“Fine pena mai”, la Costituzione ci chiede una svolta di Carla Chiappini Vita Nuova - Avvenire, 16 maggio 2021 Camminando a fianco degli ergastolani ostativi. Loro e io; due percorsi lontani umanamente e geograficamente ma una vicinanza profonda, costruita giorno per giorno, settimana dopo settimana in quelle mattine del giovedì che mi prosciugano le forze ma mi rendono ricca nell’esperienza e nell’umanità Loro e io; i nostri accenti si differenziano, le nostre storie sono tanto lontane quanto è quasi impossibile immaginare, eppure da cinque anni ci confrontiamo con onestà e rispetto; cerchiamo con cura le parole per capirci e per raccontare agli altri vite difficili e una realtà così dura e impenetrabile come quella delle sezioni di Alta Sicurezza e, prima ancora, del regime del 41 bis. È una strada lunga e per nulla semplice; facile inciampare, ancor più facile farsi male senza volerlo oppure - ed è questa la situazione più difficile da accettare - restare incagliati, fermi senza sapere bene come procedere. A volte la sofferenza e la rabbia sono tanto forti che ti sembra di poterle toccare e allora vorresti alleggerire in tutti i modi possibili e poi ti dici che sono uomini adulti, che hanno commesso crimini molto gravi e tu non puoi fare finta di ignorare. Il reato è incistato nelle loro storie ma hai la straordinaria fortuna di poter vedere anche tanto altro. Non amo molto la frase, pur bella e avvincente, secondo cui “l’uomo non è il suo reato” perché un reato è stato commesso ed è proprio quella persona lì che ne è responsabile. A meno di clamorosi - e davvero troppo frequenti - errori giudiziari. Ma poi, oltre il reato, c’è tutto il resto: la sofferenza sopportata con grande dignità, il coraggio del confronto con parole oneste e occhi nuovamente puliti, la cura degli affetti, lo sforzo di non deludere chi crede nella tua possibilità di essere una persona nuova, trasformata nel profondo. La pazienza nelle relazioni non sempre facili con i compagni, l’impegno serio e continuo nello studio, nella redazione e in tutte quelle attività a cui vengono regolarmente (e ingiustamente) sacrificate le ore d’aria. Questo lento cammino, ricco in esperienza e umanità mi fa sentire il “fine pena mai” come un vulnus pesantissimo del nostro sistema penale e di tutti noi. Mi chiedo spesso come sia possibile non chiedersi cosa stiamo facendo di queste vite e se non sia una colpa grave e gravissima tenerle chiuse a oltranza dopo che in tutti i modi possibili hanno accolto le occasioni di cambiamento che la società esterna impegnata nelle carceri ha offerto loro. Quasi che questo accanimento ci potesse davvero rendere più sereni e più sicuri. Loro e io, pur nella distanza delle nostre storie e delle nostre vite, siamo profondamente vicini nel chiedere una svolta di umanità e di razionalità non solo ai politici che dovranno riscrivere la legge ma ai media troppo spesso incapaci di dare voce alla complessità e infine ai cittadini ingenuamente convinti che la durezza a tutti i costi sia garanzia di benessere sociale. Non si chiede di dimenticare, tutt’altro. Si chiede alla Magistratura, agli organi di polizia e agli Uffici di Esecuzione Penale esterna di svolgere con cura tutte le indagini necessarie, al carcere di stendere relazioni accurate, al volontariato e alla società esterna di rapportarsi in modo responsabile con le persone recluse per poter infine contribuire alla costruzione di percorsi seri di reinserimento. Così come prevede la nostra Costituzione. “Non si può comprimere la possibilità di riscatto” Vita Nuova - Avvenire, 16 maggio 2021 Caro lettore, quello che stiamo per dirti è il pensiero fisso di tutti i giorni, qualcosa che è radicato nella nostra storia e dentro la storia di tanti nostri compagni. Rispetto al tema dell’ostatività ecco dunque, alcune riflessioni importanti che desideriamo condividere con te. La prima: la Corte Costituzionale non sta eliminando ora l’ostatività per i condannati all’ergastolo perché già dal 1993 con la sentenza 306 ha introdotto l’istituto della “collaborazione impossibile” che il legislatore ha fatto proprio introducendolo nel comma 1 - bis dell’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario e che prevede, nei casi di condannati per reati di mafia, laddove la vicenda processuale abbia chiarito tutti i fatti, di superare per l’appunto l’ostatività. Dunque oggi la Corte Costituzionale sta eliminando solo la disparità tra coloro che hanno la fortuna di poter contare - per pura casualità - su una vicenda processuale totalmente chiarita e quanti invece non ce l’hanno. Da sottolineare, dunque, che la “collaborazione impossibile” è concessa non in base al ravvedimento raggiunto dal condannato ma proprio solo in relazione a quanto sopra affermato; semplice conseguenza di una vicenda processuale completamente chiarita. Per cui oggi tanti di noi vivono la strana situazione per cui l’essere valutati dal Giudice di Sorveglianza è possibile per un condannato che non ha fatto nessun percorso di rieducazione all’interno del carcere ed è invece negata a chi - da anni - sta lavorando su di sé, rivedendo la sua storia, riesaminando le sue scelte criminali, rendendosi disponibile a fare testimonianza della sua vita e del suo percorso in varie forme… In un’ottica di riparazione. La Corte Costituzionale - sollecitata anche dalla Corte Europea di Strasburgo - è intenzionata a eliminare questa disparità di trattamento che pesa sulle nostre spalle più della condanna stessa perché la pena ci è stata inflitta giustamente, mentre l’impossibilità di reinserimento poggia sull’imprevedibilità del caso. A proposito, poi, della questione complessa della collaborazione ritenuta a tutt’oggi essenziale ai fini di aprire un possibile cammino verso la libertà ai condannati all’ergastolo per reati di mafia, vogliamo fare nostre le parole inserite nella recentissima ordinanza 97 della Corte Costituzionale (redattore Nicolò Zanon): “la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento…”. E anche questo è inciso nelle nostre storie, nelle fatiche di un ravvedimento serio, come possono testimoniare molte persone che ci seguono da anni: operatori penitenziari, insegnanti, volontari e i nostri stessi familiari che, in questa chiusura, vedono vanificati anche i loro sforzi. Sentiamo, infine, tanto parlare di “certezza della pena” e, paradossalmente, è quello che auspichiamo anche noi; una pena certa nel “minimo” ma anche nel “massimo” che ponga un limite alla sofferenza delle persone, che mantenga vivo il desiderio di un cambiamento profondo, sostanziale, faticoso e non spenga la speranza che ci possa essere un domani per noi, per le nostre famiglie ma anche per quella parte di società che ha investito sul nostro percorso. Per salvaguardare, infine, quel diritto alla dignità a cui ci richiama Marta Cartabia, Ministro della Giustizia, nella sua rilettura del magistero del Cardinale Martini: “La dignità va intesa come incomprimibile possibilità di recupero, di riscatto, qualunque cosa sia accaduta prima, qualunque fatto sia stato commesso: qui è la dignità della persona”. La redazione di Ristretti Orizzonti - Parma I diritti sono anche dei “cattivi” di Agnese Moro Vita Nuova - Avvenire, 16 maggio 2021 “Le persone possono cambiare: niente è perduto se non viene abbandonato”. Dalla nascita della Repubblica in poi la finalità delle pene che i giudici comminano a nostro nome a chi abbia violato le leggi è quella di rieducare chi ha sbagliato. Condurlo cioè a riflettere su ciò che ha fatto, in modo che ne possa comprendere la gravità, anche in termini di dolore inflitto a persone concrete, e non voglia più ripetere simili azioni. Mi sembra che questa scelta fatta a suo tempo dai nostri padri costituenti si basi sostanzialmente su due convinzioni: che le persone possono cambiare e che - per dirla con Mario Tommasini - non c’è niente di perduto se non quello che viene abbandonato. Nel corso della detenzione si punta, quindi, (o si dovrebbe puntare) a sostenere questo processo di cambiamento, con l’intervento di specifiche figure professionali, con l’istruzione, il lavoro, il volontariato, il contatto con le famiglie. Il percorso e i suoi risultati sono controllati da un apposito tribunale, il Tribunale di sorveglianza, che, in base ai risultati raggiunti dal condannato, eroga specifici benefici, così come stabilito dalla legge. Al momento però ci sono categorie di condannati, i cosiddetti “ostativi”, per i quali tutto questo non vale. Si tratta soprattutto di persone che hanno fatto parte di organizzazioni criminali di stampo mafioso o di gruppi terroristici, e che, per avere i benefici previsti dalla legge, devono aggiungere al ravvedimento la collaborazione con la giustizia, fornendo informazioni (che spesso non hanno neanche più) utili alle indagini. Di recente la Corte costituzionale, con un breve, ma importantissimo comunicato stampa, qui di seguito riportato, ha rimescolato le carte. “La Corte ha anzitutto rilevato che la vigente disciplina del cosiddetto ergastolo ostativo preclude in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro. Ha quindi osservato che tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tuttavia, l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata. La Corte ha perciò stabilito di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022, per consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. La palla passa quindi al Parlamento perché renda le esigenze della lotta alla mafia compatibili con i diritti che la Costituzione riconosce essere propri di ogni persona, qualunque sia la sua razza, sesso, credo religioso, provenienza, lingua, comportamento. Dice la prima parte dell’articolo 3 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Di condizioni personali: i diritti costituzionali non sono riservati ai buoni, ma sono di tutti, anche dei “cattivi” e anche dei “cattivissimi”. Una riprova? Recita l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Ma la palla, in realtà, non passa solo al Parlamento, ma anche a ognuno di noi. Recita la seconda parte dell’articolo 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. La Repubblica non è un ente astratto e non è un sinonimo dello Stato: la Repubblica siamo tutti noi. A noi lavorare perché la Costituzione sia applicata fino in fondo. Quando parliamo di giustizia non parliamo solo di un sistema organizzativo, di norme o di procedure. Parliamo soprattutto di ingiustizie, di torti inflitti o ricevuti da riparare, di sofferenze a cui dare voce, a verità da ristabilire. È per questo che quando si parla di giustizia si muovono sentimenti forti che rischiano di offuscare il nostro giudizio. Non bisogna però consentire che si approfitti dei nostri umanissimi sentimenti per allontanarci dalla bella strada che la nostra Costituzione ci indica. Non dobbiamo consentire né ai nostri sentimenti né a nessuno di guidarci dove non vorremmo mai andare. Il Coppi che non ti aspetti: “L’ergastolo? A volte è l’unico rimedio...” di Valetina Stella Il Dubbio, 16 maggio 2021 Ad una settimana dall’intervista agli avvocati Renato Borzone e Francesco Petrelli, difensori rispettivamente di Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth, condannati in primo grado all’ergastolo per la morte del vicebrigadiere Cerciello Rega, oggi ospitiamo il parere dell’avvocato Franco Coppi, avvocato della famiglia della vittima, con cui abbiamo parlato anche di altre questioni di politica giudiziaria. Professore, molti ritengono che la pena inflitta ai due americani sia sproporzionata... Non si può non provare pietà per due giovani condannati ad una pena così severa. Tuttavia il delitto è obiettivamente gravissimo e il grado di colpevolezza dei due imputati è stato anch’esso ritenuto di livello molto intenso. Non dimentichiamo che la condanna per omicidio è stata accompagnata da alcune circostanze aggravanti, mentre non è stata concessa alcuna attenuante idonea a mitigare la severità della sanzione, prevista dal codice. La pena dell’ergastolo va abolita perché non si concilia con il fine rieducativo della pena? La discussione sulla finalità della pena va avanti da secoli. Occorre fare una riflessione: vi sono dei delitti molto gravi e dei soggetti - che possiamo definire delinquenti - autori di numerosi reati gravissimi. Una volta interrogai un imputato il quale non ricordava neppure se avesse commesso 40 o 60 omicidi. Per situazioni di questo genere qual è la pena adeguata? La finalità rieducativa si può finalizzare anche attraverso una pena come quella dell’ergastolo, tenendo conto che oggi esso non rappresenta una pena definitiva come un tempo perché dopo 26 anni il condannato può essere riammesso alla libertà. E non dobbiamo scordarci della funzione retributiva della sanzione. Qual è il suo pensiero in merito alla recente decisione della Consulta sull’ergastolo ostativo? Sono contrario all’idea che ci siano casi nei quali in via preliminare si debba escludere qualsiasi possibilità di modificazione dell’ergastolo. Tutto deve essere rimesso alla sensibilità e all’acume del giudice di sorveglianza che deve capire e comprendere se è il caso di far cessare la pena perpetua o se essa, anche a tutela della società, deve essere mantenuta. A me non piacciono questi discorsi così tranchant: adesso va di moda parlare contro l’ergastolo ma questo tipo di sanzione, pur essendo atroce, in certi casi è l’unica tutela per la collettività. Tornando al processo dell’Arma. Ciò ha suscitato in qualcuno preoccupazione. Lei condivide questa inquietudine? No. Come per altri istituzione, l’Arma ha avuto dei momenti opachi; però ha sempre trovato in se stessa motivi di recupero. L’incidente di percorso anche grave e deprecabile può capitare a tutti. Tuttavia non mi pare che il caso di cui stiamo discutendo legittimi preoccupazione. Varriale è stato eletto dalla difesa come simbolo di falsità, ma i fatti hanno dimostrato che non è assolutamente così. A diversi commentatori è apparsa sproporzionata anche la condanna per Natale Hjorth che non ha inferto le coltellate... Il secondo imputato ha la responsabilità di tutta l’architettura di quello che è accaduto. È l’unico che conosceva l’italiano, ha preso i contatti con tutti i vari interlocutori, ha studiato il luogo dell’incontro. Sotto il profilo del concorso nel reato ha portato un contributo essenziale: ed anche qui la legge stabilisce che in questi casi la pena può essere identica a quella inflitta all’esecutore materiale. C’è chi ritiene che la presenza del danneggiato nel processo può alterare la rigorosa parità tra accusa e difesa che si deve realizzare innanzi a un giudice terzo e imparziale... Chi è rimasto vittima di un reato - si pensi ai familiari di una persona deceduta - ha diritto a partecipare al processo, a contribuire all’accertamento della verità e a ottenere un risarcimento. Ciò che mi perplime è la moltiplicazione dei Soggetti e degli Enti che vengono considerati legittimati a costituirsi parte civile e che a parer mio dovrebbero rimanere fuori dal processo penale. Ritiene che i giudici siano strutturati per respingere le influenze mediatiche e popolari? Credo che sia i giudici togati che quelli popolari siano esseri umani, leggono i giornali, guardano la televisione, parlano in famiglia o con gli amici: un condizionamento è un fenomeno quindi umanamente comprensibile. Crede che bisognerebbe riaprire il dibattito sull’opportunità e la reale funzione delle giurie popolari? Noi abbiamo una Costituzione che dice che la giustizia si amministra in nome del popolo: si è pensato di attuare questo principio con l’istituto ibrido della Corte d’Assise. Un giudice togato è un uomo come gli altri e può dare le stesse garanzie di sensibilità e di buon senso di una persona qualsiasi. In più ha una conoscenza tecnica ed una esperienza che dovrebbero favorire nella valutazione dei fatti. Magari in Corte d’Assise per i reati più gravi si potrebbe passare da tre a cinque giudici di tribunale. Ma penso anche che la giuria popolare potrebbe essere soppressa senza grandi danni. L’Italia ha da poco recepito la direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Crede che sia un passo importante o sarebbe opportuno predisporre delle sanzioni per coloro magistrati e giornalisti - che non rispettano il principio? Sono contrario all’idea di sanzioni; tuttavia ritengo che occorrerebbe un maggior senso della misura rispetto alla presunzione di innocenza. Tante volte l’avviso di garanzia è peggio di una sentenza di condanna. Poi quando arriva l’assoluzione dopo dieci anni, ad esempio, a nessuno importa. È incivile il modo in cui molto spesso vengo presentati i fatti e dato il resoconto dei primi esiti delle indagini. Cosa ne pensa invece di questo ultimo scandalo che ha investito il Csm? Essendo in questo ambiente da tanti anni, non mi meraviglio poi tanto. Si tratta di organismi di cui fanno parte uomini con i loro pregi e i loro difetti e talvolta prevalgono questi ultimi. Quando poi tutto questo emerge, i fatti diventano uno scandalo