Rems, la Consulta dovrà decidere sulla gestione: sarà un ritorno al passato? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 maggio 2021 Il 26 maggio sarà esaminata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Gip di Tivoli sulla competenza delle Rems che potrebbe passare dal ministero della Salute a quello della Giustizia. C’è il rischio di un ritorno alla logica manicomiale? Il 26 maggio la Consulta dovrà esaminare la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Gip di Tivoli con l’ordinanza dell’11 maggio dello scorso anno. In sostanza, se dovesse essere accolta, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) passerebbero sotto la gestione del ministero della Giustizia e non più di quello della Salute. Cosa significherebbe? Il ritorno alla presenza della polizia penitenziaria nelle Rems, abolendo anche il numero chiuso e provocando, quindi, il sovraffollamento come in carcere. Per essere ancora più precisi, ciò snaturerebbe la Legge 81 (quella che ha superato gli ospedali psichiatrici giudiziari) che prevede, tra l’altro, il ricorso alle misure di sicurezza nelle Rems come estrema ratio. Il Gip di Tivoli critica la gestione esclusivamente sanitaria delle Rems - L’ordinanza del Gip di Tivoli critica la gestione esclusivamente sanitaria delle Rems e ricollega ad essa le inefficienze, presenti in alcune Regioni d’Italia, legate all’assenza dei posti nelle strutture e alle lunghissime liste d’attesa. Le criticità poste sono reali, ma la soluzione riporta al passato. La Consulta, quindi, il 26 maggio dovrà esaminare l’ordinanza del Gip di Tivoli che ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale degli art. 206 e 222 del codice penale e dell’art. 3 ter del D.L. n. 211/2011 (come modificato in sede di conversione in L. 9/2012 e con la successiva L. n. 81/2014) in relazione agli articoli 27 e 110 della Costituzione nella parte in cui sanciscono la competenza esclusiva di Regioni e organi amministrativi in materia di misura di sicurezza detentiva del ricovero presso le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sottraendola al ministro della Giustizia, e agli articoli 2, 3, 25, 32 della Costituzione nella parte in cui consentono con atti amministrativi l’adozione di disposizioni generali in materia di misure di sicurezza. Il caso specifico di un uomo affetto da un grave disturbo di psicosi schizo-affettiva - La questione in esame, parte da un fatto drammatico. Un uomo, con gravi turbe psichiche, era stato indagato per aver minacciato, in più di una occasione, il sindaco del suo paese per costringerlo a compiere un atto dell’ufficio e in particolare per indurlo a garantirgli la consegna di buoni alimentari. In una occasione aveva detto al sindaco: “te meno perché se te do ‘na pizza, il primario dove stavo m’ha detto che c’ho ragione” e inoltre in un’altra occasione ha tentato di aggredirlo nel suo ufficio per poi lanciargli contro un cartoccio di vino senza colpirlo. In sostanza, l’uomo risultava affetto da un grave disturbo di psicosi schizo-affettiva con tratti antisociali e dedito al sistematico abuso di alcolici. È stato quindi riconosciuto socialmente pericoloso e quindi gli hanno applicato in via provvisoria la misura di sicurezza presso una Rems. Ma, come spesso accade, la misura non gli è stata eseguita per la mancanza di disponibilità all’accoglienza delle strutture presenti sul territorio regionale. A questo si è aggiunto il fatto che è impossibile trasferirlo presso le Rems di altre regioni, perché viola il principio cardine di territorialità delle cure. Problemi, com’è detto, reali, ma il Gip solleva la questione di legittimità costituzionale, “in relazione agli artt. 27 e 110 Cost. nella parte in cui attribuendo l’esecuzione del ricovero provvisorio presso una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) alle Regioni e agli organi amministrativi da esse coordinati e vigilati, escludono la competenza del ministero della Giustizia in relazione all’esecuzione della detta misura di sicurezza detentiva provvisoria nonché nella parte in cui consentono l’adozione con atti amministrativi di disposizioni generali in materia di misure di sicurezza in violazione della riserva di legge in materia, rispetto a quanto previsto dagli artt. 2, 3, 25, 32 e 110 Cost.”. In discussione il principio cardine che supera la logica manicomiale - Il Gip di Tivoli, attraverso l’ordinanza, reclama dunque il ripristino della competenza in capo al ministro della Giustizia in relazione all’esecuzione della misura di sicurezza detentiva, nel caso di specie provvisoria, per malati psichiatrici autori di reato. Di fatto mette così in discussione il principio cardine che supera la logica manicomiale: ovvero l’esclusiva gestione sanitaria delle Rems, affidate esclusivamente alla sanità pubblica regionale, senza alcun potere decisionale o organizzativo del ministero della Giustizia; le ridotte dimensioni per evitare l’”effetto-manicomio”: la capienza massima di ogni Rems non deve superiore ai 20 posti. Una dimensione assimilabile a quella delle comunità terapeutiche, ma superiore a quella dei Servizi psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc) ospedalieri. La sfida, invece, dovrebbe essere quella di una tendenziale abolizione del “bisogno” di Rems. Da questo punto di vista, - come si legge nel rapporto di Antigone - “quello dei folli-rei, insieme a quello dei minori autori di reato, potrebbero diventare i primi due campi dell’esecuzione penale su cui sperimentare l’assenza”. Proposta legge per abolire i “folli rei” istituiti dal codice Rocco di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 maggio 2021 Primo firmatario Riccardo Magi di +Europa, sostenuta da un manifesto-appello indirizzato alla società civile. C’è sul tavolo una proposta di legge, primo firmatario Riccardo Magi di +Europa, che si prefigge di cancellare il Codice Rocco relativo ai “Folli rei”. In sostanza si tratta di completare la legge 81 che ha abolito gli ospedali psichiatrici giudiziari, ma che non ha intaccato il sistema del “doppio binario”: quello che riserva agli autori di reato - se dichiarati incapaci di intendere e di volere per infermità mentale - un percorso giudiziario speciale, diverso da quello destinato agli altri cittadini. Una carenza che non ha reciso la logica sottesa al trattamento dei “folli rei”. La proposta di legge, presentata dall’onorevole Riccardo Magi, è frutto di un’elaborazione collettiva, sostenuta da un manifesto-appello indirizzato alla società civile, promosso da La Società della ragione, l’Osservatorio sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, il Coordinamento delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) e dei dipartimenti di salute mentale (Dsm) e Magistratura democratica e firmato da giuristi, avvocati, operatori nel campo psichiatrico e militanti delle associazioni per la riforma della giustizia. Come ha ben spiegato Magi durante la presentazione in Parlamento, l’idea centrale della proposta di legge è quella del riconoscimento di una piena dignità al malato di mente, anche attraverso l’attribuzione della responsabilità per i propri atti. “Il riconoscimento della responsabilità cancellerebbe una delle stigmatizzazioni che comunemente operano nei confronti del folle. La capacità del folle di determinarsi non sarebbe completamente annullata in ragione della patologia e si verrebbe a rompere una volta per tutte quel nesso follia- pericolo che è stato alla base non solo delle misure di sicurezza, ma anche dei manicomi civili”, ha spiegato Magi. L’abolizione della nozione di non imputabilità è stata sostenuta da alcuni psichiatri e attivisti per la salute mentale, proprio come forma di riconoscimento di soggettività al malato di mente, in questo caso autore di reato. Il riconoscimento della responsabilità è anche ritenuto essere un atto che può avere una valenza terapeutica. Dopo cinque anni dalla chiusura degli Opg è quindi necessario un passo ulteriore. “Occorre rispondere alle spinte regressive, che mettono in discussione alcuni dei capisaldi della Legge 81/ 2014, come il numero chiuso nelle Rems e il principio di territorialità delle strutture, proseguendo nella direzione della riforma e superando il “doppio binario” pena- misura di sicurezza”, conclude il parlamentare di +Europa. Cartabia: “Praticare giustizia vuol dire rimuovere le cause del crimine” gnewsonline.it, 18 maggio 2021 È ricordando Giovanni Falcone che la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha esordito nel suo intervento durante la commemorazione della 30esima sessione della Commissione per la prevenzione della criminalità e la giustizia penale (Unodc) riunitasi ieri mattina a Vienna. Durante i lavori della Ccpcg, infatti, circa 30 anni fa nell’aprile del 1992, fu proprio il giudice Falcone a lanciare l’idea di una conferenza politica globale ad alto livello che avrebbe gettato le basi per una cooperazione internazionale più strutturata contro la criminalità organizzata. Si tracciava infatti: “Una nuova parabola nella lotta alla criminalità organizzata: da una visione individualistica e repressiva ad una profonda analisi strutturale ed economica del fenomeno criminale” - ha specificato la Ministra - ricordando come il giudice nel suo discorso abbia mostrato e colto l’essenzialità della lotta alla criminalità organizzata attraverso la cooperazione internazionale. Falcone aveva capito che la criminalità organizzata era una presenza inquietante, non solo per le sue azioni brutali ma soprattutto per le sue attività economiche. Nel suo intervento, la ministra ha toccato anche il tema del traffico dei migranti, spiegando come l’Italia resti pienamente impegnata nella prevenzione e nella lotta contro questo crimine, impegnandosi nella tutela dei diritti umani dei migranti vittime del traffico. In questo senso, molto c’è ancora da fare a partire dalla prevenzione e questo è il motivo per cui: “Valorizziamo e supportiamo campagne di sensibilizzazione e programmi dell’Unodc per affrontare le cause profonde e i fattori di spinta del traffico” - ha tenuto a precisare Marta Cartabia, che ha ricordato come “la Convenzione di Palermo e relativo “Protocollo contro il traffico di migranti” rappresentino i principali strumenti giuridici a livello globale per affrontare questo fenomeno, fiduciosi che il meccanismo di revisione recentemente varato, fortemente sostenuto dall’Italia, contribuirà a renderli più efficaci”. La cooperazione internazionale tra le autorità di contrasto e quella giudiziaria tra i paesi di origine, transito e destinazione sono essenziali. A questo proposito, l’Italia promuove, in collaborazione con l’Unodc, progetti innovativi volti a rafforzare la collaborazione con i Paesi africani nella lotta al traffico di migranti e ad altri reati connessi, in particolare la tratta di persone, anche attraverso attività di capacity building e di formazione. In chiusura di intervento, la Ministra ha poi aggiunto come sia utile rafforzare la cooperazione giudiziaria tra Paesi: l’assegnazione in Italia di un magistrato di collegamento dalla Nigeria, infatti, si è rivelato particolarmente fruttuoso tanto da essere replicato altrove. A tale proposito, è stato pianificato il dispiegamento di ulteriori magistrati di collegamento dai Paesi africani in Italia e presto sarà concluso un accordo con il Niger, anche grazie al sostegno fornito dall’Unodc. Ulteriori iniziative sono in corso per rafforzare la cooperazione giudiziaria tra l’Italia e gli altri paesi africani, in particolare con il Mali e il Senegal. Esaminando poi i risultati conseguiti dalla Commissione, Marta Cartabia ha voluto ricordare come seguendo proprio l’insegnamento di Giovanni Falcone: “Praticare la giustizia significa sforzarsi di rimuovere le cause del crimine, prevenire e sradicare le radici profonde dei crimini e non solo eliminarne i frutti malati”. A margine della Trentesima sessione della Commissione delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine e la giustizia penale in corso a Vienna, la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha avuto due incontri bilaterali: con la sua omologa austriaca, Alma Zadi?, e con il Direttore esecutivo del United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc) di Vienna, Ghada Fathi Waly. Giustizia, muro dei Cinquestelle sulla riforma. Scende in campo Conte di Liana Milella La Repubblica, 18 maggio 2021 La ministra Cartabia orientata a riprendere il modello della legge Orlando sulla prescrizione, superando il testo dell’ex ministro Bonafede. Ma i grillini vogliono un incontro con la Guardasigilli. E bocciano anche lo stop all’appello per pm e avvocati. Entra nel vivo la riforma della giustizia. Da via Arenula filtrano le prime soluzioni su prescrizione e inappellabilità delle sentenze sia per il pm che per gli avvocati. Ma non sarà il Parlamento a decidere le priorità dell’azione penale. Intanto però aumenta sempre di più l’insofferenza di M5S che contesta la progressiva cancellazione delle riforme dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. E, per la prima volta sulla giustizia, entra in campo anche l’ex premier Giuseppe Conte, nelle vesti di leader di M5S. Di domenica, per oltre un’ora, Conte ha discusso della riforma con Bonafede, ma soprattutto con i componenti della commissione Giustizia della Camera che, dalla prossima settimana, sarà chiamata a pronunciarsi sugli emendamenti al processo penale da mandare in aula per giugno. Una road map che s’incrocia con la riforma del Csm che, con un rush, potrebbe essere approvata entro l’estate. Mentre a giugno al Senato ci sarà il via libera del nuovo processo civile. Prescrizione e appello - Nel lunedì in cui la ministra della Giustizia incontra a Vienna il suo omologo austriaco, dal ministero filtrano due indiscrezioni importanti. Raccontano come sarà la futura prescrizione e il meccanismo del processo d’appello. Per la prescrizione si torna alla riforma dell’ex Guardasigilli Andrea Orlando. L’orologio del tempo si ferma alla fine del primo grado per due anni. Ma se il processo d’appello supera quei due anni non solo riprende a correre, ma recupera i due anni persi. Va da sé, come vedremo, che M5S lo considera un pugno nello stomaco. Va peggio con il processo d’appello. Funzionerà così: il pm non potrà fare appello, e neppure gli avvocati potranno farlo liberamente come oggi. Avranno una sola strada, quella di un ricorso che si chiamerà a “critica vincolata”. La legge stabilirà le linee guida, i motivi di possibile appellabilità, ai quali gli avvocati dovranno attenersi. È la vera novità rispetto alla legge Pecorella del 2006, bocciata l’anno dopo dalla Consulta, perché la Corte rilevò una disparità di trattamento tra il pm (che non poteva fare appello se perdeva il processo) e gli avvocati (che invece potevano farlo). Ora l’anomalia viene sanata. M5S non ci sta - Nel parterre delle proposte di Cartabia - che la prossima settimana diventeranno altrettanti emendamenti che saranno poi sub-emendati dai partiti in commissione Giustizia alla Camera - non c’è la previsione che sarà il Parlamento a decidere le priorità dell’azione penale. Ma questo non basta a mettere la sordina all’allarme di M5S sulla giustizia. Di domenica, per la prima volta, Conte incontra Bonafede e i deputati della commissione. Sul tavolo l’elenco delle lamentele - di cui si è fatto portavoce sabato con Repubblica l’ex sottosegretario Vittorio Ferraresi - che vanno dalla prescrizione all’appello. Conte suggerisce di chiedere un incontro alla Guardasigilli. Un “bilaterale” - come viene definito durante la riunione - che metta sul tavolo le proposte che M5S ritiene inaccettabili. E tra queste ci sono sia la prescrizione che l’inappellabilità delle sentenze, una riforma che, per il Movimento, sa tanto di Berlusconi. L’ennesima sfida di Costa - Una strada in salita per Cartabia. Che potrebbe incappare in uno ostacolo già questa settimana, quando in aula approderà il decreto per il nuovo concorso per i magistrati già votato al Senato. Sul quale Enrico Costa di Azione presenterà un emendamento destinato ad attrarre i voti del centrodestra. Perché l’aspirante toga, già prima del concorso, secondo Costa, dovrà dire se vuole fare il pm o il giudice. Quindi l’esame sarà diverso, le stesse materie, ma tracce differenti. E non basta. Perché sempre Costa è pronto a lanciare le “pagelle delle toghe”, una valutazione di professionalità che tenga conto anche dei processi, sia per il pm ma anche per il giudice. Anche in questo caso tutto il centrodestra sarà entusiasta. La corsa del processo civile - Infine i tempi delle riforme. La prima a tagliare il traguardo sarà quella della giustizia civile. Come dice il capogruppo del Pd in commissione Giustizia Franco Mirabelli “abbiamo già lavorato con i colleghi della Camera e quindi la riforma, una volta votata qui, potrà passare anche alla Camera”. Con la fiducia? Sicuramente. A luglio il nuovo processo civile che l’Europa ci chiede sarà legge. “Non volete la riforma”. “No, voi!” Valzer dei partiti attorno a Cartabia di Errico Novi Il Dubbio, 18 maggio 2021 Intanto alla Commissione Onu sulla giustizia penale, la guardasigilli ricorda che per battere il crimine “va assicurato il pieno rispetto dei diritti anche a imputati, condannati e detenuti”. Di fine settimana nervosi ce ne saranno ancora. L’ultimo è stato da bollino nero. Sabato, in particolare, Matteo Salvini ed Enrico Letta si sono sfidati a distanza sulla riforma della giustizia. “Cartabia può avere le idee chiare, ma se sei in Parlamento con Pd e M5S, per i quali chiunque passa lì accanto è un presunto colpevole, è dura”, ha detto il capo della Lega. Gli ha risposto il numero uno del Nazareno, con un perentorio invito a lasciare la maggioranza. Chiosa da Palazzo Chigi: fonti vicine al premier Mario Draghi si sono richiamate alla tabella di marcia sul Recovery, “poi verranno gli altri punti in agenda”, hanno ricordato. Anche la ministra della Giustizia Marta Cartabia, è stato fatto notare, compie “gli opportuni approfondimenti” e comunque “si procederà un passo alla volta”. Vanno bene le schermaglie, insomma, ma il governo non deve essere tirato per la giacchetta. Fino ai postumi delle ultime ore, con Giulia Bongiorno, responsabile Giustizia del Carroccio, che “rinnova la fiducia” alla guardasigilli ma critica i limiti ai ricorsi in appello per gli imputati, ed Eugenio Saitta, capogruppo pentastellato nella commissione Giustizia di Montecitorio, che con perfetta simmetria ieri ha espresso perplessità sull’idea di “abolire la possibilità di proporre appello per il pm”. Sembra un canovaccio banale, un po’ lo è, e forse è il sintomo indiretto che i piani del premier e della guardasigilli funzionano. Perché? Semplice: se i partiti sferragliano per affermare la loro identità, soprattutto sulla sempre gettonatissima materia penale, è perché vedono nell’equilibrio di Cartabia la tomba dei loro slogan. Salvini si aggrappa ai referendum promossi dal Partito radicale anche perché sa di non poter avere altri margini di visibilità sulla giustizia. Il Movimento 5 Stelle è già preparato a dover cedere il totem della prescrizione, una propria bandiera, perciò prova a far pesare la propria linea su altri aspetti della riforma. D’altra parte proprio il capogruppo Saitta ammette che anche sull’appello “sarà necessario attendere le effettive proposte della ministra”. Giusto. E gli emendamenti di via Arenula arriveranno a breve, entro questa settimana, in modo che i gruppi parlamentari possano mettere in cantiere i subemendamenti al ddl penale e che si possa poi entro la fine di maggio iniziare davvero a votare sulla riforma in commissione. Ma appunto, è inutile illudersi: stavolta la giustizia lascerà poco spazio ai partiti. È un problema politico, che avvertono tutti e che spiega come mai le tensioni generali fra l’asse giallorosso e la Lega si siano concentrate proprio sul processo: è una specie di fallo di frustrazione. Niente di più. Chi invece lavora sui contenuti è proprio Cartabia. Che è intervenuta ieri alla trentesima sessione della Commissione Onu per la prevenzione del crimine e per la giustizia penale (Ccpcj), tenutasi a Vienna, dove ha avuto la forza di ribadire l’impianto garantista del proprio mandato: “Non si può sottovalutare che il pieno rispetto dei diritti umani delle persone imputate e condannate, così come dei detenuti, sia un presupposto essenziale per un’efficace cooperazione internazionale e per un’efficace lotta alla criminalità”, ha detto. Un messaggio di grande valore anche considerata l’iniziativa che a breve governo e Parlamento italiani dovranno assumere sull’ergastolo ostativo: la legge sollecitata dalla sentenza della Consulta è destinata ad affermare perfettamente il principio secondo cui lo Stato di diritto vince se viene fatto valere anche con i peggiori criminali. Cartabia vede guardasigilli austriaca al vertice Unodc - Cartabia ha quindi avuto due incontri bilaterali a margine della sessione Onu. Il primo con la ministra della Giustizia austriaca Alma Zadi, alla quale ha chiesto notizie sull’iter di ratifica, da parte di Vienna, dell’accordo che istituisce il Tribunale unitario europeo dei Brevetti e, si legge in una nota di via Arenula, “ha illustrato la candidatura di Milano a ospitare una delle sezioni della divisione, sollecitando l’appoggio di Vienna”. Nel secondo “bilaterale” Cartabia ha visto Ghada Fathi Waly, direttore dell’Unodc, l’Ufficio Onu su narcotraffico e criminalità, con il quale si è confrontata “sulle attività in corso, nel contrasto al traffico di esseri umani, tema cui è dedicata la trentesima edizione della Ccpcj, e la necessità di rafforzare la cooperazione giudiziaria transnazionale”. La ministra ha richiamato con Whali “l’eccellente dialogo esistente a vari livelli tra Italia e Unodc”, anche grazie alla convenzione di Palermo del 2000, “di cui è stato approvato a ottobre 2020 un meccanismo di revisione fortemente sostenuto dall’Italia”. Waly ha voluto valorizzare, con la guardasigilli italiana, l’accordo firmato tra Unodc e Fondazione Occorsio che favorisce l’uso dell’intelligenza artificiale nella lotta al crimine organizzato. Giusto processo, quando il garantismo dovrebbe essere sovrano di Luigi Camilloni Il Riformista, 18 maggio 2021 Il principio della durata ragionevole del processo è uno dei principi processuali più rilevanti presenti nella nostra Carta costituzionale. La sua prima autorevole affermazione nell’ordinamento italiano giunge con la ratifica della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che lo consacra nell’art. 6, “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia”. Presunzione di innocenza - In aggiunta viene stabilito che “Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”. Con la Legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, che lo ha inserito nell’art.111 Cost. comma 2, il legislatore, dopo aver stabilito che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge” e che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale”, ha stabilito che “la legge ne assicura la durata ragionevole”. Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo. Recentemente la Corte di cassazione (Cass. Pen., Sez. II, 10 aprile 2018, n. 20125) ha confermato l’adagio secondo cui la documentazione dell’attività d’indagine che non venga depositata a mente dell’art. 415-bis c.p.p. diventa inutilizzabile nel corso del processo. Quindi, correlativamente, la Corte ha escluso che il comportamento elusivo del magistrato inquirente si traduca in una causa di invalidità dell’atto imputativo. Impostazione esegetica, questa, che non raccoglie consensi unanimi in dottrina e che si pone in rotta di collisione con un convincente orientamento giurisprudenziale minoritario, il quale, nel fare salve le indagini compiute secundum legem, censura con la nullità dell’atto di accusa la condotta del pubblico ministero che deposita solo una parte del materiale fruibile. Giusto processo - È palese che non depositando una parte del materiale fruibile si rischia di alimentare una disparità di trattamento, orientando le sorti processuali contro gli imputati. La decisione - a dir poco esemplare - del Tribunale di Perugia che, aderendo all’orientamento minoritario all’interno della giurisprudenza di legittimità, ha affermato il principio secondo cui “il mancato deposito da parte del Pubblico Ministero, sia antecedentemente sia successivamente alla notifica dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p., di atti delle indagini preliminari determina una nullità di ordine generale a regime intermedio - e non una inutilizzabilità - che può essere dedotta sino alla pronuncia della sentenza di primo grado”; Più in particolare “l’omessa integrale ostensione di atti delle indagini preliminari da parte del PM - ha affermato il giudice richiamandosi ad una recente sentenza di legittimità della Corte di Cassazione già sopra citata (10 aprile 2018, n. 20125) - impedisce all’indagato di esercitare compiutamente i diritti correlati alla notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, determina una lesione delle prerogative difensive che trova il suo strumento generale di tutela nella categoria della nullità a regime intermedio, disciplinata dagli artt. 178 e ss. c.p.p., dimodoché l’accoglimento della relativa eccezione - se puntualmente e tempestivamente dedotta - non si risolve nella mera declaratoria di inutilizzabilità dell’atto non depositato, come per lungo tempo affermato da altro orientamento della giurisprudenza di legittimità, ma assai più radicalmente nella regressione del procedimento alla fase in cui si è verificata la lesione del diritto di difesa, e ciò al fine di consentire al PM la riedizione della sequenza procedimentale in ossequio alla disciplina codicistica al fine di garantire una restitutio in integrum, anche postuma, delle garanzie difensive”. Tribunale di perugia - Alla coraggiosa decisione del Tribunale di Perugia si aggiunge quella del Tribunale di Ravenna con l’ordinanza 2 marzo 2021 che seguendo la via della controcorrente rispetto all’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità, circa la lesione delle prerogative difensive consumatasi nel caso sottoposto al suo esame, e tempestivamente eccepita dalle difese, il giudice dottor Cristiano Coiro ha dichiarato, sulla scorta delle argomentazioni di cui si è dato conto, la nullità della richiesta di rinvio a giudizio e degli atti conseguenti disponendo la restituzione degli atti al pubblico ministero. Sono tutte e due decisioni storiche processuali quelle dei Tribunali di Perugia e Ravenna dove il pubblico ministero, sia antecedentemente sia successivamente alla notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415-bis c.p.p., non depositava “una nutrita serie di documenti di sicura rilevanza nell’ambito del procedimento, in uno alla documentazione relativa agli esiti di una porzione dell’attività investigativa espletata nel corso delle indagini”. Il giusto processo regolato dalla Legge a cui va aggiunta l’omessa integrale ostensione di atti delle indagini preliminari da parte del Pubblico Ministero rappresentano dei capisaldi che disciplinano l’esercizio della funzione giurisdizionale. Ed è per questo motivo che il Ministro della Giustizia farebbe bene a monitorare costantemente. Dai rimborsi per gli assolti ai “tabulati”: i ddl garantisti da votare subito di Giorgio Spangher Il Dubbio, 18 maggio 2021 Quattro proposte in attesa della riforma del processo penale. L’intervento di Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto processuale penale alla Sapienza. In attesa della riforma (generale, rectius, ampia) del processo penale, in ordine alla quale, al di là delle buone intenzioni, si evidenzia il classico “urge… attendere”, anche per l’emergere di alcuni significativi “caveat”, ci sono alcune materie sulle quali è possibile, anzi necessario, provvedere. I limiti per i pm nell’acquisizione dei tabulati telefonici - Il primo riguarda l’urgenza di intervenire sulla disciplina dei tabulati in seguito alla sentenza della Corte di Giustizia Ue. Del resto, si tratta di dar seguito all’ordine del giorno accolto dal governo. Sarà necessario precisare non solo la competenza a provvedere, ma anche i profili oggettivi e soggettivi. Se, invero, sotto il primo aspetto la questione non appare suscettibile di “fughe” dalla decisione europea e dal citato o.d.g., molti interrogativi riguardano i reati (gravi) per i quali è possibile l’accesso, nonché il materiale (tra quello emergente dai dati a disposizione, piuttosto vasto) per il quale in una logica di proporzionalità l’autorizzazione può essere disposta, ed altresì i soggetti in relazione ai quali può essere autorizzata la conoscenza dei dati, non necessariamente il solo indagato. L’intervento è reso necessario dalla diversità delle pronunce che nell’immediatezza hanno affrontato l’operatività della previsione e dalle negative conseguenze processuali che potrebbero determinarsi dalle possibili pronunce della Cassazione, della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia rispetto all’utilizzabilità del materiale acquisito dal pubblico ministero. L’attuazione della direttiva sulla presunzione d’innocenza - Il secondo intervento (urgente) riguarda l’attuazione della delega della direttiva 343 del 2016, in tema di presunzione di non colpevolezza. La necessità di un tempestivo intervento sembra imporsi soprattutto in considerazione del grave ritardo nel suo recepimento. Al di là di aspetti di agevole attuazione e in parte già presenti nel tessuto normativo, il nodo centrale che bisogna affrontare - pur nella sua rilevanza ma proprio per questa ragione - attiene alle iniziative attraverso le quali gli uffici di Procura evidenziano i risultati investigativi tesi a presentare l’imputato come colpevole. Al di là delle ricadute - possibili - su esiti processuali suscettibili di sovvertire queste impostazioni, peraltro, con negative considerazioni della società sulla credibilità dell’istituzione giustizia, delle “frizioni” tra organi giudicanti e requirenti, il dato