I processi penali sono troppi: 6 su 10 finiscono archiviati di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2021 Oltre il 60% dei procedimenti penali definiti da Gip e Gup viene archiviato. Solo una minoranza è decisa nel merito o rinviata a giudizio. La distanza si è accentuata nel 2020, l’anno del Covid, che ha visto anche crescere l’arretrato e i tempi dei processi, soprattutto di fronte al tribunale monocratico. Sono centinaia di migliaia i procedimenti penali che si chiudono dopo le indagini preliminari, senza andare a giudizio. Le archiviazioni rappresentano infatti oltre il 60% dei fascicoli “definiti” dai giudici delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare (Gip e Gup) chiamati a decidere sul destino dei procedimenti usciti dalle Procure. Solo una minoranza viene decisa nel merito o rinviata a giudizio. E la distanza si è accentuata nell’anno del Covid. Nel 2020, su 600mila procedimenti definiti, 390mila sono stati archiviati: più del 65 per cento. Insieme con la crescita dell’arretrato che nel 2020 ha ripreso ad aumentare (+3,1% rispetto al 2019), il numero monstre di archiviazioni è un sintomo delle difficoltà della giustizia penale, che si sono aggravate con la sospensione delle udienze della primavera 2020 e la successiva riduzione dell’attività in presenza imposta dalle prescrizioni sanitarie, non sostituita, se non in parte, da alternative digitali. A soffrire di più (+5,3% di pendenze) è il tribunale monocratico che decide sui reati meno gravi ma più diffusi, come furti, truffe, risse, spaccio. E con la pandemia sono salite anche le durate medie dei processi, arrivate nel 2020 a 684 giorni di fronte al tribunale monocratico (+13,1% sul 2019) e a 727 giorni di fronte a quello collegiale (+9,8%). È questo lo scenario che attende la riforma del processo penale, che punta a processi più rapidi ed efficienti: le proposte della commissione voluta dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e guidata da Giorgio Lattanzi, trasfuse in emendamenti, saranno presentate nei prossimi giorni al disegno di legge delega varato quando alla guida della Giustizia c’era Alfonso Bonafede e ora all’esame della commissione Giustizia della Camera. Le archiviazioni - L’alto numero di procedimenti archiviati ha più ragioni. Ma racconta per certo che negli uffici giudiziari arriva una massa di notizie di reato che non sono fondate o che comunque il sistema non ha le forze per perseguire. Tanto che negli anni sono stati varati provvedimenti per portare fuori dall’area del penale alcuni illeciti. “Oggi vediamo gli effetti della riforma della tenuità del fatto, che ha escluso la punibilità dei reati quando l’offesa è particolarmente lieve, e delle depenalizzazioni”, spiega il presidente del Tribunale di Udine, Paolo Corder. La pandemia ha contribuito a far salire la quota di archiviazioni sul totale dei procedimenti definiti perché “nel 2020, mentre le udienze ordinarie sono diminuite, i Gip hanno continuato a emetterei decreti di archiviazione, per cui non serve l’udienza”, osserva la presidente del Tribunale di Savona, Lorena Canaparo. Anche a Livorno “durante il periodo di sospensione delle udienze i Gip hanno smaltito l’arretrato di archiviazioni”, conferma il presidente delle sezioni penali dibattimento e Gip, Gianmarco Marinai: “Ma c’è anche un tema di risorse - ammonisce - le definizioni hanno avuto un picco nel 2018 perché avevamo un Gip applicato in più”. A far crescere le archiviazioni sono state anche le iniziative di razionalizzazione della gestione dei procedimenti avviate dagli uffici per risolvere il nodo dell’eccessivo numero di fascicoli che dalle procure arrivano ai giudici di primo grado. Una strada è stata quella di individuare procedimenti da trattare invia prioritaria aggiuntivi rispetto a quelli previsti dalla legge, come ad esempio i reati da codice rosso. Le scelte dei giudici - Nel distretto di Brescia le linee guida operano a partire dal fatto che troppi processi (il 30-40%) si chiudevano con un’assoluzione - spiega il presidente del Tribunale di Brescia, Vittorio Masia. Abbiamo quindi rivisto, insieme con le procure, le modalità di esercizio dell’azione penale e fissato priorità nella selezione dei processi, come indicato dal Csm. L’aumento delle archiviazioni è in linea con questa scelta: è uno strumento deflattivo ma anche selettivo perché richiede una più attenta verifica dei presupposti dell’azione penale”. A un’intesa che permetta la definizione anticipata di alcune tipologie di procedimenti punta la presidente del Tribunale di Napoli, Elisabetta Garzo, soprattutto per far fronte all’arretrato che grava sul giudice monocratico: “Pendono quasi 36 mila procedimenti, un carico ingestibile - dice Garzo La pandemia e le restrizioni hanno dimezzato le trattazioni e inasprito una situazione già molto difficile. Sarebbe necessario che il legislatore depenalizzasse i reati minori. Nel frattempo, con l’accordo della procura e degli avvocati potremmo individuare quei procedimenti relativi ai reati di non particolare allarme sociale peri quali sia possibile procedere a un proscioglimento anticipato e quelli prossimi alla prescrizione”. A Torino nel 2006 “è stata creata una sezione dedicata ai procedimenti a citazione diretta per dare più fiato al dibattimento”, racconta il presidente della sezione, Modestino Villani: sono quelli inviati direttamente dalla procura, senza udienza preliminare, e riguardano i reati minori, puniti con la reclusione fino a quattro anni, ma molto numerosi. “Seguiamo dei criteri di priorità: nella prima fascia ci sono, ad esempio, i procedimenti che coinvolgono i detenuti, che riusciamo a fissare a distanza di cinque mesi, gli infortuni sul lavoro, le lesioni stradali e i reati previsti dal Testo unico sull’immigrazione. Restano in coda, ad esempio, le piccole truffe e i processi prossimi alla prescrizione”. La mole di archiviazioni, secondo Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali, “conferma che il sistema fondato sull’obbligatorietà dell’azione penale è insostenibile e costringe la macchina giudiziaria a lavorare a vuoto in gran parte dei casi. E definire priorità vuol dire mettere gli altri fascicoli nel cassetto in attesa della prescrizione”. “Nella riforma più spazio a riti alternativi e sanzioni sostitutive” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2021 Intervista a Vittorio Manes, docente di diritto penale dell’Università di Bologna. Professor Manes, può spiegare innanzitutto quali sono state le linee ispiratrici della riforma proposte dalla commissione Lattanzi di cui lei fa parte? Gli obiettivi di fondo e le direttrici seguite nelle proposte della Commissione tecnica - proposte in ordine alle quali, è bene evidenziarlo, la Ministra deve ancora fare le proprie scelte - potrebbero essere individuati, in primo luogo, nell’assicurare tempi più celeri alla giustizia penale, promuovere meccanismi di deflazione sostanziale e processuale (estendendo la procedibilità a querela, ampliando l’istituto dell’irrilevanza penale del fatto e la messa alla prova, etc.), incentivare i riti alternativi per decongestionare il dibattimento, prevedere misure alternative (come l’affidamento in prova al servizio sociale) come pene sostitutive rispetto alla pena detentiva, promuovere meccanismi di giustizia riparativa che aprano spazi per un confronto tra autore e vittima con esiti apprezzabili anche sul piano processuale. Obiettivi ambiziosi e proposte forti, in cui si intravede una rottura rispetto al recente passato? Possono sembrare proposte forti, e la discontinuità rispetto al recente passato - contrassegnato da una autentica overdose punitiva e da una esorbitante eccedenza nel ricorso alla giustizia penale - può apparire evidente, ma gli obiettivi perseguiti non hanno nulla di rivoluzionario, perché rispondono agli imperativi dei principi costituzionali: principio di legalità, durata ragionevole del processo, presunzione di innocenza, sanzione penale e carcere come extrema ratio, finalismo rieducativo della pena. Sulla prescrizione è stata avanzata una doppia proposta. Quale le sembra preferibile? Entrambe le proposte sono volte a superare - in modo del tutto condivisibile - l’idea di un blocco sine die della prescrizione. La prima si iscrive in continuità con la nostra tradizione giuridica, che ha sempre riconosciuto natura sostanziale alla prescrizione, e prevede che il corso si interrompa solo in caso di condanna in primo grado, ma che al contempo venga messo in mora il giudice d’appello, stabilendo un limite massimo entro il quale deve intervenire la decisione. E a me pare preferibile - ma è una opinione squisitamente personale - rispetto a un sistema misto che affianchi alla prescrizione sostanziale la prescrizione processuale, a meno che questa seconda proposta non preveda la sopravvivenza del termine sostanziale anche a processo in corso, in una logica di favore per l’indagato, che si presume innocente sino a sentenza definitiva. Quali le principali forme di incentivazione dei riti alternativi? La principale mi sembra quella concernente il patteggiamento, che nei sistemi accusatori occupa quantitativamente la stragrande maggioranza dei casi, e che nel nostro contesto ha una applicazione davvero periferica. Per incentivarlo bisogna renderlo appetibile, e per renderlo appetibile non basta aumentare lo “sconto” di pena: ecco perché si è prevista la possibilità di patteggiare le pene accessorie e la confisca, anche nel suo ammontare, e soprattutto si è proposto di differenziare, anzitutto sul piano degli effetti extra-penali, la sentenza di patteggiamento dalla sentenza di condanna. Il vero incentivo per chi patteggia è dato dalla garanzia di voltare pagina, e non si volta pagina se la sentenza di patteggiamento è in tutto e per tutto equiparata, negli effetti, alla sentenza di condanna. È forte il richiamo all’assunzione di responsabilità da parte di avvocati e magistrati… In quest’ottica nelle varie proposte c’è una chiara inclinazione a responsabilizzare maggiormente tutti gli attori del processo, per migliorare l’accountability del sistema: il pubblico ministero, chiamato a rispettare regole e tempi più stringenti nell’iscrizione e nelle indagini, e al quale si sono consegnati maggiori strumenti di risoluzione anticipata del conflitto (a fronte di condotte riparatorie in favore della vittima o della collettività), il giudice dell’udienza preliminare, che dovrà vagliare con maggior rigore l’ipotesi accusatoria prima di rinviare a giudizio, il giudice d’appello, che avrà meno contenzioso ma tempi tassativamente predeterminati per decidere, e anche il difensore, perché ampliando la platea di strumenti attivabili si amplia, parallelamente, il controllo critico dell’avvocato. “La riforma Cartabia funziona, ma è sbagliato tagliare l’appello” di Francesco Grignetti La Stampa, 17 maggio 2021 Intervista a Giulia Bongiorno, senatrice leghista: “Sosteniamo il superamento della legge Bonafede”. “Strumentale”. È laconica, la senatrice Giulia Bongiorno, responsabile per la giustizia della Lega, quando le si chiede della polemica quotidiana contro Salvini. Ce l’ha con Enrico Letta, che pure stima. “Strumentale perché sa bene che noi vogliamo le riforme e sosteniamo Draghi. Per la riforma Cartabia stiamo andando nella direzione giusta. Ma un conto sono le riforme tecniche sulla procedura civile e penale, altro una vera svolta sulle regole che disciplinano le funzioni e i ruoli dei protagonisti del mondo giudiziario”. Senatrice, cominciamo dal qui e ora. Le riforme che sono state messe in cantiere dal governo Draghi e saranno presto in discussione in Parlamento, le voterete oppure no? “Aspetto i testi ma posso dire fin d’ora che ci riconosciamo pienamente in quello che la ministra Marta Cartabia ha illustrato. A cominciare dalla prima e principale delle riforme annunciate, ovvero il ritorno della prescrizione. Mi si lasci esprimere una piccola soddisfazione personale. Io dissi a suo tempo che il blocco della prescrizione sarebbe stata una bomba atomica sul processo penale. Vedo ora che una ministra tecnica che stimo, conviene con me e propone il superamento della legge Bonafede. E guardi che quella forzatura dei Cinquestelle fu grave, tanto che fu uno dei motivi principali della caduta del governo giallo-verde”. In realtà la ministra propone un pacchetto di misure… “Alcune ricalcano le proposte che io stessa avevo avanzato a Bonafede, inutilmente. Ricordo l’ufficio del processo, un team di consulenti per aiutare il magistrato ad organizzare il lavoro. Riforma indispensabile per accelerare i tempi biblici del processo. Oppure la revisione dell’udienza preliminare nel processo penale, per evitare i doppioni: di udienze inutili ce ne sono già troppe. Così come i tempi rigorosi delle indagini preliminari e il divieto di appello per il pubblico ministero. E anche su una riforma importante quale l’atto di indirizzo da parte del Parlamento sulle priorità dell’azione penale, mi trovo d’accordissimo”. La ministra Guardasigilli, in un’ottica di bilanciamento, visto che interviene pesantemente sui poteri della pubblica accusa, propone di restringere le possibilità di appello anche all’imputato, secondo una griglia predefinita di motivazioni… “Limitatamente a questo aspetto esprimo invece molte riserve e quindi sospendo il giudizio in attesa di leggere il testo. Parlo qui da avvocato: in troppi casi ho visto che le condanne di primo grado sono state ribaltate in appello. Ci andrei piano a limitare i diritti di difesa”. Ma allora, scusi, perché Matteo Salvini dice che le riforme, della giustizia come del fisco, questa maggioranza non le farà? “Perché Salvini, come me, distingue: un conto sono le riforme tecniche sui codici di procedura ad opera di un governo tecnico; altro la separazione delle carriere tra magistratura giudicante e inquirente, con sdoppiamento anche dei Csm. Questa, per noi, è l’unica maniera per superare il correntismo, e le opacità di alcune inchieste che emerge anche dallo scandalo Palamara e dal caso Amara. Bisogna reagire in modo deciso, non possiamo più attendere. Ma ci rendiamo conto che una riforma così incisiva, e aggiungo divisiva, non si potrà fare con questa maggioranza. Ci vedete noi e i Cinquestelle o il Pd che troviamo un accordo per la separazione delle carriere? Aggiungo che è una rivoluzione tale, di rango costituzionale, che richiede tempo. La Lega dunque non crea ostacoli alle riforme del governo, chiamiamole riforme dell’oggi. Ma nessuno ci può vietare di preparare le riforme del domani, che avranno un percorso diverso, e il primo passo sarà il referendum con i radicali”. Una rivoluzione, certo. La separazione delle carriere alla fine porterebbe i pubblici ministeri sotto il controllo dell’Esecutivo, alla maniera francese? “No, indipendenza e autonomia non si toccano. Ma proprio perché il caso Palamara ci fa riflettere, noi pensiamo che al magistrato vada restituita un’indipendenza che spesso sembra aver perduto. Innanzitutto indipendenza dal correntismo esasperato”. Dal caso Palamara può venire almeno un freno per i pm troppo “mediatici” di Errico Novi Il Dubbio, 17 maggio 2021 Da appena un mese l’Italia ha recepito la Direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza: in attesa di norme che la attuino, va riscoperta la sobrietà. E adesso? Recepita nell’ordinamento italiano la direttiva 343 dell’Unione europea, col suo portato di censura per le violazioni della presunzione d’innocenza, cambierà