ma forse nella realtà sono più frequenti rispetto a quelli di cui veniamo a conoscenza. Bisognerebbe trovare un modo per ridurli al minimo: penso ad un nuovo sistema di elezione al Csm, alla formazione, alla rivisitazione del rapporto tra togati e non all’interno del Csm. Per trovare le giuste soluzioni occorrono poche persone sedute intorno ad un tavolo che entro un termine indichino la strada da intraprendere. Quindi Lei non è favorevole alla commissione di inchiesta parlamentare? Il problema va risolto a monte. Però più la magistratura vive momenti di crisi e più rifiutano la separazione delle carriere, gli avvocati nei consigli giudiziari, il sorteggio al Csm, una valutazione professionale reale. Secondo Lei la magistratura ha fatto veramente una autocritica oppure no? In parte sì. Però conosco anche tantissimi magistrati i quali sono prontissimi a rimettere tutto in discussione. Magari, come spesso succede, sono i pochi che si agitano di più e riescono a prevalere sui molti che la pensano diversamente. Qui il problema è di chi si tira indietro e invece dovrebbe sentire il dovere di gettarsi nella mischia. Quanto vale una vita? di Sandra Berardi intersezionale.com, 16 maggio 2021 Le cronache delle ultime settimane hanno puntato i riflettori su due sentenze che hanno fatto molto discutere sia per i fatti in sé, sia per la quantità di pena comminata. Parliamo delle sentenze relative agli omicidi di Marco Vannini e di Mario Cerciello Rega. Marco, un ragazzo di 20 anni ucciso da un sotto ufficiale della marina militare in forza ai servizi segreti, Antonio Ciontoli; Mario, un carabiniere ucciso da due ragazzi americani a seguito di una colluttazione. Per l’omicidio di Marco Vannini Antonio Ciontoli è stato condannato a 14 anni di carcere assieme alla moglie e ai due figli a cui sono stati dati 9 anni e 4 mesi per concorso semplice. Ergastolo invece per Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth per concorso nell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Nel primo caso la vittima è un giovane ragazzo, studia e lavora mentre l’omicida è un militare in servizio. Nel secondo caso i ruoli sono capovolti: la vittima è un militare e gli assassini due giovani ragazzi. E la differenza di “classe” tra le vittime e gli assassini emerge chiaramente nelle rispettive sentenze. Differenze sociali diametralmente opposte che si rispecchiano nella quantità di pena comminata agli autori degli omicidi. Se a compiere un omicidio, o qualsiasi altro reato, sono “uomini dello Stato” e la vittima una persona comune, o un soggetto “deviante”, le condanne sono mediamente lievi; di contro se la vittima è una persona appartenente ad un qualsiasi corpo delle forze dell’ordine le condanne per gli autori sono generalmente lunghe o, addirittura, a vita. Viene allora spontaneo chiedersi quanto vale una vita umana per la giustizia? E quanto pesa la morte di una persona? Qual è il significato del motto all’ingresso dei tribunali “La Legge è uguale per tutti”? Che differenza c’è tra la morte di Marco Vannini e quella di Mario Cerciello Rega? Una morte è una morte. E una morte è stata quella di Carlo Giuliani, per cui nessuno ha pagato. Per la “macelleria messicana” operata a Genova nel 2001, anche quanti sono stati condannati tra i responsabili delle forze dell’ordine, successivamente sono stati promossi mentre per la morte di Carlo, a vent’anni dal suo assassinio, non c’è un responsabile. Genova ha insegnato che le “vetrine rotte” valgono più di una vita umana. Un’altra morte è quella di Federico Aldrovandi: quattro poliziotti condannati a pochi mesi. Non un giorno di carcere, e subito tornati in servizio. Altre ancora sono quelle di Giuseppe Uva, di Franco Mastrogiovanni, di Sandro Greco, di Riccardo Rasman, di Paolo Scaroni, di Stefano Gugliotta, di Luca Mogherini, di Michele Ferrulli, di Tommaso De Michiel, di Stefano Cucchi, di Marcello Lonzi e di tanti altri. L’elenco è lungo e le anomalie nelle ricostruzioni di queste morti molteplici. Per Stefano Cucchi, recentemente, sono stati condannati due carabinieri a 13 anni dopo anni di depistaggi e insabbiamenti. Morti tutti per mano di uomini e donne in divisa che non hanno mai “pagato” per queste morti. Le sentenze per i loro assassini, quando sono state pronunciate, sono state di pochi anni, 2, 3, 4 come a voler sminuire l’assassinio e legittimare la licenza di uccidere. Non uno che sia mai finito in carcere, molti sono tornati in servizio o, addirittura, promossi. Queste morti, e le sentenze a carico dei loro assassini, confermano il carattere classista della giustizia (che non è affatto uguale per tutti se a fronte di fatti simili l’esito processuale si capovolge in maniera inversamente proporzionale a seconda dei protagonisti). La vita e la morte dell’uomo qualunque, ucciso da un uomo in divisa, vale meno della vita e della morte di un poliziotto o di carabiniere; se poi ad uccidere il “marginale” è un uomo dello stato, vale meno di niente. Forse, nelle aule dei tribunali, sotto quel “La Legge è uguale per tutti” sarebbe il caso di aggiungere “ma non tutti siamo uguali di fronte alla Legge”. Togliere il peso del pregresso: senza amnistia e indulto la riforma della giustizia non decolla di Giampiero Catone La Discussione, 16 maggio 2021 La riforma della giustizia dovrà affrontare il tema dell’amnistia o dell’indulto tenendo conto del numero eccezionale dei carichi pendenti e delle condizioni di sovraffollamento delle carceri. È soprattutto una questione di civiltà. Il Parlamento abbia il coraggio di mettere in campo decisioni giuste e lungimiranti. La riforma della giustizia porta con sé dossier complicati quanto ineludibili. Lo stesso annuncio fatto della ministra della Giustizia di smaltire il pregresso, fa comprendere le difficoltà in campo e i tempi ristretti, quando sollecita di “condurre in porto il prima possibile le riforme della giustizia che valgono solo l’1% dei miliardi del Recovery”. Perché proprio dalle riforme della giustizia civile, della giustizia penale, del Csm e dell’ordinamento giudiziario, dipenderà l’arrivo dei fondi europei. In questi giorni si parla di riforma, i partiti presentano le loro proposte. Si tace, però, sul macigno che ogni azione di cambiamento dovrà rimuovere. La giustizia intesa per la parte che interessa i cittadini, porta con sé un ostacolo insormontabile, quello del pregresso, i processi non fatti. Per capire serve ricordare alcuni dati: a fine 2019 i procedimenti pendenti in materia civile erano di 2 milioni e 400 mila e 1 milione e 400 mila i procedimenti penali. Sono cifre chiare, sulle quali sorge un interrogativo. Può una riforma partire con un carico così gravoso e denso di contraddizioni? Noi crediamo di no. Una vera riforma può essere credibile e vera solo introducendo in tempi rapidi amnistia e indulto. Si dirà che amnistia e indulto, sono una sconfitta dello Stato, ma lo è anche leggendo le cronache quotidiane che raccontano le condizioni disumane delle carceri, delle violenze, dei suicidi. In questo scenario un atto di clemenza e di ragione vanno compiuti. Così, sempre per stare alla attenzione della cronaca, c’è l’urgente necessità di un provvedimento capace di decongestionare le prigioni. Lo dicono i garanti regionali dei detenuti, in considerazione anche del forte aumento dei contagi da Covid dietro le sbarre. Sul tema del sovraffollamento sono intervenute le Camere Penali nel sottolineare la necessità di garantire condizioni detentive meno disumane a prescindere dalla pandemia. L’amnistia estingue il reato e porta alla chiusura dei procedimenti in corso, mentre l’indulto implica la celebrazione del processo perché si calcola sulla base della pena applicata in concreto o sul residuo che il detenuto deve scontare. In ogni caso è evidente che su questo fronte la riforma della giustizia non potrà che prendere atto che lo Stato non è riuscito ad assicurare condizioni di vita umane ai detenuti e di rieducarli in vista del loro rientro nella società. È un tema rilevante perché da una parte i cittadini si attendono che ogni detenuto sconti la pena, ma con carichi così elevati di procedimenti pendenti siamo sempre di fronte a imputati presunti tali. Il numero di sentenze di risarcimento per quanti vivono in carcere in condizioni inidonee è inoltre in crescita. Così come sono in crescita i risarcimenti per ingiusta pena detentiva. I tempi della giustizia italiana sono eccezionalmente lunghi e le sanzioni alla fine diventano la custodia cautelare e la gogna mediatica. In un Paese civile, sono conseguenze inaccettabili. Secondo l’ultima relazione stilata dal Ministero della Giustizia, - se facciamo l’esempio della Campania - il 42% dei detenuti è in attesa di giudizio a fronte di una media nazionale del 34,5% e di quella europea del 22,4. L’Italia inoltre detiene poi il triste primato in Europa con le carceri più sovraffollate. Lo rivela il rapporto Space, appena pubblicato dal Consiglio d’Europa: al 31 gennaio 2020 in Italia c’erano 120 detenuti per ogni 100 posti. Peggio di noi la Turchia, stato membro del Consiglio d’Europa (ma non dell’Unione), con 127 detenuti ogni cento posti. Dietro i numeri ci sono storie personali ma anche la necessità di uno stato di cose che deve cambiare. Serve quindi coraggio per portare avanti riforme necessarie e lungimiranti. Confidiamo nel Parlamento che sia capace di discutere con la verità dei fatti. Che sappia affrontare un problema che come ammesso da tutti non è più rinviabile. La riforma della giustizia sta per entrare nel vivo. I temi sono noti e non più rinviabili. Come quello di una amnistia o di un indulto. Ogni passaggio riformatore dovrà tenere conto del numero eccezionale dei carichi pendenti e delle condizioni di sovraffollamento delle carceri. Non si tratta solo di una scelta umanitaria ma lo è soprattutto di civiltà. Siamo di fronte a situazioni non più rinviabili. Il Parlamento abbia il coraggio di mettere in campo decisioni giuste e lungimiranti. È un intreccio da capogiro. La riforma della giustizia porta con sé dossier complicati quanto ineludibili. Non solo per la portata delle istituzioni in gioco che sono le fondamenta democratiche, ma per le diramazioni che comporta una riforma che andrà a toccare ambiti diversi: legislativi, i procedimenti civile e penale, il Csm, i tempi della prescrizione; le questioni economiche con il Recovery Found e i temi sociali scottanti con le carceri sovraffollate, i suicidi, l’incertezza delle pene. D’altronde lo stesso annuncio fatto della ministra della Giustizia Marta Cartabia, fa comprendere le difficoltà in campo e i tempi ristretti, quando sollecita di “condurre in porto il prima possibile le riforme della giustizia che valgono solo l’1% dei miliardi del Recovery”. Perché proprio dalle riforme della giustizia civile, della giustizia penale, del Csm e dell’ordinamento giudiziario, dipenderà l’arrivo dei fondi europei. In questi giorni si parla di riforma, i partiti presentano le loro proposte. Si tace, però, sul macigno che ogni azione di cambiamento dovrà rimuovere. La giustizia intesa per la parte che interessa i cittadini, porta con sé un ostacolo insormontabile, quello del pregresso, i processi non fatti. Per capire serve ricordare alcuni dati: a fine 2019 i procedimenti pendenti in materia civile erano di 2 milioni e 400 mila e 1 milione e 400 mila i procedimenti penali. Sono cifre chiare, sulle quali sorge un interrogativo. Può una riforma partire con un carico così gravoso e denso di contraddizioni? Noi crediamo di no. Una vera riforma può essere credibile e vera solo introducendo in tempi rapidi amnistia e indulto. Sono parole che suscitano divergenze, ma sono anche le uniche che permetteranno di far uscire il Paese dal vicolo cieco in cui si trova. I numeri appena citati impongono una scelta radicale che non può essere rinviata. Si dirà che amnistia e indulto, sono una sconfitta dello Stato, ma lo è anche leggendo le cronache quotidiane che raccontano le condizioni disumane delle carceri, delle violenze, dei suicidi. In questo scenario un atto di clemenza e di ragione vanno compiuti. Così, sempre per stare alla attenzione della cronaca, c’è l’urgente necessità di un provvedimento capace di decongestionare le prigioni. Lo dicono i garanti regionali dei detenuti, in considerazione anche del forte aumento dei contagi da Covid dietro le sbarre. Sul tema del sovraffollamento sono intervenute le Camere Penali nel sottolineare la necessità di garantire condizioni detentive meno disumane a prescindere dalla pandemia. In questi giorni ci si è chiesto, anche tra magistrati, se cogliere l’opportunità di prevedere una amnistia o un indulto? Le risposte sono state equilibrate e attente al problema di un atto di clemenza responsabile. Si può ancora discutere e scegliere tra le due possibilità. L’amnistia estingue il reato e porta alla chiusura dei procedimenti in corso, mentre l’indulto implica la celebrazione del processo perché si calcola sulla base della pena applicata in concreto o sul residuo che il detenuto deve scontare. In ogni caso è evidente che su questo fronte la riforma della giustizia non potrà che prendere atto che lo Stato non è riuscito ad assicurare condizioni di vita umane ai detenuti e di rieducarli in vista del loro rientro nella società. È un tema rilevante perché da una parte i cittadini si attendono che ogni detenuto sconti la pena, ma con carichi così elevati di procedimenti pendenti siamo sempre di fronte a imputati presunti tali. Il numero di sentenze di risarcimento per quanti vivono in carcere in condizioni inidonee è inoltre in crescita. Così come sono in crescita i risarcimenti per ingiusta pena detentiva. I tempi della giustizia italiana sono eccezionalmente lunghi e le sanzioni alla fine diventano la custodia cautelare e la gogna mediatica. In un Paese civile, sono conseguenze inaccettabili. Secondo l’ultima relazione stilata dal Ministero della Giustizia, - se facciamo l’esempio della Campania - il 42% dei detenuti è in attesa di giudizio a fronte di una media nazionale del 34,5% e di quella europea del 22,4. L’Italia inoltre detiene poi il triste primato in Europa con le carceri più sovraffollate. Lo rivela il rapporto Space, appena pubblicato dal Consiglio d’Europa: al 31 gennaio 2020 in Italia c’erano 120 detenuti per ogni 100 posti. Peggio di noi la Turchia, stato membro del Consiglio d’Europa (ma non dell’Unione), con 127 detenuti ogni cento posti. Sono numeri, ma ogni riforma, ogni iniziativa non può prescindere dal prenderli in considerazione. Dietro i numeri ci sono storie personali ma anche la necessità di uno stato di cose che deve cambiare. Serve quindi coraggio per portare avanti riforme necessarie e lungimiranti. Confidiamo nel Parlamento che sia capace di discutere con la verità dei fatti. Che sappia affrontare un problema che come ammesso da tutti non è più rinviabile. “Giusto e breve”: stavolta il processo rispetti la Carta di Paola Balducci Il Dubbio, 16 maggio 2021 “Processo giusto e breve” è il motto portato avanti dalla ministra Cartabia e che ispira la proposta di riforma del processo penale, da tanto attesa. La necessità di attuare il principio consacrato nell’articolo 111 della Costituzione, quello del “giusto processo”, è oggi sempre più incalzante: esso costituisce un diritto fondamentale della persona, di derivazione internazionale, che trova applicazione in qualsiasi processo, a prescindere dalla natura dello stesso. Il punto di frizione tra “giusto processo” e processo penale, in particolare, è da sempre rappresentato dalla “ragionevole durata”: la regolamentazione sul piano formale delle tempistiche entro cui si articola ogni fase, procedimentale e processuale, non sembra da sola sufficiente a garantire l’attuazione di quel principio. Certamente la ricerca e l’accertamento di una verità processuale non può essere compressa entro limiti temporali troppo stringenti ma nemmeno può ergersi a giustificazione di un’eccessiva dilazione dei tempi, così ripercuotendosi in negativo su una serie di diritti della persona nei cui confronti si celebra il processo, stante l’idoneità dello stesso a travolgerli e comprimerli. Uno dei punti critici, su cui si discute da molto, è quello relativo alla conciliazione tra “giusto processo” e durata dello stesso mediante lo snellimento di alcune fasi entro cui si snoda l’accertamento della verità, sempre nel rispetto del diritto di difesa, del pari garantito dalla Costituzione. La giustizia e la brevità sono due facce della stessa medaglia. In primo luogo, perché un processo per essere giusto deve essere breve, e questa è una garanzia tanto per l’imputato quanto per lo Stato e soprattutto per le vittime che aspettano la sua definizione. In secondo luogo, perché un processo deve essere “breve” ma allo stesso tempo “giusto”, il che significa che un’accelerazione delle tempistiche processuali non potrà mai comportare una menomazione del diritto di difesa dell’imputato. Diritto che è consacrato dalla Costituzione come “inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”, a