lede il principio fondamentale della presunzione di innocenza, del diritto di difesa e del diritto di cronaca. L’urgenza dell’intervento è correlata alla necessità di assicurare all’imputato un rimedio effettivo, in caso di violazione delle disposizioni, che deve rendere concretamente determinato e sanzionato il diritto a veder assicurata la garanzia di non essere additati come colpevoli - esclusi gli atti processuali legittimamente assunti - fino alla condanna definitiva. Istruire in Italia i “pareri” della Corte per i diritti umani - Il terzo intervento riguarda l’adesione dell’Italia al protocollo 16 della Cedu, la cui decisione è rimasta impantanata, per alcune resistenze, nei lavori delle commissioni parlamentari. Anche in questo caso si tratta di questione risalente al 2013. Si prevede di estendere la competenza della Corte europea dei diritti dell’uomo alla pronuncia di pareri consultivi, così da permettere alla stessa Corte di interagire maggiormente con le autorità nazionali, consolidando in tal modo l’attuazione della Convenzione europea, in modo conforme al principio di sussidiarietà. Si prevede, infatti, che le più alte giurisdizioni di ciascun Paese (allo stato il Protocollo è operativo per 14 Stati) possano presentare “richieste di pareri consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definite dalla Convenzione e dai suoi Protocolli”. Le riserve incentrate sulla ritenuta perdita di sovranità della nostra giurisdizione risultano infondate, essendo le decisioni non vincolanti. Del resto, se non ricordo male, la Corte costituzionale si era espressa favorevolmente all’adesione. Si tratterebbe di uno strumento che si colloca nella logica del dialogo tra le Corti, autentica nuova frontiera della circolazione e omogeneizzazione del diritto nello spazio comune europeo nel settore della giustizia. Attuare la legge sul rimborso delle spese legali agli assolti - Il quarto provvedimento - al di là delle relazioni al Parlamento su temi specifici (ad esempio sulle misure cautelari) sempre in ritardo - riguarda il decreto attuativo della legge che attribuisce all’imputato assolto il diritto di accedere a un parziale rimborso delle spese di difesa. Il termine previsto dalla legge è spirato. Ancorché si possa trattare di un elemento non decisivo, esso costituisce e costituirebbe un segnale di attenzione nei confronti di chi ha subito una lesione non soltanto patrimoniale ma soprattutto personale, che, senza risanare il vulnus sofferto, evidenzierebbe quella dimensione della solidarietà che è alla base della previsione, particolarmente significativa ora che si vogliono introdurre ipotesi di mediazione processuale, tese a cicatrizzare la vicenda delittuosa. Se c’è la volontà politica... Magistratura, il divario tra poteri e responsabilità di Luciano Violante La Repubblica, 18 maggio 2021 In molte vicende, comprese quelle attuali, sono stati assenti la disciplina e l’onore. Bisogna ricostruire la fiducia. Le linee di fondo delle riforme della giustizia appaiono convincenti. Ma per poter esprimere valutazioni approfondite occorrerà leggere le proposte specifiche, specie per le questioni più complesse. Tra queste rientra l’attribuzione al Parlamento del potere di decidere le priorità nell’esercizio dell’azione penale. Le Camere, se non l’hanno già fatto, potrebbero consultare il sito della Procura generale della Cassazione. Alla voce “Orientamenti per gli Uffici di Procura” sono pubblicati gli indirizzi per le singole procure, proposti dalla Procura generale dopo molteplici confronti. Si tratta di criteri non vincolanti, ma dotati di un significativo potere di influenza per materie delicate, come le intercettazioni telefoniche o l’iscrizione delle notizie di reato. Quando i criteri non siano stati osservati, il Parlamento potrebbe chiederne ragione ai titolari dei poteri ispettivi, ministro della Giustizia e Csm. L’obbiettivo è dare maggiore certezza a cittadini e imprese. Nella stessa prospettiva, anche per tranquillizzare gli investitori esteri, la competenza penale per le questioni societarie dovrebbe essere attribuita ai tribunali delle imprese, particolarmente specializzati in materia societaria, ma oggi competenti solo per i profili civili. Le difficoltà del Csm vanno affrontate con efficacia. Dagli anni Settanta la politica cede alla magistratura quote sempre più rilevanti della propria sovranità; il diritto è sempre meno legislativo e sempre più giurisprudenziale; la magistratura, non per sua scelta, è diventata una componente del sistema di governo del Paese. Ma alla espansione dei poteri non ha corrisposto l’adeguamento delle responsabilità. La crisi morale della magistratura nasce dal divario tra poteri e responsabilità. Occorrerebbe applicare l’articolo 54 della Costituzione: i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore. In molte vicende, comprese quelle attuali, sono stati assenti tanto la disciplina quanto l’onore. Lo statuto del Csm è calibrato non su questa magistratura, ma su quella della fine degli anni Quaranta, rigidamente gerarchica e collocata alla periferia del sistema politico costituzionale. Perciò Palazzo dei Marescialli fa fatica ad adempiere alle sue funzioni. Privo di una riforma, il Csm è stato costretto ad adeguarsi con interpretazioni estensive, chilometriche circolari e procedure ingarbugliate. Bisogna ricostruire la fiducia. Ma é illusorio confidare in una nuova legge elettorale; dopo la prima, del 1958, ne sono state approvate altre sette, ma i mali si sono aggravati perché non dipendono dalla legge elettorale. Se il vicepresidente del Csm venisse nominato dal presidente della Repubblica, che ne è presidente, i patti preliminari tra candidati e correnti dell’Anm, che condizionano l’intera vita del Csm e ne frenano l’autorevolezza, non avrebbero più ragion d’essere. Se si costituisse un’Alta Corte, composta con gli stessi criteri della Corte Costituzionale, che decida sulle impugnazioni contro le decisioni disciplinari e amministrative del Csm avremmo un sistema di “governo” della magistratura adeguato al nuovo ruolo. Sono riforme costituzionali, in partenza divisive, e sappiamo che la maggioranza non intende affrontare riforme la cui discussione potrebbe nuocere al governo. Tuttavia non affrontare riforme indispensabili, come in questi casi, potrebbe nuocere al Paese e vanificare molti degli sforzi che si stanno facendo in altri settori. La riforma della giustizia è un’altra cosa di Alessandro Barbano Gazzetta del Mezzogiorno, 18 maggio 2021 È rimettere il potere giudiziario in equilibrio con le altre istituzioni democratiche e con le funzioni che gli assegna la Costituzione. “Se qualcosa non è reato a Catania, non dovrebbe esserlo neanche a Palermo: per questo bisogna riformare la giustizia”, dice Matteo Salvini, fresco di proscioglimento. “Lo scandalo del Csm è uno stimolo in più per riformare la giustizia”, dice Enrico Letta in streaming. È la sindrome della sineddoche: ciascuno vede, con la sua esperienza, una piccola parte del tutto, e s’immagina che quella parte sia il tutto. Per i Cinquestelle la riforma della giustizia coincide con qualche paletto sui tempi dei processi. I Radicali e la Lega invece raccolgono le firme per fare la riforma a colpi di referendum abrogativi, di cui si conoscono per ora i titoli: responsabilità civile dei magistrati, magistrati fuori ruolo, custodia cautelare, ergastolo, separazione delle carriere. La guardasigilli Cartabia da par suo arringa la politica, ammonendo a trovare convergenze e paventando il rischio che lo stallo sulla riforma chiuda il rubinetto dei miliardi europei. Ma le commissioni di esperti, da lei istituite, sanno che l’eterogeneità della maggioranza è una somma di veti contrapposti, e che l’agibilità riformatrice è ridotta realisticamente a ridurre i tempi delle indagini, limitare il ricorso all’appello, allargare i riti alternativi e ripristinare il decorso della prescrizione. Ma riformare la giustizia è un’altra cosa. È rimettere il potere giudiziario in equilibrio con le altre istituzioni democratiche e con le funzioni che gli assegna la Costituzione. Perché troppe cose sono andate fuori posto. Il ruolo del pm è senza dubbio la prima ad aver scarrocciato dai binari di una fisiologia sana, per diventare un fattore di turbativa del sistema giudiziario e di quello democratico. L’indipendenza della magistratura inquirente coincide con la sua irresponsabilità. Non solo rispetto agli altri poteri dello Stato, ma anche rispetto al suo stesso ufficio, dove il pm opera esercitando un pieno controllo gerarchico della polizia per la conduzione delle sue indagini. In un sistema accusatorio incompiuto, dove il ruolo dell’accusa è andato via via crescendo rispetto a quello della difesa, il pm si muove per tutta la lunga fase delle indagini preliminari come un poliziotto totalmente autonomo. Ciò rappresenta un unicum rispetto alla maggior parte delle democrazie liberali, dove non esiste una figura processuale dotata di poteri di polizia tanto ampi, quanto non soggetti a controllo. Manca anzitutto un controllo gerarchico, perché l’azione di ogni singolo magistrato inquirente è ancora sottratta, in nome dell’indipendenza, a un vaglio di merito da parte del capo dell’ufficio. E manca un controllo giurisdizionale connesso a una effettiva responsabilità rispetto all’appropriatezza dell’azione penale. Perché, se pure a distanza di anni il giudizio di appello o di Cassazione certifica che questa è stata avviata per motivi penalmente irrilevanti, o addirittura inesistenti, nessuna responsabilità concreta sarà mai imputata al pubblico ministero, né sotto il profilo disciplinare né ai fini di una valutazione della sua professionalità. Ogni tentativo di configurarla s’infrange contro il muro dell’obbligatorietà dell’azione penale, in nome della quale è sempre possibile invocare l’esistenza di indizi di reato che il pm era tenuto a verificare. Così questo principio costituzionale compie il miracolo di trasformare la più spregiudicata discrezionalità in un atto dovuto per legge. Come ricorda uno dei più autorevoli studiosi dei sistemi penali, Giuseppe Di Federico, il pericolo dell’arbitrarietà è tanto più grande in un Paese dove i reati commessi sono molto più numerosi di quelli che concretamente possono essere perseguiti. Ciò significa lasciare al pm, attraverso la sua insindacabile scelta, l’esercizio della politica criminale. Ma in nessuno dei paesi a consolidata tradizione democratica la politica criminale è sottratta alla responsabilità di organi che rispondono politicamente ai cittadini. Questo sconfinamento in un ambito propriamente politico si specchia in quel fenomeno di irrituale investitura popolare che la magistratura in Italia ha ricevuto in alcuni passaggi chiave della storia repubblicana e che rappresenta una prima turbativa rispetto alla separazione dei poteri su cui si fonda la democrazia rappresentativa. Il Consiglio superiore della magistratura riflette tutte le contraddizioni qui raccontate e portate alla ribalta dai recenti scandali. È un organo politico- corporativo a cui spetta il delicato compito di decidere gli avanzamenti di carriera dei magistrati, in assenza di un sistema gerarchicamente organizzato, cioè in assenza di una subordinazione che rifletta una gerarchia dei saperi e delle esperienze a cui far corrispondere coerenti valutazioni di merito. A cos’altro appendere allora il destino delle carriere, se non ai rapporti di forza e agli accordi transattivi e di reciproco scambio tra le aggregazioni in cui la magistratura si divide e si articola? Ci sono procure che sono rimaste scoperte per più di un anno per il mancato accordo tra i diversi cartelli della magistratura associata, altre che sono state coperte solo dopo una spartizione concordata, con reciproche concessioni, di tutti i posti vacanti. La politica ha perso molte occasioni per depoliticizzare il CSM, mettendo mano a una riforma dell’ordinamento giudiziario, più volte annunciata e mai compiuta, e ridefinendo i confini di un’indipendenza che ha fin qui impedito l’adozione di regole e principi di efficienza organizzativa. La seconda asimmetria della giustizia italiana è l’ampiezza della custodia cautelare. Più di un detenuto su tre, cioè il 34,5 per cento contro una media europea del 22,4, è in carcere in attesa di giudizio, cioè in assenza di una sentenza definitiva che ne certifichi la colpevolezza. Ed è sintomatico che questa percentuale sia rimasta altissima nonostante i presupposti per l’adozione delle misure cautelari siano stati modificati in maniera più stringente, incentivando anche il ricorso alla detenzione domiciliare. Ciò vuol dire che le riforme garantiste scivolano sul corpo di un sistema dove sono i rapporti di forza tra i vari attori a fare in concreto la legge. Il terzo fattore di squilibrio del sistema è il più grave ma anche il più sottovalutato, perché più tecnico e più difficilmente comprensibile dai cittadini. Riguarda lo slittamento da un diritto penale fondato sul reato a un diritto penale centrato sulla figura del reo. Un diritto penale di marca liberale mette al centro il fatto tassativamente descritto dalla norma, in quanto lesivo di un bene giuridico tutelato dall’ordinamento. Il reato di omicidio persegue l’atto di uccidere che attenta al bene, massimamente protetto, della vita umana. Ciò implica due conseguenze: la prima è che la gravità del reato si collega alla sua offensività, cioè alla sua capacità di danneggiare il bene, oggetto di tutela. Non a caso i reati di pericolo, dove la lesione del bene è solo potenziale, e i reati di opinione, dove il bene si fa fatica a individuarlo senza sconfinare in una valutazione morale, trovano in un diritto penale liberale un’applicazione molto limitata, a tutela della libertà individuale. La seconda conseguenza riguarda il rapporto dell’azione penale con il reo: se persegue l’assassino, lo fa in quanto colpevole, cioè autore del fatto che costituisce il reato. Il comportamento o, addirittura, la personalità dell’omicida valgono per valutare la gravità del reato nel contesto in cui si compone il fatto, non come elementi penalmente rilevanti in sé. In un diritto liberale è la colpevolezza, non la pericolosità, il presupposto dell’azione punitiva dello Stato. Perché la pericolosità è potenzialmente pericolosa. Implica un giudizio dell’autorità sul presunto reo che non rispetta i confini di tassatività della norma penale e il più delle volte sconfina nel soggettivismo. Il diritto penale in Italia sta sposando pericolosamente la pericolosità. Anzitutto con una serie di fattispecie penali inoffensive in sé, cioè prive di una lesione del bene giuridico. Pensate per esempio al traffico di influenze, un reato introdotto dalla legge Severino il cui confine con l’attività lecita del lobbismo è del tutto indeterminato e, quindi, soggettivamente determinabile. La tendenza a fare della pericolosità - o anche del semplice pericolo di un pericolo - il fondamento dell’accertamento penale e della sanzione è specchio dell’influenza che ha il processo