Fuori i malati mentali dal carcere! di Simona Maggiorelli Left, 14 maggio 2021 Il circuito delle Rems deve essere rafforzato. Sono tanti i detenuti con patologie psichiatriche in lista di attesa. Intanto restano in carcere, in un luogo inadatto alla cura, denunciano le radicali Maria Antonietta Farina Coscioni e Irene Testa che hanno lanciato un appello. Un ragazzo, un giovanissimo detenuto, è stato portato in un reparto di osservazione psichiatrica della Casa circondariale di Torino, dove vengono trasferiti i detenuti con patologie mentali: era un passo avanti rispetto al carcere. Ma nell’agosto scorso ha tentato il suicidio ed è stato trasferito in una cella liscia, assolutamente vuota per impedirgli atti di autolesionismo. Un intervento per cercare di salvargli la vita. Ma poi si è trovato nudo, steso in uno spazio necessariamente vuoto, senza neanche un materasso, senza acqua corrente, costretto a bere l’acqua del water, come hanno riferito i familiari agli attivisti dell’associazione Antigone. Non è l’unico caso. La situazione delle persone condannate e con problemi psichiatrici in Italia è drammatica, nonostante l’impegno e il lavoro di psichiatri e psicoterapeuti che con grande impegno responsabilità lavorano in carcere quotidianamente, come abbiamo raccontato più volte su Left. La struttura carceraria e il codice Rocco di epoca fascista, che ancora la presiede, rendono difficile se non impossibile un coerente ed efficace percorso di cura. A questo già problematico quadro con la pandemia, come è noto, si sono aggiunti ulteriori problemi. “Gli ospedali, come le carceri, durante la pandemia sono diventati necessariamente luoghi blindati”, racconta Maria Antonietta Farina Coscioni promotrice insieme a Irene Testa e al Partito radicale dell’appello “Fuori i malati mentali dal carcere” rivolto alla ministra della giustizia Marta Cartabia e al ministro della Salute Roberto Speranza. Cappello, che era nato intorno al caso di Fabrizio Corona, è stato sottoscritto da moltissime personalità del mondo della scienza, della cultura, ma anche da molti rappresentanti politici di differente orientamento. “Un primo risultato è stato raggiunto: Fabrizio Corona è tornato ai domiciliari che gli spettavano, ma tantissimi altri detenuti senza nome restano ancora in attesa di una risposta”, dice la radicale Irene Testa, fondatrice dell’Associazione il Detenuto ignoto. “Hanno diritto ad andare nelle Rems, ma i posti non sono sufficienti. Tanti sono in lista d’attesa e, intanto, restano in carcere, in luoghi inadatti alla cura”. Di tutto questo il segretario del Partito radicale Maurizio Turco e la tesoriera Irene Testa hanno parlato la scorsa settimana con la ministra Cartabia che ha dimostrato forte attenzione al problema. Mentre scriviamo arriva la notizia di un incontro dei radicali con il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri per entrare più specificamente nel merito della questione dal momento che lui ha la delega alla sanità carceraria; un mondo di cui si parla poco sui media e di cui poco si sa. Dall’appello “Fuori i malati mentali dal carcere” apprendiamo che nei 109 istituti di pena italiani il 78% dei detenuti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui per il 41% da una patologia psichiatrica. “Non ci sono dati ufficiali ma grazie al lavoro del terzo settore e dei sindacati di polizia penitenziaria si è a conoscenza che oltre il 50% dei detenuti assumono psicofarmaci”, vi si legge. Dall’ultimo rapporto dell’associazione Antigone del 2020 risulta che nei 98 istituti visitati, il 27% dei detenuti è in terapia psichiatrica (a Spoleto il 97%, a Lucca il 90% a Vercelli l’86%) e il 14% dei detenuti è in trattamento per dipendenze. Dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) la normativa prevedeva che il carcere dovesse essere residuale per questo tipo di detenuti, per cui si sarebbe dovuto prediligere altri circuiti come le Rems, gli arresti domiciliari, le comunità per i tossicodipendenti. Ma la realtà è ben altra. “Dal momento che le Rems non sono numericamente sufficienti, molti istituti di pena si sono attrezzati aprendo “repartini psichiatrici” che però non hanno il personale adatto”, denuncia Irene Testa. Gli agenti di polizia penitenziaria con tutta evidenza e, non per loro colpa, non hanno formazione specifica. Occorrerebbe una maggiore presenza di psichiatri e psicologi, ma anche quando vanno a prestare servizio in carcere - come hanno ben spiegato gli psichiatri Claudia Dario Alessio Giampà e Francesca Padrevecchi su Left del 18 dicembre 2020 - devono affrontare molteplici ostacoli. Che si sono ulteriormente moltiplicati durante la pandemia. Per tutto questo periodo i detenuti si sono ritrovati del tutto isolati dall’esterno e minacciati dalla paura del contagio in carceri sovraffollate. “Durante l’emergenza Covid - spiega Maria Antonietta Farina Coscioni - sarebbe stato importante trovare il modo per proseguire i colloqui in sicurezza. Le relazioni umane dovevano essere garantite, seppur in una modalità diversa. Invece, per i detenuti non c’era telefono, non c’era internet, non c’erano tutti quelli strumenti che durante il lockdown hanno permesso a tutti noi di non perdere il rapporto con gli altri dialogando con il mondo nonostante il distanziamento fisico. I detenuti sono stati privati di ogni forma di relazione”. Anche se era una necessaria misura preventiva, indubbiamente ha aggravato la loro condizione. “Detto questo - precisa - abbiamo ben chiari i problemi sul campo, non siamo fuori dalla realtà. Ciò che abbiamo chiesto alla ministra della Giustizia e al ministro della Salute è un intervento mirato, per aiutare sia chi entra in carcere portandosi un bagaglio di malattia mentale pregressa sia chi la sviluppa durante la detenzione. Servono misure di massima urgenza per portare i malati mentali in strutture residenziali adatte”. Gli stessi arresti domiciliari potrebbero non essere adatti a tutti: “Ci sono casi di persone che hanno commesso reati in famiglia e certamente non potrebbero essere accolti in quel domicilio che era proprio il luogo della manifestazione del reato”. D’altra parte se i dipartimenti di salute mentale dovessero assorbire tutti i pazienti affetti da paralogie mentali scarcerati, continua Farina Coscioni, “si verificherebbe una sorta di corto circuito perché non sono dotati di strutture adatte”. Allora che fare? “Noi auspichiamo che ciò che ancora non c’è possa essere realizzato. Certamente non possiamo lasciare le persone con una sofferenza psichica in condizione di abbandono, senza cure appropriate, senza una adeguata presa in carico. Per una persona affetta da malattia mentale - sottolinea Farina Coscioni - stare in carcere è una doppia reclusione. La vita dietro le sbarre è scandita da una disciplina, da un tempo rigido, una mente disturbata trova ancor più difficoltà rapportarsi a tutto questo. Non possiamo ignorarlo”. In questa condizione di reclusione, in chi ha fragilità, facilmente si possono innescare pensieri suicidaci. L’alto numero dei suicidi in carcere ci obbliga a riflettere. Nel 2019 ne sono avvenuti 53 e sono saliti a 61 nel 2020. La media italiana di suicidi in rapporto alla popolazione carceraria è più alta di quella della Ue. Inoltre sono più di 10mila i casi di autolesionismo che si registrano ogni anno. Molte associazioni che si occupano di carcere denunciano mancanza di cure psichiatriche adeguate, che non si limitino solo alla somministrazione di psicofarmaci. Ma c’è anche un problema di marcata prevenzione. “Questa della prevenzione è una questione chiave che non riguarda solo il carcere”, commenta Maria Antonietta Farina Coscioni allargando il discorso a tutta la società e alla crisi sanitaria che stiamo ancora attraversando. “Gli interventi medici sono essenziali per far fronte alla malattia conclamata, ma per la prevenzione della salute mentale sono importanti anche le reti sociali. La lotta alla patologia mentale riguarda individui, famiglie, la collettività. La prevenzione si realizza anche attraverso il potenziamento dei fattori protettivi, riducendo i fattori di rischio. Le scuole, i posti di lavoro, gli ambienti dove le persone trascorrono gran parte del proprio tempo sono i luoghi dove poter intervenire. Serve una nuova visione culturale per far interagire la dimensione sanitaria con i bisogni e a le esigenze che emergono sul territorio”. “Non è una battaglia facile questa. Penso che ci vorranno anni per un cambio di mentalità - conclude Irene Testa. Ma poteva essere una buona occasione anche questa del Recovery Plan. Purtroppo sulla salute mentale non si prevede niente. Non ci sono progetti destinati a questo”. L’Italia dedica misure insufficienti ad un ambito così importante come il benessere psico-fisico dei cittadini. “In Italia si investe per il settore della salute mentale solo il 3,5% del budget della sanità pubblica, mentre altri Paesi, come Germania Francia e Gran Bretagna, arrivano anche al 10%”, precisa Testa. “In generale investiamo poco e niente sulla salute mentale e ora c’è da affrontare anche l’impatto anche psicologico che ha avuto il Covid. Poteva essere una svolta utilizzare i fondi europei nell’ambito della salute mentale”. Giancarlo Coraggio: “È un dovere prevedere un fine pena anche per l’ergastolo” di Davide Varì Il Dubbio, 14 maggio 2021 Riforma della Giustizia, presunzione di innocenza e nuovi diritti: tanti i temi trattati dal presidente della Consulta in occasione della sua relazione annuale. Il Ddl zan? “Non ho studiato la norma, ma una legge è sicuramente opportuna”. “È inaccettabile la gogna mediatica di chi è sottoposto a indagini”. A dirlo è il presidente della Corte costituzionale Giancarlo Coraggio, nel corso della conferenza stampa seguita stamattina alla consueta relazione annuale sull’attività della Consulta nel 2020. Il presidente Coraggio si dice “ottimista che con la riforma della giustizia si fermino i processi inutili fin dall’inizio” e si esprime quindi favorevolmente sul recepimento della direttiva Ue sulla presunzione di innocenza, auspicando che “si crei una reale cultura” sul tema. “Il Recovery plan è un’occasione da non perdere. Anche per la riforma della giustizia, sulla quale direi che “ora o mai più”, sottolinea Coraggio. “Poche volte abbiamo contato in Europa quanto contiamo ora. Abbiamo un ruolo trainante grazie all’autorevolezza del presidente del Consiglio e della maggioranza che lo sostiene”. “È un dovere prevedere un fine pena anche per l’ergastolo”, aggiunge il presidente della Consulta, richiamando il recente monito della Corte al legislatore sulla disciplina dell’ergastolo ostativo. Tanti i temi trattati nella relazione annuale dalla Consulta, tra cui quello dei “nuovi diritti” a cui è necessario garantire tutela. “È compito proprio del legislatore farsene carico, ma in mancanza di un suo intervento, mancanza a volte giustificata dal tumultuoso evolversi della società, la Corte non può, a sua volta, rimanere inerte, specie quando sono in gioco i diritti di minoranze, la cui tutela è il naturale campo di azione dei giudici, quali garanti di una democrazia veramente inclusiva”, sottolinea Coraggio. “Come le altre Corti, anche la nostra, si è trovata ad operare in un contesto caratterizzato insieme da una maggiore complessità e da una maggiore urgenza per il moltiplicarsi delle pretese che chiedono di essere ricondotte a diritti fondamentali e che sono avvertite, a torto o a ragione, come irrinunciabili e non procrastinabili. Il loro riconoscimento - osserva Coraggio - comporta un compito delicato, che richiede, anzitutto, una selezione attenta delle situazioni giuridiche meritevoli di tutela, per evitare che ogni pretesa si trasformi automaticamente in diritto, e poi che il “nuovo diritto” si inserisca armonicamente nel contesto preesistente: i diritti, come i valori che li esprimono, non vivono isolatamente, ma si limitano e si condizionano a vicenda, poiché il loro esercizio comporta altrettanti doveri e oneri a carico dei singoli o della collettività”. A proposito del ddl Zan, il presidente della Consulta ammette di non averlo “studiato proprio per non essere chiamato a dare un parere concreto sulle norme. Ma sicuramente una qualche normativa è opportuna”, riconosce Coraggio, aggiungendo che “il problema è all’ordine del giorno in Parlamento e abbiamo fiducia che il legislatore trovi una soluzione”. Per le carceri la lezione del Covid è l’occasione per cambiare l’esistente di Andrea De Tommasi asvis.it, 14 maggio 2021 Superata la fase emergenziale, sarà importante riflettere sulla capacità di sfruttare pienamente la tecnologia, investire nel reinserimento dei detenuti e rafforzare le misure alternative. Nel 1831 il filosofo francese Alexis de Tocqueville si recò negli Stati Uniti per studiarne le carceri e tornò in patria con una ricchezza di osservazioni che raccolse in “Democracy in America” ??(1835), forse uno dei libri più influenti del diciannovesimo secolo. de Tocqueville scoprì che alcuni Stati americani stavano tentando di comminare pene umane e proporzionate in un modo che in Francia e nel resto dell’Europa era ancora sconosciuto. Le cose sono molto cambiate da quando il famoso filosofo attraversò gli Stati Uniti, se è vero che oggi il Paese guidato da Joe Biden detiene a livello mondiale il tasso più alto di popolazione carceraria nonché il numero più elevato di persone detenute: quasi 2,3 milioni, con un aumento del 500% negli ultimi 40 anni. Secondo gli esperti, i cambiamenti nella legge e le decisioni della politica, più che le variazioni nei tassi di criminalità, spiegano la maggior parte di questo incremento. Negli Stati uniti la popolazione carceraria è di circa 2,3 milioni di persone, il tasso più alto al mondo, con un aumento del 500% negli ultimi 40 anni. Questo fenomeno è conosciuto come mass incarceration (incarcerazione di massa), espressione introdotta per la prima volta nel dibattito sulla giustizia penale da David Garland, professore alla NYU School of Law. Garland e altri sostenitori della riforma carceraria statunitense l’hanno usata per indicare non solo un numero insolitamente elevato di persone dietro le sbarre, ma anche una detenzione sistematica di determinati gruppi all’interno della società. Le statistiche dicono che un ragazzo nero su tre che vive oggi negli Stati Uniti rischia di andare in prigione nel corso della sua vita, uno su sei tra i giovani latini, rispetto a uno su 17 tra i ragazzi bianchi. Allo stesso tempo, le donne sono il segmento della popolazione carceraria in più rapida crescita negli Usa. Recentemente, anche negli Stati Uniti ci sono stati alcuni progressi nella riduzione dei tassi di carcerazione. Allo stesso tempo, le disparità razziali nella popolazione carceraria sono diminuite di circa il 10%. Ma restano delle evidenti differenze con quei Paesi che hanno potenziato le misure alternative al carcere. Per dare un ordine di grandezza, nel 2018 il tasso di detenzione negli Stati Uniti era nove volte superiore a quello della Germania, otto volte superiore a quello dell’Italia, cinque volte superiore a quello del Regno Unito e 15 volte superiore a quello del Giappone. Durante la crisi del Covid, il dibattito sul futuro delle carceri è diventato ancora più sentito e urgente in molti Paesi. I sistemi carcerari e gli oltre 11 milioni di prigionieri in tutto il mondo sono stati colpiti in modo sproporzionato dalla pandemia, come è stato sottolineato recentemente al 14esimo Congresso delle Nazioni unite sulla prevenzione della criminalità e la giustizia penale. Si stima che ci siano più di 527mila detenuti che sono stati infettati dal virus in 122 paesi con più di 3.800 decessi. Con capacità di test limitate in molte giurisdizioni e la situazione in rapida evoluzione, il numero effettivo potrebbe essere molto più alto. La discussione non riguarda solo quali soluzioni possano fermare la diffusione del virus nelle carceri, ma anche se le modifiche al modo in cui vengono gestiti gli istituti penitenziari debbano essere rese permanenti. Uno dei problemi chiave per le carceri è il sovraffollamento, così durante la pandemia tanti Paesi hanno cercato di frenare il continuo afflusso di detenuti. Le misure principali sono state la sospensione della pena per reati meno gravi e il rilascio anticipato dei detenuti prossimi alla fine della pena. Si stima che più di 700mila soggetti siano stati scarcerati in tutto il mondo durante la pandemia. Secondo l’associazione Antigone, che ha pubblicato in marzo il diciassettesimo rapporto sulle condizioni di detenzione, in Italia i detenuti erano 61.230 il 29 