Bernardini a Cartabia: no a nuove carceri, sì ad amnistia e indulto di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 15 maggio 2021 Più carceri non servono. È indispensabile, invece, far uscire i penitenziari italiani dallo stato di illegalità nel quale versano da decenni, facendo in modo che la reclusione si allinei finalmente al dettato costituzionale. La pensa così Rita Bernardini, storica leader Radicale che ieri ha fatto tappa a Napoli con Memento, l’iniziativa nonviolenta volta a denunciare lo stato di abbandono delle carceri nazionali. E la pensa allo stesso modo la guardasigilli Marta Cartabia che nei giorni scorsi ha discusso di detenzione con Bernardini, l’ex senatore Luigi Manconi e lo scrittore Sandro Veronesi. “La ministra - ha riferito la leader Radicale - ha parlato di ristrutturazione, non della costruzione di nuove carceri”. Via Arenula, dunque, non guarderebbe con particolare favore la trasformazione dell’ex caserma Battisti di Bagnoli in struttura destinata alle detenute con fi gli al seguito, sulla quale tre Ministeri hanno raggiunto l’accordo un anno fa, così come la realizzazione di una prigione a Nola, di cui si discute ormai dal 2017. Il primo progetto tiene banco a Napoli e dintorni da diversi giorni. L’idea è quella di ristrutturare l’edificio che, negli anni Ottanta, ospitò l’aula bunker del processo al boss Raffaele Cutolo, salvo poi essere abbandonato. Nel 2019 Elisabetta Trenta e Alfonso Bonafede, all’epoca ministri rispettivamente della Difesa e della Giustizia, hanno firmato un protocollo per la riconversione dell’ex caserma Battisti in carcere; nel 2020 è arrivato l’ok del Ministero della Cultura. Il progetto è stato già contestato da chi lo ritiene incompatibile con la riqualificazione di Bagnoli in chiave turistica, anche perché il nuovo penitenziario verrebbe a trovarsi tra il parco urbano e l’università ipotizzati nella stessa zona. Secondo Bernardini e Cartabia, però, le principali perplessità sono due. La prima: il carcere non deve trovarsi in periferia ma al centro della città, in modo tale da non farlo percepire come “discarica sociale” o come problema estraneo alla comunità. La seconda: in un Paese in cui il 70% delle circa 53mila persone dietro le sbarre deve scontare meno di quattro anni di reclusione, occorre accelerare sulle misure alternative alla detenzione e non sulla costruzione di nuovi penitenziari. Obiezioni che valgono per Bagnoli come per Nola, dove il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria ha ipotizzato un carcere a forma di isolato urbano, senza muri perimetrali e con celle strutturate come monolocali per due persone. Ma il colloquio tra Bernardini e Cartabia è servito anche a ribadire i problemi strutturali dei penitenziari, a cominciare dal sovraffollamento e dalla mancanza di lavoro per chi vive in cella. “Sono quasi 5mila i posti detentivi non disponibili e lo ribadiamo da Poggioreale, simbolo delle strutture che scoppiano - ha spiegato la leader Radicale - E non bisogna dimenticare che, su 53mila reclusi, solo 15mila lavorano, molti dei quali per poche ore al giorno e per non più di 200 euro al mese. In questo modo il reinserimento sociale previsto dalla Costituzione è un miraggio”. Di qui le proposte alla Cartabia: amnistia, indulto e allungamento del periodo di liberazione anticipata da 45 a 60 giorni ogni sei mesi. La ministra si è detta disponibile soprattutto per la terza misura, visto che le prime due richiedono un’ampia convergenza delle forze politiche in Parlamento che, allo stato attuale, è difficile raggiungere. Memento ha offerto l’occasione per analizzare anche l’emergenza sanitaria dietro le sbarre. Bernardini ne ha discusso con Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Ucpi, e con Pietro Ioia e Samuele Ciambriello, garanti dei detenuti rispettivamente di Napoli e della Campania. “Le prigioni sono ambienti chiusi, dove i reclusi ammassati non possono osservare il distanziamento e sono esposti al contagio anche a causa del viavai di personale - ha sottolineato Polidoro - Perciò bisogna accelerare sulle vaccinazioni e stimolare un più largo ricorso alle misure alternative”. Opinione condivisa da Ciambriello che ieri ha diffuso gli ultimi dati sulla campagna vaccinale: al momento sono 3.124 i detenuti immunizzati nella regione, 1.194 dei quali nel Napoletano. “L’attenzione deve rimanere alta - ha ammonito il garante campano - non solo per evitare contagi, ma soprattutto per incentivare le misure alternative e avviare la ripresa dei colloqui e delle attività trattamentali nei penitenziari della regione”. Il monito di Zanon: sull’ergastolo basta inseguire la logica del consenso di Viviana Lanza Il Riformista, 15 maggio 2021 Parla il giudice costituzionale. Sull’ergastolo ostativo il Parlamento avrà una sfida enorme da raccogliere. Parola di Nicolò Zanon, giudice della Corte Costituzionale e redattore della motivazione dell’ordinanza con cui la Consulta ha dato un anno di tempo al Parlamento per rivedere le norma sulla possibilità di concedere la liberazione condizionale ai mafiosi che non collaborano utilmente con la giustizia. Zanon ha tenuto ieri una lectio magistralis al seminario interdipartimentale organizzato dalle professoresse Clelia Iasevoli, del Dipartimento di Giurisprudenza, e Marella Santangelo, del Dipartimento di Architettura, dell’università Federico II di Napoli. Il seminario affronta temi come lo spazio all’interno del carcere e l’accesso ai benefici nei percorsi di risocializzazione dei detenuti. E proprio in materia di benefici ed ergastolo ostativo, il termine che la Consulta ha dato al Parlamento per una decisione che potrebbe segnare un cambiamento culturale scadrà il 10 maggio 2022. “In questo anno, però, con tutte le emergenze che ci sono, questo sarà un tema molto difficile da trattare - commenta Zanon rispondendo alle domande gli studenti - C’è un problema di consapevolezza e volontà politica”. “Sono andato a rivedere i dibattiti parlamentari subito dopo la strage di Capaci - racconta - quando si decise questa cosa terribile del 41 bis con la mancata collaborazione ostativa. Erano dibattiti di estrema intelligenza; chi vi partecipò sapeva perfettamente che si stava facendo una cosa pesante, c’era piena consapevolezza dei principi costituzionali che erano in gioco, fu fatta una valutazione molto lucida. Si vede che fu una sentenza di compromesso ma di una lucidità enorme, perché c’erano persone di grande profilo. Noi - aggiunge Zanon - al Parlamento chiederemo di avere consapevolezza della portata della sfida, di fare uno sforzo di comprensione alta delle questioni che sono in gioco e abbandonare per un attimo la logica del consenso al minuto”. La politica saprà cogliere questa sfida? L’interrogativo resta aperto. “La Consulta - spiega l’avvocato Anna Maria Ziccardi, presidente del Carcere Possibile, la Onlus della Camera penale di Napoli che si occupa della tutela dei diritti dei detenuti - sancisce l’incostituzionalità dell’attuale sistema, che non può quindi permanere. Riconosce che la collaborazione non è sempre scelta libera e non può essere considerata l’unica strada a disposizione del condannato per dimostrare la rottura dei legami criminali”. “La Corte - aggiunge l’avvocato Sabina Coppola, componente del direttivo del Carcere Possibile - ha riconosciuto all’istituto della liberazione condizionale il ruolo di “fattore di riequilibrio tra il corredo genetico dell’ergastolo (il suo essere una pena senza fi ne) da una parte e l’obiettivo costituzionale della risocializzazione di ogni condannato dall’altra”, rendendo di fatto l’accesso alla liberazione condizionale indispensabile per la tenuta costituzionale della norma”. Resta però lo scetticismo. “La prova circa l’impossibilità futura del ripristino dei rapporti criminali è prova francamente diabolica”, afferma l’avvocato Elena Cimmino, vice presidente del Carcere Possibile. Posto che secondo i giudici risulterebbe incongruo parificare l’ergastolano collaborante con quello non collaborante, “spetta al Legislatore (perché è affare di politica criminale) stabilire condizioni diverse e distintive perché un non collaborante (su cui in ogni caso grava la presunzione di pericolosità) possa chiedere la liberazione condizionale” conclude l’avvocato Cimmino. La giustizia è malata e ha bisogno di una riforma di Giovanni Malinconico Il Domani, 15 maggio 2021 Della giustizia si fa un gran parlare, ma non si è mai aperto davvero un dibattito. Si parla del contrasto alle organizzazioni criminali ascoltando sempre le stesse grandi procure e dei mali del Csm dando voce alle rappresentanze associative. Mentre il nostro paese sta attraversando la più drammatica emergenza del dopoguerra e l’attenzione è fortemente concentrata sul contenimento dell’epidemia di Covid e sulle sue implicazioni economiche, sfugge dal dibattito e dalle riflessioni la crisi strutturale ed etica che sta investendo la Giustizia Italiana e le conseguenze che essa determina per tutto il “sistema Italia”. In realtà della giustizia, almeno in apparenza e in particolare nei talk televisivi, si fa un gran parlare per dare vetrina alla questione del contrasto alle grandi organizzazioni criminali e alle sue infiltrazioni, tema sul quale vengono per lo più ascoltati gli stessi protagonisti (alcune procure), senza alcun confronto effettivo. Nel frattempo, sui quotidiani nazionali si succedono notizie relative alle deviazioni di alcune parti degli organismi di rappresentanza associativa e di autogoverno della magistratura, ma anche su questo tema non si apre un reale dibattito. Ne risulta una sorta di narrazione sbilenca, in cui le due linee di racconto non vengono realmente messe in collegamento nonostante costituiscano aspetti di problemi intrinsecamente collegati. Ma la giustizia italiana è gravemente malata. È malata perché dovrebbe assicurare la tutela dei diritti delle persone e delle imprese e invece, da oltre trent’anni, è ferma a tempi enormemente dilatati totalmente incompatibili con le accelerazioni della nostra società e dei sistemi economici. Impiegare cinque/dieci anni per definire un giudizio a tutela di un lavoratore, di una famiglia o di una impresa (senza parlare dei tempi occorrenti per l’esecuzione delle sentenze) è un fenomeno totalmente inaccettabile a fronte della velocità delle dinamiche contemporanee. Il risultato è una irreparabile perdita di credibilità e una gravissima caduta di rilevanza rispetto alla società e all’economia, del sistema di tutela giurisdizionale, che dovrebbe invece assicurare la effettività dei diritti. Ed è anche chiaro che se non si agirà sul fronte della efficacia della giustizia, potrebbe essere messo a rischio il risultato di tutte le iniziative straordinarie che il Governo, attraverso l’impiego delle enormi risorse messa a disposizione dalla Ue, intende mettere a sostegno dell’economia e della nostra società. Il ministro della Giustizia e lo stesso primo ministro hanno più volte affermato che la crisi della giustizia, rappresentando un freno agli investimenti che dissuade le grandi realtà imprenditoriali e finanziarie dall’operare nel nostro paese, pesa gravemente in termini di perdita di punti di PIL eppure le sono riservate risorse modestissime, del tutto insufficienti a risolvere le arretratezze del sistema. La nostra giustizia opera in immobili in gran parte fatiscenti, senza un’organizzazione logistica degna di questo nome e senza collegamenti telematici adeguati (un recente studio condotto dall’Organismo Congressuale in collaborazione con l’Ance nell’autunno 2020 ha evidenziato che non esiste a tutt’oggi una banca dati unica nazionale degli uffici giudiziari); i sistemi informatici, diversi per ogni settore (civile, penale, amministrativo, tributario, contabile) sono antiquati (non è possibile definirli diversamente) e, specialmente nel settore civile e penale, subiscono frequentissimi blocchi che mettono a rischio i diritti di cui la giustizia dovrebbe assicurare la tutela; la pianta organica del personale amministrativo ha enorme una scopertura (che in alcuni casi arriva fin oltre il 35%) e le assunzioni che ora sono in corso (per la prima volta da decenni), oltre che totalmente insufficienti, non prevedono nuove figure professionali imprescindibili per l’adeguato uso delle nuove tecnologie. Il tema più dolente resta comunque l’insufficienza del numero di magistrati, rispetto al quale le strategie finora messe in campo si sono mosse su due linee, entrambe inaccettabili: da un lato la “rottamazione” delle cause di minor valore e rilievo (ma che interessano le piccole realtà economiche e sociali, tuttora il cuore pulsante della nostra società) relegate in gran parte agli Uffici del giudice di pace, retti da magistrati non adeguatamente professionalizzati, senza risorse materiali, in uffici fatiscenti e totalmente privi di alcuna informatizzazione; dall’altro l’adozione di misure processuali che hanno lo scopo di scoraggiare le iniziative processuali, attraverso una progressiva riduzione delle garanzie processuali per le parti e un significativo aggravamento dei costi. Con franchezza, il timore è che si pensi a una giustizia efficiente solo per le grandi realtà e debole e inadeguata per i più deboli. Mettere mano ai mali della Giustizia significa, invece, in primo luogo destinarle più risorse, quelle risorse che sono mancate nel corso di tutti questi anni e che sono stanziate in modo insufficiente anche nel PNRR. Ma l’efficientamento della Giustizia passa anche attraverso una revisione completa dei sistemi e meccanismi di organizzazione degli uffici (tuttora privi di modelli organizzativi uniformi) e di adeguati meccanismi di valutazione delle loro performance funzionali. Per essere chiari, non esistono percorsi di formazione manageriale dei capi degli uffici giudiziari di cui vengono valutate le sole generiche “attitudini” dirigenziali e che spesso sono ottimi magistrati formati per svolgere egregiamente la delicatissima funzione del “giudicare” ma chiamati a svolgere il lavoro, completamente diverso, dell’organizzazione e gestione degli Uffici, senza averne avuto alcuna formazione. Infine, gli uffici che hanno la funzione di valutare le performance dei Giudici italiani sono luoghi chiusi, cui non concorrono altri che non siano essi stessi Magistrati. Ebbene, rendere efficiente e moderna la giustizia Italiana significa anche modificare, in modo effettivo l’ordinamento giudiziario, senza timidezze e con il coraggio che la gravità del momento richiede, ben al di là delle misure previste nel disegno di legge che sta seguendo il suo iter in parlamento. Dei mali della giustizia gli avvocati italiani, che frequentano quotidianamente le aule di giustizia, conoscono cause e conseguenze. Ciononostante, i loro appelli raramente vengono ascoltati e le loro rappresentanze vengono sistematicamente escluse dagli organismi e dalle commissioni in cui si elaborano le soluzioni e vengono consultate solo su progetti già definiti. A fronte di un quadro così grave, occorre invece mettere in campo soluzioni strutturali importanti, con un impegno corale e inclusivo di tutti coloro che concorrono alla tutela dei diritti, in un vero e proprio “patto per la Giustizia”, fatto di apertura e dialogo, ma anche di coraggio nelle scelte e di impegno economico. L’avvocatura italiana, che lo ha chiesto sin dall’aprile dello scorso anno, è pronta a collaborare attraverso le sue istituzioni di rappresentanza, e proprio per dare il segnale del fatto che per la straordinarietà del momento la questione va affrontata “qui e ora” sta organizzando un Congresso Nazionale Straordinario. Ma è anche decisa a non accettare ulteriori diminuzioni delle tutele per i più deboli, con riduzione delle garanzie delle parti o comunque con soluzioni estemporanee e meramente estetiche, che ci darebbero una breve tregua dalla contingenza, consentendoci di fruire delle risorse comunitarie, ma senza un vero potenziamento infrastrutturale: perché senza una Giustizia equa e rivolta a tutti, la ripresa dalla crisi sociale ed economica in atto non sarebbe effettiva, e saremmo tutti più poveri. Ferraresi (M5S): “Molti punti critici nella riforma, ma abbiamo fiducia in Cartabia” di Liana Milella La Repubblica, 15 maggio 2021 L’ex sottosegretario alla Giustizia nei due governi Conte esplicita “le forti perplessità” del suo gruppo sulla stretta per l’appello e le priorità dell’azione penale dettate dalle Camere. Alla vigilia della settimana strategica per gli emendamenti al processo penale l’ex sottosegretario di M5S alla Giustizia nei due governi Conte, Vittorio Ferraresi parla con Repubblica e pone un altolà sulla prescrizione: “Per noi resta un punto imprescindibile per tutelare le vittime e garantire che lo Stato arrivi a dare una risposta di giustizia”. Tra pochi giorni Cartabia depositerà gli emendamenti al processo penale, ma è evidente nel frattempo che voi di M56S siete in allarme. E proprio così? “Sì, sicuramente c’è allarme per le proposte che non sono ancora quelle della ministra Cartabia bensí del gruppo di lavoro ministeriale o di altre forze politiche. Sulle quali nutriamo forti perplessità perché sono molto lontane da quelle di M5S. Speriamo e confidiamo che la sintesi della ministra tenga conto delle differenti sensibilità che ci sono nella maggioranza e possa essere fatta dandoci più tempo per riflettere”. Un momento. Lei sa che il Recovery impone tempi stretti, e queste riforme sono in Parlamento già da molto tempo... “Premesso che la priorità dell’Europa è soprattutto quella dei tempi lunghi del nostro processo civile, non chiediamo certo rinvii straordinari, ma semplicemente qualche giorno in più per confrontarci”. Sì, ma quando lei parla di proposte lontane da quelle di M5S a cosa si riferisce? “Sicuramente parlo dell’eventuale stretta sulla possibilità per il pm di appellare le sentenze. Nonché dell’idea di affidare al Parlamento la scelta delle priorità dell’azione penale, perché non vogliamo che siano le Camere a dettare l’agenda o le priorità dei processi alla magistratura invadendo il campo e la loro sfera di competenza. Poi, di certo, non la pensiamo allo stesso modo su alcune proposte che riguardano gli sconti di pena, e che comunque vanno a minare la certezza della pena. Mentre noi vorremmo rafforzare la figura delle vittime dei reati nel procedimento. E poi, com’è noto, per noi resta imprescindibile la riforma della prescrizione così come l’ha disegnata l’ex ministro della Giustizia Bonafede”. Tenga conto però che da via Arenula buone fonti assicurano che le proposte della commissione Lattanzi non si trasformeranno tutte in altrettanti emendamenti della Guardasigilli... “Sono fiducioso che la Cartabia potrà fare una buona sintesi per poi confrontarci insieme e raggiungere un risultato equilibrato che tenga conto delle nostre sensibilità”. Ma sulla prescrizione siete irremovibili? “Per noi questo resta un punto imprescindibile per tutelare le vittime e garantire che lo Stato arrivi a dare una risposta di giustizia. Ma con ci siamo mai sottratti alla discussione”. E quindi la proposta di una prescrizione che si ferma in primo grado ma riprende e viene addirittura recuperata se, nei due anni successivi non si fa l’appello, per voi è inaccettabile? “Una soluzione simile era già contenuta nel lodo Conte-bis, ma solo per chi veniva assolto, mentre per i condannati la prescrizione era comunque sospesa. E questo era già un punto di caduta rispetto alla norma della Spazza-corrotti (stop alla prescrizione dopo il primo grado, ndr)”. Scusi, in questa maggioranza ovviamente non siete da soli. E tutti gli altri partiti, Pd compreso, non la pensano come voi. Farete quadrato sulla norma Bonafede rischiando di mandare a gambe all’aria il governo? “Sono sicuro che si potrà trovare una soluzione e non si arriverà a quel punto anche perché, per tutte le forze politiche, la priorità dovrebbe essere quella della riduzione di tempi del processo. E allora concentriamoci su quello”. Ha visto che Di Matteo teme che la politica, anche questa volta, voglia regolare i conti con la magistratura e, dice l’ex pm a Piazzapulita, “fare riforme, spacciate per accelerare i tempi dei processi, ma che in realtà vogliono rendere il pm collaterale e servente rispetto al potere politico”? “Ho sempre pensato che ci siano soggetti all’interno di alcune forze politiche che vogliono ridurre l’autonomia della magistratura nei confronti della politica. Per questo è importante la presenza di M5S proprio per bloccare, da un lato, una simile impostazione e dall’altro migliorare i tempi della giustizia e garantire maggiore trasparenza e meritocrazia con la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario”. Salvini è stato assolto a Catania per il presunto sequestro dei migranti sulla nave Gregoretti. Che ne pensa? “Il processo penale non serve per condannare per forza qualcuno, né per contrastarlo politicamente, come invece qualcuno vorrebbe far passare. Il processo serve per accertare fatti che possono avere rilevanza penale. Strumentalizzare da una parte o dall’altra la conclusione del processo significa non capire tutto questo e utilizzare la giustizia a fini politici”. Ma lei come vede Salvini che lancia i referendum sulla giustizia con i Radicali? “Il referendum è uno strumento molto importante e sollecitare la risposta dei cittadini è sempre un atto che merita rispetto. Detto questo, si è passati dal dire facciamo i referendum e nessuna riforma della giustizia con Pd e M5S, ad affermare che si può andare avanti con il percorso delle riforme. È il sintomo di chi ha le idee poco chiare”. E che dice di Costa di Azione che chiede di cambiare di nuovo la legge sulla responsabilità civile dei giudici perché i dati dicono che ci sono state solo 8 condanne in 11 anni? “Questa legge è stata modificata nel 2015, e mi pare proprio che Costa fosse viceministro della Giustizia. Di tutto si può discutere, ma il punto di partenza non può essere quello delle condanne, ma se la legge sia giusta oppure no”. Voi cosa farete dopo la decisione della Consulta sull’ergastolo ostativo che considera fuori dalla Costituzione la concessione della libertà condizionale “solo” se il mafioso collabora e ha appena rinviato alle Camere la revisione delle norme? “Già martedì prossimo M5S presenterà la sua