ricordarci che un processo “giusto” non deve essere identificato solo in quello che si conclude con una sentenza di condanna. In quest’ottica garantistica, significativa e utile è, innanzitutto, una diversa concezione dell’udienza preliminare: da anni si è messo in discussione il suo ruolo di udienza “filtro”, tacciata troppo spesso di inutilità nell’economia processuale. Concepita dal legislatore come una fase processuale preordinata alla verifica dell’inidoneità degli elementi raccolti dal Pm nell’espletamento delle indagini preliminari, e quindi a una prognosi circa l’inutilità del dibattimento, soffre i limitati poteri attribuiti al Gup che, di fatto, non è in grado di filtrare le sole imputazioni meritevoli di un rinvio al giudizio. In questo senso, pertanto, è certamente opportuno attribuire poteri più pregnanti al Gup, così da essere in grado di valutare efficacemente la sostenibilità dell’accusa in giudizio e, quindi, di garantire una “deflazione” dei procedimenti inutili, perché non condurrebbero a una condanna dell’imputato, già nella fase preliminare. Più in generale, è necessario insistere sull’intera fase procedimentale delle indagini preliminari, che allo stato degli atti possono arrivare a durare fino a due anni. Anche in questo caso, massima rilevanza andrebbe attribuita alla previsione di tempi certi, nel segno di rendere più difficilmente eludibili i termini fissati per il compimento di determinate attività e per l’esercizio di determinate facoltà. Nell’ottica di un processo “giusto e breve” è fondamentale rivalutare quei procedimenti’ speciali a definizione anticipata. Da una parte si potrebbe far leva sul criterio della entità del fatto commesso, così ampliando il catalogo dei reati per i quali l’accesso ai riti alternativi possa dirsi privilegiato, dall’altra sulle conseguenze derivanti da una simile scelta, prevedendo riduzioni di pena più significative ed estendendo gli altri benefici a tutti i procedimenti speciali. Trai i riti alternativi previsti dal legislatore, una maggiore attenzione dovrebbe essere riposta nella sospensione del procedimento con messa alla prova, del pari ampliandone le condizioni di accesso. Gli effetti di questo procedimento speciale, infatti, sono molteplici: la deflazione del carico pendente, che può avvenire già nel corso delle indagini preliminari quando l’apposita richiesta è presentata nel corso di questa fase procedimentale; il coinvolgimento attivo dell’imputato che è tenuto a prestare condotte volte a riparare le conseguenze dannose derivanti dal reato nonché a svolgere attività di rilievo sociale e di pubblica utilità; l’estinzione del reato allorquando la prova, cui è sottoposto l’imputato, abbia avuto esito positivo. La previsione di tre gradi di un giudizio se da un lato garantisce la piena attuazione del diritto di difesa, dall’altra contribuisce ad allungare i tempi della giustizia. Perciò è condivisibile l’idea di apporre un limite alla facoltà di impugnare un provvedimento al ricorrere di determinate condizioni: ad esempio, l’appello del Pm avverso una sentenza di assoluzione di primo grado potrebbe essere ristretto ai soli casi eccezionali, dato che il dibattimento è la sede naturale per il contraddittorio sulla prova. Una riforma della giustizia penale, per dirsi completa, dovrebbe, però, riguardare anche la fase dell’esecuzione della pena inflitta con sentenza di condanna divenuta irrevocabile. La necessità di incidere in maniera definitiva sul problema, ancora attuale, del sovraffollamento carcerario deve spingere a trovare soluzioni alternative, del pari idonee ad assicurare la funzione rieducativa della pena, imposta costituzionalmente. Certezza della pena non significa per ciò solo certezza del carcere, e di questa linea di pensiero sembra farsi portatrice la stessa Corte costituzionale, la quale ha affrontato la questione della non compatibilità del cosiddetto ergastolo ostativo con il sistema costituzionale. Le soluzioni per un processo “giusto e breve” sono molteplici e non è detto che gli interventi debbano riguardare soltanto la procedura. L’opera di snellimento potrebbe ben riguardare anche i profili sostanziali del diritto penale: la depenalizzazione è un potente strumento, efficace non solo per le conseguenze deflattive che genera sul carico di processi pendenti ma anche per il mantenimento di un diritto penale che sia coerente e rispettoso dei principi generali posti al suo fondamento. Evitare il panpenalismo, in cui si rifugiano le paure di una società moderna; espungere dall’ordinamento quelle fattispecie di reato che in concreto non offendono beni giuridici protetti dall’ordinamento; insistere nella prevenzione dei reati anche, e soprattutto, incentivando la diffusione della cultura della legalità. Questa riforma del processo penale dovrebbe esser figlia di una visione d’insieme: è solo attraverso la sinergia dei vari istituti, sia di diritto penale sostanziale, sia processuale che saremmo in grado di dar vita ad un processo “giusto e breve”, nella piena attuazione dei principi fondamentali della nostra Costituzione e di quelli internazionali. La rissa sulle riforme e il nodo giustizia che agita la politica di Stefano Vespa formiche.net, 16 maggio 2021 Nelle ultime ore il tema delle riforme e in particolare quello della giustizia ha scaldato gli animi. L’impressione è che la battaglia si combatta sul terreno dei voti alle prossime elezioni anziché sull’interesse collettivo. Mario Draghi sospirerà, non c’è giorno che la sua maggioranza non litighi. Ma tant’è. Nelle ultime ore il tema delle riforme e in particolare quello della giustizia ha scaldato gli animi facendo emergere alcune, almeno apparenti, contraddizioni. Il primo colpo è stato sparato da Matteo Salvini che, parlando con la Repubblica, ha detto che realisticamente questo governo non riuscirà a fare le riforme della giustizia e del fisco per colpa del Partito democratico e del Movimento 5 Stelle “per i quali chiunque passi lì accanto è un presunto colpevole”. Era appena stato prosciolto per il caso Gregoretti, ma nelle stesse ore il suo avvocato, Giulia Bongiorno, senatrice e responsabile Giustizia della Lega, intervistata a Zapping su Rai Radio 1 ha parlato in modo quasi entusiastico del ministro Marta Cartabia e delle sue idee di riforma. Un’apertura totale con la sola eccezione dell’ipotesi di impedire l’appello all’imputato, salvo determinati casi, mentre è d’accordo sull’impedire l’appello all’accusa sia in caso di condanna che di assoluzione, restando in piedi solo il ricorso per Cassazione. Era evidente il suo compiacimento anche sulla revisione della prescrizione tanto voluta dall’ex ministro Alfonso Bonafede rivendicando di essere stata l’unica a denunciare fin dall’inizio quella riforma che definì una “bomba atomica”, metafora oggi accettata da tutti, pur essendo come Bonafede un ministro nel primo governo Conte. Stando alle parole, quindi, la Lega è dalla parte della Cartabia mentre il leader dà per scontato che non succederà nulla. Il vero motivo sarebbe l’intenzione di Salvini di “liberarsi” di Draghi eleggendolo al Quirinale e di avere spazio di manovra in un possibile governo di centrodestra fin dal prossimo anno. Sempre a parole, Enrico Letta considera quella della giustizia come la prima riforma da fare. L’ha detto alla direzione del Pd invitando Salvini a uscire dal governo se le sue intenzioni fossero davvero quelle di non fare le riforme. Sul tradizionale scambio di invettive via giornali o via Twitter aleggia il fantasma del Movimento 5 Stelle, o meglio il fantasma del Movimento delle origini perché oggi non si capisce quanti siano veramente i Movimenti. L’incognita sta nel fatto che resta il gruppo parlamentare più numeroso anche se i giustizialisti che portarono a certe scelte del passato sono diminuiti (anche loro tengono famiglia) e Luigi Di Maio sta cercando di avere le mani libere su tanti tavoli: basti vedere l’accordo con Draghi sulla sostituzione di Gennaro Vecchione con Elisabetta Belloni al Dis che non è piaciuta affatto a Giuseppe Conte. Tra poco bisognerà scoprire le carte perché ci sono dei tempi da rispettare. Il governo prevede leggi delega sui vari temi della giustizia entro la fine di quest’anno e decreti attuativi entro il settembre del 2022. Eppure sono in atto manovre diversive come i referendum che la Lega vuole insieme con i radicali, referendum su temi fondamentali, dalla responsabilità civile dei magistrati alla separazione delle carriere, e che allungando parecchio i tempi sembrano uno specchietto per le allodole: superate le fasi del controllo delle firme e il via libera della Consulta, si può votare dal 15 aprile al 15 giugno, cioè l’anno prossimo, tranne che non vengano sciolte anticipatamente le Camere. Nel frattempo che si fa? Tutti sanno che se non si rispettano i tempi i soldi europei non arrivano e che si dovrà cominciare presto a far di conto alla Camera e al Senato, anche se Antonio Tajani (Forza Italia) crede che non si potrà andare oltre una maggiore velocità del processo civile proprio per le divisioni politiche. L’apertura dell’avvocato Bongiorno alle proposte Cartabia era sincera, forse perché abituata da decenni alle aule giudiziarie e alle storture dell’attuale ordinamento. L’impressione è che la battaglia si combatta sul terreno dei voti alle prossime elezioni anziché sull’interesse collettivo rispetto a un settore così importante per la vita dei cittadini e delle aziende. Perché serve il referendum sulla giustizia: su 11mila arresti di persone innocenti, 8 Pm puniti di Piero Sansonetti Il Riformista, 16 maggio 2021 Enrico Costa, parlamentare molto impegnato da sempre nel campo della giustizia e attualmente dirigente di Azione, ha fornito alla stampa i dati sulla responsabilità civile dei magistrati. I dettagli li trovate nell’intervista che pubblichiamo sul nostro giornale. Qui vorrei ragionare su una sola cifra: otto. Otto è il numero dei magistrati che hanno pagato (seppure in misura molto discreta) per i loro errori, i quali errori però sono stati pagati in misura assai maggiore dalle vittime. Chi sono le vittime? Gli imputati innocenti. Cioè quelle persone che sono finite in prigione pur non avendo commesso nessun reato e ci sono restate per qualche settimana, o mese, o anno. Recentemente, ad esempio, vi abbiamo parlato dell’ex sindaco di Marina di Gioiosa, nella Locride, che fu prelevato dal letto nel quale dormiva una mattina alle cinque, quando aveva cinquantadue anni, trascinato via sotto gli occhi della sua bambina, e poi liberato quando di anni ne aveva ormai sessantadue. Cinque anni in cella. Poi assolto, in via definitiva. Qualcuno ha fatto almeno un rimproverino al Pm che aveva preso l’abbaglio? No, anzi, stanno pensando di promuoverlo procuratore di Milano. Andiamo bene. Ecco, allora guardiamo anche i numeri che riguardano gli errori giudiziari. Circa 1000 all’anno. Dunque negli ultimi undici anni (periodo durante il quale sono stati sanzionati questi otto magistrati) gli errori giudiziari che hanno provocato l’arresto di innocenti sono stati 11mila. Di questi 11mila errori ammettiamo pure che la metà fossero inevitabili, e dunque non prevedessero la sanzione (però l’errore di un medico, di un architetto o di un tranviere non è mai considerato inevitabile): ne restano 5.500, almeno, che erano evitabili. Otto di questi errori sono stati puniti, 5492 sono rimasti impuniti. A voi sembra che questa sia una cosa ragionevole? E cioè che i cittadini non si possano difendere in nessun modo dalla sconsideratezza, o dalla inettitudine, o dal dolo e dalla persecuzione di rappresentanti dello Stato che, tra tutti gli altri rappresentanti dello Stato, sono quelli con il potere più grande, che spesso è un potere tremendo e devastante di vite, affetti, lavoro, amicizie, progetti? Gli unici - assolutamente gli unici - che con un sorriso beffardo possono privarti della tua libertà, della tua dignità, dei tuoi amori, e ridurti alla disperazione. Questi problemi che sto illustrando sono vecchi, e non sono mai stati affrontati. Oggi emergono in forme clamorose per via dello scompenso provocato dal rapido crollo del prestigio e della credibilità della magistratura. Chi scrive su questo giornale - lo sapete - a questo prestigio non ha mai creduto. Ma fino a qualche anno fa, e anche a qualche mese fa, la gran parte dell’opinione pubblica considerava la magistratura il regno del bene, dell’onestà, del rigore e dell’imparzialità. Oggi il caso Palamara, poi il caso Amara, e poi a seguire le lotte feroci esplose tra le toghe, hanno reso evidente - credo - a chiunque sia in buonafede, che la magistratura è un luogo di potere inaffidabile e infetto. Devo ripeterlo ogni volta e lo ripeto: ovviamente non tutta la magistratura. Esistono alcune migliaia di magistrati (non molte migliaia) che se ne infischiano del potere e delle lotte di dominio, e esercitano con cultura, saggezza e anche umanità il loro lavoro. Vanno ringraziati, perché fanno la cosa giusta in condizioni difficilissime. Ma non sono la maggioranza. E comunque sono una minoranza esigua ai vertici della piramide. Il punto di degrado che riguarda i posti di comando della magistratura è un punto altissimo: una vetta. Persino il mondo della politica, se messo al confronto coi vertici della magistratura, appare un luogo di candore, onestà, ingenuità, senso del dovere e dell’onore. Pensate a quello che sta succedendo in questi giorni, e che ci racconta Paolo Comi. Il procuratore della più importante procura di Italia, quella di Roma, dichiarato illegittimo (perché nominato con forzature e sotterfugi dal Csm, in assenza di titoli, un anno fa) che resta al suo posto mentre si scatena una operazione a largo di raggio di rinvii e di trame per impedire che sia sostituito e che il suo gruppo di potere sia indebolito (sto parlando della vicenda Prestipino). Partendo da questo quadro, fosco fosco, a voi sembra che si possa sperare in una rapida riforma della giustizia che cancelli le sciagurate controriforme Bonafede (processo eterno, leggi speciali - di tipo fascista - sulla corruzione, trojan, intercettazioni…) e che introduca la responsabilità civile dei magistrati, la separazione delle carriere, una massiccia depenalizzazione, la riduzione ai minimi termini nell’uso della carcerazione preventiva eccetera eccetera? Ecco, la questione della carcerazione preventiva è strettamente legata al problema della responsabilità civile dei magistrati. Se fosse ridotta all’essenziale, poche centinaia di arresti all’anno, gli errori giudiziari sarebbero molti di meno o comunque molto meno gravi. Il problema di fondo non è quello di punire i magistrati colpevoli, ma di metterli in condizione di non sbagliare. Aumentando gli strumenti a loro disposizione per indagare correttamente, e riducendo gli strumenti a loro disposizione per punire. Soprattutto - ma non solo - per punire prima della condanna. Non credo che esista la possibilità di mettere mano davvero a queste riforme, con questa maggioranza e questo parlamento. I 5 stelle - e cioè la componente reazionaria del governo - sono in maggioranza, anche se il loro consenso si sta progressivamente assottigliando, e non permetteranno mai una riforma garantista. I 5 Stelle sono la componente più antiliberale che mai sia entrata nel Parlamento della Repubblica, e la loro illiberalità fa parte della loro ragion d’essere: non possono rinunciarci. Per questo i referendum proposti dai radicali, e ora sostenuti anche dalla Lega, sono essenziali. Nessuno mette in discussione le ottime idee della ministra Cartabia. Ma i ministri non possono fare le riforme se non dispongono di una maggioranza parlamentare. E Cartabia non dispone di questa maggioranza. I referendum non sono un siluro contro la Cartabia, sono uno scudo per difenderla e aiutarla. Difficile vincerli? Può darsi, sicuramente bisogna fare i conti con una componente giustizialista e punizionista che è ancora fortissima nell’opinione pubblica italiana. Ma, visto che oggi ricordiamo, a cinque anni dalla morte, Marco Pannella, ricordiamoci anche di quando, quasi mezzo secolo fa, sostenne le ragioni di un referendum (il primo della storia della Repubblica), quello sul divorzio, che tutti credevano sarebbe stato vinto dai democristiani e invece fu vinto dai laici e mise fine al fanfanismo. Michele Vietti: “Più coraggio per sveltire i processi: separare le carriere e depenalizzare” di Michela Allegri Il Messaggero, 16 maggio 2021 L’ex vicepresidente del Csm: sulla giustizia ci sono dei nodi da sciogliere, il sistema attuale non dà risposte. È necessario rendere più allettanti i riti alternativi e far funzionare l’udienza preliminare. Per realizzare una riforma della Giustizia reale e concreta, in credo di velocizzare sul serio i processi, è necessario agire con coraggio. Ne è convinto Michele Vieni, ex vicepresidente del Csm, che fa il punto sulle proposte di riforma fatte dalla Commissione istituita dalla Guardasigilli, Marta Cartabia. Onorevole, cosa pensa delle proposte di riforma