febbraio del 2020, a pochi giorni dalla scoperta del primo caso di Coronavirus. In dodici mesi il calo è stato pari a 7.533 unità, pari al 12,3% del totale. “La prima questione riguarda la necessità di superare la cultura tutta incentrata sul carcere”, spiega Stefano Anastasìa, ricercatore di filosofia e sociologia del diritto e Garante delle persone private della libertà per le Regioni Lazio e Umbria. “Occorre rinunciare alla pena detentiva per i reati non violenti, che non giustificano il sacrificio della libertà personale. In questo senso ci potrebbero essere già nel codice penale o nelle leggi penali delle modalità di sanzione, di restituzione del debito, di impegno per la collettività che non passino necessariamente per il carcere. Questo mi sembra un punto dirimente. L’altra questione è quella sollevata anche dalla ministra Cartabia nel suo programma alle Camere: potenziare la giustizia riparativa, cioè trovare forme di conciliazione tra autori e vittime del reato che siano alternative alla procedura e alla esecuzione penale. È quello che accade con la messa alla prova, una modalità che sospende il processo e nel caso in cui l’esito finale sia favorevole va a estinguere completamente il reato”. Resta da capire se, tra le aspettative e la realtà dei fatti, si riuscirà ad avviare delle riforme al sistema giudiziario e penale in grado di incidere sulla qualità del tempo che le persone detenute trascorrono nel lavoro, nell’istruzione, nei programmi formativi. “Un altro elemento reso evidente dal Covid è che nel reinserimento dei detenuti non è possibile ancora tenere separati il binario dell’assistenza sanitaria e quello del sostegno sociale”, prosegue Anastasìa. Una delle difficoltà maggiori riscontrate durante le detenzioni domiciliari riguarda migliaia di persone che, una volta uscite dal carcere, sono senza casa, senza famiglia, non hanno un posto dove andare. Un’altra lezione che ci ha insegnato l’emergenza è la necessità di sfruttare la tecnologia, che fino all’esplosione dell’epidemia era stata rifiutata in quanto considerata veicolo di insicurezza. Per supplire alla mancanza di colloqui in presenza, sono stati forniti 1.500 smartphone in tutti gli istituti di pena al fine di consentire ai detenuti di parlare con i loro familiari. Ma questa è solo una parte della tecnologia che può entrare in carcere. Poi c’è tutta la questione dell’istruzione e della formazione: la didattica a distanza, la formazione professionale, l’idea che il carcere possa svolgere una funzione rieducativa utilizzando la tecnologia. Occorre realizzare infrastrutture di rete per consentire le comunicazioni a distanza con istituti scolastici, servizi, patronati e tutte le realtà che ormai lavorano interamente in rete”. Nel suo studio sulle origini della prigione, Discipline & Punish: The Birth of the Prison (1975), Michel Foucault esplorò l’invenzione del Panopticon, o carcere ideale, progettato dal filosofo Jeremy Bentham per consentire alle guardie di vedere continuamente all’interno di ogni cella dal loro punto di osservazione in un’alta torre centrale. Dal Panopticon alle carceri senza sbarre, a quelle ultramoderne basate su sistemi di intelligenza artificiale verso cui guardano Regno Unito e Stati Uniti, la discussione sul carcere del futuro è complessa perché multidisciplinare. “In Italia abbiamo il patrimonio di edilizia penitenziaria più antico d’Europa e forse del mondo”, osserva Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio europeo carceri di Antigone. “Ci sono istituti che sorgono all’interno di edifici del Cinquecento o del Seicento. Si tratta di strutture molto costose e difficilissime da manutenere, pensate soltanto sul tema della sicurezza. Questo è un nodo problematico che si intreccia con la discussione se realizzare o meno nuove carceri. Oggi costruire nuovi istituti a che idea risponderebbe? Occorre trovare una risposta prima di costruire, altrimenti si rischia di replicare modelli che già sono negli uffici di progettazione del ministero. La Costituzione dice in maniera molto chiara che il carcere tende alla rieducazione del condannato. Questa idea si applica avendo consapevolezza di quali sono le caratteristiche della popolazione detenuta, che oggi è sempre più composta da cittadini stranieri, sempre più povera di risorse materiali e relazionali, sempre più bisognosa di servizi sociali molto forti che generalmente fuori non hanno mai incontrato risposte. Per questo bisogna garantire tutta una serie di servizi che, oltre a rispondere a diritti astratti delle persone detenute, cerchino in pratica di riempire queste povertà, queste carenze e queste fragilità”. Puntare sulla ristrutturazione delle carceri esistenti, nel rispetto di quanto previsto dalle norme interne e internazionali, in termini di spazi, diritti e opportunità; cablare gli istituti, per potenziare le infrastrutture tecnologiche, per prevedere ipotesi aggiuntive di didattica a distanza, per assicurare la formazione professionale anche da remoto. Queste le priorità indicate da Antigone, che chiede di abbandonare i piani di edilizia penitenziaria finalizzati alla costruzione di nuove carceri. Dice Scandurra che occorre riprendere una riflessione sull’architettura penitenziaria italiana. “In questo momento ci sono tanti istituti identici l’uno all’altro. Se è grande la struttura in cui sei istituzionalizzato, è più facile che diventi un numero. Questo è il motivo per cui abbiamo chiuso i manicomi e puntato su centri più piccoli, territorializzati. Anche sul carcere si potrebbe immaginare un passaggio di questo tipo. Ci sono dei centri di ricerca che in questi anni hanno ragionato sul modello del carcere diffuso. Strutture capillari ben distribuite nel paesaggio urbano, con un minor numero di detenuti e quindi un trattamento più personalizzato, con un controllo affidato in parte alle tecnologie e in parte alle persone”. Prevenire la radicalizzazione in carcere passa dal riconoscimento dei diritti dei detenuti di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2021 Nel carcere di Alessandria un uomo in esecuzione pena per altro reato è stato accusato di propaganda e istigazione a delinquere in relazione a reati di terrorismo e per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. All’uomo è stato applicato un provvedimento di custodia cautelare dal Tribunale di Torino. Pare che, nel guidare la preghiera, esortasse alla jihad ed esaltasse gli attentati terroristici. Il detenuto, di origini marocchine, svolgeva un ruolo di facilitatore alla preghiera nell’istituto di pena. Le religioni in carcere non sono tutte uguali. Si possono distinguere vari livelli: la religione cattolica che, a seguito del Concordato, prevede in ogni carcere luoghi di culto e un cappellano assunto formalmente dall’Amministrazione Penitenziaria quale dipendente dell’istituto; le altre religioni che hanno stipulato accordi con lo Stato italiano, per le quali anche il carcere ha un riconoscimento con qualche grado di formalità; ed, infine, quei culti per i quali mancano intese o accordi istituzionali, dove eventuali ministri possono fare ingresso in carcere solo in veste di volontari, come i tanti che offrono assistenza o organizzano attività ricreative per le persone detenute. I detenuti dichiaratamente musulmani erano circa 8.000 (ma probabilmente di più, in quanto in molti su questo tema si tacciono), pari a un settimo del totale, secondo l’ultima rilevazione effettuata. Ovviamente, ogni rilevazione deve sempre tener conto della libertà di coscienza e della paura a dichiararsi, per le conseguenze in termini di maggiori controlli. Nel 2015 il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria aveva stipulato un protocollo d’intesa con l’Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane), attraverso il quale si prevedeva l’ingresso in carcere di imam riconosciuti e autorizzati dal ministero dell’Interno, portatori di una cultura islamica democratica e pacifica. Si erano contestualmente avviati percorsi di formazione sull’Islam per il personale penitenziario. L’intuizione del protocollo era senz’altro importante. Si è a lungo discusso di come le carceri europee potessero costituire un terreno di radicalizzazione. Il vero contrasto non può essere che la prevenzione, fondata sul rispetto dei diritti, compresi quelli relativi alle libertà religiose. Tante ricerche promosse dall’Unione Europea, in seguito ai sanguinosi attentati degli scorsi anni, hanno mostrato come la persona detenuta possa tendere alla radicalizzazione violenta quando l’odio verso l’Occidente è indotto dalla percezione di una mancanza di tutela della propria dignità. Il protocollo d’intesa tra Amministrazione Penitenziaria e Ucoii è parzialmente stato realizzato, anche per quanto riguarda la parte, strategicamente importante, relativa alla formazione del personale. Sono 13 gli imam che oggi entrano in istituto grazie a esso, ma spesso senza continuità e in occasione solamente del Ramadan o di feste religiose specifiche. Altri 30 imam sono autorizzati a prescindere dal protocollo. Numeri bassi, se si pensa che le carceri italiane per adulti e per minori sono circa duecento. Trovandosi senza imam esterni autorizzati, i detenuti di fede islamica si organizzano tra di loro per la preghiera. Non vi è garanzia a questo punto su cosa può essere detto, come forse è accaduto nel carcere di Alessandria, lasciando aperto il rischio della radicalizzazione. La prevenzione della radicalizzazione in carcere passa per il riconoscimento dei diritti fondamentali dei detenuti. Come indicato dagli organismi internazionali, a partire dall’Onu, è necessario assicurare condizioni materiali di detenzione dignitose, che non alimentino percorsi personali di vittimizzazione. Devono inoltre essere previsti spazi dedicati alla preghiera, testi e rispetto per le ritualità. Per contrastare la radicalizzazione dobbiamo togliere gli argomenti e le giustificazioni che la alimentano. *Coordinatrice associazione Antigone Contro la radicalizzazione in carcere servono imam autorizzati, ma in Italia sono solo 13 di Carlotta Rocci La Repubblica, 14 maggio 2021 La denuncia dell’osservatorio di Antigone dopo il caso di Bouchta El Allam che incitava a distruggere il Vaticano e sterminare gli ebrei. La radicalizzazione nelle carceri si combatte con la libertà religiosa. È la tesi dell’osservatorio di Antigone, l’associazione che si occupa della tutela dei diritti nel sistema penale. Il tema è sul tavolo dal 2015, quando il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha firmato un protocollo con l’Unione delle Comunità islamiche italiane (Ucoii) per permettere l’accesso in carcere di imam riconosciuti e autorizzati dal ministero dell’Interno, che promuovessero una visione democratica dell’Islam. L’associazione Antigone denuncia però che questo protocollo ha trovato una scarsa applicazione nella realtà: oggi in Italia sono solo 13 gli imam esterni, legati al protocollo Ucoii e autorizzati a entrare in carcere, e molti di loro lo fanno senza continuità soltanto nel periodo del Ramadan o in occasione di qualche festa religiosa. Al di fuori del protocollo con le comunità islamiche sono 43 i ministri del culto islamico autorizzati. I cappellani cattolici nelle carceri italiane sono 314. Secondo i dati del ministero della Giustizia sono circa ottomila, a gennaio 2020, i detenuti di fede islamica: per questo motivo in molte carceri sono gli stessi detenuti a guidare la preghiera e - spiega l’associazione Antigone - “può capitare che a prendere la guida della preghiera non sia chi conosce meglio il Corano, ma chi ha più carisma, cosa che non può mettere al riparo da rischi di radicalizzazione”. Anche Bouchta El Allam si è avvicinato al Corano in carcere e qui è diventato imam proponendosi come guida nella preghiera del venerdì. Nel 25 per cento delle carceri visitate da Antigone nel 2020, non entrava nessun ministro di culto diverso dal cappellano. Nell’80 per cento degli istituti penitenziari, d’altronde, non esistono luoghi di culto dedicati alla preghiera per i non cattolici, si legge nei rapporti dell’associazione. “Fatti come quelli nel carcere di Alessandria dimostrano come invece si debba investire in questa direzione - dichiara Michele Miravalle, coordinatore dell’osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione - Auspichiamo che le notizie dell’indagine alessandrina possano spingere il ministero della Giustizia e il governo a investire nel diritto alla libertà di culto in carcere, anche in un’ottica di contrasto alla radicalizzazione. I numeri degli imam esterni autorizzati ad entrare in carcere è irrisorio rispetto alla popolazione detenuta di fede islamica: gli strumenti, come il protocollo con l’Unione delle Comunità islamiche, esistono ma vanno applicati, altrimenti diventano inutili”. l mondo sommerso dentro le carceri di Ilaria Onida* mediciperidirittiumani.org, 14 maggio 2021 La professione che svolgiamo fa tanto, e richiama la nostra attenzione sul caso di cui sto per parlarvi. C’è un mondo sotterraneo verso il quale il nostro cervello resta noncurante, ed è quello delle carceri. Tema scomodo e ingombrante, diciamolo, fin dai tempi biblici, che ci tocca da lontano, o nei rari casi in cui qualche parente-amico entra in collisione con la giustizia e ci finisce dentro. Provo a parlarne non come luoghi di spazi chiusi e di mura invalicabili, ma vissuti da esseri umani a cui è doveroso dar voce. Magari siamo informati, conosciamo i numeri, il sistema, i dati del sovraffollamento, i partiti politici che mettono in evidenza i punti più oscuri della gestione interna di molte strutture penitenziarie in Italia, ma soltanto accidentalmente ci soffermiamo a pensare ai corpi rinchiusi al di là delle sbarre come a degli uomini meritevoli di ascolto e dignità. “Viaggio in Italia”, docu-film coraggioso e rivelatore di Fabio Cavalli sulle carceri italiane, lanciato un anno e mezzo fa alla mostra di Venezia, mi aveva colpito per lo sguardo onesto e diretto sui detenuti, e su coloro che ci lavorano ogni giorno. Gli specialisti di MEDU in Sicilia presso il carcere della città di Ragusa hanno un compito altrettanto nobile e coraggioso, che è quello di curare e far emergere le testimonianze di queste vite silenziose ancora più ai margini delle nostre società. Medici e psicoterapeuti seguono da tempo le persone più fragili in esecuzione di pena. Ogni martedì garantiscono il supporto psicoterapico e psichiatrico durante i colloqui alla presenza di mediatori culturali che svolgono un ruolo centrale per i pazienti che non conoscono la lingua del Paese che li ha condannati. Il gruppo che riceve assistenza è variegato, di nazionalità italiana o dalle origini più disparate, europee e extraeuropee, richiede aiuto per far fronte alla crisi psicologica che manifesta per tutto l’arco di tempo della sua detenzione, in fasi più o meno acute di disagio, sofferenza e smarrimento. Nell’offrire il nostro supporto quel che più colpisce è la solitudine dei migranti. Condizione, quella dello straniero, che li rende più soli nel mare di isolamento in cui sopravvivono tutti. Di loro si parla nei processi, tra le tavole degli avvocati d’ufficio o nelle riunioni d’equipe psicopedagogica forse, ma chi mai si sofferma a pensare al loro mondo sommerso? Ho fatto caso ai nuclei di famiglie che accedono allo sportello per la consegna di pacchi, vestiario e alimenti da far arrivare ai detenuti. Per lo più mamme con bimbi piccoli al seguito, provenienti dall’entroterra locale, oppure donne arabe o dei Paesi dell’est, tutte lì in coda, aspettando il proprio turno per consegnare qualcosa che conforti il figlio, o il marito, o un parente all’interno della cella. Raramente un immigrato proveniente dalle rotte del Mediterraneo, magari in fuga da anni per le vie dell’Africa e dell’Asia centrale, riceve una visita, indumenti per la sua cura e per la protezione dal freddo, se non i capi che l’istituzione carceraria e qualche associazione umanitaria ha pensato di fargli arrivare. Nigeriani, bengalesi, siriani, magrebini, immaginiamoceli, di etnie, usi, culture e lingue diverse insieme nello stesso spazio ristretto, spesso appesi a un appello di cui non conoscono i termini e ad una sentenza della quale intuiscono soltanto il finale: la durata della detenzione che li aspetta. Eppure dietro a ognuno di loro, a cui le nostre carceri italiane non riescono a offrire nemmeno un traduttore che chiarifichi la loro posizione, c’è un uomo. Nella maggior parte dei casi, certo, sconta la sua pena come la legge ritiene più giusto, ma rimane pur sempre Uomo. Che non