qualcosa? Difficile dirlo. Le tentazioni mediatiche della magistratura inquirente potrebbero tanto ridursi quanto prescindere dal nuovo quadro giuridico, comunque modificato con l’approvazione in Parlamento, avvenuta lo scorso 22 aprile, della legge di delegazione europea 2019-2020, la numero 53 del 2021. In quel più ampio testo è inserita appunto la delega al governo sul recepimento dell’ormai “celebre” direttiva europea 343 del 2016 sulla tutela delle persone accusate e sulla presunzione della loro innocenza. Non siamo ancora dinanzi a preclusioni tassative per i pm, e neppure vale adesso la pena di inoltrarsi fra i cespugli delle ricadute, della giurisprudenza, delle possibili pronunce che sull’abuso mediatico delle Procure (e non solo) potrebbero venire dalla Cassazione. Ma forse qualche pronostico in chiave “politica” si può azzardare. Sia sugli ulteriori passi del legislatore, sia sulla tendenza che potrebbe registrarsi innanzitutto nelle rappresentanze della magistratura, e poi magari nei singoli inquirenti. Riguardo al primo aspetto, vanno ricordate alcune iniziative assunte soprattutto da parte di Forza Italia e di Azione, il gruppo politico guidato da Carlo Calenda. In particolare con emendamenti che entrambi i partiti hanno depositato lo scorso 27 aprile in commissione Giustizia alla Camera, dov’è in discussione il ddl sul processo penale. Certo, il vettore normativo scelto ha bisogno di correre, ed è già rallentato dalla crisi permanente sulla prescrizione. Marta Cartabia non vuole complicare ulteriormente una discussone già impegnativa, ma non si può escludere che il ministero della Giustizia, dove opera, con la guardasigilli, anche un sottosegretario attentissimo alle garanzie come Francesco Paolo Sisto, possa dedicare al contrasto del processo mediatico un ddl a parte. E in ogni caso, non è detto che si debba per forza attendere una nuova legge. Certo, servirebbe. Eppure non è insensato confidare ancor prima in una virata, da parte delle Procure, nei rapporti coi media e dunque nella “pubblicità” delle loro indagini. Non si può escludere che la crisi di autorevolezza apertasi nell’ordine giudiziario a partire dal caso Palamara suggerisca una riscoperta della sobrietà, sia nella politica associativa, con un’Anm dunque meno esposta e più attenta a occuparsi solo delle questioni che davvero la chiamano in causa, sia nei singoli magistrati inquirenti. I quali potrebbero avvertire la necessità di rendersi meno visibili, meno protagonisti sui giornali, meno audaci nel cercare la ribalta mediatica per rafforzare le accuse. Insomma, tra gli effetti collaterali dell’infinita crisi delle toghe potrebbe esserci quello di una loro maggiore prudenza. Alcune norme intanto sono già sul tavolo. Sono state elaborate da alcuni deputati storicamente attenti alla tutela del diritto di difesa e delle garanzie per gli accusati: in particolare, il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia alla Camera Pierantonio Zanettin e il deputato di Azione Enrico Costa, già viceministro a via Arenula. Il primo ha annunciato, lo scorso 27 aprile, che fra le modifiche al ddl penale depositate da FI, e che saranno discusse in commissione di qui a poche settimane, sono previste norme che proibiscono le conferenze stampa dopo gli arresti e addirittura le interviste ai pm quando le indagini sono in corso. Si propone il divieto di citare i nomi degli inquirenti e di pubblicare le loro foto negli articoli di cronaca giudiziaria. Ipotesi impegnative, che forse non potranno essere tutte tradotte in leggi condivise dall’attuale maggioranza. Ma come si vede, lo sforzo di attuare con norme tassative la direttiva 343 è già in atto, è forse ha solo bisogno d tempo per affinarsi. Sarebbe difficile opporsi a un’altra proposta dell’azzurro Zanettin, che prevede di “ripulire” il web e i social network dai nomi delle persone ingiustamente accusate, una volta accertata la loro innocenza. Qui l’intervento è urgente, visto che nei giorni scorsi lo stesso Garante della Privacy ha dichiarato l’impossibilità di cancellare, considerate le leggi vigenti, i nomi degli indagati: al massimo si possono deindicizzare i contenuti digitali che li riportano, ha spiegato l’authority. Anche Enrico Costa propone emendamenti che prevedono la cancellazione dal web dei dati relativi alla persona che è assolta o prosciolta. E poi avanza un’idea che merita senz’altro di essere “esplorata”: l’istituzione della “autorità Garante per la tutela della presunzione di innocenza”. Ancora, il responsabile Giustizia di Azione chiede un ripensamento di quanto stabilito con l’ultimo decreto intercettazioni, che ha esplicitamente autorizzato la pubblicazione delle ordinanze dei gip. Secondo Costa, tale licenza non solo andrebbe subito rimossa, ma si dovrebbe anzi dare finalmente consistenza al reato di pubblicazione arbitraria degli atti giudiziari, previsto all’articolo 684 del codice penale: oggi può essere “oblato” con il versamento di poche decine di euro, per il parlamentare di Azione invece i giornalisti andrebbero puniti “con una pena pecuniaria che va da un minimo di 50mila a un massimo di 150mila euro”. Ancora, a indagare sulle fughe di notizie relative alle indagini, propone Costa, dovrebbe essere una Procura diversa da quella in cui si è verificata la violazione. È prematuro pronosticare quali delle idee di Zanettin e Costa potranno trovare spazio nel ddl penale o comunque in altre iniziative di questa legislatura. È sicuro invece che il clima sul punto è cambiato. E tutto sta a capire se i magistrati, consapevoli del fatto che il contesto è meno agevole innanzitutto per loro, precorreranno persino, con le condotte quotidiane, i tempi del legislatore. Giustizialisti in mutande: una lezione per loro e per il Paese di Claudio Cerasa Il Foglio, 17 maggio 2021 Siamo degli inguaribili ottimisti, lo sappiamo. Tendiamo sempre a vedere il bicchiere mezzo pieno e non mezzo vuoto, lo ammettiamo. Rischiamo, ogni tanto, di sopravvalutare alcuni piccoli segnali che raccogliamo nelle cronache quotidiane che forse dimostrano meno di quello che noi ci aspettiamo. Ma stavolta è diverso. Stavolta lo sballo è sincero. Stavolta guardando il mondo della giustizia c’è un modo diverso di guardare gli scandali di questi giorni, e lo si nota se si sceglie di osservare il bicchiere non solo nella sua parte mezza vuota (il disastro) ma anche nella sua parte mezza piena (lo spasso). Lo spasso in questione, a costo di essere un po’ cinici, è quello che riguarda l’incredibile spettacolo offerto in questi giorni dalla giustizia italiana. E se proviamo ad allargare la nostra inquadratura, tentando in modo eroico di non soffermarci solo sui piccoli dettagli, ci renderemo conto di un fatto difficile da negare: il momento terribile, drammatico, osceno, crudele vissuto in questi mesi dai giustizialisti italiani. Pensate per esempio a Beppe Grillo che sul tema delle accuse al figlio è oggi lì a fare i conti con un circo mediatico-giudiziario che secondo lui avrebbe trasformato in furfante proprio il figlio, e verrebbe da chiedere a Grillo chi, secondo lui, in questi anni ha contribuito ad alimentare quel distributore automatico di fango che lui stesso oggi sembra voler denunciare. Pensate per esempio al brutto momento che sta passando un politico tutto d’un pezzo come Nicola Morra, scomodissimo presidente dell’Antimafia, che dopo aver foraggiato per anni, anch’egli, il circo mediatico-giudiziario si ritrova ora a fare i conti con un circo che gli chiede conto di ciò che ha combinato con Davigo (copyright Robledo), che, secondo lo stesso racconto di Morra, gli avrebbe consegnato, in un sottoscala, dei verbali coperti da segreto istruttorio, commettendo dunque, sempre stando alle dichiarazioni di Morra, un reato che se fosse stato ammesso da qualcun altro sarebbe stato considerato da Morra ovviamente come un’oscenità fino a prova contraria. E invece oggi no. Pensate a questo. E pensate anche ad altro. Per esempio al brutto momento che sta passando un magistrato tutto d’un pezzo come Sebastiano Ardita, già autore di un saggio molto scomodo sui giustizialisti italiani (firmato con Piercamillo Davigo, con prefazione di Marco Travaglio) e già animatore nel passato (nel 2017) del primo convegno organizzato dall’associazione di Casaleggio, altra grande jam session di garantisti, che oggi si ritrova a fare i conti con un circo mediatico-giudiziario che ha provato a screditarlo (Amara, il cocco della procura di Milano, ha inserito anche il nome di Ardita nella famosa e fantomatica loggia Ungheria). Pensate per esempio al brutto momento che sta passando Piercamillo Davigo, a cui va tutta la nostra sincera e umana solidarietà, che al netto delle azioni compiute con il dottor Storari, azioni che sarà certamente la magistratura a giudicare in modo non accondiscendente, perché noi, come tutti gli italiani, abbiamo fiducia nella magistratura, si trova oggi ad affrontare una sfida più complicata di quella giudiziaria. Per chi si fosse distratto: Davigo ha ricevuto dal dottor Storari senza averne il diritto delle carte coperte dal segreto istruttorio. E secondo quanto dice il vicepresidente del Csm David Ermini, la ricezione di quelle carte non è mai stata comunicata in forma ufficiale, scritta, al comitato di presidenza del Csm. E proprio quelle carte poi sarebbero state successivamente offerte dalla segretaria di Davigo, poco dopo il pensionamento di Davigo, ad alcuni giornalisti. Non ce ne voglia Piercamillo, ma siamo certi che, se il caso Davigo non avesse riguardato Davigo, l’ex pm di Mani Pulite avrebbe usato per il dottor Davigo, di fronte alle azioni della sua ex segretaria, una frase tipica della cultura giustizialista: no, non poteva non sapere. Pensate a questo. E pensate, tra gli altri giustizialisti in mutande, per esempio al Movimento 5 stelle e al Pd, costretti a scrivere nero su bianco, sul Pnrr, che la corruzione non è un elemento endemico della società italiana che si cura appesantendo lo stato, ma è un elemento che si può provare a sradicare partendo da tre consapevolezze diverse: dal fatto che “la corruzione può trovare alimento nell’eccesso e nella complicazione delle leggi”; dal fatto che diverse “norme sui controlli pubblici di attività private, come le ispezioni, da antidoti alla corruzione sono divenute spesso occasione di corruzione”; dal fatto che “occorra evitare che alcune norme nate per contrastare la corruzione impongano alle amministrazioni pubbliche e a soggetti privati di rilevanza pubblica oneri e adempimenti troppo pesanti”. Il tutto dopo aver combattuto per anni la corruzione facendo l’esatto opposto: appesantendo lo stato a colpi di populismo penale, perché non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti. Pensate poi per esempio a Gratteri, costretto a scusarsi per aver scritto fesserie complottiste nella famosa introduzione allo scomodissimo libro sui segreti di stato della pandemia, e costretto di fatto a rinnegare lo stesso spirito giustizialista, tutti colpevoli fino a prova contraria, che ha animato non poche delle sue invettive giudiziarie. Pensate per esempio ai giornali complici degli inventori delle patacche (Ciancimino, il pataccaro, è stato per anni un idolo degli stessi giornali, Repubblica e il Fatto, che oggi invece si scagliano senza mezzi termini contro il pataccaro Amara, arrivando anche a condannare il metodo usato da loro stessi nel passato, ovvero la violazione del segreto) che oggi sono lì impegnati a convincere i propri lettori di un fatto preciso: no, le patacche non sempre sono una risorsa ma invece sono spesso un problema. Tu guarda. Pensate al caso, ancora, della procura di Milano, specchio perfetto del modo in cui un pezzo della magistratura italiana, negli ultimi anni, ha preso letteralmente in giro il paese con la farsa dell’obbligatorietà dell’azione penale (espressione che forse andrebbe sostituita nei manuali di giurisprudenza con l’aleatorietà dell’azione penale) il cui capo, l’altissimo e rispettabilissimo dottore Francesco Greco, si ritrova sotto attacco di un manipolo di ex giustizialisti convertiti, come Antonio Ingroia e Antonio Di Pietro. Con il primo, vai avanti tu che a me vien da ridere, che arriva a dire che il caso Amara “consegna un pessimo spettacolo agli occhi dei cittadini che hanno la deleteria, e difficilmente contestabile, impressione che gli uffici giudiziari e perfino le auliche sedi del Consiglio superiore della magistratura si sono trasformate in una cosa peggiore del ‘palazzo dei veleni’, in veri e propri ring dove si consumano guerre per bande, senza esclusione di colpi”. E con il secondo che, riferendosi a un altro filone di indagine in cui era coinvolto Amara, il caso Eni, condotto con la consueta eleganza dal dottor Fabio De Pasquale, ha condannato senza mezzi termini quanto fatto dalla procura di Milano in quell’indagine, perché “si è trattato di un modello di indagine alla ricerca di un reato, non è un modello di indagine alla scoperta del colpevole di un reato certo, avvenuto”. Giustizialisti di ieri contro il giustizialismo di oggi: uno sballo! Pensate a questo, ma pensate anche a tutti gli altri giustizialisti che si muovono come anguille (ops) nel torbido che loro stessi hanno contribuito ad alimentare (un caso su tutti: quello del noto giornalista giustizialista di Arezzo vaccinatosi, ancora non si capisce come, prima di molti anziani della sua regione, che ha passato parte degli ultimi mesi, in quei preziosi istanti sottratti alle beauty farm, a lamentarsi dell’incredibile cultura del sospetto, alimentata davvero non si capisce da quali giornalisti e da quali giornali, che lo ha trasformato in modo inspiegabile in un manigoldo fino a prova contraria). Il grande spettacolo offerto dai giustizialisti che si scoprono improvvisamente garantisti, che si scoprono improvvisamente nemici della cultura del sospetto, che si scoprono improvvisamente nemici della teoria del “non poteva non sapere” non è uno spettacolo utile per dimenticare i disastri della giustizia italiana, ma è solo un modo per provare a osservarli coltivando un’illusione ottimistica eppure necessaria: sperare che i giustizialisti in mutande, un domani, possano pensarci due o tre volte prima di contribuire ad avvelenare i pozzi del paese con le loro sciocchezze. Chissà. La passerella di Enzo coi ferri ai polsi fu il primo atto del processo mediatico di Francesca Scopelliti* Il Dubbio, 17 maggio 2021 La vicenda di Tortora fu il primo caso in cui i giornalisti indossarono la toga da inquisitori. Il primo esempio di processo mediatico, studiato con una sceneggiatura e una regia degne di un kolossal, è senza dubbio la vicenda giudiziaria di Enzo Tortora: dalla passerella con i ferri ai polsi per raggiungere il cellulare della polizia penitenziaria, alla feroce campagna stampa frutto di una costante violazione del segreto d’indagine (l’avvocato Raffaele della Valle, difensore di Tortora, ama raccontare che in quei giorni gli atti giudiziari venivano depositati in edicola e non in procura!). Tutto doveva servire a costruire Tortora colpevole. Ad ogni costo. Per salvare la credibilità dell’inchiesta contro la NCO. Per salvare la loro faccia, quella dei due inquirenti. Per compensare la mancanza di prove e riscontri. C’è un libro, piccolo nel formato ma grande nei contenuti, “Il circo mediatico-giudiziario”, scritto da Daniel Soulez Larivière, che nel distinguere il potere mediatico da quello giudiziario pone l’accento sul giornalismo di investigazione e sul giudice alla conquista dei media. Un testo che avrebbe dovuto fare scuola. Non è andata così. Anzi, a dire il vero sembra aver semmai “suggerito” come coniugare inchieste giudiziarie e mezzi di informazione per ottenere il massimo risultato. Nella prefazione, Giuliano Ferrara scrive “credo di essere la persona giusta” perchè alla fine degli anni ottanta, in una trasmissione Rai “Linea rovente”, aveva indossato la toga per celebrare una dozzina di processi televisivi (tra gli “imputati” vi era stato anche Marco Pannella). “Ma io scherzavo!” precisa. E invece anche in questo caso il format tv ha fatto scuola. E tanti giornalisti, di quelli che si prendono troppo sul serio, che non hanno il senso della misura ma solo quello dell’arroganza, seduti dietro la loro scrivania oppure in piedi davanti alla telecamera, hanno ripreso quella toga e l’hanno indossata davvero. A discapito dello Stato di diritto. Falsificata dalle emozioni del gossip, la verità mediatica diventa nei fatti più forte, più suggestiva della verità vera. Ogni anno, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, di fronte alle più alte autorità, il Procuratore Generale di turno della Cassazione denuncia il consolidato malcostume di offendere - in nome del diritto all’informazione - la dignità e il rispetto della vita privata di un cittadino, il diritto costituzionale ad un giusto processo, la presunzione di innocenza. La “verità” mediatica, ammaliante come il canto delle sirene per Ulisse, diventa più risonante di quella processuale. Anche per quel giudice che ha il compito di giudicare secondo la legge e che invece - mancando la condizione della separazione delle carriere - viene già influenzato dai magistrati inquirenti. Le cronache giudiziarie spesso lasciano un marchio sull’imputato, assecondando il giustizialismo e la presunzione di colpevolezza. D’altronde non è vero, come sostenne un noto magistrato, che “non esistono innocenti ma solo colpevoli che non sono stati ancora scoperti?”