fatte dalla Commissione? “Apprezzo lo sforzo, condivido l’urgenza legata al recovery, ma sulla giustizia abbiamo dei nodi strutturali da sciogliere. Non si può pensare di aggiustare il sistema con qualche ritocchino. Non ci si deve illudere, e non si deve illudere l’opinione pubblica, che si possa mettere mano alla giustizia con un po’ di manutenzione ordinaria”. Quali sono questi nodi strutturali? “Per quanto riguarda il processo penale, il rito accusatorio, imbastardito dalle modifiche, si è rivelato inadeguato a contenere e filtrare la massa di procedimenti che il sistema produce. Prevede che il processo si faccia nel dibattimento: tutto deve formalmente avvenire nel contraddittorio delle parti (anche se in realtà l’accusa ha precostituito le prove grazie al controllo assoluto del pm sugli strumenti tecnici di indagine quali le intercettazioni). La condizione per funzionare è avere pochi processi a dibattimento. Ma questo non succede: le fattispecie di reato si moltiplicano, l’udienza preliminare non filtra e, soprattutto, nessuno ricorre ai riti alternativi, perché il micidiale meccanismo della prescrizione induce imputati e avvocati a tirarla per le lunghe. Diventa un cane che si morde la coda. Se non risolviamo il problema della prescrizione, se non renderemo allettanti i riti alternativi, continueremo a ingolfare i dibattimenti e a rendere irragionevole la durata dei processi”. Tra le proposte della Commissione c’è quella di potenziare i riti alternativi. Non basta? “No. Servirebbe un’udienza preliminare davvero in grado di filtrare. E, soprattutto, servirebbe una reale depenalizzazione. I processi sono troppi, perché i reati sono troppi. Tutti ne parlano e nessuno agisce. Anzi, la politica, non sapendo prendersi le proprie responsabilità, gestisce ogni nuova emergenza con l’introduzione di nuovi reati. Un sistema in cui tutto è reato, non ci sono riti realmente alternativi, tutti puntano alla prescrizione, è destinato a scoppiare”. Quali altri nodi andrebbero sciolti? “Quello della separazione delle carriere. Se il pm è un magistrato che sta dentro l’ordine l’ordinamento giudiziario insieme al giudice, allora deve cercare anche le prove a discarico dell’imputato, perché questo prevede la legge, e deve chiedere il rinvio a giudizio solo quando ha la ragionevole certezza di ottenere una condanna. Il suo ruolo è stato originariamente pensato con connotati di terzietà. Se invece il pm è l’avvocato dell’accusa, come dopo la riforma de11988, allora la separazione delle carriere è inevitabile, anche per garantire la reale indipendenza dei giudici”. Che indirizzo dovrebbe prendere una riforma del Csm? “Non si può pensare di riformare la giustizia se non si riforma il governo dei magistrati. Sono due anni che andiamo avanti tra Palamara e Amara, tutti si scandalizzano degli scandali e nessuno fa niente. Il rischio è la delegittimazione dell’ordine giudiziario, che è un problema per la democrazia. Servono una legge elettorale che limiti il peso delle correnti, una sezione disciplinare autonoma e con garanzie di autorevolezza, rigore, imparzialità. Servirebbe anche un sistema di valutazione delle progressioni in carriera che non promuova il 99 per cento e che tenga conto degli esiti del lavoro”. La Commissione ha previsto l’introduzione di un atto di indirizzo del Parlamento, per stabilire le priorità relative ai reati da trattare. Pensa sia utile? “Assolutamente sì. Di fatto le Procure stilano già per proprio conto un breviario delle priorità che, con tutto il rispetto, è meglio venga deciso dal potere legislativo. L’obbligatorietà dell’azione penale è bella, ma irrealistica Visto che non siamo capaci di fare una reale depenalizzazione, l’obbligatorietà diventa discrezionalità. In Parlamento dovrebbe anche restituire alla polizia giudiziaria il compito di selezionare le notizie di reato”. Stalking alla “fidanzata” non riqualificabile in “maltrattamenti in famiglia” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2021 Lo chiarito la Corte costituzionale, sentenza 98 depositata oggi, ricordando il principio del divieto di applicazione analogica della legge penale a sfavore del reo. Il divieto di applicazione analogica della legge penale a sfavore del reo “costituisce un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo della legge”. È quanto si legge nella sentenza n. 98 (redattore Francesco Viganò), depositata oggi, con la quale la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Torre Annunziata. Il Tribunale stava celebrando un processo contro un imputato accusato dal pubblico ministero di atti persecutori (il cosiddetto stalking) per una serie di condotte abusive compiute nei confronti di una donna con cui intratteneva da qualche mese una relazione affettiva, e che frequentava abitualmente la sua casa familiare. Al termine del dibattimento, il giudice aveva prospettato alle parti la possibilità di una riqualificazione dei fatti contestati all’imputato nel più grave delitto di maltrattamenti in famiglia. Ciò sulla base di un orientamento della Corte di Cassazione che considera integrato questo reato in presenza di condotte maltrattanti compiute in un “contesto affettivo protetto”, caratterizzato da “legami forti e stabili tra i partner” e dalla “condivisione di progetti di vita”. Tale orientamento però precisa la Consulta risale ad epoca antecedente alla introduzione dell’articolo 612-bis cod. pen., e si è formato in larga misura con riferimento a ipotesi concrete caratterizzate dal venir meno di una preesistente convivenza. Mentre una recente sentenza della Cassazione -successiva all’ordinanza di rimessione - ha escluso il delitto di maltrattamenti in famiglia in un’ipotesi assai simile a quella oggetto del processo a quo, caratterizzata da una relazione “instaurata da non molto tempo” e da una “coabitazione” consistita soltanto “nella permanenza anche per due o tre giorni consecutivi nella casa dell’uomo, ove la donna si recava, talvolta anche con la propria figlia” (2911/2021). A questo punto l’imputato aveva chiesto di essere ammesso al giudizio abbreviato, e di godere così del relativo sconto di un terzo della pena in caso di condanna. Il giudice, preso atto che il codice di procedura penale non consente di chiedere il rito abbreviato al termine del dibattimento, aveva tuttavia ritenuto che, in un caso come questo, una simile preclusione fosse incompatibile con i principi di eguaglianza e del giusto processo, e dello stesso diritto di difesa. Il mutamento prospettato della qualificazione giuridica del fatto comporta infatti, secondo il Tribunale, uno stravolgimento dei rischi sanzionatori che l’imputato aveva considerato con il proprio difensore, nel momento in cui aveva deciso di affrontare il dibattimento anziché chiedere di essere giudicato con rito abbreviato o di patteggiare la pena. Conseguentemente, il Tribunale ha sollevato questione di costituzionalità mirante, appunto, a consentire all’imputato, di fronte alla prospettazione di una possibile riqualificazione giuridica del fatto contestatogli, di optare per il rito abbreviato. La Corte costituzionale non ha esaminato nel merito la questione, ritenendo che il Tribunale rimettente non avesse adeguatamente motivato sulla sussistenza, nel caso concreto, dei presupposti del mutamento della qualificazione giuridica del fatto contestato dal pubblico ministero. In proposito, la Corte ha anzitutto sottolineato che il reato di maltrattamenti in famiglia presuppone, per quanto qui rileva, che le condotte abusive siano compiute nei confronti di una persona della stessa “famiglia”, oppure di una persona “convivente”; e che, invece, il reato di atti persecutori aggravati prevede che le condotte vengano compiute nei confronti di persona che sia o sia stata legata all’autore da una “relazione affettiva”. Ha quindi rammentato il fondamentale canone interpretativo in materia penale, basato sull’art. 25 secondo comma Cost. e rappresentato dal divieto di applicare la legge oltre i casi da essa espressamente stabiliti. Questo divieto impedisce - ha proseguito la Consulta - di riferire la norma a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei significati letterali delle espressioni utilizzate dal legislatore. Ciò a garanzia sia del principio della separazione dei poteri, che assegna al legislatore - e non al giudice - l’individuazione dei confini delle figure di reato; sia della prevedibilità per il cittadino dell’applicazione della legge penale, che sarebbe frustrata laddove al giudice fosse consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello desumibile dalla sua immediata lettura. La Corte ha evidenziato che il giudice del procedimento principale non aveva spiegato le ragioni per le quali aveva ritenuto che, a fronte di una relazione affettiva durata qualche mese e caratterizzata da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro, la vittima potesse essere considerata, alla stregua del linguaggio comune, come persona già appartenente alla medesima “famiglia” dell’imputato, ovvero con lui “convivente”. In assenza di questa dimostrazione, ha concluso la Corte, l’applicazione del reato di maltrattamenti in famiglia anziché di quello di atti persecutori costituirebbe il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma penale, come tale vietata dall’articolo 25 secondo comma della Costituzione. Augusta (Sr). Detenuto suicida nel carcere, si è impiccato con una cintura La Sicilia, 16 maggio 2021 Un 40enne, detenuto nel carcere di Augusta, si è suicidato nella sua cella ieri notte. L’uomo si è impiccato con una cintura. La Procura di Siracusa ha aperto un’inchiesta e ha disposto l’ispezione cadaverica. “Disorganizzazione del lavoro; un solo agente deve vigilare su tre reparti e risulterebbe che tra questi, ci sarebbe il reparto dove è accaduto il tragico episodio” hanno commentato Nello Bongiovanni, dirigente nazionale e Alessandro De Pasquale, presidente del Sippe, sindacato polizia penitenziaria affiliato al Sinappe. “Non è possibile - affermano De Pasquale e Bongiovanni - attuare un’organizzazione del lavoro dove al personale si chiede anche il potere dell’ubiquità, e se ti va male, come in questo caso, rischi un procedimento disciplinare con grave pregiudizio alla carriera. Da tempo chiediamo la sostituzione dei vertici del carcere di Augusta perché in questo penitenziario non sembrano esserci strategie, obiettivi ed il personale opera nel terrore”. L’istituto ospita oltre 400 detenuti, 150 in più rispetto alla capienza. Il Sippe denuncia la carenza di organico degli agenti di polizia penitenziaria, “190 effettivi quando ce ne vorrebbero 250”. San Gimignano (Si). Torture nel carcere di Ranza: lista di 75 testimoni, si apre il processo Corriere di Siena, 16 maggio 2021 Tra i testimoni che verranno ascoltati per il caso delle presunte torture al carcere di Ranza a San Gimignano potrebbe esserci anche il Magistrato di Sorveglianza di Siena. Una richiesta che arriva dal garante nazionale dei detenuti, parte civile nella vicenda giudiziaria su quello che sarebbe stato un pestaggio ai danni di un detenuto di nazionalità tunisina nel corso di un trasferimento di cella ad ottobre 2018. L’accusa nei confronti degli agenti, nella fattispecie, era di minaccia aggravata, lesioni aggravate, falso ideologico e - appunto - tortura. Martedì 18 maggio, per la prima volta in Italia da quando il reato è stato introdotto nel nostro ordinamento, verrà celebrato a Siena un processo in cui a dei pubblici ufficiali viene contestato il reato di tortura. Gli accusati sono cinque agenti di polizia penitenziaria rinviati a giudizio dal Gup Roberta Malavasi. La difesa, con l’avvocato Manfredi Biotti - legale di quattro agenti - ha pronti trentanove testimoni. Mentre sono ventitré quelli dell’avvocato Fabio D’Amato, che rappresenta uno degli agenti sotto accusa. Diciannove invece per il pubblico ministero Valentina Magnini, che ha coordinato l’inchiesta; stessa lista pure per l’Associazione Antigone, una delle parti civili nel procedimento. Le testimonianze saranno a discrezione del tribunale collegiale presieduto Luciano Costantini che ne valuterà l’ammissibilità. Al medesimo inter, ovviamente, non sfugge il Magistrato di Sorveglianza di Siena. L’udienza di martedì mattina, come detto, assume un valore particolarmente significativo non soltanto per tutta la complessa vicenda del caso delle presunte torture. A finire nel registro degli indagati furono quindici agenti di polizia penitenziaria. Dieci di questi, come è noto, sono stati condannati in rito abbreviato dal giudice Jacopo Rocchi, che aveva riconosciuto le torture perpetrate ai danni del recluso, anche se a livello concorsuale. Mentre gli altri furono rinviati a giudizio dal Gup Malavasi. Salerno. Mascherine dal carcere alla Sicilia di Carmen Autuori La Città di Salerno, 16 maggio 2021 I 215mila Dpi prodotti a Fuorni consegnati al Comune di Sant’Agata Li Battiati. Salerno e Catania unite da un filo che si chiama solidarietà, reso ancora più prezioso dal progetto di riscatto e di reinserimento sociale che ne costituisce la base. Mercoledì scorso sono state consegnate 215mila mascherine chirurgiche provenienti dal carcere di Fuorni al Comune catanese di Sant’Agata Li Battiati. Saranno destinate agli impiegati municipali, ai vigili urbani, ai carabinieri della stazione locale e ai medici di base e soprattutto a coloro che si recheranno presso l’hub che sarà inaugurato domani alla presenza del presidente della Regione, Nello Musumeci. Le mascherine, prodotte all’interno della Casa Circondariale di Salerno nell’ambito del progetto #Ricuciamo, nato dal protocollo d’intesa fra Ministero della Giustizia e Commissario straordinario di governo per l’emergenza Covid, ha coinvolto 40 detenuti lavoranti. Nel solo stabilimento di Salerno sono state prodotte fino a oggi oltre 3,2 milioni di mascherine protettive, comprese, appunto, quelle consegnate al sindaco di Sant’Agata Li Battiati, Marco Rubino, dal dirigente aggiunto di Polizia Penitenziaria, Sabato Costabile. “Sono fermamente convinto - spiega Rubino - che la rete tra gli Enti non è un’utopia. La lodevole iniziativa posta in essere dall’amministrazione penitenziaria, e in particolare dalla Casa Circondariale di Salerno, assume valore ancora più alto se si considera che sono i detenuti i protagonisti del progetto, un messaggio da un luogo che è sempre di sofferenza. Ringrazio il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Bernardo Petralia, che ha prontamente accolto la nostra richiesta e il comandante Costabile che, insieme ai suoi uomini, ha materialmente consegnato i dispositivi di protezione”. La proposta, prontamente accolta dal sindaco Rubino, è partita dall’assessore alla Sanità, Vittorio Lo Sauro: “Per puro caso sono venuto a conoscenza del progetto #Ricuciamo che mi ha molto emozionato per la sua valenza sociale - afferma Lo Sauro - e nessuno più di me che sono un carabiniere in pensione sa quanto sia importante il lavoro quale strumento per combattere la recidiva”. “I criteri per la scelta dei detenuti impegnati nel progetto sono stati l’affidabilità e il fine pena. Si è preferito dare priorità a quelli con fine pena lungo - spiega il comandante Costabile - in quanto ampio spazio è stato dato alla formazione sia pratica che teorica in termini di norme di sicurezza sul lavoro”. I suicidi in divisa sono un tabù di cui nessuno vuole parlare di Sara Lucaroni L’Espresso, 16 maggio 2021 Sono decine ogni anno i membri delle forze dell’ordine che decidono di farla finita. Ma intorno alle loro storie si crea spesso una coltre di silenzi e omertà. Ora il libro “Il buio sotto la divisa” racconta sei storie di uomini in divisa che hanno scelto di non farcela. Nel linguaggio tecnico si chiamano “eventi suicidari”. Da gennaio ad aprile se ne contano già 18. Il più anziano aveva 59 anni. Nel 2020 i suicidi sono stati invece cinquantuno: sei nella Guardia di Finanza, quindici tra i Carabinieri, nove agenti della Polizia di Stato, cinque della Polizia locale, sette della Penitenziaria, tre nella Marina Militare, uno nella Capitaneria di Porto, uno nell’Aeronautica, uno nell’Esercito e tre guardie giurate. Nel 2019 l’Osd, l’Osservatorio Suicidi in Divisa, ne ha registrati sessantanove. L’analisi del fenomeno dei suicidi nelle forze dell’ordine e nelle forze armate va incontro a incongruenze sui dati stessi: le amministrazioni e il ministero degli Interni e il ministero della Difesa non registrano gli eventi avvenuti fuori dalle caserme e dai comandi. Altrettanto incompleti sono quelli raccolti da associazioni private e gruppi sui social come l’autorevole Osd, basati su segnalazioni, ma può avvenire che di alcuni di questi casi non si abbia notizia per volontà della famiglia stessa. Negli ultimi anni il fenomeno è uscito dalla sua nicchia fatta di psicologi e sindacati militari quando le tragedie hanno assunto contorni inusuali o hanno coinvolto altre persone, come nel caso di un femminicidio, o quando sono stati particolarmente drammatici. Ma spenti i riflettori, i