ha più contatti con la famiglia. Che fa i conti con la scelta del suo viaggio e l’abbandono forzato della sua terra d’origine. Con la strada in cui è incorso e in cui si è perso, e che non trova più vicinanza, non conosce l’ equilibrio, né la linea sottile che separa il suo pensiero da un terreno sicuro ad un baratro. Sono loro, soprattutto gli extracomunitari, una popolazione del 40% tra tutti i detenuti di Ragusa, a chiederci aiuto. Arrivano ai colloqui impauriti, spaesati, in cerca di rifugio, di spiegazioni, di conforto. Sono vittime dei loro stessi stati d’ansia, incubi, disturbi alimentari, sofferenze psicosomatiche e del panico che non è altro che l’eco di traumi pregressi della loro giovane esistenza. E non sanno riconoscerli, dominarli né affrontarli da soli, e con essi vien meno la percezione della realtà che li circonda. Continuiamo a pensare a nuove idee di progetto che possano garantire la nostra presenza all’interno degli spazi carcerari perché decine di persone possano trovare una strada di riconciliazione col proprio mondo interiore e si interfaccino con un processo di rinascita per una più facile inclusione nella società che li accoglierà quando riotterranno la libertà. *Coordinatrice per la Sicilia di Medu Carcere, da extrema ratio a strumento abituale di emarginazione di Giorgio Righetti acri.it, 14 maggio 2021 Intervista a Giovanni Maria Flick, professore emerito di Diritto penale, già ministro della Giustizia e presidente della Corte Costituzionale. Professor Flick, in diversi contributi ha affermato che quello del carcere è un modello da superare, perché? Perché, appunto, è un modello “superato”. Storicamente il carcere nacque come strumento per emarginare o espellere dalla società e dalla vita collettiva i “diversi” (asociali, vagabondi, persone che la pensano in modo diverso o che non accettano, in tutto o in parte, le regole di convivenza…). Questo significato è ritornato di attualità quando sia le ragioni di diritto sia, soprattutto, le ragioni di fatto (le condizioni in cui si vive la reclusione) hanno cancellato la possibilità di salvaguardare i “residui di libertà” (definiti tali dalla Corte costituzionale), che debbono comunque essere rispettati e che sono compatibili con la privazione della libertà personale come pena. Intendo cioè riferirmi agli aspetti di pari dignità sociale e di rispetto dei diritti inviolabili previsti dagli articoli 2 e 3 della Costituzione, che sono il campo in cui deve crescere l’articolo 27 della Carta: gli obiettivi di tendenza alla rieducazione e di rispetto del senso di umanità nei confronti del condannato. È un controsenso la pretesa di rieducare alla libertà una persona privandola della libertà. Sono possibili altre forme di pena, come le cosiddette pene accessorie, ad esempio l’interdizione, la limitazione delle attività professionali attraverso cui si è commesso il reato; l’imposizione di lavori socialmente utili o di servizi alla collettività, che non devono però diventare forme di servitù coatta. Aggiungo che nella Costituzione non viene citata esclusivamente la pena del-la reclusione ma si parla, al plurale, di “pene”, che “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Per questo, l’Italia è stata con-dannata almeno due volte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con riferimento alle condizioni di fatto (in realtà strutturali) del sovraffollamento nelle carceri. Come il carcere può adempiere in maniera più efficiente alla funzione rieducativa che gli viene riconosciuta nell’art.27 della Costituzione? In primo luogo, occorre evitare di trasformare il carcere da extrema ratio a strumento abituale di separazione ed emarginazione dei “diversi” di vario tipo. D’altra parte, la Corte costituzionale ha più volte ricordato che tra le molteplici finalità della pena vi è al primo posto la tendenza alla rieducazione, rispetto alle finalità di prevenzione e a quelle di cosiddetta “retribuzione” (la vendetta di Stato con cui si cerca di evitare la vendetta privata dei parenti della vittima, della stessa vittima o del suo clan). Il problema è, peraltro, non solo di rieducare (finalità che si sta cercando di concretizzare attraverso percorsi d’istruzione e l’iscrizione all’università in carcere), ma è formare alla responsabilità e ricostruire il rapporto dell’autore del reato con le vittime. A tal proposito, recentemente ha parlato di “responsabilizzazione” del detenuto più che di “rieducazione”. Ci può spiegare meglio cosa intende? La storia della pena ha registrato, in primo luogo, la prevalenza della funzione punitiva- retributiva; in secondo luogo, quella soddisfattoria del risarcimento del danno allo Stato e alle vittime; infine, il reinserimento sociale attraverso la tendenza alla rieducazione. Nei tempi attuali mi sembra importante la prospettiva, che fa fatica ad affermarsi, della responsabilizzazione, che comprende la rieducazione, ma ha un significato più ampio: la giustizia riparativa, il tipo di giustizia adottata, per esempio, in Sud Africa dopo il superamento dell’apartheid (almeno in teoria). Ciò significa cercare di ricostruire un rapporto tra il colpevole e le vittime, in cui il primo prenda coscienza della sua responsabilità e del male arrecato. La cultura può essere uno strumento per cambiare la percezione del carcere maggior-mente diffusa a livello sociale? La cultura può essere uno strumento per superare questa percezione, innanzitutto attraverso le iniziative culturali di vario genere che hanno cominciato a maturare nel carcere, in particolar modo la possibilità di poter seguire un percorso scolastico o accademico. In secondo luogo, è necessario che i detenuti vengano guidati alla comprensione della realtà esterna e al modo in cui ci si augura che essi possano e debbano rientrarci. È importante però, altresì, che anche il mondo esterno conosca il mondo interno al carcere e la funzione che esso ricopre. Dai dati sul tasso di recidiva emerge che il 68,45% di coloro che scontano la pena in carcere vi fanno ritorno, mentre solo il 19% di colo-ro che scontano la pena con misure alternative alla detenzione rientrano. È un dato emerso da anni, perché allora il percorso di ripensamento del modello e del ruolo del carcere non ha subito un’accelerazione? Conosco quei numeri e, pur considerando l’approssimazione delle valutazioni statistiche di questo tipo, condivido la riflessione: il carcere è spesso un’ottima scuola di specializzazione nella capacità di commettere reati, piuttosto che una scuola valida per rieducare alla responsabilità e al rapporto con l’esterno. Da ciò, la riflessione sulle cosiddette misure alternative (permessi premi, affidamento ai servizi sociali, detenzione domiciliare), che non sono strumenti di deflazione o di sfollamento del carcere, ma elementi essenziali per il trattamento e il percorso del soggetto de-tenuto verso il ritorno in libertà. Ciò spiega anche la differenza di recidiva tra chi sconta la pena con pene alternative alla detenzione e chi la sconta in un carcere. Aggiungo, inoltre, che mi sembra profondamente sbagliata la linea di condizionare l’accesso alle misure alternativa a una forma di collaborazione con la giustizia, come venne stabilito nel 1992 dopo le stragi di Via d’Amelio e di Capaci. Si trattava di una decisione presa in un momento certamente emergenziale, ma che non può, oggi, diventare ostacolo insormontabile alle misure alternative, superabile solo con la spinta alla collaborazione. È questo il tema sul quale la Corte costituzionale dovrà deliberare prossimamente, sul cosiddetto “ergastolo ostativo”, nel quale la possibilità di verificare il distacco dalla posizione precedente e, quindi, l’effettivo ravvedimento è affidato esclusivamente alla collaborazione, che difficilmente in questo modo può essere considerata volontaria. Si può dunque comprendere il per-ché le misure alternative abbiano subito un rallentamento, perché sono considerate strumenti di sfollamento e non componenti essenziali per l’esecuzione della pena. Nel carcere dovrebbero essere attivati più percorsi formativi, ludici e ricreativi, ma an-che professionali, per non dimenticare diritti e dignità dei detenuti? Come esplicitato precedentemente, parto dal considerare difficoltoso vedere nella privazione della libertà uno strumento di educare alla libertà, e dall’idea che si debba ricorrere al carcere solo come pena di extrema ratio, per chi sia pericoloso a causa della sua aggressività. Si tratta di un’opinione contraria al pensiero che sottende la politica di costruzione delle nuove carceri proposta come rimedio e come garanzia (illusoria) di sicurezza per la società, e basata su appelli strumentali, e in parte politici, ad un sistema più duro di reclusione. Non basta infatti costruire un carcere, bisogna riempirlo con personale, iniziative, con percorsi di formazione scolastica e professionale, con un trattamento specifico dei detenuti, che rispetti la privacy e il principio di pari dignità sociale. Anche i condannati che hanno commesso il peggior delitto ne hanno il diritto. Per un sistema di reclusione di questo genere occorre però portare avanti percorsi culturali all’interno della società e dell’opinione pubblica, capaci di superare le usuali e diffuse opinioni sul carcere che stigmatizzano la pericolosità delle misure alternative, considerandole un rischio per ulteriori reati. Crede ci sia bisogno di un maggiore accompagnamento del detenuto una volta uscito dal carcere, per sostenerlo nella fase di reintegrazione sociale? Certamente, per una ragione quantomeno di uguaglianza, occorre che anche chi non ha una casa possa usufruire delle misure alternative, che si realizzano con l’uscita dal carcere. Lasciare chi esce abbandonato a sé stesso, perché si “arrangi” è uno degli ingredienti principali per favorire il suo rientro in carcere. La giustizia e la vita di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 14 maggio 2021 Tra le leggi e le cose c’è di mezzo, se non il mare, uno spazio riempito dalle azioni di coloro che le applicano e che il legislatore non è in grado di prevedere e controllare. In altri termini, la vita ingloba il diritto. Ciò spiega perché, spesso, le intenzioni del legislatore sono vanificate dalla prassi. Si vuole un risultato e non lo si ottiene oppure se ne ottiene un altro diverso. L’eterogenesi dei fini è esperienza frequente nel campo del diritto. Si vuole una cosa e non la si ottiene oppure se ne ottengono altre se non c’è la cooperazione di coloro che stanno tra la legge e le cose, cioè di coloro che chiamiamo genericamente “operatori della giustizia”. Scrivere parole chiamandole leggi non basta. Questa avvertenza vale nel campo della politica (le riforme costituzionali), nel campo amministrativo (le riforme burocratiche) e anche nel campo della giustizia di cui oggi si discute. La giustizia è un sistema complesso di forze e di interessi diversi e spesso antagonisti; ogni legge nuova è soltanto un impulso, un fattore di rimescolamento e sarebbe un’ingenuità considerarla coincidente col risultato finale. Ridurre i tempi della giustizia, s’intende, è ciò su cui tutti, sono d’accordo. L’ovvia via maestra dovrebbe essere l’efficienza dei processi. Oggi, pare che si battano strade diverse. Ragionando in astratto e per assurdo si può pensare che i processi non si facciano, così durano niente; oppure, sempre per assurdo, che i processi siano sommari, senza tante complicazioni, così durano poco. A ben pensarci, senza giungere a questi estremi, siamo su queste linee direttrici quando stiamo a trattare della prescrizione dei reati e dei limiti all’appellabilità delle sentenze. Il quadro non è ancora definito. Non esistono parole ufficiali del governo e si ragiona quindi su ipotesi. I reati, ma non quelli più gravi, dopo un determinato periodo di tempo “si prescrivono”, “si estinguono” e, di conseguenza, non si procede nei confronti dei loro autori. I giuristi dicono che la prescrizione ha natura sostanziale, oggettiva: l’interesse pubblico a celebrare processi dopo molto tempo dai fatti viene meno e lo Stato, attraverso il suo apparato giudiziario, rinuncia a perseguirne gli autori. Di fatto - ecco un caso di eterogenesi dei fini -, anche se lascia un’ombra di possibile colpevolezza, la prescrizione ha cambiato natura ed è diventata uno strumento processuale per scampare alla giustizia: un’assoluzione per prescrizione per l’imputato, soprattutto se ha qualcosa da rimproverarsi, è meglio di un’eventuale condanna. Ma è anche una frustrazione della giustizia: dei magistrati che vedono andare in fumo i processi che hanno istruito; dei giudici che sono pronunciati invano in gradi precedenti del giudizio, delle vittime dei reati che si sentono beffati e giustificatamente alzano i pugni al cielo. Non nascondiamoci la realtà: soprattutto nei grandi processi dove sono all’opera i grandi avvocati, maestri nell’usare tutte le risorse della procedura che sono tante (rinvii, eccezioni del più vario genere, rinuncia alla difesa e sostituzione del difensore, ricusazioni, “termini a difesa”, ricorsi, ecc.) spesso si punta più sulla prescrizione del reato che sull’innocenza dell’imputato. Così quella che è una sconfitta d’una giustizia che a parole si vorrebbe rigorosa, certa, uguale per tutti e indipendente dalle circostanze, si trasforma in efficace incentivo della sconfitta medesima. Sappiamo però anche che la prescrizione dei reati è un fatto di civiltà, purché non diventi un salvacondotto dei criminali. È un fatto di civiltà perché non si può vivere in eterno restando sotto la minaccia del processo. Il processo è di per sé una pena. Se ha da esserci, lo si apra e lo si chiuda nei tempi più brevi possibili e non lo si lasci pendere come una minaccia sulla testa delle persone. La prescrizione del reato, che - ripeto - è pur sempre un fallimento della giustizia, serve a porre fine alla minaccia e ad assicurare la tranquillità d’animo che è condizione di libertà. Dunque, i reati devono essere prescrittibili, ma i tempi della prescrizione devono essere compatibili con quelli dell’ordinaria celebrazione dei processi. La brevità dei tempi di prescrizione deve essere in rapporto diretto con la rapidità della celebrazione dei processi. Se si vuole che la prescrizione avvenga in breve tempo, si accelerino i processi con semplificazioni delle procedure, eliminazione dei pretesti su cui prosperano i causidici, investimenti, riorganizzazioni. Per accelerare i processi non c’entrano nulla i termini di prescrizione, cioè i tempi oltre i quali lo stato rinuncia a esercitare la funzione giudiziaria. A meno che si dica ridurre i tempi ma si miri ad altro, all’impunità. Si evoca a tutto spiano l’Unione Europea che vuole processi brevi, ma la Corte di Giustizia si è già pronunciata con chiarezza, ponendo un principio: la prescrizione che vanifica i processi è contro lo stato di diritto e non è, dunque, una via percorribile (è la decisione sul “caso Taricco” del 2015: si trattava della responsabilità degli evasori fiscali). Un altro tema affatica i riformatori: l’appellabilità delle sentenze. A quanto si dice, ora si penserebbe di reintrodurre l’abolizione dell’appello del pubblico ministero contro il proscioglimento in primo grado. L’argomento è suggestivo: se uno è stato prosciolto una volta, come potrebbe il giudice d’appello ritenere fondato “oltre ogni ragionevole dubbio” il ricorso del pubblico ministero che chiede di rivedere la sentenza di assoluzione? Argomento suggestivo, sì, ma anche fondato? Il sol fatto che un giudice si sia espresso è di per sé garanzia che non vi possano “ragionevoli dubbi” sull’assoluzione? Precisamente, ragionando di “ragionevolezza”, proprio in casi come questi non dovrebbero essere ammesse le riconsiderazioni? Le decisioni di primo grado possono essere arbitrarie, irragionevoli, sbagliate e, proprio per correggerle, esiste l’appello. Pensando di abolirlo in base a quell’argomento, si farebbe cosa assai strana: l’appello serve a correggere i possibili errori, allora basta dire che il giudizio di chi li ha commessi è dotato d’un plus-valore di verità? Non c’è qui qualcosa come un ingolfo logico? Il doppio grado del giudizio non è prescritto dalla Costituzione. Ma la cosiddetta “parità delle armi” tra accusa e difesa è necessaria in vista del processo “giusto”. Giusto non sarebbe se l’accusa avesse più poteri della difesa, ma anche al contrario, se ne avesse meno: così disse la Corte costituzionale. Come si fa superare lo scoglio? Stando a quel che si legge, si vorrebbe limitare in qualche modo anche l’appello dell’imputato contro le sentenze di condanna in primo