mediatico nel processo penale e della confusione che tra i due livelli si determina. Con l’effetto che l’oggetto del contendere non sono più i fatti costituenti reato, le azioni per compierli e gli elementi soggettivi del dolo e della colpa, ma le mere intenzioni non qualificabili come elementi della colpevolezza, e perfino i desideri irrealizzabili dei soggetti che entrano nel radar dell’indagine. Ciò che rende intenzioni e desideri legittimamente ostensibili non è la fondatezza probatoria, ma l’intensità del sospetto, desumibile dal numero di associazioni e collegamenti che è possibile stabilire tra le notizie acquisite. È in questa valutazione quantitativa che la captazione informatica di una microspia diventa centrale, per la sua capacità di condensare la grande mole di dettagli, indizi, associazioni e richiami presenti in una sezione di relazioni personali. Ma la raccolta e l’esibizione indiscriminate di reperti umani si rivelano invasive oltre ogni limite. Non solo perché ignorano qualunque distanza spaziale tra noi e gli altri, liquefacendo nell’iper-pubblicità dell’indagine preliminare la privatezza e perfino il pudore di una confidenza. Ma perché, costipando la dimensione del tempo in un presente fatto di attimi captati, riducono la volontà delittuosa a un’espressione, riavvolgono la colpevolezza in un frammento in cui si perde ogni differenza tra un piano e un’intenzione, tra un’intenzione e un desiderio, e tra un desiderio e un’emozione. Il processo mediatico prevale sul processo penale, e un metodo, che non fa onore a chi scrive definire “giornalistico”, tipico del primo, si insinua nel secondo, alimentando una confusione pericolosa. Così si realizza quello slittamento da una giustizia che punta ad accertare la colpevolezza a una che si contenta di rappresentare una pericolosità desumibile da un giudizio sulle intenzioni e sulle relazioni. La confusione non opera solo sovrapponendo un giudizio mediatico a un giudizio penale, e oscurando quest’ultimo a vantaggio del primo. Ci sono casi in cui il fenomeno è più ampio, integra uno scambio di paradigmi, per cui i criteri operativi con cui il giornalismo interpreta la notiziabilità e il senso della sua contrapposizione ai poteri sembrano riflettersi sul processo. È la sostituzione dell’illiceità penale con una generica ingiustizia. L’effetto è una dilatazione di alcune fattispecie, come la corruzione, oltre i confini di una patrimonialità in cui tradizionalmente si esprimeva la concreta lesione di un bene giuridico tutelato dalla norma penale. La nuova forma che la corruzione assume è giuridicamente inoffensiva, anche se moralmente riprovevole. Ma c’è ancora uno spazio ampissimo in cui la democrazia italiana ha sdoganato la pericolosità come il fondamento della pretesa punitiva dello Stato: è la legislazione speciale antimafia, interamente fondata sul sospetto, e la sua manomorta giudiziaria costruita sulle confische. Il suo Corano è il codice per l’applicazione delle cosiddette misure di prevenzione, che consente allo Stato di acquisire patrimoni finanziari, immobili e aziende in assenza di un giudicato penale, cioè prima che sia intervenuta una sentenza di condanna. La sottrazione della proprietà avviene con un procedimento in camera di consiglio, che valuta la pericolosità sociale dei titolari dei beni e l’inspiegabile sproporzione tra la ricchezza conseguita e i mezzi professionali e finanziari diretti a produrla. Le misure di prevenzione sono il sistema normativo più illiberale dell’Occidente. Sono figlie di un diritto cosiddetto del doppio binario, un diritto autoritario adottato dopo l’Unità d’Italia dalla destra storica per debellare i briganti, usato dai governi di fine Ottocento contro i primi sindacalisti e i movimenti operai, fatto proprio dal Fascismo contro i dissidenti, e sopravvissuto fino ai giorni nostri, nonostante la Carta costituzionale non ne facesse menzione, con l’intento, chiaro nei lavori preparatori, di abrogarlo per sempre. È la legge dei cattivi, delle regole spicce, del fine che giustifica i mezzi. Lo abbiamo eternato per combattere la mafia. E lo abbiamo difeso contro evidenza e ogni censura, come quella della Corte di Giustizia Europea, che ha invano esortato l’Italia a circoscriverne le fattispecie di pericolosità sociale, perché ritenute troppo generiche. Da qualche anno il diritto del doppio binario si è esteso a una enorme serie di ipotesi accusatorie, che vanno dalla mafia al peculato semplice, passando per la corruzione e l’abuso d’ufficio. Così il processo somiglia a un luogo dove si può entrare inconsapevolmente ben vestiti ed uscirne dopo anni nudi, senza sapere perché. Se la notte della giustizia è così nera quanto dicono gli eccessi e le distorsioni qui raccontate, pensare di illuminarla con la candela di un singolo cambiamento è una velleità figlia dei tempi. Un progetto riformatore deve sottrarsi a ogni tentativo di politicizzare la crisi, facendone una demagogica leva di consenso, o di sottostimare le sue conseguenze al rapporto tra magistratura e politica, ignorando l’impatto che invece l’esercizio dell’azione penale ha sulla vita e sulla libertà dei cittadini e delle imprese. Riformare la giustizia significa perciò molte cose insieme combinate tra loro: 1. Ridurre l’invadenza del processo penale nella vita delle persone, depenalizzando, riducendo i tempi dei processi attraverso vincoli disciplinari e processuali, cancellando lo stop alla prescrizione e abolendo l’appellabilità delle sentenze di assoluzione di primo grado; 2. Rendere concreta la presunzione di innocenza in tutta la dinamica del processo, restituendo concretezza ed effettività alle garanzie difensive, mortificate anche da una prassi inquisitoria che si afferma contro gli stessi codici, e subordinando il rinvio a giudizio all’esistenza di precisi e non contraddittori elementi indizianti, vagliati da un’udienza preliminare che torni a essere uno “scudo” a salvaguardia della persona contro le accuse infondate; 3. Rimettere in discussione la posizione del pm nell’ordine giudiziario, rispetto alla sua carriera e alle sue funzioni, riaffermando la terzietà del giudice; 4. Sottrarre alla magistratura inquirente l’individuazione di criteri di priorità, al fine della selezione delle notizie di reato da trattare, riservando unicamente al Parlamento il compito di temperare il principio di obbligatorietà dell’azione penale con regole fondate su trasparenti criteri di politica giudiziaria. 5. Riformare l’ordinamento giudiziario e il CSM, ridefinendo i confini dell’indipendenza della magistratura, riaffermando principi di efficienza organizzativa e di valutazione del merito a cui ancorare le carriere, tipizzando anche profili effettivi di responsabilità civile. 6. Limitare l’uso della custodia cautelare ai casi di stretta necessità, ridimensionandone i presupposti e sanzionandone gli abusi; 7. Limitare l’uso delle intercettazioni, la loro utilizzabilità e la loro diffusione, alla necessità di acquisire effettive e pertinenti fonti di prova del fatto costituente reato, contemperando le esigenze investigative con il rispetto della privacy, in specie di soggetti terzi; 8. Riportare il diritto penale dal reo al reato, tipizzando alcune vaghe fattispecie prive di offensività e ancorando l’irrogazione della pena alla colpevolezza accertata e non alla pericolosità presunta. 9. Riconvertire la legislazione speciale antimafia al rispetto delle garanzie costituzionali, limitando l’ambito di applicazione a condizioni eccezionali e tassative. 10. Rendere effettiva la funzione rieducativa della pena, sancita dalla Costituzione, abolendo l’ergastolo ostativo e ogni forma di detenzione che risulti contraria a principi di umanità, varando una riforma del sistema penitenziario improntata alla risocializzazione del condannato, attraverso il ricorso a misure alternative al carcere e a esperienze di giustizia riparativa. Prima ancora che nel Parlamento e nell’universo del diritto, la riforma va costruita nel Paese. C’è un punto della nostra storia repubblicana in cui la notte della giustizia ha gettato l’Italia in un buio asfissiante, in cui l’indagine, il sospetto, l’ansia della punizione sono diventati la grammatica di una “democrazia penale”. Questo non ha coinciso con un singolo provvedimento legislativo, ma con il prevalere di un’idea nel corpo sociale: che conoscere il contenuto delle intercettazioni penalmente irrilevanti fosse giusto e doveroso per illuminare il lato oscuro del potere. Quando un simile convincimento si afferma come una religione civile, di marca illiberale, perfino il valore della trasparenza muta in ipersorveglianza e la stanza di vetro della democrazia somiglia a una stanza dell’orrore. La riforma della giustizia coincide perciò, più di ogni altro obiettivo politico, con una convincente pedagogia civile, diretta a ricostituire nell’opinione pubblica l’idea che la legge penale è l’extrema ratio della democrazia liberale e non la sua lingua. È questo il primo impegno di una politica che si dica riformatrice. Niente indennità di disoccupazione all’ex detenuto che ha lavorato per l’A.P. di Guido Baccicalupi La Nazione, 18 maggio 2021 Un 48enne di Carrara aveva svolto attività professionali durante la permanenza in carcere a Prato ma il suo caso non è recepito dall’Inps. Voleva l’indennità di disoccupazione un detenuto carrarese di 48 anni appena uscito dal carcere per aver lavorato mentre stava scontando la pena. Si è rivolto al tribunale ma il giudice del lavoro Augusto Lama ha respinto la sua richiesta. L’ex detenuto, dunque, non potrà usufruire dell’assegno di disoccupazione. Nella sentenza dei giorni scorsi, il giudice rileva che “ Il lavoro fatto svolgere ai detenuti all’interno delle case di reclusione, o degli altri istituti di internamento ha il dichiarato intento di riabilitare con il lavoro i cittadini sottoposti all’esecuzione di condanne penali, nel solco della nota finalità rieducativa della pena prevista dalla Costituzione e la conclusione dei rapporti di lavoro che nascono in tal senso, non è collegato ad un atto risolutivo unilaterale del datore di lavoro, ma semplicemente alla conclusione dell’esecuzione, o di una fase della complessiva esecuzione della pena inflitta agli stessi. Ma questa finalità, del tutto istituzionale e comunque condivisibile, non può - è questo il parere del giudice Lama - portare ad un’interpretazione estensiva dell’applicazione dei benefici previsti ancora dalla legislazione lavoristica e sociale a favore dei lavoratori licenziati, ad una situazione del tutto differente, come quella del detenuto lavoratore in espiazione di condanna penale all’interno di una casa di reclusione. Tra l’altro questa posizione generale trova conferma anche nella circolare dell’Inps del 5 marzo dell’anno 2019, che pure una certa apertura alla tesi del ricorrente ha manifestato, nel senso che l’Inps ha ammesso la possibilità del ricorso al trattamento Naspi degli ex detenuti lavoratori, se la prestazione lavorativa sia stata resa a favore di datori di lavoro diversi dall’Amministrazione Penitenziaria, ma nel caso in specie il rapporto di lavoro si era instaurato proprio tra il detenuto e l’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia e le attività di lavoro sono state rese all’interno della Casa circondariale di Prato, ove era ristretto. Il ricorso non è stato accolto e la domanda respinta. Milano. Carcere, durante la pandemia in aumento i fallimenti delle misure alternative redattoresociale.it, 18 maggio 2021 All’Uepe di Milano registrato un maggior numero di revoche per “andamento negativo” dell’affidamento, per “commissione di altri reati” e per “irreperibilità” del detenuto. Hanno pesato l’inadeguatezza degli strumenti digitali e gli spazi di vita ridotti in cui vivono le persone seguite. La pandemia potrebbe aver influito anche sul buon esisto dell’applicazione delle pene alternative al carcere. L’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) di Milano ha infatti registrato nel 2020 un incremento delle revoche degli affidamenti, ossia di casi in cui viene sospesa la concessione delle misure alternative. È quanto emerso durante la seduta della sottocommissione carceri del Consiglio comunale. Nel 2019 l’Uepe di Milano ha seguito 3647 affidamenti. Le revoche sono state pari al 2,1% per “andamento negativo” (per esempio quando il tossicodipendente smette si seguire un percorso di riabilitazione), mentre quelle per “commissione di altri reati” l’1,2% e per “evasione o irreperibilità” lo 0,36%. Nel 2020 si è registrato un aumento sia delle revoche per andamento negativo (3,9%), sia per “commissione di altri reati” (1,9%) sia per “evasione e irreperibilità” (0,8%). “Non siamo in grado di dire con scientificità se e quanto la pandemia abbia causato un aumento di queste revoche -ha spiegato Agostina Maritini dell’Uepe di Milano-. Ma possiamo dire che sono tre le ragioni che potrebbero aver influenzato questo incremento. La prima è legata al fatto che non tutti i detenuti avevano gli strumenti digitali adatti per essere seguiti a distanza. Certo tutti hanno il telefonino, ma magari non la connessione a internet. La seconda riguarda gli spazi di vita. Spesso sono inadeguati e soprattutto il primo lockdown ha causato sofferenze e tensioni, visto che molti vivono in case piccole e sovraffollate. Terzo, la pandemia ha indotto queste persone a non chiedere aiuto, quasi che la situazione così particolare inducesse a non rivolgersi all’esterno nel momento in cui si viveva una situazione di difficoltà”. Un quadro che ricorda molto quanto vissuto da quegli studenti che la scuola “ha perso” con la didattica a distanza. Avellino. Focus carceri, in Irpinia è emergenza lavoro e sanità di Angelo Giuliani ottopagine.it, 18 maggio 2021 Il garante regionale Ciambriello lancia l’allarme: “Servono psichiatri nei penitenziari”. Un focus sulle carceri irpine in epoca di Covid. Il report 2020 del Garante dei detenuti Samuele Ciambriello presentato nella sala consiliare del capoluogo evidenzia problemi legati soprattutto al personale, alla sanità e all’inclusione sociale. 