. Durante la rivoluzione francese, nei giorni del Terrore, la ghigliottina era lo spettacolo più ambito: ai suoi piedi si accalcavano delle vecchie che, tra berci e risate sguaiate, assistevano al mostruoso cadere delle teste. Per accaparrarsi il posto in prima fila arrivavano molto prima dell’esecuzione, e per ingannare l’attesa lavoravano a maglia. Per questo le chiamavano “les tricoteuses”. I nuovi mostri si accomodano ora davanti al televisore, ansiosi di vedere la ghigliottina della calunnia o della ingiusta condanna cadere sulla testa del povero disgraziato di turno. Non di rado sfogano il loro disprezzo scrivendogli contro frasi indegne sui cosiddetti “social”, l’unico strumento che hanno per cercare di attenuare la loro indicibile solitudine. Quanto a tutti gli altri, si limitano a fare spallucce. Almeno fino a quando la giustizia ingiusta non decide di colpirli, all’improvviso. *Presidente fondazione “Per la giustizia giusta Enzo Tortora” “L’imputato è un morto che cammina, condannato prima del processo” di Valentina Stella Il Dubbio, 17 maggio 2021 Intervista a Giorgio Spangher: “Il processo mediatico? Se i cittadini si stupiscono di una sentenza vuol dire che il loro giudizio è stato alterato. Bisogna riappropriarsi delle garanzie”. Per Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto Processuale Penale alla Sapienza, “gli imputati sono morti che camminano perché su di loro si posa lo stigma sociale scaturito dal racconto che il pubblico ministero costruisce intorno a loro e che la stampa replica all’infinito”. Professore quanto è grave il problema del processo mediatico nel nostro Paese? Il problema è molto grave. Le spiego il perché con alcuni esempi. Il giudice emette una sentenza e dal popolo si leva un grido di stupore “Li hanno assolti! Ma non erano colpevoli?”. Pensiamo poi a Mafia Capitale: benché la Cassazione abbia escluso l’aggravante mafiosa, per molti resta sempre un crimine di stampo mafioso. Cosa voglio dire con questo? Che il nostro sistema processuale non è incentrato sul dibattimento in aula ma sulla fase delle indagini. Prima era diverso. Nel 1955 in Italia si è celebrato il processo per la morte di Wilma Montesi, giovane donna ritrovata morta sulla battigia a Torvaianica. Tra gli imputati c’era Piero Piccioni, figlio di Attilio, fra i massimi esponenti della Democrazia Cristiana. L’avvocato di Piccioni riuscì a ottenere lo spostamento del processo da Roma a Venezia perché la gente si accalcava nel palazzo di giustizia della Capitale per conoscere morbosamente tutti i dettagli della vicenda. Per questa tensione mediatica sui giudici del dibattimento, il processo fu trasferito. Un grande successo per la difesa che ottenne anche l’assoluzione. Cerchiamo di snocciolare meglio il problema... L’avvocato Valerio Spigarelli fece giustamente notare che all’inizio del processo per Mafia Capitale c’erano molti giornalisti poi nessuno ha seguito le udienze e sono ritornati solo il giorno della sentenza. Se manca da parte della stampa il racconto del processo, la narrazione rimane ancorata alla formulazione dell’imputazione fatta dal pm durante le indagini e alla comunicazione che fa sulle fonti di prova. La gente assorbe pienamente la qualificazione giuridica data dal pm che presenta come già colpevoli gli indagati. Questo inoltre va a condizionare - ed è l’aspetto ancora più grave - tutta la fase iniziale del procedimento. Quante persone nel processo Mafia Capitale sono state mandate al 41bis, misura che poi si è rivelata inopportuna alla luce della sentenza? Quindi mi pare di capire che i problemi sono due... Sì. Abbiamo quello relativo alle conferenze stampa del pm e ai video delle forze dell’ordine che già condannano le persone coinvolte. Questa immagine di colpevolezza viene offerta all’opinione pubblica per un tempo indefinito: si costruisce intorno a un soggetto un giudizio di responsabilità ma anche un fatto che appare cristallizzato come vero, grazie anche all’abuso delle intercettazioni. A ciò si aggiunge il modo in cui il soggetto viene presentato. Pensi a quanto accaduto a Massimo Bossetti il cui arresto è andato in onda a reti unificate. O andando indietro nel passato ad Enzo Carra che fu condotto dal carcere al tribunale con gli “schiavettoni” ai polsi per essere incriminato da Davigo. Quindi il dibattimento non conta più? Esatto: arriva a distanza di tempo e non conta più di tanto. La criticità è dunque questa: che il processo si celebra prima di entrare nell’aula di dibattimento. E questo va ad incidere anche sulla credibilità della giustizia. Oggi poi assistiamo allo strano fenomeno che se un giudice assolve o mitiga la pena la gente e i parenti delle vittime si scagliano contro di lui. Se condanna va tutto bene, in caso contrario qualcosa non ha funzionato... Esatto. È qui che sta la patologia; se la gente si stupisce della sentenza vuol dire due cose: che il suo giudizio è stato precedentemente condizionato e che non ha assistito al dibattimento. A formare il giudizio preventivo c’è anche il fatto che vengono pubblicati atti di indagine che non dovrebbero essere resi noti o accade che testimoni vengano contro interrogati nelle trasmissioni tv... La regola sarebbe quella che il pm ha il dono della riservatezza; gli atti non dovrebbero uscire se non nei limiti in cui si dà conoscenza del contenuto in via sommaria. Invece il compito della Procura può essere molto utile nel correggere, come ha detto il procuratore Melillo qualche giorno fa in un webinar, l’informazione scorretta, qualora la stampa fornisse all’opinione pubblica una ricostruzione errata. Secondo Lei i giudici hanno una struttura tale da non farsi influenzare dal processo mediatico parallelo? Un proverbio sardo dice che nel cuore di un uomo entra solo dio e il coltello. È difficile capire quanto un giudice possa essere impermeabile alle influenze esterne. Io credo che il nostro giudice è un professionista che ha l’onere di motivare la sua decisione. Sa che la sua sentenza va a giudizio in Appello e poi in Cassazione: nulla teme di più il giudice che il giudizio dei suoi colleghi. Però è anche vero che da tanto tra i giuristi si dibatte di come la virgin mind dei giudici possa essere inficiata. Il giudice di primo grado dovrebbe arrivare in aula senza sapere nulla... Questo è un altro discorso, lei ha ragione. Non sono in grado di valutare il condizionamento psicologico di un magistrato. Quello che posso dirle è che il codice di procedura penale dice che il giudice valuta in base alle prove che ha regolarmente acquisito nel processo. Purtroppo con le sentenze del 1992 e 1994 della Corte costituzionale noi recuperiamo larga parte del materiale dichiarativo che è stato assunto dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria. È un problema che mette in crisi l’oralità a svantaggio del contraddittorio. Il concetto di tabula rasa del giudice vergine non esiste più, non dal punto di vista dell’influenza mediatica ma del materiale probatorio. Un’altra conseguenza del processo mediatico è anche la trasformazione degli indagati e degli imputati in mostri. Su di loro si posa uno stigma sociale difficile da abbandonare, al di là delle risultanze processuali... Su questo ha ragione: proprio lo spostamento del processo nella fase delle indagini e la morbosità mediatica determinano già una sanzione per gli indagati. Questo è fuori discussione ed è lo stigma peggiore perché il pubblico ministero li presenta in una certa maniera e i giornali danno voce solo a quel racconto. Sono già dei morti che camminano anche se si salveranno e verranno dichiarati innocenti. Saranno per sempre vittime della damnatio memoriae. Infatti nonostante sentenze di assoluzione, le persone e alcuni colleghi giornalisti su determinati fatti di cronaca continuano a ritenere gli imputati colpevoli, giustificandosi così: “la verità giuridica non è quella storica”... Esatto, questo è importante: quello che il pm costruisce nei suoi capi di imputazione è la cosiddetta verità storicizzata, come se dicesse a se stesso “il processo è una cosa, ma io come pubblico ministero custodisco la verità”. Il pm costruisce una sua notitia criminis che resta storicizzata, anche se il processo farà un altro corso. Come usciamo da tutto questo? Adesso abbiamo recepito anche la direttiva europea sulla presunzione di innocenza... Ma dobbiamo attuarla subito insieme a degli strumenti importanti, come il reclamo, il diritto all’oblio e anche una sanzione disciplinare nei confronti del pubblico ministero che tiene conferenze stampa superando i limiti previsti per il rispetto della presunzione di innocenza. Il primo obiettivo è comunque riappropriarci delle garanzie: tutti gli attori coinvolti devono capire questo, dai pubblici ministeri ai giornalisti. E mai dimenticare che il processo penale non riguarda gli altri, ma domani potrebbe riguardare noi. La Consulta: non si riqualifica un reato in corsa a sfavore del reo di Valentina Stella Il Dubbio, 17 maggio 2021 Nella sentenza n. 98 la Consulta ha ritenuto inammissibile una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Torre Annunziata. Il divieto di applicazione analogica della legge penale a sfavore del reo “costituisce un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo della legge”: è quanto si legge nella sentenza n. 98 - redattore Francesco Viganò - depositata ieri, con la quale la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Torre Annunziata. Il Tribunale stava celebrando un processo contro un imputato accusato dal pm di stalking, per una serie di condotte abusive compiute nei confronti di una donna con cui intratteneva da qualche mese una relazione affettiva, e che frequentava abitualmente la sua casa familiare. Al termine del dibattimento, il giudice aveva prospettato alle parti la possibilità di una riqualificazione dei fatti contestati all’imputato nel più grave delitto di maltrattamenti in famiglia. A quel punto l’imputato aveva chiesto di essere ammesso al giudizio abbreviato, e di godere così del relativo sconto di un terzo della pena in caso di condanna. Il giudice, preso atto che il codice di procedura penale non consente di chiedere il rito abbreviato al termine del dibattimento, bensì solo all’inizio, aveva ritenuto che una simile preclusione fosse incompatibile con i principi di eguaglianza e del giusto processo, e dello stesso diritto di difesa. In sintesi il Tribunale si è chiesto: perché la legge mi consente di riqualificare il reato ma allo stesso tempo non mi permette di richiedere il rito abbreviato al termine del processo? Conseguentemente, il Tribunale ha sollevato questione di costituzionalità. Tuttavia la Consulta non ha esaminato nel merito la questione, ritenendo che il Tribunale abbia errato nella riqualificazione in quanto il reato di maltrattamenti in famiglia presuppone che le condotte abusive siano compiute nei confronti di una persona della stessa “famiglia”, oppure di una persona “convivente”. I giudici costituzionali hanno quindi ricordato “il fondamentale canone interpretativo in materia penale, basato sull’art. 25 secondo comma Cost. e rappresentato dal divieto di applicare la legge oltre i casi da essa espressamente stabiliti. La Consulta ha evidenziato che il giudice del procedimento principale non aveva spiegato le ragioni per le quali aveva ritenuto che, a fronte di una relazione affettiva durata qualche mese e caratterizzata da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro, la vittima potesse essere considerata, alla stregua del linguaggio comune, come persona già appartenente alla medesima “famiglia” dell’imputato, ovvero con lui convivente”. Tabulati telefonici, le prime contrastanti pronunce dei giudici italiani di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2021 Tribunale che vai acquisizione che trovi. E il tribunale di Rieti sceglie la via della Corte di giustizia. A quando l’intervento normativo? All’interno del numero 20 del 22 maggio del settimanale “Guida al Diritto” - in distribuzione agli abbonati a partire da oggi - è stato pubblicato un servizio dedicato agli orientamenti dei tribunali italiani dopo la sentenza della Corte giustizia europea del 2 marzo 2021, causa C-746/18 sull’acquisizione dei tabulati telefonici da parte del pubblico ministero. Vi riportiamo di seguito una prima ricostruzione della questione. Sono passati poco più di due mesi dalla sentenza c.d. H.K. (Corte di giustizia dell’unione europea - Grande Sezione Sentenza 2 marzo 2021, H.K., causa C-746/18) in tema di data retention e acquisizione dei tabulati telefonici per finalità di giustizia. Questo relativamente breve lasso di tempo è però bastato a creare il caos negli uffici giudiziari. Si sono, infatti, susseguite diverse interpretazioni sulla disciplina da applicare, non solo tra i diversi tribunali, ma addirittura anche all’interno degli stessi uffici del Gip. A spazzare via ogni dubbio interpretativo potrebbe essere la stessa Corte di giustizia, chiamata in causa dal Tribunale di Rieti (ordinanza 4 maggio 2021, Pres. Sabatini, rel. Marinelli) per superare nel più breve tempo possibile un tale impasse ermeneutico. Nella famosa sentenza la Corte di Lussemburgo aveva, in sostanza, affermato che soltanto la repressione di gravi forme di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica può giustificare intrusioni nella vita privata di un singolo individuo, con la conseguenza che l’accesso ai tabulati deve essere circoscritto a tali ipotesi. Inoltre, per i giudici