grado. Non abolendolo, ma ammettendolo solo in casi “rigorosi” stabiliti dalla legge? Quali? Non è già così? Chi, poi, decide se si rientra nei casi ammessi, se non un giudice d’appello? Quale groviglio dovrebbe essere sciolto dal legislatore; quante complicazioni e quante controversie ne nascerebbero? Altro che semplificazione, accelerazione. In ogni caso, non si risolverebbe affatto la questione del diritto all’uguaglianza perché questa è questione che non riguarda l’astratta architettura legislativa, ma la concreta posizione delle parti in quel singolo processo e nulla interessa loro se, in altri processi, ci sia una diversa ponderazione dei poteri, questa volta a sfavore della parte accusatrice. Fermiamoci qui, augurando buona fortuna a chi vuol mettere mano a una materia tanto spinosa, ingorgata, pericolosa, a rischio di controversie a priori inimmaginabili e con serie ricadute, per esempio, sulle parti offese dal reato. Una domanda: si parla nei termini anzidetti di riforma della giustizia per la giustizia. Davvero? Non sarà, invece, che la posta in gioco sia tutt’altra, politica, la tenuta del governo, di cui la giustizia rischia di fare le spese. E non sarà che la da tutti denunciata malattia della giustizia abbia bisogno di medicine d’altra natura? Il Pd a fianco di Cartabia per riformare la giustizia: “Noi ci siamo” di Giulia Merlo Il Domani, 14 maggio 2021 In diretta Facebook, i vertici del partito hanno presentato le proposte di riforma e le direttrici delle proposte del Pd. “C’è l’occasione di fare quegli interventi che accelerino i processi e migliorino la giustizia in Italia”, ha detto Enrico Letta. La materia è forse la più controversa all’interno della maggioranza, ma il Partito democratico sembra aver trovato nuova spinta per affrontare il tema della riforma della giustizia. “Dopo anni di scontro politico che ha paralizzato la giustizia ora con Cartabia e col governo Draghi c’è l’occasione di fare quegli interventi che accelerino i processi e migliorino la giustizia in Italia. Evitando la deriva impunitista così come quella giustizialista. Ci siamo”, ha detto il segretario Enrico Letta. A partire dalla constatazione che “a parità di condizioni, non tutti i distretti giudiziari hanno uguali performance”, il Pd propone un “Ufficio del monitoraggio delle performance degli uffici giudiziari” con l’obiettivo di uniformare il territorio sulle best practices degli uffici. Proposta, questa, presente anche nelle intenzioni della ministra della Giustizia Marta Cartabia. Inoltre il Pd propone di implementare la digitalizzazione - altro elemento fortemente richiamato dalla guardasigilli - e propone “il rito telematico, un “rito digitale” per far corrispondere le norme alle nuove tecnologie” oltre alla riorganizzazione digitale degli uffici e la creazione di banche dati degli orientamenti sul contenzioso e degli atti conclusivi e delle sentenze. Processo civile - Sulla riforma del civile, di cui il ddl è incardinato in commissione Giustizia al Senato, il Pd propone “pochi e mirati interventi sulla procedura per snellire e semplificare”, il potenziamento dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie e il loro incentivo attraverso un sistema di incentivi fiscali e di investire su specializzazione e sulla formazione professionale dei mediatori, oltre alla creazione dell’Uffico del processo (previsto anche nella proposta della ministra). Inoltre, “Per le numerose materie rientranti nella volontaria giurisdizione si può pensare di affidarle - per alleggerire il carico degli uffici giudiziari - alle competenze delle professioni già specializzate come avvocati, notai e commercialisti lasciando al giudice la trattazione delle materie collegate al contenzioso. Processo penale - Le proposte del Pd riguardano in particolare i riti alternativi: “oggi il 13% dei processi in primo grado si conclude con patteggiamento o rito abbreviato, una percentuale che dovrebbe aumentare di tre volte per deflazionare gli uffici giudiziari”. Poi c’è il riferimento alla giustizia riparativa, punto potenziale di frizione con il Movimento 5 Stelle: “la possibilità di estinguere alcune tipologie di reato mediante condotte riparatorie a tutela delle vittime” e con l’istituto della “archiviazione condizionata, secondo il quale il PM può imporre all’imputato l’obbligo di alcuni atti riparatori (da risarcimenti pecuniari a lavori socialmente utili”. Quanto all’attività del pm, le proposte sono di “modificare la regola di giudizio per la presentazione della richiesta di archiviazione prevedendo che il pubblico ministero, valutata la completezza, la congruità e la serietà del compendio probatorio acquisito, chieda l’archiviazione, al fine di escludere l’esercizio dell’azione penale in presenza di prove insufficienti o contradditorie laddove si ritenga inutile un nuovo supplemento istruttorio”. Sulla prescrizione, infine, il Pd punta a “correggere” la Spazza-corrotti con un meccanismo di prescrizione per fasi: “Nel caso di superamento dei termini di fase, sia in appello, sia in Cassazione, si dichiara l’improcedibilità in favore dell’imputato che viene assolto, la riduzione della pena di un terzo in favore dell’imputato la cui la condanna sia confermata o passi in giudicato, un equo indennizzo in favore dell’imputato che all’esito del giudizio di impugnazione contro una sentenza di condanna sia assolto. In ogni caso è previsto un termine (più lungo) oltre il quale opera l’improcedibilità”. Consiglio Superiore della Magistratura - “Da tempo chiediamo una riforma del Csm e siamo convinti che intervenire sulle regole dell’autogoverno non intacca ma valorizza e rafforza i principi costituzionali dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Si al pluralismo delle idee, ma per battere il correntismo non si può difendere l’esistente”, ha spiegato Anna Rossomando, la responsabile Giustizia dem. La proposta di riforma, resa tanto più impellente dai recenti fatti di cronaca, parte dalla riforma della legge elettorale per l’elezione del Csm introducendo la parità di genere. Quanto al funzionamento dell’organo: stop alle nomine a pacchetto, le nomine devono essere adottate in ordine cronologico e decise almeno due mesi prima della scadenza. Modifiche alla valutazione di professionalità: “le valutazioni devono essere condotte anche sulla base del parametro costituito dal dato percentuale di smentite processuali delle ipotesi accusatorie, prevedendo un massimo di percentuale significativo. E per i dirigenti degli uffici prevedere l’inserimento di una valutazione delle performance organizzative misurate secondo parametri oggettivi”. Infine, il Pd propone “la costituzione di un’Alta Corte competente almeno per il giudizio d’Appello sulle decisioni degli organi di autogoverno di tutte le magistrature. In pratica un giudice di Appello nei confronti delle decisioni disciplinari e amministrative del CSM, del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa e di quella Contabile”. Per farla, però, servirebbe una legge costituzionale. Carcere - L’obiettivo è portare a completa attuazione la riforma Orlando, a partire dall’aumento degli “spazi per il lavoro, lo studio e le attività in carcere”; l’aumento “da 45 a 60 giorni lo sconto di pena ogni 6 mesi per buona condotta” e “maggiore ricorso alle pene alternative al carcere e all’attività riparatoria e risarcitoria per i reati minori e bagattellari”. Riti e pene alternative, Adr e mediazione. È la giustizia targata Pd di Giacomo Puletti Il Dubbio, 14 maggio 2021 Il Segretario Dem letta presenta le proposte. Un’occasione storica, da concretizzare grazie a una maggioranza larga e atipica che, nelle parole del segretario del Partito democratico, Enrico Letta, “non ricapiterà più”. Ciò che emerge dalle proposte del Nazareno per modernizzare la giustizia in Italia riguarda la riforma del processo civile, quella del processo penale e infine quella del Consiglio superiore della Magistratura, per un radicale passo avanti necessario, secondo Letta, “dopo trent’anni di scontro politico che hanno reso impossibile qualsiasi tentativo di dialogo”. E soprattutto per ottenere i soldi del Recovery plan dall’Unione europea. “Dobbiamo ringraziare l’Europa, perché ci mette fretta e ci pone di fronte alle nostre responsabilità - ha spiegato Letta durante il webinar con cui il Pd ha illustrato le proprie idee - la non credibilità dell’Italia in tema di giustizia è figlia di ritardi e contraddizioni che durano da decenni”. E che ora i dem propongono di superare con il piano presentato da Anna Rossomando, senatrice e responsabile Giustizia del Nazareno. Secondo il Pd, i tre miliardi e duecento milioni di euro previsti dal Pnrr per la giustizia devono essere utilizzati per tre grandi aree tematiche che hanno lo stesso obiettivo: ridurre i tempi dei processi. Per questo si punta sulla digitalizzazione, con l’incremento del rito telematico e la creazione di nuove banche dati a disposizione dei magistrati; sull’organizzazione, con la revisione degli uffici giudiziari rivedendo ruoli e competenze; su migliori pratiche, con l’istituzione di un ufficio del monitoraggio delle performance dei singoli uffici giudiziari perché, ha detto Rossomando, “a parità di condizioni non tutti i distretti giudiziari hanno uguali risultati”. La prima grande riforma è quella del civile e in questo ambito il Nazareno punta sul potenziamento dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie (Adr), grazie a incentivi fiscali, riduzione dei costi dell’arbitrato e investimenti sulla formazione professionale dei mediatori; sulla piena attuazione dell’ufficio del processo, con una task force a sostegno dei magistrati con competenze economiche, sociali e organizzative; sul rafforzamento del ruolo del giudice, con un passaggio per definire il tipo di procedimento in ragione dell’entità e della complessità della causa. “Quello dei tempi certi della giustizia è il terreno sul quale vogliamo unire chi ha a cuore le garanzie degli imputati con chi tiene ai diritti delle parti offese”, ha spiegato il capogruppo dem in commissione Giustizia alla Camera, Alfredo Bazoli. Ma è sul penale che il Pd propone le maggiori novità. “Vogliamo incentivare la definizione anticipata dei procedimenti e potenzie i riti alternativi - ha spiegato Rossomando - prevedendo la possibilità di estinguere alcuni reati con condotte riparatorie a tutela delle vittime ed evitando il rinvio a giudizio se non si ha la ragionevole certezza della possibilità di arrivare a una condanna”. Accento poi sull’introduzione della videoregistrazione dell’assunzione delle prove dei processi di primo grado e sulla correzione “Spazza-corrotti” introducendo un meccanismo di prescrizione per fasi. Un paragrafo anche sul carcere, con l’idea di portare a completa attuazione la riforma Orlando aumentando gli spazi per il lavoro, lo studio e le attività e incentivando il ricorso alle pene alternative. Per il capogruppo Pd in commissione Giustizia al Senato, Franco Mirabelli, “potremmo aumentare gli sconti di pena per buona condotta da 45 a 60 giorni”. Un piano complesso, definito “una vera riforma di sistema” dalla capogruppo dem alla Camera, Debora Searracchiani, e del quale, secondo la capogruppo dei senatori del Pd, Simona Malpezzi, “si dovrà discutere nel merito in Parlamento”. C’è infine, un capitolo sul Csm, vera patata bollente della riforma dopo gli scandali che si stanno ripetendo da ormai due anni. L’obiettivo del Pd è limitare il correntismo anche attraverso una nuova legge elettorale e le nomine in ordine cronologico decise due mesi prima delle scadenza. “Chiediamo che nella valutazione del Pm si tenga conto del dato percentuale di smentite processuali delle ipotesi accusatorie ha spiegato Rossomando - introducendo criteri di modalità nell’elezione dei complenti del plenum del Csm”. Si chiede poi parità di genere, l’introduzione del diritto d’intervento e di voto agli avvocati e ai professori universitari nei consigli giudiziari e l’accesso tramite concorso aperto anche ai non magistrati per i segretari del Csm e per l’ufficio studi. La novità decisiva, in questo contesto, è però la proposta di creare un’Alta Corte competente almeno per il giudizio d’appello per le decisioni disciplinari e amministrative degli organi di autogoverno di tutte le magistrature. “Noi difendiamo l’indipendenza della Magistratura ha scandito Letta - Ma le attuali forme di autogoverno sono inconcepibili e hanno fallito”. La chiosa finale è di Franco Vazio, relatore della riforma del processo penale alla Camera. “Dobbiamo essere garantisti non come sinonimo di impunità, ma come ancoraggio ai valori costituzionali del giusto processo, della ragionevole durata e della presunzione d’innocenza”. La crisi delle toghe può essere il pretesto per distruggere l’attuale modello di giustizia di Antonio Sangermano Il Domani, 14 maggio 2021 Una premessa è necessaria: deve essere chiaro che Luca Palamara non rappresenta la magistratura italiana e non può divenirne il volto simbolico, essendo stato espressione, unitamente ad altri, del cosiddetto correntismo, ovvero solo la parte più agguerrita e visibile dell’associazionismo giudiziario. Identificare 9.400 magistrati, molti dei quali neppure iscritti alle correnti, con la vicenda che ha coinvolto Luca Palamara, significa usare violenza a migliaia di uomini e donne. Palamara, dopo avere rappresentato, insieme ad altri, il correntismo oggi non può pretendere di diventare il paladino della stragrande maggioranza dei magistrati, che con tali prassi non hanno proprio nulla a che spartire, ma che semmai ne sono stati indirettamente pregiudicati. Il libro di Palamara Il Sistema non è la Bibbia e non può diventare la ghiotta occasione per coagulare trasversalmente tutte le forze, interne ed esterne alla magistratura, che intendono approfittare della attuale crisi per distruggere il modello costituzionale di giustizia. Detto questo, se va cercata origine di che cosa ha avvelenato la magistratura per correggere l’errore, la risposta a mio parere è il combinato disposto tra Testo unico sulla dirigenza e gerarchizzazione delle procure. Questo ha scatenato il carrierismo, ma ambizione e giurisdizione sono ossimori. Bisogna tornare a criteri selettivi della dirigenza, oggettivi ed essenzialmente basati sul merito giurisdizionale e la pregressa esperienza, non riesumando il vieto criterio della anzianità senza demerito. È indispensabile che l’Anm, da trampolino di lancio per le carriere e arena politico-culturale, si riappropri del suo autentico ruolo di sindacato di categoria, anche incentrato sulla difesa dei valori costituzionali pertinenti il potere giudiziario, varando una severa e perdurante incompatibilità di ruoli con il Csm. Basta con le “porte girevoli” tra magistratura e politica, ogni volta che un magistrato si candida a qualche carica elettiva di natura politica, infligge una ferita profonda al corpo dell’ordine giudiziario. Tuttavia, lo scandalo del maggio 2019 non può divenire la ragione per una riforma che introduca il sorteggio per i membri del Csm, poiché seguendo la falsariga di questo ragionamento, allora dovremo sorteggiare anche i componenti del parlamento, che non mi pare sia stato immune da condotte individualmente censurabili. Io voglio sapere chi andrà al Csm e potere votare in coscienza, sulla base di un giudizio complesso, fondato su merito, esperienza, integrità e visione del candidato, perché il Csm è un organo di rilevanza costituzionale e non un’assemblea condominiale. Affidare alla sorte la scelta dei membri togati del Csm, con membri laici eletti dal parlamento, significherebbe minare alle fondamenta l’autonomia e il prestigio della magistratura. Ricordo ai numerosi detrattori a senso unico della magistratura, il tributo di sangue, abnegazione e senso dello Stato che tanti colleghi hanno pagato per difendere la democrazia dalla mafia, dal terrorismo, dalla criminalità. Lo scandalo del 2019 vede come persone offese innanzitutto migliaia di magistrati. Questo massimalismo violento e iniquo serve solo a delegittimare tutto e tutti. La riforma più profonda è in primo luogo di natura etica, riscoprire e attuare il valore e la purezza della giurisdizione, rifiutando la logica del potere, del protagonismo e dell’individualismo, nella consapevolezza che la violazione delle procedure formali apre inevitabilmente la strada all’arbitrio e all’abuso. Ciò non toglie che le riforme legislative siano assolutamente necessarie, e dovranno essere incisive, coraggiose e strutturali. La magistratura non è un contropotere, non deve chiudersi nel conservatorismo