758 in totale le persone detenute 98 sono stranieri 169 atti autolesionistici un suicidio e altri 12 sventati grazie alla tempestività degli agenti della penitenziaria. Samuele Ciambriello, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, in collaborazione con l’Osservatorio regionale sulla detenzione, ha esposto il quadro della situazione per i quattro istituti penitenziari della provincia di Avellino, ovvero le case circondariali di Ariano Irpino “P. Campanello”, l’istituto cittadino di Bellizzi “A. Graziano”, la casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi e l’Icam di Lauro, una delle cinque strutture d’Italia adibita ad ospitare detenute madri con figli fino a sei anni d’età. A queste si aggiungono la Rems di San Nicola Baronia, e il Servizio psichiatrico di Solofra che conta 10 posti letto per la gestione dei Tso. Al 30 aprile 2021 le persone ristrette nelle quattro strutture è di 758 detenuti, di cui 98 stranieri. La popolazione è così distribuita: 195 su 275 posti disponibili ad Ariano, 426 su 503 a Bellizzi, 9 madri ristrette a Lauro con 9 bambini al seguito, e 129 a Sant’Angelo su una capienza regolare di 120. La provincia irpina, da questo punto di vista, risulta virtuosa rispetto al grave problema del sovraffollamento presente nel resto della regione. Così Samuele Ciambriello: “Rispetto al personale impiegato, coerentemente con la situazione regionale, è necessario evidenziare in provincia di Avellino la totale mancanza di mediatori culturali in pianta stabile e la cronica assenza di psichiatri. A Sant’Angelo, ad esempio, potrebbero esserci 7 detenuti malati di mente, c’è n’è uno solo, perché manca lo psichiatra. Manca inoltre del personale per l’area educativa, specialmente per Ariano Irpino, oltre a registrare diversi eventi critici, ovvero 169 atti di autolesionismo, 12 tentativi di suicidio sventati dalla polizia giudiziaria, che ringrazio pubblicamente, e un suicidio invece nel carcere di Bellizzi, il 19 aprile di quest’anno, per il 50enne Domenico Valentini, terzo caso in Campania da inizio anno. Durante il 2020, nonostante le forti restrizioni subite, il mio ufficio per le segnalazioni di detenuti, avvocati ed associazioni ha continuato ad operare. Ad Avellino abbiamo svolto 146 colloqui, mentre per il 2021 ne contiamo finora 21”. “Il tema della sanità è chiaramente fondamentale - rimarca Ciambriello - alla luce dell’anno appena trascorso. Sono stati effettuati ad oggi circa 574 tamponi ai detenuti e 1775 ai membri del personale. Al 13 maggio, i detenuti vaccinati sono stati 384. Sant’Angelo, inoltre, è l’unica struttura della provincia ad aver istituito un’articolazione specializzata con 6 posti letto per la tutela della salute mentale, nonostante le visite specialistiche non raggiungano un numero significativo per difficoltà del nucleo traduzioni”. Sul tema del lavoro, sono impiegati 356 detenuti tra le mura delle carceri: “La Regione Campania - riferisce il Garante - con un investimento di 300mila euro, ha messo in piedi progetti di inclusione sociale e socio-lavorativa per circa 800 persone di un’area penale esterna. È un modo concreto di andare incontro a chi esce dalle carceri, visto che la percentuale di recidiva è purtroppo molto alta, il 78% dei detenuti ci ricade, mentre questo vale solo per l’11% per le donne. Occorre incrementare il dialogo tra Magistratura di Sorveglianza ed associazioni per andare oltre le mura dell’indifferenza, come ad esempio fa con gran merito ad Avellino la Caritas. Sul tempo libero e la valorizzazione degli spazi, è impensabile che da circa 30 anni non sia mai stato ripristinato il campo sportivo del carcere di Bellizzi. Non solo, ad Ariano, è stato addirittura costruito un padiglione nuovo su quella che era l’area dedicata allo sport, sottraendo la possibilità ai detenuti di poterne usufruire. Ad ogni modo, sono fiducioso pensando che riflessioni e provvedimenti, denunce di criticità e buone prassi ci aiuteranno a superare la logica di un carcere rimosso, una discarica sociale, oltre all’idea, che è quella spesso di una politica cinica e pavida, di un carcere che sia una risposta semplice a temi complessi”. Reggio Emilia. Carcere, l’emergenza è senza fine Gazzetta di Reggio, 18 maggio 2021 Sovraffollamento, picchi di contagi, criticità strutturali: focus sulla situazione della Casa circondariale di via Settembrini. Il focolaio Covid scoppiato nel carcere di via Settembrini, con circa 150 contagiati e una settantina di positivi fino a qualche giorno fa, ha fatto convergere gli sguardi su ciò che accade all’interno dell’istituto penitenziario reggiano. Istituto in cui, non dal 2020 e non solo a causa del Covid, la situazione è complicata e tutt’altro che rosea. Dopo il sovraffollamento critico raggiunto nel triennio 2017-2019, con un picco di +146,5 per cento, nel 2020 la popolazione carceraria dell’istituto penale di Reggio Emilia ha subìto un calo che ha fatto scendere la percentuale di oltre 20 punti rispetto al 2019. Con una significativa diminuzione anche i detenuti stranieri, che ora sono 197. Eppure a Reggio Emilia continuano a esserci una settantina di detenuti in più del dovuto (al 31 dicembre del 2020 i detenuti presenti erano 367, su una capienza regolamentare di 294) e, soprattutto, sezioni particolari che rendono più difficile la gestione complessiva. Alla Pulce è infatti presente una sezione femminile (che, sempre stando ai dati del 31 dicembre 2020, ospita 16 detenute), una per transessuali e l’articolazione per la Tutela della salute mentale (Atsm), suddivisa a sua volta in due sezioni, Centauro e Andromeda. Al 31 dicembre 2020 i detenuti nell’articolazione di salute mentale erano 45, mentre sono state 74 le persone ricoverate complessivamente nel corso dell’anno. Criticità affrontate dalla Gazzetta in un colloquio con Marcello Marighelli, garante regionale delle persone private della libertà personale, nominato dall’assemblea legislativa della Regione il 12 dicembre del 2016, e che rimarrà in carica fino al prossimo dicembre. Salerno. Volontariato, accordo tra Csv e Uepe provinciale redattoresociale.it, 18 maggio 2021 Firmato un protocollo d’intesa per rafforzare l’attività informativa e formativa sul tema ma anche costituire una banca dati delle associazioni pronte ad accogliere condannati e imputati in esecuzione penale in esterna. Rafforzare l’attività informativa e formativa, oltreché l’inclusione sociale di imputati e condannati in esecuzione penale esterna: è l’obiettivo del protocollo d’intesa siglato dall’Ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna di Salerno e il Csv provinciale. Un ambito, quello della giustizia riparativa, in cui negli ultimi anni l’impegno di volontari e associazioni in tutta Italia sta via via crescendo e strutturandosi. Il protocollo vuole quindi promuovere e sensibilizzare la comunità su questo tema, ma anche ampliare la rete delle realtà del terzo settore locale, realizzando una banca dati delle associazioni pronte ad accogliere condannati/imputati adulti in esecuzione penale in esterna. La collaborazione tra l’Ufficio Udepe e il Csv, che si consolida con questo ulteriore protocollo, è stata avviata da oltre due anni e in passato si è concretizzata in momenti di formazione congiunta e di supporto all’accoglienza all’interno delle organizzazioni locali di imputati che hanno scontato la pena svolgendo attività di volontariato e di prossimità. L’accordo prevede già nelle prossime settimane lo svolgimento di incontri formativi per promuovere gli istituti della messa alla prova, giustizia riparativa e lavori di pubblica utilità nei confronti delle organizzazioni di volontariato e di promozione sociale che hanno già manifestato l’interesse ampliando, di fatto, gli Ets disponibili ad accogliere imputati ed indagati. Milano. Istituto penale minorile, riparte il progetto “Scherma nelle carceri” gnewsonline.it, 18 maggio 2021 Iniziato nell’agosto 2020 e sopravvissuto alle intemperie della pandemia, lo scorso aprile è ripartito più solido che mai il progetto “Scherma nelle carceri”, che si tiene nell’Istituto penale per i minorenni di Milano, capitanato da Lorenzo Radice, cofondatore e presidente dell’Accademia Scherma Milano fondata nel 2019. Obiettivo dell’Accademia è quello di includere, facendo in modo che nessuno resti indietro e ciascuno prenda su di sé la responsabilità della propria storia. Protagonisti sono infatti persone in carrozzina, ipovedenti, disabili intellettivo-relazionali, malati di Alzheimer, nonché donne coraggiose sopravvissute al tumore al seno. Questa la compagnia cui si affiancano i ragazzi dell’Istituto, per i quali si apre lo scenario di approcciarsi alle regole con un’arma in mano, la spada, che più di sciabola e fioretto li porta all’interno del duello medievale. I ragazzi sono invitati al rispetto di un redivivo codice cavalleresco, nel quale vincere significa non umiliare l’avversario, significa prendere decisioni in pochi istanti, imparando ad autogovernarsi per ottimizzare il proprio fare. Un’attività individuale, quindi, che però si può fare solo in gruppo e rende significativo il contatto. È un collocare il conflitto all’interno della convivenza con l’altro, non a detrimento della stessa. Un’attività in cui ogni incontro è chiamato “assalto”, ma si conclude puntualmente con un saluto e un ringraziamento dell’avversario. Una dialettica relazionale interessante che, attraverso codici comunicativi ben definiti, sta aiutando i ragazzi dell’Istituto penale per i minorenni di Milano a conoscere meglio loro stessi, le proprie reazioni interne, nonché il modo migliore di modularle nel proprio agito e nella reazione con l’altro. Napoli. La nuova serie podcast che racconta i detenuti del carcere minorile di Donata Marrazzo Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2021 Stupore, speranza, paura, fiducia, fratellanza, rabbia, malattia (e guarigione), sono i concetti chiave intorno ai quali i giovani detenuti dell’istituto Nisida ricostruiscono, attraverso ricordi, riflessioni, emozioni e piccoli componimenti, le proprie storie. Nisida è il cratere di un antico vulcano dove ribollono le vite dei ragazzi dell’Istituto penitenziario minorile di Napoli. Una piccola isola, come suggerisce l’origine greca del suo nome (Nesis), che guarda Posillipo dal mare, in cui una quarantina di giovani ripara al danno compiuto (o subito, spesso è questione di punti di vista) con la detenzione. Hanno tra i 14 e i 25 anni e sono quasi tutti napoletani o dell’hinterland metropolitano. In molti ritrovano la strada, ma solo dopo aver scontato la propria pena per i reati commessi. La serie - Il Sole 24 Ore gli dedica un podcast in 7 episodi, firmato da Donata Marrazzo (realizzato con la collaborazione di Paolo Mercuri), ispirato al libro “Dietro la curva c’è ancora strada. Appunti per un lessico nisidiando” (Guida Editori), a cura di Maria Franco. I ragazzi sperimentano attraverso i propri racconti (appunti, piccoli componimenti, riflessioni) il potere trasformativo della parola: stupore, speranza, paura, fiducia, fratellanza, rabbia, malattia sono sette parole chiave intorno alle quali i giovani detenuti ricostruiscono le proprie vite interrotte. Lo fanno all’interno di un laboratorio di scrittura che ha del miracoloso. Le voci - Lo cura l’insegnante Maria Franco, vincitrice dell’Italia teacher prize. “Nisida” racconta le loro storie con la voce prestata di Carlo Geltrude, Daniele Sanzone, Francesca Ritrovato, Benedetta Persico, e gli interventi degli scrittori che insieme a Maria Franco, conducono il laboratorio: Viola Ardone, Sara Bilotti, Riccardo Brun, Daniela De Crescenzo, Antonio Menna, Mario Gelardi, Patrizia Rinaldi. Il racconto degli invisibili - Sentirete nelle affermazioni del direttore dell’istituto penitenziario Gianluca Guida, a Nisida da 25 anni, tutta la forza di chi governa situazioni così delicate, in cui alle privazioni si accompagnano percorsi di riabilitazione, che tengono conto “delle straordinarie capacità di recupero degli adolescenti, per spronarli alla scoperta dell’errore e all’acquisizione di una coscienza critica”. Nelle riflessioni del giovane cappellano Gennaro Pagano l’urgenza di un patto educativo per Napoli, “per intercettare la “paranza degli invisibili”. Nelle testimonianze di attivisti e operatori sociali (da Daniele Sanzone a Vincenzo Porzio) la relazione stretta fra degrado urbano e criminalità, tra territorio e comunità, da Scampia al Rione Sanità. E ogni possibilità di riscatto. Qui i video del progetto: https://linktr.ee/ragazzi_nisida Ilaria Cucchi: “Ai giovani dico: credete nella giustizia” di Eleonora Molisani Tu Style, 18 maggio 2021 “Ho scritto questo libro perché non si dimentichi che anche chi ha commesso un errore deve essere tutelato dallo Stato. Ci sono diritti inviolabili che non possono essere dimenticati nemmeno in condizioni di detenzione”. Chi parla è Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, che il 15 ottobre del 2009 viene fermato dai carabinieri con 20 grammi di hashish, cocaina e alcune pastiglie per curare l’epilessia. Portato in caserma, per lui viene disposta la custodia cautelare in carcere e sette giorni dopo muore all’ospedale Pertini di Roma. È l’inizio di una tragica vicenda giudiziaria e umana, che si è appena conclusa con la condanna a 13 anni per omicidio preterintenzionale dei carabinieri responsabili del pestaggio; quattro anni, e due anni e due mesi, ai carabinieri imputati di falso. Ma ha assolto i medici, perché il reato di omicidio colposo è stato prescritto. Un altro processo vede otto carabinieri accusati di falso, calunnia, favoreggiamento. Ilaria aveva già scritto due libri. Il primo, con Giovanni Bianconi: “Vorrei dirti che non eri solo. Storia di Stefano, mio fratello” (Rizzoli, 2010); il secondo, con Fabio Anselmo: “Il coraggio e l’amore. Giustizia per Stefano: la nostra battaglia per arrivare alla verità” (Rizzoli, 2019). Ora è in libreria con un nuovo volume, scritto con Andrea Franzoso: “Stefano, una lezione di giustizia” (Fabbri). Di cosa tratta questo libro? “Intreccia la vicenda di Stefano, aggiornata con la ricostruzione del suo calvario fino a oggi, con capitoli in cui Franzoso, ex ufficiale dei carabinieri, che oggi insegna educazione civica nelle scuole, parla dei diritti delle persone arrestate. Dal momento in cui una persona viene “fermata” dalle forze dell’ordine, ci sono una serie di diritti fondamentali che devono essere garantiti a prescindere dai reati commessi. Dal diritto di parlare con un avvocato difensore (privato o assegnato d’ufficio), al diritto al rispetto e alla dignità, alla salute in carcere, alle visite dei parenti, alla possibilità di vedere o parlare con i propri cari. Tutti diritti che a Stefano sono stati negati, per volontà o per negligenza. Si parla anche di tossicodipendenti, e del loro diritto a essere disintossicati nei Sert e nelle Comunità terapeutiche. Con parole semplici, si racconta ai ragazzi perché e come le persone devono essere tutelate anche se hanno sbagliato. Anche perché uno dei principi della Costituzione italiana è che la pena, nel nostro Paese, deve tendere a rieducare chi ha sbagliato, in modo che possa tornare nella società civile e ripartire come una persona migliore. La vicenda Cucchi diventa così una lezione di giustizia, potente e necessaria, perché ciò che è accaduto a lui non capiti mai più”. “In tutti questi anni ho messo da parte la mia vita personale per combattere una battaglia civile che riguarda tutti. I miei genitori erano distrutti e io mi sono sentita di andare avanti. Per Stefano, che ha pagato i suoi errori con la vita. In questi anni sono andata ovunque, ma quello che mi ha dato più energia è stato parlare con i giovani nelle scuole. Ho scritto questo libro per i miei figli, Valerio e Giulia, che ormai sono grandi, e per tutti i ragazzi d’Italia”. Alcuni dei diritti di cui parli nel libro a Stefano sono stati negati... “Sì, secondo le ricostruzioni il pestaggio di Stefano è avvenuto la sera dell’arresto. Stefano