proposta di legge sulla futura riforma”. Giustizia, il Cnf critica le riforme: “A rischio le garanzie difensive” di Simona Musco Il Dubbio, 15 maggio 2021 Maria Masi, presidente Cnf: “I tempi ragionevoli non sono perseguibili solo con l’ennesima riforma delle norme di rito, si rischia di sacrificare i diritti dei cittadini”. Le riforme del processo penale e civile attualmente al vaglio del governo rischiano di mortificare le garanzie di difesa e l’accesso dei cittadini alla Giustizia. Il tutto senza raggiungere l’indispensabile obiettivo di ridurre i tempi del processo, così come richiesto dall’Europa, condizione indispensabile per l’erogazione dei fondi del Recovery Fund. È un giudizio netto quello espresso ieri dal Consiglio nazionale forense, che si è pronunciato negativamente sui progetti di riforma. Il tutto per un’impostazione che, puntando sulla modifica dei riti, dimenticherebbe il rafforzamento degli uffici, senza il quale, lamenta il massimo organo dell’avvocatura, il rischio è che tutto finisca in un nulla di fatto. I rilievi del Consiglio nazionale forense - “Il Consiglio nazionale forense reputa non condivisibile l’approccio alla riforma del processo civile e del processo penale così come deducibile dalle anticipazioni delle proposte di emendamenti del governo al ddl delega di riforma del processo civile e dalle anticipazioni di stampa per quanto riguarda l’impianto del processo penale - afferma Maria Masi, presidente facente funzione del Cnf. La riforma della giustizia deve mirare ad un nuovo e rinnovato approccio di sistema. L’obiettivo perseguito, ossia la riduzione del 40% dei tempi del processo civile e del 20% di quelli del processo penale, così come richiesto dalla Commissione europea, ammesso che possa considerarsi coerente con i principi invocati dall’Onu nell’Agenda 2030 di sostenibilità e solidità delle istituzioni e di assicurare a tutti l’accesso alla giustizia, non potrà, comunque, raggiungersi se oltre ad intervenire sulle regole del processo non si agisce coraggiosamente anche sull’organizzazione degli uffici giudiziari, sugli investimenti funzionali e sulla carenza di organico di magistrati e personale amministrativo, oltre che sull’equa responsabilizzazione di tutti gli operatori, compresi i magistrati”. Processo penale - Per quanto riguarda il processo penale, il progetto della “commissione Lattanzi” punta a ridurre i tempi con l’estensione dei riti alternativi, in primo luogo il patteggiamento, con uno sconto di pena della metà anziché di un terzo, introducendo però anche una disciplina più restrittiva per le impugnazioni in appello, associata all’inappellabilità, per il pm, delle assoluzioni. Tra le novità anche la videoregistrazione degli interrogatori e criteri di priorità per i pm, mentre sono due le ipotesi per la prescrizione: un ritorno sostanziale alla riforma Orlando, con la sospensione in appello di due anni anziché un anno e mezzo, e con un anno di stop in Cassazione, e recupero del tempo “congelato” in caso di sforamento, oppure un mix fra prescrizione del reato, che esaurirebbe i suoi effetti alla richiesta di rinvio a giudizio, col subentrare dell’improcedibilità per sforamento dei termini di fase, che riguarderebbe tutti gli stadi del processo, compreso il primo grado. Processo civile - Per quanto riguarda il civile, invece, tra i temi toccati dagli emendamenti elaborati dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia vi è quello della risoluzione alternativa delle controversie, per i quali il Governo ritiene “decisiva” una riforma degli strumenti stragiudiziali di risoluzione che si ponga nel solco della coesistenza e complementarietà delle due vie - giudiziale e stragiudiziale - per l’ampliamento della risposta di giustizia. C’è poi una “estensione mirata” della mediazione obbligatoria, anche con incentivi fiscali, e l’ampliamento dei casi nei quali si può ricorrere alla negoziazione assistita, nonché la revisione della fase introduttiva del giudizio di cognizione dinanzi al tribunale e una rideterminazione della competenza del giudice di pace in materia civile. Altri emendamenti riguardano l’arbitrato, l’ufficio del processo, le impugnazioni dei licenziamenti, l’introduzione di un rito unificato sui procedimenti su famiglia e minori e alcune norme, immediatamente precettive, in tema di esecuzioni e famiglia. Masi: “I tempi ragionevoli e soprattutto la qualità della giustizia non sono perseguibili solo con l’ennesima riforma delle norme di rito” - Sono diversi i punti contestati dall’avvocatura, contraria, giusto per fare un esempio, alle previsioni di obbligatorietà degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, la cui utilità sarebbe assicurata da una libera adesione agli stessi e dagli incentivi. “I tempi ragionevoli e soprattutto la qualità della giustizia - ha sottolineato Masi - non sono perseguibili solo con l’ennesima riforma delle norme di rito in cui, ancora una volta, sono i cittadini a rischiare di pagare il tributo più alto. In nome di una presunta riduzione dei tempi del processo il rischio è quello di sacrificare il diritto di accesso alla giustizia e le garanzie di difesa”. D’altronde, nel suo documento di proposte lungo 111 pagine, consegnato all’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, il Consiglio nazionale forense si era posto un obiettivo: una giustizia al servizio non dell’economia ma della persona. E ciò sulla base di tre pilastri, razionalizzare l’esistente, migliorare l’organizzazione giudiziaria con nuove figure professionali, come il “court manager”, e rafforzare la specializzazione di quelle che già esistono, magistrati inclusi. “Ben vengano l’attenzione alla digitalizzazione e il rafforzamento dell’ufficio del processo” per recuperare “efficienza e competitività”, aveva affermato solo pochi giorni fa Masi, tuttavia, “se sono condivisibili gli interventi sul processo esecutivo e la volontà di rendere più scorrevole e concentrata la cognizione ordinaria, non può non rilevarsi come manchino proposte di ampio respiro volte a migliorare la qualità complessiva della decisione giudiziaria”. Quanto alla riforma del processo penale, il Cnf ha respinto “fermamente ogni proposta di correttivi che abbia ricadute sulla effettività del diritto di difesa costituzionalmente garantito e che si traduca in un ostacolo all’accesso alla giustizia, come l’ipotesi normativa di riforma delle impugnazioni”. Responsabilità civile dei giudici, 8 condanne in 11 anni. Costa: “Legge da cambiare” di Liana Milella La Repubblica, 15 maggio 2021 I dati dimostrano che anche la legge Orlando del 2015 non ha funzionato. I Radicali con la Lega chiederanno un referendum. Il deputato di Azione: “La riforma Cartabia è l’occasione giusta”. “Otto condanne in 11 anni. Pazzesco. La legge sulla responsabilità civile dei magistrati va rivista subito. E l’occasione giusta può essere proprio la riforma Cartabia. Basta leggere i dati, e chiunque se ne potrà rendere conto”. Dice così, mentre mostra e sfoglia le statistiche che ha ottenuto in esclusiva, il deputato di Azione Enrico Costa, divenuto ormai il garantista più prolifico di proposte sulla giustizia della maggioranza. E mentre i Radicali, con la Lega, annunciano la prossima battaglia sui referendum, Costa lancia i suoi dati e la sua proposta per una nuova responsabilità civile che cambi le regole attuali che, a suo dire, non funzionano affatto. Tema da sempre caldissimo: i giudici che sbagliano, ma non pagano per l’errore commesso. Un referendum, quello dei Radicali nel 1987, disse che l’80,21% degli italiani voleva che le regole cambiassero, e solo il 19,79% votò no. La legge Vassalli dell’88 lasciò l’amaro in bocca ai vincitori. Nel 2015 l’ex Guardasigilli Andrea Orlando cambiò le norme, eliminando il filtro di ammissibilità, ma adesso Costa ragiona sui dati e dice: “La legge va cambiata di nuovo perché anche palesi responsabilità non si riescono a perseguire”. E cita un caso, quella della povera Marianna Manduca, la donna uccisa dal marito a Caltagirone dopo che lo aveva denunciato per le sue violenze per ben dodici volte, ma inutilmente: “Se i magistrati sbagliano devono pagare. Non è possibile costringere i cittadini a vere e proprie peripezie giudiziarie per ottenere dopo anni e anni un risarcimento”. Ma i dati sulla responsabilità civile che cosa ci dicono? Eccoli qua. Dal 2010 al 2021 sono state avviate 544 cause di responsabilità civile nei confronti di altrettanti magistrati. In media 47 all’anno. Nel 2015, come abbiamo visto, la disciplina è cambiata, e quindi le maglie per mettere sotto “processo” i giudici avrebbero dovuto allargarsi. Ma non è stato così. E i dati lo dimostrano anche in questo caso. Perché rispetto all’anno 2015, il confronto tra le responsabilità contestate prima e quelle contestate dopo non subisce grandi mutamenti. Tranne in qualche città, a Roma per esempio, dove rispetto alle 28 cause tra il 2010 e il 2015, ce ne sono state 66 dal 2016 al 2021. A Milano ce n’erano 3 prima, e 11 dopo. A Brescia 5 prima, e 14 dopo. A Firenze una prima e due dopo. A Palermo solo una, dopo la nuova legge. A Reggio Calabria 7 prima e 6 dopo. A Lecce 6 prima e 9 dopo. “Ebbene - commenta Costa - la grande, immensa pioggia di cause non c’è stata”. Dal 2010 al 2021 si contano 129 pronunzie tra i tribunali e la Cassazione, ma solo 8 condanne - 3 nei tribunali e 5 in Cassazione - contro lo Stato. Poiché, in base alla legge, la responsabilità non è “diretta”, ma passa dallo Stato che poi si rivale sulla toga. Ricapitolando, dal 2010 e fino a oggi, “solo l’1,4% delle cause iscritte contro i giudici si è conclusa con una condanna definitiva”. Delle cause, certamente alcune si sono infrante contro il filtro di ammissibilità, soppresso poi dalla riforma del 2015, ma altre sono state rigettate, altre ancora sono tuttora in corso. Ma la conclusione di Costa è che “la tendenza è chiara, non c’è stata né la pioggia di cause che i magistrati temevano, né tantomeno la pioggia di condanne”. E cita una frase che, nel 2015, disse l’allora presidente dell’Anm Rodolfo Maria Sabelli: “Il ministro Orlando ha detto che questa riforma è una rivoluzione, invece è una rivoluzione contro la giustizia, contro l’indipendenza dei magistrati”. Ma i fatti non sono andati così. L’opinione diffusa tra le toghe era quella che il governo Renzi, che già l’anno prima aveva tagliato ex abrupto di ben 5 anni l’età pensionabile dei magistrati, eliminando di fatto le toghe più famose e autorevoli, avesse solo la voglia di “normalizzare la magistratura”. Pur senza arrivare allo sciopero, i magistrati contestarono sia l’eliminazione del filtro di ammissibilità dei ricorsi, sia il passaggio da un terzo alla metà della rivalsa dello Stato sullo stipendio della toga. Ma soprattutto quello che fece più discutere riguardava l’attività di interpretazione della legge, che alla fine però fu eliminato. Ma i dati, a questo punto, dimostrerebbero che la “nuova” responsabilità civile si è rivelata un flop. Almeno a detta dei super garantisti come Costa. Vediamo la situazione negli uffici giudiziari. In tribunale, su 62 sentenze, ci sono state solo 3 condanne, in appello 11 sentenze e “zero” condanne, in Cassazione 23 sentenze e 5 condanne. Ma in quali distretti si iscrivono più cause? Spicca Perugia con 136 richieste in 11 anni, e solo 6 sentenze emesse, di cui nessuna di condanna. Quindi il risultato è 136 a zero. Nessuna responsabilità mai riconosciuta, in ben 11 anni, in quel distretto. Infine ecco altri elementi utili che si possono trarre dalle tabelle. Dal 2005 al 2014 c’erano state 9 condanne con una liquidazione media degli importi pari a 54mila euro. Quando venne approvata la legge del 2015, ricorda Costa, nella relazione tecnica fu inserita una proiezione di possibile aumento delle condanne, prevedendo che ce ne potessero essere almeno dieci all’anno per una cifra complessiva di 540mila euro. Somma che fu prevista tra le possibili spese della legge di cui il bilancio doveva tenere conto. Facendo un bilancio Costa conclude: “Era una cifra minima, se si pensa ai numeri della responsabilità professionale negli altri settori in cui è prevista. Però a 10 condanne non si è mai arrivati, neanche in 11 anni”. Quei magistrati sempre “assolti” dalla responsabilità civile di Giacomo Puletti Il Dubbio, 15 maggio 2021 Dal 2010 al 2021 sono state depositate 544 cause contro lo Stato per responsabilità civile dei magistrati e su 129 sentenze emesse finora ci sono state solo otto condanne. Nemmeno il tempo di “esultare” per le proposte della commissione istituita dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia di Azione, torna alla carica per inserire nella riforma alcuni aspetti ancora necessari, a parer suo, di accorgimenti. Come nel caso della responsabilità civile dei magistrati, tema del quale si discute da decenni (il referendum targato radicali con il quale oltre l’80% si schierò a favore di un cambiamento delle regole è del 1987) e del quale si torna a parlare dopo la pubblicazione dei dati in cui si attesta che dal 2010 al 2021 sono state depositate 544 cause contro lo Stato per responsabilità civile dei magistrati e su 129 sentenze emesse finora ci sono state solo otto condanne. Numeri che hanno fatto sobbalzare Costa sulla sedia e gli hanno fatto dire che “la legge sulla responsabilità civile dei magistrati va rivista subito e l’occasione giusta può essere proprio la riforma Cartabia”. Il deputato spiega che attraverso la lettura dei dati “chiunque si potrà rendere conto” della gravità della situazione, visto che “solo l’1,4 per cento delle cause iscritte contro i giudici si è conclusa con una condanna definitiva”. E pensare che nel 2015 l’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, aveva soppresso il filtro di ammissibilità, ragione per cui, ragiona Costa, le maglie per mettere sotto processo i giudici avrebbero dovuto allargarsi, ma non è stato così”. Rispetto al 2015 in effetti il confronto tra le responsabilità contestate prima e quelle contestate dopo non subisce grandi mutamenti. A leggere i dati non c’è stata né la pioggia di cause che i magistrati temevano, tanto che l’allora presidente dell’Anm, Rodolfo Maria Sabelli, parlò di una “rivoluzione contro la giustizia e contro l’indipendenza dei magistrati”, né tantomeno la pioggia di condanne. Di quella riforma, arrivata soltanto un anno dopo il taglio di cinque anni dell’età pensionabile dei magistrati, i magistrati contestarono sia l’eliminazione del filtro di ammissibilità dei ricorsi sia il passaggio da un terzo alla metà della rivalsa dello Stato sullo stipendio della toga, ma lo scontro già aspro arrivò sull’attività di interpretazione della legge. In quel caso la voce dell’Anm, assieme alle pressioni politiche, ebbe la meglio e la norma fu eliminata. Evidentemente, però, non era quello il vero problema. A dire la verità soprattutto nelle grandi città un cambio di passo dopo la riforma Orlando si può notare: come a Roma, dove rispetto alle 28 cause tra il 2010 e il 2015, ce ne sono state 66 dal 2016 al 2021; o a Milano, con 3 cause prima del 2015 e 11 nel periodo successivo. Come è noto, la responsabilità civile dei magistrati non è “diretta” ma ricade sullo Stato, che poi si rivale sulle toghe. Delle otto condanne avvenuta dal 2010 a oggi, tre sono arrivate dai tribunali, su 62 sentenze, nessuna dall’appello, su undici sentenze, e otto dalla Cassazione, su 23 sentenze. Nel distretto di Perugia, per citare un caso emblematico, ci sono state 136 richieste in undici anni e sei sentenze, di cui nessuna di condanna. Un altro dato che salta all’occhio è che la riforma Orlando prevedeva, in proiezione, una spesa per lo Stato di 540mila euro all’anno in seguito a condanne per i magistrati, frutto della media dei dieci anni precedenti in cui c’erano state otto condanne totali con risarcimenti medi di 54mila euro. Ebbene, non solo non si è realizzata la previsione di una decina di condanne all’anno, ma a quelle dieci condanne non si è arrivati nemmeno in undici anni. È per questo che Costa parla della responsabilità civile post Orlando come di “un flop” e da qui nasce l’idea di emendare ancora la riforma Cartabia con modifiche anche sulla responsabilità civile dei magistrati. “La legge va cambiata di nuovo perché anche palesi responsabilità non si riescono a perseguire - conclude il deputato. Per questo motivo, presenteremo degli emendamenti sulla responsabilità civile al testo di riforma del Csm e della magistratura. Se i magistrati sbagliano devono pagare. Non è possibile costringere i cittadini a vere e proprie peripezie giudiziarie per ottenere dopo anni e anni un risarcimento”. Scoppia “intercettopoli”: illegali i server che conservano trojan e captazioni di Simona Musco Il Dubbio, 15 maggio 2021 Il server “occulto” di Napoli raccoglieva i dati di tutta Italia. Ora rischia di saltare anche il processo a Palamara. “Le operazioni di intercettazione a mezzo trojan hanno subito alcune modifiche e non sono avvenute secondo le modalità che ha qui dichiarato l’ingegner Bianchi quando fu ascoltato nell’ambito del processo al dottor Palamara”. Le parole pronunciate dal sostituto procuratore generale Simone Perelli durante l’udienza disciplinare a carico di Cosimo Ferri suonano come una vera e propria bomba. Perché per la prima volta certificano che quelle che nel corso del procedimento a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara erano state bollate come “illazioni” dal Csm tali non sono, rappresentando piuttosto un dubbio fondato che potrebbe mettere in discussione la radiazione dell’ex ras delle nomine, ma anche decine e decine di processi. Ed è per questo motivo che il pg ha chiesto un rinvio del procedimento disciplinare di Ferri, in attesa degli esiti delle ispezioni disposte dalle procure di Firenze e Napoli sugli impianti utilizzati per le prestazioni di queste intercettazioni sul server “occulto” di Napoli. La scoperta avviene grazie ai dubbi sollevati dalla difesa di Palamara, che nel corso del disciplinare davanti al Csm ha riferito della possibile presenza di server intermedi tra il telefono del pm e il server della procura di Roma autorizzato a registrare i dati e trasmetterli alla sala di ascolto della Guardia di Finanza. La sezione disciplinare convoca dunque l’ingegnere Duilio Bianchi, uno dei rappresentanti della Rcs, ovvero la società che ha fornito il trojan, che il 30 settembre nega la presenza di qualsiasi server intermedio. Palamara viene dunque radiato e i dubbi espressi dalla difesa bollati come illazioni. Ma la difesa di Ferri, rappresentata dall’avvocato Antonio Paolo Panella, si rivolge a due super consulenti tecnici: l’ingegnere elettronico Paolo Reale, presidente dell’Osservatorio nazionale di informatica forense, e il dottor Fabio Milana, perito del Tribunale di Roma. I due scoprono che nella copia forense della Finanza non sono stati copiati i dati che identificano il server al quale il telefono di Palamara ha trasmesso i suoi segreti. Da qui la richiesta di “copiare” i dati del telefono dell’ex capo dell’Anm, dal quale però il trojan è già stato cancellato. Una sorta di vicolo cieco, fino a quando Milana non tira fuori dal cappello un altro procedimento nel quale è consulente e per il quale viene utilizzato lo stesso trojan di Rcs nello stesso periodo di tempo. Da quel telefono si riesce risalire all’ip del server, che straordinariamente non si trova a Roma, ma a Napoli, nel centro direzionale. Per scoprire se anche i dati di Palamara siano finiti a Napoli, Ferri presenta un esposto alla procura partenopea, trasmesso per competenza a Perugia e da lì a Firenze, competente per i reati a danni dei pm di Perugia. Ed è lì che Bianchi - a cui vengono contestati la falsa testimonianza davanti al Csm, la frode in pubbliche forniture e il falso ideologico per induzione in errore dei magistrati di Perugia - ammette che i dati del telefono di Palamara sono finiti a due server a Napoli collocati nei locali della Procura di Repubblica, che ora ha revocato qualsiasi incarico a Rcs. Ma non solo: quei due server avrebbero ricevuto i dati delle procure di tutta Italia. La procura di Firenze e quella di Napoli, ora, hanno aperto due procedimenti penali a carico di noti e stanno svolgendo indagini collegate tramite un reparto speciale della polizia postale - il nucleo che si occupa della protezione delle infrastrutture critiche del Paese - per cercare di capire cosa è successo. “Reale sostiene che i server di Napoli, ovunque fossero localizzati, non erano server di transito. E questo spiegherebbe tutto - spiega al Dubbio Panella -, perché in quella fase ai dati non criptati che arrivavano a Napoli potevano avere accesso gli amministratori di sistema di Rcs. Ciò significa che, potenzialmente, poteva accadere di tutto e ciò è assolutamente allarmante e costituisce, a mio parere, un pericolo per la democrazia di questo Paese”. Neomelodici a favore della criminalità, una legge per sanzionarli di Valentina Errante Il Messaggero, 15 maggio 2021 Cantanti neomelodici che dalla Campania alla Sicilia inneggiano a vari esponenti della malavita e della criminalità organizzata; una processione del venerdì Santo che in provincia di Catania, qualche tempo fa, ha subito una deviazione per omaggiare un mafioso della zona; il feretro di un Casamonica che a Roma, alcuni anni fa, è stato trasportato da una carrozza trainata da sei cavalli, mentre una banda accompagnava la processione funebre sulle note del film “Il padrino” e petali di rose venivano lanciati da un elicottero. Ce n’è abbastanza per far preoccupare deputati e senatori della Commissione parlamentare antimafia che hanno messo a punto una proposta di legge per modificare l’articolo 414 del codice penale e prevedere l’aggravante dell’istigazione o dell’apologia della mafia. La proposta - “Non vogliamo certo censurare la libertà di pensiero - spiega la deputata Stefania Ascari, M5S, prima firmataria del testo - ma mettere uno stop a quelle condotte e quelle espressioni che superano il limite e quindi equivalgono a manifestazioni di mafiosità. La libertà di pensiero non può infatti essere invocata quando l’espressione del pensiero diventa una offesa. La mafia si nutre di messaggi e questi vanno fermati: non è possibile esaltare la strage di Capaci, si tratta di istigazione e si