corporativo ma deve “fare sistema”, contribuendo a superare una epocale crisi sanitaria, sociale ed economica nel quadro di una responsabile sinergia repubblicana. Le riforme spettano al governo e al parlamento, che sapranno certamente coniugare garanzie ed efficacia repressiva, finalismo rieducativo della pena e difesa sociale. L’auspicio è che questa straordinaria opportunità storica serva a conservare i pregi del sistema, espellendone i difetti. Allentare il controllo di legalità sarebbe un errore terribile, perché la sicurezza è il collante dei diritti individuali e della pace sociale e senza legalità non ci sono diritti, ma solo paura e violenza. Veniamo ora ai fatti recenti della cosiddetta vicenda Amara. Non esprimo giudizi né sul caso né sui magistrati che ne sono indirettamente coinvolti a diverso titolo, perché non conosco i fatti e ho rispetto per le persone. Posso solo dire che quando ho avuto ragione di dubitare della correttezza di qualcuno, sulla base di elementi concreti, ho agito nelle sedi competenti in modo formale, investendo della mia doglianza il Comitato di presidenza del Csm, il procuratore generale e la competente autorità giudiziaria. Se altri hanno ritenuto di agire diversamente, avranno le loro ragioni, che saranno valutate dagli organi competenti. Ho piena fiducia nel Csm e nel procuratore generale presso la Corte di cassazione. Al netto di questa precisazione, intervengo su un punto: accostare Magistratura indipendente alla massoneria, come qualcuno pare abbia fatto, è ridicolo e offensivo. Magistratura indipendente è la componente associativa che rappresenta i tantissimi magistrati moderati, nel quadro di un progetto culturale fondato sul pluralismo, la polifonia, il netto rifiuto della ideologizzazione e del collateralismo, la centralità della giurisdizione quale spazio di attuazione del diritto e non già campo di battaglia della cosiddetta militanza civica. La delega e la supplenza che la politica assegna troppo spesso alla magistratura, sovraespongono il giudice in compiti che non gli appartengono e che ne snaturano la funzione. Ognuno faccia la sua parte, nel rispetto reciproco. Magistratura indipendente ha avviato un rinnovamento profondo e reale, senza mai indulgere al giustizialismo, senza sventolare cappi e mannaie. Questa è la nostra cifra, rigore e umanità. *Magistrato e membro dell’Anm “Alta Corte sui magistrati, così la giustizia guarisce” di Errico Novi Il Dubbio, 14 maggio 2021 Intervista ad Andrea Orlando. “Inutile cercare vendette con indagini parlamentari. Prescrizione, torna la mia legge”. “Non serve una commissione d’inchiesta sulla magistratura. Inutile cercare un regolamento di conti sul passato, come avverrebbe con l’indagine parlamentare invocata dal centrodestra. Noi del Pd e io personalmente teniamo molto all’idea, che rilanciamo in queste ore, di un’Alta Corte a cui affidare le funzioni disciplinari ora in capo al Csm. Serve un nuovo equilibrio”. A dirlo, in un’intervista al Dubbio, è Andrea Orlando, oggi ministro del Lavoro e nella precedente legislatura titolare della Giustizia. “Sono piuttosto orgoglioso del fatto che si pensi di recuperare la mia riforma della prescrizione”, osserva riguardo alle proposte avanzate dalla commissione di Marta Cartabia. E sulle posizioni dei 5S in materia di giustizia risponde: “Non vanno liquidate come segni di infantilismo”. “Se guardiamo indietro, se viviamo questa fase come occasione di rivincita, non faremo passi avanti”. Perché, ministro Orlando, vede questo rischio? “Neanche la commissione d’inchiesta serve, per esempio. I problemi, i mali, le degenerazioni della giustizia sono fin troppo chiari. Ci sono anche indagini di vario genere in corso. Non serve la retrospettiva, non servono inchieste del Parlamento sull’uso politico della giustizia, sui conti col passato da regolare. Ci vuole piuttosto una legge”. Quale? “Anche una legge costituzionale, se necessario. Ma di sicuro, fra le idee sul tavolo, noi del Pd e io personalmente teniamo molto all’idea che rilanciamo in queste ore di un’Alta Corte a cui affidare le funzioni giurisdizionali ora in capo al Csm. Credo si debba separare l’attività amministrativa del Consiglio da quella, appunto, disciplinare. Serve un nuovo equilibrio”. Intanto, ministro, c’è l’occasione di una riforma della giustizia attesa da lustri: realizzarla non significherebbe pure archiviare del tutto la stagione dei conflitti politici basati proprio sui riverberi delle vicende giudiziarie, quelli in particolare del cosiddetto ventennio berlusconiano? Sì, ma se lo sguardo è appunto rivolto al futuro anziché al passato. Se l’obiettivo è promuovere un sistema più efficiente e giusto anziché cercare rivincite o vendette. La commissione sulla magistratura invocata dal centrodestra è una vendetta? Mi limito a dire che non serve. Abbiamo ben chiari gli errori e i guasti da risolvere. Alcuni peraltro chiamano in causa una certa indole refrattaria della magistratura ad accettare qualunque modifica di sistema. C’è sempre stata, negli anni addietro, una resistenza anche corporativa a qualunque innovazione. È come in una casa in cui non si fa manutenzione per troppo tempo: a un certo punto può crollare. Lei provò a riformare il Csm... Ebbi modo di verificare le resistenze di cui le dicevo. Già all’epoca il Pd, a cominciare da Luciano Violante, proponeva un’idea per la magistratura come l’Alta Corte disciplinare ora da noi riportata nel dibattito. Serve una legge costituzionale? È un’ipotesi a cui corrispondono vari gradi di realizzazione. Ci si potrebbe fermare alla netta separazione di funzioni per i consiglieri superiori destinati alla sezione disciplinare, come previsto dalla riforma Bonafede, ora in discussione con la ministra Cartabia e la nuova maggioranza, oppure si può introdurre una soluzione più radicale e impegnativa come una vera e propria Alta Corte disciplinare separata dal Csm, che certo richiederebbe una modifica della Costituzione. La immagina con pari numero di laici e togati? Abbiamo un modello già disponibile: la Corte costituzionale. Mi pare funzioni bene, anche grazie all’indicazione dei componenti ripartita fra legislativo, magistrature e presidenza della Repubblica. Se una simile istituzione è in grado di giudicare le leggi non vedo perché un organismo analogo non potrebbe essere destinato a giudicare le condotte. Oltretutto si risponderebbe così a un’urgenza avvertita da tempo: concentrare in un unico organo l’attività disciplinare relativa a tutte le magistrature, non solo a quella ordinaria. Ne ha mai parlato con la ministra Cartabia? No. Devo dire che l’idea mi è cara da tempo: la riproposi qualche mese fa, oggi vedo lo spazio politico. Il Pd ha giustamente rilanciato la proposta riprendendo un’idea di Violante. Sul tavolo c’è la prescrizione: la commissione Lattanzi propone di fatto un ritorno alla sua legge. Se ne sente inorgoglito? Sinceramente sì, ne sono abbastanza orgoglioso, anche perché la commissione istituita dalla ministra Cartabia e guidata dal presidente Lattanzi riprende in realtà la mia idea originaria. Non è quella realizzata con la riforma penale del 2017? Quasi, tranne che per una sfumatura: io proposi di sospendere il decorso della prescrizione per due anni in appello e un anno in cassazione. Poi gli equilibri della maggioranza di allora richiesero di riformularla in un anno e mezzo di stop per ciascuna delle due fasi. In ogni caso è un’idea di equilibrio, che risolve il nodo prescrizione con un efficace empirismo. Visto che da una parte gli avvocati ricordano come gran parte delle prescrizioni maturi nel tempo delle indagini, e i magistrati viceversa parlano spesso di tecniche dilatorie della difesa, facciamo una cosa: prendiamo per buone entrambe le affermazioni e stabiliamo un punto di sintesi, con una limitata sospensione del decorso, sufficiente a garantire da una parte la ragionevole durata del processo e dall’altra l’effettività della pretesa punitiva dello Stato. Ottenere su questo un sì del M5S può voler dire anche favorire una loro visione più “matura” sulla giustizia? Ma io non credo che le posizioni del Movimento 5 Stelle possano essere liquidate come segni di immaturità. Sono posizioni piuttosto nette su determinate questioni, è un punto di vista politico, non un infantilismo. La sola obiezione che mi sento di muovere riguarda il metodo: io credo che non ci si possa illudere di affrontare emergenze assolute come la mafia o la corruzione con norme simbolo. Inutile confidare nella efficacia salvifica di alcuni singoli interventi. Non a tutto si può rispondere col diritto penale, anzi gran parte delle risposte deve per forza essere di altra natura. A proposito: con la legge sull’ergastolo ostativo si potrà recuperare anche la sua riforma del carcere? Mi faccia dire una cosa: c’è un’intelligenza della storia, in questa vicenda della sentenza sull’ergastolo ostativo. A cosa si riferisce? Una questione del genere non poteva capitare in mani migliori di quelle della professoressa Marta Cartabia, che ha sul tema competenza, conoscenze e sensibilità uniche. È un motivo che spinge all’ottimismo sulla soluzione da individuare. Quanto alla mia riforma sul penitenziario, di cui qua e là comunque sono state attuate alcune parti, credo sia chiaro si ispirasse alla necessità di risolvere il problema della sicurezza con un trattamento sanzionatorio più individualizzato, orientato al reinserimento sociale ma soprattutto a scongiurare una cetra stupidità nascosta nel sistema. Perché “stupidità”? Scusi, ma noi abbiamo tante vicende e situazioni diverse, tra i detenuti, trattate con percorsi di esecuzione penale drammaticamente uguali. Col risultato di favorire negli individui un’evoluzione peggiorativa: anziché rieducati, finiscono per essere più inclini all’illegalità di quanto fossero prima. Ecco, credo che sia diventata anche un po’ più popolare, rispetto a quando ero ministro della Giustizia, l’idea di una necessaria individualizzazione del trattamento. Quindi sì, sono ottimista sulla possibilità di portare a compimento anche quell’altra mia riforma. Ce n’è una che riguarda in particolare gli avvocati e il dicastero di cui adesso è responsabile: l’equo compenso per i professionisti. Cosa farà, proporrà emendamenti ai ddl ora all’esame della Camera? Non mi interessa come si potrà arrivare al risultato, ma che sia raggiunto. Si può approvare una legge come quelle in discussione alla Camera, così come si potrebbe inserire il rafforzamento dell’equo compenso all’interno dell’iniziativa che da ministro del Lavoro assumerò sugli ammortizzatori sociali. Ripeto, non conta: tengo sì a rivendicare l’antico copyright sull’equo compenso, che in effetti è del sottoscritto e del Pd. Le norme che preparammo insieme con il Cnf furono una nostra battaglia politica. Va evitata la proletarizzazione di intere generazioni di avvocati come di altri professionisti, in particolare tra i più giovani, di fronte a committenti forti. Ecco, vede, le riforme vanno fatte, non importa metterci un marchio sopra, farne un distintivo o barattarle con piccole vendette di retroguardia. Conta cambiare le cose, nel lavoro come nella giustizia. Effetto Palamara, la fiducia degli italiani nella magistratura cola a picco di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 14 maggio 2021 È questa la fotografia scattata dal Rapporto Italia 2021 dell’Eurispes: il consenso delle toghe cala al 47,7%. La ripresa dell’Italia passa attraverso la riforma della giustizia, che non può prescindere dalla fiducia dei cittadini nei confronti dei protagonisti della giurisdizione. A partire dai magistrati. Anche lungo queste due tracce si muove il Rapporto Italia 2021 dell’Eurispes. Il consenso che i cittadini ripongono nella magistratura è stato negli ultimi tre anni in buona sostanza stabile. Il calo più preoccupante si è registrato nell’ultimo anno, passando dal 49,3% del 2020 al 47,7% del 2021. Ad incidere gli scandali che hanno interessato alcuni magistrati coinvolti nelle vicende con protagonista Luca Palamara. Tuttavia, sottolinea lo studio di Eurispes, “sarebbe troppo semplice imputare questo andamento solo agli ultimi recenti fatti. Sicuramente, qualcosa nell’immaginario dei cittadini sta cambiando, la giustizia non è sempre giusta, e accanto alla figura mitizzata del giudice-eroe sta probabilmente prendendo piede l’idea che, comunque, anche la magistratura è fatta da uomini”. La fiducia degli italiani verso la giustizia è condizionata altresì dai procedimenti che arrivano a sentenza. Altri dati meritano attenzione e riguardano uno studio Eurispes, con il supporto delle Camere penali, che verrà presentato nelle prossime settimane. È stato esaminato un campione di 13.755 procedimenti pendenti in 32 tribunali dal quale emerge che le assoluzioni sono poco meno del 30%. Il 4% è dei procedimenti va incontro ad assoluzioni ex art. 131 bis del Codice penale (non punibilità per particolare tenuità del fatto). Le condanne incidono per il 43,7% delle sentenze, percentuale nettamente più bassa di quella rilevata nel 2008 (60,6%). Molto più elevata risulta la quota relativa all’estinzione del reato: 26,5%, a fronte del 14,9% del 2008. La prescrizione, motivo di estinzione del reato, incide per il 10% sui procedimenti arrivati a sentenza. Vale a dire poco più del 2% del totale dei processi monitorati. Solo un quinto dei processi penali (20,5%) arriva a sentenza in primo grado. Nel 78,9% dei casi, il procedimento termina con il rinvio ad altra udienza. La durata media del rinvio si attesta intorno ai cinque mesi per i procedimenti in aula monocratica e quattro mesi per quelli davanti al Tribunale collegiale. Rispetto al 2008 (anno di riferimento di una precedente rilevazione), si è assistito ad un aumento della percentuale dei rinvii ad altra udienza (+9,6%: nel 2008 la quota era del 69,3%). L’incidenza delle sentenze invece è scesa dal 29,5% al 20,5%. Nota dolente della giustizia tempi lunghi. Secondo l’istituto di ricerca, la lentezza dei processi continua ad essere una zavorra, un vero e proprio problema “storico” tutto italiano verso il quale servono interventi mirati. L’impegno della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, va in questa direzione. Lo dimostra il super-emendamento sul processo civile, che, tra le varie cose, intende rivitalizzare il processo civile. Grande valore si intende dare alla prima udienza davanti al giudice unico. Qui dovrebbero da subito cristallizzarsi gli elementi chiave della causa per garantire speditezza nel raggiungimento delle sentenze. Gli analisti dell’Eurispes ritengono non rinviabili gli interventi sul servizio giustizia. Sul fronte civile, la possibilità di ottenere giustizia in tempi ragionevoli è ormai quasi inimmaginabile, ma anche nel penale la “lentezza della nostra macchina giudiziaria è scoraggiante”. Già nel 2009 il 62,3% degli italiani individuavano nella durata irragionevole dei processi la principale causa del malfunzionamento della giustizia italiana e di uno sviluppo economico rallentato. Una convinzione che si è rafforzata nel tempo. “Pertanto - rileva Eurispes -, la riforma del sistema giudiziario, in direzione di una maggiore efficienza, rappresenta uno dei punti chiave sui quali il nostro Paese è chiamato ad attivarsi dall’Ue anche nella messa a punto del Recovery Plan”. Gli interventi in favore dell’innovazione organizzativa della giustizia hanno come dote finanziaria circa 2 miliardi di euro. Il primo obiettivo è la riduzione della durata dei processi, partendo dall’innovazione dei modelli organizzativi e puntando sull’implementazione delle tecnologie e della digitalizzazione. “Se l’Italia risente del poco invidiabile primato per produzione abnorme di leggi e leggine - sostengono i ricercatori Eurispes - ed è evidente la carenza di personale di sostegno al lavoro dei Giudici, la durata del processo, la sua organizzazione e gestione, i suoi percorsi e procedure sono nodi centrali per comprendere l’origine dei problemi legati alla giustizia”. Il ragionamento è analogo nel penale. “La ragionevole durata del processo come diritto dell’imputato - evidenzia l’istituto di ricerca -, ma anche delle vittime, rappresenta un principio costituzionale, purtroppo, costantemente violato nel nostro Paese”. Perché entrammo negli anni di piombo di Luigi Manconi La Repubblica, 14 maggio 2021 Ad alimentare la stagione del terrorismo fu anche una parte deviata dello Stato. Ma, come ricorda Mattarella, la Repubblica prevalse. Nella densa intervista rilasciata, domenica scorsa, dal Capo dello Stato Sergio Mattarella al direttore di questo