non riuscì a parlare con il suo avvocato, non riuscì a vedere nessun congiunto e morì sei giorni dopo. Aveva fratture alle vertebre lombare e coccigea, lesione del capo, lesioni al globo vescicale, non aveva mangiato e bevuto per cinque giorni. Mio fratello, pur avendo fatto degli errori, era una persona fragile, che aveva sofferto, e non gli è stata tesa una mano da nessuno. Lo Stato deve essere il primo custode dei nostri diritti di cittadini, e in quei giorni a Stefano sono stati negati anche quelli umani fondamentali”. “Credo nella giustizia e non nella vendetta. Ma noi adulti stiamo consegnando ai giovani una società dove ancora non c’è il totale rispetto dei diritti. Non dobbiamo smettere di batterci, ma non gli uni contro gli altri. Dobbiamo farlo rispettando le istituzioni, chi le rappresenta e chi le difende. Questo è il primo caso in cui l’Arma dei Carabinieri si è costituita parte civile, per ricordare a tutti che ci sono uomini e donne che ogni giorno indossano la divisa con onore e spirito di sacrificio, e chi ha sbagliato è un’eccezione, non la regola. Non può essere la violenza a farci giustizia”. Che rapporto avevi con tuo fratello? “Quando è stato arrestato, Stefano aveva il desiderio di uscire dalle dipendenze, per rendere fieri i suoi genitori e me, che ero la sua più grande alleata ma anche quella che gli “rompeva di più le balle”, per il suo bene. Il giorno prima di morire aveva scritto una lettera, che ho pubblicato nel libro, al responsabile di una Comunità terapeutica, chiedendo aiuto. Grazie al mio adorato fratello, anche io ho avuto la forza di riprendere totalmente in mano la mia vita. Ho recuperato il tempo con i miei figli, sono stata accanto ai miei genitori e ho incontrato l’uomo che amo. Un grande regalo che mio fratello mi ha lasciato”. Dentro la fiera delle falsità sui danni al clima di Roberto Saviano Corriere della Sera, 18 maggio 2021 Stella Levantesi denuncia nel libro “I bugiardi del clima” (Laterza) le manovre politiche delle compagnie petrolifere. I primi a vedere i rischi del riscaldamento globale poi spinsero per negarlo. Si può negare tutto, si può negare anche qualcosa di evidente e di dimostrato, lo sappiamo. Si può negare l’evidenza di una pandemia, si possono negare le prove inconfutabili dell’esistenza delle mafie, si può persino arrivare a negare lo sterminio di milioni di persone. Se così non fosse, le teorie del complotto non avrebbero un così grande spazio. Tutto può essere negato, ma si può fare in maniera credibile? Si può negare la realtà con successo? I bugiardi del clima di Stella Levantesi, in uscita il 20 maggio per Laterza, dimostra che non solo si può fare con successo, ma che negare una realtà in maniera sistematica e attiva non è più solo un atto di negazione, ma di negazionismo. Non si tratta solo del rifiuto di accettare, “il negazionismo è strategico, è intenzionale, è pubblico”. Levantesi costruisce un percorso che illustra una delle più grandi manovre di occultamento della storia, quella che i negazionisti del cambiamento climatico hanno messo in atto per nascondere il legame tra loro stessi e il riscaldamento globale ed evitare ad ogni costo politiche ambientali. Attenzione, non solo hanno nascosto il legame, ma hanno nascosto il legame che loro stessi, per primi, avevano individuato. Sapete chi per primo ha ricercato e ottenuto risultati che davano l’allarme sull’uso dei carburanti fossili? La più grande compagnia petrolifera mondiale, la Exxon. Già negli anni Ottanta la ricerca interna all’azienda aveva osservato la necessità di “una grande riduzione della combustione dei carburanti fossili” perché “ci sono alcuni eventi potenzialmente catastrofici che devono essere considerati”. Sono parole dei loro scienziati, delle analisi da loro sostenute. La ricerca della Exxon Mobil era all’avanguardia, fu questa azienda tra le prime ad avere le prove inconfutabili dell’esistenza del riscaldamento globale e, perciò, non si può “appellare all’ignoranza” quando spende decine di milioni di dollari per finanziare politici, campagne e lobby al fine di ostacolare un’azione di protezione ambientale. Ne “I bugiardi del clima” scopriamo - attraverso indagini già verificate e una corposa documentazione - come le aziende di petrolio, gas e carbone hanno osservato per prime che la loro attività, bruciare combustibili fossili, causava un aumento delle emissioni e quindi un aumento della temperatura. L’abilità dei negazionisti è stata quella di trasformare un tema scientifico in uno politico, spiega Stella Levantesi: ““Rendere la scienza più politica” è esattamente ciò che i negazionisti vogliono”, perché solo così il tema del cambiamento climatico può essere messo in discussione, solo così un fenomeno scientifico può diventare strumento di propaganda e manipolazione. È stato sufficiente rendere i dati discutibili, interpretabili sul piano politico. Bisogna fare chiarezza su un punto: la negazione è diversa dal negazionismo. La negazione - è assai bene spiegato nel libro - è un processo di rifiuto, la volontà di allontanare, cancellare, un dato vero che non si riesce e non si vuole accettare. Il negazionismo non è semplicemente il rifiuto della realtà, ma anzi ne costruisce una alternativa. Alla radice, la negazione e il negazionismo “si sono sviluppati per usare il linguaggio con il fine di ingannare gli altri e sé stessi”. Ma la differenza più grande è che il negazionismo è una questione pubblica. Il negazionismo non è un meccanismo “passivo”, è una decisione strategica volontaria, fatta di tattiche, manipolazione e politica. Oggi il tema del clima ha molto poco a che fare con la scienza e molto più con la politica, e questo è il risultato della “campagna di disinformazione”. I bugiardi del clima sono riusciti nell’impresa apparentemente impossibile di ostacolare la regolamentazione del settore fossile e continuare a guadagnare con la loro attività. Per questo, anche se conosciamo cause e conseguenze del riscaldamento globale da più di cinquant’anni, siamo molto indietro con l’azione per il clima. Finanziamenti e propaganda sono stati fondamentali. I negazionisti hanno ingaggiato “i maestri della manipolazione”, esperti in comunicazione che hanno saputo fare dell’inganno la propria forza. Il negazionismo climatico non è una “corrente di pensiero”, scrive Levantesi, “è un vero e proprio sistema organizzato, un’architettura sorretta da solidi pilastri strategici, sostenuta da un’efficace comunicazione e costruita sulle fondamenta di potere e denaro”. Una delle cose in cui il libro riesce bene è disarticolare questo sistema organizzato, mostrarlo con chiarezza. I capitoli sono un reportage dentro un ginepraio fittissimo di storie che raccontano tutto quello che non sappiamo su come le industrie di gas, petrolio e carbone, insieme ai loro alleati della “macchina del negazionismo”, ci hanno ingannati. Persino la psicologia dei negazionisti diventa oggetto di analisi, chiave di comprensione. Perché i negazionisti fanno ciò che fanno? La risposta non ha solo motivazioni economiche, ma anche psicologiche e sociologiche. Ha a che fare con i valori, l’identità, il terrore dell’uomo bianco al potere di perdere tutto. Proprio perché la dinamica psicologica è la più insidiosa e perché “la macchina” è così radicata, il negazionismo è difficile da contrastare. Come si combatte questo fenomeno? I fatti non bastano, bisogna comprendere i processi e imparare a riconoscere le strategie. I bugiardi del clima è uno strumento fondamentale perché scende in profondità nell’inganno negazionista, e non teme l’estrema scomodità del tema, anzi la accoglie. Levantesi ha l’obiettivo di dare strumenti al lettore, i più argomentati ed efficienti possibili. Questo testo è pieno di vicende inaspettate, tutte emerse nel dibattito degli ultimi vent’anni e raramente raccolte in un quadro d’insieme. I bugiardi del clima racconta che secondo un documento del 1998 di uno dei protagonisti della “macchina negazionista”, l’American Petroleum Institute, la “vittoria” (dei negazionisti) sarebbe stata raggiunta solo nel momento in cui “coloro che promuovono il Trattato di Kyoto sulla base della scienza esistente sembrano aver perso di vista la realtà”. Questo è un passaggio cruciale, la manipolazione dei bugiardi del clima si spinge fino a capovolgere i fatti, per cui chi aveva compreso che il riscaldamento globale era reale e causato dall’uomo diventa, invece, qualcuno che ha “perso di vista la realtà”. Il libro aspira a mappare il negazionismo del cambiamento climatico per comprendere come siamo arrivati fino a qui, e come poter andare avanti senza continuare a commettere gli stessi errori. I bugiardi del clima sembra in parte un thriller, ma non lo è - è un’inchiesta sulla realtà. Levantesi ha uno stile chiaro, governato dall’unica necessità di verificare pagina dopo pagina la sua argomentazione, per questo la narrazione non ammicca mai alla polemica politica. Lo sguardo è fisso sui dati scientifici, sul comportamento delle grandi compagnie. Lo stile è tutto dentro lo spazio del saggio di inchiesta storica che va a ricostruire con due strumenti metodici l’assalto delle compagnie alla scienza: un linguaggio rigoroso che in alcuni punti chiede al lettore la rilettura di alcuni passaggi e dall’altro una forte bibliografia che permette di avere tutto il materiale a disposizione per valutare il percorso fatto ed accedere alla riflessione del libro. “I bugiardi del clima” è un testo che ha la capacità di leggere e scoprire le relazioni e le interconnessioni, il peso della responsabilità individuale rispetto a quella delle aziende, il dualismo insito nella nostra società, la separazione tra uomo e natura, i fallimenti del capitalismo, il ruolo della letteratura nella crisi climatica. È una bussola in una realtà dove tutto è messo in dubbio, dove manca la fiducia, dove il confine tra fatto e invenzione è sbiadito e confuso e dove si fa fatica a distinguere la verità dalla menzogna. Pensare che ci sia un dibattito sul clima è un errore, ce l’hanno fatto credere i negazionisti che, con successo e per decenni, hanno continuato a “minare le fondamenta” della scienza del clima, a manipolare i dati, a confondere l’opinione pubblica e finanziare campagne politiche. Ma smascherare i bugiardi del clima, comprenderne il percorso, imparare a riconoscerne i meccanismi, significa proprio sottrarsi a questo inganno. L’autrice e il libro - Esce in libreria giovedì 20 maggio, il saggio di Stella Levantesi I bugiardi del clima. Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo (Laterza, pagine 246, euro 18). Il libro analizza la strategia di manipolazione dell’opinione pubblica seguita da forze economiche influenti per nascondere i dati scientifici secondo i quali le emissioni di anidride carbonica dovute alle attività umane sono all’origine del progressivo riscaldamento del clima su scala globale. Stella Levantesi, giornalista e fotografa, è nata a Roma e vive tra l’Italia e gli Stati Uniti. Si è formata alla scuola di giornalismo della New York University e si occupa in particolare di questioni ambientali Levantesi collabora con diverse testate italiane e internazionali tra cui “il manifesto”, “The New Republic” e “Internazionale”. Mattarella, appello nella Giornata contro l’omofobia: “Basta odio” di Concetto Vecchio La Repubblica, 18 maggio 2021 Dal Quirinale un messaggio di rifiuto verso ogni discriminazione e intolleranza: “La società viene arricchita dalle diversità”. Il fronte giallorosso rilancia le parole del presidente della Repubblica. Letta: “Serve un impegno concreto per approvare la legge”. “Le attitudini personali e l’orientamento sessuale - afferma il presidente della Repubblica Sergio Mattarella - non possono costituire motivo per aggredire, schernire, negare il rispetto dovuto alla dignità umana, perché laddove ciò accade vengono minacciati i valori morali su cui si fonda la stessa convivenza democratica”. Il messaggio del Quirinale arriva nella Giornata internazionale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia, proprio mentre le forze politiche in Parlamento si dividono sull’approvazione del disegno di legge Zan. Sono parole sentite, non rituali, quelle che vengono espresse da Sergio Mattarella: “La Giornata è l’occasione per ribadire il rifiuto assoluto di ogni forma di discriminazione e di intolleranza e, dunque, per riaffermare la centralità del principio di uguaglianza sancito dalla nostra Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”. È un appello ad accettare gli altri. “La società viene arricchita dal contributo delle diversità. - dice il presidente della Repubblica - Disprezzo, esclusione nei confronti di ciò che si ritiene diverso da sé, rappresentano una forma di violenza che genera regressione e può spingere verso fanatismi inaccettabili. La ferita inferta alla singola persona offende la libertà di tutti. E purtroppo non sono pochi gli episodi di violenza, morale e fisica che, colpendo le vittime, oltraggiano l’intera società. Solidarietà, rispetto, inclusione, come ha dimostrato anche l’opera di contrasto alla pandemia, sono vettori potenti di coesione sociale e di sicurezza”. Sbaglia chi intende tirare per la giacchetta il Quirinale sul terreno della legge Zan. Fedele al suo ruolo di arbitro, Mattarella non entra, neanche stavolta, nella contesa parlamentare. Non cita mai il ddl, il suo è un discorso alto, che prescinde dalla contingenza politica, ma non si può non notare il calore con cui è stato scritto. Non a caso è stato subito apprezzato e rilanciato da molti esponenti di Pd, Leu, M5S, il fronte favorevole all’approvazione della norma contro l’omofobia. Il segretario pd Enrico Letta ha chiesto al Senato “un impegno concreto” per fare approvare subito il ddl. Il capogruppo di Leu Federico Fornaro invita ad ascoltare le parole di Mattarella. Il centrodestra però frena, e ha pronto un controtesto, che viene letto come un tentativo di rimandarne il varo. “Sì a una legge che introduca pene più severe per chi discrimina, insulta o aggredisce in base a sesso, etnia o religione, come già presentata da Lega e centrodestra”, dice Matteo Salvini. “No invece a una legge che introduce bavaglio e carcere per le idee: punire chi non condivide le adozioni gay o l’utero in affitto è una follia”, sostiene il leader leghista. La legge è ferma in Commissione Giustizia del Senato, mentre i dati sugli attacchi omofobi sono in crescita. Secondo Gay Help Line nell’ultimo anno i ricatti e le minacce subite dalle persone Lgbt sono cresciuti dall’11 al 28 per cento e i casi di mobbing e discriminazioni sul lavoro sono lievitati del 15 per cento. La bussola, per il Colle, è l’articolo 3 della Costituzione, che promuove l’uguaglianza tra le persone. Parole simili Mattarella le aveva pronunciate già l’anno scorso, quando aveva detto che “le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale costituiscono una violazione del principio di eguaglianza e ledono i diritti umani necessari a un pieno sviluppo della personalità umana”. Anche