europei autorità competente ad autorizzare l’accesso ai dati non può essere il Pubblico ministero, ovvero un soggetto il cui compito sia quello di “dirigere il procedimento istruttorio penale e di esercitare, eventualmente, l’azione penale in un successivo procedimento”. Tali principi sono stati invero elaborati dalla Corte Ue in relazione all’ordinamento estone, nel quale il ruolo del Pm è diverso da quello italiano e non gode delle garanzie di giurisdizionalità che l’ordinamento italiano attribuisce a quest’ultimo. La domanda che si sono posti i giudici italiani è stata se le affermazioni della Corte di giustizia siano applicabili anche nel nostro ordinamento e se, quindi, il Pubblico ministero italiano possa ritenersi ancora organo dotato dei requisiti necessari per l’autorizzazione all’acquisizione dei dati relativi alle comunicazioni degli indagati, come prevede l’articolo 132 comma 3 del Codice della Privacy (D.lgs. n. 196/2003) e come costantemente ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità; e, ancor prima, come individuare i reati che compongono il catalogo di quelle gravi forme di criminalità per le quali è consentita l’acquisizione dei dati. Applicabilità diretta della sentenza H.K. Vs Persistenza della normativa interna - A tali quesiti i giudici italiani hanno risposto schierandosi in due fazioni: da una parte, coloro che hanno optato per la disapplicazione della normativa interna (Gip di Roma, decreto 25 aprile 2021, giud. Sabatini; Gip di Bari, decreto 1° maggio 2021, giud. Agnino); dall’altra, coloro che si sono espressi a sfavore della diretta applicabilità della decisione europea (Tribunale di Milano, ordinanza 22 aprile 2021, Pres. Malatesta; Gip di Roma, decreto 28 aprile, giud. Fanelli; Gip di Roma, decreto 29 aprile, giud. Savio). Per il primo orientamento, alla luce delle affermazioni della Corte Ue, deve ritenersi che il Pubblico ministero italiano non possiede quella caratteristica di terzietà necessaria per disporre l’acquisizione dei tabulati, né pare essere sufficientemente equidistante per effettuare quel bilanciamento tra la necessità di condurre le indagini e quella di rispettare la vita privata dei soggetti indagati. A disporre le autorizzazioni all’acquisizione dei dati deve essere, pertanto, il Giudice, mentre le problematiche concrete - inutilizzabilità delle autorizzazioni disposte dai Pm e individuazione del catalogo dei reati - che derivano dalla disapplicazione della normativa interna, vanno risolte trovando una sponda nella disciplina delle intercettazioni (articoli 267 e 271 cod. proc. pen.). Per il secondo orientamento, invece, non è possibile applicare la sentenza H.K. in Italia, per via della non sovrapponibilità tra la figura del Pubblico ministero estone e quella del Pubblico ministero italiano, quest’ultimo considerato una “Autorità giurisdizionale”, nonché per via della indeterminatezza delle affermazioni ivi espresse, quanto alla individuazione della autorità deputata a disporre l’autorizzazione e alla procedura che essa deve seguire. A disporre le autorizzazioni all’acquisizione dei dati deve continuare ad essere, pertanto, il Pubblico ministero, non potendo, tra l’altro, le problematiche concrete derivanti dalla disapplicazione della normativa interna essere risolte in via creativa dalla giurisprudenza, ma solo da un intervento del legislatore. Il rinvio pregiudiziale - Nell’attesa di una auspicata presa di posizione da parte del legislatore, pur aderendo sostanzialmente alla tesi che ritiene il Pubblico ministero dotato di un grado di autonomia e indipendenza sufficiente per continuare a disporre l’autorizzazione all’acquisizione dei dati, il Tribunale di Rieti opta per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. I giudici europei dovranno così sciogliere ogni dubbio in merito al nodo principale della questione: la riconducibilità del Pubblico ministero italiano nell’ambito di quelle autorità che, per le loro caratteristiche strutturali e funzionali, sono deputate ad autorizzare l’acquisizione di tabulati telefonici. Se così non fosse, per i giudici laziali il principale problema concreto sta nell’evitare il “rischio di “paralisi” delle indagini penali”, in assenza di una disciplina transitoria o di indicazioni “interptemporali”. Altra questione sta poi nella necessità di contemplare delle “eccezionali ipotesi di “urgenza investigativa”, tali da consentire al Pubblico ministero l’immediata acquisizione dei dati dei tabulati telefonici”, con successiva convalida da parte del Giudice procedente, al pari di quanto prevede l’articolo 267 cod. proc. pen. in tema di intercettazioni telefoniche. La futura pronuncia della Corte di giustizia si preannuncia, pertanto, come un tassello importante e un passo in avanti per la risoluzione interpretativa dell’intera vicenda, in attesa - forse - di un intervento legislativo diretto ad adeguare la normativa italiana al nuovo quadro europeo. Milano. Covid, a San Vittore tamponi salivari e vaccini hanno fermato la terza ondata di Sara Bettoni Corriere della Sera, 17 maggio 2021 Non solo scuole. I tamponi salivari molecolari, ufficialmente sdoganati sabato dal ministero della Salute, sono in uso anche a San Vittore. Si tratta di piccole spugnette da tenere in bocca per alcuni minuti, inserire in una provetta sterile e inviare in laboratorio per le analisi. Così si rintraccia la presenza del Covid nella saliva senza usare strumenti invasivi come il tampone che “fruga” nelle cavità nasali e orale. Per la loro praticità di somministrazione questi test sono considerati più adatti ai bambini, agli anziani e alle comunità “difficili”, come il carcere. Ruggero Giuliani, medico infettivologo e coordinatore sanitario a San Vittore, spiega: “A febbraio abbiamo cominciato l’esperimento con i ricercatori dell’università Statale che hanno messo a punto i tamponi salivari. Il nostro riferimento è la professoressa Elisa Borghi”. In un primo momento i “lecca lecca” anti-Covid sono stati proposti in parallelo con i test classici. “Dall’8 marzo invece li impieghiamo per coloro che arrivano dalla libertà - continua -. Poi i detenuti rimangono due settimane in un’area separata di accoglienza. Al 14esimo giorno li sottoponiamo al nasofaringeo”. Trattandosi di un contesto delicato, il salivare offre molti vantaggi. “La nostra esperienza è positiva - dice Giuliani. Dobbiamo proporre lo screening a persone agitate perché sono state private della libertà e che a volte sono in condizioni alterate a causa dell’alcol o delle droghe. In questi casi fare un tampone nasofaringeo è complesso. Ci sono capitati alcuni rifiuti”. Non mancano i rischi per gli operatori, che potrebbero respirare “goccioline” emesse dal detenuto, potenzialmente contagiose. Il salivare invece può essere anche auto-somministrato. “Abbiamo chiesto all’assessore regionale alla Sanità Letizia Moratti di estenderne l’uso anche alle altre carceri”. Più di 500 i “lecca lecca” analizzati da febbraio, 250 nel periodo tra il 6 marzo e il 18 aprile, da cui è nato uno studio scientifico. “Dalle prime evidenze sembra che i salivari rilevino il virus con qualche giorno di anticipo rispetto al nasofaringeo - dice il medico -. Una caratteristica utile per la nostra comunità, dove è difficile isolare i positivi”. Test frequenti e vaccinazioni hanno permesso al carcere milanese di evitare la terza ondata epidemica che ha investito il mondo “fuori”. Mentre nel primo picco si sono registrati 21 casi e 150 circa a novembre 2020. Ora la copertura vaccinale è superiore al 60/70 per cento, ma il lavoro di medici e infermieri (tutto personale dell’Asst Santi Paolo e Carlo) prosegue perché San Vittore vede un continuo ricambio di detenuti. E si pensa anche a chi viene scarcerato. “Abbiamo allestito una tensostruttura esterna per somministrare la seconda dose - dice Giuliani -, soprattutto ai senza dimora e a chi non ha documenti”. Mentre fin da febbraio la polizia penitenziaria può richiedere l’iniezione. “Perché il virus non fa differenze tra chi ha la divisa e chi no”. Pistoia. Per il Garante dei detenuti cambiano le regole quinewspistoia.it, 17 maggio 2021 Torna il rimborso spese, la relazione sull’attività diventa semestrale e viene meno l’obbligo di presenza fisica settimanale in Comune. Cambiano le regole per il garante dei detenuti rispetto al Comune di Pistoia. Torna il rimborso spese per 4.000 euro lordi annui, la relazione sulle attività diviene semestrale anziché trimestrale e cade l’obbligo di presenza fisica settimanale nei locali comunali. Le modifiche al regolamento sono state approvate dal consiglio comunale nella seduta di lunedì scorso dopo l’illustrazione in aula da parte del vicesindaco e assessore alle politiche di inclusione sociale e tutela della salute Annamaria Celesti. Le modifiche al regolamento del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, istituito con deliberazione del Consiglio Comunale il 17/10/2011 e rettificato nel 2015, sono state approvate con 18 voti favorevoli (Fratelli d’Italia, Pistoia Concreta, Forza Italia - Centristi per l’Europa, Lega per Salvini Premier, Gruppo Misto, Amo Pistoia), 6 astenuti (Partito Democratico, Gruppo Indipendente, Pistoia Spirito libero), nessun contrario. Ma quali sono i compiti del Garante? La figura di garanzia tra le altre cose favorisce l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone private della libertà, con particolare riferimento ai diritti fondamentali al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, allo sport. Promuove iniziative di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani dei detenuti in carcere e della umanizzazione della pena detentiva. Cagliari. Carcere di Uta, slitta l’apertura del padiglione 41bis socialismodiritti.it, 17 maggio 2021 “Sembra destinato a un ulteriore slittamento il trasferimento in Sardegna, nella Casa Circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari-Uta, dei detenuti in regime di 41bis, le persone ristrette in particolari condizioni di carcere duro. I lavori sono stati conclusi ma mancano alcuni servizi fondamentali per garantire appieno il funzionamento della struttura”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che spesso ha posto l’accento sull’eccessivo numero di detenuti dell’alta e della massima sicurezza nei Penitenziari dell’isola. “Il Padiglione del 41bis - osserva - dopo un lungo periodo di sospensione dei lavori, anche per una inchiesta della Procura di Cagliari, aveva ottenuto dei fondi aggiuntivi per il completamento delle opere, tanto che l’ex Ministro Bonafede aveva annunciato che entro il 2020 sarebbe stato pienamente operativo e si sarebbe proceduto al trasferimento di 92 boss portando dunque a 184 il numero in Sardegna dei ristretti nel regime del carcere duro. In realtà i lavori non sono stati completati nel modo dovuto e la struttura non contempla al suo interno il Servizio Assistenza Intensiva (Sai - ex Centro Clinico), cioè una sorta di attrezzata Infermeria per le problematiche sanitarie dei reclusi e neppure gli Uffici della Matricola, separati ovviamente da quelli del carcere “normale”. Non ancora risolto il problema del numero degli Agenti in servizio e dei Funzionari Giuridico Pedagogici, ridotti all’osso. È noto infatti che per la sicurezza nei Reparti 41bis operano gli Agenti del Gom (Gruppo Operativo Mobile), un corpo speciale della Polizia Penitenziaria istituito nel 1999, alle dipendenze del Dipartimento”. “Occorre anche considerare - fa notare ancora Caligaris - che nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta, con una media di circa 580/600 ristretti, esiste anche una sezione di Alta Sicurezza ma non c’è un Vice Direttore mentre il Responsabile deve occuparsi anche della Casa di Reclusione di Isili e Lanusei. Il ritardo nell’inaugurazione del Padiglione 41bis non può quindi far dimenticare che la Sardegna accoglie attualmente un altissimo numero di detenuti di notevole spessore criminale (con appartenenti alla ndrangheta, mafia, terrorismo ed eversione), un altrettanto importante numero di persone con gravi disturbi della personalità e psichiatrici, che non ha sufficienti personale né penitenziario, né rieducativo, né amministrativo e non può contare neppure su un numero adeguato di Direttori (tra qualche mese resteranno solo 4 su 10 Istituti per un pensionamento)”. “L’auspicio - conclude l’esponente di Sdr - è che il Dipartimento non pensi, in piena estate e non appena conclusa la prima fase di vaccinazione dei detenuti, di promuovere un’azione di forza con il trasferimento senza preavviso. Non sarebbe la prima volta ma sarebbe adesso opportuna una maggiore attenzione da parte dei Parlamentari sardi. Alcuni segnali sembrano dare indicazioni su pericolose infiltrazioni criminali che non giovano all’economia locale né a una regione che punta molto su ambiente, cultura e turismo”. Quelle violenze mediatiche che distruggono la vita delle persone di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 17 maggio 2021 “I dannati della gogna” è il volume del giornalista Ermes Antonucci, con la prefazione del presidente dell’Ucpi Giandomenico Caiazza. Qualche giorno fa, ricordando Angelo Giarda, abbiamo evidenziato la sua lezione, in occasione della difesa in favore di Alberto Stasi, coinvolto nell’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco, su come gestire il “processo mediatico” e non farsi inghiottire da esso. Chi viene accusato di un reato deve difendersi dalle contestazioni dell’accusa e dalla gogna mediatica che spesso viene attivata. Il tutto con la complicità di certi santoni dell’informazione che muovono argani e ingranaggi. Alle vite distrutte dalla libido dei fautori della gogna mediatica ha dedicato quattro anni del suo lavoro giornalistico Ermes Antonucci, autore del libro edito da Liberilibri ed intitolato “I dannati della gogna. Cosa significa essere vittima del circo mediatico-giudiziario” (pagg. XIV-138, euro 13). Antonucci è giornalista del quotidiano “Il Foglio”. Il volume ospita la prefazione di Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, e racconta venti storie di politici, imprenditori, manager e uomini comuni costretti a fare i conti, prima ancora che con le accuse formulate in tribunale, con una devastante esposizione mediatica. Un meccanismo infernale che sembra essere entrato nella vita degli italiani e del nostro Paese e che alcune volte pare non indignare e preoccupare più. Eppure, i danni che provoca sono incalcolabili con conseguenze dirette nelle carriere professionali, nei rapporti familiari, sociali e affettivi. Vite intere condizionate per sempre. La disumanità passa attraverso la pubblicazione sui giornali di notizie coperte da segreto investigativo, la diffusione di intercettazioni penalmente irrilevanti, la colpevolizzazione preventiva, l’annientamento della privacy di indagati e imputati. Tra le storie raccontate quelle di personaggi famosi Calogero Mannino, Giulia Ligresti, Clemente Mastella e Francesco Bellavista Caltagirone, ma anche quelle di persone ai più sconosciute come Roberto Giannoni, Rocco Loreto e Diego Olivieri. La lezione dei latini sembra essere stata dimenticata. La riflessione giustinianea, in dubio pro reo, è da lasciare nelle pagine dei libri o da sfoderare in qualche talk show per sfoggiare una conoscenza superficiale e narcisistica. “L’ipotesi accusatoria - riflette nella sua prefazione l’avvocato Caiazza - soprattutto in società di debole cultura democratica, assurge a rango di giudizio attendibile