giornale, si ritrova quella categoria di “zona grigia” elaborata da Primo Levi nel magnifico “I sommersi e i salvati”, pubblicato nel 1986, appena un anno prima che lo scrittore si togliesse la vita. Secondo Levi, la zona grigia “possiede una struttura interna incredibilmente complicata, e alberga in sé quanto basta per confondere il nostro potere di giudicare”. È una definizione essenziale al fine di leggere le circostanze storiche e gli eventi individuali e collettivi ai quali, nell’intervista ricordata, viene applicata quella formula. In altre parole, nel “giudicare” quell’epoca, accade che ci si possa “confondere”: da qui, la necessità di una discussione, la più franca possibile. Sergio Mattarella, sollecitato da Maurizio Molinari, afferma che in quegli anni la “zona grigia” era rappresentata dalle “posizioni inaccettabili di alcuni intellettuali dell’epoca, che favorirono la diffusione del mito della Resistenza tradita”. E, a proposito dello slogan “Né con le Br né con lo Stato”, dice: “Oggi non si può neanche ipotizzare l’idea dell’equiparazione tra lo Stato e le Brigate rosse, senza avvertire incredulità e sdegno, ma neppure allora era legittimo farlo”. Intanto, va resa giustizia a Leonardo Sciascia che, in genere (non da Mattarella e non da Molinari) viene additato come l’autore di quello slogan. Lo scrittore siciliano, intervistato da L’Espresso (4 febbraio 1979), dopo aver affermato: “Naturalmente io mi sarei comportato come Guido Rossa”, spiegava: “non ho mai formulato questo slogan. È nato dalla deformazione della mia valutazione negativa della classe politica italiana”. E aggiungeva: “Io non ho nessuna affezione per lo Stato così com’è, ma ne ho molta per la Costituzione”. Ecco il punto cruciale: quella mancata affezione era in qualche misura motivata? Attenzione: “motivata”, non “giustificata”. Se infatti si ricorresse al secondo termine, si potrebbe arrivare con una logica tanto inesorabile quanto perversa a giustificare anche le conseguenze ultime di tale disaffezione, fino al terrorismo. E questo non si vuole fare in alcun modo. Ciò che preme sottolineare è, piuttosto, che la mancata fiducia, fino alla critica più radicale e alla diffidenza più ostile nei confronti di “questo Stato”, aveva radici tutt’altro che esili e nient’affatto immaginarie. La strage del 12 dicembre 1969 e la morte di Giuseppe Pinelli, precipitato tre giorni dopo da una finestra della questura di Milano, furono il fattore determinante per indurre in una parte dell’opinione pubblica e in settori delle giovani generazioni un atteggiamento di estraneità, quando non di avversione, nei confronti dello Stato. Sentimenti non immotivati, dal momento che, seppure in maniera parziale, anche la verità giudiziaria avrebbe accertato - ma solo dopo trentasei anni - le gravissime responsabilità di alti funzionari dello Stato. Il Generale Gianadelio Maletti e il Capitano Antonio Labruna, appartenenti ai Servizi segreti, furono condannati in via definitiva per falso ideologico e favoreggiamento verso gli autori della strage (il gruppo veneto di Ordine Nuovo) e i loro ispiratori. Questi ultimi, nella sentenza della Cassazione del 2005, vennero individuati nelle persone di Franco Freda e Giovanni Ventura, non più perseguibili in quanto assolti in precedenza per lo stesso reato; d’altra parte, l’attività di “depistaggio” divenne fattispecie penale solo nel 2016: fosse stata introdotta prima nel nostro ordinamento è altamente probabile che altri funzionari dello Stato avrebbero seguito la stessa sorte di Maletti e Labruna. L’intuizione di una responsabilità di uomini e pezzi dello Stato in quella e in altre stragi, così come le tante pieghe oscure della morte di Pinelli, trattenuto illegalmente oltre il tempo previsto dal codice, pesarono in misura rilevante su quell’atteggiamento di “disaffezione” di cui si è detto. Ne conseguì che l’eccidio di Piazza Fontana rappresentò una sorta di trauma originario che modificava le aspettative e i valori di ampi segmenti dei movimenti collettivi. In proposito, oltre a chi scrive, Adriano Sofri e Giorgio Boatti parlarono di “perdita dell’innocenza”. Fino ad allora, lo scontro politico e di piazza - pur aspro e, talvolta, violento - aveva rispettato un sistema di regole non dette ma condivise, e aveva fissato un limite invalicabile nella intangibilità della vita umana. Poi, in un contesto di crescente drammatizzazione del quadro politico e sociale, i morti della Banca Nazionale dell’Agricoltura irrompono come un evento sconvolgente: e introducono nel conflitto in corso un’arma spaventosa e non prevista. Il sospetto che fosse una “strage di Stato” - ovvero, al di là delle forzature retoriche e ideologiche, che vi fossero coinvolti uomini degli apparati e delle istituzioni - non venne mai smentito in modo persuasivo. Si realizzò in quella circostanza, per una quota considerevole di giovani, una frattura nei confronti delle autorità pubbliche, mai adeguatamente sanata. Sia chiaro, la formula “perdita dell’innocenza” fu messa in discussione in primo luogo dagli stessi che l’avevano elaborata, in quanto, già prima della strage di piazza Fontana, quella “innocenza” era tutt’altro che piena e incontaminata. E, tuttavia, fu Piazza Fontana a costituire il fattore di precipitazione di quel sentimento di angoscia (e di paura), traducendolo in un atteggiamento di aggressività politica, che contribuì alla nascita del terrorismo di sinistra. Detto questo, è proprio vero che, come afferma il Capo dello Stato, la Repubblica democratica seppe “battere il terrorismo senza venire mai meno alla pienezza della garanzia dei diritti fondamentali” e “senza leggi eccezionali”? Mi permetto di dissentire. Un esempio solo: una norma del febbraio del 1980, concernente misure urgenti “per la tutela dell’ordine democratico”, prevedeva, per i delitti commessi con finalità di terrorismo, che i termini di durata massima della custodia preventiva fossero prolungati di un terzo rispetto a quelli ordinari: fino a raggiungere quasi i 12 anni. E che non si trattasse di una rarità è dimostrato, tra l’altro, dal fatto che - come ricorda Andrea Pugiotto - in quegli anni la casa editrice Giuffré pubblicava una collana, diretta da Giovanni Conso, dal titolo “La legislazione dell’emergenza”. Su un altro piano, ricordo ancora che nel 1982, a seguito del sequestro del generale Dozier, un certo numero di brigatisti subì sevizie tali da venire qualificate come torture, se allora il relativo reato fosse stato previsto dal nostro ordinamento. Per questi fatti, quattro poliziotti furono condannati in primo grado e poi amnistiati; e uno degli autori delle violenze trent’anni dopo raccontò a Pier Vittorio Buffa de L’Espresso la dinamica di quegli abusi e le responsabilità di altissimi funzionari dello Stato. Infine, oltre che le valutazioni (sui movimenti della fine degli anni 60 e sulle riforme del decennio successivo...), sono condivisibili le parole conclusive del Capo dello Stato: “è la Repubblica ad avere prevalso” sul terrorismo rosso e su quello nero. E, aggiungo, sullo stragismo (almeno un po’) “di Stato”. Un Paese che resta ancora prigioniero del suo passato di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 14 maggio 2021 L’Italia è incapace di pensare al nuovo, di progredire, l’attenzione del suo discorso pubblico è sempre pronta a rivolgersi ossessivamente all’indietro. Riusciamo a immaginare che nell’Italia del 1980, nell’Italia, tanto per ricordare, in cui entrava in vigore la riforma sanitaria e si svolgeva la “marcia dei quarantamila”, potesse accendersi una lunga discussione pubblica sulla stampa come nel mondo politico e intellettuale, chessò, circa le malefatte dello Stato Maggiore e le complicità di Badoglio nell’inverno-primavera del 1940, per aver assecondato la decisione di Mussolini di gettare il Paese nella catastrofe della Seconda guerra mondiale? È immaginabile che potesse accadere una cosa del genere? Mi pare molto difficile. E invece ci sembra del tutto ovvio che nell’Italia del 2021, nell’Italia di oggi, si torni ancora una volta a dibattere del terrorismo. Si torni a dibattere dei suoi mille retroscena, delle sue oscure complicità, dei suoi mille aspetti non chiariti: si torni a discutere per l’appunto di quanto è accaduto più o meno quarant’anni fa o ancora prima. Capisco le buone, le ottime, ragioni per farlo. Che stanno non solo nelle complicità e nei retroscena detti sopra ma specialmente nell’esigenza, morale ancor prima che giudiziaria, di risarcire le vittime, di rendere giustizia a chi soffrì la perdita di mariti, di padri, di figli, assassinati nel modo più indifferente e brutale. Nell’esigenza di rendere loro giustizia dando innanzi tutto un nome non solo agli esecutori ma anche ai mandanti dei delitti in questione. Ma i delitti di cui stiamo parlando, i delitti del terrorismo, non furono un fatto privato. Non c’è bisogno di scomodare la categoria della guerra civile per affermare che essi furono un fatto anche eminentemente pubblico, rivolti contro la comunità nazionale e il suo ordinamento politico-costituzionale. Proprio per questo è lecito chiedersi: fino a quando ha un senso che tale comunità mantenga viva la sua attenzione più fervida, discuta appassionatamente, indaghi, s’interroghi e quindi si divida su quei delitti e il vasto contesto in cui avvennero? Oggi sono a un dipresso quarant’anni e ne discutiamo ancora. Lo faremo pure tra dieci anni? tra venti? Fino a quando? Si dice: ma ci sono complicità cruciali e mandanti occulti di cui non sappiamo ancora nulla. Se anche fosse vero - e in parte lo sarà senz’altro, come del resto è ovvio in queste faccende: è possibile però, mi chiedo, che dopo tanto tempo e tante indagini, di autentici grandi burattinai non ne sia venuto fuori neppure uno da mandare in galera? - se anche fosse vero, dicevo, il discorso che sto facendo non riguarda in alcun modo un’eventuale amnistia. Per i reati non ancora prescritti la magistratura, se ha degli elementi, continui pure le sue indagini. Quello che m’interessa e di cui sto dicendo è altra cosa. Riguarda il discorso pubblico del Paese e l’immagine di questo: l’immagine della sua psicologia e della sua mentalità, della sua cultura diffusa, della sua retorica, da tutto quanto viene fuori dall’ interminabile rimestare che ormai da mezzo secolo veniamo facendo di quella lontana tragedia tra memorie, ricostruzioni, illazioni, riflessioni, rimpianti, evocazioni e rievocazioni di ogni tipo. In una estenuata immersione nel passato che sembra non conoscere mai fine, tra obbligatori sdegni di Stato e molte lacrime di coccodrillo. Eppure il passato, per vivere, bisogna a un certo punto gettarselo alle spalle. Non dimenticarlo ma neppure restarne prigionieri. Semplicemente metterlo da un canto per trarne, quando serve, la necessaria ispirazione: magari, se possibile, nella solitudine delle coscienze anziché negli “special” televisivi. Nel dopoguerra l’Italia fu capace di rialzarsi, di rimboccarsi le maniche e di compiere la spettacolare rinascita di cui ancora in qualche modo godiamo i frutti perché innanzi tutto le riuscì proprio questo: di sciogliersi dai lacci del proprio recente passato. Fu ciò che si propose l’amnistia per le nefandezze commesse durante la guerra civile promossa da Togliatti nell’accordo generale. Un’amnistia che lungi dal rappresentare un vile gesto di rinuncia fu viceversa un saggio atto di governo: al prezzo di un certo numero di ingiustizie, è vero, ma in vista di un vantaggio superiore. Quello appunto di esorcizzare il potere ricattatorio e paralizzante del passato terribile che avevamo attraversato. Per vent’anni il Paese si limitò a rievocare le vicende trascorse nelle occasioni di prammatica, nelle date del calendario civile della nazione, ma nella sua pur aspra quotidianità politica si occupò d’altro e guardò avanti raggiungendo i traguardi che sappiamo. Proprio quello che invece l’Italia odierna non sembra in grado di fare: e forse proprio perciò siamo da decenni un Paese bloccato, che sembra quasi ipnotizzato dalle proprie impossibilità. Un Paese incapace di muoversi e di progredire, di superare gli ostacoli, di pensare al nuovo, perché la sua testa e i suoi occhi, l’attenzione del suo discorso pubblico, sono sempre pronti a rivolgersi ossessivamente all’indietro: a piazza Fontana, a Sindona, a Ustica, alla strage di Stato, alle Brigate Rosse, alla P2, a Mani Pulite. E così via, così via, nell’elenco praticamente infinito di un passato che non passa. Terrorismo Anni Settanta, celebrazioni e verità di Davide Conti Il Manifesto, 14 maggio 2021 Conti col passato. Serve a poco la retorica che ogni 9 maggio ricorda Aldo Moro e “l’attacco al cuore dello Stato” delle Br, senza raccontare che da quel cuore, il 12 dicembre 1969, era nato il terrorismo. Il dibattito sugli anni 70 riattivato dagli arresti in Francia di ex membri di Brigate Rosse, Pac e Lotta Continua ha eluso alcune questioni di fondo: come si fanno i conti con il passato? Chi li deve fare? Con quali strumenti? Il primo indispensabile fattore che materializza un processo così articolato è la ricerca storica che opera la ricostruzione di fatti, contesti politico-sociali ed internazionali. Alla società nel suo insieme (istituzioni, partiti politici, organizzazioni sociali, mondo della cultura) si richiede la forza di misurarsi con questa dimensione facendosi carico di una resa di complessità in grado di restituire una rappresentazione reale degli eventi. Gli “strumenti d’opera” non possono essere unicamente ricondotti alla questione penale perché ciò avvita il dibattito su una dualità opposta e riduttiva: “certezza della pena” o “soluzione umanitaria”. La questione resta storica ed il nodo non sciolto del “lungo ‘68” risiede in un “non detto” di centrale importanza: il ruolo di uno Stato non defascistizzato di fronte alle trasformazioni della società nella Guerra Fredda. Finiti gli anni cruenti del dopoguerra 1947-1954 (strage di Portella della Ginestra e 81 tra operai e contadini uccisi dalle forze dell’ordine nel corso di lotte per lavoro e terra); chiusa la fase dura della Guerra Fredda 1955-1959 (11 morti); superato il governo Tambroni (eccidi a Reggio Emilia e in Sicilia), gli anni del centro-sinistra furono i primi senza morti in piazza. Tuttavia ripresero dal 1968 a Lodè e Avola con il fuoco sui contadini siciliani. Allora Umberto Terracini pose il disarmo della polizia in funzioni di ordine pubblico come questione che “riassume e precisa in sé il problema fondamentale della vita attuale del Paese” ovvero “la ferma volontà degli uomini di governo di custodire e difendere, costi quel che costi, il sistema di gerarchie sociali ed economiche sulle quali si era sempre retta la vecchia Italia liberale-monarchica e fascista”. Il tema fu cancellato nel 1969 (anno dell’eccidio a Battipaglia) dall’irrompere della strage di Piazza Fontana, un’azione paramilitare contro civili inermi non rivendicata, eseguita dai fascisti di Ordine Nuovo con la complicità diretta di uomini degli apparati dello Stato. L’attentato terroristico fu il culmine eversivo volto a: trasferire sul terreno paramilitare il conflitto politico-sociale del ‘68-’69; uccidere civili per realizzare un’operazione regressiva nella società e nello Stato; destabilizzare l’ordine pubblico delegittimando l’identità della democrazia conflittuale nata dalla Resistenza. Seguirono le stragi della Questura di Milano durante la commemorazione dell’assassinio di Luigi Calabresi (1973), Brescia e treno Italicus (1974), Ustica e Bologna (1980). Lo stragismo è rimasto impunito, tranne singoli e limitati casi, quasi rimosso dalla sfera pubblica; con processi durati decenni; sostituito nell’immaginario collettivo dalla formula cinematografica “anni di piombo”. L’indiscutibile sostegno di cui godettero i responsabili degli attentati da parte dei vertici dei servizi segreti (che garantirono impunità, latitanze e depistaggi) non fu episodico ma strutturale a tutti i fatti di strage. In questo quadro tuttavia prese forma la “legge Reale” del 1975 di cui Lelio Basso sottolineò il “carattere profondamente regressivo” teso ad “annullare di colpo le poche conquiste che erano state fatte sui codici fascisti”. Un “massiccio restringimento delle libertà e delle garanzie costituzionali”, scrissero i giuristi Ferrajoli e Zolo, da cui scaturirono altri morti nelle piazze. Fare i conti con quel passato significa affrontare queste misure della storia repubblicana senza trincerarsi dietro paradigmi autoassolutori o censure. Le vittime del terrorismo stragista ed i loro familiari, al netto della retorica usata