mira a ottenere consenso sociale. Così la mafia diventa una alternativa positiva e va fermata; il contrasto alle mafie deve partire dal linguaggio, altrimenti non le fermiamo più, va responsabilizzata la comunicazione, e alcuni personaggi non vanno presi a modello ma vanno trattati da criminali”. Apologia - Ad oggi il reato di apologia esiste per il terrorismo, ma manca per la mafia. Il testo predisposto dai commissari M5S si compone di due articoli i quali prevedono che se l’istigazione o l’apologia riguardano il delitto previsto dall’articolo 416-bis (associazione di tipo mafioso) la pena è aumentata della metà. La pena è aumentata fino a due terzi se il fatto è commesso durante o mediante spettacoli, manifestazioni o trasmissioni pubbliche o aperte al pubblico ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. Non possono essere invocate ragioni o finalità di carattere artistico, letterario, storico o di costume. E quando il delitto è commesso mediante l’utilizzo di social network o mediante emittenti radio o televisive o per mezzo della stampa, chi è responsabile della divulgazione dell’apologia viene punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 10.000 euro e con l’obbligo di rettifica. L’iniziativa - L’iniziativa sarà presentata nel corso di una conferenza stampa alla Camera alla quale prenderanno parte - oltre alla Ascari - il senatore Nicola Morra, presidente della Commissione bicamerale Antimafia e Guido Salvini, magistrato esperto in materia di terrorismo e di criminalità organizzata, interlocutore nella fase di redazione della proposta di legge. “Smettere di esaltare i boss”: la proposta per punire l’apologia della mafia di Carmen Baffi Il Domani, 15 maggio 2021 In qualità di componente della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie, la deputata Stefania Ascari (M5S) ha presentato una proposta per modificare l’articolo 414 del codice penale, con l’obiettivo di aggravare le pene previste per chi inneggia o esalta le organizzazioni mafiose in pubblico. Il 19 febbraio scorso, la deputata del Movimento cinque stelle, Stefania Ascari, in qualità di legislatore e componente della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, insieme ad altri colleghi, ha presentato un disegno di legge per modificare l’articolo 414 del codice penale, “in materia di circostanza aggravante dell’istigazione o dell’apologia riferite al delitto di associazione di tipo mafioso o a reati commessi da partecipanti ad associazioni di tale natura”. In particolare, la richiesta è quella di aggiungere a quelli già esistenti, altri due comma, con l’obiettivo di inasprire le pene per chi, pubblicamente, inneggi ad atteggiamenti di tipo mafioso o idolatri boss ed esponenti di organizzazioni criminali in pubblico. Casi emblematici - In più parti d’Italia, ancora oggi, capita che durante una ricorrenza religiosa, soprattutto in realtà a elevata incidenza mafiosa, si festeggi il “boss” della zona. Il 20 agosto 2015, Roma è balzata agli onori della cronaca per un episodio particolare: i funerali di Vittorio Casamonica. Un evento che ha offerto uno spettacolo delirante: una gigantografia del boss, all’ingresso della chiesa, recante la didascalia “Vittorio re di Roma”, il feretro trasportato da una carrozza trainata da sei cavalli, una banda che ha accompagnato la processione funebre con le note del popolare film “Il padrino” e petali di rose lanciati da un elicottero per omaggiare un’ultima volta il capoclan della potente famiglia malavitosa romana. E, ancora, nel mese di marzo 2016, durante le festività pasquali, a San Michele di Ganzaria, un paese in provincia di Catania, la processione del venerdì santo ha subìto una deviazione per omaggiare un mafioso della zona. Il simulacro, infatti, è stato portato a spalla in piazza Monte Carmelo, davanti all’abitazione del boss sottoposto al regime speciale di detenzione, abbandonando così, momentaneamente, il percorso ufficiale della processione. Le reazioni a questo inno alla mafia non sono mancate: il parroco ha abbandonato la processione, mentre il sindaco, togliendosi la fascia tricolore, ha preso immediatamente le distanze dalla deviazione, decisa arbitrariamente dai portatori della statua. Mafia e cantautori - Sono sempre di più i cantautori che scrivono o interpretano testi i cui contenuti inneggiano ai vari esponenti della malavita e della criminalità organizzata, tanto da indurre alcuni soggetti istituzionali e sociali a presentare esposti alla magistratura per chiedere di accertare eventuali fattispecie di reato, tra cui l’istigazione a delinquere. Canzoni che sembrerebbero andare oltre la libertà di opinione o di espressione, così come i commenti lasciati dai fans di questi artisti sotto i post o i video pubblicati sui social network. Contenuti pubblici che rischiano di fomentare ulteriormente il clima di illegalità. Basti pensare alle centinaia di migliaia di followers degli stessi cantanti su Instagram o Facebook, per comprendere la rilevanza e l’impatto che questi possano avere di fonte al loro pubblico. Partendo da questi fatti, emblematici ma non unici, i deputati del Pd chiedono l’intervento delle piattaforme online per censurare tali contenuti. “Non si può più tollerare che messaggi così pericolosi vengano spacciati per arte e questo vale per la musica, per il cinema, per i social network e per ogni altro mezzo di comunicazione di massa. Il principio della libertà di espressione, anche artistica, trova un limite laddove si istiga a compiere reati e ad esaltare un modello di società non fondata sul diritto”, scrivono i deputati nel testo che accompagna la richiesta di modifica dell’articolo. Pene più severe - Ascari chiede di introdurre nell’articolo 414 del codice penale l’aggravante dell’istigazione o dell’apologia del delitto di associazione di tipo mafioso e delle sanzioni amministrative per gli operatori della comunicazione, con l’obiettivo di introdurre ulteriori sanzioni per chi verrà accusato in futuro di questo reato. In particolare, viene chiesto che la pena venga raddoppiata se l’istigazione o l’apologia riguardano il delitto previsto dall’articolo 416-bis dello stesso codice. E che venga aumentata di due terzi se il fatto è commesso durante o mediante spettacoli, manifestazioni o trasmissioni pubbliche o aperte al pubblico ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. Se il reato è commesso attraverso l’utilizzo di social network, emittenti radio o televisive, o a mezzo stampa, il soggetto responsabile della divulgazione del contenuto non conforme è punito con una sanzione amministrativa pecuniaria che potrà variare dai 5mila ai 10mila euro, con l’obbligo di rettifica. “È necessaria una presa di posizione forte da parte delle istituzioni, in primis, da parte del legislatore, affinché si smetta di esaltare e, talvolta, di indicare come miti o “modelli” personaggi che sono solo dei criminali che spezzano vite, rubano e minacciano senza nessuno scrupolo. Personaggi del genere non sono eroi, non devono essere intervistati nelle trasmissioni televisive per promuovere i loro libri né ricevere applausi o l’inchino di simulacri religiosi, ma devono soltanto essere trattati per quello che sono, ossia dei delinquenti”, conclude Ascari. Campania. Il Garante: “Il 50% dei detenuti campani è vaccinato contro il Covid” andkronos.it, 15 maggio 2021 “3214 i detenuti campani vaccinati ad oggi, quasi il cinquanta per cento dell’intera popolazione penitenziaria presente in Campania”. Lo ha detto Samuele Ciambriello, Garante Campano delle persone private della libertà personale, spiegando che “i detenuti campani hanno effettuato il vaccino monodose, oltre il Pfizer per i soggetti ritenuti fragili, ed oltre ai minori detenuti nelle strutture minorili. “Il piano vaccinale nelle carceri adesso non si ferma - aggiunge Ciambriello - è una fondamentale protezione sanitaria da un virus così insidioso e infido. La priorità deve essere la ripresa di tutte le attività negli istituti penitenziari, dei colloqui in presenza, delle attività scolastiche e trattamentali, delle attività di volontariato nelle carceri, del lavoro dei detenuti all’esterno del carcere e la possibilità concreta, per questi ultimi, di ricevere i permessi premio”, spiega. Nel dettaglio i detenuti vaccinati a Salerno sono 191. “Dopo mesi di isolamento assoluto e di tensioni, il clima nelle carceri è sereno. I detenuti hanno dimostrato, in questo anno di pandemia, maturità e responsabilità. L’attenzione, però - conclude Ciambriello - deve restare comunque alta per evitare contagi dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria e di tutti coloro che a vario titolo entrano in carcere. La campagna di vaccinazione per personale e detenuti continua e ritengo che sia un obbligo morale vaccinarsi. Mi auguro, altresì, che in questo clima di normalizzazione anche le misure alternative al carcere possano riprendere a pieno ritmo”. Avellino. Carceri irpine, il 17 maggio la presentazione del Report 2020 avellinotoday.it, 15 maggio 2021 Il report è stato realizzato da Samuele Ciambriello, Garante Campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Nella giornata di lunedì 17 maggio alle ore 11:00 presso la sala del Consiglio Comunale di Avellino si terrà la presentazione del Report 2020 sulle criticità e buone prassi dei luoghi di privazione della libertà personale nella provincia di Avellino (Carceri, Misure alternative, Rems, Tso) realizzato dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello, in collaborazione con l’Osservatorio Regionale sulla vita detentiva. Dopo i saluti del sindaco di Avellino, Gianluca Festa, relazionerà il Garante Campano Samuele Ciambriello, seguiranno gli interventi del Procuratore Domenico Airoma, la coordinatrice del Tribunale di Sorveglianza di Avellino Giovanna Spinelli, il Consigliere dell’ordine forense di Avellino Raffaele Tecce, il Garante provinciale Carlo Mele e la responsabile regionale dell’osservatorio carceri dell’unione camere penali, Giovanna Perna. All’incontro sono stati invitati a partecipare i Direttori, Comandanti e coordinatori dell’Area Educativa degli istituti penitenziari avellinesi, l’Ufficio di esecuzione penale esterna, il referente della Rems, i consiglieri regionali della provincia, e le associazioni che a vario titolo operano presso gli istituti. Nuoro. Vaccini a tutti i detenuti e personale carceri del nuorese ansa.it, 15 maggio 2021 Assl, “siamo modello virtuoso nella sanità penitenziari”. Vaccinati tutti i detenuti e tutto il personale del carcere di Badu e Carros, a Nuoro, e della Casa di Reclusione di Lodè - Mamone (Onanì). Il risultato è stato raggiunto grazie alla collaborazione tra l’amministrazione carceraria, nella persona del Direttore, Patrizia Incollu, con tutto il personale della polizia penitenziaria, e la Assl di Nuoro, la cui equipe vaccinale, in una intensa giornata, ha vaccinato la popolazione detenuta senza alcun problema di sorta. “Il completamento, a tempo di record, della campagna vaccinale delle carceri da parte dell’Area Socio Sanitaria Locale di Nuoro - spiega la commissaria straordinaria dell’Assl di Nuoro, Gesuina Cherchi - centra pienamente la direttiva sulle priorità date dal commissario all’emergenza Covid nominato dal governo Draghi, il Generale Francesco Paolo Figliuolo, che aveva incluso tra le categorie prioritarie anche il comparto carcerario, in luoghi per definizione chiusi e, talvolta, sovraffollati. Ci auguriamo - continua - che il vaccino possa dare sollievo a tutti, e speriamo possa essere, oltre che una fondamentale protezione sanitaria da un virus cosi insidioso, anche una luce capace di alleviare le non meno faticose sofferenze psicologiche che la pandemia ha portato con sé”. Anche il direttore delle carceri di Badu ‘e Carros e Mamone, Patrizia Incollu, esprime soddisfazione per l’obiettivo raggiunto: “Anche in questa occasione lo sforzo da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del Servizio sanitario nazionale, al quale afferisce la salute nelle carceri, è stato corale, consentendo di avvicinare sempre più il traguardo delle carceri nuoresi Covid free”. Roma. Nel carcere femminile di Rebibbia c’è un errore di Attilio Bolzoni Il Domani, 15 maggio 2021 Anthony vive in una cella tutta sua e ancora lotta con il nome scritto sui documenti: Antonella. Schiacciato dall’esistenza, vorrebbe solo un’occasione: “Non merito forse anch’io un gesto di civiltà?”. Ci siamo incontrati il giorno di Capodanno nell’androne di un palazzo di Montespaccato, periferia romana dove lui stava passando le feste insieme a cinque donne. Siamo rimasti per un paio d’ore a parlare, fermi uno di fronte all’altro, fuori pioveva. Ma non era l’acqua che scendeva a trattenerci in piedi e immobili al freddo, Anthony non poteva uscire e io non potevo entrare. Dovevamo per forza stare lì, nell’androne. Il piccolo appartamento che divideva con le cinque donne era una “casa di accoglienza” che ospitava detenute di Rebibbia in permesso speciale, oltrepassare il portone era come fuggire, a tutti gli effetti un’evasione. Così, a Montespaccato, Anthony mi ha raccontato brandelli della sua vita e promesso, una volta tornato nella cella numero 85 della “sezione femminile” del carcere di Roma, che mi avrebbe donato “uno scritto dove spiego veramente chi sono”. Memorie che sono diventate un libro. Mi ha anticipato il titolo: Ero nato errore. È stato di parola, dopo un paio di settimane il suo diario mi è stato consegnato e in una notte l’ho letto tutto d’un fiato. Quella mattina di Capodanno mi aveva però già detto qualcosa, o forse mi aveva detto tutto: “Sono un uomo”. Cinque donne e Anthony - L’ho visto arrivare mentre salutava una ragazza cinese con un sacchetto della spesa fra le mani. Aveva addosso un giubbotto di pelle marrone scuro e un paio di jeans, scarpe di gomma chiare, si è presentato sfilandosi per un momento la mascherina: “Buongiorno, io sono Anthony”. Barba folta e baffi, sorridente, gentile, all’apparenza quieto nel ricordare un tormento lungo quasi cinquantaquattro anni. Mi ha confessato subito che nell’appartamento di Montespaccato ha trascorso giorni sereni “anche se, in verità, avrei preferito restare a Rebibbia”. Solo, nella sua cella, “perché ogni volta che entro o esco dal carcere ci sono momenti di forte imbarazzo con le perquisizioni personali e con i controlli all’esterno...”. Qualche sera prima di San Silvestro, nella casa di accoglienza sono saliti i carabinieri per la sorveglianza sulle detenute in libera uscita. Cercavano sei donne e hanno trovato cinque donne e Anthony. Cercavano anche un’Antonella. Ha fatto molta fatica a spiegare che quell’Antonella era lui. Telefonate in carcere, verifiche incrociate con “l’ufficio matricola”, un po’ di stordimento e alla fine i carabinieri se ne sono andati probabilmente non del tutto confortati dalle rassicurazioni ricevute. Antonella, sui documenti - Sulla carta di identità Anthony è Antonella C. nata il 3 marzo 1967 a Galatone, provincia di Lecce. Statura 1 metro e 60 centimetri, capelli neri, occhi celesti, segni particolari “sembianze maschili”. La foto accanto è decisamente quella di un uomo. È in carcere dal 2013 e ha pene da scontare per diciassette anni. Tutti furti, solo furti. Quelli che, da quanto ho capito e credo di non avere capito male, gli hanno consentito di non morire di fame. Ma oggi il suo problema, e non soltanto suo, è un altro: Anthony è l’unico uomo - almeno così si sente lui - in mezzo a 350 donne, tutte le recluse del “complesso penitenziario femminile più grande d’Europa” che è appunto la casa circondariale di Rebibbia. Anthony non condivide la cella con nessun’altra. Le agenti lì dentro non irrompono mai, bussano sempre, una delicatezza per rispettare la sua privacy. Fa poca vita comune, niente ora d’aria con le altre, i contatti con le detenute sono limitati alla lavanderia dove lavora. Gli hanno concesso di avere anche un rasoio per farsi la barba ogni mattina. È vicenda alquanto intricata quella di Anthony e il carcere, istituzione totale che il più delle volte non migliora certo la vita degli uomini e delle donne che per colpa o per sventura ci finiscono, è diventato il luogo dove più di ogni altro si sono manifestate le “contraddizioni” di Anthony e del suo corpo. E, paradossalmente, proprio il carcere potrebbe offrirgli la chance di una nuova identità, liberandolo dalla doppiezza che lo devasta. Il suo desiderio è avere in tasca un documento che attesti la sua mascolinità. Ci sta provando, non sarà facile però ottenere ciò che vuole. Il mistero è intorno al suo sesso. Confuso. Non è maschio e non è femmina ed è maschio e femmina insieme con organi sessuali non completamente sviluppati. C’è gran consulto di specialisti intorno ad Anthony. Memorie dell’infanzia - Nell’androne comincia a raccontare e a raccontarsi. Parla con calma, ha con sé qualche carta e appunti sparsi. Comincia da quando “il Mostro” - così chiama suo padre, mai per nome, mai papà - lo fa registrare all’anagrafe del comune di Galatone sei giorni dopo che viene al mondo dalla levatrice Angela Molducci “che, assistito al parto di Cecilia. P., moglie di Renato C., non potendo questi presentarsi perché lontano dal paese per motivi di lavoro” dichiara davanti a due testimoni “che è nato un bambino di sesso femminile alla quale dà il nome di Antonella”. Firmato l’ufficiale dello stato civile Antonio Inguscio. Un atto di nascita che è una condanna a morte per Anthony. Il padre fa il muratore, la madre tira su i figli, ne partorirà sette. Ma c’è poco da fare alla fine degli anni Sessanta laggiù nel Salento, i genitori decidono di emigrare in Germania, non vogliono o forse non possono portare con loro l’ultimo arrivato in famiglia. C’è una parente in Scozia, sposata con uno dei fratelli di suo padre. A sei mesi è con zia Ann a Inverness, una cittadina sulla costa nord orientale attraversata dal canale di Caledonia. Quella creatura che all’anagrafe è Antonella, a quattro anni confessa alla donna che lo cresce “che a lui piacciono le bambine”. Da quel momento la zia, “bellissima, alta, capelli rossi, mia unica e vera madre”, lo chiamerà Anthony. Ma non durerà a lungo la vita di Anthony e nemmeno la vita di Anthony nelle Highlands scozzesi. “Troverai tutto nel mio libro, i particolari anche di quella mattina che il Mostro venne a prendermi a Inverness per strapparmi via per sempre”, mi dice ricordando campi verdi, laghi, la neve dei lunghi inverni scozzesi. A pagina 19 del suo diario rintraccio quella giornata: “Alle nove del mattino sento zia che mi chiama... ci sono delle persone che ti vogliono, vedo una donna che mi prende in braccio stringendomi forte, ero impaurito, non la conoscevo. Mia zia mi disse che quella donna era la mia mamma... erano i miei genitori che dopo quattro anni erano venuti a trovarmi”. L’inferno a Luino - Il libro è firmato da Anthony con Nina Maroccolo, una scrittrice che entra a Rebibbia per un laboratorio di prosa e canto con il poeta Plinio Perilli. Nel 2013 l’incontro, nel 2014 “Ero nato errore” viene dato alle stampe da Pagine Editore. Sulla quarta di copertina, la Maroccolo scrive che la storia di Anthony sembra popolata da quei personaggi “del sottosuolo” che si ritrovano nelle opere di Dostoevskij. È il 1971 quando è prelevato “dal Mostro” e “dall’Estranea” (la madre) e “trasportato” da Inverness a Luino, in provincia di Varese. Un giorno i suoi genitori spariscono, vanno in Puglia, quando tornano gli presentano un fratello e una sorella che non ha mai conosciuto. Sono tutti e due più piccoli di lui, si chiamano Gianni e Claudia, fino ad allora avevano vissuto a Galatone con i nonni. L’inferno di Anthony comincia a Luino. È un bambino schiavo. Deve spolverare la casa dove abitano fino a farla brillare, altrimenti percosse. Deve spaccare la legna, altrimenti percosse. Deve badare ai fratellini. Non può giocare, non può uscire in giardino, non può incontrare altri bambini. Una volta il padre gli spezza un bastone sulla schiena: “Mi guardava con gli occhi pieni di odio, si scaraventava su di me come se fossi io che gli avevo fatto del male”. C’è vergogna in quella casa, c’è risentimento perché Anthony esiste. Dai quattro agli undici anni è un calvario. Solo botte e umiliazioni. In famiglia si confida soltanto con suo fratello Gianni, il “Mostro” quando è ubriaco prende a calci pure lui. E sono colpi di frusta o di cinghia, oltraggi, privazioni, tre giorni senza mangiare. Gianni una sera gli dice: “Perché non lo facciamo fuori, ci sono dei funghi, devono essere velenosi, li prendiamo e li sbricioliamo nel piatto”. Una notte Gianni scivola via dalla casa per incontrare una ragazzina, una corsa in motorino, l’incidente, Gianni muore. Il padre non glielo fa salutare nemmeno per l’ultima volta. Volare nel fiume - Gli anni passano e l’inferno non finisce mai. Trova un lavoro come saldatore a Varese, fa il giardiniere, lo stalliere, ripara frigoriferi. Ogni volta la paga la deve portare tutta a casa, al “Mostro”. Anthony un giorno scappa e si rifugia da una sorella, poi prende il primo treno per Torino. Una pensioncina in via Mazzini e comincia a cercare un lavoro: “Ma in qualsiasi posto dove mi presentavo e ogni volta che esibivo il documento la risposta era sempre negativa. e allora ho capito che non avevo speranza”. Anthony, per tutti, era sempre Antonella. Non ha più un soldo in tasca, di notte dorme nei casolari abbandonati, di giorno si trascina fra barboni e ragazze che si vendono, non ha vestiti, mendica cibo. Di tanto in tanto si sfama facendo il giro delle macellerie, chiede scarti per un cane che non ha. Ma le disgrazie non vengono mai da sole. Un pomeriggio Anthony sta male, perde tanto sangue dal naso, dopo una settimana è sul lettino di un ospedale. La diagnosi è crudele: un tumore al cervelletto. L’operazione e quattro mesi di chemio. Quando esce, sempre più distrutto, si getta nel Po: “Mi ricordo solo che ero fra le braccia dei pompieri che mi tiravano su...”