (Accordi di Abramo), Washington ha accettato la sovranità marocchina sul Sahara Occidentale. La Spagna ha protestato e quando Ghali ne ha avuto bisogno l’ha ricoverato. La tregua nel Sahara è rotta. Come a suo tempo fece il leader libico Gheddafi, come ha fatto la Turchia di Erdogan, anche il Marocco ha fatto capire che può usare i migranti come merce di scambio. La diga marocchina contro la migrazione si apre e chiude a comando. Tra i due estremi del Mediterraneo la guerra israelo-palestinese e quella del Sahara Occidentale si sono così collegate alla crisi migratoria che preoccupa l’Europa. La Spagna e l’Europa tutta sono avvertite. Medio Oriente. Protesta araba anche in Israele, sì di Hamas alla tregua egiziana di Davide Frattini Corriere della Sera, 19 maggio 2021 Giornata della rabbia da Haifa alla Cisgiordania, tre morti. Ancora razzi e raid. La serrata, le strade deserte, le saracinesche abbassate per provare a rialzare la voce. La giornata della rabbia coinvolge i palestinesi in Cisgiordania e quelli che vivono in Israele, questi ultimi cittadini a tutti gli effetti, minoranza che chiede di essere ascoltata. Non solo dalla destra che in questi anni li ha demonizzati come “una quinta colonna” all’interno del Paese, anche dai liberal che comprano casa a Jaffa per sentirsi dei paladini della coesistenza e di fatto si prendono gli appartamenti migliori, con le terrazze sul Mediterraneo. Come scrive Noa Landau su Haaretz, che di questa sinistra è il giornale: “C’è una giovane generazione di arabi che ha imparato l’ebraico, è andata all’università diventando medico o avvocato. Il prezzo era chiaro: sentirsi sempre di seconda classe e sopprimere la propria identità”. Così ieri sono scesi in strada ad Haifa, a Giaffa, a Ramle, a Tamra, in quelle stesse città sconquassate dai disordini in questi nove giorni di guerra tra Hamas a Gaza e Israele. Le proteste a Gerusalemme Est e in Cisgiordania si trasformano in battaglia, tre palestinese sono stati uccisi. Tra gli obiettivi dei capi fondamentalisti nella Striscia c’era fin dall’inizio quello di aprire un altro fronte: spingere la Cisgiordania a sollevarsi, Khaled Meshal - tra i leader dell’organizzazione - ha invocato da subito la possibilità di una terza intifada, rivolta in arabo. È quello che teme Benny Gantz, il ministro della Difesa israeliano, e che più va avanti il conflitto più rischia di avverarsi. “Hamas ha ricevuto colpi che non si aspettava”, commenta il premier Benjamin Netanyahu. I razzi da Gaza si sono fermati per cinque ore per permettere l’ingresso di aiuti e materiale attraverso i valichi: anche queste aree sono state colpite dai proiettili di mortaio e un soldato israeliano è rimasto ferito. I lanci dall’altra parte della barriera hanno ammazzato due lavoratori stranieri, i thailandesi sono impiegati nelle serre e nei campi in Israele. I morti in totale sono 12. L’aviazione e l’artiglieria hanno bombardato 120 obiettivi in 24 ore, tirato giù un altro palazzo di 6 piani - dopo gli avvertimenti per l’evacuazione - parte della strategia che vuole colpire anche gli interessi economici di Hamas, al potere nella Striscia dal 2007, da quando ne ha tolto il controllo con un golpe all’Autorità palestinese. I morti sono quasi 220, i feriti 1500. Al tramonto i portavoce militari israeliani annunciano una notte di bombardamenti ancora più intensi e allargati. Gli uomini dei servizi egiziani sono tornati a Tel Aviv per cercare di mediare un cessate il fuoco e avrebbero ottenuto il sì di Hamas per una tregua all’alba di domani. Il presidente Abdel Fattah Al Sisi promette 500 milioni di dollari in aiuti per la ricostruzione di Gaza: il Cairo vuol riprendersi il ruolo centrale nella partita che si gioca in questo corridoio di sabbia stretto tra Israele, l’Egitto e il Mediterraneo. Anthony Blinken, il segretario di Stato americano, sollecita l’intervento anche della Giordania e del Qatar, che in questi anni ha contribuito a mantenere la calma tra gli israeliani e Gaza grazie ai milioni distribuiti ad Hamas con il beneplacito di Netanyahu. L’Unione Europea chiede “un cessate il fuoco immediato” dopo una riunione d’emergenza dei ministri degli Esteri. Medio Oriente. Il diritto di difendere il popolo palestinese di Moni Ovadia Il Manifesto, 19 maggio 2021 Questione israelo-palestinese. Vogliono zittire le voci severamente critiche delle scellerate politiche di Netanyahu, fra queste quelle di democratici Usa come la deputata Ocasio Cortes e Bernie Sanders. La prima istanza che mi pare importante sollecitare parlando della questione israelo-palestinese è quella di chiedere ad alta voce all’informazione mainstream di accogliere tutte le opinioni sul tema anche quelle considerate “estremiste” e opposte al pensiero dominante e, nel caso che qualcuno ravvisi reati di opinione lo si inviti a rivolgersi ai tribunali invece di imporre censure preventive, opzioni discriminatorie o auto censure. Personalmente solo per avere esercitato il diritto costituzionale ad esprimere le mie opinioni a titolo personale sono diventato obiettivo di calunnie feroci e di minacce. Ogni volta che mi sono rivolto ai principali ambiti dell’informazione televisiva per parlare della questione ho trovato un muro di gomma. Detto questo non mi lamento per la mia persona, ma per il vergognoso silenzio sulla immane tragedia del popolo palestinese. Molte sono le domande inevase nel mondo occidentale o che trovano solo risposte retoriche, ipocrite o elusive. Il sociologo Adel Jabar, già professore di sociologia dell’emigrazione alla Ca’ Foscari, ne ha poste alcune che ritengo non opponibili. 