e di già definitivo per il fatto stesso di provenire da un’autorità pubblica: se lo hanno arrestato, ci sarà una ragione. E tanto più vasta sarà la eco mediatica dell’accusa, tanto meno chi l’ha promossa sarà disposto a riconsiderarne il fondamento. Il cappio si stringe intorno al collo del presunto colpevole con un doppio nodo scorsoio: la gogna mediatica da un lato, l’accusatore impegnato nella strenua autodifesa a oltranza, dall’altro”. Secondo il presidente delle Camere penali, il promotore della gogna mediatica non ammetterà mai di aver sbagliato. Per questo è importante per chi incappa nei meccanismi della gogna trovare un giudice davvero terzo: “Non c’è scampo, fino a quando il presunto colpevole non avrà la ventura di incontrare un giudice indifferente: evento, purtroppo, nient’affatto scontato, e comunque quasi sempre drammaticamente tardivo”. Il “processo mediatico”, la violenza che travolge chi è coinvolto in alcune inchieste toglie voce e dignità al malaugurato cittadino, con l’impossibilità di trovare adeguato ristoro, prima di tutto morale, quando il vero processo approda in tribunale. “Il fenomeno - scrive Ermes Antonucci - si è affermato in numerose nazioni, ma è in Italia che mostra una forza e una violenza senza pari, tanto da portare a un annientamento sostanziale di alcuni principi basilari stabiliti dalla nostra Costituzione, a partire dalla presunzione di non colpevolezza (articolo 27)”. In questo scenario non sono esenti da responsabilità alcuni operatori dell’informazione. Sembrano sempre i più informati di tutti, i primi ad arrivare e a raccontare, purtroppo, solo un pezzo delle storie giudiziarie che li esaltano. “Questo tritacarne mediatico - dice l’autore - si palesa in varie forme: notizie passate ai giornalisti da procure e polizia giudiziaria, pubblicazione integrale sui giornali del materiale di indagine spesso ancora coperto da segreto, diffusione di intercettazioni (spesso penalmente irrilevanti) e di immagini di persone sottoposte a restrizione della propria libertà, assenza di contraddittorio, colpevolizzazione preventiva e mancanza di attenzione per le fasi successive dei procedimenti penali (con sentenze di proscioglimento o di assoluzione relegate, quando va bene, a minuscoli trafiletti sui giornali), invasione morbosa negli ambiti privati dei malcapitati”. Una inchiesta raccontata da Antonucci nel 2017 sul Foglio venne accompagnata da una vignetta di Vincino. Nel disegno l’accusato, il povero “dannato”, è intento ad ascoltare il magistrato che lo accusa, mentre alcune persone, con il ghigno inferocito, lo fustigano e bastonano. “Una sintesi visiva perfetta del meccanismo della gogna”. Una delle storie contenute nel libro di Antonucci è quella di Diego Olivieri, finito in una inchiesta dell’FBI e della Direzione distrettuale antimafia di Roma (con il pm Italo Ormanni). L’imprenditore veneto venne accusato di essere il punto di riferimento di un’organizzazione mafiosa dedita al traffico internazionale di droga. Per queste ragioni venne imprigionato in un carcere di massima sicurezza per un anno intero, prima di essere assolto, senza lo stesso clamore di quando venne arrestato, cinque anni dopo per non aver mai commesso alcun crimine. Nel frattempo la gogna mediatica lo aveva stritolato. Chi garantisce un giusto processo di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 17 maggio 2021 “La giustizia come professione” (Einaudi, pagg. 208, euro 17,50). Il testo che segue, tratto dal libro, è stato adattato dall’autore per Repubblica. Difendere anche gli indifendibili permette allo Stato di ricorrere al diritto di giudicare, evitando violenze sommarie. La riflessione del giurista, mentre esce il suo nuovo saggio. I non giuristi si pongono la domanda: l’avvocato che sa della colpevolezza di chi gli si rivolge può assumerne la difesa? Perché la sua coscienza professionale sia tranquilla, deve essere certo dell’innocenza del suo cliente o, quanto meno, essere nel dubbio. In breve: dev’essere in buona fede? Il pubblico profano, magari con una certa superficialità, pensa che difendere chi ha commesso una cattiva azione e cercare di farlo apparire innocente equivalga a diventarne corresponsabile. Penserà, insomma, che quell’avvocato, capace di trasformare il bianco in nero e il nero in bianco, sia un “cattivo cristiano”. Il codice deontologico chiede all’avvocato di rifiutare la sua opera quando possa desumere ch’essa contribuisca alla realizzazione di “operazioni illecite”. Che cosa questa dizione significhi in concreto non è chiaro. Chiara invece l’esigenza in astratto: l’avvocato non deve diventare “complice” del suo assistito nel compiere le sue cattive azioni. Soprattutto in certi ambienti dove domina l’illegalità e le sue compagne, la violenza e l’omertà, quella norma è un invito, non si sa quanto efficace, a non cadere in una rete di connivenze e di ricatti da cui non potrà uscire anche perché, entrando, viene a conoscenza di cose che soffocano la libertà, quella libertà che è quintessenza d’ogni “professione liberale”. L’”avvocato di mafia”, per esempio, è ancora un libero professionista? I giuristi di oggi, di solito, eludono la questione di coscienza. Per esempio, essa sarebbe un’ingenuità propria delle anime semplici. Tutti, anche i peggiori delinquenti, hanno il sacrosanto diritto d’essere difesi. Sì, ma perché proprio da te? Di avvocati ce ne sono tanti e, anche se non si trovasse quello disposto, esiste la difesa d’ufficio. Altro argomento: all’avvocato interessano soltanto gli aspetti giuridici, gli stessi che il giudice dovrà valutare. La responsabilità, la colpevolezza, la moralità del suo assistito è del tutto irrilevante. L’avvocato non vorrà nemmeno saperne. Ciò che conta, per lui, sono esclusivamente i profili giuridici del caso e gli argomenti legali ai quali potersi appoggiare. I suoi doveri stanno tutti e solo qui: nella trattazione competente e scrupolosa della causa. Tutto il resto - si dice - appartiene a un’altra dimensione, la morale; e la morale con il diritto positivo non deve essere mescolata. Del resto, la giustizia non sta quasi mai nell’alternativa tutto o niente, bianco o nero. Ci sono tante sfumature di giustizia lavorando sulle quali le domande radicali non si pongono o non si pongono come vorrebbero coloro che dividono il mondo tra il bene e il male. Tuttavia, per chi non crede possibile la detta netta separazione della legge dalla giustizia, per chi pensa che questa separazione sia artificiosa, la domanda: “che cosa m’induce ad accettare o a rifiutare d’assumere una difesa?” si pone necessariamente. Non insistiamo sulla forza persuasiva del denaro, della “parcella”. Non insistiamo per la semplice ragione che questo fattore quasi sempre decisivo nelle umane decisioni non è affatto una prerogativa delle professioni liberali. Pecunia regina mundi. La “coscienza all’incanto” di cui parlava Dostoevskij non è un triste privilegio dei giuristi. Non stiamo neppure a parlare della forza attrattiva che sull’avvocato esercita la notorietà del cliente, la sua importanza sociale, perfino la sua immagine fosca e diabolica: gliene potrà derivare fama per il sol fatto di avere difeso un individuo illustre. Alcuni esempi, lasciando fuori gli italiani: Jacques Vergès, controverso personaggio, famoso per aver assistito grandi criminali, come Klaus Barbie, il “boia di Lione” (ufficiale nazista responsabile, tra l’altro, dello sterminio di tanti bambini ebrei), il capo cambogiano Khien, e terroristi attivi in varie parti del mondo, eccetera, guadagnandosi la fama di “avvocato del diavolo”. René Floriot, noto come l’avvocato più costoso di Francia, difese diversi criminali di guerra, il serial killer Marcel Petiot e fu protagonista nel celebre affaire Pierre Jaccoud, a sua volta eminente avvocato e uomo politico svizzero. I clienti famosi, non necessariamente i più ricchi, sono oggetti preziosi per gli avvocati. La fama del cliente si riverbera su quella del suo difensore. La notorietà nel “mercato” delle professioni giuridiche, come nel commercio, è una condizione di successo; il successo moltiplica il successo e apre le porte d’accesso in quelle atmosfere rarefatte del gran mondo dove possiamo trovare l’avvocato che gode di grande rispetto perché è uomo di fiducia di qualche potente, ne è “confessore” al quale, come al notaio d’un tempo, si confidano i segreti, anche i meno onorevoli. Esistono, poi, avvocati che per principio o di preferenza difendono le vittime e i deboli, anche gratuitamente, come fanno i cosiddetti “avvocati di strada”. Altri assumono la difesa “per partito preso”, come Donna Rotunno, negli Usa, che assiste per principio i presunti stupratori di donne, oppure come Tina Lagostena Bassi che, al contrario, difendeva le vittime contro i violentatori. Altri, gli “avvocati di tendenza”, difendono imputati politici perché militano dalla loro stessa parte e operano “per la causa” o per “l’idea”, come un tempo gli avvocati di “soccorso rosso”. Altri ancora che si tengono lontani dagli affari criminali delle tante mafie, dei tanti giri di potere opaco, delle massonerie compromesse in affari illeciti, oppure che accettano di entrarvi. Altri, ancora, che difendono, per scelta di campo, i grandi interessi imprenditoriali e finanziari a prescindere dalle troppe domande e dalle offese che le vittime possono patire, e lo stesso fanno per i potenti della politica. Altri, infine, che difendono chiunque senza fare differenze, in nome del diritto alla difesa che spetta a tutti. Perfino può accadere che si assuma consapevolmente la difesa in processi dai profili ripugnanti, per affermare nobilmente che anche in quei casi, e proprio in quei casi - la violenza sui bambini, lo stupro, l’omicidio efferato, la strage, lo sterminio, il linciaggio mediatico, eccetera -, il diritto ha le sue ragioni e il processo non deve trasformarsi in un’ordalia o in una vendetta mascherata da dare in pasto a un’opinione pubblica sovreccitata. I giuristi sono lì per questo. Gli avvocati dei grandi processi del XX secolo, Norimberga e Gerusalemme per esempio, non è detto che stessero dalla parte politica di Goering e degli altri capi nazisti o di Adolf Eichmann. Anche in quei processi, dagli esiti in gran parte scontati, la voce del diritto doveva risuonare se non altro simbolicamente. Nei paesi che si dicono civilizzati, non si mette a morte nessuno senza un “regolare processo legale” anche quando i fatti sono certi e si sa fin da prima quale sarà il finale. Il simbolo, proprio quando “la cosa” non c’è, e tutti lo sanno, è importante. Non si tratta necessariamente solo d’ipocrisia e di repellente finzione. La questione è meno semplice. Questa ipocrisia può essere considerata come omaggio alla giustizia che, seppur svuotata di contenuto nel caso concreto, deve almeno mantenere la forma in modo che, in altre meno tragiche ed estreme circostanze, possa riprendere la sua sostanza. Così si può rispondere alla grande domanda: perché si vuole comunque il processo, anche se la condanna è certa ben prima che si apra il dibattimento? Perché Servatius ha accettato di difendere Eichmann? Perché gli americani hanno imbastito un processo superando difficoltà d’ogni genere, prima di far impiccare Saddam Hussein? Perché a Norimberga si è svolto un impeccabile processo, almeno nel rituale, quando tutti sapevano, criminali nazisti compresi, che per loro non ci sarebbe stato scampo? Perché alcuni di loro hanno preferito togliersi la vita prima del processo: di che cosa, con la loro morte preventiva, hanno voluto privare i loro nemici che avevano imbastito il processo? La risposta è: del diritto di giudicare, un diritto sommo e terribile a cui nessuna società può permettersi di rinunciare. Per questo chi è in attesa di giudizio, conoscendo in anticipo il momento in cui sarà messo a morte, è sottoposto a guardia severissima per evitare il suicidio. È solo questione di non privarsi di un macabro spettacolo, oppure di non poter soddisfare le vittime col sangue del responsabile del loro dolore? La domanda è molto più importante di quella opposta: perché non passare subito per le armi o per il cappio “il mostro”, che si chiami Saddam Hussein, Bin Laden, Gheddafi o Slobodan Milosevic? Alla fine, perché il processo anche per costoro e perché c’è stato scandalo quando s’è fatta giustizia sommaria? Perché il diritto, anche a costo di trasformare il processo in una farsa? Vorremmo e sapremmo condannare l’avvocato che, con la sua presenza, permette lo svolgimento del rito della giustizia - sia pure di quella giustizia corrotta dall’ipocrisia - a conferma che allo Stato non è mai lecita la violenza bruta? “Resilienza e Benessere”, di Angelo Musso cuneocronaca.it, 17 maggio 2021 Lo psicologo al carcere di Cuneo pubblica un manuale su come affrontare le difficoltà. La vita sociale e di relazione, con l’esperienza della pandemia, è diventata per tutta l’umanità un carcere a ciel sereno. Lo spiega Angelo Musso con la sua opera recente dal titolo “Resilienza e Benessere”, Enigma Editore, Firenze pp, 240, in vendita in libreria ed online a maggio. Un manuale di psicologia per studenti, insegnanti, educatori, genitori e sanitari, insomma per tutti coloro che hanno necessità o semplicemente vogliono studiare le infinite risorse degli stili di vita dei detenuti alle prese con la permanenza obbligata e dura in carcere. Studiando attraverso l’esperienza di lavoro in carcere, la vita difficile dei detenuti, l’autore ne ha individuatole strategie psicologiche vincenti e utili per la riorganizzazione sana ed equilibrata del percorso di vita, con la possibilità estesa per tutti, di imparare strategie cognitive e comportamentali, la possibilità di trasformare un evento doloroso o più semplicemente stressante in un processo di apprendimento e di crescita che incontra necessariamente il tema della resilienza. L’autore, Psicologo specialista ambulatoriale, dopo anni di esperienza in Psichiatria, ha iniziato ad occuparsi di vita carceraria con l’incarico all’Asl Cn1 di Psicologo Penitenziario nel Servizio di Tutela della Salute del Detenuto (anticamente era il Servizio di Medicina Penitenziaria). L’osservatorio e i luoghi di pratica dell’attività di psicologia penitenziaria lo vedono protagonista in tre differenti carceri, la casa circondariale di reclusione di Saluzzo, quella di Cuneo e quella di Fossano. Angelo Musso racconta che lavorare alla valutazione e al sostegno del benessere della mente del detenuto, affrontando strategicamente le difficoltà dei detenuti nelle fasi di adattamento alla reclusione, gli stati d’ansia, di panico, i livelli di funzionamento del tono dell’umore, l’eventuale ideazione di pensieri forti autolesionistici, anticonservativi, così come prevedere e intercettare i possibili tentativi anticonservativi ed autolesionistici, è un lavoro delicato e tutt’altro che semplice. Tuttavia, l’autore va oltre, stravolge i termini e luoghi comuni delle ideologie sulla detenzione e pensa che la vita del detenuto possa essere un esempio di lectio magistralis per tutta l’umanità. L’obiettivo, per Musso, diventa studiare le persone in detenzione, all’interno dell’ambiente specifico e in particolare come i detenuti riescono o meno ad adattarsi alle necessarie regole di restrizione della libertà imposte dall’istituzione carceraria. Questo lavoro di ricerca comportamentale è dunque centrato sull’osservazione della messa in atto di capacità di adattamento al regime detentivo per meglio accettare e affrontare