. I furti e il carcere - È qui che comincia un’altra delle tante sue vite. Ed è quella che l’ha portato a Rebibbia. Anthony che non trova lavoro perché è Antonella, Anthony che non ha casa e non ha famiglia, Anthony che non ha amici, Antony che diventa un ladro. Ruba attuando sempre lo stesso piano. Si presenta in un bed and breakfast, si sistema nella stanza, aspetta il momento migliore per l’incursione nell’appartamento privato della proprietaria o di qualche altro ospite. A volte sono 60 euro, altre volte 80 euro e un anellino, una colla, un orologio. Soldi per mangiare. Girovaga per l’Italia, dopo Torino è a Firenze dove, con quello che riesce a racimolare con le incursioni nei bed and breakfast, compra una vecchia auto che diventa la sua casa. Dorme lì dentro. Lo pizzicano per la prima volta a Faenza, in provincia di Ravenna, il 26 gennaio 2010. La sentenza di condanna arriva il 28 maggio 2012. Il giudice riconosce “il disegno criminoso premeditato” sostenuto dalla pubblica accusa e per Anthony sono 4 mesi e 10 giorni di reclusione. I primi. A Trieste un’altra condanna a 1 anno e 4 mesi di reclusione. E poi, a catena, tutte le altre. Sempre furti, solo furti. È ancora libero e decide di andare a Roma. Passa dalla comunità di Sant’Egidio, una sera in una chiesa lì vicino incontra don Franco, “le solite parole del prete che anch’io sono Figlio di Dio ma non può aiutarmi e bla bla bla”, Anthony è disperato e coglie l’occasione al volo, “in un attaccapanni c’era la giacca del prete appesa, frugai nella tasca interna e c’era il suo portafoglio con dentro tre carte di credito e quasi trecento euro, presi i soldi mettendo a posto il portafoglio”. Dopo il furto entra in un bar e si compra “una bella ciambella calda morbida alla crema” ma ha anche la pessima idea di raggiungere Brindisi. In Puglia lo fermano a un posto di blocco, i carabinieri gli chiedono i documenti, il solito dramma: Anthony è Antonella. E, a mano, ha maldestramente anche corretto la data di scadenza dell’assicurazione della sua vecchia auto. Gliela sequestrano. Non perde solo una macchina, perde la casa. Torna a dormire in ripari di fortuna, nei campi tempestati di ulivi della campagna pugliese. Incontra un brav’uomo, Domenico, che gli presenta sua moglie Rosanna e i loro due figli. È un lampo di felicità in mezzo al deserto umano. Lo aiutano, per la prima volta trova qualcuno che ha un po’ di compassione. Ma dura poco. Perché Anthony torna a Roma, per un anno riesce a sopravvivere con piccoli “colpi” ma una sera lo fermano due poliziotti e una poliziotta. È il settembre del 2013: “Mi dicono che li devo seguire, quando arriviamo in questura mi comunicano che devono portarmi in carcere, io divento bianco come un lenzuolo e comincio a tremare...”. La donna poliziotta gli allunga un pacchetto di sigarette, apre il portafoglio e gli mette in tasca 10 euro. Schiacciato dall’esistenza - Sulle cronache dei quotidiani si ritrova qualche notizia su questo spaventoso passato di Anthony. Resoconti sbrigativi, da vecchio “mattinale” di questura. Un foglio del Salento titola: “La donna con i baffi che ha truffato mezza Italia”. Un altro giornale della Romagna scrive della sua “pericolosità sociale” e ironizza: “È donna ma rubava da uomo”. A Rebibbia Anthony sta in isolamento per due settimane, gli educatori capiscono che è un “caso speciale” e gli assegnano una cella singola. Ha qualche imbarazzo per la doccia in comune con le altre detenute, però resiste, resiste perché “nessuno mi può cambiare perché sanno anche in carcere che io sono Anthony”. Nel suo libro elenca “le agenti come posso dire, umane” che hanno avuto almeno una volta un’attenzione per lui. Ispettrice Roberta, molto disponibile. L’assistente Livia. Direttrice Pedote. Agente Veronica. La rossa che è rossa. L’agente Jessy con quei capelli neri lunghi e ondulati. Agente Lorella. Sovrintendente Carla. E l’assistente Marta, che quando ha il rossetto il suo sorriso si illumina. Anthony non ha un avvocato perché non se lo può permettere. Solo un difensore d’ufficio, per un po’ gli dà una mano l’avvocato Fabio Spaziani. Intanto gli anni di reclusione si accumulano. Disegno criminoso premeditato. Nelle pagine di Ero nato errore lui chiede e si chiede: “Ma non c’è una sproporzione evidente fra piccoli reati e grande pena? Non c’è l’esigenza civile di riconoscermi una difesa ponderata, insomma giusta? Non ho diritto a gesti veri di civiltà da parte di una società che si vanta e si dice civile? Io non sono uno stinco di santo, sono colpevole di tutto, ma non del brutto romanzo esistenziale che mi ha schiacciato”. Nell’androne del palazzo di Montespaccato, dopo un’ora che siamo lì a chiacchierare, Anthony mi confida che in carcere ha avuto momenti di intimità con una vicina di cella. “Roba vecchia però”. Mi assicura che a Rebibbia sta bene perché “ho un lavoro, mangio ogni giorno, ho un letto, mi posso lavare”. Nel suo libro ha affettuose parole per qualche detenuta: “Antonella, da quando ha iniziato a lavorare non facciamo quasi più qualche giocata a carte... Nichita, lei è addetta all’abbigliamento, quando trova qualcosa da uomo me la mette da parte, grazie Nichita... Berenice sa come addolcirmi con il suo tiramisù... Michela, che è addetta ai cani ed è bello vedere come si rapporta con i cani, amabile, peccato che sono un uomo perché se fossi un cane riceverei un sacco di coccole che dalla razza umana non ho mai”. Sul risvolto di copertina di Ero nato errore trovo un numero di telefono e un nome: Nina. Chiamo. Risponde Nina Maroccolo, la scrittrice che l’ha conosciuto a Rebibbia e con cui hanno scritto insieme. Le è stato vicino per molti mesi, prima gli incontri ogni martedì, poi anche due o tre volte la settimana. Il libro è un atto di amore. Non vede Anthony dal 2017 ed è sorpresa: “Ma come, è ancora rinchiuso in carcere? Io credevo che fosse finalmente in una comunità e avesse ottenuto la possibilità di lavorare fuori”. Anthony è ancora dentro e vi resterà fino al 2030, a meno che non sopraggiunga un indulto o un miracolo o una grazia che qualcuno vorrebbe chiedere al presidente della Repubblica. Il magistrato di sorveglianza di Rebibbia femminile Marco Patarnello conosce bene Anthony e le sue sofferenze. E sa che, prima di ogni altra cosa, lui deve modificare il suo stato anagrafico. Così com’è, fuori dal carcere, vivrebbe sempre una marginalità che gli porterebbe più male che bene. Napoli. 100 libri solidali per le detenute del carcere di Santa Maria Capua Vetere di Nunzia Marciano Il Mattino, 15 maggio 2021 Un’evasione, metaforica, dalle cellette spesso anguste e sicuramente sempre troppo piene di un penitenziario. Il carcere è quello femminile di Santa Maria Capua Vetere; l’evasione è quella possibile grazie alla lettura e ai quasi cento libro donati alle detenute attraverso “La Tienda”, una libreria e piccola bottega equosolidale con sede in Via Solimena a Napoli che raccoglie tante produzioni Made in Carcere o comunque biologiche e solidali, come il caffè, la piccola oggettistica e i piccoli gioielli nel solco appunto della solidarietà. Ed è stata proprio la piccola bottega napoletana il punto di raccolta dei libri, dove aver sensibilizzato i napoletani a donare testi di ogni tipo per le detenute. Una raccolta che ha permesso così, grazie al buon cuore dei cittadini, di riempire la biblioteca della struttura penitenziaria casertana. Attraverso l’associazione Carcere Vivo, presieduta da Carmine Uccello, i libri sono starai raccolti materialmente dalla Criminologia Patrizia Sannino, e portati direttamente al Reparto Senna di alta sicurezza del Carcere “Francesco Uccella”, dove è stata la Garante per i detenuti della provincia di Caserta Emanuela Belcuore a consegnare i libri: “Al di là della situazione ovviamente già difficile per le detenute, in questi giorni in cui si è festeggiata la festa della Mamma, il clima è stato ancora più pesante e con questi libri e con la possibilità di “distrarsi” all’interno del carcere, abbiamo cercato almeno di sollevare il morale permettendo un momento appunto di svago, anche perché finora erano stati sospesi i colloqui familiari per il Covid19. È un carcere sovraffollato come tutti”, spiega ancora la Garante, “ma la campagna vaccinale, a proposito di Covid19, è all’80% e possiamo esserne soddisfatti”. Pistoia. Detenuti diventano attori per “Stabat mater” di linda meoni La Nazione, 15 maggio 2021 Sold out per il cortometraggio con la regia di Tesi: le riprese quasi interamente avvenute nel carcere di Santa Caterina in Brana. Il pianto di quella madre è ormai asciutto, il suo dolore inconsolabile, e tutto intorno, metafora di quella lama che le trafigge il cuore, c’è un dolore diverso eppure anch’esso universale: quello che si porta dentro chi sconta una pena in carcere, con quel bagaglio di sofferenza amplificata che come una presenza assillante non abbandona mai il detenuto. Diventa finalmente patrimonio di tutti con la proiezione pubblica al teatro Bolognini mercoledì 19 maggio (ore 19.30) “Stabat mater” il cortometraggio con la regia di Giuseppe Tesi per Electra Teatro le cui riprese sono per la quasi totalità avvenute nel carcere di Santa Caterina in Brana con la partecipazione di un gruppo di detenuti a vestire i panni insoliti degli attori, affiancati dai professionisti Melania Giglio e Giuseppe Sartori. Una prova eccezionale che nel risultato dimostra di aver abbondantemente superato qualsiasi possibile ostacolo legato alla difficoltà del testo cui quest’opera si ispira, “Madri” di Grazia Frisina. Trenta minuti di girato in cui trionfa l’umana compassione, anche in quelle “stanze spiate” che sono le celle di un carcere, attraverso le vicende di un uomo che nella sua vita ha scelto di “percorrere i tratturi”, di “parlare coi muti e con gli idioti”, di stare dalla parte dei dimenticati e dei dissacrati, e il suo legame con la madre: “Osservatela, la stabat mater dolorosa, pallida e svilita, sta curva su di lui. Il suo pianto è diventato asciutto, cerca un altro cuore in cui potersi sciogliere”. A intervallare questo dramma senza fine, le storie dei detenuti che all’obiettivo della telecamera consegnano le rispettive sofferenze: “Ci sono rumori di stoviglie, di oggetti che mi ricordano che sono in carcere e sto pagando la mia punizione - confessa uno dei protagonisti -. Anche se la mia vera punizione non sono né il carcere né l’isolamento: la mia vera punizione è l’ozio cui questo luogo mi costringe”. E poi i drammi di altri reclusi, come quello che nella famiglia trova un motivo per rialzarsi e andare avanti, “so che il carcere è un passaggio, una tappa che segna la mia consapevolezza verso i reati che ho commesso” o come quello che nella detenzione ha scelto comunque di ritrovare “l’inizio di una nuova vita”. Girato nel post lockdown, “Stabat Mater” nasce come vera e propria “opera collettiva” sostenuta grazie al crowdfunding. Sostenitori di questa impresa sono, oltre a privati cittadini, la Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, la Fondazione Giorgio Tesi, la Fondazione Un raggio di luce, la Misericordia di Pistoia, l’Ordine degli avvocati, Teatri di Pistoia, Sds Pistoiese, Publiacqua, Publiservizi, Fondazione Conservatorio San Giovanni Battista, Fondazione Chianti Banca e Unicoop Firenze sezione soci Pistoia, insieme anche al Senato della Repubblica, che ha concesso il proprio patrocinio in occasione di questa nuova proiezione, la seconda, preceduta solamente da un’altra avvenuta proprio tra le mura di Santa Caterina in Brana nei giorni scorsi. Lo spettacolo è già andato sold out. Pannella, scandaloso galantuomo: ha governato più lui di De Gasperi di Andrea Pugiotto Il Riformista, 15 maggio 2021 Tutto di lui era eccessivo, anche il fisico: alto e massiccio ma scheletrico durante i digiuni. È stato il primo in tante cose, senza mai sentirsi tale: nella sua visione non esistevano avanguardie, ma solo persone in ritardo. Raccontare Giacinto Pannella detto Marco, classe 1930, scomparso cinque anni fa, esattamente il 19 maggio 2016. Vasto programma: la sua vita personale, infatti, si è intrecciata con quella collettiva così tante volte da rendere impossibile stringerle tutte insieme. Inevitabile, dunque, sarà risalire solo alcuni dei tanti affluenti che hanno alimentato il fiume in piena della sua biografi a politica. Ricordarlo, sia chiaro, non per farne un coccodrillo commemorativo né per censire tutte le battaglie radicali vinte o ancora da vincere. Qui interessa altro: cogliere alcuni dei tratti più innovativi e fecondi della sua prassi politica. Tentare, soprattutto, di individuare le costanti (culturali e di metodo) all’interno di quel carosello di battaglie di scopo di cui Pannella è stato protagonista. Riportarlo così tra noi, perché ancora contemporaneo. Come se fosse di nuovo qui, immerso tra le nubi tossiche di fumo pestilenziale che si addensavano sullo studio di Radio Radicale, che le memorabili conversazioni domenicali tra Pannella e Bordin trasformavano in una Seveso in sedicesimo. Parto dalla fine: Montecitorio, camera ardente allestita in onore del più volte deputato Pannella, luogo di fluviali omaggi (come lo fu la sua soffi tta romana, in via della Panetteria a due passi da Fontana di Trevi, nei suoi ultimi cento giorni di vita). A spezzare l’onda di commozione generale è una battuta di Giuliano Ferrara, avvicinatosi al feretro: “Volevo accertarmi che fosse morto davvero, con Pannella non si sa mai”. La prova regina che Pannella se n’era andato veramente è che in quei giorni - come è stato notato - sembrava quasi che il Partito Radicale avesse il 95% dei consensi, e non si sapeva. Una marea di riconoscimenti, messaggi, testimonianze, apprezzamenti da parte di tutto il mondo (politico e non) in memoria del leader radicale. La modifica dei palinsesti televisivi e le spaginate dei quotidiani a suo ricordo. L’elogio postumo delle sue battaglie politiche e delle sue preveggenti intuizioni. Santo subito (“Santo subito un cazzo!” avrebbe reagito lui, come chiosò La Gazzetta del Mezzogiorno). Una situazione mai sperimentata in vita. Marco Pannella ha raccolto, in morte, affetto e rimpianto vastissimi, come se fosse un leader di popolo, non il capo di una piccola nave corsara le cui battaglie, spesso e a lungo, sono state considerate non notiziabili. Come spiegare, allora, una simile sarabanda? Certamente con l’”industria dolciaria degli estinti” (Francesco Merlo) e l’”ipocrisia italiota, che glorifica i morti e odia i vivi” (Dimitri Buffa). Sì, anche, ma non spiega tutto. C’era ben altro dietro quel corale congedo, come meglio di tutti seppe cogliere un altro grande vecchio, Emanuele Macaluso: il riconoscimento unanime di “una vita politica clamorosa, che risalta di fronte alla miseria politica del presente”. Un’unicità anche umana diffusamente percepita, che spiega l’affetto autenticamente popolare che ha sempre circondato Pannella ben al di là della ristretta cerchia dei suoi compagni di lotta, un affetto che proveniva anche da chi, magari, in cabina elettorale non aveva mai votato per la Rosa nel Pugno. Tutto, di Marco Pannella, era eccessivo. A partire dal suo fisico: alto e massiccio, ma d’impressionante scheletricità durante i suoi digiuni, criniera candida raccolta in una curata coda di cavallo, cravatte carnevalesche, voce potente, bellissimi occhi azzurri penetranti, sorriso amaro e irridente, divoratore famelico di pastasciutta, tabagista oltremisura con certificato medico in tasca per poter fumare ovunque (“Me lo ha detto anche il dottore: se smetto di fumare, muoio”), bisessuale dichiarato eppure legato per quarant’anni alla compagna di una vita, Mirella Parachini. Aveva il phisique du rôle del combattente, vinto solo dall’alleanza mortale tra un tumore al fegato e un altro al polmone. Attraverso il suo corpo, Pannella ha introdotto cinquant’anni fa la biopolitica in Italia, in un’epoca in cui il soma e la sua concretezza erano estranei a una politica dominata dalle ideologie e dalle filosofie della storia. Non è stato solo un fatto di costume. Ha segnato autentiche fratture politiche, rompendo appartenenze di partito e ricomponendo inedite alleanze su issues capaci - alla lettera - di dare corpo al diritto e alla politica: divorzio e aborto, diritti degli omosessuali e fame nel mondo, inizio e fi ne vita. Ha segnato anche una rivoluzione comunicativa, facendo del proprio corpo ora un tazebao, ora un megafono per torrenziali interventi parlamentari, imbavagliandolo per meglio parlare al pubblico televisivo, travestendolo in modi giullareschi dettati, in realtà, da un uso astuto e consapevole dei meccanismi dell’informazione nella società dello spettacolo. Così facendo, Pannella ha dato evangelicamente scandalo, “uno scandalo inintegrabile”, come ebbe a scrivere Pier Paolo Pasolini. Eppure, l’ostensione del suo corpo è stata a lungo sbeffeggiata, tantissimo osteggiata e alla lunga ignorata, come se non meritasse attenzione. Accade ancora oggi ai radicali: come Rita Bernardini che, facendo le righe su e giù per via Arenula tra uno sciopero e l’altro della fame, cerca di tenere accesi i riflettori sui troppi corpi ammassati dietro le sbarre. Sembra di sentirlo, il rumore di sottofondo: “Che tedio!” questa smania di de-nutrire sé stessi per nutrire il dialogo con l’interlocutore, aiutato così a fare ciò che dovrebbe fare. Il solito “chiagni e fotti” dei Radicali, insomma, secondo la garbata penna di Marco Travaglio. Per il sistema dell’informazione, l’uso nonviolento del proprio corpo è come la musica andina (per Lucio Dalla): una noia mortale. Preferisce di gran lunga, per ragioni di audience, il vaffanculo urlato in piazza, la minaccia truce, la violenza consumata, meglio ancora il martirio. Disinteressato al corpo smagrito di chi lotta digiunando, è invece sempre pronto a regalare la ribalta al corpo contundente che si scaglia contro qualcuno o qualcosa. È davvero una “normale bestialità” (il copyright è di Valter Vecellio) che, per notiziare una causa, serva esibirla con forza bruta. Marco Pannella è stato il primo in tante cose, senza mai sentirsi tale: nella sua visione politica, infatti, non esistevano avanguardie, ma solo persone un po’ in ritardo. Vedeva e pre-vedeva scenari che gli altri non riuscivano neppure a immaginare. Qualche esempio? In anticipo su tutti, ha intuito la crisi della rappresentanza politica e della democrazia parlamentare, cui ha cercato di porre rimedio prima con la Lega per l’uninominale, poi promuovendo - con Mario Segni e altri - i referendum elettorali degli anni novanta. Ha predicato e praticato la nonviolenza come forma dell’agire politico, quando - da una parte e dall’altra - si usavano le armi “dialettiche” della spranga e della chiave inglese, si praticava la lotta armata e la si fiancheggiava con irresponsabile sicumera. Isolato e inascoltato, già negli anni settanta si scagliava contro le pensioni-baby, proponeva (con Marcello Crivellini) un piano di rientro dal debito pubblico, teorizzava la necessità di protrarre la vita lavorativa per rendere sostenibile il sistema previdenziale. Prima di tutti, ha intuito la globalizzazione delle decisioni politiche, trasformando il Partito Radicale in un aggregato transnazionale e impegnandolo in battaglie di respiro universale: la lotta per la fame nel mondo, cioè contro un ordine economico in disequilibrio e per il diritto all’ingerenza umanitaria; la moratoria all’ONU delle esecuzioni capitali, in vista dell’integrale abolizione della pena di morte; l’istituzione della Corte penale internazionale sui crimini di guerra e contro l’umanità, perché non c’è pace senza giustizia; la sua ultima battaglia, ancora in corso, per il riconoscimento del diritto umano alla conoscenza e per la transizione verso lo Stato di diritto. Eresie, allora e per i più. Il problema è che essere visionari non aiuta mai in politica, se significa arrivare troppo in anticipo sugli altri. Si rischia di passare per stravaganti, raccogliendo così percentuali elettorali da prefisso telefonico. Salvo poi, ma solo molto tempo dopo, vedere le proprie proposte diventare patrimonio comune, eredità collettive. È accaduto anche a una delle creazioni pannelliane di maggior pregio, Radio Radicale, sopravvissuta alle tante radio libere che negli anni settanta facevano controinformazione militante. Nessuno, allora, avrebbe scommesso un’oncia sulla longevità di un’emittente che, piratescamente, trasmetteva le sedute parlamentari rendendole davvero pubbliche (come esige l’art. 64 Cost.). E poi - nel tempo - i processi, i congressi di partito, le assemblee sindacali, le più importanti sedute del Csm e della Corte costituzionale, migliaia di eventi politici e culturali diffusi: tutto, da ovunque, per tutti, direttamente. Dilatando i tempi e rallentando i ritmi chapliniani dell’odierna informazione, Radio Radicale ha sempre privilegiato la riflessione alla sparata provocatoria: perché l’informazione serve al cittadino per sapere, capire, farsi un’idea, non per alzare o rovesciare il pollice, come plebe nel circo mediatico e nell’arena dei social media. Pannella era dottore in Giurisprudenza, ma solo per sbaglio: si laureò nel 1955, a Urbino, con una tesi sui Patti lateranensi scritta non da lui, discussa animatamente per due ore, riportando il punteggio più basso conseguibile: 86/110. Eppure, giuridicamente, era un sapiente. Credeva nel diritto come violenza domata, nella legalità quale regola e limite al potere, nella democrazia come conflitto senza spargimento di sangue. Sono i fondamentali del costituzionalismo liberale, sui quali ha saputo edificare un metodo di lotta politica capace di usare il diritto (lex) in funzione dei diritti (jura). Due soli esempi, giusto per capirci. In un Paese dove la rappresentanza politica non è elettoralmente accessibile a tutti, Pannella ha avuto il grande merito di scoprire la seconda scheda, quella referendaria. L’ha messa in mano a ciascun elettore, chiamato a decidere se abrogare una legge o - con i quesiti manipolativi - addirittura riscriverla. Attraverso questo inedito canale di decisione politica, i referendum radicali hanno permesso al Paese di esprimersi su temi altrimenti sequestrati, come il divorzio e l’aborto, la depenalizzazione delle droghe leggere e la fecondazione assistita. Hanno posto al centro del dibattito pubblico il tema del finanziamento ai partiti, la politica energetica, la responsabilità civile dei magistrati, le libertà economiche e sindacali. Negli anni di piombo e della fermezza (“La fermezza è stare fermi”, denunciava, non a torto, Pannella), hanno messo in discussione le leggi emergenziali, l’infinita durata della custodia cautelare, il