suicidi in divisa tornano a popolare convegni, blog, saggi, webinar, osservatori istituzionali, tavoli tecnici per addetti ai lavori e soprattutto a sconvolgere il solo privato di chi vive queste esperienze e di chi la divisa la vive ogni giorno. Il motivo è anche la stessa percezione che i cittadini hanno della divisa: “Chi la indossa non deve avere debolezze”. E a volte, certe derive di questo assunto: “Chi la indossa è un ‘nemico’”. Il “vietato avere debolezze” è una realtà dentro la caserma e il comando: se un agente o un militare ha bisogno di sostegno psicologico, è “pazzo”. È il nodo, culturale e strutturale, di cui si discute da tempo ai tavoli tecnici di Polizia e Interforze ma anche nei sindacati. Burnout, stress correlato, ma anche mancanza di mezzi, strutture inidonee, carichi di lavoro superiori dovuti alla mancanza di organico, stipendi inadeguati, scarsa collaborazione tra colleghi o situazioni di mobbing e tutte le derive della gerarchizzazione di un ambiente come quello militare si possono sommare a dimensioni private che, come spesso accade nella vita, possono essere estremamente problematiche. Il suicidio non è arginabile, nessuno è in grado di fermarlo: ha a che fare con sfere intime e dimensioni esistenziali su cui nessuno può intervenire. Si può intervenire invece nella dimensione lavorativa di chi indossa la divisa attraverso una “prevenzione” a tre livelli: abbattimento del “tabù” del sostegno psicologico per trasformarlo da “stigma” a routine, potenziare la formazione, eliminare pericolose derive della gerarchizzazione specie in ambito militare. “Nessuno voleva occuparsi di questi ‘caduti senza gloria’. L’argomento era un tabù, una specie di segreto militare”, spiega Cleto Iafrate, membro del direttivo nazionale del Sibas-Finanzieri, ideatore della pagina Facebook dell’Osservatorio e tra i primi studiosi del sindacalismo militare. Sette anni fa, come membro della rappresentanza militare, ha iniziato a studiare il benessere del personale militare. Renato Scalia è un ex ispettore della Polizia di Stato, per vent’anni alla Digos e per sette alla Dia, oggi è un consulente della Commissione parlamentare antimafia e consigliere della Fondazione Antonino Caponnetto. Nella sua carriera ha vissuto per cinque volte l’esperienza di avere colleghi morti suicidi. Nel 2012 ha deciso di rassegnare le sue dimissioni, dopo aver militato anche nel sindacato Silp Cgil: “Bisogna mettere da parte il fatto che un poliziotto non possa andare dallo psicologo. Non esiste, lo fanno negli Stati Uniti, è normale anche per molte altre polizie nel mondo. Da noi chi ha problemi di questo tipo è terrorizzato dal fatto che se ne fa menzione o altri lo vengono a sapere gli viene tolta la pistola e subito viene definito pazzo”, spiega. In Polizia gli psicologi sono impegnati in particolare a Roma nella somministrazione dei test nei concorsi, che sono di due tipologie: la valutazione medico-neurologica e quella psico-attitudinale. Su un totale di centodieci questure in Italia, solo undici hanno in organico uno psicologo. Il secondino e il detenuto - Nell’aprile 2020, a seguito dell’emergenza Covid-19, è partito invece il progetto “Insieme Possiamo”, uno sportello che fornisce supporto anche psicologico online e in presenza. (…) “L’Amministrazione penitenziaria ha istituito un numero verde da chiamare in caso di necessità in forma anonima ma sembra non avere alcun successo - spiega Pasquale Salemme, commissario e Segretario Nazionale del Sappe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. E in ogni regione sono state attivate convenzioni con psicologi e psichiatri a cui il personale può rivolgersi. Ma è nomale che i punti di riferimento dentro un istituto penitenziario siano sempre il comandante e il direttore. Ci sono anche figure esterne come i cappellani, i medici, gli assistenti sociali, gli psicologi con i quali talvolta si può instaurare un rapporto interpersonale”. Vitantonio Morani era un giovane agente della Polizia Penitenziaria, in organico al carcere di Ranza, nel comune di San Gimignano (Siena). L’amico e collega Guido racconta la loro amicizia, i loro progetti, le difficoltà del mestiere e i suoi ultimi giorni: Vitantonio si uccide con un colpo di pistola nella sua auto il 13 agosto 2018, nel parcheggio del carcere. Era poco più che trentenne. “Lo sbirro, il secondino. Insulti inutili, non esistono gli sbirri e i secondini. A Vitantonio poi la divisa piaceva così tanto che ci si era voluto sposare. Il suo lavoro e il suo amore insieme, nel giorno del matrimonio a Palese, il paesone di lei, nell’area metropolitana di Bari, a nord, verso Bitonto, Giovinazzo e il mare bello di Trani. Lui invece è del quartiere Japigia, a sud. Strade semplici, famiglie perbene. E poi ogni città sul mare ha un’anima lunga, di quelle che conoscono l’umanità e non la giudicano mai. Anche in carcere bisogna essere anime lunghe e non giudicare. L’umanità è come il mare: per quanto le sue regole siano dure, è generosa, ascolta, ci tira sopra una brezza che ti fa respirare. “Lui su tante cose era un po’ giocherellone, questo suo modo di essere se lo portava anche sul lavoro. Io invece sul lavoro sono serio: quello che spetta ai detenuti, se lo possono avere, glielo do, il resto no. E se hai qualche problema chiami i superiori. Io sono un po’ più quadrato. Lui era più giocherellone. E delle volte pure loro, i detenuti, la buttavano sul gioco con lui”. (Estratto dal capitolo: “Chiedimi se sono felice”, la storia di Vitantonio Morani). Perché i suicidi delle divise - Secondo Iafrate, il numero dei suicidi ha una percentuale fisiologica (la causa sono fattori stressanti tipici del lavoro svolto ma anche problemi di natura personale) e una componente patologica, sintomo di storture del mondo militare e delle forze di polizia. Tra queste, la specificità militare come negazione del principio di legalità: “Se prendiamo i quattro momenti della vita di ogni militare che più di qualsiasi altro incidono sul benessere professionale e personale, il trasferimento di sede, i giudizi annuali caratteristici, le sanzioni disciplinari e le benemerenze di servizio, ci rendiamo conto che in ciascuno di questi momenti la volontà del capo costituisce, e ancor più, sostituisce il principio di legalità”, spiega Iafrate, secondo il quale questi elementi combinati sinergicamente riducono il militare “in docile esecutore di un’altrui volontà alla quale egli è costretto a piegarsi. Se in guerra costituisce un punto di forza, perché è nell’interesse della nazione rendere incontestabili gli ordini ricevuti, in tempo di pace e di democrazia l’interesse all’obbedienza gerarchica non può prevalere sul superiore interesse all’osservanza delle leggi e della Costituzione”. Santino Tuzi era il brigadiere dell’Arma dei Carabinieri che riferì di aver visto entrare nella caserma di Arce, dove prestava servizio, una ragazza che con ogni probabilità era Serena Mollicone, nel giorno della sua scomparsa, il primo giugno 2001 e di non averla vista uscire almeno fino alla fine del suo turno, molte ore dopo. Tuzi muore suicida l’11 aprile 2008, pochi giorni dopo essere stato sentito dai magistrati. Nel 2017 è stata aperta un’inchiesta per “istigazione al suicidio”, reato contestato ad uno degli imputati al nuovo processo in corso per l’omicidio di Serena. La figlia Maria racconta lo shock del momento in cui viene informata della morte del padre. “Arriviamo. Casa dei miei era piena di carabinieri. Mi parla il colonnello Sparagna, è un uomo molto grande e mi dice: “Lei è la figlia? Guardi, suo padre si è suicidato per amore”. Ma mio padre non l’avrebbe mai fatto. Mai! Il tempo di entrare in casa, mi hanno chiuso dietro il portone e lui mi disse questa cosa. “Ma mio padre è diventato nonno da poco, per come stava bene non avrei mai pensato...”. “Non vi siete accorti”. “Ma mio padre era diventato nonno...”. “No, lei signora forse non lo sa ma un uomo di quasi 60 anni, in prossimità della pensione... ha deciso di cambiare vita e di cambiare famiglia”. “No, ma dopo la nascita di mio figlio non può mai aver preso una decisione del genere, non può cambiare famiglia... non può essere come dice lei”. “Forse non vi siete accorti”. Lui insisteva, io insistevo. È stato come se mi si spegnesse qualcosa dentro. Ho accettato questa cosa e tutto quello che poi hanno fatto. Forse io non avevo capito che mio padre non ci voleva bene. E poi i Carabinieri non possono tradirci e mio padre era uno di loro, un carabiniere. (Estratto dal capitolo: “Mio padre”, la storia di Santino Tuzi) Il libro - Sei storie, sei uomini divisa la cui morte è raccontata da madri, figli, amici. Un viaggio intimo e doloroso per fare luce su un fenomeno sottaciuto, minimizzato: i suicidi tra le forze dell’ordine e le forze armate. Si intitola “Il buio sotto la divisa. Morti misteriose tra i servitori dello Stato”, pubblicato da Robin Robin Editrice, ed è il libro che nasce dall’omonima inchiesta pubblicata sul nostro settimanale nel luglio 2019. Tra i protagonisti c’è Bruno Fortunato, il poliziotto che arrestò la brigatista Nadia Desdemona Lioce. Il capitano della Guardia di Finanza Fedele Conti, che arrivò a Fondi dopo aver indagato sui “furbetti del quartierino”. Daniele da Col, ispettore della Polizia Municipale, dalla cui vicenda è nata una delle prime associazioni in Italia che si occupano di mobbing. Santino Tuzi, brigadiere dell’Arma dei Carabinieri la cui testimonia ha riaperto le indagini sulla morte di Serena Mollicone. Un’inchiesta sotto forma di racconto per abbattere la barriera dei numeri e delle statistiche ed entrare nel quotidiano, nelle contraddizioni e nelle difficoltà di chi indossa l’uniforme ogni giorno, perché “la divisa non rende eroi, eroi sono le donne e gli uomini che la indossano. E la loro forza o fragilità è responsabilità di tutti”. Educazione permanente: la cura del capitale umano di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 16 maggio 2021 Il Pnrr prevede che si debbano approvare 48 riforme in un anno e mezzo, per parlare solo di quelle definite orizzontali e abilitanti. Siamo già in ritardo in maggio con le semplificazioni. Tranquilli, c’è tempo. Una volta consegnato a Bruxelles il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) in attesa dei sussidi e dei prestiti europei, è forte la tentazione di comportarsi come se il più ormai fosse fatto. Rilassarsi troppo nel contrasto al virus sarebbe un tragico errore, lo sappiamo bene. Ma lo è anche nel divagare incerto e strumentale su riforme serie, nel rinviare impegni stringenti e vitali per il nostro futuro. Lanciando la palla in avanti. Nella perversa convinzione- complice l’assenza (temporanea) di vincoli di bilancio e l’ingannevole leggerezza del debito - che le risorse siano infinite, così come il tempo a nostra disposizione. Un esempio. Il Pnrr prevede che si debbano approvare - come ha scritto Emilia Patta su Il Sole 24 Ore - 48 riforme in un anno e mezzo, per parlare solo di quelle definite orizzontali e abilitanti. Siamo già in ritardo in maggio con le semplificazioni. Nove provvedimenti vanno presentati in Parlamento entro la fine di giugno. Se ci voltiamo un attimo indietro, ai decenni scorsi, e facciamo il conto delle tante riforme rimaste sulla carta, se pensiamo solo a come siano divise le forze politiche su giustizia, lavoro o concorrenza, l’obiettivo di fare 48 riforme in un anno e mezzo ci dovrebbe togliere il sonno. Un incubo. Non sarebbe fuori luogo che i presidenti delle Camere dicessero: quest’anno le vacanze non le facciamo, abbiamo troppo lavoro. Invece c’è anche chi pensa di lanciare un referendum sulla giustizia, favorevoli due forze dell’attuale maggioranza, che bloccherebbe di fatto tutto. Abbiamo indosso una camicia di forza, ma facciamo finta di niente. Un altro esempio è significativo per spiegare come il senso di urgenza sia relativo e la consapevolezza della posta in gioco ancora modesta. In Italia si è parlato assai poco, quasi nulla - e questo la dice lunga su quanto la cura del capitale umano sia spesso un’etichetta - delle proposte che la Commissione europea ha presentato all’ultimo vertice di Porto. Ovvero la rivoluzione della formazione permanente che non è per Bruxelles meno importante di quella digitale o verde. Entro il 2030 almeno il 60 per cento della popolazione attiva dovrà partecipare, ogni anno, a corsi di formazione. Si dirà: ma il 2030 è lontano. C’è tempo. No, perché è sfuggito ai più che per raggiungere questo obiettivo, entro il 2025 - cioè fra meno di quattro anni - 120 milioni di europei torneranno idealmente sui banchi di scuola. Una sorta di grande campagna di vaccinazione educativa. Dopodomani. Uno dei sette “obiettivi bandiera” del Next Generation Eu è quello di dare nuove e più elevate competenze ai cittadini europei. Entro il 2025 almeno il 70 per cento, nella fascia tra i 16 e i 74 anni, dovrà possedere conoscenze digitali di base. E a che punto siamo noi? Se guardiamo all’ultimo rapporto Desi (Digital economy and society index), l’Italia è venticinquesima in Europa nei saperi digitali. Andrea Bonanni su Repubblica ricordava che Svezia, Olanda, Austria, Ungheria, Finlandia e Danimarca sono già oltre il 50 per cento degli adulti impegnati in corsi di formazione, noi siamo al 30 per cento. E siamo il Paese che ha più bisogno di riqualificare i propri profili lavorativi, dunque tutelare i posti di lavoro e crearne di nuovi. Stima Elvio Mauri, direttore generale di Fondimpresa (200 mila aziende con 4,5 milioni di addetti), che almeno il 60 per cento degli occupati abbia bisogno di un aggiornamento digitale e il 30 per cento di una riqualificazione totale. Curioso notare che i corsi di formazione hanno una certificazione regionale e le competenze insegnate cambino da una Regione all’altra. Laura Formenti, docente di Pedagogia alla Bicocca, presiede il raggruppamento di università (34 su 90) per l’apprendimento permanente (Ruiap) e sostiene che ci troviamo di fronte a un’occasione straordinaria. “Non dobbiamo sprecare risorse eccezionali e rendere finalmente operativa quella rete di centri provinciali per l’istruzione degli adulti prevista dalla legge 92 del 2012, la Fornero. L’Italia è agli ultimi posti come diplomati e laureati ma ha tanti saperi che vanno migliorati, organizzati e soprattutto certificati”. Cioè tante competenze invisibili e disperse. Un dirigente d’azienda con grandi responsabilità ha perso il posto, causa crisi dell’azienda, chiusa. Non aveva alcun titolo di studio. Ma si è rimesso in gioco. Umilmente. Ha frequentato corsi di formazione. Ha visto certificate le sue competenze. Molte, superiori a quelle di tanti laureati. In questa piccola vicenda c’è un segnale di speranza e di tenacia che dovrebbe porre il tema della formazione permanente in testa ai diritti di cittadinanza. Un ambizioso obiettivo da raggiungere tutti insieme. Con l’orgoglio di farli i corsi, a tutte le età. Senza quel sintomo di stanchezza e disillusione che accompagna spesso il desiderio di pensionamento anticipato, la filosofia di fondo di Quota 100; senza quel senso di sconfitta e rassegnazione presente in tanti percettori del reddito di cittadinanza. C’è nella proposta della Commissione europea un’idea di cittadinanza consapevole, di invecchiamento attivo che ha qualcosa di rivoluzionario in una società anziana come la nostra che ha dimenticato migliaia di padri e nonni nelle Rsa, prima e dopo il flagello del virus. Solo con un grande investimento nel capitale umano si potranno ridurre le disuguaglianze, di genere e territoriali, e soprattutto dare opportunità ai giovani e affrontare quello che è il più grande scandalo italiano: oltre 2 milioni di ragazze e ragazzi, tra i 15 e i 29 anni, che non studiano e non lavorano. Non basta però investire. Senza competenze adeguate i miliardi di euro non contano nulla. Occorre anche una grande consapevolezza da parte dei cittadini che devono sentire il traguardo del miglioramento continuo del capitale umano come un loro impegno personale, un dovere civico. Ma forse dovremmo parlarne o no? Diritti, la battaglia è una sola di Marco Damilano L’Espresso, 16 maggio 2021 La legge Zan e la giornata contro l’omofobia. Gli invisibili in piazza per tutelare il lavoro. Volti diversi di un’unica lotta. Il 17 maggio 1981, quarant’anni fa, gli italiani votarono in un referendum per mantenere la legge 194 sull’aborto, con il 68 per cento di no al quesito promosso dai cattolici del Movimento per la Vita e con l’88 per cento di no a quello del Partito Radicale. Gli elettori furono poco meno dell’80 per cento, all’epoca non c’erano problemi a raggiungere il quorum di validità dei referendum. Era l’Italia che si apprestava ad attraversare l’ennesima crisi politica, aperta dalla pubblicazione degli elenchi della loggia massonica P2, nell’Italia governata da 36 anni dalla Democrazia cristiana e sconvolta, pochi giorni prima, dall’attentato di piazza San Pietro. Gli spari contro il papa polacco Giovanni Paolo II, diventato per i sovietici un bersaglio da colpire, da