il percorso di reclusione. L’autore studioso e libero ricercatore di Psicologia della Salute a 360 gradi, vanta più di 25 pubblicazioni, ed evidenzia in questa opera il più recente ed importante significato del concetto di salute. Infatti nel 2011 L’Oms ridefinisce il concetto di salute come “la capacità di adattamento e di auto gestirsi di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive”. Tale definizione pone l’accento sulla capacità dell’uomo/persona di convivere con la malattia nelle sue varie fasi e con le difficoltà con spirito di adattamento e con capacità di resilienza. “La droga, le Br e la mia vita da ragazzo ribelle. Una sera mi ritrovai con un coltello alla gola” di Andrea Galli Corriere della Sera, 17 maggio 2021 Don Antonio Mazzi, fondatore di Exodus, ha scritto “La speranza è una bambina ostinata” (con Arnoldo Mosca Mondadori). Il libro, edito da Piemme, è (anche) un’intensa e ricca autobiografia. “Spesso commettiamo l’errore di parlare per primi, come se il tempo impiegato nell’ascoltare sia in qualche modo tempo perso o comunque da abbreviare il più possibile”. E con questa premessa, peraltro ospitata nelle prime pagine del libro, altrimenti non poteva essere che l’intervistato, don Antonio Mazzi, s’incontrasse con un intervistatore particolare, ovvero Arnoldo Mosca Mondadori, anima sensibile e colta, capace di rispettare i silenzi e i tempi del suo “interlocutore”. Il libro, “La speranza è una bambina ostinata”, è molto più di un’autobiografia oppure un testamento spirituale; semmai, nel volume edito da Piemme, prende corpo e slancio un’intensa camminata, come se i due autori avessero passeggiato per il parco Lambro. Ecco, il parco, storica sede e ancor prima incipit della missione del veronese don Antonio. “Mi sono trasferito a Milano nel 1979. Non volevo assolutamente venirci, ma prima di me era venuto qui don Luigi Maria Verzè per creare diverse scuole e centri educativi per l’avviamento professionale… Quando lui cominciò ad essere completamente assorbito dalla costruzione e organizzazione dell’ospedale San Raffaele, dovetti andare a Milano a sostituirlo alla direzione di uno dei centri per giovani da lui creato: una realtà che allora aiutava oltre mille ragazzi… A Milano erano gli anni di piombo e c’era l’esplosione del consumo di droga da parte di giovani e giovanissimi. Era una realtà che non conoscevo e nella quale temevo di non inserirmi bene…”. Come fu l’inizio? “Una gran fatica… Morirono due ragazzi nell’intervallo della scuola che era all’interno del parco… Una sera, all’uscita Cimiano della metropolitana, mi ritrovai con un coltello alla gola, così, come minaccia, senza parole… In quel periodo mi era stato affidato anche un ex terrorista, Marco Donat Cattin… Avevo ricevuto, simbolicamente, una parte delle armi dei terroristi...”. Tanto, forse troppo? “Pensavo sinceramente di andarmene, di chiudere tutto”. Don Antonio è icona di un sacerdozio e di una chiesa poco - anzi per niente - dogmatici ma aderenti alla realtà, dentro le cose, i temi, le esistenze, un sacerdozio e una chiesa “inclini” alla contestualizzazione di individui e situazioni, e del resto “a me le persone normali non sono mai piaciute. Ora posso dire perché: perché io per primo sono stato un ragazzo caratteriale L’assenza di mio padre ha avuto in questo un peso determinante: sono sempre stato inquieto e indisciplinato, vivevo male le regole ed ero un ribelle…”. Perché è diventato sacerdote? “La fede è anche questo: non è solo coltivare una grande e crescente speranza per il futuro, ma anche vivere nell’attesa che Dio arrivi già qui… Io sono ancora prete non perché da prete ho realizzato un mio progetto, ma perché ho vissuto questa attesa e ho risposto, meglio che potevo, al bussare di Dio alla mia porta”. Dunque, di nuovo, gli inizi al parco Lambro. “Come dicevo, a Milano venni contro la mia volontà… Ma a poco a poco ebbi l’idea giusta. Conoscevo lo scoutismo, conoscevo il mondo giovanile… Mi misi in moto: feci il giro dell’Europa, vidi come contrastavano il fenomeno della droga… E più conoscevo e mi confrontavo, più mi convincevo che non volevo fare una comunità, ma avviare un cammino di liberazione. Perciò mi venne in mente la carovana e la chiamai Exodus, che significa “liberazione”. Andai a piangere, più che a chiedere, a chi poteva aiutarci dal punto di vista economico. Riuscimmo a farci regalare quattro camper e il 25 marzo 1985 siamo partiti... Abbiamo vissuto insieme, abbiamo dormito dove trovavamo da dormire e sofferto tutti la fame quando c’era poco cibo… Fummo ospitati da don Tonino Bello, tutti, in episcopio. Mi disse soltanto: “Venite, questa è casa vostra”. Organizzazione mondiale della Sanità, errori da non ripetere di Paolo Mieli Corriere della Sera, 17 maggio 2021 Covid-19, perché il virus ha dilagato in maniera così devastante. Un’indagine ha scoperto che grandi responsabilità ricadono proprio sul direttore Tedros Adhanom Ghebreyesus. Taiwan vanta poco più di un terzo degli abitanti che ha l’Italia (23 milioni e mezzo, contro i nostri 60 milioni). È stata colpita dal Covid più o meno negli stessi tempi in cui la pandemia si è diffusa qui da noi, all’inizio del 2020. Da allora ha però avuto un numero di contagiati quasi irrilevante rispetto a quello italiano (1.256 contro i nostri oltre 4 milioni e 150 mila) e un’assai più esigua quantità di morti (12 contro i nostri 125.000). Per mettere a paragone Taiwan e l’Italia dovremmo moltiplicare per tre i loro positivi (sarebbero un po’ meno di 4.000) e i loro defunti (salirebbero a 36). In ogni caso non si sfugge al conto finale: Taiwan ha avuto un tasso di contagio e di mortalità incredibilmente inferiore a quello italiano (e di tutti i Paesi occidentali). Certo Taiwan è un’isola, ha imparato a premunirsi dal virus fin dai tempi della crisi Sars (2003), è dotata di grandi capacità di tracciamento, ha un sistema medico eccellente. Ma, va detto, non “gode” di un regime comunista (vale a dire di un’attitudine alla sorveglianza tipica del sistema ereditato da Mao). Eppure è riuscita a tener testa al coronavirus senza dover ricorrere ad un solo giorno di lockdown. In un importante libro appena pubblicato, “Il pesce piccolo. Una storia di virus e segreti” (Feltrinelli), Francesco Zambon nota un dettaglio curioso: Taiwan non fa parte dell’Organizzazione mondiale della sanità; ciò nonostante era dotata di un piano per affrontare la pandemia ad ogni evidenza migliore di quello dei Paesi “coperti” dall’Oms. Zambon è quel funzionario Oms costretto un anno fa a ritirare un rapporto già approvato dai vertici dell’Organizzazione nel quale si rivelava come il piano pandemico italiano - a differenza di quello di Taiwan - non era stato aggiornato dal lontano 2006. Mai. Ranieri Guerra, direttore vicario dell’Organizzazione mondiale della sanità - responsabile, sia pure non unico, di quel mancato aggiornamento - si occupò (assieme ad Hans Kluge direttore di Oms Europa) del caso in modo da non provocare alcun dispiacere al ministro della Sanità Roberto Speranza e soprattutto al presidente del Consiglio Giuseppe Conte che a fine gennaio era andato in tv a magnificare l’adeguatezza di quel piano. Come? In un battibaleno il report di Zambon è scomparso dalla circolazione; dopodiché l’autore del rapporto censurato è stato incoraggiato a lasciare l’Oms. Anche Ranieri Guerra ha, però, pagato un prezzo: per prudenza si è sentito costretto ad assentarsi dagli amati schermi televisivi attraverso i quali andava imponendosi come uno dei più solerti commentatori dell’intera vicenda Covid. Successivamente una risoluzione dell’Assemblea mondiale della salute ha affidato a tredici personalità il compito di indagare su perché il coronavirus ha dilagato nei Paesi Oms in maniera così devastante. I tredici (come ha raccontato qualche giorno fa su queste pagine Guido Santevecchi) hanno scoperto che grandi responsabilità ricadono proprio sull’Oms. “Viviamo nel ventunesimo secolo, ma ci siamo comportati come nel Medioevo”, ha denunciato la copresidente della commissione d’inchiesta, l’ex premier neozelandese Helen Clark. L’altra guida del panel dei tredici, l’ex presidentessa liberiana Ellen Johnson Sirleaf (premio Nobel per la Pace nel 2011), ha accusato i capi di governo al potere nel 2020 di non aver preso in considerazione i dossier sulle precedenti crisi sanitarie. E di non essersi sentiti in dovere di adattare, alla luce di quei dossier, i piani pandemici. Il responsabile di questo clamoroso inciampo ha un nome e un cognome: Tedros Adhanom Ghebreyesus. Tedros fu contestatissimo ministro della salute in Etiopia dal 2005 al 2012; nel 2017, in virtù delle sue capacità di manovra, venne nominato direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità. Confermò all’istante di essere un politico abilissimo, grande tessitore di relazioni con i governi: appena elevato alla guida dell’Oms - ricorda Zambon - nominò il dittatore dello Zimbabwe, Robert Mugabe (suo grande elettore), “Goodwill Ambassador per le malattie non trasmissibili”. E - a motivare la nomina - definì lo Zimbabwe “un Paese che mette al centro delle sue politiche la copertura sanitaria universale nonché la promozione della salute, così da garantire cure sanitarie a tutti”. In realtà il sullodato sistema sanitario di Mugabe era purtroppo allo sfascio e - appena lo si venne a sapere - Tedros fu costretto a ritirare alla chetichella l’onorificenza al despota. Ma continuò ad ingraziarsi i leader dei Paesi Oms per garantire la stabilità sua e dei suoi funzionari al vertice dell’organizzazione. Fu spudoratamente corrivo con la Cina nei primi mesi della pandemia ed entrò per questo in urto con Donald Trump. Ciò che fece la sua fortuna dal momento che gli antitrumpiani del mondo intero lo perdonarono all’istante di ogni trascuratezza, assolvendo contemporaneamente se stessi da evidenti demeriti del genere di quelli denunciati da Zambon. Adesso tutti i Paesi che hanno qualcosa da nascondere (e da farsi perdonare) in merito all’impreparazione e alla negligenza con cui hanno affrontato la pandemia, si accingono, l’anno prossimo, a rieleggere Tedros alla guida dell’Oms. E, finché Tedros resterà in sella, si può esser sicuri che gli Zambon di tutto il mondo verranno più o meno silenziosamente messi alla porta. A questo punto dobbiamo solo sperare che il virus non si ripresenti nelle attuali o sotto altre spoglie. Nel qual caso sarebbe consigliabile aver preso, per tempo, la residenza a Taiwan. Anche se l’isola - a dispetto di una campagna per farla ammettere di Giulio Terzi e Matteo Angioli a nome del Comitato globale per lo stato di diritto “Marco Pannella” - non gode tuttora della considerazione da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità. I dispersi della Dad. Quei 200 mila ragazzi in fuga dalla scuola di Ilaria Venturi e Corrado Zunino La Repubblica, 17 maggio 2021 La paura del contagio, le difficoltà di studiare online, la povertà e l’isolamento. Allarme abbandono dopo due anni scolastici con il virus: dal 40% di Gela al 25% di Pavia. Le storie dei ragazzi sconfitti dalla Didattica a distanza. “Non so dove siano finiti gli studenti, abbiamo scritto alle famiglie”. In mancanza di dati pubblici nazionali, il preside Guido Campanini, alla guida di un istituto tecnico di Parma, prova a illustrare che cosa sta facendo la pandemia alla sua scuola in Emilia. E all’intera scuola italiana. I primi numeri per la comprensione di un fenomeno, la dispersione scolastica e il ritardo nell’apprendimento, che rischia di tagliare le gambe a tutto il Paese, vengono offerti dai privati caritatevoli. La Comunità di Sant’Egidio, dopo aver ascoltato 2.799 ragazzi delle sue “scuole di pace”, centri di recupero pomeridiani per studenti delle elementari e delle medie organizzati in ventitré città, ha certificato che a settembre 2020, ripartenza del secondo anno pandemico, il 4 per cento dei bambini-adolescenti non era tornato a scuola. Sono 160 mila alunni su 4 milioni. E il 20 per cento, qui arriviamo a 800 mila scolari in numero assoluto, aveva accumulato troppi giorni di assenza. Sessanta assenze è la soglia d’allarme, quegli ottocentomila erano, e sono, a rischio abbandono. Il lavoro ha preso in considerazione il primo periodo dell’anno scolastico in corso, settembre-dicembre. E un’indagine Ipsos per conto di Save the children aveva già evidenziato che, nel 28 per cento delle classi superiori, ogni studente aveva avvistato - da marzo 2020 a gennaio 2021 - l’addio di almeno un compagno. Qui, i ragazzi arresi, sono altri 34mila. La somma delle due indagini porta a contare 200 mila studenti usciti dal circuito scolastico dalla primaria alla media superiore. La promozione dannosa - Sono molti, pericolosamente molti, i discenti che abbiamo perso per strada. E li abbiamo persi per diverse ragioni. C’è chi, poco stimolato nella normalità scolastica, ha vissuto l’esenzione 2020 dalla bocciatura come un salvacondotto per chiudere i libri: è stato travolto, soprattutto dalle materie tecniche. C’è chi aveva una cattiva connessione, chi doveva chiedere lo smartphone al papà: le famiglie basso-reddito, nel caso. Chi, semplicemente, si è smarrito nella solitudine e, la cosa peggiore che racconteranno i dirigenti scolastici, chi non ha retto lo stop and go, l’apri e chiudi della classe, l’assenza di continuità e certezze. L’aver contratto, in alcuni casi, il Covid. Tra tutti questi ci sono molti studenti “capaci e meritevoli”: sono precipitati nell’autostima e, a ricasco, sui voti. L’Italia, dato fermo al 2019, viaggiava su una percentuale di abbandono scolastico del 13,5 per cento, in forte miglioramento nelle ultime stagioni, ma in ritardo sulla media europea (10 per cento). Il problema è che le 30-34 settimane di lockdown scolastico a variabilità regionale - ci sono primarie che in Campania hanno fatto 36 giorni di presenza in tutto - rischiano di rimandare indietro gli scolari e la scolarità italiana. Solo lungo il percorso degli ultimi cinque anni di superiori, d’altro canto, si sono persi in 160.000. Il tasso di dispersione, tenendo conto degli ultimi dati, arriva al 27 per cento. Si torna al livello di sette anni fa. Denunciati 146 genitori - Città fragili come Gela, provincia di Caltanissetta, hanno soglie di dispersione del 40 per cento, un disastro: qui la pandemia ha inciso sulla sopravvivenza di alcune famiglie e la malavita è passata a reclutare i figli dei genitori senza speranza. A Vittoria, provincia di Ragusa, in due successivi controlli realizzati ad aprile i carabinieri del comando provinciale hanno denunciato 146 genitori che non mandavano i figli, iscritti in un istituto elementare, a scuola la mattina. La questione dispersione negli ultimi sedici mesi si è affacciata, tuttavia, in una provincia ricca come quella di Parma. Campanini, dirigente del tecnico Bodoni, cerca disperato i diciannove studenti scomparsi (sui 700 dell’istituto). “Qualcuno è rientrato, questi sono usciti dai radar. Chi già faceva poco ha fatto ancora meno. Chi non aveva motivazione per lo studio, ma comunque veniva in classe per vedere la ragazza o mettersi d’accordo per il calcetto, ora ha perso ogni stimolo. La dispersione nei professionali, già alta, è schizzata. Non ci sono colpe, c’è stata una pandemia”. La desertificazione culturale va di pari passo con l’impoverimento economico. Non è l’unico motivo, ma nel secondo trimestre 2020 la quota di giovani di 15-29 anni che non studiava né lavorava (i neet cantati dai Cccp di Giovanni Lindo