porto d’armi, l’ergastolo. L’altro strumento giuridico concepito da Pannella è l’uso della questione di costituzionalità come canale alternativo di riforma legislativa. Disobbedendo pubblicamente a una legge ingiusta, il militante radicale vuole andare a processo per chiedere al proprio giudice di impugnarla davanti alla Corte costituzionale. E poiché la Consulta risponde non al consenso popolare, ma alla legalità costituzionale, quella legge - se illegittima - sarà cancellata. È così che l’Associazione Luca Coscioni ha smantellato le ideologiche norme proibizioniste sulla procreazione assistita. È la strada che Marco Cappato ha percorso per smascherare l’incostituzionalità del reato, previsto nel codice penale fascista, che puniva qualunque forma di aiuto al suicidio al pari della sua istigazione. Il referendum e la quaestio: tecniche nonviolente perché normate dal diritto, che permettono così a una forza politica di minoranza (ma non d’élite) di esprimere un’inedita vocazione maggioritaria. È uno degli insegnamenti pannelliani più importanti, perché predicato e praticato. Ora come allora: vale per l’accertata incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, inseguita e ottenuta da Nessuno Tocchi Caino; vale per le imminenti campagne referendarie dell’Associazione Coscioni sulla depenalizzazione dell’eutanasia di soggetti “non vulnerabili”, e del Partito Radicale sui temi della giustizia. Ci sarà pure l’altra faccia della luna, nella prassi politica radicale? Per molti è nel suo tratto più discusso e discutibile, l’antipolitica, di cui Pannella sarebbe stato il precursore. La parola allora all’accusa, che sgrana il lungo rosario d’imputazioni a suo carico: la candidatura nelle liste radicali della pornostar Ilona Staller, eletta deputata nella X Legislatura, remake del pitale dannunziano lanciato da un biplano sul Parlamento. La “lista Pannella”, prima formazione politica a recare nella denominazione e nel simbolo il nome del suo leader, aurorale deriva dei tanti sciagurati partiti personali che verranno. Le campagne elettorali a favore dell’astensione, scaltro escamotage per acquisire consenso a buon mercato. L’abuso dello strumento referendario, in aperta contestazione alla delega parlamentare. I tratti predicatori presenti nella sua comunicazione politica, fino alla retorica populista contro la partitocrazia. Le accuse antisistema mosse a organi costituzionali (su tutte, la Corte costituzionale quale giudice referendario, “suprema cupola della mafiosità partitocratica”). L’abuso dei regolamenti parlamentari in chiave ostruzionistica contro la maggioranza politica, sabotata nel suo potere di decisione. Le disinvolte alleanze - di destra, di sinistra, di centro - viste come pratiche di trasformismo. Uno smisurato narcisismo, riassumibile nella frase attribuita a Pannella - ma in realtà di Franco Roccella - “Chi non è con me è contro di sé”. La parola alla difesa. Totus politicus, Pannella non è mai stato un extraparlamentare, avendo una concezione quasi sacrale della politica e delle istituzioni. Il suo agire trasformando seguiva una propria coerente incoerenza in fatto di alleanze perché, per lui, contava solo la battaglia di scopo, non con chi la fai. La sua identità politica, infatti, non si è mai definita per opposizione a qualcuno, dunque poteva dialogare con tutti senza mai smarrirsi: stava dov’era meglio stare per far avanzare le proprie idee, contaminando gli altri senza mai corrompersi. Ecco perché vedere nel leader radicale un Beppe Grillo antemarcia è un abbaglio cognitivo, prima ancora che un incommensurabile e offensivo paragone. Oggi è il tempo dei politici a contratto, dei presidenti del Consiglio selezionati in base al curriculum, taroccato se necessario. Ecco quello di Pannella: deputato per quattro legislature (1976, 1979, 1983, 1987) ed europarlamentare per sei. Consigliere comunale a Trieste, Catania, Napoli, Teramo, L’Aquila, Roma, e consigliere regionale nel Lazio e in Abruzzo. Tra giugno e settembre 1992, per cento giorni, Presidente del Municipio di Ostia sciolto mesi prima per corruzione e infiltrazioni mafiose, dove lascia un segno (dalle ruspe dell’esercito chiamato ad abbattere le case abusive, al sorteggio anti-Cencelli delle commissioni): è stata, questa, la sua unica esperienza di amministratore. Negli ultimi vent’anni di vita non ricoprì più alcuna carica parlamentare, né fu nominato senatore a vita, pur avendone certamente i requisiti indicati dall’art. 59 Cost. Mai è stato chiamato a rivestire la carica di Ministro, neppure della Giustizia o degli Affari Esteri, o di Commissario europeo, per indicare tre sue evidenti vocazioni e dichiarate ambizioni. Eppure ha saputo realizzare più cose lui di più governi messi insieme. Un vero e proprio sperpero per il Paese, se confrontato alle improbabili biografie di tanti soggetti investiti di potere in questi anni, buoni a nulla capaci di tutto. Sappiamo però quale sarebbe stato il primo atto di un Pannella eletto al Quirinale: “Dimettermi, perché se il Paese mi eleggesse democraticamente vorrebbe dire che non ha più bisogno di me”. A pensarci bene, è la situazione esattamente capovolta dell’ex Primo ministro del governo Di Maio-Salvini, elevato per caso alla presidenza del Consiglio proprio perché non c’era bisogno di lui. Resta da dire dell’eredità politica lasciata da Marco Pannella. Per farlo, serve citare l’antipatizzante Giovanni Negri, già segretario del Partito Radicale dal 1984 al 1988: “Conosci l’Okavango? È il fiume più bello del mondo. Ma non sfocia nel mare, finisce nel deserto. Pannella è l’Okavango della politica”. È il rimprovero che molti gli fanno: non aver mai voluto incanalare la sua energia politica in una cornice di partito istituzionalizzato, lasciando così il Paese orfano di una significativa forza parlamentare, capace di rappresentare stabilmente un’area laico-democratica- riformatrice. È il limite di fondo dell’esperienza pannelliana anche secondo molti politologi (Angelo Panebianco, Massimo Teodori e Piero Ignazi, ad esempio), in tempi ormai remoti vicini ai radicali. La sua morte ha segnato anche la fine della storia radicale per come l’avevamo fin qui conosciuta. È il destino di qualsiasi comunità politica lasciata dal suo leader carismatico senza eredi, perché come lui nessuno più. Pannella, in fondo, al dopo non ci ha mai pensato, temendo gli apparati e la loro sclerosi. Ad essi ha sempre preferito una piccola, ma agguerrita comunità di compagni pronti a ricominciare ogni volta di nuovo, e ha sempre privilegiato la diaspora all’interno degli altri partiti di chi alla scuola radicale si era formato. Più e meglio della galassia radicale (implosa con inusitato e rancoroso livore, allo spegnersi del suo sole), è stata Radio Radicale a conservare indivisa l’eredità lasciata da Pannella: se ne rintracciano i segni nel palinsesto, nell’incredibile archivio audiovisivo, nelle battaglie di scopo di cui si fa emittente, nella pluralità di voci che non ne corrode la forte identità, testimoniata da quarantacinque anni di vita vissuta (e non sopravvissuta), ininterrottamente, nonostante tutto e tutti. E, come diceva Pannella citando Bergson, “La durata è la forma delle cose”. La voce del silenzio che seguirebbe alla sua chiusura, ciclicamente minacciata dalla maggioranza di turno, non sarebbe solo interruzione di pubblico servizio (che è un illecito penale e non una scelta che “sta nella libertà del Governo fare”, come ebbe a dire Vito Crimi, indimenticato gerarca minore del governo felpa-stellato). Sarebbe come zittire Pannella, silenziandone la voce. Nessuno ci è mai riuscito in vita, perché “Pannella sedato era una contraddizione in termini. Infatti non è durato nemmeno un giorno”, come scrisse alla sua morte un altro radicale libero, Massimo Bordin. Marco Pannella era un galantuomo, spesso ispirato dal sole, che scaricava le sue pistole in aria e regalava le sue parole ai sordi. Per molti una spina di pesce, di quelle che ti vanno di traverso e di cui non ti puoi liberare. Era il Signor Hood della politica italiana, come lo ha cantato Francesco De Gregori nell’omonima canzone a Pannella dedicata (“a M., con autonomia”). A chi - come me - ha ricevuto il grande dono di aver goduto della sua stima esigente e del suo affetto generoso e disinteressato, resta ancora oggi un di più di tristezza e di vuoto per la sua assenza. Da riempire, per quanto si è capaci, calpestando sempre nuove aiuole. E se l’eroe fosse un killer e il mostro una vittima? Una ballata che rovescia gli archetipi di Eraldo Affinati Il Riformista, 15 maggio 2021 “Minotauro”, di Friedrich Dürrenmatt, riproposto da Adelphi. Il grande scrittore svizzero si mette dalla parte della terribile creatura, trasformandola in una entità fragile, tesa alla semplice sopravvivenza. E Teseo non è più l’innocente ragazzo da sacrificare: i ruoli si ribaltano. Una volta uno dei miei studenti arabi si fece tatuare sul braccio la testa di un toro: avrei potuto raccontargli la storia del minotauro, rinchiuso da Minosse nel labirinto di Cnosso, ma sarebbe stato troppo lungo e fuorviante rispetto al risultato che con quel gesto lui evidentemente si prefiggeva: mostrare la sua forza, a stento trattenuta, la stessa in grado di spingerlo, qualche anno prima, a oltrepassare le colonne d’Ercole poste ai lati dello stretto di Gibilterra per raggiungere l’Europa, studiare, imparare la nostra lingua, trovare un lavoro, farsi una famiglia. Come spiegargli che dietro ogni volontà di potenza si nasconde sempre il timore della morte e niente e nessuno potrà mai sottrarci alle angherie e alle miserie quotidiane? Meglio lasciare che l’istinto trovi da solo i suoi canali prima di sfogo, poi di ravvedimento. È un ricordo che mi è tornato in mente dopo aver riletto Minotauro, pubblicato in forma di ballata nel 1985 da Friedrich Dürrenmatt e appena riproposto da Adelphi, con illustrazioni originali dell’autore, testo tedesco a fronte, nella traduzione di Donata Berra. Secondo il mito greco questo mostro, oggi particolarmente attivo negli schermi dei videogiochi, che Dante mise a guardia del cerchio dei violenti nel XII canto dell’Inferno, possedeva il corpo di un uomo e la testa di un toro. La madre, Pasifae, aveva ceduto alla lussuria non resistendo alle lusinghe del toro di Creta, fino al punto di arrivare a nascondersi nel ventre di una vacca di legno pur di congiungersi con lui. Il frutto, tragicamente incolpevole, di tale insana passione aveva quindi subìto le terribili conseguenze del fato sperimentando su se stesso una raccapricciante doppia natura. Eccolo lì, ridotto alla bestialità, costretto a cibarsi di carne umana. Le vittime che gli vengono concesse le sbrana senza alcun ritegno. La catena s’interrompe con la comparsa di un nuovo eroe: Teseo, uno dei giovani offerti in pasto al minotauro, il quale decide di ucciderlo. Arianna s’innamora di lui e lo aiuta a fuggire dal labirinto grazie al suo celebre filo. Il grande scrittore svizzero si mette dalla parte del minotauro, trasformandolo in una creatura fragile, teso alla semplice sopravvivenza. Inverte dunque, con piglio moderno, il ruolo dei due personaggi mitologici. Nella sua visione Teseo non è più l’innocente ragazzo da sacrificare, ma il killer del minotauro. Il luogo in cui questi è recluso viene descritto come un’orribile corte di specchi dove si riflettono un’infinità di gemelli: “Si ritrovò in un mondo di esseri accovacciati / senza accorgersi che quell’essere era lui. / Rimase come paralizzato. Non sapeva dov’era, / non sapeva che cosa volessero da lui quegli esseri, / forse era soltanto un sogno, anche se non sapeva / cosa fosse sogno e cosa realtà.” Come non pensare a ognuno di noi? Non è forse il labirinto la nostra esistenza, consumata nell’attesa di trovare un possibile varco di uscita e salvezza? In Franz Kafka l’intrico che ci vieta la fuga assume la dimensione del castello inaccessibile e segreto dove pochi funzionari, nominati da chissà chi, riuniti in misteriosi consessi, decidono sulla sorte dei sudditi. I verdetti di colpevolezza o assoluzione da loro formulati saranno comunque insindacabili, imperscrutabili. Con tutta la buona volontà, non riusciremo mai a venirne fuori. Ma le risonanze in Dürrenmatt, che non a caso sentenziò la fine del romanzo poliziesco svelando la dimensione farsesca di ogni possibile logica investigativa, sono ancora più ampie e profonde: si trascinano dietro come giocattoli colorati le intuizioni di tanti altri scrittori. Michel Leiris in Miroir de la tauromachie (1938) aveva di fatto simbolicamente connesso letteratura e corrida: a ben pensare scrivere è sempre una sfida nei confronti della finitudine. E poi non era stato proprio Ernest Hemingway, in una delle sue opere più intense e durature, cioè Morte nel pomeriggio (1947), a dirci che nessuno di noi, a prescindere dalla scelta compiuta, può sottrarsi al massacro? Il toro, qualora non carichi affatto, viene destinato alla castrazione e al macello… Se questa è la sentenza, il proprietario lo chiama bue, invece di dire toro che significa che è approvato per l’arena. Cesare Pavese, nei Dialoghi con Leucò (1947), suo libro-testamento, nel capitolo intitolato “Il toro”, fa dire a Teseo, sorta di primo matador: Quel che si uccide si diventa. Dove s’avvera la drammatica premonizione di Jorge Luis Borges: Lo crederesti Arianna? - disse Teseo. Il minotauro non sì è quasi difeso  (La casa di Asterione, in L’Aleph, 1952). In seguito Octavio Paz, nelle vertiginose riflessioni comprese in Congiunzioni e disgiunzioni (1969), aveva suggerito un legame fantasmagorico fra l’attività dello scrittore e quella del picador, siglando così per sempre la solitudine dell’uomo sudamericano. Tornando a Dürrenmatt: spaccare gli specchi, dove si moltiplicano le nostre false identità, consente al minotauro di scoprire la verità. Eppure, nel momento in cui si rende conto di non essere più solo e decide di fidarsi del prossimo di fronte a lui, il prigioniero subisce il vero tradimento. L’essere travestito da toro, insieme al quale ha ballato la danza dell’amicizia, altri non era che il suo nemico, pronto a pugnalarlo alle spalle. È questa, nella rappresentazione ritmica della composizione in cui prosa e poesia giocano ad armi pari, l’essenza di ogni politica: “Teseo si tolse dal viso / la maschera da toro e tutte le sue immagini / si tolsero dal viso la maschera da toro, / riavvolse il filo rosso e sparì dal labirinto, / e tutte le sue immagini riavvolsero il / filo rosso e sparirono dal labirinto, / che non rispecchiava più nulla se non, senza fine, / lo scuro cadavere del minotauro”. Con una chiusura, definitiva e apocalittica che, lasciando intravedere spazi allo stesso tempo urbani e primordiali, non lascia adito a nessuna illusione sulla cosiddetta civiltà: “Poi, / prima che venisse il sole, vennero gli uccelli.” Covid, Oms: “Non vaccinate i bambini, date le dosi ai Paesi poveri” di Davide Cavalleri La Stampa, 15 maggio 2021 L’appello del direttore generale: “Nel secondo anno di pandemia più morti del primo”. L’esortazione arriva chiara da parte del direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus: “Non vaccinate bambini e adolescenti, date le dosi a Covax”. È questo l’appello che l’Organizzazione mondiale della Sanità rivolge ai Paesi che sono a buon punto con la campagna di vaccinazione; Covax è, infatti, il programma nato per donare vaccini anti-covid alle Nazioni che hanno minori risorse per poterli acquistare. “Sento che alcuni Paesi vogliono vaccinare i propri bambini e adolescenti - ha aggiunto Tedros nella conferenza stampa di Ginevra - ma chiedo di riconsiderare la decisione di dare i vaccini a Covax”. Lo scenario che si è andato profilando in questi mesi è piuttosto preoccupante a detta dell’Oms: “In una manciata di paesi ricchi, che hanno acquistato la maggior parte della fornitura, i gruppi a basso rischio vengono ora vaccinati” sottolinea Tedros che ha anche avvertito come, stando ai dati attuali, si rischia un secondo anno di pandemia con più morti del primo. Le disparità nel mondo - In effetti, la campagna di vaccinazione anti-Covid fa registrare enormi differenze tra i Paesi. Se, infatti, in Nazioni come Israele, Stati Uniti e Gran Bretagna l’inoculazione delle dosi procede spedita, ci sono intere aree del globo in cui l’immunità è un lontano miraggio. Sono ancora molti i Paesi, soprattutto africani, in cui la percentuale di vaccinati si aggira intorno all’1%. La disparità di somministrazioni è un nervo scoperto che il programma Covax prova a sanare. Sud Sudan, Mali, Niger, Gabon, Zambia, Cameroon, sono solo alcune delle regioni in cui le dosi somministrare in proporzione alla popolazione sfiora lo 0%. In USA, invece, con oltre 266 milioni di dosi inoculate, sarebbero pronti a vaccinare i ragazzi dai 12 anni in su. In Italia i ragazzi possono attendere - In Italia, al momento, non c’è ancora l’intenzione di vaccinare ragazzi e bambini. Lo ha affermato oggi in conferenza stampa il direttore della Prevenzione del ministero della Salute, Gianni Rezza: “In questo momento va data la precedenza ai paesi piu poveri per la disponibilità delle dosi vaccinali, ma in seguito la vaccinazione dei bambini sarà da prendere inconsiderazione per un forte controllo dell’epidemia”. La pandemia accentua disparità tra genitori: le madri hanno perso il lavoro il doppio dei padri di Raffaele Ricciardi La Repubblica, 15 maggio 2021 Il calo dell’occupazione femminile nel 2020 è stato del 2,5%, contro l’1,5% degli uomini. Ma in presenza di figli in età pre-scolare, le madri occupate sono scese del 5,3% contro il 2,4% dei padri. E in azienda chi ha compiti di cura familiare ha il doppio di possibilità di andarsene. Quella che ci stiamo lasciando alle spalle non è solo una crisi economica, deflagrata al traino di quella sanitaria, che ha colpito maggiormente le donne. Dal Fmi in giù, in molti hanno sottolineato come si sia trattato di una “she-cession” Le donne, che sono maggiormente occupate nei settori dei servizi e dell’accoglienza falcidiati dai lockdown, hanno pagato un prezzo più alto al Covid. Ma se si tratta di donne con bambini piccoli, il costo lavorativo dell’emergenza è stato ulteriromente amplificato. I numeri rafforzano dunque l’evidenza quotidiana di un lavoro di cura estremamente sbilanciato. Non solo: anche all’interno delle aziende, i lavoratori che il posto l’hanno difeso hanno accusato il colpo psicologico del farsi carico di professione e caregiving, assistenza a familiari (piccoli o anziani). Al punto da andare in sofferenza il doppio di quel che è accaduto a chi non ha di questi oneri (e onori) e da immaginarsi con molta più frequenza in un’altra azienda nel prossimo futuro, in fuga dunque per non aver ricevuto il necessario supporto da parte della propria organizzazione. I figli piccoli “pesano” sull’occupazione - Già il World Economic Forum ha notato come la crisi del Covid abbia spostato in là di 36 anni la previsione del raggiungimento della parità tra generi, per 135 anni totali. Un’analisi di Prometeia, società di ricerca economica e consulenza, mette a fuoco quanto è accaduto in Italia tra smart working e didattica a distanza, proprio insistendo sulla variabile della presenza dei figli. Se nel consuntivo generale del 2020 il calo dell’occupazione femminile ha superato di un punto percentuale quello maschile (-2,5% rispetto a -1,5% tra gli uomini), la forbice si allarga in modo considerevole se si prendono in considerazione le donne con figli. Il divario più grande infatti si osserva tra i genitori di bambini in età prescolare (0-5 anni): sono il 5,3% le occupate in meno, a fronte del 2,4% dei padri. “Non c’è dubbio che i lavori più colpiti dalla crisi abbiano una prevalenza femminile, e in alcune professioni l’età media sia inferiore”, spiega Alessandra Lanza, senior partner di Prometeia. “Ma questo non ci fa sentire meglio. Purtroppo i dati statistici non ci permettono di rispondere alla domanda se il calo dell’occupazione femminile sia effetto di opt-out”, scelte consapevoli di persone che hanno preferito rimanere a casa per badare ai bimbi. “Servirebbero dettagli su livelli di istruzione, reddito e patrimonio. Se fossimo negli Stati Uniti, sarei più fiduciosa del fatto che sia frutto di una scelta. Purtroppo con la scarsa flessibilità del nostro mercato del lavoro, sulla base dei dati che abbiamo possiamo ritenere che siano soprattutto contratti a breve termine che non sono stati rinnovati nei settori molto colpiti”. A rafforzare la tesi che il carico di gestione dei bambini a casa forzatamente da scuola e nidi abbia giocato un ruolo determinante in questa crisi, gli economisti paragonano gli esiti sul mercato del lavoro di questo periodo con quel che accadde nelle crisi del passato, ad esempio quella del 2012. Ebbene, allora a un crollo dell’occupazione dei padri era corrisposto un aumento di quella delle madri, perché lavoratrici di settori tradizionalmente anticiclici. Nel 2020, invece, a soffrire maggiormente sono proprio le donne. La sperequazione dei compiti di cura emerge anche se si guarda il rovescio della medaglia, ovvero il differenziale nella partecipazione al mercato del lavoro. Giunto al minimo storico nel 2019, il divario nel tasso d’attività tra uomini e donne è tornato a crescere nello scorso anno. Se il delta è però di quasi 19 punti percentuali nel totale della popolazione, tra i genitori veleggia verso i 30 punti e se i figli sono in età pre-scolare arriva a quota 35: quasi il doppio del livello generale. Detto quel che è accaduto, è prevedibile un recupero? “Se l’andamento economico si confermerà a “V”, con una forte ripresa dopo il crollo - dice Lanza - possiamo dire con fiducia che si tratta di occupazione che può ripartire. È bene che il Pnrr insista sull’equilibrio di genere, sono convinta che l’incentivazione per legge sia necessaria nel Paese, come hanno dimostrato le quote rosa”. Il problema della convivenza tra attività di cura e di lavoro non è solo esploso nei numeri della disoccupazione, ma anche all’interno alle aziende. Aprendo a serie riflessioni tra i lavoratori sul proprio futuro professionale. Un colosso della consulenza come Bcg ha indagato l’impatto del Covid 19 sui lavoratori caregiver, oltre 14 mila dipendenti tra Usa, Uk, Germania, Francia, Spagna e