eliminare, nella seconda guerra fredda di inizio anni Ottanta. La legge 194 era stata approvata dal Parlamento tre anni prima, nel momento più drammatico della storia repubblicana, durante i giorni del rapimento di Aldo Moro. C’era un governo di unità nazionale, un monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti, i partiti si divisero, ma la legge fu approvata: dalla Camera il 14 aprile 1978 con 308 voti favorevoli e 275 contrari, dal Senato il 18 maggio, con 160 sì e 148 no. Nelle stesse settimane passò un’altra importante legge sui diritti civili: la legge 180 in tema di accertamenti e trattamenti sanitari e obbligatori, che prese il nome dello psichiatra Franco Basaglia, con cui l’Italia, unico Paese al mondo, abolì i manicomi e gli ospedali psichiatrici. Il Parlamento impiegò appena 24 giorni a licenziarla, con una procedura accelerata che serviva a evitare il referendum proposto dai radicali. I presidenti di Camera e Senato accettarono che le commissioni Sanità votassero il testo preparato dal democristiano Bruno Orsini, psichiatra di professione, in via legislativa, senza cioè tornare nelle aule. Il 4 maggio la commissione della Camera trasmise il testo della legge alla commissione del Senato, il 9 fu discussa, il 10 maggio fu approvata. Le date fanno impressione: erano trascorse soltanto ventiquattr’ore dal ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault rossa, al termine di una stagione in cui in tanti si erano esibiti nell’analizzare la pazzia dello statista prigioniero delle Brigate Rosse. Sui diritti civili, in passato, i partiti hanno saputo scontrarsi e anche decidere, in mezzo a un grande dibattito pubblico che animava la società e l’opinione pubblica, con la stampa che era il luogo privilegiato della battaglia di idee. Dopo la fine della Prima Repubblica, invece, è calato il gelo sui diritti. Il bipolarismo politico, stentato e sempre indebolito dalle divisioni all’interno degli schieramenti, si è trasformato in un nefasto bipolarismo etico, quasi che non fossero rimaste che le bandiere sui diritti a sostenere l’identità politica e culturale in evaporazione sugli altri fronti. Per la sinistra, i diritti sociali, lo smantellamento del welfare, la tutela del lavoro, la lotta contro le disuguaglianze. Oggi siamo alla vigilia di un doppio appuntamento. La Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia del 17 maggio, che in Italia coincide con la ripresa in Senato della discussione del disegno di legge firmato dal deputato Pd Alessandro Zan “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. E lo sciopero dei lavoratori nelle campagne di martedì 18 maggio, con la manifestazione a Roma indetta dalla Lega dei braccianti di cui si fa portavoce Aboubakar Soumahoro. Tornano le piazze, nel rispetto rigoroso delle regole anti-assembramento, in un Paese in cui le forze politiche si sono agitate sull’orario del coprifuoco. Una settimana fa a Milano, e in molte città nelle prossime ore, si è mobilitata la società civile che si batte per l’immediata approvazione del ddl Zan. E poi arriveranno i braccianti, in gran parte immigrati, a nome di rider, precari, lavoratori della cultura e dello spettacolo. Molto visibile è stata la prima battaglia, lanciata anche dal palco del concerto del primo maggio. Molto meno visibile la seconda, e infatti il movimento politico che sta nascendo attorno a quelle lotte e che forse un giorno si candiderà alle elezioni ha assegnato a se stesso questo nome impegnativo: gli Invisibili. L’Espresso, in linea con la sua tradizione di oltre 65 anni di battaglie civili, dedica la copertina di questa settimana alla diversità che è ricchezza, disegnata da Fumettibrutti: “Il corpo è il primo campo di battaglia”. E l’incontro, l’abbraccio con l’altro è il primo confine. Che non può essere calpestato da nessuno, meno che mai dalla politica. Oggi va ribadito questo principio elementare, nel momento in cui partiti e leader di una destra vicina ai nazionalisti di Polonia e Ungheria più che all’Europa continentale, provano a impedire l’approvazione di una legge contro le discriminazioni. La Costituzione parla nei suoi primi articoli di una Repubblica che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (articolo 2) e che si impegna a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (articolo 3). Riconoscere, garantire, rimuovere sono tre bellissimi verbi. Riconoscere significa che lo Stato non concede i diritti, perché se li concede li può anche togliere, revocare. Lo Stato, con le sue leggi, riconosce (e garantisce) quello che nella società già è nato e riconosciuto da tempo: la sua evoluzione, le nuove domande, le richieste di svolgere la propria personalità, i desideri, le aspirazioni di ognuno. E gli ostacoli su questo cammino vanno rimossi, perché ogni generazione ha le sue sfide da affrontare. Il ddl Zan, alla fine, è diventato occasione di un dibattito culturale e di questo vanno ringraziati i sostenitori, ma anche gli avversari a viso aperto della legge. Quanti hanno esposto perplessità (legittime) senza abbassarsi all’oscurantismo e all’ostruzione, fra le femministe, nella comunità omosessuale, hanno contribuito con le loro idee al confronto che è la linfa della democrazia. Quel giorno di quarant’anni fa non si votò solo per mantenere la legge sull’aborto, conquista delle donne, ma anche per conservare l’ergastolo e le norme più dure sull’ordine pubblico negli anni di piombo. Il 77 per cento degli italiani votò contro l’abolizione dell’ergastolo. Il segno che nel doppio no dell’elettorato italiano, sull’aborto e sull’ergastolo, c’era una affermazione della libertà individuale che conviveva con una richiesta securitaria, la difesa dal crimine, molto sentito alla fine degli anni Settanta delle stragi e del terrorismo. Lo stesso elettore, lo stesso giorno, aveva votato per conservare un proprio diritto e al tempo stesso per negare a un detenuto la prospettiva di reinserimento sociale prevista dalla Costituzione. Una contraddizione che va ricucita. Per questo, oggi più che mai, diritti civili e diritti sociali sono due volti di una stessa battaglia. Di libertà e di uguaglianza. E di fraternità. Ddl Zan. La Consulta entra nell’agone politico e poi smentisce di Giulia Merlo Il Domani, 16 maggio 2021 Il presidente della Consulta, durante la conferenza stampa annuale della Corte, è intervenuto sul ddl Zan. Un giudizio che si è prestato a diverse interpretazioni e distorsioni comunicative. Il presidente ha detto che è “opportuna” una legge, ma non ha fatto riferimento al ddl Zan. Tuttavia la Verità, smentita con un comunicato della Consulta, ha attribuito al presidente la volontà di sostituirsi al parlamento. Un cortocircuito comunicativo, questo, che è il rischio connesso alla maggiore apertura della Corte. Il giudice costituzionale non parla più solo con le sentenze pronunciate come organo, ma la sua voce entra necessariamente nell’agone politico. Con possibili risvolti inediti, soprattutto in tempo di crisi della politica. La conferenza stampa annuale della Corte costituzionale è stato un ottimo successo comunicativo, ma ha dato adito anche a chiavi interpretative opposte delle parole del suo presidente, Giancarlo Coraggio. Durante l’incontro con la stampa, Coraggio ha risposto sia a domande che riguardano l’attività della Corte e le sue sentenze, sia a quesiti di attualità. La risposta sul ddl Zan, tuttavia, ha proiettato la Consulta al centro del dibattito mediatico. Coraggio ha spiegato che il contrasto all’omofobia è “all’ordine del giorno del parlamento e spero che riuscirà a trovare la quadra. Sicuramente una qualche normativa, come c’è in quasi tutti i Paesi del mondo, è opportuna”. Le sue parole, contestualizzate, potevano suonare quasi neutre (Coraggio ha detto che è opportuna una legge, non si è riferito nello specifico alla legge Zan), sono invece entrate nello scontro tra forze politiche. Infatti l’”opportunità” è stata interpretata come il personale favore del presidente alla proposta di legge in discussione. Risultato: a destra la Verità ha riportato le parole titolando che la Corte sarebbe “pronta a sostituirsi all’assemblea degli eletti per introdurre una nuova fattispecie di reato, quella di omofobia che si vorrebbe inserire con la legge Zan nel Codice penale”. Tanto che la Consulta ha smentito seccamente l’articolo con un comunicato, definendo “arbitraria” la ricostruzione del quotidiano e sottolineando che “per costante giurisprudenza costituzionale, la Corte non può creare nuove figure di reato o ampliare i confini di quelli esistenti” e dunque in nessun caso il presidente avrebbe potuto suggerire l’introduzione di nuove fattispecie di reato. A sinistra, invece, Possibile ha inserito la fase nella sua comunicazione in favore al ddl Zan, giocando sul nome del presidente e scrivendo che “il presidente della Consulta è favorevole a una legge sull’omofobia. Ma ci voleva coraggio?”. La comunicazione - Al centro c’è il problema interpretativo che sorge ogni volta che una carica istituzionale prende la parola. Soprattutto oggi che la Consulta ha compiuto un indubbio salto di qualità nella sua comunicazione, dalla creazione dei podcast alle iniziative che ormai da anni organizza nelle scuole e nelle carceri. Un esercizio di trasparenza dell’organo, che però lo espone anche a possibili strumentalizzazioni. Il crinale è sottile e sta ad ogni presidente percorrerlo come ritiene, a seconda della propria sensibilità nel rapporto con i media. La conferenza stampa, infatti, è un evento annuale che si svolge dal 1956, cioè dall’anno di istituzione della Corte, e rappresenta il momento pubblico per antonomasia in cui l’istituzione si apre alla società civile, facendo un bilancio della propria attività. Se nei primi anni la cerimonia era molto formale e lo spazio per le domande dei giornalisti offriva meno spunti, negli ultimi vent’anni si è assistito a un cambio di paradigma e a una maggiore apertura al dialogo. Fino al presidente Coraggio, che ha interloquito per un’ora e mezza con i giornalisti, alternando risposte in cui ha elaborato la posizione della Consulta sulle sentenze pronunciate nell’ultimo anno a risposte sull’attualità politica, in cui ha espresso opinioni personali. Proprio questa distinzione di tono, però, rischia di essere il punto debole dell’apertura comunicativa della Corte. In questo modo, infatti, il giudice costituzionale non parla più solo con le sentenze pronunciate come organo, ma la sua voce entra necessariamente nell’agone politico. Con possibili risvolti inediti, soprattutto in tempo di crisi della politica. Alcol e pandemia, aumentano i consumatori e sono sempre più giovani di Luca Sebastiani L’Espresso, 16 maggio 2021 “I danni peggiori tra qualche anno”. I centri specializzati hanno avuto un aumento del 20% negli arrivi. Sono molti i ragazzi scoperti in casa a bere o a nascondere le bottiglie. I gruppi degli Alcolisti Anonimi hanno continuato le riunioni online, e per molti sono state la salvezza. “Il lockdown è stata una tragedia, ho cominciato a bere anche la mattina, fino al tracollo. Senza i freni, dettati dagli orari lavorativi classici, ho perso il controllo”. È la storia di G., imprenditore milanese di 48 anni che ha deciso di bussare a un pronto soccorso e a settembre scorso iniziare un percorso di riabilitazione. Sono in tanti quelli che hanno cercato rifugio o sono caduti in una bottiglia o in qualche bicchiere di troppo per provare a fuggire dalle quattro mura di casa. E le chiusure hanno costretto anche le associazioni di supporto ad adattarsi pur di non far venir meno il loro ruolo fondamentale per migliaia di persone. Come per V., 46enne romana, che ha iniziato il suo percorso negli Alcolisti anonimi nel febbraio del 2020, subito prima della diffusione in Italia del virus. Ammette che “senza le riunioni virtuali e la vicinanza del gruppo, sarei ricaduta sicuramente nella mia dipendenza”. È una lotta quotidiana, fatta “24 ore alla volta”, che il gruppo riesce a rendere collettiva, nonostante i pregiudizi e gli stereotipi che spesso accompagnano il racconto di queste organizzazioni, complici alcuni film. Si tratta in realtà di un mondo composto da individui che si presentano con un “Ciao sono … e sono un alcolista”, non per seguire strani rituali ma per ammettere e non demonizzare il proprio problema, o da persone che si ringraziano dopo aver condiviso con gli altri un pensiero o un momento difficile durante la giornata, tutto con lo scopo di costruire un clima di fiducia. Non sono eccezioni, non sono casi isolati, non è un universo lontano da noi. In tutta Italia il numero dei consumatori abituali di alcol, e di chi è a grave rischio di dipendenza, è aumentato esponenzialmente in questo periodo. A rendere evidente la situazione sono i dati dei reparti ospedalieri e delle associazioni che si occupano del percorso di riabilitazione da dipendenze. Il primario del centro alcologico della Asl3 di Genova, Gianni Testino, ha riscontrato nel 2020 un aumento rispetto all’anno precedente di circa il 15 per cento dei soggetti che si sono rivolti al supporto sanitario nei reparti liguri e del 20 per cento di ricadute gravi, ovvero quel nuovo consumo di alcol “in soggetti che da anni mantenevano il problema confinato e che ha portato a scompensi internistici seri, come pancreatiti o cirrosi epatiche”. Non è una coincidenza, anche perché, sempre secondo Testino, è una percentuale che riflette quella nazionale. Ma i numeri sono addirittura maggiori a leggere le stime dell’organizzazione degli Alcolisti anonimi, 420 gruppi in tutta la penisola, una presenza particolarmente ramificata nel centro-nord dove solo tra Lombardia e Veneto se ne contano 200. Secondo il segretario nazionale, Claudio, rispetto al periodo pre-Covid si è verificato un aumento dei “nuovi venuti” di circa il 20 per cento. Un trend confermato anche da L., 60 anni, referente provinciale di Milano: “Ho registrato l’arrivo nel mio gruppo di due nuove persone a settimana, anche se non tutti quelli che fanno le prime riunioni poi riescono a continuare”. In tanti non mollano, trovano la forza e si affidano a esperti e mantengono saldo il proposito di completare il percorso di riabilitazione. Come G., che fin dalla maggiore età si è sempre considerato “un buon bevitore sociale” e che già negli ultimi anni aveva aumentato le dosi di alcolici consumate abitualmente per festeggiare un evento, per superare un insuccesso lavorativo o magari a chiusura di una giornata. Ma è “con il lockdown, chiuso da solo in casa, che è iniziata la tragedia”, fino alla coraggiosa decisione di ricoverarsi al pronto soccorso per venti giorni. Da lì si è “preso per i capelli, fino a una sorta di rinascita”, che lo ha portato in un centro specializzato per un paio di mesi e poi alla frequentazione di un gruppo degli Alcolisti anonimi della sua città, prima in presenza e poi online a causa della pandemia. Un passo fondamentale, che G. definisce “un’ancora di salvezza. Le persone attorno a me sono quasi incredule, per il mio nuovo modo di vivere e affrontare la vita”. Nonostante gli evidenti limiti, paradossalmente, sono state proprio le riunioni online a favorire l’aumento dei nuovi ingressi secondo il segretario nazionale degli Alcolisti anonimi, grazie alla facilità di accesso, al desiderio (o più spesso alla necessità) di condividere le proprie difficoltà nell’isolamento e soprattutto al non dover affrontare l’impatto psicologico di entrare fisicamente in una stanza con altre persone. Tra i sostenitori delle piattaforme virtuali c’è anche A., operaio milanese di 37 anni, negli Alcolisti anonimi da quando ne aveva 33, “perché ci hanno permesso di proseguire il nostro percorso anche in un periodo simile. Non prenderà mai il posto di quelle in presenza ma è stato un ottimo strumento”. È lo stesso pensiero di V., che è entrata negli A.a. nel febbraio del 2020, subito prima delle chiusure anti-Covid. Solo inizialmente ha potuto partecipare in presenza agli incontri del suo gruppo di riferimento, anche se “all’inizio ci andavo giusto per far contenti mio marito, mia sorella...”