sopra di loro negli anniversari, sono state umiliate da decenni di depistaggi e omertà istituzionali e solo la loro tenacia può permettere oggi, come dimostra l’inchiesta sulla strage di Bologna, di discutere le responsabilità di uomini delle istituzioni in quegli eccidi. D’altro canto contestualizzare la storia non significa “giustificare” gli omicidi politici dei gruppi armati di sinistra e tantomeno eludere il tema della verità e della giustizia per i loro parenti. Allo Stato però è lecito chiedere il coraggio di non nascondersi alle spalle delle persone e del loro dolore ma restituire al Paese il senso della sua storia. Serve capire l’origine di un fenomeno per respingerne il messaggio politico, posto che gran parte di quei militanti ha scontato il carcere dopo la sconfitta. L’evocata clemenza in cambio di verità inizia da una profonda rivisitazione senza sconti per nessuno. Capire com’è morto Giuseppe Pinelli senza nascondersi dietro il “malore attivo”, dare volto politico ai mandanti delle stragi, spiegare perché i vertici dei servizi segreti finirono in mano alla P2. Su questo serve poco la retorica celebrativa che ogni 9 maggio ricorda l’uccisione di Aldo Moro e condanna “l’attacco al cuore dello Stato” portato dalle Br senza raccontare, anche, che da quel cuore, il 12 dicembre 1969, era nato il terrorismo. Cesena. Imbottito di psicofarmaci per 7 anni: mai stato pericoloso, ma resta recluso di Rita Bernardini Il Riformista, 14 maggio 2021 Dal novembre del 2014, a seguito di una perizia psichiatrica è rinchiuso in una Comunità. Nel 2020 è emerso che la diagnosi era sbagliata, ma nonostante l’errore non lo lasciano tornare a casa. Marco Pannella non si stancava di sottolineare la tendenza della ragion di Stato a prevalere sullo Stato di diritto: oggi, davanti a casi come quello di Alberto Esposito, viene da chiedersi se questo fenomeno non sia divenuto ormai un tratto indelebile della “giustizia” nostrana. Con una diagnosi errata, in base alla quale viene dichiarato socialmente pericoloso, ha inizio il calvario giudiziario di Esposito, quarantanovenne di Rimini, sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata presso una comunità terapeutica di Cesena dal novembre 2014, quando una perizia psichiatrica lo definisce incapace d’intendere e di volere al momento di commissione del fatto, ma schizofrenico. Accusato di atti osceni per aver mostrato i genitali in pubblico, pur prosciolto dal Tribunale di Rimini per difetto d’imputabilità, è stato tuttavia dichiarato socialmente pericoloso sulla base della diagnosi di schizofrenia e sottoposto quindi alla misura di sicurezza della libertà vigilata per un anno, provvedimento poi rinnovato ad ogni scadenza ed ancora oggi in vigore. I119 febbraio 2020, tuttavia, il Magistrato di Sorveglianza di Bologna, non senza manifestare scetticismo e perplessità, ha finalmente disposto una nuova perizia d’ufficio, dopo che lo psichiatra Danilo Montinaro, consulente nominato dal difensore Vincenzo di Nanna, ha accertato come il signor Esposito sia affetto solo da ritardo mentale. La perizia d’ufficio del prof. Antonio Melega, esclusa ogni forma di schizofrenia, ha confermato le conclusioni formulate dal consulente della difesa, che renderebbero inutili (se non dannosi) i farmaci antipsicotici prescritti per la cura della schizofrenia, con cui Esposito è stato “imbottito” per sette lunghi anni. Anzi, secondo Montinaro, recentemente intervistato da Radio Radicale, “i potenti antipsicotici e psicofarmaci potrebbero aver peggiorato il decadimento cognitivo”. La madre Carla, che per sette anni ha ribadito come Esposito non sia affatto socialmente pericoloso, si sta battendo affinché ritorni a casa: “Hanno tolto la giovinezza a mio figlio”, ha dichiarato al Corriere di Bologna. Ma nonostante gli appelli della madre e le questioni sollevate dall’on. Roberto Giachetti (Italia Viva), che ha presentato una interrogazione parlamentare sulla vicenda, il magistrato ha disposto ancora una volta il rinnovo della misura: pur recependo la diagnosi di ritardo mentale, a giudizio del magistrato non si può sottovalutare l’ipotesi che, se comportamenti siffatti o condotte minacciose venissero tenute nei confronti di persone diverse dagli operatori della struttura non potrebbero escludersi reazioni impaurite e una eventuale escalation dagli effetti non prevedibili. Ed è qui che viene in mente l’adagio di Pannella, ovvero: come bisogna interpretare tale parere? Non è forse come dire che, non essendo pericoloso, in uno Stato di diritto l’accusato dovrebbe essere libero di tornare a casa dai suoi cari, ma la sua condizione potrebbe causare reazioni disordinate e dunque secondo la ragion di Stato lo teniamo recluso? Il provvedimento è stato subito impugnato dal difensore Di Nanna, il quale ne ha posto in rilievo le contraddizioni: pur recependo la nuova e corretta diagnosi, in maniera del tutto irrazionale e contraddittoria finisce per dissentire dalle conclusioni del perito d’ufficio, il quale ha peraltro specificato che un farmaco come la Clonazina è “caduto in disuso per gli effetti collaterali che poteva produrre sulla crisi ematica”. Pur nel rispetto delle decisioni sinora assunte dal Magistrato di Sorveglianza, viene allora spontanea e inevitabile la domanda: se il paziente non soffre di schizofrenia ed è stato per anni giudicato “pericoloso” sulla base di tale errata diagnosi, perché è ancora “curato” come uno schizofrenico ed è sottoposto a una misura di sicurezza? Questo caso conferma purtroppo come una volta che si è giudicati socialmente pericolosi si rischi di esserlo per sempre, in quanto la misura disposta viene rinnovata sine die un fenomeno che per molti si traduce nel famigerato “ergastolo bianco”, immagine di quella ragion di Stato che prevale, ancora una volta, con prepotenza sullo Stato di diritto in Italia. Caserta. Servizi postali negati ai detenuti: esplode la protesta di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 14 maggio 2021 La denuncia del Garante Regionale Samuele Ciambriello. “Nella mia attività di Garante dei detenuti sempre più frequentemente mi imbatto in problematiche relative all’accesso ai servizi delle Poste italiane da parte della popolazione detenuta. Devo purtroppo registrare una situazione di estrema incertezza e di sostanziale disinteresse, che si riflette negativamente sulle legittime richieste da parte delle persone private della libertà. Ad esempio, un caso che mi è stato sottoposto di recente aveva a che fare con l’impossibilità per una persona detenuta di delegare la propria moglie a richiedere la sostituzione di una carta PostePay”. Lo denuncia in una nota Samuele Ciambriello. “Secondo l’ufficio delle Poste competente, a tale richiesta avrebbe dovuto provvedere di persona il detenuto. Di fronte a una risposta così ferma mi sono chiesto se sia mai possibile che per una operazione del genere sia necessario fare richiesta al magistrato di sorveglianza perché consenta alla persona detenuta di recarsi fuori dal carcere, con tutte le difficoltà organizzative che questo comporta. Così ho provveduto a contattare diversi dirigenti, locali e nazionali di Poste italiane, per tentare di trovare una soluzione, e ho potuto toccare con mano la situazione di incertezza sia normativa sia applicativa che accompagnano queste situazioni. È evidente come tutto ciò impatti in maniera particolarmente negativa sulle già difficili condizioni di vita detentiva. Rivolgo pertanto un pubblico appello a Poste Italiane e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria affinché sia rivolta maggiore attenzione nella prestazione di servizi essenziali anche e soprattutto nel momento in cui questi riguardino la popolazione carceraria”. Pavia. Presunti pestaggi in carcere, la Gip annulla l’archiviazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 maggio 2021 L’Associazione Antigone nell’ultimo rapporto ha pubblicato gli episodi di pestaggi e violenza in Italia dopo le rivolte di marzo 2020. Potrebbero aprirsi nuovamente le indagini, molto più approfondite, in merito ai presunti pestaggi avvenuti nel carcere di Pavia dopo le rivolte di marzo 2020. L’esposto presentato dai detenuti, presunte vittime di pestaggi, era stato archiviato mesi fa. Ma arriva il colpo di scena: la giudice Valentina Nevoso ha annullato l’archiviazione suggerendo di fare ulteriori indagini. Esulta l’associazione Antigone che ha seguito il caso fin dall’inizio tramite l’avvocata Simona Filippi. L’esposto dei detenuti riguarda un pestaggio che avrebbero subito all’indomani della rivolta dell’8 marzo, quella che ha riguardato diversi istituti penitenziari. Secondo la loro ricostruzione gli agenti si sarebbero prima presentati nelle loro celle, verso le due di notte, per insultarli e minacciarli. Il giorno dopo alcuni detenuti sarebbero stati convocati nella saletta ricreativa della sezione, dove sarebbero stati picchiati. Sono diversi i procedimenti per presunti pestaggi dopo le rivolte di marzo 2020 - Non è da poco, visto che con l’annullamento dell’archiviazione rimangono ancora in piedi diversi procedimenti riguardanti i presunti pestaggi avvenuti in seguito alle rivolte di marzo dell’anno scorso che hanno coinvolto diverse carceri italiane. Come spiega l’avvocata Filippi di Antigone, gli esposti sono tutti in fase di indagini, ad eccezione del caso del carcere di Modena dove si registrarono nove morti e la procura ha chiesto di recente l’archiviazione. A questo punto, vale la pena elencare i diversi procedimenti aperti sui presunti casi di reato di tortura post rivolte. Per questo bisogna rispolverare l’ultimo rapporto di Antigone “Oltre il virus”, dove c’è una panoramica completa. Da Milano a Foggia: tantissime le denunce di violenze - Partiamo da Milano. A marzo 2020, nel corso dell’emergenza pandemica, Antigone viene contattata da molti familiari di persone detenute presso il Carcere di Opera, a Milano. L’associazione riceve la segnalazione di violenze, abusi e maltrattamenti nei confronti dei propri familiari, che sarebbero stati così puniti per la rivolta che avevano portato avanti in precedenza nel primo reparto. A seguire Antigone ha presentato un esposto per tortura. Sempre nello stesso periodo, Antigone viene contattata dai familiari di diverse persone detenute presso il carcere di Melfi. Denunciano gravi violenze, abusi e maltrattamenti subiti dai propri familiari nella notte tra il 16 ed il 17 marzo 2020, verso le ore 3.30. Come a Milano, si tratterebbe di una punizione per la protesta scoppiata il 9 marzo 2020. Le testimonianze parlano di detenuti denudati, picchiati, insultati e messi in isolamento. Molte delle vittime sarebbero poi state trasferite. Durante le traduzioni non sarebbe stato consentito loro di andare in bagno. E sarebbero state fatte firmare loro delle dichiarazioni in cui attestavano di essere cadute accidentalmente. Ad aprile 2020 Antigone ha presentato un esposto per violenze, abusi e torture. Nel mese di aprile del 2020, invece, Antigone viene contattata da familiari di varie persone detenute presso il reparto “Nilo” della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere per denunciare i presunti abusi, violenze e torture che alcuni detenuti avrebbero subito nel pomeriggio del 6 aprile 2020, anche qui come ritorsione per la protesta del giorno precedente, che aveva fatto seguito alla notizia secondo cui vi era nell’istituto una persona positiva al coronavirus. I medici avrebbero visitato solo alcune delle persone detenute poste in isolamento, non refertandone peraltro le lesioni. A fine aprile 2020 Antigone ha presentato un esposto per tortura, percosse, omissione di referto, falso e favoreggiamento. A giugno 2020 la Procura fa notificare dai carabinieri avvisi di garanzia a 44 agenti di polizia penitenziaria indagati per tortura, abuso di potere e violenza privata. Agli atti dell’inchiesta ci sarebbero video che mostrano i pestaggi, detenuti inginocchiati e picchiati con i manganelli. A questi casi, aggiungiamo la vicenda del carcere di Foggia. Sempre a seguito della rivolta nel mese di marzo 2020. Ad occuparsi del caso è stata “La rete emergenza carcere” composta dalle associazioni Yairaiha Onlus, Bianca Guidetti Serra, Legal Team, Osservatorio Repressione e LasciateCIEntrare. Si tratta di testimonianze dei familiari di alcuni detenuti presso la Casa circondariale di Foggia prima del trasferimento in seguito alla rivolta. Sono ben sette le drammatiche testimonianze, compreso la violenza che si sarebbe perpetuata nei confronti di un detenuto in carrozzina. Il procedimento risulterebbe ancora aperto. Udine. “Due priorità in carcere: la ristrutturazione e i vaccini ai detenuti” di Franco Corleone Messaggero Veneto, 14 maggio 2021 Il progetto del Garante dei diritti. Il 26 aprile sono stato eletto dal Consiglio comunale garante dei diritti dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale con un voto che ha visto partecipe gran parte della maggioranza e dell’opposizione, il che aumenta la mia responsabilità. Un anno di pandemia ha provocato un isolamento del carcere molto preoccupante ed è indispensabile una particolare attenzione per tornare presto ai principi della Costituzione, dell’Ordinamento penitenziario e del Regolamento del 2000 in troppe sue parti ancora disatteso. L’inizio del Covid ha provocato rivolte che non si verificavano da decenni, addirittura con 13 detenuti morti, colpevolmente archiviati come corpi a perdere. A Udine c’è un patrimonio di attività compiuto dalla precedente garante Natascia Marzinotto che va salvaguardato. Mi provoca emozione riprendere il compito e il ruolo di Maurizio Battistutta che dedicò fino all’ultimo respiro la sua vita al mondo dell’esclusione sociale. Gli ultimi di Padre Turoldo. Quando entro nel carcere di Udine guardo il melo che è stato piantato per dare forza al suo sogno di un luogo diverso. La priorità assoluta sarà la realizzazione del progetto di ristrutturazione dell’istituto messo a punto dagli architetti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria su impulso della Società della Ragione. La sezione ex femminile, abbandonata al degrado da venti anni diventerà il polo delle attività culturali e sociali, con laboratori per la lettura, la scrittura, il teatro, la biblioteca, attività artigianali e creative. Sarà costruita una sezione per i detenuti in semilibertà, un campo da gioco e alla fine sarà prevista una riorganizzazione degli spazi prevedendo una palestra, un luogo di preghiera e meditazione. Non ultima una riorganizzazione dell’infermeria per garantire sicurezza al personale e dignità ai pazienti. Il mese prossimo organizzeremo un seminario per presentare alla città l’ipotesi di trasformazione. Intanto premono le urgenze. Ancora non sono stati vaccinati i detenuti e l’intera comunità penitenziaria, per primi i volontari che sono essenziali per stabilire relazioni con i detenuti. Il ritardo dovrà non protrarsi oltre. Il carcere soffre il sovraffollamento, infatti rispetto a 90 posti, le presenze si aggirano sulle 160 unità. Dai dati che mi sono stati consegnati, un centinaio di prigionieri sono definitivi; su queste persone occorrerebbe un impegno particolare per applicare le misure alternative, dalla semilibertà a progetti di inserimento in comunità di vario tipo, almeno utilizzando la detenzione domiciliare speciale. La platea più facilmente interessata è quella sotto i tre anni dal fine pena, che potrebbe uscire con affidamento in prova al servizio sociale: ben 23 nel 2021, 28 nel 2022 e 12 nel 2023. Perché stanno in carcere? L’interrogativo non può rimanere senza risposta: mancano progetti perché non c’è lavoro e manca la casa? Il carcere di Udine ha bisogno di più educatori e va stretto il rapporto con l’Uepe, la struttura per le misure esterne. La magistratura di sorveglianza è disponibile e va fatto un salto con un impegno di tutte le istituzioni, approfittando anche del progetto di Cassa Ammende. Sono rimasto colpito dalla denuncia del medico incaricato per la situazione dell’infermeria, verificando io stesso il deterioramento della pavimentazione sconnessa, dell’umidità presente sui muri, la mancanza di un bagno e di un minimo di privacy. Non ultimo la mancata sanificazione dei locali nell’anno del Covid! Nonostante questo, posso dire che il personale è impegnato con passione e voglia di lavorare. Sassari. Nel carcere di Bancali si beve l’acqua sporca dei rubinetti: “Detenuti in pericolo” di Daniela Marcellino sassarioggi.it, 14 maggio 2021 A Bancali il pericolo viene dall’acqua. Lo denuncia Antonello Unida, garante dei detenuti di Sassari che