Ferretti) è salita al 23,9 per cento dal 21,2 di un anno prima. Il divario con il resto d’Europa è salito a 10 punti. In Puglia, e qui i dati li ha raccolti la Uil, si sono persi undicimila ragazzi. Nel Lazio tra dicembre e gennaio si è superata quota venti per cento, sette punti in più della scorsa stagione. Rocco Pinneri, direttore dell’Ufficio scolastico regionale, dice: “Molti non prendono il diploma e cominciano a lavorare”. Cristina Costarelli, lei dirigente del liceo scientifico Newton di Roma: “Crescono la depressione, l’ansia da prestazione, vediamo ragazzi che non trovano più il coraggio e la forza di andare a scuola”. All’istituto comprensivo Rosetta Rossi, Primavalle, frontiera della capitale, quattro bambini sono stati riportati sul banco. “Due alunni sono seguiti con didattica domiciliare”, spiega il dirigente Flavio Di Silvestre, “e altri due, presi da fobia scolastica, vanno in Dad nei momenti di crisi”. Sono duecento gli alunni in difficoltà in Italiano e Matematica, qui, e per quaranta bambini si è alzato lo sportello psicologico. Cinque anni per il recupero - I presidi sono allarmati dalla perdita di competenze, la dispersione implicita. Gian Paolo Bustreo, alla guida dell’Istituto d’istruzione superiore Rolando da Piazzola a Piazzola sul Brenta (Padova), dice: “Sugli apprendimenti i segnali sono tendenti al rosso. Prevediamo un arretramento, il suo recupero è la vera sfida per noi”. In un lavoro sviluppato dall’Ufficio scolastico del Veneto, si attesta che la provincia con il tasso di dispersione più elevato è Rovigo. In Lombardia, Pavia e hinterland viaggiano sul 25 per cento. Si stima che, in assenza di interventi, la perdita di apprendimento equivarrà a 0,6 anni di scuola e aumenterà del 25 per cento la quota di bambini delle medie al di sotto del livello minimo di competenze. I testi del ministero già evidenziano un lavoro di recupero da fare per cinque anni di fila. D’altro canto lo hanno detto gli stessi protagonisti, sempre a Save the children. Uno studente su tre oggi si sente più impreparato di quando andava a scuola in presenza e quattro su dieci dichiarano di aver avuto ripercussioni negative sulla capacità di studiare. Gli adolescenti dicono di sentirsi stanchi (31 per cento), incerti (17 per cento), preoccupati (17 per cento), irritabili (16 per cento), ansiosi (15 per cento), disorientati, apatici. Scoraggiati. A proposito del rovinoso “apri e chiudi”, Maria Rosaria Rosmarino, preside dell’Istituto comprensivo Borgonuovo di Sasso Marconi nella provincia di Bologna, dice: “Questi ragazzi si sono persi nel bosco, hanno trovato un albero per mettersi al riparo, ma quell’albero è stato tagliato”. La Dad a singhiozzo, vera colpa del precedente esecutivo. Non sarà il Piano estate a ridare conoscenza organizzata ai nostri ragazzi. Ci si affida, piuttosto, al miliardo e mezzo di euro che il Recovery Fund porterà sul tema dispersione. Da qui al 2026. Il professionale di Firenze - “Li abbiamo inseguiti anche su WhatsApp, ma tanti hanno scelto di andare a lavorare” - La pandemia ha messo a dura prova gli istituti professionali, solitamente più a rischio dispersione. Osvaldo Di Cuffa, preside dell’istituto Sassetti-Peruzzi di Firenze, un professionale per Servizi del turismo e socio-sanitari che nella sede centrale conta ottocento iscritti, durante il primo lockdown dello scorso anno aveva perso un centinaio di ragazzi, in maggioranza cinesi. Non si erano mai collegati per la didattica a distanza. I loro professori hanno tenuto i contatti con ogni mezzo, anche We chat, l’app cinese, e WhatsApp. “Gli insegnanti hanno fatto di tutto pur di non perderli usando anche canali non istituzionali - osserva il dirigente scolastico - ma quest’anno, quando in parte si è potuti tornare in presenza, abbiamo avuto un altro fenomeno. Le famiglie non li mandavano in classe per paura del virus. Abbiamo consentito la Dad a tutti coloro che erano in difficoltà, e almeno cinquanta li abbiamo recuperati”. Ma gli altri cinquanta hanno abbandonato, “quelli di 16 anni e più credo siano andati a lavorare”. E così il tasso di dispersione rispetto al periodo prepandemico è salito di un buon 30 per cento. “L’altro problema - spiega Di Cuffa - è quello delle competenze, nei professionali i ragazzi vanno continuamente stimolati e a distanza hanno sofferto di più, si sono sempre più demotivati. Hanno perso anche occasioni di laboratori e periodi di stage con le aziende che per loro sono fondamentali. Per le bocciature abbiamo modificato i criteri tenendo conto del contesto. A giugno e a settembre più che sulla socialità punteremo sulle lacune da colmare, sui contatti con il mondo del lavoro da riattivare, questa la nostra sfida”. Il comprensivo di Napoli - “Troppi banchi vuoti in asili ed elementari. Per alcuni eravamo un’ancora di salvezza” - “Hanno sottovalutato cosa significasse chiudere le scuole qui, era l’unica ancora di salvezza possibile per molti dei miei alunni”, scuote la testa Colomba Punzo, dirigente dell’Istituto comprensivo Porchiano-Bordiga a Ponticelli, quartiere nella zona orientale di Napoli. Scuola di frontiera del “non uno di meno”. Il bilancio dopo due anni di pandemia? Alle medie, su 227 iscritti, sono stati 60 i ragazzini “nuovi dispersi”, quelli che se non ci fossero state chiusure e Dad non sarebbero finiti nel conto dei segnalati, “sono tornati o torneranno tra i banchi, ma hanno perso opportunità”. Il dato più grave, perché prima erano quasi zero, è alla primaria: 34 alunni non rientrati in Dad e dispersi nel 2019-’20, 31 da segnalare quest’anno. Alla materna, poi, su 150 iscritti dopo l’ultima chiusura ne sono rientrati 20. “Certo che li ritroveremo entro fine anno o a settembre - ragiona la preside -, ma questo fenomeno non si era mai visto. La vera emergenza è quel 40 per cento che non raggiunge le competenze minime, bambini e ragazzini che arrivano in quinta elementare o in terza media con un livello più basso rispetto agli obiettivi. Non sono in grado di capire un semplice testo, per esempio. Questa è la vera dispersione. Non è un problema quantitativo, ma qualitativo”. L’urgenza ora è colmare le lacune, aiutarli a recuperare e non solo sulle materie. “Le classi sono difficili da gestire, i ragazzi e i bambini sono disorientati, hanno fatto abuso di telefoni e play, sono fuori controllo dal punto di vista emotivo, hanno perso capacità di ascolto, concentrazione, relazione. Questo ci preoccupa ancora di più”. ll comprensivo di Bari - “Un errore proporre le lezioni on demand. E le famiglie fragili tengono i figli a casa” - “Incontro e parlo con le famiglie di chi non viene più a scuola, non abbiamo mai smesso di farlo soprattutto durante questo anno. E trovo madri sole, scoraggiate, che non credono più nel futuro, con il marito in carcere, situazioni complicate. Una mamma mi ha raccontato che si sente come precipitata in un baratro, preferisce tenere il figlio a casa e non capisce che non può essere lui a portare questo peso. A volte ci restituiscono il pc che abbiamo dato loro: una resa. Al di là della macrodispersione, ci sono situazioni di fragilità e povertà peggiorate con la pandemia”. Il racconto è di Maria Veronico, preside dell’Istituto comprensivo Ceglie di Bari: sette plessi su quattro edifici e 620 alunni. La scuola in Puglia ha dovuto fare i conti con la libera scelta lasciata alle famiglie sulla frequenza dei figli, in classe o da casa. “È aumentata la confusione e in questo modo si è dato ai genitori più in difficoltà l’alibi per tagliare i ponti con la scuola”. Le troppe assenze sono state il campanello d’allarme in un istituto dove si tentano tutte le strade, “ma dello sportello psicologico quasi nessuno ne ha usufruito, quello che possiamo fare è poco rispetto a servizi integrati nel territorio perché oltre al lavoro sui bambini, sono le famiglie quelle da sostenere”. È una lotta continua. “Dalle finestre della scuola vedevo un mio alunno giocare nel giardinetto di fronte invece di venire in classe, grazie ai servizi sociali è tornato. Ma ora non dobbiamo perderlo un’altra volta. Mi ha detto che lui voleva andare in un altro plesso con i suoi amici. Allora gli ho detto: fai il bravo e ti ci mando. Uno a uno, ce la faremo”. Il liceo di Modena - “Triplicati i disturbi alimentari e relazionali. Anche i più bravi oggi sono smarriti” - Giovanna Morini, preside del classico e linguistico Muratori-San Carlo, liceo storico di Modena, li chiama gli “inabissati”. Ed è la loro progressione che preoccupa: gli studenti con difficoltà dovute a condizioni socio-economiche, all’ansia e a disturbi relazionali e alimentari erano 21 nel 2019, sono diventati 40 nel 2020 e 80 quest’anno. Triplicati. Certo, anche qui stiamo parlando di una minoranza rispetto ai 1.400 iscritti, ma dietro ai numeri, ricorda la preside, “ci sono sofferenze, volti, nomi”. La statistica serve alla scuola per intercettare chi ha gettato la spugna, per non perderlo, nemmeno i ragazzi ormai a un passo dal diploma “paralizzati” di fronte all’esame. “Quelli che fanno più male sono i bravi che senza più le certezze dei riti e dei ritmi della scuola in presenza sono stati aggrediti da personali insicurezze. Ora si chiedono: ma io chi sono, cosa posso fare nella vita?”, osserva la vicaria Titti Di Marco. Eppure i device sono stati distribuiti - ben 70 pc e tablet, inattesa povertà in un liceo - sono state aumentate le ore dello Sportello di ascolto, i docenti hanno fatto un corso di Psicologia dell’emergenza. “Ma che fatica e quanta sofferenza dovuta quest’anno soprattutto a questo accendere e spegnere i computer da casa - continua la dirigente -. Alla prima chiusura ricordo che li osservavo mentre passavano davanti alla presidenza, si salutavano dicendosi l’un con l’altro: presto ci rivediamo. Ma quando ci hanno di nuovo chiusi il 4 marzo quei saluti non c’erano più: l’ultimo giorno in presenza sono usciti alla chetichella, in silenzio. Questa immagine mi rimarrà per sempre”. Omofobia. “L’Italia peggiora nella classifica per le politiche a tutela dei diritti” di Chiara Baldi La Stampa, 17 maggio 2021 Nell’anno della pandemia il 30% degli studenti LGBT+ che ha contattato la Gay Help Line ha subito episodi di cyberbullismo e hate speech online. Il 17 maggio si celebra in tutto il mondo si celebra la 31° Giornata Internazionale contro l’omotransfobia. Il 2021 è l’anno in cui, secondo Ilga Europe (associazione internazionale per i diritti Lgbt presente all’Onu), l’Italia scende al 35° posto della classifica dei Paesi Europei per politiche a tutela dei diritti umani e dell’uguaglianza delle persone Lgbt+ (lesbiche, gay, bisex e trans). Tale dato è confermato da quanto rilevato dal servizio di Gay Help Line 800 713 713 (gayhelpline.it), contact center contro omofobia e transfobia, che riceve più di 50 contatti al giorno (tra linea e chat) oltre 20.000 l’anno, da parte di persone colpite da discriminazione, odio e violenza in quanto lesbiche, gay bisex e trans. I dati di Gay Help Line sono allarmanti: rilevano nell’ultimo anno, periodo Covid, forti aumenti come i ricatti e le minacce subiti dalle persone Lgbt che sono passati dall’11% al 28%. I casi di mobbing e discriminazioni sul lavoro dal 3 al 15%. Inoltre, nell’anno in cui la pandemia ha limitato la socializzazione al web, il 30% degli studenti Lgbt+ che ha contattato la Gay Help Line ha detto di aver subito episodi di cyberbullismo e hate speech online. Ancora, circa il 60% degli utenti rientrano nella fascia di età 13-27. L’incidenza del pregiudizio e della discriminazione ha un peso particolare sui ragazzi: questo perché i problemi iniziano già con il coming out in famiglia. I dati evidenziano anche che nell’ultimo anno il 50% dei giovani lesbiche, gay o bisex ha avuto problemi in famiglia dopo essersi dichiarato ai genitori. La percentuale sale al 70% se a dichiararsi sono giovani Trans. Per il 36% dei minori Lgbt+ ha visto il rifiuto da parte dei familiari o dei propri pari, la repressione agìta attraverso l’isolamento, la reclusione in casa anche ai danni della frequenza scolastica, i tentativi di conversione attraverso pressioni fatte dai propri familiari oltre a subire violenza verbale e violenza fisica. Il 17% dei ragazzi maggiorenni che hanno contattato Gay Help Line e si sono dichiarati ai genitori hanno subìto la perdita del sostegno economico da parte della famiglia: la maggior parte di questi sono stati di conseguenza abbandonati e messi in strada. Alcuni di questi casi sono stati accolti da Refuge Lgbt, la struttura che accoglie questi ragazzi e li supporta perché riescano a superare il trauma subìto e a raggiungere la propria autonomia attraverso la formazione e la ricerca del lavoro. Un dato che risulta costante nel tempo, sottolinea Gay help line, è la difficolta delle vittime a denunciare: il fenomeno dell’underreporting (mancata denuncia) incide in maniera preoccupante sul riconoscimento dell’entità delle discriminazioni e delle violenze. Medio Oriente. Il Papa e l’Onu: voci per la tregua. Netanyahu: “Non è ancora finita” di Davide Frattini Corriere della Sera, 17 maggio 2021 Nella Striscia di Gaza uccise 42 persone (10 bambini). Secondo l’esercito israeliano l’attacco a un sistema di tunnel di Hamas ha provocato il crollo delle case. Tensione Usa-Cina al Consiglio di sicurezza. Hanno usato i telefonini per chiamare gli amici, i familiari, per dire che là sotto erano ancora vivi. I soccorritori hanno spostato i blocchi di cemento di quelli che sono tra i palazzi più eleganti di Gaza, Rimal è un quartiere residenziale che scende verso il mare, negli scontri passati era stato risparmiato. Il più piccolo aveva 3 anni - Questa volta in un solo attacco le esplosioni hanno ucciso 42 persone, tra loro anche 10 bambini, il più piccolo aveva tre anni. Quasi tutti sono parte della stessa famiglia allargata, gli Al-Kolak. Quartiere di classe media, per quel che può esistere nella Striscia: seppelliti dalle macerie anche due medici dell’ospedale Shifa, che in questa settimana di guerra ha accolto la maggior parte dei 1.500 feriti, i morti in totale sono oltre 190. I portavoce dell’esercito dicono che a Rimal i missili hanno colpito un sistema di tunnel scavato da Hamas e il crollo delle gallerie sotterranee ha coinvolto le case dei civili. Le parole di Netanyahu - Benjamin Netanyahu viene intervistato dai programmi americani della domenica mattina. Spiega che il suo governo “ha condiviso con la Casa Bianca le informazioni di intelligence” sul palazzo distrutto a Gaza da dove lavoravano l’agenzia Associated Press e l’emittente Al Jazeera: “Era un obiettivo legittimo, operativi di Hamas si nascondevano tra gli uffici dei giornalisti”. La Ap ha replicato di aver sempre verificato le presenze nell’edificio proprio per evitare infiltrazioni. I razzi di Hamas - In una settimana gli integralisti - che spadroneggiano nella Striscia dal 2007 - hanno sparato quasi 3.000 razzi contro le città israeliane: sono oltre la metà di quelli lanciati in 51 giorni di guerra nell’estate del 2014. Ieri hanno continuato a bersagliare il sud del Paese, gli israeliani uccisi dall’inizio sono 10. Il premier Netanyahu ripete: “Andremo avanti fin quando è necessario”. Gli analisti militari spiegano che sono stati i generali a chiedere ancora qualche giorno. Lo conferma Aviv Kochavi, il capo di Stato Maggiore: “I capi di Hamas hanno commesso un grave errore di valutazione quando ci hanno attaccato. Non si aspettavano questa nostra risposta: adesso andiamo avanti con il nostro piano, i prossimi passi sono già definiti”. Tra gli obiettivi di questa campagna: colpire i leader dell’organizzazione, anche le loro proprietà. Un missile ha distrutto la casa di Yahia Sinwar a Khan Younis, dove abita - in questi giorni è nascosto - ed è cresciuto. La diplomazia - Netanyahu e Kochavi sanno che la pressione diplomatica sta crescendo. Devono anche evitare che altri fronti si allarghino: a Gerusalemme Est un palestinese ha lanciato l’auto su un posto di blocco, 7 i soldati feriti, è stato ucciso. Gli egiziani continuano la mediazione per fermare i combattimenti e il re giordano Abdallah II conferma di essere coinvolto nelle trattative. Hady Amr, l’inviato americano per la questione israelo-palestinese, è arrivato a Gerusalemme per portare il messaggio di Joe Biden: sosteniamo il vostro diritto di difendervi ma è il momento di pensare al dopo. Il presidente - che deve ancora nominare il suo ambasciatore in Israele - non pensa solo alla tregua con i fondamentalisti a Gaza: Amr ha incontrato Abu Mazen, la Casa Bianca vuole che i negoziati con l’Autorità palestinese - ibernati dal 2014 - possano ripartire. L’Onu e il Papa - Si è riunito il consiglio di Sicurezza dell’Onu: “Siamo impegnati a ottenere un cessate il fuoco immediato”, ha spiegato il segretario generale Antonio Guterres. “È lo scontro più grave degli ultimi anni”, commenta Tor Wennesland, da gennaio coordinatore speciale Onu per il processo di pace in Medio Oriente. Anche papa Francesco lancia un appello: “Tra le vittime ci sono anche i bambini, e questo è terribile e inaccettabile. La loro morte è segno che non si vuole costruire il futuro. Mi chiedo dove l’odio e la violenza porteranno. Davvero pensiamo di costruire la pace distruggendo l’altro?”