. Ora, nonostante le difficoltà e le tentazioni, è sobria da un anno e due mesi. L’insostituibilità di questi gruppi deriva spesso dal rendere collettivo il peso portato dalla singola persona, come emerge dalla testimonianza di N. di 49 anni, che è riuscita a entrare in sobrietà e al suo primo ritrovo con gli A.a., più di 24 mesi fa, si è sentita dire: “Se vuoi continuare a bere il problema è tuo, ma se vuoi smettere allora il problema è nostro”. Un luogo dove i giudizi, le bugie e le sentenze sono tenute lontane, per far spazio a comprensione, verità e ascolto. Anche perché, come ammette L., “è inutile, oltre che difficile, mentire alle persone che vivono o hanno vissuto il tuo stesso disagio, perché ti sgamano e mentiresti solo a te stesso”. Un’importanza suffragata in maniera inequivocabile dalle differenti percentuali di successo che ha una persona nel suo percorso di riabilitazione con e senza la frequentazione costante dei gruppi di auto-aiuto. Il dottor Testino è chiaro: “Se un soggetto partecipa alle riunioni, insieme ovviamente alle cure farmacologiche e psicoterapeutiche, avrà una possibilità di successo pari al 70 per cento rimanendo lontano dall’alcol per almeno un anno. Senza supporto, la percentuale scivola al 20”. Ma il Covid-19 ha fatto emergere un’altra situazione preoccupante: l’esposizione crescente all’alcolismo dei giovani. Nonostante la chiusura per lunghi periodi di bar, ristoranti e locali il consumo si è rivolto all’e-commerce che ha registrato un 425 per cento in più di vendite. E per i ragazzi e le ragazze si è rivelato un canale di accesso privilegiato. Già negli ultimi 4-5 anni, come spiega Testino, i dati illustravano un quadro molto indicativo dei consumi di alcol relativo alle fasce di età più basse in Italia: “Circa il 15 per cento dei 14-15enni fa un uso abituale di bevande alcoliche, tra i 16-17enni la percentuale sale al 50 mentre rientrano nella categoria a rischio il 25 per cento dei maschi e il 10-12 per cento delle femmine tra i 18 e i 25 anni”. Non è un caso che adesso l’età media dei partecipanti ai gruppi di supporto sia in calo, con una crescita costante della fascia dei 30-40enni. La triste novità resa palese dal lockdown è la gestione dell’alcolismo giovanile all’interno delle mura di casa, quando ragazzi e ragazze sono stati costretti a vivere 24 ore a contatto con la propria famiglia, senza avere più la possibilità di nascondere il loro disagio. Testino racconta infatti che “sono state numerosissime le telefonate arrivate nei reparti e nei centri locali in Liguria di genitori allarmati dal consumo di alcol dei loro figli e delle loro figlie”. Padri e madri smarriti di fronte alla scoperta dei loro ragazzi, chiusi in camera a bere o sorpresi a nascondere le bottiglie. E questa è una delle preoccupazioni lanciate anche da Fabio Attilia, dirigente medico del Centro di riferimento alcologico della Regione Lazio (Asl Roma1), dove si è verificato lo stesso incremento di ingressi di altre realtà: “Purtroppo raccoglieremo i cocci di tutta questa situazione nei prossimi anni: bambini piccoli e ragazzi che stanno vivendo situazioni di disagio, di confinamento e di mancanza di socialità potrebbero avere problemi nella fase della crescita che poi potranno sfociare in varie dipendenze”. Perché è tipico, soprattutto nelle fasce di popolazione più giovani, l’intreccio di diverse dipendenze, non solo quindi di alcol ma anche di sostanze stupefacenti, che rende più complicato il tutto. E non si tratta di bersi un bicchiere ogni tanto o durante i pasti e neanche alzare il gomito in occasione sporadiche, non è quello che preoccupa. Ma è quando il consumo diventa abitudinario, prolungato e massiccio. Per i ricercatori scientifici gli indicatori del consumo si basano sull’unità alcolica, che corrisponde a 12 grammi di etanolo all’interno delle bevande. In maniera approssimativa è la quantità presente in una lattina di birra (330 ml), in un bicchiere di vino (125 ml) o in un bicchierino di superalcolico (40 ml). Secondo i dati forniti dall’Osservatorio nazionale alcol dell’Istituto superiore di Sanità alla Società italiana di alcologia, di cui Testino è il presidente, gli uomini che quotidianamente assumono due unità alcoliche e le donne che ne assumono una, ovvero i consumatori che fanno parte della fascia più numerosa ma considerata a basso rischio, secondo le stime, è aumentata del 20 per cento negli ultimi mesi. Otto milioni di persone invece fanno parte della fascia reputata a rischio, ovvero quella delle persone che bevono 2-4 unità (donne) e 3-6 (uomini), una categoria che ha visto l’incremento maggiore: circa il 60 per cento. La cosiddetta fascia di coloro che sono dipendenti, quelle persone che hanno ormai necessità di bere per non stare male, e cioè le donne che assumono più di 4 unità alcoliche al giorno e gli uomini che ne bevono più di 6, è quella più ondivaga e variabile che va da 800 mila a 1 milione. Un aumento importante delle persone ad alto rischio di alcolismo che si lega alla pandemia anche dal punto di vista clinico, visto che i consumatori abituali e dipendenti hanno un rischio quattro volte superiore alla media di contrarre in modo grave il Covid-19, per via delle minori difese immunitarie. Ma non solo. Oltre la fase dell’infezione, l’allarme di Testino riguarda anche quella della vaccinazione. I consumatori seriali dovrebbero essere considerati persone a rischio, ma la grana è che l’alcol riduce di molto la risposta immunitaria vaccinale. Per questo il consiglio è di non assumerne nei giorni e nelle ore vicine alla prevista iniezione, come è raccomandato per esempio in Russia, dove l’alcolizzazione è ancora più diffusa, per ragioni culturali, geografiche e storiche. Lì, addirittura, l’avvertenza è di non bere 15 giorni prima e per 40 giorni dopo l’iniezione del famoso vaccino Sputnik, in modo da non attenuarne l’effetto. L’avvento della pandemia è stato spesso paragonato allo scoppio di una guerra, scomodando termini e figure retoriche discutibili. Ma questo periodo non deve far dimenticare coloro che sono impegnati in una vera battaglia per liberarsi da una dipendenza che in certi casi può diventare letale. Una piaga terribile presente più di quanto non sembri, ma che si può sconfiggere. Migranti. Aboubakar Soumahoro: “Porterò gli invisibili in Parlamento” di Marco Damilano L’Espresso, 16 maggio 2021 Il 18 maggio la manifestazione dei braccianti per incontrare Draghi. Una rete di Agorà, un’assemblea in autunno. E poi un nuovo modello: “Ci candiremo alle elezioni”. Colloquio con il sindacalista. Tre anni fa guidò un corteo in Calabria che chiedeva giustizia per Soumaila Sacko, il bracciante e sindacalista arrivato dal Mali, ucciso a fucilate il 2 giugno, festa della Repubblica. Il primo governo di Giuseppe Conte, con Matteo Salvini al Viminale, aveva giurato da poche ore. Oggi il sindacalista Aboubakar Soumahoro è un leader politico riconosciuto, rispettato, amato. I lettori dell’Espresso lo conoscono bene per la sua rubrica “Prima gli esseri umani”. Si prepara a manifestare davanti a Palazzo Chigi, il 18 maggio, con la Lega dei braccianti. L’inizio di un percorso che porterà gli Invisibili a un’assemblea nazionale a settembre. E poi alla sfida delle elezioni politiche: “Ci candideremo”. Perché la manifestazione del 18 maggio? “Perché nelle campagne c’è l’inferno che si manifesta nelle baraccopoli. Dodici ore di lavoro per una paga misera di 25 o 30 euro per chi è fortunato o per una paga in natura, qualche chilo di passata di pomodoro o qualche litro di olio. C’è una assenza di minime condizioni umanitarie che ricorda quelle di cui parlava l’indagine parlamentare sui braccianti di inizio Novecento: paghe misere, caporalato, il monopolio dei grandi produttori che oggi è la grande distribuzione organizzata. Il riflesso di quanto avviene nelle campagne ricade sul mondo del lavoro in generale: Luana D’Orazio e i morti sul lavoro, i lavoratori di Amazon, la precarietà esistenziale nella Ztl, i cassieri ridotti a codici a barre viventi, i rider. L’inferno della invisibilità è giunto a un bivio: o si sta dalla parte degli uomini e delle donne che lavorano oppure dalla parte opposta. È giunto il momento di schierarsi. Invisibili di tutta Italia, uniamoci”. Tu però sei molto visibile. Ti sei incatenato a Villa Pamphili a Roma, dove si svolgevano gli Stati Generali del governo Conte: sembra passato un secolo, era solo un anno fa. “La protesta era solitaria, ma era a disposizione di un sentimento collettivo. Un singolo a vantaggio di un noi. In quei giorni Mohammed Ben Ali, bracciante, era morto carbonizzato tra le fiamme nell’insediamento di Borgo Mezzanone nelle campagne della Puglia. Sono stato ricevuto dopo ore di sciopero della fame e della sete dall’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e da alcuni ministri. Ci ascoltarono. Proponemmo la riforma della filiera agricola, con l’introduzione della patente del cibo, il permesso di soggiorno per l’emergenza sanitaria convertibile per attività lavorativa, i diritti di cittadinanza”. Cosa ti risposero? “Conte disse: è geniale! Ma il vento dell’equilibrismo politico ha portato subito via la genialità. Non si fece nulla di nulla”. In realtà ne uscì una sanatoria per i lavoratori nelle campagne e nelle case, con il pianto della ministra Bellanova... “Quelle lacrime non hanno asciugato le nostre lacrime. Si è voluta salvare la raccolta della frutta e della verdura senza salvare le persone. I dati dimostrano che la regolarizzazione è stata un fallimento: 207mila domande, il 15 per cento nelle campagne, l’85 per cento nel lavoro domestico”. Dopo è arrivata la manifestazione degli Invisibili a Roma, a luglio, in piazza San Giovanni, la sede delle grandi manifestazioni politiche e sindacali. E dopo? “Dopo è arrivata la Lega dei braccianti con gli sportelli itineranti. È nata da un settore particolare, ma mai con uno spirito corporativista. Cos’è oggi il lavoro? Non si può continuare a parlare di lavoro con un linguaggio monocolore, come fa il Recovery Plan che alla lotta al lavoro sommerso dedica cinque righe su trecento. Abbiamo bussato a tutte le porte, a livello comunale, regionale, nazionale. In un quartiere popolare non sanno cosa sia la transizione ecologica, sanno che l’autobus non passa e che bruciano i rifiuti. Tutti si nascondono dietro l’equilibrismo politico. Per questo bisogna aprire un processo rivoluzionario, spirituale, morale, espressione di un progressismo trasformativo. O si lavora per contrastare la povertà, creare lavoro e trasformare radicalmente il nostro sistema economico verso basi ecologiche e di giustizia sociale. Oppure assisteremo ad una lenta ma progressiva implosione delle forze progressiste. È arrivata l’ora che queste persone illuminino il buio della politica”. Io credo che dopo tutti questi mesi tu debba andare più in profondità, nel concreto di una proposta politica... “Il progetto è chiaro: federare il mondo degli invisibili. Rider, disoccupati, studenti, partite Iva. Il mondo della cultura che è sceso in piazza. Il mondo dell’informazione che non sia espressione della precarietà diffusa. La Costituzione, ha detto Pietro Calamandrei, è un foglio di carta, perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Le agorà popolari servono a questo. Superare la dittatura del presentismo, un tessuto corrotto dalla bulimia, dall’impossibilità di ascoltare l’altro, il suo battito di cuore. Il non respiro di George Floyd, un anno dopo la sua uccisione, in Italia è questo: non respiro perché ci sono le disuguaglianze sociali, perché i miei diritti non sono rispettati. Vogliamo costruire una comunità politica”. Sembrano più le parole di un profeta che di un politico... “Oggi lottare per il cambiamento non significa aspettare un profeta, ma sconfiggere uno spirito avido che ci ha reso ciechi. Toni Morrison scriveva che la mia libertà passa dalla liberazione altrui. Il no è secco, ma non è un no rinunciatario. È la richiesta di una politica alta, altra, diversa da quella che ci ha ridotto a merce elettorale. Non bisogna abbattere il Palazzo, ma renderlo di nuovo abitabile. Se il Palazzo è il luogo dove ridare speranza, è lì che bisogna entrare. Siamo federatori, ci interessa anche il passaggio politico e elettorale”. Parteciperete alle elezioni amministrative d’autunno? “Diremo quale Roma, quale Milano, quale Torino e Napoli vogliamo per domani. Presenteremo le nostre proposte per le città, non solo per le metropoli ma anche per i piccoli comuni. E a settembre faremo un grande appuntamento popolare”. Per far nascere un nuovo partito? “Dobbiamo immaginare nuovi contenitori. La Lega è al governo dal 1994, dice prima gli italiani e la flat tax, superata dalle politiche del presidente Biden che non è un rivoluzionario. Il Movimento 5 Stelle ha affermato di aver abolito la povertà, ma non è così. Il Pd è il partito dello status quo. C’è una crisi di autorevolezza della rappresentanza. La comunità degli Invisibili è una lavagna bianca da scrivere sull’Italia di domani. Il nostro orizzonte sono le elezioni politiche”. Alle politiche ci sarà una lista degli Invisibili? “Ci candideremo, certamente. Con un progetto che nascerà dai momenti di ascolto, dal lavoro, dai tanti mondi che si stanno avvicinando alle agorà con entusiasmo. È un modello da immaginare, ma si materializzerà, ne sono convinto”. Hai visto Enrico Letta dopo la sua elezione a segretario del Pd. Che vi siete detti? “È stato il professor Letta a invitarmi, nel rispetto dell’autonomia politica. Ci ha invitato a partecipare alle agorà del Pd, valuteremo se andare o meno. Io gli ho detto che noi abbiamo cominciato a fare le nostre agorà popolari quando lui insegnava ancora a Parigi e che abbiamo parlato di leadership collettiva prima che lui accennasse alla intelligenza collettiva del Pd: chi sta copiando? Il Pd ha governato per nove anni su dieci, ha approvato il jobs act e il decreto Minniti, firmato da un ministro dell’Interno che temeva per la tenuta della democrazia per via degli sbarchi di migranti. Forse avrebbe dovuto avere questo timore per la disoccupazione giovanile, per un milione di posti di lavoro persi”. Ilvo Diamanti ha scritto su Repubblica che l’anno della pandemia ha fatto crollare la partecipazione, nei partiti, nell’associazionismo, nel volontariato... “È una crisi che ha a che fare con il mondo del lavoro. Una politica disconnessa dalla realtà non può trovare una connessione con le persone. Sul Piano nazionale non c’è stato ascolto, non c’è stato un “débat public”. Oggi la politica appare un voler stare a tutti i costi sul bus pur di esserne alla guida. Anche quelle forze che dicono di voler cambiare sono parte di questo problema”. Ti riferisci anche al Movimento 5 Stelle? “La frase sull’abolizione della povertà è stata la rappresentazione plastica della loro disconnessione dalla realtà”. Hai incontrato Conte, vuoi incontrare anche Mario Draghi? “Gli abbiamo inviato un documento, chiediamo un incontro il 18 maggio. Porteremo proposte concrete. Speriamo di non sentirci dire di nuovo: sono cose geniali!”. Il 2 giugno sono i 75 anni della Repubblica, ma anche i tre anni dall’omicidio di Soumaila Sacko, da quando è cominciato il tuo percorso politico. Com’è cambiata la tua vita in questi tre anni? “Non amo parlare di me. Mia mamma mi diceva: non girare le spalle a chi ha bisogno, non essere indifferente. Fare il sindacato, fare l’attivista è per me prima di tutto una questione di spirito. Ma guai a pensare che tutto questo sia espressione di un singolo. È un mondo che c’era e che c’è, che rimane, anche quando i riflettori sono spenti. Sai perché? Perché la povertà non è pop”. Senti la responsabilità di essere diventato un simbolo, un leader, un portavoce? “Sento tutto il peso, sì. Ma è una responsabilità che nella sua pesantezza sa di avere allo stesso tempo una leggerezza che è racchiusa nel noi, nella leadership collettiva”. Medio Oriente. Da Hamas pioggia di razzi su Tel Aviv. Nuovo bombardamento su Gaza di Davide Frattini Corriere della Sera, 16 maggio 2021 Missili israeliani su un palazzo: otto bambini morti, salvo un neonato. I razzi di Hamas perforano lo Scudo, la reazione di Israele. Netanyahu: “L’operazione va avanti”. Il campo di rifugiati Shati, spiaggia in arabo, si chiama così perché i cubi di cemento grigio stanno a picco sulla costa, dalle rocce sgocciola in mare la fogna a cielo aperto. Quella che dovrebbe essere la strada principale è invece un vicolo sempre infangato che porta al palazzotto dove abita Ismail Haniyeh, tra i capi di Hamas, le sbarre impediscono di arrivarci, in tempi di calma le guardie controllano chiunque passi. Adesso stanno nascoste nei bunker, il boss non c’è, è in Qatar da cinque mesi. Lontano dalla distruzione e dai missili. Uno ha centrato in pieno l’altra notte la casa degli Abu Tahab, i tre piani sono venuti giù sopra otto bambini e due donne, stavano celebrando con qualche giorno di ritardo la sera di Eid Al Fitr che chiude con una cena il mese di digiuno per Ramadan. Solo il piccolo Omar, 5 mesi, si è salvato: i soccorritori palestinesi raccontano di averlo trovato con la madre a coprirlo, a fargli da scudo con un abbraccio. I portavoce dell’esercito sostengono di aver voluto colpire “elementi di spicco dell’organizzazione” e accusano Hamas di usare i civili come scudi umani. I fondamentalisti vendicano l’attacco a Shati con un lancio di razzi su Tel Aviv. Stanno studiando come bucare il sistema di difesa Cupola di ferro. Ieri dopo pranzo ci sono riusciti: due salve di fila, brevi, e poco dopo un bombardamento di qualche minuto. Uno dei proiettili è caduto su Ramat Gan un uomo di 55 anni è stato ucciso, non ha fatto in tempo a trovare il rifugio. Le vittime israeliane dall’inizio della guerra sono 10, tra loro un bambino di 5 anni. Le Brigate Al Qassam, l’esercito irregolare di Hamas, annunciano lo stop ai razzi per 2 ore, dalle 22. Non è una tregua, è per dimostrare di poter controllare i tempi della