Italia. Ne emerge un quadro di forte stress: il 46% delle madri e il 42% dei padri è preoccupato del proprio benessere mentale, percentuali che salgono al 50% e 44% per il benessere fisico (con risultati simili per chi assiste gli adulti). Il 31% delle madri e il 32% di padri con figli under 12 riscontra una diminuzione delle performance di lavoro e il 43% delle madri-lavoratrici si sente “svantaggiato” rispetto a chi non ha figli. Monia Martini, people e hr operations director di Bcg per Italia, Grecia, Turchia e Israele, invoca “maggiore sostegno da parte dei datori di lavoro” per i caregiver, in particolare in un contesto come quello italiano con la responsabilità di cura in larga parte femminile: “Sono indispensabili le politiche di gestione e incentivo delle risorse umane”. Eppure il 20% delle madri ritiene in media che queste esigenze non siano state comprese dai manager. Tanto che ora molte meditano la fuga. Il 16% di chi assiste un adulto e il 14% di chi ha un bambino sotto i 12 anni in Italia non si vede nella stessa azienda entro 6 mesi: un dato doppio rispetto a chi non deve prendersi cura di grandi e piccoli (8%). “Con il tessuto di Piccole e medie imprese italiano, è difficile che a riconoscere il ruolo di caregiver siano le singole aziende”, insiste però Lanza. “Servono politiche di tutele a livello pubblico, magari differenziate a seconda degli inquadramenti e della capacità reddituale: non si possono lasciare al buon cuore delle aziende”. Omofobia, il 70% degli italiani favorevole alla legge Zan. A destra oltre un elettore su due di Roberto Biorcio La Repubblica, 15 maggio 2021 Il disegno di legge Zan contro l’omotransfobia trova non poche difficoltà per l’approvazione al Senato, soprattutto per l’opposizione dei rappresentanti della Lega e di Fratelli d’Italia. È invece molto largo tra i cittadini il consenso per il disegno di legge rilevato dall’Atlante politico (70%). Il consenso è ampio in tutte le aree politiche e sociali, ma esistono differenze che possono influenzare i comportamenti dei partiti politici. Le differenze più rilevanti emergono tra le diverse fasce di età degli intervistati. I giovani sostengono quasi all’unanimità il disegno di legge Zan, mentre il consenso si riduce fortemente tra i più anziani, meno disponibili ad accettare e riconoscere i cambiamenti negli orientamenti sessuali e nell’identità di genere. Anche i cittadini con legami più stretti con la comunità ecclesiastica sono spesso critici o dubbiosi rispetto al disegno di legge contro l’omotransfobia. Queste opinione sono molto più diffuse tra gli intervistati impegnati settimanalmente nella pratica religiosa, spesso appartenenti alle generazioni con età più elevate. Opinioni diverse sulla legge Zan si osservano anche in relazione alla collocazione sociale e al livello di istruzione degli intervistati. Sono largamente favorevoli alla legge gli operai (88%) e soprattutto gli studenti (92%). Meno elevato è invece il sostegno dei lavoratori autonomi e delle casalinghe. In generale, tra gli intervistati più istruiti il consenso al disegno di legge è nettamente superiore rispetto a quello espresso dai cittadini con titoli di studio inferiori. Differenze significative si manifestano d’altra parte in relazione agli orientamenti politici e alle intenzioni di voto degli intervistati. Sono molto più favorevoli alla legge Zan gli intervistati di sinistra (81%) e di centro-sinistra (88%), mentre opinioni contrarie emergono più spesso tra quelli di destra (35%) o di centro-destra (27%). Differenze analoghe si possono rilevare anche nelle diverse aree elettorali. Un sostegno molto elevato rispetto al disegno legge contro l’omotransfobia è espresso dagli elettori dei partiti che sostenevano il governo Conte: il Movimento 5 stelle (87%), il Partito democratico (85%) e LeU (88%). Più differenze emergono invece fra gli intervistati orientati a votare per i partiti di centro-destra. Mentre gli elettori di Forza Italia esprimono un sostegno per il disegno di legge sostanzialmente simile alla media del campione (71%), nettamente più ridotto è invece quello degli intervistati orientati a votare per la Lega (60%) e per Fratelli d’Italia (55%). È interessante d’altra parte osservare che, mentre i parlamentari di centro-destra hanno cercato di opporsi e di ostacolare l’approvazione del disegno di legge Zan, la maggioranza dei loro elettorati lo sostiene. Il ddl Zan contro l’omotransfobia: ecco come funziona all’estero di Elena Tebano Corriere della Sera, 15 maggio 2021 Si tratta di una legge presente nei principali Paesi europei. I casi di Francia, Germania e Spagna. I primi Paesi in ordine di tempo a punire i crimini d’odio razziale, etnico, religioso, omotransfobico e sessista sono stati quelli anglosassoni: il Canada a partire dagli anni 70 e gli Stati Uniti e il Regno Unito dagli anni 90. Oggi le aggressioni contro l’omtransfobia e l’incitamento all’odio, alla violenza o alla discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale sono sanzionate in quasi tutta Europa. “Anche nei Paesi che si distinguono per una minor attenzione ai diritti umani, come la Georgia e l’Ungheria” spiega Luciana Goisis, professoressa di Diritto penale dell’Università di Sassari e autrice di una monografia su questi temi (Crimini d’odio. Discriminazioni e giustizia penale, Jovene). Hanno dunque leggi contro l’omotransfobia Inghilterra, Francia, Spagna, Germania, ma anche Croazia, Albania, Bulgaria, Cipro, Austria, Danimarca, Estonia, Grecia, Malta, Lituania, Irlanda, Islanda, Olanda, Romania, Svezia, Norvegia, Finlandia, Lussemburgo, Monaco, Montenegro, Portogallo. Nel 2004 inoltre il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che chiede agli Stati membri di “adottare legislazioni penali che vietino l’istigazione all’odio sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere”. Le differenze - In tutti questi ordinamenti, come nel disegno di legge Zan approvato in prima lettura alla Camera a novembre e ora all’esame del Senato, non viene punita l’espressione di idee critiche nei confronti delle persone Lgbt+, ma solo gli atti violenti o le affermazioni che spingono a commettere atti violenti o ledono la dignità delle persone. “La legge persegue i crimini d’odio e discorsi d’odio” spiega Anna Lorenzetti, professoressa di Diritto antidiscriminatorio all’Università di Bergamo. “I crimini d’odio sono condotte già vietate e sanzionate penalmente (reati) che si caratterizzano per essere commessi in ragione dell’appartenenza della vittima a un particolare “gruppo sociale”. Cioè per quello che è e non per quello che fa. I discorsi d’odio sono invece dichiarazioni intrise di odio che vengono punite solo se superano un livello di offensività che deve essere valutato in base alle circostanze del caso concreto”. Il caso francese - È stata riconosciuta come un crimine d’odio, per esempio, l’aggressione commessa nel 2019 in Francia da parte di tre ragazzi di 18, 19 e 20 anni, che sono stati condannati a sei mesi di prigione per aver picchiato e insultato una coppia gay, nel centro storico di Orléans, dopo che i due uomini si erano baciati davanti a un bar. Sempre in Francia, nel 2019, Jean-Marie Le Pen, fondatore del partito di estrema destra Front National, è stato condannato in appello a pagare 2.400 euro di multa per aver paragonato pubblicamente pedofilia e omosessualità, e per aver criticato la partecipazione del marito del poliziotto ucciso durante un attacco terroristico alla cerimonia in suo onore, definendola “un’esaltazione pubblica del matrimonio omosessuale”, che “deve essere tenuta lontana da questo genere di cerimonie”. I giudici non hanno invece considerato punibile un’altra sua frase: “Gli omosessuali sono come il sale nella zuppa, se non ce n’è abbastanza è insipida, se ce n’è troppo è imbevibile”, perché non era un incitamento all’odio e alla violenza. Nel 2018 infine la Cassazione francese aveva assolto la deputata Christine Boutin, capofila della campagna contro i Pacs (le unioni civili francesi) per aver “citato la Bibbia”, dichiarando che “l’omosessualità è un abominio. Ma non la persona. Il peccato non è mai accettabile, ma il peccatore è sempre perdonato”. “I giudici hanno stabilito che sebbene oltraggiosa, questa dichiarazione non contiene, nemmeno in forma implicita, un appello o un’esortazione all’odio e alla violenza nei confronti delle persone omosessuali” spiega Massimo Prearo, politologo dell’Università di Verona studioso dei movimenti no-gender, che ha passato in rassegna i casi di condanna per omotransfobia in Francia. Il punto di vista della Cassazione - Questa distinzione tra libertà di opinione e divieto di incitare alla discriminazione è anche al centro del ddl Zan, che non punisce la propaganda di idee (definita dalla Cassazione come qualsiasi “divulgazione di opinioni finalizzata a influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico ed a raccogliere adesioni”) ma l’istigazione all’odio, che - sempre secondo la definizione della Cassazione - è un “reato di pericolo concreto” e richiede che gli atti violenti o discriminatori siano una conseguenza delle parole sanzionabili, ovvero che le affermazioni sanzionate determinino un concreto pericolo di comportamenti discriminatori, e non si limitino ad esprimere una mera e generica antipatia. Ciò comporta, ad esempio, che una stessa dichiarazione di ostilità e pregiudizio non sia perseguibile se pronunciata tra amici al bar ma lo diventi se a proferirla è un politico durante un comizio. In generale comunque sono più frequenti le condanne per i crimini di odio (reati in cui l’appartenenza della vittima a un gruppo oggetto di pregiudizi determina un’aggravante) che quelle per i discorsi di odio. Si stima che solo nel biennio 2017-2018 siano stati denunciati oltre 90 mila reati con aggravanti d’odio - contro gli appartenenti a tutti i gruppi oggetto di pregiudizio, compresi neri ed ebrei - nel Regno Unito e circa ottomila all’anno in Germania. La legge spagnola - Anche in Spagna la legge punisce “coloro che pubblicamente incoraggiano, promuovono o incitano, direttamente o indirettamente, l’odio, l’ostilità, la discriminazione o la violenza contro un gruppo, una parte di esso o contro una persona specifica a causa della loro appartenenza ad esso, per motivi razzisti, antisemiti o altri motivi legati all’ideologia, alla religione o alle credenze, alla situazione familiare, all’appartenenza ad un gruppo etnico, alla razza o alla nazione, all’origine nazionale, al sesso, all’orientamento sessuale o all’identità, al genere, alla malattia o alla disabilità”. In base a questa legge, a luglio 2019, un uomo è stato riconosciuto colpevole, multato e condannato a sei mesi in prigione per aver minacciato di morte e offeso con insulti omofobi un giovane a Barcellona nel 2019 durante una lite per un parcheggio. Il 10 dicembre dello stesso anno, inoltre, un tribunale spagnolo ha giudicato sei membri del gruppo “Pilla Pilla” colpevoli di aver attirato uomini gay in falsi appuntamenti nel 2013 nella città di Granollers, averli filmati e averli accusati pubblicamente di pedofilia solo per il fatto di essere gay. Il leader del gruppo è stato condannato a sei anni di prigione per aver tentato tra l’altro di “far passare le sue vittime per pedofili” e per aver tentato di “associare omosessualità e pedofilia”. Le accuse - La legge spagnola contro i discorsi d’odio è però finita di recente sotto accusa, non per quanto riguarda la parte contro l’omotransfobia, ma per quella in cui vieta le offese alla monarchia, dopo il caso di Pablo Hasél, un rapper catalano che a febbraio è stato condannato per aver inneggiato al terrorismo dell’Eta e per aver insultato i reali spagnoli nei suoi testi. Non è il primo caso di artisti che vengono condannati per testi e performance considerati offensivi nei confronti della monarchia e il governo spagnolo si è impegnato a modificare la legge per eliminare le pene detentive per i reati che riguardano la libertà di espressione (nel Ddl Zan italiano è inserita a priori una clausola che la salvaguarda). La Germania - In Germania, il paragrafo 130 del codice penale dispone che chi, in maniera tale da disturbare la pace pubblica, incita all’odio o alla violenza contro un gruppo nazionale, razziale, religioso o etnico, contro parti della popolazione o contro un individuo a causa della sua affiliazione con uno o più dei gruppi summenzionati o lede la dignità umana di altre persone insultando, diffamando maliziosamente o calunniando un gruppo, parti della popolazione o un individuo per la sua appartenenza di gruppo o una parte della popolazione soprammenzionata, è punito con una pena detentiva da tre mesi a cinque anni. “Nell’applicazione di questa norma viene inclusa anche la discriminazione effettuata in ragione dell’orientamento sessuale, sebbene il codice non vi faccia esplicito riferimento. Questa mancata menzione di tale gruppo oggetto di stigma però è all’origine di una minor tutela delle vittime di crimini d’odio omofobico in quell’ordinamento” spiega ancora la professoressa Goisis. Il proprietario dello Steaua Bucarest - Un’altra tipologia di affermazione discriminatoria perseguibile per legge in Europa è quella fatta da Gigi Becali, imprenditore e uomo politico romeno (era tra l’altro il presidente del partito di estrema destra di ispirazione cristiano ortodossa Nuova Generazione, ora sciolto), che nel 2010 aveva dichiarato di non volere giocatori gay nella squadra di calcio da lui controllata, il Football Club Steaua Bucuresti. La Corte di Giustizia dell’Unione europea, nel 2013, ha stabilito che violava la normativa europea contro le discriminazioni sul lavoro fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o gli orientamenti sessuali. In Italia una condanna simile c’è stata nei confronti dell’avvocato e politico Carlo Taormina che nel 2013 aveva affermato di non voler assumere nel suo studio omosessuali. A dicembre dell’anno scorso la Cassazione ha sancito che la sua condanna non si pone in contrasto con il diritto alla libertà di espressione garantita dall’articolo 21 della Costituzione. La Corte Europea - La Corte europea dei diritti umani, infine, nel gennaio 2020 ha condannato la Lituania per non aver perseguito l’incitamento all’odio e alla violenza nei confronti di una coppia gay. I due uomini avevano pubblicato la foto di un loro bacio su Facebook, che era stata commentata con centinaia di messaggi di odio, alcuni diretti in generale alle persone lgbt+, altri direttamente alla coppia della foto. I due uomini avevano sporto denuncia alle autorità che però si erano rifiutate di aprire un’indagine preliminare. La Corte ha stabilito che la mancata indagine delle autorità lituane fosse dovuta a uno “stato d’animo discriminatorio” e che dunque abbia costituito una violazione dei diritti fondamentali tutelati dalla Convenzione europea per i diritti umani. La legge Mancino - I discorsi d’odio, infine, sono già puniti anche dalla normativa italiana, con la Legge Mancino, quando riguardano l’incitamento all’odio e alla violenza, la discriminazione e la violenza per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. Sulla base di questa norma nel febbraio dell’anno scorso 24 persone sono state condannate a vario titolo a pene fino a 3 anni e 10 mesi, in quella che la Polizia postale ha definito la prima vera pronuncia che condanna la diffusione dell’odio razziale attraverso la rete”. Si trattava di iscritti alla sezione italiana del sito neonazista Stormfront che avevano postato nel forum una serie di commenti antisemiti contro personaggi pubblici e di insulti ad esponenti della comunità ebraica. Il disegno di legge Zan, sul modello europeo, estenderebbe l’applicazione delle sanzioni previste dalla legge Mancino a “sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità”. I limiti della strategia di Mario Draghi sull’immigrazione di Vitalba Azzollini Il Domani, 15 maggio 2021 In un question time alla Camera, Mario Draghi ha delineato la propria strategia per l’immigrazione. Innanzitutto, la collaborazione con Paesi africani per il controllo delle frontiere, al fine di evitare le partenze. In secondo luogo, la riedizione del Patto di Malta, al fine di una redistribuzione efficace dei migranti. In terzo luogo, i rimpatri. Ma tutti questi punti presentano diversi limiti. E nel frattempo andrebbe anche cancellato il decreto interministeriale del 7 aprile 2020. Con la bella stagione si torna a parlare di migranti. I numeri degli sbarchi negli ultimi giorni fanno temere, oltre che per la sostenibilità dell’afflusso, per l’impatto che esso può avere sulla stagione turistica. In attesa del Consiglio europeo straordinario di fine maggio, dove si affronterà il tema delle migrazioni, il 12 maggio scorso Mario Draghi ha delineato una proposta di strategia in un question time alla Camera. La strategia del presidente del Consiglio si articola su tre direttrici: prioritariamente, “il contenimento della pressione migratoria nei mesi estivi con una collaborazione più intensa da Libia e Tunisia nel controllo delle frontiere”. Si tratta dell’approccio che ha caratterizzato le politiche non solo italiane, ma anche europee, negli ultimi anni: evitare che i migranti partano, finanziando gli stati che possono trattenerli. È questo lo spirito che impronta, ad esempio, il memorandum tra Italia e Libia, rinnovato nel 2020. Formalmente, l’accordo è funzionale a un’attività congiunta di contrasto “all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani e al contrabbando: a questo fine, l’Italia fornisce supporto tecnico e tecnologico”, consegnando motovedette e addestrando la Guardia costiera. Nella sostanza, l’obiettivo è - come detto - quello di evitare, avvalendosi dei libici, che i migranti arrivino sulle nostre coste. Da anni report dell’Onu e di organizzazioni umanitarie rendono noto che i migranti intercettati dalla Guardia costiera sono sottoposti a detenzioni arbitrarie in condizioni disumane, con torture e maltrattamenti. Si tratta di “indicibili orrori”, come li ha definiti il segretario generale aggiunto per i Diritti umani dell’Onu. Draghi ha parlato di impegno “a promuovere le opportune iniziative bilaterali; a condurre un’azione da parte dell’Unione europea affinché le autorità libiche contrastino i traffici di armi e di esseri umani nel rispetto dei diritti umani”. Sembra quasi un paradosso aspettarsi tutela dei diritti umani da parte di quella Guardia costiera che nei giorni scorsi, ad esempio, non ha esitato a sparare su un peschereccio italiano. Del resto, nel 2019 la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, riferendosi a quest’ultima disse che faceva “un buon lavoro” e lo stesso Draghi qualche settimana fa in Libia ha parlato di “salvataggi”. Dunque, nulla di cui stupirsi. In secondo luogo, Draghi ha affermato che il governo italiano è impegnato a “esercitare una pressione intra-europea affinché si torni a una redistribuzione efficace dei migranti”. Il presidente del Consiglio ha menzionato l’accordo di Malta, dicendo che “è in corso un fattivo dialogo con Francia e Germania per rivitalizzarlo” e “attivare subito un meccanismo temporaneo di emergenza per il ricollocamento”. Va ricordato che si trattava di un’intesa fra stati “volenterosi” per la ripartizione dei migranti, firmata nel settembre 2019 da Francia, Germania, Italia, Finlandia e Malta. Si prevedeva, tra l’altro, che il ricollocamento riguardasse solo gli stranieri salvati in mare, dunque non quelli arrivati con sbarchi autonomi e che, se il numero degli arrivi fosse aumentato in modo sostanziale, il meccanismo sarebbe stato sospeso. Erano molti i paletti dell’accordo che ora si vuole riesumare, e ad essi si aggiunse la scarsa adesione da parte dei paesi europei. Oggi, in una situazione di pandemia e con campagne di vaccinazione di massa ancora in corso, può reputarsi che tali paesi non sarebbero maggiormente disponibili a ricevere persone provenienti da stati che non hanno le possibilità per somministrare vaccini. Oltre alla normale accoglienza, servirebbe predisporre spazi adeguati e controlli anti-Covid, anche per non vanificare i risultati di immunizzazione già raggiunti. Dunque, si dubita che la riedizione del Patto di Malta, il cui fondamento è la volontarietà, possa essere risolutivo. In terzo luogo, Draghi ha detto che “una leva necessaria di governo dei flussi migratori è costituita dall’azione di rimpatrio dei migranti che non hanno titolo a rimanere sul nostro territorio, in mancanza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale”. Com’è noto, anche il tema dei rimpatri è ricorrente, con tutte le difficoltà connesse: in primis gli accordi con i paesi di provenienza dei migranti. È singolare che sia raramente richiamata la norma del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea ai sensi della quale, tra l’altro, la Ue può “concludere con i paesi terzi accordi ai fini della riammissione” di persone non in linea con le condizioni per l’entrata o la permanenza nei paesi dell’Unione. Nella stipula di accordi di rimpatrio la Ue avrebbe una forza contrattuale maggiore dei singoli stati. Va anche rammentato che i rimpatri sono uno degli elementi del Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, presentato nel 2020, basato sul concetto di “solidarietà flessibile volontaria”: gli stati potranno scegliere tra ricollocazioni, rimpatri sponsorizzati e supporto operativo. In altre parole, essi potranno mostrarsi “solidali” facendosi carico del ritorno del migrante nello stato da cui proviene o in altro modo, senza impegnarsi all’accoglienza. Ma anche di accoglienza c’è bisogno, come detto. Un’ultima considerazione. “Sull’immigrazione il governo vuole seguire una politica equilibrata efficace e umana, nessuno sarà lasciato solo in acque territoriali italiane” ha affermato Draghi. Premesso che l’obbligo di salvare vite umane, in acque territoriali proprie o altrui, è un principio fondamentale, che lo si espliciti o meno, sarà bene ricordarsi di abrogare formalmente un decreto interministeriale del 7 aprile 2020, in vigore “per l’intero periodo di durata dell’emergenza sanitaria”. Con tale decreto il ministro delle Infrastrutture, di concerto con quelli degli Affari esteri, dell’Interno e della Salute, chiuse i porti italiani alle navi straniere