. Egitto. “Su Zaki serve rumore. La pressione globale ha difeso noi cronisti” di Viviana Mazza Corriere della Sera, 17 maggio 2021 Nell’Egitto governato da Abdel Fattah Al Sisi, dove si può finire in carcere per un post su Facebook, Lina Attalah, 38 anni, co-fondatrice e direttrice del quotidiano online Mada Masr, continua a tenere viva l’informazione indipendente. Per la rivista Time è tra i leader internazionali della “nuova generazione”. Questo ha un prezzo. “Diversi settori del governo ci hanno preso di mira: nel 2017 il nostro sito è stato bloccato; nel 2019 le forze di sicurezza hanno razziato i nostri uffici e ci hanno arrestati dopo aver detenuto un membro del nostro team in piena notte, una cosa comune; nel 2020 sono stata arrestata una seconda volta per aver cercato di scrivere un pezzo su una famiglia a cui è impedito il contatto con il figlio detenuto (l’attivista Alaa Abdel Fattah ndr). La pressione locale e internazionale finora ci ha permesso di evitare la prigione, e anche se il sito è bloccato all’interno dell’Egitto viviamo in un’era in cui ci sono modi per bypassare la censura. La pressione che ci ha aiutato non è stata organizzata da noi: è la gente che dà valore all’informazione che produciamo e vuole continuare a leggerla”. In Italia molte forze politiche si dicono d’accordo sull’obiettivo di far liberare dal carcere Patrick Zaki, ma sui metodi ci sono state divisioni: meglio il silenzio e trattare dietro le quinte oppure meglio far rumore? “Non so, c’è un alto livello di arbitrarietà nei casi come quello di Patrick: purtroppo non è affatto una novità per l’Egitto vedere qualcuno arrestato per il suo attivismo e tenuto in detenzione preventiva per mesi. Comunque la nostra abitudine è di alzare la voce e di non fidarci di colloqui confidenziali tra politici senza fare anche pressione”. Lei è impegnata in battaglie parallele per la libertà di informazione e per i diritti delle donne. Ci sono a volte divisioni interne su questi temi? Ad esempio, la storica femminista egiziana Nawal Al Saadawi, da poco scomparsa, è stata criticata da alcuni per il suo appoggio ad Al Sisi. “È normale, nello spazio dell’attivismo di genere ci sono spesso linee di frattura. Saadawi aveva lottato contro figure islamiste, specialmente radicali, e l’opposizione archetipica ai diritti delle donne. La questione è se il modo per resistere sia di affidarsi ad un’altra forza patriarcale, cioè le istituzioni militari. Ma Saadawi ha anche avuto un’influenza enorme, ha diffuso tra donne e uomini una consapevolezza sui diritti femminili prima inesistente, portando ad un cambiamento di paradigma: questo è ciò per cui merita d’essere ricordata”. La crescente consapevolezza sui diritti delle donne è accompagnata da riforme? “Questo è un momento in cui in tutto il mondo c’è grande consapevolezza sulla violenza sessuale sulle donne, che è diventata una questione intorno alla quale galvanizzare la resistenza contro il patriarcato, ma non ci sono state riforme sistemiche adeguate. Da noi c’è stato il famoso caso Fairmont - una ragazza stuprata in gruppo da uomini ricchi e potenti - in cui il peso dei social media ha portato ad aprire un’inchiesta - cosa inedita - però alla fine è stata chiusa per presunta carenza di prove. Il modo in cui le autorità pensano ai diritti delle donne non è cambiato, come dimostrano anche gli emendamenti alla legge sullo statuto personale che rischiano di ridurre ulteriormente il controllo delle donne sul loro corpo e i figli”. Dopo la rivoluzione del 2011 l’Egitto è tornato sotto il pugno di un uomo forte. Ma quanto è popolare? “C’è una tradizionale fiducia nell’esercito, vista come istituzione che non interferisce nella politica, che protegge i confini, e ciò resta centrale in un Paese che ha un’eredità coloniale. Ma se vivi qui ti accorgi che dal 2011 il rapporto con lo Stato è cambiato e con esso l’idea che regime sia sinonimo di stabilità”. Bielorussia: “Mio marito è in carcere, io lotto al suo posto per liberare il Paese” di Mara Gergolet Corriere della Sera, 17 maggio 2021 Svetlana Tikhanovskaya era una “bambina di Chernobyl”, poi è diventata insegnante di inglese e il suo destino ha incrociato quello di un blogger attivista. Ha sfidato alle elezioni il dittatore Lukashenko e ora vive in esilio in Lituania con i due figli: “Abito a 20 minuti dal confine. Non ho paura, so che vinceremo noi”. In un’ora di colloquio, Svetlana Tikhanovskaya ha un momento di incertezza, e di pausa. Quando le viene chiesto dei figli. Come se dovesse decidere in un secondo cosa è pubblico e cosa no, cosa per pudore vuole tenere privato, e sottrarre alla politica. Eppure, l’esitazione non è per sé stessa, piuttosto non vuole reclamare una condizione di diversità e di privilegio, come chi è consapevole di condividere il destino con altri - senza pretendere sconti o favori. E che destino, il suo! Trentotto anni, due figli, un marito blogger che poteva essere un leader in Bielorussia e che invece l’ultimo dittatore d’Europa, Aleksander Lukashenko, ha chiuso in carcere. E lei, candidata al suo posto, anche se era solo un’ex insegnante d’inglese e una casalinga (“volete farvi comandare da una casalinga?”, la irrideva Lukashenko), che ottiene l’impensabile: il lento risveglio di un popolo intorpidito che chiede democrazia. Alle elezioni Tikhanovskaya ottiene un consenso elettorale mai visto. Ma il dittatore reclama la vittoria (non riconosciuta da nessun Paese europeo), poi manda blindati e agenti a picchiare, arresta, reprime, espelle all’estero. Lei è costretta all’esilio (“qualcuno non capirà”), ma non cede di un millimetro. Roma è una tappa della sua nuova vita, impensata, di leader della resistenza basata in Lituania, che incontra la diaspora in giro per l’Europa e viene accolta nei palazzi dai governi. Al quarto piano di Montecitorio, dove ha parlato ai deputati, trova un “buco” nella sua scaletta di incontri, si concede a un’intervista: tacchi e tailleur grigio, zero assistenti a dare suggerimenti (resteranno tutti fuori dalla stanza), zero appunti, più testimone che politica, dimostra però di aver imparato molto in fretta. Dirà alla fine, come sfogo: “Sono diretta, aperta. La cosa più difficile? Pensare che tutto ciò che dirai sarà stampato da qualche parte”. C’era tanta simpatia per la vostra rivoluzione. C’è ancora, in Italia o in Europa? “C’è stato un momento in cui tutto il mondo guardava alle nostre proteste, ci si commuoveva per le bellissime foto delle manifestazioni, noi eravamo diventati d’ispirazione ad altri. Eppure, prima nessuno riusciva a localizzare la Bielorussia sulla mappa. È vero, il regime con i suoi metodi, con le violenze, è riuscito sopprimere le manifestazioni: ma non ha piegato la nostra volontà. Per favore, non basate la vostra politica sulle immagini, ma sui valori”. Cose succede in Bielorussia, agli oppositori in carcere? “Voi non lo potete neppure immaginare. Abusi sessuali, torture. Per ore e ore le persone sono costrette a stare in posizioni intollerabili. Non c’è l’acqua corrente, la carta igienica, gli asciugamani. Le persone sono umiliate non solo fisicamente, ma anche moralmente. Le racconto un episodio, riferitomi dall’oppositore Dimitri Kozlov: un accademico più anziano - non farò il suo nome per rispetto - ha fatto una domanda alle guardie ritenuta inopportuna: l’hanno spogliato, picchiato selvaggiamente e rimandato nudo tra i suoi compagni. Le celle sono sovraffollate all’inverosimile, dieci persone in uno spazio per due. Mettono malati di Covid in cella, in modo da infettare quante più persone possibile”. Sta dicendo che lo fanno apposta? Che il regime lo fa per diffondere i contagi? “Sì, sto dicendo proprio questo. Di più, le persone malate non ricevono alcun tipo di cura”. Ma come fate a verificarlo, a controllarlo? “Non puoi controllare nulla. Ma lo raccontano le persone quando escono, per esempio, di chi ha passato 15 o 30 giorni dentro per “reati amministrativi”. E noi gli diciamo: scrivete quel che avete visto, registrate tutto, mandate le testimonianze ai centri dei diritti umani. Fatelo per il futuro, perché le persone non rimangano impunite, perché la vostra sofferenza non sia stata vana. Faccio un appello agli italiani: chiunque può scrivere una lettera ai prigionieri politici, è così semplice, richiede solo cinque minuti, è facile trovare le informazioni su come farlo. Non sapete quanto sollievo offrono le lettere. Ogni giorno il regime dice ai prigionieri: vi hanno dimenticato, cancellato, siete spariti. Bene, non è così”. Lei è in esilio, come tiene insieme il movimento? “Non mi definirei in esilio. Vivo a 20 minuti dal confine bielorusso, in Lituania. Ma grazie a Dio ancora abbiamo Internet, nonostante buttino giù i provider durante le manifestazioni. Ogni giorno parlo con i diversi gruppi: oggi gli studenti, domani gli insegnanti, medici, operai... Loro mi raccontano cosa succede nei quartieri, io nell’arena internazionale. Ispiriamo l’un l’altro. Non temo di disconnettermi”. Una domanda personale. Non ha menzionato suo marito, che è in cella. (Pausa, breve)... “Sa, ogni giorno guardo negli occhi i miei bambini e devo rispondere alle loro domande. Io capisco il significato dell’essere in prigione a causa delle proprie idee politiche, ma allo stesso tempo lo devo anche spiegare ai miei figli. Ogni giorno mia figlia piange e chiama papà, fa questi disegni con quattro di noi. Lei sa che suo padre è in carcere perché è coraggioso, ma allo stesso ignora il significato di questa parola”. Quanto sono grandi? “Cinque e dieci anni: mio figlio grande capisce ogni cosa, ma mia figlia piccola no”. E cosa dice a sua figlia? “All’inizio le ho detto che papà era all’estero, e che per colpa del Covid non poteva ritornare. Poi, per un infortunio, il fratellino le ha svelato tutto. Una volta ha chiesto, cos’è il carcere? Ma non può capirlo. E quindi racconto favole dove compaiono anche le carceri. Vivo tra queste domande ogni giorno. Molto raramente ne parlo, quasi mai, non mi sento a mio agio e non mi sembra opportuno farlo, perché non voglio essere diversa dagli altri, perché so che ci sono centinaia di famiglie in Bielorussia, o in esilio, che non vedono i propri cari - persone innocenti - e non lo faranno per anni, se noi non vinciamo. Ma noi vinceremo”. Pensa che Lukashenko stia preparando la successione per suo figlio? “Forse c’è stata una simile opportunità prima delle elezioni in agosto. Ma poi tutto è cambiato: ha perso l’immagine di leader forte, la gente raccontava barzellette su di lui, se ne faceva beffe. Oggi è diventato un criminale agli occhi della sua stessa gente. Non è riuscito a finire la sua carriera con dignità”. Ha mai pensato che i tank sarebbero scesi in strada, o che potranno ancora farlo? “I regimi sono imprevedibili. Ovviamente la paura c’è. Ma io non voglio altre vittime. Ci sono diversi orientamenti nel nostro Paese, alcuni chiedevano azioni più decise. Ma non possiamo sacrificare le persone. Occorre evitare qualsiasi brutalità da parte nostra, perché il regime userà anche il più piccolo pretesto per sparare”. Quanto è vitale il sostegno di Putin a Lukashenko? “Il Cremlino è l’unico alleato rimasto a Lukashenko, ma l’amicizia, gli incontri fanno parte di una messinscena. Il Cremlino ovviamente capisce che Lukashenko è politicamente in bancarotta e isolato economicamente dal resto del mondo. Non è un sostegno sincero”. Si fiderebbe di Putin come di un garante nei negoziati per il vostro futuro? “I negoziati devono essere tra il regime e la società civile: queste sono le due parti. I mediatori? La Russia certamente”. Quindi Putin per voi va bene? “Sì”. E l’Europa? “Vorrei al tavolo anche i Paesi vicini, l’Ucraina, la Lituania, la Polonia..., quelli importanti, come Italia, Germania, Francia, gli Stati Uniti. Io vedo i negoziati con l’unico modo civile per risolvere la crisi”. Lei è nata vicino a Chernobyl. Da piccola è stata mandata all’estero, come una dei “bambini di Chernobyl”... “Non sono di Chernobyl, piuttosto vivevo in un’area ampia attorno a Chernobyl, i miei genitori sono ancora lì. Quando i programmi per ospitare “i ragazzi di Chernobyl” sono iniziati, l’Italia credo fosse stata tra i primi a farlo, c’era un tale senso di solidarietà degli italiani verso questi ragazzi malati. Mi piace così tanto l’Italia: siete calorosi, sorridete, siete così ricchi nelle vostre emozioni. Ovviamente, noi da ragazzi tutto questo lo percepivamo appena: eravamo semplicemente contenti di andare all’estero, di viaggiare”. Cos’era l’Europa ai suoi occhi? “Io ero una figlia dell’Unione Sovietica. Non avevo mai visto persone sorridere in strada, non si diceva “Buongiorno”, “Grazie” a sconosciuti entrando nei negozi. Non ho mai visto gli scaffali così pieni. Tutti questi vestiti! Il ketchup e le patatine, chips, crisps, adesso fa ridere solo a ricordarlo. In Irlanda facevano programmi tv sui dentisti, ma in Bielorussia i dentisti, con i loro metodi crudeli, erano il terrore di tutti i bambini”. L’ha aiutata questa esperienza in Europa? “La prima visita non mi ha molto influenzato, la seconda e terza sì, ero più grande. Credo di aver capito allora che noi dovevamo cambiare, ho trovato l’esempio di una vita migliore. Gusti e sapori nuovi, ma anche qualcosa di astratto che non sai bene come raggiungere, ma capisci che ci sono altri modi di vita. E le persone, soprattutto le persone: io volevo già da allora che la mia gente fosse a suo agio con gli altri, che sorridesse”. Perché siete così ironici, quasi surrealisti, voi bielorussi perfino nelle vostre proteste? “Devi scegliere: il carcere o la creatività? Devi combattere: ma se lo fai apertamente, finirai in prigione. Non ti resta che cantare, attaccare adesivi in segreto, ti resta l’invenzione e la fantasia”.