l’Europa, dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen al presidente dell’Europarlamento, David Sassoli, ha preso posizione contro l’intolleranza. La destra ci riprova: un testo anti-Zan per affossare la legge di Giovanna Casadio La Repubblica, 18 maggio 2021 Rischio palude dopo la mossa di Forza Italia Lega e centristi. Ma per Pd, 5S, Iv e Leu la carta da giocare è andare subito in Aula. Sul ddl Zan contro l’omotransfobia riparte il match in Senato. E la legge è una tela di Penelope: fatta e disfatta. Due settimane fa i giallorossi l’avevano spuntata in commissione Giustizia del Senato garantendo che si riprendeva finalmente la discussione proprio dal disegno di legge che porta il nome del deputato dem e attivista lgbt, Alessandro Zan, già approvata a Montecitorio il 4 novembre scorso. Ecco invece arrivare in commissione oggi la proposta della forzista Licia Ronzulli, del leader leghista Matteo Salvini e dei centristi Paola Binetti e Gaetano Quagliariello. Una sorta di ddl “anti Zan”, in tre articoli, che inasprisce le pene per le discriminazioni “per etnia, credo religioso, nazionalità, sesso, orientamento sessuale, età e disabilità”. Però cancella il “genere”, interviene sull’articolo 61 del codice penale (ignorando la legge Mancino), estende anche all’età il raggio d’azione. Il ddl Zan rischia così di finire in un vicolo cieco. La destra chiede che le due proposte siano abbinate, puntando a fare morire la legge Zan. “Se ne potrebbe magari fare un testo unico”, sostiene Ronzulli. “Di certo a norma del regolamento del Senato l’abbinamento è previsto”, dichiara il leghista Simone Pillon che darà battaglia nella riunione della commissione Giustizia convocata oggi. A chi gli fa notare che anche gli elettori della Lega sono in buona parte (il 60%, secondo i sondaggi) favorevoli alla legge Zan, Pillon risponde secco: “Balle”. E Salvini in un post su Facebook ribadisce: “Sì a una legge che introduce pene più severe per le discriminazioni come quella presentata dalla Lega e dal centrodestra… ma no a una legge che introduce bavaglio e carcere per le idee”. Solo “fake news” per il Pd, Leu, i 5Stelle e Italia Viva. Persino i più scettici tra i dem sul ddl Zan si sono convinti che non ci sia tempo da perdere per garantire tutela a chi per il proprio orientamento sessuale è vittima di minacce e di aggressioni. I casi di omofobia sono aumentati. La legge è attesa da più di 20 anni. Il segretario del Pd, Enrico Letta del resto, proprio in occasione ieri della giornata mondiale contro l’omotransfobia, ha assicurato in un tweet: “Celebriamo questa giornata con un impegno concreto per i diritti approvando subito il ddl Zan al Senato”. Ma il pallino è nelle mani del presidente della commissione il leghista Andrea Ostellari, che si è autoproclamato relatore e che punterà a mettere insieme i due ddl. “Allora chiederemo di votare e ci conteremo”, annuncia Franco Mirabelli per il Pd. Anche il renziano Giuseppe Cucca afferma: “Il testo base è lo Zan”. La dem Monica Cirinnà e la pentastellata Alessandra Maiorino sono per accelerare: “Se la commissione diventa un pantano, dobbiamo tenerci la carta di portare il ddl Zan in aula direttamente”. La palude è davvero dietro l’angolo. Sono state presentate ben 200 richieste di audizioni di associazioni ed esperti. Un numero spropositato, se venissero accolte tutte. Tanto per fare un raffronto: 9 sono le audizioni chieste dal Pd, 70 dalla Lega. E poi c’è la partita degli emendamenti: dal fronte leghista è stato minacciato di depositarne milioni. Denunciano i 5Stelle. Cosa non va nel ddl Zan di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 18 maggio 2021 Confusionaria nel definire la natura e le cause delle discriminazioni, troppo vaga nello specificare cosa siano le “condotte legittime”. Tre motivi giuridici per cui la legge, così com’è, è controproducente. Premetto il mio pregiudiziale sfavore verso l’uso della legge penale quale strumento di promozione e affermazione di nuovi diritti, specie quando la loro fonte scaturisce da ideologie o concezioni morali non da tutti condivise. Da penalista di orientamento liberale, mi piacerebbe dunque che anche il problema dell’omofobia venisse affrontato soprattutto sul terreno dell’evoluzione culturale spontanea, del confronto dialogico e dell’azione educativa. Ma, una volta che si opti - a torto o a ragione - per la soluzione repressiva, che almeno si legiferi con sapienza in modo da contenere i potenziali effetti controproducenti. A un attento esame, il testo del ddl Zan così come approvato dalla Camera appare infatti tutt’altro che esente da difetti. Ma sottoporlo a critica, diversamente da quanto sospettano molti dei suoi difensori, non equivale necessariamente a volerlo sabotare. È la stessa Corte costituzionale che, ormai da qualche decennio, ammonisce (purtroppo, con scarsi risultati!) i legislatori di turno a scrivere le norme penali con un linguaggio il più chiaro e univoco possibile, in vista di un duplice obiettivo costituzionalmente rilevante: garantire ai cittadini il diritto di percepire in anticipo, cioè prima di agire, il discrimine fra condotte lecite e condotte punibili; nello stesso tempo, consentire ai giudici di identificare senza troppe incertezze i fatti che costituiscono reato. Prima di evidenziare i punti problematici del disegno di legge, sia però consentito esplicitare un dubbio che riguarda - per così dire - la filosofia di fondo che vi è sottesa. È esente da obiezioni la scelta di equiparare, in termini di disvalore etico-sociale e normativo, la transomofobia all’intolleranza razziale, etnica o religiosa, trattandosi in ogni caso di manifestazioni di odio ai danni di soggetti appartenenti a minoranze vulnerabili? A volere sottilizzare, non andrebbe trascurato che le motivazioni culturali e psicologiche di queste diverse forme di avversione non sono coincidenti, per cui non tutte giustificano la medesima reazione censoria: è forse superfluo rilevare che un atteggiamento se omofobico può anche derivare da condizioni di disagio o sofferenza psichica (come, ad esempio, una incerta autopercezione sessuale o una omosessualità rimossa), le quali solleciterebbero comprensione e aiuto psicologico piuttosto che severi giudizi di disapprovazione. Tutto ciò premesso, entriamo più nel merito delle disposizioni normative in cantiere. a) Anche a me sembra eccessiva la dettagliata specificazione delle cause della discriminazione o della violenza, individuate in motivi rispettivamente fondati “sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere” (nonché, infine, sulla disabilità) (in senso critico cfr. anche l’Amaca di Michele Serra, su Repubblica del 7 maggio 2021). Si tratta invero di distinzioni tutt’altro che chiare a livello di senso comune, e per questo lo stesso ddl si preoccupa all’articolo 1 di fornirne una definizione del significato di ciascuno dei concetti richiamati. L’intento chiarificatore riesce o fallisce? Direi che ci troviamo in presenza di un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, dal momento che almeno alcune di queste definizioni mantengono un grado di complessità poco accessibile a quanti non dispongono di una cultura di base medio-alta. Ma si è obiettato, ad esempio da parte di Vittorio Lingiardi (psichiatra e psicoanalista) e Chiara Saraceno (sociologa), che non bisognerebbe avere paura della complessità, e che comunque il ddl non userebbe i concetti in parola “per fissarli giuridicamente”, né per “entrare in dibattiti filosofici”, bensì semplicemente per fornire “strumenti minimi per identificare condizioni umane che l’esperienza insegna possono essere oggetto di aggressioni, disprezzo e odio immotivati e inaccettabili” (cfr. il loro intervento a quattro mani dal titolo “L’alfabeto del gender”, su Repubblica dell’Il maggio). Con tutto il rispetto per i due autorevoli studiosi, mi viene da replicare “a ognuno il suo mestiere”! Come giurista, rilevo che le definizioni legislative sono predisposte proprio per avere rilevanza giuridica quali parametri di riferimento vincolanti per guidare non solo i giudici, ma prima ancora i cittadini: così è, una eccessiva complessità può risultare più disorientante che orientante innanzitutto nei confronti di questi ultimi, i quali non vengono appunto posti preventivamente nella condizione di ben comprendere quali siano le condotte vietate. Inoltre, una lunga esperienza penalistica dimostra che una disciplina normativa eccessivamente dettagliata, lungi dal giovare, rischia di dar luogo a complicazioni inutili anche nella valutazione giudiziaria dei casi concreti. b) Le novità in discussione sono concepite in forma di integrazione aggiuntiva all’art. 604 bis del codice penale, incentrato - nella versione attuale - sull’odio razziale, etnico o religioso. In sintesi, limitando il discorso ai punti essenziali, il ddl propone di estendere la punibilità a chi istiga a commettere o commette, per motivi fondati sul sesso o sul genere ecc., atti di discriminazione (reclusione fino a un anno o multa fino a 6 mila euro), oppure violenza o atti di provocazione alla violenza (reclusione da sei mesi a quattro anni). È subito da notare che, a differenza dei casi di odio razziale o religioso, non è menzionata la condotta di mera “propaganda”: verosimilmente, per la preoccupazione di lasciare maggiore spazio a una legittima libertà di pensiero, questa volta risulta punibile soltanto la condotta “istigatrice” di atti discriminatori o violenti (anche se con ciò il problema non è risolto del tutto, perché - come vedremo fra poco - non sempre è facile verificare quando vi sia vera e propria istigazione). Tra i concetti fin qui accennati, il più problematico appare quello di “discriminazione”. Dal canto suo, il ddl si astiene dal definirlo; e, d’altra parte, la dottrina giuridica mette in evidenza come il concetto di discriminazione assuma significati e declinazioni differenti a seconda dello specifico campo di materia che viene in rilievo. Questa genericità e polivalenza della relativa nozione solleva un problema di compatibilità col principio costituzionale di sufficiente determinatezza della fattispecie incriminatrice, essendo in definitiva demandato dal legislatore al giudice il compito di stabilire in concreto quando un certo atto sia qualificabile discriminatorio. Per limitarci a un solo esempio problematico: costituirebbe istigazione punibile la promozione di manifestazioni pubbliche volte a esercitare pressioni sulle forze politiche per scongiurare la concessione di benefici economici o sussidi assistenziali anche alle coppie omosessuali? c) I sostenitori del testo Zan tendono a escludere la possibilità che le sue previsioni interferiscano con la libertà di manifestazione del pensiero, confidando nella espressa clausola di salvataggio prevista nell’articolo 4: “Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Senonché, letta con le lenti del giurista di mestiere, questa clausola appare per un verso pleonastica e, per altro verso, ridondante e poco chiara. Infatti, anche in sua assenza, il diritto costituzionale alla libertà di pensiero e di espressione avrebbe dovuto comunque essere tutelato in base a princìpi già consolidati nel nostro ordinamento. Ma questo articolo 4 sovrabbonda di parole mal assortite, al punto da rischiare addirittura di produrre - paradossalmente - un effetto contrario (cioè di estensione del penalmente rilevante) rispetto a quello perseguito (cioè di restrizione della punibilità). Che vuol dire, in particolare, “condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”? “Legittime” vanno considerate, queste condotte, in base a quale criterio di riferimento (la normativa costituzionale, una qualche norma extra-penale o, ancora una volta, la mera opinione del giudice nel caso concreto?). Né appare risolutiva, a ben vedere, la puntualizzazione normativa che deve in ogni caso trattarsi di condotte “non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Il lettore non digiuno di diritto sa bene che, in proposito, il ddl recepisce il principio giurisprudenziale da tempo elaborato in termini anche più generali, secondo cui una condotta istigatrice punibile, per distinguersi da una legittima manifestazione del pensiero, deve risultare idonea - secondo un giudizio ex ante e in concreto - a provocare il compimento degli atti vietati. Ma deve trattarsi di un pericolo “concreto” in senso stretto o basta, ai fini della punibilità, anche un pericolo “astratto”? Chi conosce la materia, è consapevole almeno di due cose: cioè che la stessa giurisprudenza al riguardo si mostra oscillante, continuando talvolta persino a propendere per un concetto di pericolo meramente “presunto”; e che, obiettivamente, non è facile operare con ragionevole certezza una simile distinzione, poiché non sempre il giudice è in condizione di apprezzare e tenere nel debito conto l’insieme delle circostanze fattuali capaci di incidere sulla valutazione del tipo e grado di pericolosità delle espressioni o delle condotte in questione. Ancora una volta, dunque, non poco dipende dalla perizia e dalla sensibilità garantista dei magistrati inquirenti e giudicanti. Personalmente, non sono oggi in condizione di prevedere se l’approvazione di una legge anti omofobia possa avere in futuro riscontri applicativi più numerosi e significativi di quelli (nel complesso scarsi) finora registratisi in tema di odio razziale. Ma, tanto più se ciò dovesse accadere, sarebbe opportuno procedere, per un verso, a una semplificazione e, per altro verso, a una maggiore chiarificazione degli elementi essenziali delle nuove condotte punibili. Lo stato di diritto in generale, e la giustizia penale in particolare funzionano al meglio se i messaggi normativi risultano facilmente percepibili dai cittadini; e se gli organi deputati ad applicare le leggi non devono trasformarsi, essi stessi, in co-legislatori per tentare di attribuire una fisionomia più precisa a figure criminose che, sempre più spesso, escono dalla fabbrica legislativa, simili a prodotti semi-lavorati ancora bisognosi di definizione. Migranti. Accoglienza, chiesti sette anni e 11 mesi per Mimmo Lucano di Simona Musco Il Dubbio, 18 maggio 2021 È una pena durissima quella chiesta per l’ex sindaco di Riace, accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e truffa in relazione ai progetti di accoglienza nel piccolo comune della Locride. Sette anni e undici mesi. È una pena durissima quella chiesta ieri dal pm Michele Permunian per Domenico Lucano, ex sindaco di Riace, a processo a Locri per la gestione dell’accoglienza nel piccolo paesino della Locride, diventato modello per tutto il mondo. Un modello che però non ha convinto la procura di Locri, sicura che dietro l’altruismo dell’ex sindaco si nascondesse un tornaconto politico. Complessivamente la richiesta di condanna ammonta a 75 anni di reclusione per le 27 persone coinvolte, tre le richieste di assoluzione. Lucano è imputato, insieme ad altri, di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e truffa in relazione ai progetti di accoglienza