guerra: 9 minuti dopo la mezzanotte su Tel Aviv e il centro del Paese piovono 200 razzi, le sirene risuonano tra le esplosioni degli intercetti. Israele nella notte ha reagito con un nuovo, “pesante bombardamento” senza preavviso su Gaza City, secondo quanto riferito da al Jazeera, secondo la quale sarebbero stati colpiti una strada del centro e due edifici residenziali. L’attacco avrebbe fatto almeno tre vittime più un numero imprecisato di persone rimaste sotto le macerie, sfiorando anche l’edificio che ospita l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa). I miliziani hanno per il resto della giornata concentrato i razzi sulle città nel sud del Paese e verso Beer Sheva nel deserto del Negev, da lunedì ne hanno lanciati oltre 2.300. L’aviazione israeliana e i carrarmati hanno continuato a bersagliare la Striscia, i morti sono ormai 145, i feriti un migliaio. La mediazione per raggiungere la tregua sembra per ora non funzionare. Oggi Hady Amr, il diplomatico americano responsabile per la questione israelo-palestinese, incontra i ministri israeliani e a Ramallah quelli palestinesi. Il presidente Joe Biden ha parlato con il premier Benjamin Netanyahu e con Abu Mazen per la prima volta da quando si è insediato alla Casa Bianca. Dal quartiere generale delle forze armate a Tel Aviv Netanyahu fa sapere che “l’operazione va avanti, continueremo fino a quando avremo raggiunto i nostri obiettivi”. All’inizio dell’offensiva Aviv Kochavi, il capo di Stato maggiore israeliano, ha avvertito i leader di Hamas che non ci sarebbe stata alcuna immunità. Per loro e per le loro proprietà. La casa del numero due Khalil Al Hayya è stata rasa al suolo e sotto tiro sono anche le ville residenziali del quartiere Rimal. L’obiettivo è spingere la nuova classe di ricchi creati dal dominio degli integralisti - tra traffici di cemento e concessioni su dove costruire i palazzi - a premere sui vertici del gruppo. Dall’ultimo piano della Torre Al Jalaa i giornalisti di tutto il mondo hanno mostrato in diretta durante ognuna delle guerre che non finiscono i bombardamenti israeliani su Gaza e le scie bianche dei razzi lanciati contro Israele. La televisione Al Jazeera o l’agenzia di stampa americana Associated Press mettevano anche a diposizione le apparecchiature per permettere ai colleghi le dirette via satellite, da lassù le telecamere tenevano i loro occhi elettronici accesi giorno e notte su quello che accadeva nella città di Gaza. Non c’è più niente. I missili dell’aviazione hanno colpito le fondamenta del palazzo di 12 piani, 60 appartamenti in tutto, dopo che l’intelligence militare ha chiamato il proprietario e lo ha avvertito di far evacuare l’edificio. I reporter - in questo momento tutti locali, perché l’esercito non lascia entrare i giornalisti stranieri dal valico di Erez - hanno avuto meno di un’ora per tentare di salvare gli archivi e portare fuori i documenti accumulati in anni di conflitti. “Siamo scioccati e inorriditi”, commenta Gary Pruit, il presidente dell’Ap. Spiega che negli uffici c’erano una dozzina di giornalisti al momento dell’avvertimento: “Adesso il mondo potrà sapere molto meno di quello che sta succedendo a Gaza”. Mostafa Souag, direttore di Al Jazeera, definisce il bombardamento “barbarico” e accusa Israele di voler “nascondere la carneficina e la sofferenza”. Gli americani hanno fatto arrivare al governo israeliano il messaggio che “la sicurezza dei reporter è fondamentale”. Jonathan Conricus, il portavoce delle forze armate, replica che il grattacielo era un “obiettivo legittimo” perché “nel palazzo si nascondevano gli uomini dei servizi segreti militari di Hamas. Speravano che mettendosi tra i giornalisti avremmo esitato a colpire”. Medio Oriente. L’Onu: “Bombardamenti indiscriminati, danneggiate le nostre scuole” di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 16 maggio 2021 Sami Mshasha direttore relazioni esterne dell’Unrwa, L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi, conferma la morte di un’intera famiglia nel campo profughi all’interno della Striscia. Le scuole dell’Onu sono usate come rifugio, mentre altre sono state danneggiate. Nel quinto giorno dell’escalation militare tra Israele e Hamas un’intera famiglia di dieci persone è morta sotto le bombe in un campo profughi all’interno della Striscia di Gaza. “Il bombardamento è accaduto nel campo di Shati. Ci sono giunte conferme che l’intera famiglia di 8 bambini e due donne sono morte nell’attacco. E ora stiamo cercando di capire quanti di loro studiavano nelle nostre scuole”. A confermare la notizia a Domani è Sami Mshasha, direttore delle Relazioni esterne dell’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi che dal 1949 opera sul territorio. Su due milioni di abitanti a Gaza, il 70 per cento di loro sono registrati come rifugiati. Ci sono 8 campi profughi a cui l’Unrwa fornisce assistenza umanitaria. Dall’ufficio di Sheikh Jarrah, il quartiere situato nella Gerusalemme Est in cui sono scoppiate parte delle proteste che hanno poi portato all’escalation militare, Mshasha racconta: “Nell’attuale fase del conflitto quattro delle nostre scuole hanno riportato gravi danneggiamenti, così come i nostri quartieri generali. In queste emergenze le nostre risposte sono sempre veloci, nonostante le difficoltà di intervenire e assistere le persone in una fase così pericolosa dell’escalation”. Sono 36 le scuole dell’Unrwa che attualmente danno rifugio a circa 22mila civili palestinesi che in questi giorni hanno raggiunto le strutture a piedi e a bordo di pick up. “Abbiamo inviato i codici gps dei rifugi alle forze armate israeliane. Nelle scuole forniamo anche assistenza medica e cibo - spiega Mshasha - verifichiamo attentamente che questo accada nel rispetto della normativa anti Covid-19, perché l’ultima cosa che vogliamo è dare rifugio alle persone e che poi queste contraggano il virus”. Il conflitto - “Il nostro team a Gaza ci ha detto che i bombardamenti indiscriminati e gli attacchi stanno colpendo maggiormente la popolazione civile. Secondo i dati che ci arrivano dal ministero della salute palestinese sono più di 30 i bambini morti da lunedì e un altrettanto numero uguale di donne”. L’ultima triste conta delle vittime riporta 144 decessi tra gli arabi e 9 tra gli israeliani. “I civili stanno pagando a caro prezzo questo conflitto. Ci hanno detto che molti dei bambini rimasti uccisi studiavano e studiano nelle nostre scuole, è una notizia estremamente triste e deplorevole” dice Mshasha che lancia un appello: “Chiediamo a tutte le parti coinvolte nel conflitto di fermare i bombardamenti indiscriminati nelle aree civili”. “A Gaza vivono quasi due milioni di persone in una porzione di territorio che è veramente piccola. Per via della vicinanza delle case vengono colpiti anche i civili. La popolazione che vive nella Striscia ha vissuto diversi conflitti armati a partire dal 2008 e il prezzo pagato è veramente alto”. Nel 2008 si ricorda l’operazione Piombo Fuso iniziata il 27 dicembre 2008 e conclusa il 18 gennaio del 2009, in cui venne attaccata il 6 gennaio anche una scuola dell’Unrwa causando 40 morti e 50 feriti. In totale, secondo le Nazioni unite quel conflitto ha provocato 1400 morti. In Algeria ora è vietato protestare: 700 arresti di Stefano Mauro Il Manifesto, 16 maggio 2021 Dopo 117 venerdì di proteste. Debutta la nuova legge anti-Hirak: cortei bloccati in diverse città per la prima volta. Il movimento Hirak, nato nel febbraio 2019 dal rifiuto di un quinto mandato da parte del presidente Abdelaziz Bouteflika, ha avuto la sua prima battuta di arresto dopo 117 venerdì consecutivi a manifestare. Nella consuetudinaria giornata settimanale di protesta tutte le manifestazioni sono state duramente represse dalle forze di polizia, dispiegate in maniera massiccia nella capitale e in tutte le principali città del paese. Una pericolosa sfida del regime nei confronti dell’Hirak “giustificata” dalla legge - promulgata domenica dal ministero dell’interno - che vieta manifestazioni organizzate ad esclusione di quelle autorizzate dal governo con una precisa comunicazione riguardo a “inizio e fine percorso del corteo, orario e slogan utilizzati”. Le forze di sicurezza hanno schierato un numero impressionante di poliziotti in assetto antisommossa in tutti gli abituali luoghi di ritrovo, caricando subito i manifestanti che cercavano di cominciare le marce di protesta. Numerosi i video pubblicati dal Comitato nazionale di liberazione dei detenuti (Cnld) con scene di violenza, cariche e manganellate ad Algeri come a Constantine, Orano, Bejaia, Annaba, Sétif, Skikda, Tizi Ouzou e Bouira. Said Salhi, vicepresidente della Lega algerina per la difesa dei diritti umani (Laddh), ha denunciato attraverso un post su Facebook, “una nuova escalation di violenza e repressione del regime nei confronti dell’Hirak”, un movimento di protesta popolare e pacifico, indicando che nella sola giornata di venerdì sono stati arrestati “oltre 700 manifestanti insieme a giornalisti, avvocati, politici e leader di partito”. Reporters Sans Frontières (Rsf) riferisce che “sono almeno 30 i giornalisti bloccati, malmenati e arrestati dalla polizia”. Cosa che ha impedito ai fotografi e ai reporter di svolgere il proprio lavoro e che spiega “la mancanza di informazioni dai social e dai quotidiani che normalmente seguono le proteste”, con alcune aree del paese dove la connessione ad internet è stata interrotta per diverse ore. Viene segnalato anche l’arresto di alcuni esponenti politici, successivamente rilasciati in tarda serata, come Mohcine Belabbas, leader del Raggruppamento per la cultura e la democrazia (Rcd), di Fethi Gheras del Movimento democratico e sociale (Mds) e di Dalia Taout, una delle storiche leader dell’Hirak recentemente liberata dopo diversi mesi di carcere. “Continuare a dare priorità alla violenza durante questa dura fase di crisi economica e sociale, a meno di un mese dalle elezioni farsa del 12 giugno, mette in evidenza la mancanza di volontà di dialogo politico da parte di questo regime autoritario” ha dichiarato il segretario del Fronte delle Forze Socialiste (Ffs), Youcef Aouchiche, anche lui fermato per alcune ore. La portavoce dell’Alto Commissariato per i diritti umani (Hcdh), Marta Hurtado, ha invitato il governo algerino a porre fine a questa repressione: “Esortiamo le autorità algerine a smettere di usare la violenza per disperdere manifestazioni pacifiche e a porre fine agli arresti arbitrari e alla detenzione di persone che esercitano i loro diritti fondamentali alla libertà di opinione, espressione e manifestazioni pacifiche”. In Colombia “dialogo” in salita. La repressione non si ferma di Claudia Fanti Il Manifesto, 16 maggio 2021 Anche il mondo del calcio minaccia lo stop. Suicida la ragazza che aveva denunciato violenze sessuali da parte di alcuni agenti. È in un clima di forte tensione che si svolgerà oggi, nel diciannovesimo giorno della rivolta sociale, il secondo incontro tra il governo Duque e il Comité del paro, dopo la prima e fallimentare riunione esplorativa del 10 maggio. Al termine di un colloquio di tre ore con i mediatori delle Nazioni unite e della Conferenza episcopale, il Comitato, che riunisce tre centrali sindacali e diverse associazioni, ha infatti accettato di avviare un negoziato con il governo intorno al pacchetto di emergenza presentato lo scorso anno. Si tratta tuttavia di un negoziato in salita, già solo considerando che, mentre il governo mira a fermare la rivolta, il Comité del paro pone come primo punto da trattare proprio quello delle garanzie per il diritto alla protesta. E non andrà di certo meglio con molte altre richieste dei manifestanti, dal reddito minimo garantito allo stop alle fumigazioni aeree con il glifosato per distruggere i raccolti di coca. E come se non bastasse la distanza abissale tra le parti, lo zoccolo duro della protesta - quella “prima linea” che, esattamente come in Cile, è costituita essenzialmente da giovani e giovanissimi - non solo non si sente rappresentato dai dirigenti del comitato, ma neppure condivide la sua decisione di negoziare con il governo in mezzo a una repressione che non si è mai interrotta. Una diffidenza ulteriormente alimentata dall’esito dell’incontro a Cali tra le autorità comunali e i giovani dei cosiddetti punti di resistenza, immediatamente interrotto alla notizia di un attacco dell’Esmad (lo Squadrone mobile antisommossa) a una manifestazione indigena nella vicina città di Buga. Ma ancora più grave è la situazione a Popayán, nel Cauca, dove a scatenare la rabbia dei manifestanti è stata la notizia del suicidio di una 17enne (la famiglia ha chiesto che non venisse rivelata la sua identità) che poche ore prima, nella notte del 12 maggio, aveva denunciato di essere stata fermata e molestata sessualmente da quattro agenti - un video riprende l’esatto momento in cui la ragazza viene sollevata per le braccia e le gambe -, mentre era impegnata a filmare la manifestazione. E se la polizia ha inizialmente provato a sostenere che la notizia era falsa, si è poi clamorosamente smentita procedendo a sospendere quattro sospettati, contro cui è stata aperta un’indagine preliminare. Durante i pesanti scontri tra giovani e polizia registrati a Popayan proprio in seguito al suicidio della 17enne, un altro ragazzo, il 22enne Sebastián Quintero Múnera, è morto a causa di una granata stordente sparata dall’Esmad e circa 30 persone sono rimaste ferite, mentre un gruppo di manifestanti ha attaccato e dato alle fiamme la sede dell’Unità di reazione immediata della procura di Popayán, dove era stata detenuta la giovane. La notizia del suo suicidio ha però incendiato gli animi in tutto il paese, con presidi realizzati in diverse città da organizzazioni femministe, anche a fronte di almeno 16 casi di violenza sessuale da parte della polizia documentati dalla piattaforma Grita. In questo quadro, persino il mondo del calcio è in fermento. Mentre dalla Conmebol (Confederación sudamericana de Fútbol) arriva la conferma che la Colombia ospiterà a giugno insieme all’Argentina la Coppa America, tanto i tifosi quanto i calciatori si oppongono allo svolgimento del torneo, sia per le spese che lo Stato dovrà sostenere sia per la grave crisi in corso. Non a caso, giovedì scorso, la partita della Copa Libertadores tra l’América de Cali e l’Atlético Mineiro è stata sospesa a causa dei gas lacrimogeni penetrati anche nel campo da gioco. “Come cittadini, prima che calciatori, vogliamo esprimere il nostro totale appoggio alla protesta del popolo colombiano e ci uniamo alle voci di chi chiede un paese più giusto, equo e inclusivo”, ha espresso giovedì in un comunicato l’associazione colombiana dei calciatori professionisti, chiedendo la sospensione di tutte le partite “finché non venga superata la crisi che stiamo attraversando”. Mozambico, quel conflitto dimenticato tra islamisti, governo e mercenari di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 maggio 2021 Per ciò che c’è nel suo sottosuolo - gas naturale, grafite, minerali preziosi e altro ancora - la provincia settentrionale mozambicana di Cabo Delgado avrebbe potuto essere uno dei luoghi più ricchi dell’Africa. Ma dopo decenni di mancati investimenti e povertà estrema, da tre anni e mezzo è il teatro di uno scontro feroce in cui vengono commessi crimini di guerra a ripetizione. Non si contano i civili uccisi negli scontri iniziati nell’ottobre 2017 con l’attacco del gruppo armato islamista al-Shabaab alla città portuale di Mocímboa da Praia. Da allora, in un’escalation di violenza che ha visto protagonisti, oltre alle forze armate mozambicane, anche un gruppo di mercenari sudafricani denominato Dyck Advisory Group, i morti sono stati oltre 2000 e gli sfollati centinaia di migliaia. Gli scontri più recenti si sono svolti alla fine di marzo a Palma: seguendo uno schema reiterato, al-Shabaab ha attaccato, le forze armate mozambicane incapaci di difendere la città si sono ritirare e sono arrivati i mercenari della Dag. Le operazioni per salvare i civili si sono svolte in un modo che la dice lunga su quali siano state le priorità: prima i bianchi e pazienza per le donne, i bambini e le persone con disabilità del luogo, che purtroppo avevano la pelle nera. Ad esempio nell’hotel Amarula si erano rifugiate 220 persone. I primi a essere portati via in un elicottero da sei posti sono stati 20 mercenari. A salire subito a bordo è stato il direttore dell’hotel, coi suoi due cani. Al più influente dei neri, il sindaco di Palma, è stato consentito di accodarsi in un secondo momento. L’elicottero ha fatto quattro voli e poi se n’è andato. Molti degli altri, che avevano cercato di lasciare l’hotel a piedi dirigendosi verso una spiaggia per tentare di fuggire via mare, sono finiti in un’imboscata di al-Shabaab. Aggiornamento: dopo la pubblicazione di vari articoli, compreso questo post, il gruppo Dag ha precisato che il direttore dell’albergo e i suoi due cani (due pastori tedeschi) sono stati salvati da un elicottero di un’altra compagnia privata.