che effettuassero salvataggi al di fuori dell’area Sar italiana. In pratica, le navi delle ong. Il provvedimento dispone che i porti italiani non siano considerati “sicuri”, causa Covid-19, e rimette al “paese di cui le unità navali battono bandiera” le “attività assistenziali e di soccorso”, poiché accogliere naufraghi significherebbe “compromettere la funzionalità delle strutture nazionali (…) di assistenza e cura”. Insomma, una perifrasi della formula “prima gli italiani”. Si tratta di un decreto che, per coerenza, e dato che Salvini insiste con i “porti chiusi”, sarebbe meglio cancellare. Migranti. Richiedenti asilo, è peggiorato l’accesso al sistema abitativo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 maggio 2021 C’è un enorme problema per quanto riguarda l’accesso al sistema abitativo per i beneficiari di protezione internazionale. Il 43,3% vive in una casa in affitto, il 42,3% in centri di accoglienza, il 12,4% ospite di parenti o amici. Sono i dati del rapporto della Fondazione Ismu, realizzato nell’ambito del progetto europeo “The National Integration Evaluation Mechanism (Niem)”. Il report, dal nome “Beneficiari di protezione internazionale e integrazione in Italia. Focus sull’accesso al sistema abitativo”, presenta i risultati della seconda fase di valutazione realizzata nel 2020. La condizione dei beneficiari di protezione nel nostro Paese viene inoltre confrontata con la situazione degli altri paesi partner soprattutto per quanto concerne la dimensione dell’abitare. Obiettivo di questo report è, infatti, quello di porre l’attenzione su alcuni aspetti tipici del sistema asilo in Italia, quali l’accoglienza e la gestione delle domande, approfondendo inoltre un tema di grande interesse quale quello dell’autonomia abitativa. Tale scelta è dettata dalla volontà di considerare una tematica spesso ritenuta minore rispetto, per esempio, all’accesso al mercato del lavoro, ma che invece rappresenta un tassello fondamentale all’interno del puzzle delle politiche di integrazione di coloro che chiedono o hanno ottenuto protezione in Italia. L’accesso al sistema abitativo per i soggetti più vulnerabili è infatti un pilastro fondamentale del processo d’integrazione. A fronte di una domanda crescente di alloggi da parte delle famiglie straniere e delle persone migranti, secondo i dati del report la risposta risulta ancora debole e non in grado di soddisfare tale richiesta. Di contro, la questione dell’abitare, e soprattutto dell’abitare dignitoso, non rappresenta oggi in Italia un tema centrale nelle politiche pubbliche dirette all’inclusione generando un gap di rilievo nel processo verso l’autonomia delle persone. Nel report emerge che tra i soggiornanti per asilo o richiesta di asilo c’è in Italia, al 1° gennaio 2020, un rapporto di un migrante in situazioni d’alloggio particolarmente critiche e non assistite (occupazioni abusive, sistemazioni precarie, ecc.) per ogni 38 accolti in strutture d’accoglienza; con un valore ancora migliore, uno a 74 nelle Isole (dove dunque l’accoglienza da questo punto di vista è particolarmente diffusa), e risultati sopra la media nazionale sia al Nord- ovest (uno a 41) sia e ancor di più al Nord (uno a 45). Nel contempo, peggiore si prospetta la situazione nel complesso al Sud, con un migrante con permesso di soggiorno per asilo o richiesta di asilo in occupazioni abusive o sistemazioni precarie ogni 34 con il medesimo status giuridico- amministrativo del soggiorno ma in strutture d’accoglienza, e soprattutto nel Centro Italia laddove il medesimo rapporto scende a uno ogni 27. L’altra grande differenza territoriale che emerge dai dati è quella tra le sistemazioni in affitto pagante, diffusa soprattutto al Sud dove è la modalità abitativa di maggioranza assoluta tra i migranti richiedenti asilo o con un permesso di soggiorno in seguito ad una domanda di protezione internazionale, e l’ospitalità gratuita da parenti, amici, conoscenti, diffusa in particolar modo nel Centro Italia e anche nelle Isole e molto meno altrove. Tra gli obiettivi del report vi è la volontà di realizzare una comparazione tra i diversi Stati partner. Per questo è stato realizzato un questionario grazie al quale poter effettuare una valutazione fondata su un sistema di punteggi. Emerge, e non sorprende, che i Paesi più virtuosi sono la Svezia e l’Olanda in quanto noti contesti altamente inclusivi e accoglienti soprattutto da un punto di vista delle norme. L’Italia sta nel mezzo, ma in via di peggioramento: ciò è spiegabile per l’operare nel periodo considerato dei due decreti sicurezza del 2018 e 2019 che hanno portato a una maggiore chiusura, non solo rispetto agli ingressi, ma anche rispetto alle possibilità di integrazione rivolte a determinati gruppi migranti. Housing sociale e co-housing: le strategie per trovare un alloggio Il sistema immobiliare italiano ha numerose criticità, a queste si aggiunge un ulteriore variabile rappresentata dall’atteggiamento di sempre maggior chiusura nei confronti dei migranti (compresi i beneficiari di una qualche forma di protezione). Tale situazione viene spesso esasperata da una erronea narrativa sui fenomeni migratori che diffonde immagini di “invasioni” o di “italiani posti in secondo piano rispetto ai migranti nell’accesso ai servizi”. A fronte di questa situazione di evidente marginalità, il Report della fondazione Imu illustra le diverse iniziative promosse e/ o gestite da enti pubblici e/ o enti del terzo settore per facilitare l’autonomia abitativa di richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale in Italia: housing sociale e il co- housing. L’housing sociale è stato definito dall’organizzazione europea che rappresenta i soggetti impegnati nel settore come l’insieme delle attività atte a fornire alloggi adeguati, attraverso regole certe e trasparenti di assegnazione a famiglie che riscontrano difficoltà, nella ricerca di un alloggio alle condizioni di mercato, in quanto penalizzate dal fatto di non riuscire ad ottenere un credito sufficiente o perché portatrici di specifiche necessità. In Italia, il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, che ha in carico anche il sistema immobiliare nazionale, identifica tra le possibili cause di tali situazioni la trasformazione delle strutture familiari, i fenomeni migratori, la povertà e la marginalità urbana. I fondi stanziati dal ministero sono quindi necessari per la programmazione, insieme agli Enti locali, di interventi che rispondano alla forte richiesta di alloggi sociali. Il report di Imu, rende noto anche un altro sistema diffuso in Italia e che coinvolge sempre più le famiglie di stranieri, anche in uscita dal sistema di accoglienza, è rappresentato dal co- housing. Si tratta di una pratica sviluppata dapprima nell’Europa del Nord (Paesi Bassi e repubbliche scandinave) e poi implementata anche in altri paesi europei e di oltreoceano. Il co- housing o coresidenza intende promuovere la collaborazione tra gruppi di persone al fine di creare spazi abitativi caratterizzati da privacy e condivisione19. Tale prassi, quindi, richiama l’antico modo di vivere il vicinato attraverso atteggiamenti di solidarietà e mutuo- aiuto senza, tuttavia, rinunciare alla propria indipendenza. Allo stesso modo, si tratta di una pratica capace di rispettare l’ambiente dal momento che alcuni servizi in condivisione permettono di diminuire gli sprechi e l’inquinamento. Il rovescio della medaglia, soprattutto in Italia, è rappresentato dal rischio di diminuire il decoro di questo tipo di abitazioni dal momento che sono destinate, nella maggior parte dei casi, ad un target svantaggiato e che non potrebbe accedere a soluzioni abitative differenti. Il co- housing rivolto a rifugiati e migranti in generale ha dato modo di evidenziare le potenzialità di una simile formula abitativa dal momento che va a replicare abitudini già in essere nel paese di origine. La vita di comunità, intesa anche come condivisione di spazi vissuti da intere famiglie, è di fatti lo stile preferito da molti migranti. Tale modo di vivere diventa poi una necessità nel paese di accoglienza per riuscire a gestire gli impegni quotidiani. Si tratta quindi di una esigenza che porta a motivare l’auto-ghettizzazione che spesso si palesa soprattutto in città più grandi dove membri della stessa comunità tendono a vivere nello stesso quartiere al fine di offrire un supporto reciproco sia per la ricerca del lavoro sia per lo svolgimento della quotidianità. Migranti. Nave Gregoretti, il giudice assolve Salvini: “Non luogo a procedere” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 15 maggio 2021 Per il Gup Nunzio Sarpietro l’operato dell’ex ministro dell’Interno è stato una legittima conseguenza di insindacabili scelte politiche e non costituisce reato. Non luogo a procedere. Il processo penale per il caso Gregoretti a carico di Matteo Salvini finisce qui, nell’aula bunker di Bicocca a Catania dove il giudice delle indagini preliminari Nunzio Sarpietro ha letto la sua decisione. Con la quale ha comunicato alle parti che non ci sono, a suo avviso, gli elementi per mandare l’ex ministro dell’Interno davanti ad un tribunale per rispondere dei reati di sequestro di persona e abuso d’ufficio per aver tenuto bloccati 164 migranti salvati nel 2019 sulla nave Gregoretti della Guardia costiera italiana nell’attesa che i Paesi europei solidali formalizzassero la loro disponibilità ad accogliere parte dei migranti. Differenze con Open Arms - Un verdetto che significa molto per Matteo Salvini e non soltanto perchè è diametralmente opposto a quello pronunciato tre settimane fa dal gip Lorenzo Iannelli a Palermo, dove invece Salvini dovrà tornare a settembre per il processo che lo vedrà sul banco degli imputati a rispondere degli stessi reati ma per i migranti soccorsi qualche mese dopo dalla Open Arms e fatti sbarcare poi a Lampedusa solo dopo l’intervento del procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio. Salvini: “Quando torno al governo farò lo stesso” - Il leader leghista, subito dopo il verdetto, ha detto ai giornalisti: “Quando gli italiani torneranno a votare e mi restituiranno la responsabilità di governo farò esattamente la stessa cosa perchè l’immigrazione come quella di lamepdusa con 3mila sbarchi in un fine settimana porta il caos e l’italia non ha bisogno di caos in questo momento”. Poi, rivolto agli alleati della attuale maggioranza, ha aggiunto: “Spero che la sentenza sia utile agli amici del Pd e del M5S, le battaglie si vincono o in Parlamento o nelle campagne elettorale”. Gregoretti: Salvini agì con il consenso di tutto il governo - Il verdetto di Catania per Salvini vale doppio perché è in qualche modo nel merito. Il gip Sarpietro infatti (che adesso entro 30 giorni dovrà depositare l’ordinanza motivando la sua decisione) ha di fatto svolto un piccolo processo chiamando a testimoniare in aula nei mesi scorsi l’ex premier Giuseppe Conte, gli ex ministri Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli e l’attuale ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e degli Esteri Luigi Di Maio. E dalle testimonianze ha avuto la conferma che la politica migratoria di Salvini, come da sempre affermato dal leader della Lega, faceva parte del contratto di governo ed era dunque condivisa dagli alleati dell’esecutivo anche se poi la responsabilità delle decisioni operative (come ad esempio assegnare il porto di sbarco alle navi di soccorso dei migranti) era solo di Salvini e da lui fu esercitata senza coinvolgere con alcun atto formale il Consiglio dei ministri. Ma - evidentemente - per il gip Sarpietro, l’operato di Salvini è stata una legittima conseguenza di insindacabili scelte politiche e non costituisce reato. Da qui la decisione di dichiarare il non luogo a procedere nei confronti di Salvini come per altro sollecitato oltre che dal difensore del leader della Lega, Giulia Bongiorno, anche dalla Procura della Repubblica che ha sempre tenuto ferma la decisione del procuratore Zuccaro di chiedere l’archiviazione del caso poi finito in un’aula di giustizia solo per l’intervento del Tribunale dei ministri. Quest’ultimo di diverso avviso, ha chiesto e ottenuto dal Senato l’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini. Gran Bretagna. Stop alla reclusione di cittadini Ue sprovvisti del visto di lavoro La Stampa, 15 maggio 2021 Nuove linee guida più soft del governo dopo le polemiche. Stop alla detenzione in centri di raccolta e di reclusione per migranti per i cittadini Ue fermati all’arrivo nel Regno Unito poiché sprovvisti del visto di lavoro divenuto obbligatorio in base alla stretta sull’immigrazione del dopo Brexit imposta dal governo di Boris Johnson. Lo ha stabilito lo stesso governo, dopo le polemiche sul trattamento inflitto nelle ultime settimane ad alcune decine di persone in attesa di rimpatrio, soprattutto giovani, fra cui anche alcuni italiani, indicando nuove linee guida ad hoc più soft per la polizia di frontiera. Le linee guida aggiornate sono state diffuse in queste ore dall’Home Office, il ministero dell’Interno britannico, come riporta il Guardian. E prevedono che nei casi come quelli denunciati nei giorni scorsi dai media sia evitata la detenzione e consentito invece da parte degli addetti alla dogana un ingresso su cauzione nel Paese - in particolare a chi disponga di un domicilio dove stare, ospite di amici o di familiari - fino al primo volo disponibile per il ritorno alla destinazione d’origine. “Mentre i viaggi internazionali sono limitati a causa della pandemia da Covid, abbiamo deciso di aggiornare le nostre linee guida per chiarire che ai cittadini stranieri in attesa di rimpatrio, inclusi quelli dell’Ue, cui sia stato rifiutato l’ingresso debba essere garantito il diritto d’immigrazione temporaneo su cauzione, laddove appropriato”, ha detto una portavoce dell’Home Office. Pur non senza ribadire che “la libertà di movimento” automatica con i 27 “è finita” dal primo gennaio e che i cittadini dell’Ue “possono sì entrare nel Regno Unito, ma se vogliono venire per lavorare o studiare devono sottoporsi alle nuove regole”. Regole che prevedono il rilascio di un visto a condizioni specifiche e che vanno verificate “prima di partire”. Stati Uniti. Malato terminale verrà mandato alla forca in sedia a rotelle di Valerio Fioravanti Il Riformista, 15 maggio 2021 L’Idaho giustizierà un italoamericano: Gerald Ross Pizzuto. Diciamolo subito, il tipo non ispira simpatia, e nonostante l’Associated Press metta la definizione di “Italo-Americano” nel titolo della notizia, l’uomo è nato in California, seppure da genitori italiani. Pizzuto, che ora ha 65 anni, è stato condannato a morte nel maggio 1986 per il duplice omicidio di Berta e Del Herndon, avvenuto nel 1985. Al momento dell’arresto, Pizzuto era anche ricercato per due omicidi avvenuti qualche mese prima nello Stato di Washington, quelli di Rita Drury e di John Jones. Tutti gli omicidi erano a scopo di rapina, con bottini di poche centinaia di dollari. L’esecuzione di Pizzuto, che sarebbe la prima in quasi nove anni in Idaho, è stata fissata per il 2 giugno, nonostante l’uomo abbia un cancro alla vescica allo stadio terminale, disfunzioni cardiache rilevanti, episodi costanti di perdita di memoria e di disorientamento generale, e diabete. Al lettino dell’esecuzione dovrà essere portato in sedia a rotelle. Il progetto giornalistico no profit “The Marshall Project”, che si occupa di casi controversi di giustizia penale, sta facendo rimbalzare la vicenda sui media. L’argomento, che negli Usa funziona meglio di tutti gli altri, è lo “spreco di denaro”. Perché spendere molto denaro per uccidere un uomo che è già in carcere da 36 anni, da 34 in isolamento nel braccio della morte, e che ha pochi mesi di vita? Negli scorsi anni i suoi difensori avevano insistito sul basso quoziente intellettivo, 72 punti, che lo collocano appena 2 punti sopra il livello usualmente riconosciuto per la disabilità intellettiva. I ricorsi sono stati respinti, l’ultimo nel 2019, sostanzialmente perché la legge in Idaho (come in molti altri Stati) riconosce come “prova” del ritardo una certificazione ufficiale che sia stata rilasciata all’imputato prima che commettesse il reato, e quasi sempre pretende che questa certificazione sia stata rilasciata prima del compimento dei 18 anni. A causa del rischio di “simulazione”, una certificazione successiva, soprattutto se rilasciata durante la detenzione, non ha per le corti un livello probatorio sufficiente. Pizzuto e un altro detenuto nel braccio della morte dell’Idaho, Thomas Creech, hanno citato in giudizio lo Stato per quella parte del protocollo di esecuzione che consente all’Amministrazione Penitenziaria di modificare l’iniezione letale secondo le proprie necessità, senza una verifica né del Parlamento, né di altre autorità politiche. Questa mancanza di trasparenza viene periodicamente sollevata dai difensori dei condannati a morte, e spesso accolta dalle corti federali. Poi interviene la Corte Suprema degli Stati Uniti, che fino a oggi ha sempre respinto questo tipo di ricorsi, e non c’è motivo di credere che l’attuale composizione della Corte Suprema, con i giudici ultraconservatori nominati da Trump, inverta la tendenza. Un aggiornamento ci dice che l’11 maggio gli avvocati di Pizzuto hanno presentato una richiesta di “clemenza”. Argomentano che l’uomo è ricoverato da due anni nel centro clinico della prigione, e i medici penitenziari confermano che non ha un anno di vita. Gli avvocati ricordano alcune circostanze che all’epoca del processo la giuria popolare non ritenne sufficiente a costituire un’attenuante. A partire dai 6 anni, Pizzuto è stato torturato, sodomizzato e picchiato duramente dal suo patrigno, che in diverse occasioni lo ha anche “venduto” a scopo sessuale ai suoi amici. Come hanno testimoniato i fratelli, il patrigno li picchiava con una frusta, un pungolo per bovini, un frustino da cavallo e grossi bastoni. A volte Pizzuto e i fratelli venivano costretti a dormire in una cuccia, e mangiare cibo per cani. Ha subito ripetute lesioni cerebrali e ha avuto problemi a comunicare, mantenersi pulito e relazionarsi con gli altri bambini. “Il signor Pizzuto non ha mai avuto una possibilità nella vita. È stato torturato in modi inimmaginabili e sfregiato da violenze selvagge. Nessuno lo ha aiutato. Anche se è troppo tardi per salvare quel bambino, non è troppo tardi per mostrare pietà a Jerry Pizzuto”. È vero: Pizzuto, crescendo, è diventato un uomo cattivo, e con le sue vittime è stato feroce, e anche stupido. Forse, come dice Marshall Project, si potrebbe pensare di risparmiare qualche dollaro e lasciarlo morire naturalmente. Oppure, come dicono i suoi avvocati d’ufficio, un attimo di pietà dovrebbe essere mostrato anche nei suoi confronti. Medio Oriente. A Gaza 10mila sfollati e 125 uccisi, proteste e morti in Cisgiordania di Michele Giorgio Il Manifesto, 15 maggio 2021 Situazione umanitaria gravissima, almeno 200 gli edifici colpiti dai raid israeliani. Ancora missili di Hamas su Israele. in Cisgiordania i soldati sparano contro i dimostranti: 10 morti. “Mio marito è ancora sotto shock, i bombardamenti israeliani di ieri sera (giovedì) su Gaza sono stati incessanti. Era con altre persone in una stanza quando una cannonata ha colpito la casa accanto. Il boato è stato enorme, fumo e fiamme hanno avvolto tutto intorno, anche dove era lui. È scappato mentre le cannonate cadevano breve distanza e non si fermavano, neanche per un minuto”. Emanuela Franco ci parla dall’Italia dove è tornata lo scorso marzo. A Gaza ci viene tutte le volte che può, quando ottiene il permesso di ingresso, per trascorrere qualche mese assieme al marito, Mohammad Abouda. Poi, scaduto il visto, deve andare via. Emanuela e Mohammad hanno provato più volte a trasferirsi in Italia ma lui non ha ancora ottenuto il lasciapassare dalle autorità palestinesi, israeliane ed egiziane per uscire da Gaza. Va avanti così da anni. “La nostra abitazione a Gaza - ci spiega Emanuela - è a tre chilometri dal valico di Erez. nell’area di Beit Hanoun, la più vicina al confine orientale con Israele e presa di mira quando c’è la guerra. E così è andata anche stavolta”. Mohammad ha raccontato ad Emanuela del terrore provato dalla gente di Beit Hanoun e della rassegnazione di tanti a qualsiasi destino. In casa è pericoloso ma nonostante le bombe e le cannonate alcune famiglie preferiscono restare nelle proprie abitazioni e non finire nelle scuole dell’Unrwa (Onu) dove vivrebbero ammassate nelle aule. Almeno 10.000 palestinesi sono fuggiti e altri lo faranno nei prossimi giorni seguendo il copione del 2014 quando fiumi di persone si misero in marcia per sottrarsi ai bombardamenti dell’operazione Margine Protettivo. Il premier Netanyahu ripete che la campagna militare andrà avanti per dare una dura lezione ad Hamas. E il portavoce militare riferisce che Israele ha colpito nella notte tra giovedì e venerdì 150 siti di Hamas, con 160 missioni aeree compiute in pochi minuti per distruggere una rete di tunnel sotterranei. Diversi membri di Hamas inoltre sarebbero rimasti stati uccisi in conseguenza di un annuncio diffuso, pare, intenzionalmente dal portavoce militare dell’inizio dell’offensiva di terra all’interno di Gaza che li avrebbe spinti a scendere nei tunnel poi presi di mira dall’aviazione. Israele aggiunge che anche ieri che sono stati eliminati numerosi capi e militanti delle Brigate Al Qassam (Hamas) e di aver inflitto distruzioni e perdite senza precedenti al nemico. Eppure il movimento islamico anche ieri ha lanciato razzi da Gaza verso il territorio meridionale israeliano - 140 dalle 7 alle 19 - provocando danni e feriti in diverse città e superando non poche volte il sistema di difesa Iron Dome. La vita a sud di Tel Aviv e verso il Neghev è rallentata. La popolazione vive tra casa e i rifugi dove si precipita quando l’urlo delle sirene si diffonde nei centri abitati presi di mira. Sono 8 i morti e decine i feriti in Israele. A Gaza sono i civili a pagare il prezzo di sangue più alto dei bombardamenti. Rappresentano circa la metà dei 125 uccisi fino a ieri sera, tra i quali 31 ragazzi e bambini e 20 donne. I feriti sono oltre 900. I danni materiali appaiono già ingenti. Più di 200 edifici sono stati distrutti negli ultimi cinque giorni. Salma