agli immigrati nel piccolo comune della Locride. Secondo il pm, l’ex sindaco sarebbe stato il “dominus assoluto” dell’accoglienza, consapevole “di trasgredire le regole”. Il tutto anche per “interessi di natura politica”. In particolare, tramite le associazioni e l’assunzione diretta di personale, sarebbe stato infatti in grado di “distribuire lavoro o, meglio, sostegni economici”. Secondo la tesi accusatoria sarebbero state diverse le persone che avrebbero percepito uno stipendio dalle associazioni pur senza lavorare, cosa mai denunciata dall’ex sindaco, in quanto “quelle assunzioni rappresentano voti che ritorneranno in sede elettorale. Tanto che in una intercettazione significativa vengono addirittura contati i voti in base alle famiglie di riferimento”. Ed è per questo motivo che la procura aveva anche contestato la candidatura di Lucano alle prossime regionali in Calabria come “prova” del suo interesse politico. Secondo il procuratore Luigi D’Alessio, inoltre, “il denaro a Riace è arrivato in quantità ma ai migranti sono finite le briciole”. E il capo della procura di Locri ci ha tenuto a precisare che non si tratta di un processo “all’ideale nobile dell’accoglienza” al contrario le accuse sono tutte rivolte alla “mala gestione che ha penalizzato proprio i migranti andando a favorire clientele con le associazioni che beneficiavano dei finanziamenti”. Per la procura regge anche l’accusa di associazione a delinquere, pure fortemente contestata dal gip, secondo cui l’ipotesi dell’accusa sarebbe stata priva di fondamento. Ma oggi in aula Permunian ha descritto al collegio giudicante una struttura organizzata per utilizzare “tutti i possibili sistemi e schemi illeciti per massimizzare la percezione dei fondi pubblici connessi ai progetti Spar (e Msna) e Cas; da qui le false prestazioni occasionali/le false fatture, in altri termini l’artificiosa lievitazione dei costi”. Così come reggerebbe quella di concussione, subito bollata dal giudice che aveva imposto i domiciliari per “Mimmo il curdo” come “insussistente”: Lucano e Fernando Capone, presidente dell’associazione “Città Futura”, secondo la Procura avrebbero abusato della propria posizione per costringere il titolare di un esercizio commerciale a predisporre e consegnare fatture false per 5mila euro. Ma “gli inquirenti - scriveva il gip - non hanno approfondito con la dovuta ed opportuna attenzione l’ipotesi investigativa”, fidandosi delle parole del commerciante - che avrebbe dovuto essere ascoltato in presenza di avvocato, in quanto indagato -, le cui dichiarazioni non sono mai state dimostrate. Una “persona tutt’altro che attendibile”, sentenziava il giudice. Che eliminava anche dubbi sulla malversazione: i soldi dell’accoglienza, non sarebbero stati usati per “soddisfare interessi diversi da quelli per i quali erano corrisposti”. Una tesi “non persuasiva, poiché congetturale”. Medio Oriente. L’America e l’Europa ora premono per la tregua di Sharon Nizza La Repubblica, 18 maggio 2021 Cresce la spinta della comunità internazionale per il cessate il fuoco tra israeliani e palestinesi. Proseguono gli scontri, almeno 212 vittime tra cui 61 minori. Oggi il vertice dei ministri degli Esteri Ue. Aumentano le pressioni internazionali per mettere un freno al conflitto tra Israele e Hamas, che entra oggi nella seconda settimana di scontri. Gli sforzi della diplomazia messi in campo non si traducono ancora in risultati concreti e la spirale della violenza continua: non cessano i razzi sulle città del Sud d’Israele, né i bombardamenti dei caccia israeliani. Nella notte di domenica, Israele effettua il terzo bombardamento a massima intensità - 50 caccia coinvolti per 35 minuti - per colpire altri 15 chilometri della “metro”, la rete di tunnel sotterranei utilizzati dagli uomini di Hamas per muoversi in sicurezza. L’obiettivo è fare uscire allo scoperto le figure chiave delle organizzazioni fondamentaliste nella “lista dei target” dell’esercito israeliano. Tra questi, Hussam Abu Harbeed, uno dei comandanti della Jihad Islamica, eliminato ieri nel campo profughi di Jabalia. E mentre i tentativi di raggiungere un cessate il fuoco non maturano, a pagare un prezzo altissimo è la popolazione civile: a Gaza sono 38mila gli sfollati, i morti 212, tra questi 61 minorenni, secondo i dati riportati dal ministero della Salute di Hamas. Israele replica che almeno 80 tra loro sono operativi delle organizzazioni integraliste responsabili del lancio di missili verso la popolazione civile israeliana, tra le quali si contano 10 vittime. Gli Stati Uniti hanno posto il veto a una dichiarazione promossa al Consiglio di Sicurezza dell’Onu da Cina, Turchia e Norvegia, che non menzionava il lancio di missili verso Israele. Il presidente turco Erdogan - che ieri ha avuto un colloquio con il Papa invitando la comunità internazionale a “punire Israele con sanzioni per mettere fine al massacro dei Palestinesi” - ha inveito contro il presidente Usa Biden per il sostegno a Israele: “Ha il sangue sulle mani”. Oggi si riuniranno i ministri degli Esteri dell’Ue per prendere una posizione sull’escalation con una richiesta di tregua. È un susseguirsi di telefonate e incontri tra tutti i principali attori internazionali. Hady Amr, inviato da Biden a mediare tra le parti, è al suo terzo giorno di colloqui sul campo. Dopo aver parlato con la parte israeliana, ieri a Ramallah ha conferito con il presidente palestinese Abu Mazen, un incontro volto anche a sanare i rapporti dopo tre anni di rottura tra l’Autorità Nazionale Palestinese e gli Usa di Trump. Jake Sullivan, a capo della Sicurezza nazionale della Casa Bianca, ha parlato con il suo omologo israeliano e con gli egiziani, specificando che “gli Stati Uniti sono attivi in sforzi diplomatici intensivi e silenziosi”. Molto di quanto accade in queste ore avviene lontano dall’occhio dei media. Netanyahu ha ringraziato pubblicamente la Merkel “per il sostegno al diritto d’Israele a difendersi”, evitando di segnalare la parte del colloquio in cui la cancelliera tedesca ha espresso “speranza perché gli scontri finiscano quanto prima, alla luce delle numerose vittime civili da entrambe le parti”. La posizione ufficiale d’Israele è “andiamo avanti”. In realtà sa che il margine di manovra si sta stringendo sempre di più alla luce delle immagini di distruzione che arrivano da Gaza, che hanno coinvolto anche la sede di Al Jazeera e Ap, ridotta in macerie. Qatar ed Egitto, tra i mediatori più attivi (Al Sisi ha visto Macron a Parigi), riferiscono di “trattative particolarmente dure rispetto a crisi passate”, secondo fonti citate dalla stampa israeliana. I nodi principali: Hamas continua a voler legare una tregua a concessioni su Gerusalemme - una nuova clausola mai presente in passato che costituisce al momento il loro asset strategico più importante. Israele potrebbe richiedere di inserire nelle trattative la questione degli ostaggi (due corpi di soldati e due civili entrati per errore nella Striscia) detenuti a Gaza da anni - evitando di concedere rilasci di prigionieri palestinesi come accaduto in passato. L’obiettivo d’Israele nelle prossime ore è continuare a colpire duro per portare Hamas ad accettare un cessate il fuoco senza condizioni. Resta da vedere se gli Stati Uniti glielo concederanno. Svizzera. Domiciliari ai 12enni per prevenire attentati: una legge shock contro il terrorismo di Franco Zantonelli La Repubblica, 18 maggio 2021 Sinistra, liberal e Ong lanciano un referendum per tentate di abolirla. Per Leandra Bias, docente di Scienze Politiche a Basilea, “è la più dura in tutto l’Occidente”. Spedire ai domiciliari anche i giovanissimi, per prevenire attentati. È una delle peculiarità della nuova legge anti-terrorismo, approvata nel settembre scorso dal Parlamento svizzero, che ha così dato il via libera, grazie all’appoggio dei partiti di destra e di centro, a una serie di misure volute dal Governo federale. I partiti della sinistra, diversi esponenti liberal e molte Ong, tuttavia non ci stanno e hanno così raccolto oltre 142 mila firme per indire un referendum, che si terrà il 13 giugno, ritenendo le nuove disposizioni profondamente illiberali. Contro la nuova legge è insorto, pure, l’Alto Commissariato dell’Onu per i Diritti Umani, ritenendo che “darebbe adito a privazioni arbitrarie della libertà”. Quanto ai fautori, ritengono che gli strumenti attualmente utilizzati, in Svizzera, per agire contro le persone che rappresentano una minaccia siano insufficienti. La nuova legge, a loro parere, colma le lacune della strategia nazionale contro il terrorismo, permettendo alla polizia di prendere provvedimenti, compresi i controlli sugli account delle reti sociali e della messaggistica telefonica, non appena vi siano indizi concreti che qualcuno commetterà un atto terroristico. È indubbio che nella prevenzione del terrorismo islamico, ma anche nella lotta alla criminalità organizzata, la Svizzera abbia dimostrato finora notevoli ritardi. Il che non ha impedito alla professoressa Leandra Bias, della facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Basilea, di definire la nuova legge “la più dura dell’intero Occidente”. Non tanto distante, per intenderci, dall’Usa Patrioct Act, adottato dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre. Basti pensare che, a sentire gli oppositori ma anche le Nazioni Unite, essa viola addirittura i diritti dell’infanzia, prevedendo provvedimenti restrittivi, quali gli arresti domiciliari, a partire dai 12 anni di età, considerando quindi bambini e adolescenti dei potenziali terroristi. “Basta un like di un adolescente curioso o sbadato a un messaggio radicale o fondamentalista, per farlo finire nei guai”, tuona l’ex-Pubblico Ministero di Lugano, Paolo Bernasconi, che si sta mobilitando per il “no” alla nuova legge. Bernasconi, ricorda, poi che “l’Italia ha sconfitto le Brigate Rosse e il terrorismo armato degli Anni di Piombo, senza questi poteri di polizia”. Contestazioni respinte dalla ministra di Giustizia e Polizia, Karin Keller Sutter, secondo cui la Svizzera altro non ha fatto che adottare delle “misure preventive per evitare che un atto terroristico venga posto in essere”. Stati Uniti. Carolina del Sud, plotone di esecuzione per i condannati a morte di Laura Zangarini Corriere della Sera, 18 maggio 2021 La scarsità di farmaci per iniezione letale è stata citata come motivo della decisione. L’associazione per i diritti civili: “Decisione spaventosa, scioccante e abominevole”. La Carolina del Sud istituisce il plotone di esecuzione per applicare la pena di morte ai condannati che possono ugualmente scegliere la sedia elettrica. Lo ha annunciato ieri, lunedì 17 maggio, il governatore di questo stato meridionale degli Stati Uniti. “Questo fine settimana ho ratificato una legge che consentirà allo Stato di applicare la pena di morte. Le famiglie e i parenti delle vittime hanno il diritto di piangere e ottenere giustizia grazie alla legge. Ora possiamo farlo”, ha spiegato Henry McMaster su Twitter. Repubblicano, favorevole alla pena di morte, McMaster vuole riprendere le esecuzioni dopo una pausa di dieci anni nel suo Stato per carenza dei farmaci usati nelle iniezioni letali. La legge, firmata venerdì, fa della sedia elettrica la prima scelta di un condannato a morte invece dell’iniezione letale, e consente la formazione di un plotone d’esecuzione, che diventa la seconda opzione. Secondo il testo, l’esecuzione per iniezione diventerà nuovamente l’opzione prioritaria quando i prodotti farmacologici necessari saranno nuovamente disponibili. Fino a ora, un detenuto nel braccio della morte doveva scegliere tra la sedia e l’iniezione, quest’ultima opzione era automatica se si rifiutava di scegliere. Ci sono 37 persone nel braccio della morte della Carolina del Sud che hanno esaurito il processo di appello. L’organizzazione per l’assistenza ai prigionieri Incarcerated Outreach Network, con sede nella Carolinadel Sud, ha commentato la decisione su Twitter come “spaventosa, scioccante e abominevole”. Per il rappresentante locale della grande organizzazione per i diritti civili ACLU (American Civil Liberties Union), Frank Knaack, lo stato ha “trovato un nuovo modo per riavviare le esecuzioni all’interno di un sistema razzista, arbitrario e soggetto a errori”. “I tribunali della Carolina del Sud commettono errori ma la pena di morte è irreversibile”, ha aggiunto in un comunicato, osservando che le persone di colore costituiscono più della metà di quelle nel braccio della morte, ma solo il 27% della popolazione dello Stato. La sedia elettrica, soprannominata “Old Sparky”, non viene utilizzata dal 2008 e l’ultima esecuzione per iniezione è stata nel maggio 2011, secondo quanto riportato dal Dipartimento delle prigioni di Stato e i media locali. Secondo il Death Penalty Information Center (DPIC), la Carolina del Sud è il quarto stato degli Stati Uniti a consentire la pena di morte con il plotone di esecuzione, insieme a Mississippi, Oklahoma e Utah. Secondo il Centro, solo tre detenuti sono morti davanti a un plotone di esecuzione, tutti nello Utah, dal ripristino della pena di morte da parte della Corte Suprema nel 1976. Stati Uniti. In carcere per 31 anni da innocenti, risarciti con 75 milioni di dollari Il Messaggero, 18 maggio 2021 Nord Carolina, 75 milioni di dollari di risarcimento a Henry e Leon in carcere per 31 anni anche se innocenti. Condannati per lo stupro e l’omicidio di una bambina di 11 anni nel 1983 anche se innocenti, Henry McCollum e Leon Brown riceveranno 75 milioni di dollari come risarcimento danni per essere finiti ingiustamente nel braccio della morte. Lo ha stabilito una giuria del tribunale della Carolina del Nord formata da otto persone che nel valutare tutte le prove, comprese quelle erroneamente soppresse, ha riconosciuto l’innocenza dei due statunitensi e l’atroce torto subito. “La prima giuria ha fatto quello che la legge può fare per rimediare a questa situazione”, ha dichiarato l’avvocato di Raleigh, Elliot Abrams, dopo il processo. “L’attesa decennale per il riconoscimento della grave ingiustizia inflitta ai due fratelli è finita” ha poi aggiunto Abrams, “Henry e Leon possono finalmente chiudere questo orribile capitolo della loro vita”. Henry McCoullm e Leon Brown erano adolescenti, 19 anni il primo e 15 il secondo, quando furono arrestati e condannati alla pena di morte poi convertita nel carcere a vita. Sono rimasti dietro le sbarre per 31 lunghi anni prima di essere rilasciati nel 2014. A scagionarli, una prova del Dna che ha rivelato l’identità del vero colpevole del crimine. Nel 2015 i due fratellastri, che hanno entrambi una disabilità intellettiva, hanno lanciato una causa civile contro le forze dell’ordine, sostenendo che i loro diritti civili furono violati durante gli interrogatori “coercitivi” che portarono poi alle loro condanne. Gli otto membri della giuria hanno così deciso di assegnare 31 milioni di dollari ciascuno in danni compensativi (1 milione per ogni anno trascorso in prigione), oltre a 13 milioni di dollari di danni punitivi.