1) Fino quando deve durare la colonizzazione e l’occupazione della terra di Palestina? 2) Perché Israele non vuole la soluzione dei due stati? 3) Perché Israele non vuole la soluzione di uno stato unico binazionale? 4) Qual è l’alternativa che si dà ai palestinesi? 5) Perché per il dissidente russo Navalny si fanno boicottaggi, sanzioni economiche e campagne mediatiche ma per le sistematiche violazioni israeliane della legalità internazionale non si fa nulla? 6) L’orientamento di Hamas può anche essere condannato ma ciò è sufficiente per negare ai palestinesi il diritto alla propria terra? A queste domande del professor Jabar vorrei aggiungerne una mia: come mai all’annuncio dato dalla Santa Sede di voler riconoscere lo Stato di Palestina il governo israeliano ha protestato? Sulla base di quale legittimità se non quella della prepotenza dell’occupante? I fatti sono chiari. Il governo israeliano di Netanyahu non vuole nessuno Stato palestinese, in nessuna forma se non forse quella di un simulacro di autorità priva di qualsiasi sovranità su piccoli bantustan, aggregati magari alla Giordania. Le intenzioni del premier israeliano si sono bene espresse nell’avere promosso il varo della legge dello Stato-Nazione, una legge segregazionista che esclude i palestinesi israeliani dalla piena cittadinanza la quale è riservata solo agli ebrei. Dunque i non ebrei diventano cittadini di serie b, per non parlare poi dei palestinesi dei Territori occupati che diventano paria su cui esercitare ogni tipo di arbitrio. Se qualcuno avesse dubbi al riguardo si informi sulla gestione da parte dell’autorità israeliana della pandemia da COVID 19 nei confronti dei palestinesi dei territori di cui l’occupante è responsabile per definizione secondo le più elementari convenzioni del diritto internazionale: più del 60% degli israeliani risulta vaccinato, solo il 3% i palestinesi dei Territori - senza dimenticare che in questi giorni arrivano pure a distruggere con i bombardamenti le strutture sanitarie palestinesi vitali in pandemia. Oggi nell’infuriare dei venti di guerra prevalgono le interpretazioni più schematiche ed emotive. Questa non è una guerra anche se ne ha certe apparenze. Ma la sproporzione fra le forze è talmente soverchia che alla fine Gaza ne uscirà ulteriormente devastata ammesso che si possa parlare di più devastazione in una terra già così martoriata, gli israeliani se la caveranno con danni limitati, le vittime palestinesi si conteranno a centinaia, quelle israeliane a unità. Sia chiaro: l’uccisione di ogni essere umano è una grande tragedia ma oramai da decenni il numero delle vittime palestinesi è smisurato. I sostenitori acritici delle ragioni di Israele sempre e comunque non vedono neppure le sofferenze dei palestinesi e se qualcuno gliele indica ne attribuiscono le responsabilità a loro stessi. In questa circostanza sostengono che l’attacco dei missili di Hamas era preparato da tempo e reiterano come un mantra l’articolo dello statuto di Hamas che parla della distruzione di Israele. Con questo vogliono chiudere la bocca alle voci severamente critiche delle scellerate politiche di Netanyahu, voci fra le quali si annoverano in questi giorni quelle di esponenti del Partito democratico degli Stati Uniti per fare qualche nome, la deputata Ocasio Cortes e Bernie Sanders, il quale per la cronaca è ebreo. Queste personalità oneste e coraggiose dovrebbero essere in particolare uno stimolo per i politici dell’Unione europea per rompere la cortina di ipocrisia e di pavida retorica che li porta ad appiattirsi sulla propaganda menzognera dell’establishment israeliano che pretende uno statuto di impunità nei confronti di una politica fondata sull’illegalità brutale di un’oppressione che non può avere alcuna giustificazione. Arabia Saudita, 20 anni di carcere per dei tweet di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 maggio 2021 Il 5 aprile Abdulrahman al-Sadhan, un dipendente saudita della Mezzaluna Rossa di 37 anni, è stato condannato dal Tribunale penale specializzato a 20 anni di carcere che dovranno essere seguiti da un divieto di viaggio all’estero per altri 20 anni. Arrestato nel 2018, al-Sadhan è stato vittima di sparizione forzata per quasi due anni. Dopo un ulteriore periodo di detenzione preventiva, il 3 marzo è comparso di fronte al tribunale speciale che si occupa di terrorismo, che al termine di un processo farsesco lo ha condannato per finanziamento del terrorismo, sostegno a un’entità terrorista, offesa a istituzioni e funzionari dello stato e diffusione di notizie false su questi ultimi. Le prove? Duecento pagine di tweet spesso satirici su temi politici e di giustizia sociale, estratti da un account anonimo attribuito ad al-Sadhan, seguite da due paginette di “confessioni”, estorte secondo i suoi familiari sotto tortura. Qui l’appello di Amnesty International per chiedere il rilascio dell’ennesimo dissidente finito in carcere in Arabia Saudita.: https://www.amnesty.it/appelli/arabia-saudita-condannato-a-20-anni-di-carcere-per-un-tweet/.