Hijazi, residente a Gaza city, ci diceva ieri che “è peggio del 2014, gli israeliani stanno puntando a terrorizzarci con i loro attacchi aerei notturni”. Hijazi lancia l’allarme sulla situazione umanitaria: “le infrastrutture rischiano di crollare, la centrale elettrica non avrà più il gasolio per funzionare e gli ospedali vanno verso il collasso”. L’Onu ieri ha chiesto alle autorità israeliane e ai gruppi armati palestinesi di permettere immediatamente la consegna di carburante, cibo e forniture mediche. Quella di ieri è stata anche la giornata di un bagno di sangue in Cisgiordania, alla vigilia della Nakba in cui i palestinesi commemorano la perdita della terra e l’esodo di centinaia di migliaia di profughi. Dopo le preghiere di mezzogiorno, migliaia di persone, in maggioranza giovani, hanno manifestato in oltre venti località contro l’occupazione, a sostegno degli abitanti di Gaza e Sheikh Jarrah (Gerusalemme) e contro le frequenti scorribande dei coloni israeliani nei villaggi palestinesi. Ai lanci di sassi e bottiglie che partivano da dietro le colonne di fumo nero che si alzavano dai copertoni in fiamme, i militari israeliani hanno risposto sparando: dieci i palestinesi uccisi, decine di feriti. In serata si è aggiunta un’undicesima vittima, colpito, dicono i palestinesi, dal fuoco dei coloni israeliani a Iskaka (Salfit). Un bilancio così alto di vittime in Cisgiordania, in una sola giornata, non si registrava da anni. Per oggi sono annunciate nuove proteste, sull’onda anche dell’appoggio che i palestinesi ricevono dalla popolazione giordana e dal Libano dove si sono svolte manifestazioni per la Palestina e la Nakba. Ieri un manifestante sul versante libanese del confine è stato ucciso dal fuoco dei soldati di Israele. Si è poi appreso che era un attivista di Hezbollah. Dalla Siria sono stati lanciati tre razzi verso Israele ma non è chiaro che i due fatti siano collegati. Missili, scudi “volanti” e cunicoli sotterranei: le forze in campo nella guerra asimmetrica di Guido Olimpio Corriere della Sera, 15 maggio 2021 Una guerra asimmetrica con l’incubo dell’invasione. Per Israele penetrare la striscia è l’ultima carta: troppi rischi. Hamas ha lanciato il razzo Ayyash 250, con una portata di 250 chilometri. È una battaglia in diretta, diffondono immagini e video di bombe sofisticate e ordigni improvvisati. Vale tutto. Israele, giovedì notte, ha postato un tweet dove annunciava l’inizio dell’offensiva terrestre su Gaza, poi ha smentito scusandosi. Ma nel frattempo la notizia era stata rilanciata dai media internazionali. Un errore? Secondo una ricostruzione sarebbe stata un’esca per spingere i capi nemici a nascondersi nei bunker per poi eliminarli con bombardamenti pesanti. Le gallerie - La distruzione della grande rete di gallerie creata nel tempo dalle fazioni palestinesi è diventata una priorità per gli israeliani. Inizialmente servivano per i traffici sotto il confine con l’Egitto - passaggi vitali per ogni cosa, materiale bellico compreso - poi sono diventati uno strumento di difesa e offesa. Devono proteggere i comandanti, diventano postazioni da cui ingaggiare i soldati, sono usati nella parte nord per infiltrarsi nel territorio ebraico. Ad ogni round del conflitto c’è sempre stata la fase della caccia ai tunnel. Lo sviluppo dell’arsenale - Hamas, insieme ad altre organizzazioni, ha seguito un’evoluzione. All’inizio degli anni 2000 si è affidata ai Kassam, mezzi rudimentali, poco più di tubi dotati di esplosivo, con una portata di pochi chilometri. Quando si chiedeva un commento a Yasser Arafat su queste armi scrollava le spalle, parlava di “fuochi d’artificio”. Che però avevano comunque un valore tattico e politico in quanto permetteva ai guerriglieri di colpire - alla cieca - in Israele. Quanto bastava (e basta) per seminare terrore e creare pressione. Dopo vent’anni il quadro è lo stesso, sono solo mutati raggio d’azione e potenza. Le formazioni hanno creato il loro arsenale in due modi. Il primo. Iran e Hezbollah hanno fornito razzi completi e tecnologia per migliorarli; un aiuto condotto attraverso tunnel clandestini che portano in Egitto oppure con il contrabbando via mare. Negli anni passati avevano creato una rete che arrivava da Sudan e Sinai, pipeline poi bloccata da azioni coperte israeliane. Il secondo. Operai palestinesi hanno imparato a costruirli usando residuati, materiale civile, rottami, metalli. Li hanno assistiti elementi locali in contatto con altri all’estero, diventati - quest’ultimi - l’obiettivo di un paio di omicidi da parte del Mossad (in Tunisia e Malesia). Migliaia di pezzi - Secondo gli esperti nei depositi di Gaza sono conservati almeno 30 mila “pezzi”. Da qui un’alta cadenza di tiro. Un’analista citato dal New York Times ha sottolineato che nelle prime 24 ore di conflitto sono stati sparati 470 “proiettili” di vario tipo mentre nella crisi del 2012 erano stati 312 e nel 2014 192. E poco importa se non sono precisi, raggiungono comunque lo scopo. Costringono la gente nei rifugi, possono indurre Israele a passi falsi, fanno vittime. Intanto i palestinesi continuano ad aggiornare la produzione, due giorni fa ci sarebbe stato il battesimo del fuoco per l’Ayyash 250, con portata di 250 chilometri, dedicato a un famoso leader. I gruppi hanno anche impiegato droni esplosivi che sono la copia di un modello iraniano, ulteriore prova della collaborazione stretta. Lo scudo - Israele si affida allo scudo anti-missile Iron Dome. È efficace, costoso - 50 mila dollari per ogni ordigno - però è sommerso dalle “raffiche”, circa 2.000 i razzi sparati. È impossibile stoppare l’ondata progressiva e continua. Pesanti le incursioni con caccia e droni. I target sono le postazioni di lancio, i team di serventi, gli ufficiali. Ma la distinzione tra obiettivi militari e civili in un’area ristretta come Gaza è relativa, le conseguenze sono gravi per i civili. Ed arriva il momento in questo confronto senza fine che Israele deve considerare un’offensiva terrestre con tank, blindati, soldati e mobilitazione di riservisti (per ora 9 mila). È l’opzione meno gradita dallo Stato Maggiore che negli ultimi anni ha preferito affidarsi a missioni “da lontano” usando apparati ad hoc, in particolare l’aviazione. Così ha centrato centinaia di siti in Siria. Entrare nella striscia comporta perdite, è un’invasione in un’area densamente abitata, non garantisce un successo. Inoltre per i guerriglieri - che temono un colpo di maglio - è sufficiente catturare un prigioniero per costringere l’avversario a negoziati non voluti. Colombia e Perù: una continua e inesausta ricerca di verità e giustizia di Cristiano Morsolin* Vita, 15 maggio 2021 Le storie della missionaria Nadia De Munari e della líder femminista Susana Muhamad ci interrogano sull’ondata di violenza che sta scuotendo le Americhe. Muhamad lancia un appello “Chiediamo all’Italia che, insieme all’Europa, esiga al Presidente Duque di fermare le violenze”. “Proprio poche settimane fa Nadia de Munari - ha spiegato il vescovo di Huari (Perú) Mons. Giorgio Barbetta, amico della missionaria uccisa in Perú - preoccupata per i bambini dei sei asili che seguiva, aveva riunito le professoresse per riprendere le attività dopo la quarantena. Correva verso il bene, ma è stata fermata dalla violenza”. “Quanto è accaduto - continua mons. Barbetta - è più grande anche di ciò che Nadia poteva immaginare, il suo sangue, la sua vita, sono diventati seme. E ha messo radici. A Chimbote nessuno potrà più dimenticarla, ma non solo: questo seme metterà radici ancora nel cuore di tanti ragazzi e chi riceverà questo seme sentirà dolore e amore, indissolubilmente uniti. Ma dal dolore, dal non senso, dal freddo scoprirà l’amore. Arriverà a regalare la vita, al desiderio di Dio…perché come ripeteva spesso Nadia “non tenere la vita per te, regalala”. Sono 1.500 i giovani aderenti all’Operazione Mato Grosso OMG, provenienti da tutt’Italia, hanno partecipato al funerale di Nadia de Munari, realizzato al palazzetto dello Sport di Schio, sede del colosso tessile Lanerossi (come documentato da Vita), lo scorso 3 maggio. Mons. Barbetta ha riassunto la vita di Nadia in cinque frasi. “Non tenere la vita per te, regalala”. “Arriva in fretta al dunque”. “Insieme da solo non vai da nessuna parte”. “Obbedisco”. “Preghiamo con la candela accesa”. Sono le cinque frasi con cui la missionaria insegnava ai suoi bambini di varie religioni a dialogare con Gesù. Ricordo i campi di lavoro dell’Operazione Mato Grosso in Umbria, in Val Formazza, dove conobbi Giorgio Barbetta, originario della Valtellina ma seminarista ad Assisi, tra 1992-1994. Ricordo le celebrazioni della settimana santa a Cittá di Castello dove realizzavamo piece di teatro per mettere in scena il Vangelo della Pasqua e come centurione trascinavo un Gesú, strattonato e umiliato, nei panni di Giorgio, allora seminarista garbato, nominato poi da Papa Francesco, Vescovo ausiliare delle ande peruviane nel dicembre 2019. L’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII ha inviato una nota sottolineando che “esprimiamo profondo cordoglio per la brutale uccisione di Nadia De Munari, da 26 anni missionaria laica in Perù dove gestiva una casa famiglia e 6 asili nido per 500 bambini. Lo spirito missionario ci porta ad incontrare l’altro nella sua diversità e bellezza in ogni angolo del mondo sino a donare la vita, come ha fatto Nadia, con infinito amore e dedizione in particolare ai piccoli, tanto amati da Dio. La Comunità Papa Giovanni XXIII si stringe attorno alla famiglia, agli amici dell’Operazione Mato Grosso, alla Diocesi di Vicenza, alla Comunità di Schio, ai suoi piccoli in Perù. Uniti nella preghiera per Nadia De Munari”, conclude la nota del Direttore APG23, Giovanni Ramonda. Questo messaggio viene consegnato a Katia de Munari, cugina di Nadia, assessore all’istruzione di Schio, da parte di Silvia de Munari, volontaria della Comunità Papa Giovanni XXIII da otto anni in Colombia. Parallelamente al funerale della missionaria Nadia de Munari (che conobbi personalmente nel 1992), si sono realizzate altri momenti di preghiera come la S. Messa celebrata dal vescovo, monsignor Giuseppe Schillaci, a Lamezia Terme; a Perugia, dal Centro missionario diocesano di Perugia, attraverso l’iniziativa dei coniugi Diana Santi e Pippo Fiori, a Brescia, dove il centro diocesano Missionario ha sottolineato: “Nadia De Munari, missionaria in Perù uccisa mentre dedicava la sua vita agli altri, e P. Christian Carlassare, vescovo eletto, ferito in un agguato nella sua abitazione in Sud Sudan. La missione ci interroga, ci chiede molto ma ci spinge a non smettere di credere nell’uomo”. Il padre Lorenzo Salinetti, nipote di padre Ugo de Censi (fondatore dell’OMG) e da quet’ultimo inviato in ‘missione’ in Italia, nella diocesi di Como per rinnovare e ravvivare il cammino della fede nel nostro paese, in particolare tra i più giovani, nel segno degli insegnamenti di San Giovanni Bosco, ha commentato in tre parole chiave la morte di Nadia De Munari: Semplicità, Povertà e Carità. Anche nella parrocchia Jesus Obrero della Perseverancia di Bogotá abbiamo ricordato Nadia de Munari, “vocazione di educatrice, pura, povera, sacrificata in un luogo difficile come invasiones de Nueva Chimbote, la Luce di Nadia, illumina tutta la Chiesa per serviré l’umanitá che soffre”. Proseguono, nel frattempo, le indagini degli inquirenti dopo il barbaro assessinato con machete di Nadia. A Chimbote è arrivato un nucleo specializzato della Direzione nazionale di investigazione criminale della Polizia nazionale. Si parte da un’evidenza: l’aggressione, per le sue modalità e la sua brutalità, è stata intenzionale e non legata a un tentativo di furto. L’unica cosa che l’aggressore ha portato sono due cellulari, tra cui quello della vittima. La Polizia ha informato che sta approfondendo la posizione di quindici persone, tra cui sei minori. A livello politico, si registra l’importante presa di posizione della presidente del Congresso peruviano, Mirtha Vásquez, che in risposta a un tweet dell’esperto di diritti umani, vicentino d’origine, Cristiano Morsolin, così si esprime: “Sono costernata, la mia condanna e indignazione per questo attacco brutale. Nadia, come molti altri volontari stranieri, viene per vocazione ad aiutare in modo solidale il nostro Paese. Pretendiamo dal Ministero dell’Interno una seria indagine”. Ho incontrato personalmente Mirtha Vásquez, coraggiosa avvocata, attivista ambientale e difensore dei diritti umani, a Cajamarca, nel 2004. Esprimo gratitudine per la sua presa di posizione, che è in sintonia con la richiesta di giustizia arrivata da varie componenti della società civile italiana, come Aspem, Mlal, Associazione Papa Giovanni XXIII. La cugina Katia de Munari, assessore all’istruzione del Comune di Schio, 44 anni, ha spiegato a VITA:”chiediamo aiuto alle istituzioni italiane per riportare Nadia presto a casa e che sia fatta giustizia. Indaghi l’Interpol, hanno già perso tempo prezioso. Mia cugina non aveva soldi da rubare: era in Perù da vent’anni, ha creato sei asili e una scuola elementare ma non percepiva denaro”. Leggo a Katia la testimonianza di Rita Guerrero, accolta nella casa famiglia di Llamellin (Ancash) da Nadia, che considera una mamma: “È tanto il dolore che sentiamo, siamo molte figlie che abbiamo condiviso la vita con la señorita Nadia. Lei ha regalato tutta la sua gioventú - arrivó qui che aveva 24 anni, alla missione del Padre Ugo de Censi, nessun volontario merita questa disgrazia. L’unica cosa che fanno questi volontari italiani é aiutare la povera gente. Il popolo, el pueblo de Nueva Chimbote deve ringraziare questo aiuto di Nadia ma anche aiutare nelle indagini per investigare questo crimine, che non continui questa maldad tan grande”, conclude Rita Guerrero. L’assessore Katia De Munari, cugina di Nadia, risponde: “Carissimo Cristiano, io ti ringrazio infinitamente per quanto hai fatto...un insieme di forze positive hanno fatto in modo di portare a casa Nadia in tempi rapidissimi. Appena possibile vorrei tanto conoscerti di persona. Nel frattempo condivido l’epigrafe che è stata appena ufficializzata. Un caro abbraccio a chi lavora in America Latina, non vi dimentico mai! Ora vado dai miei zii... Ci sentiamo presto... Con calma!”. Andrea Riccardi, storico fondatore della Comunitá di Sant’Egidio sottolinea che “la vita della Chiesa apre all’amicizia con gli altri e alla solidarietà con i loro dolori. È la storia di Nadia, maestra da quattro anni a Nuovo Chimbote, in Perù (ma dal 1995 in quella nazione latinoamericana), una baraccopoli di più di 80 mila immigrati senza servizi. Perché uccidere una donna che faceva solo bene? La sorella avanza un’ipotesi: “Scuola significa istruzione, emancipazione. Non vorrei che questa attività di mia sorella avesse dato fastidio a chi gestisce quelle persone con violenza, sfruttamento e oppressione”. È la forza dell’amore e dell’educazione che scuote le radici di poteri oscuri. Nadia ha alle sue spalle la corrente “gloriosa” di solidarietà e volontariato, messa in movimento dall’Operazione Mato Grosso, che ha convogliato tanti verso la partecipazione e la solidarietà con i bisogni del mondo. Uno dei principi ispiratori era all’inizio: “Rompere il guscio della famiglia, della parrocchia, della nazione: è essere missionari”, conclude Riccardi. Il 28 aprile ho seguito via Facebook il funerale di Nadia de Munari in Nuova Chimbote e cosí arrivai tardi alla marcia nel centro storico di Bogotá, che dopo 16 giorni ha provocato un trágico bilancio di 50 giovani manifestanti uccisi dalla polizia ed Esmad (forze di sicurezza anti-sommossa), 1.400 giovani vittime di abusi arbitrari della polizia, centinaia di arresti illegittimi, 30 feriti agli occhi, per soffocare la protesta sociale, secondo organismi come ONG Tambores. Come punto di osservazione utilizzo la piazzetta davanti al Museo Nazionale; arrivai mezz’ora dopo che un poliziotto in moto, uscito dalla sede di San Diego, ha sparato contro la studente Natalia, 21 anni, che ha perso l’occhio destro dopo un’operazione d’emergenza all’ospedale San Ignacio. Credo che Nadia de Munari mi abbia protetto la vita… Benedetto della Vedova, sottosegretario agli Esteri, chiede al Presidente Duque un dialogo con gli organizzatori del paro nacional, affermando que “la situazione in Colombia dal 28 aprile, primo giorno dello sciopero generale per protestare contro la riforma fiscale, a oggi è sempre più fuori controllo, con un numero di morti e feriti inaccettabile. Il governo deve garantire il diritto legittimo di manifestare mettendo sotto controllo l’uso eccessivo della forza da parte degli apparati di sicurezza. Il Presidente Duque intavoli subito un dialogo reale con i leader della mobilitazione sociale per trovare soluzioni condivise. Con 3 milioni di positivi e 77 mila morti da coronavirus, un debito pubblico balzato a 20 miliardi di dollari e un tasso di disoccupazione raddoppiato negli ultimi cinque mesi, è urgente concentrare ogni sforzo sulla lotta alla pandemia, mettendo fine alle violenze e garantendo il rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto”, conclude Della Vedova. Ma la lotta alla pandemia é davvero la prioritá del popolo colombiano? Lo domandiamo in intervista esclusiva per Vita, a Susana Muhamad, líder feminista, attuale consigliera comunale trentenne (Colombia Humana) e nel 2014 giovanissima Assessore all’Ambiente di Bogotá (con il sindaco progressista Gustavo Petro), che mi ha invitato all’udienza aperta del Consiglio Comunale della capitale colombiana nella plaza Bolivar, per ascoltare le vittime della repressione statale, in maggioranza giovani, svoltasi sabato della settimana scorsa. Susana Muhamad, leader femminista, spiega in esclusiva a Vita: “Ringraziamo Papa Francesco per la sua preoccupazione per il popolo della Colombia. La notte scorsa di mercoledì 12 maggio abbiamo accompagnato, insieme a altri colleghi della Commissione Diritti Umani del Consiglio comunale della nostra metropoli Bogota, il corridoio umanitario nella Piazza davanti al Portal Americas del Transmilenio. Da 16 giorni osserviamo le varie assemblee popolari che migliaia di giovani, donne, operai, maestre, sindacalisti stanno organizzando nelle varie periferie di Bogotá, ma parallelamente anche a Aguablanca, Puerto de la Resistencia in Cali, Comuna 13 di Medellin e molti altri posti. Sono forme di democrazia partecipativa, iniziata dal 28 novembre 2019 (che ha coinvolto 3 milioni di colombiani in un solo giorno), dove la cittadinanza si organizza in modo pacifico senza usare armi, senza violenza di genere, forme di resistenza e non-violenza attiva per costruire dal basso alternative di base contro la povertá, la diseguaglianza, l’esclusione. Esplode l’indignazione di un intero popolo perché con la pandemia il 40% dei bogotani soffre fame ed esclusione, con tragici livelli di povertà come vent’anni fa nel 2000. Solo la notte scorsa la polizia ed Esmad ha represso con spari, assalti con blindati, gas lacrimogeni lanciati indiscriminatamente anche nei condomini attorno Portal Americas (zona Kennedy, al sud del mercato all’ingrosso di frutta e verdura Corabastos, un milione di abitanti), mettendo in pericolo la vita di bambini e anziani (come settore Alamedas de San José 2), una notte di terrore con 10 casi di tortura, 30 giovani feriti per l’uso di armi da guerra come Vernon, blindati ed elicotteri, uno stato di guerra inaccettabile contro i civili: Dyana 17 anni, ferita gravemente alla testa ed Esmad (forze anti sommossa) non permetteva arrivo ambulanza, spari alle missioni mediche”. Susana Muhamad ha rifiutato la scorta e l’auto blindata per rimanere a fianco del suo popolo, senza “privilegi”. Ha incontrato Papa Francesco in Vaticano nel luglio 2015, sembra fragile per il suo portamento minuto ma leggo nei suoi occhi la passione della militanza sociale e politica. La mobilitazione della moltitudine, della protesta sociale in 16 giorni di marce, assamblee, ollas populares (mense popolari) spesso represse nel sangue, ha provocato la dimissione del ministro dell’economia Carrasquilla, e proprio oggi della Ministra degli Esteri Blum, il rifiuto della reforma tributaria, ma el pueblo continua a protestare, a marciare, a scendere in Piazza. Susana Muhamad lancia un appello finale dalle colonne di Vita: “Chiediamo all’Italia che, insieme all’Europa, esiga al Presidente Duque di bloccare il massacro del pueblo, di adottare il reddito di cittadinanza universale come chiede Papa Francesco, di adottare politiche di inclusione, sostenendo l’economia civile e popolare, lottando contro la corruzione e i privilegi dell’elite dopo 50 anni di conflitto armato interno e 8 milioni di vittime”. Chiediamo all’Europa che utilizzi la cooperazione internazionale per proteggere le donne difensoras dei diritti umani, perseguitate come Daniela Soto, 19 anni, orgoglio della lotta non violenta della guardia indigena del Cauca, ferita gravemente la domenica scorso a Cali da civili, a fianco di poliziotti, che le hanno sparato in un convoglio umanitario della Minga dell’organizzazione indigena del Cric”. *Esperto di diritti umani in America Latina, dove vive dal 2001. Myanmar. Giornalista condannato a tre anni per aver denunciato il colpo di stato di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 maggio 2021 Arrestato il 3 marzo, Min Nyo, giornalista di “Voce democratica della Birmania”, storico organo d’informazione indipendente del paese del sud-est asiatico, è stato condannato a tre anni di carcere ai sensi dell’articolo 505 del codice penale, che punisce chi “pubblica o diffonde dichiarazioni, dicerie o rapporti con l’intento di spingere, o che potrebbe spingere ad ammutinarsi o a venir meno al loro dovere appartenenti alle forze armate, all’aeronautica o alla marina”. Dal colpo di stato del 1° febbraio, numerosi giornalisti sono stati arrestati, minacciati o raggiunti da colpi d’arma da fuoco mentre seguivano le proteste. “Voce democratica della Birmania”, che era nata in esilio, è tornata di nuovo a fare informazione dall’estero dopo che i militari golpisti le hanno ritirato - così come accaduto ad altri organi d’informazione - la licenza. Proprio dall’esilio, nel frattempo, rischiano di tornare in Myanmar tre giornalisti della “Voce”, arrestati in Tailandia il 9 maggio.