mercoledì, a Palazzo Ducale, nella relazione annuale sulla sua attività, ha illustrato, in V Commissione, i problemi del penitenziario alle porte del capoluogo turritano. Una struttura inaugurata nel 2013 e ancora priva dell’acqua potabile. La mancanza non è trascurabile. Non tutti i carcerati infatti hanno la possibilità di acquistare le bottiglie col prezioso liquido. Le dichiarazioni di Unida - “In molti bevono dal rubinetto. È un’acqua sporca, aranciata - spiega il garante che sottolinea come il consumo accomuni sia sassaresi che extracomunitari -. Vi sono effetti pericolosi e progressivi sulla salute. Lo vedo da lontano se ne fanno uso. Sono magrissimi e dal ventre prominente, oltre ad essere spesso senza denti”. Le conseguenze fisiche - Queste le conseguenze visibili mentre le altre, all’opera sottotraccia, compromettono alla lunga la funzionalità degli organi vitali. Neppure la grande generosità dei cittadini i quali regalano con frequenza casse di acqua minerale agli ospiti del carcere, può al momento sopperire al problema. Tra le altre criticità segnalate l’eccesso di casi psichiatrici, la presenza di un solo funzionario pedagogico su 397 detenuti e la presunta latitanza del Comune per il disbrigo delle pratiche burocratiche chieste dai detenuti. L’attacco - È vergognoso - tuona Unida - che da 15 giorni non si veda il referente dell’amministrazione”. L’accusa provoca la reazione della dirigente Daniela Marcellino, vicesegretario generale, che interviene sospendendo la seduta e negando le affermazioni del garante. I toni tra i due salgono di volume fino al chiarimento, al cellulare e in viva voce, del dipendente comunale chiamato in causa: “Ero a Bancali ieri”, spiega l’uomo. La Marcellino interviene subito dopo: “Il garante è scollegato dall’amministrazione e non è neanche bene informato dalla direzione carceraria”. Sarebbe quindi una mancanza di comunicazione ad aver originato l’equivoco tra le parti: “Noi - conclude la dirigente -, teniamo al servizio e ci rechiamo nella struttura almeno due volte al mese”. Roma. Volontari in carcere: ecco chi sono e cosa fanno di Maurizio Ermisino retisolidali.it, 14 maggio 2021 Chi, per qualsiasi motivo, ha conosciuto il mondo del carcere, ha spesso voglia di impegnarsi come volontario per aiutare chi ci vive. Il carcere è un mondo a sé, con le sue regole e i suoi ritmi. Una volta conosciuto è difficile scrollarselo di dosso, che lo si abbia sperimentato come detenuti, come insegnanti o legali, o con qualsiasi altra missione si sia entrati tra quelle mura. Molte delle persone che, da diversi punti di vista, hanno conosciuto il carcere tendono a tornarci, da volontari, per aiutare chi è lì dentro. Semi di Libertà Onlus ha organizzato un corso on line, Volontario dentro e fuori il carcere, per far conoscere molti aspetti utili a chi vuole occuparsi di questo mondo così delicato, e hanno aperto un gruppo su Facebook per discuterne (Volontari dentro e fuori il carcere). È qui che abbiamo conosciuto molte delle storie che vi raccontiamo, per capire che cosa c’è dentro chi sceglie di fare volontariato in carcere. Uno sportello d’ascolto - Maria Teresa Caccavale ha insegnato in carcere per 27 anni, dal 1991. Quel mondo le è rimasto dentro e oggi ha un’associazione, Happy Brigde, che si occupa di varie attività con i detenuti. L’incontro con quel mondo è arrivato per caso. “Nel 1991 vinsi il concorso a cattedra, e dovevo scegliere una sede”, ricorda. “La sede non era il carcere ma la scuola dove avevo insegnato precedentemente. Ma la cattedra era sparita. L’unica che rimaneva nella zona era Rebibbia. È stato un caso, al carcere non ci avevo mai pensato”. volontari in carcere “All’inizio avevo un po’ paura”, racconta. “Colpa delle leggende che descrivono il carcere e i detenuti come persone pericolose. Invece è stata la scoperta di un mondo che mi ha dato tantissimo”. In carcere un insegnante non fa mai solo l’insegnante. “Cercavo di capire come funzionava la struttura e così si creava un rapporto confidenziale con i detenuti, che mi chiedevano di intercedere con l’area educativa, o di aiutarli con delle pratiche in sospeso”, rievoca Maria Teresa Caccavale. “Ho incominciato a fare sostegno alle famiglie, a chi aveva problemi con i figli e le mogli, chi aveva bisogno di parlare con gli insegnanti dei figli”. E così è nata un’analisi dei bisogni reali delle persone che vivevano in carcere. “La scuola c’era, c’erano i corsi di ceramica, l’università, lo sport. Mancava uno sportello di ascolto, dei volontari che andassero là e ascoltassero le necessità dei detenuti” racconta Maria Teresa. “Mancava lo sportello legale, un avvocato che gratuitamente desse delle consulenze ai detenuti. Ho pensato di fare un corso di yoga, un’attività alternativa alla fisicità dello sport ordinario, che ti dà una disciplina di vita, insegnamenti che ti fanno evolvere. È stata un’esperienza bella con molta difficoltà, non a causa della direzione, ma del contesto: non avevamo una sede, una stanza, abbiamo dovuto farlo nei corridoi. Abbiamo pensato a un laboratorio linguistico di spagnolo. E un laboratorio di scrittura”. Il 14 febbraio 2012 è nata l’associazione Happy Bridge. In questi anni ha organizzato concerti e ha fatto scrivere le persone. Così è appena nato un libro, Pensieri reclusi. E in questi anni arrivate nate tante soddisfazioni, come quella di vedere un proprio allievo di yoga diventare riflessologo plantare, e un altro maestro di yoga in Albania. Lo yoga e i traumi - A proposito di yoga, c’è chi ha deciso di mettere la sua esperienza al servizio dei detenuti del carcere di Verona. È Roberto Cagliero, e insegna meditazione dal 2003. Anche la sua esperienza è iniziata per caso. “Tre anni fa un gruppo di Verona che gestisce dei cavalli che vivono nel carcere di Verona e di cui si occupano i detenuti per un corso che sfocia in un diploma di tecnico di scuderia, mi ha chiesto di partecipare con una lezione di yoga”, ci ha raccontato. “I detenuti non sono a loro agio con gli animali: stando al chiuso, in situazioni potenzialmente fragili, il contatto on l’animale un po’ di paura la suscita sempre”. Era da un po’ che Roberto pensava al volontariato, e l’occasione ha dato il via a una nuova idea. “Ho coinvolto altri insegnanti di yoga e meditazione, perché c’è stata la possibilità di aprire l’attività anche nella sezione femminile, dove insegnano tre ragazze” racconta Roberto. “Tre anni fa ho fatto un corso a Londra con un’associazione americana, Prison Yoga Project, che fa una serie di seminari in giro per il mondo per insegnare a relazionarsi con i detenuti, e gli esercizi da non fare per non scatenare reazioni avverse”. “I detenuti negli Stati Uniti per il 90% hanno avuto traumi, prima di andare in carcere”, spiega. “E ci sono delle modalità che possono fare da trigger, riportarli nel momento in cui hanno subito il trauma e possono avere reazioni che li destabilizzano. Toccare una persona sulla spalla da dietro è qualcosa che lo manda in tilt. Esercizi in cui ti metti a 90 gradi possono ricordare una sgradevole ispezione, o quelli in cui incroci le mani potrebbero far pensare all’arresto. Sono persone sempre in allerta, che prendono farmaci per dormire e possono abusarne”. L’impatto con il carcere, per Roberto Cagliero, non è stato difficile, anzi. “Erano tre anni che andavano dentro con i cavalli” racconta. “Non ho trovato grosse differenze tra un gruppo di detenuti e uno di allievi normali. Certo, tutto è più rallentato. Il trauma ti porta a quel processo che si chiama numbing, un rifiuto della relazione con la realtà”. Tornare in carcere, da volontario - C’è poi chi si trova a fare volontariato in carcere perché in carcere c’è stato, come ospite. Marco Costantini è stato un residente del carcere di Rebibbia e quel mondo gli è rimasto dentro, ma nel modo migliore. Oggi lavora con il Partito Radicale, ma non ha mai smesso di aiutare chi è rimasto in carcere, da volontario, da solo o con realtà organizzate. “Ho conosciuto tante persone, tanti volontari” ci racconta. “Io ho fatto l’università, e vedere tante ragazze che donavano le ore del loro pomeriggio - invece che stare con il ragazzo o con le famiglie - per farci studiare, per farci capire il passaggio di un esame, mi ha fatto capire che è un donare ti fa stare bene”. “Ho cominciato ad aiutare tante persone che non avevano possibilità economica, piccole cose pratiche”, continua. “Poi ho iniziato un percorso: abbiamo cominciato a dare un supporto agli stranieri, a fare per loro delle pratiche”. “Sono cose che mi vengono in maniera normale, neanche mi sforzo a farle” confessa Marco. “Faccio volontariato come singolo, ma collaborato con Sant’Egidio, ad esempio per i pranzi di Natale. Ma cerchi di fare un po’ tutto, per donare un po’ del tuo tempo a persone che hanno bisogno”. E in questo modo arrivano anche le soddisfazioni. “Abbiamo voluto fare un evento a Rebibbia contro la violenza sulle donne” ricorda. “Tutti mi dicevano che era impossibile. Invece sono riuscito a portare l’avvocatessa Lucia Annibali. Per me è stata una grande rivincita: ha fatto capire che anche i detenuti hanno una coscienza, dentro hanno molto, ma se non vengono aiutati non possono crescere”. Imparare a fare il volontario - La vita da volontaria deve ancora iniziare invece per Simona Ciaffone, oggi tirocinante al Tribunale di Sorveglianza di Roma e praticante abilitato in uno studio di diritto penale. Ha appena seguito il corso di Semi di Libertà Onlus e sta per dare vita a una sua associazione. “Tratto quotidianamente la materia e l’ho sempre vista da fuori”, spiega. “E mi sono resa conto di quanto sia difficile fare volontariato in carcere. Ho imparato a comunicare con i detenuti e mi sono detta: vorrei imparare un linguaggio che non sia solo quello prettamente giuridico. Perché le persone hanno bisogno di altre speranze che non siano le vie legali”. C’è allora bisogno di una formazione, di trovare un nuovo modo di relazionarsi. Il corso è servito a questo, e a togliere quel poco di pregiudizio che si rischia di avere in questi casi. “Il percorso di studi ti preparava a una realtà piena di crimine. Avvicinandomi mi sono resa conto di quanto possano incidere le situazioni personali, contesti di provenienza, malattie, discriminazioni. Accanto al sistema penale deve esserci un appoggio umano, che ti tira fuori da quei contesti di provenienza”. “Nel momento in cui ci rapportiamo al detenuto, come professionisti, dobbiamo avere un po’ di distacco, dobbiamo distinguere le posizioni”, continua. “Con il volontariato è un altro tipo di posizione ancora, di linguaggio, è un contesto diverso”. Già frequentando alcuni luoghi come il Pub Vale La Pena ci si può rendere conto di che persone sono quelle che cercano di ripartire dopo il carcere, o in attesa di finire di scontare la pena. “Chi è entrato a far parte di percorsi riabilitativi e alternativi al carcere è molto disponibile al dialogo, a raccontarti da dove è partito” ci spiega la volontaria. “Chi si vede negato questo percorso fa più fatica. In una delle lezioni si diceva di fare attenzione a non lasciare da parte chi ha più fatica ad esprimersi”. Sono storie diverse una dall’altra, con il comun denominatore dell’importanza del volontariato in un mondo come questo. “Il terzo settore è importante per coprire le carenze a cui non può far fronte lo Stato,” concorda Maria Teresa Caccavale. “Durante il lockdown si è visto: certe persone si sono abbrutite completamente, c’è stato un arretramento”. “I volontari forniscono quello che lo Stato dovrebbe fornire, ma vengono proprio in sua sostituzione” commenta Simona Ciaffone. “Il volontariato è fondamentale non solo perché aiuta ad accompagnare un percorso educativo, ma lo fornisce”. “È impensabile che il sistema possa sopravvivere senza il volontariato” ragiona Roberto Cagliero. “Ma la volontà di riequilibrare le persone o punirle non è una decisione delle singole strutture, ma l’atteggiamento che il Ministero della Giustizia ha nei confronti del detenuto. E questo in Italia è disastroso”. Torino. Liberi di imparare: in mostra al Museo Egizio i “reperti” dei detenuti di Maria Teresa Martinengo La Stampa, 14 maggio 2021 Fino al 28 luglio il Museo Egizio presenta al pubblico una nuova mostra, frutto del progetto “Liberi di imparare”, nato nel 2018 dalla collaborazione del Museo con la Direzione della Casa Circondariale ‘Lorusso-Cutugno’ e l’Ufficio della Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Torino. In una sala dedicata, al secondo piano, l’esposizione presenta venti copie di altrettanti reperti della collezione torinese, realizzati dai detenuti delle sezioni scolastiche dell’Istituto tecnico “Plana” e del Primo Liceo Artistico presso la Casa Circondariale. Tra queste, la Cappella di Maia, gli affreschi della tomba di Iti e Neferu, i ritratti del Fayyum, l’ostrakon della ballerina e alcuni libri funerari. Gli oggetti riprodotti sono accompagnati da didascalie con le indicazioni che consentono ai visitatori di ritrovare gli originali all’interno della collezione principale. Anche nei mesi difficili della pandemia il progetto è proseguito grazie all’impegno di tutte le istituzioni coinvolte: sono state sviluppate nuove modalità di lavoro che hanno permesso ai detenuti di proseguire l’attività, realizzando repliche di grandissima qualità. Queste copie, risultato di un lavoro svolto con passione, assolvono anche a un importante compito educativo e scientifico a supporto delle attività dentro e fuori il Museo: tra le iniziative in cui sono state utilizzate, la mostra itinerante “Papirotour”, realizzata in collaborazione con le Biblioteche civiche torinesi, le attività di didattica svolte presso l’ospedale infantile Regina Margherita, nonché alcune handling sessions, ossia esperienze di manipolazione e di studio di reperti, previste per i prossimi mesi. “Ben lontani dall’essere una torre d’avorio, proseguiamo nel nostro intento di fare rete con altre istituzioni, anche quelle in apparenza più lontane, nonostante le forti restrizioni dell’ultimo anno”, osserva Christian Greco, direttore del Museo Egizio. “Tutto ciò non sarebbe possibile senza un incredibile lavoro di squadra, di cui siamo orgogliosi e per cui voglio ringraziare tutte le istituzioni coinvolte”, aggiunge Evelina Christillin, presidente del Museo Egizio. “L’esperienza offerta dal Museo Egizio alle persone detenute della Casa Circondariale di Torino è senz’altro stata fra le più significative e culturalmente apprezzate non solo dai partecipanti ai laboratori dedicati ma anche da coloro che in più occasioni hanno avuto modo di vedere le opere realizzate”, afferma inoltre Monica Gallo, Garante delle persone private della libertà personale della Città di Torino. Consulta, la relazione sul 2020. Coraggio: “Omofobia, una legge è opportuna” di Liana Milella La Repubblica, 14 maggio 2021 Il presidente della Corte costituzionale fa il bilancio dell’anno nero della pandemia di fronte a Mattarella e Draghi. E affronta il nuovo rapporto con il Parlamento cui spettano le decisioni legislative su temi controversi come il fine vita, l’ergastolo ostativo, il carcere per i giornalisti. La Consulta si apre di nuovo ai giornalisti. E il presidente Giancarlo Coraggio presenta il suo bilancio del 2020 davanti a Draghi, Mattarella e Cartabia, ma poi si concede a una lunga conferenza stampa. L’omofobia? “Una legge è opportuna. Spero che il Parlamento trovi la quadra”. Il carcere anche dopo anni ai terroristi? “Non si può istituzionalizzare il diritto alla fuga”. L’ergastolo ostativo? Anche per lui è “improcrastinabile prevedere un fine pena, ma la collaborazione dei mafiosi resta uno strumento fondamentale”. La presunzione di innocenza? “La gogna mediatica di chi è sottoposto a un’indagine che gli dura mezza vita è inaccettabile”. La riforma della giustizia? “Sono ottimista. Ma si fermino i processi inutili fin dall’inizio, perché il processo è la prima pena e questa è una verità indiscutibile”. Il libro di Palamara? “L’ho letto e sono rimasto sconvolto, è incredibile vedersi coinvolti in questa melma”. Recovery e decreti legge? “Non possiamo negare che ci sia un’urgenza. Se non usiamo i decreti legge adesso, allora quando li dobbiamo usare? Non vedo incostituzionalità. Accusare Draghi di essere antidemocratico mi pare fuori dal mondo, per non parlare di Marta Cartabia, la cui conversione sarebbe davvero impensabile”. Il cammino delle donne verso la piena parità? “La strada è ancora lunga, ma io posso raccontare la storia di mia madre. Volevano che smettesse gli studi e si sposasse. Lei ha preteso di laurearsi in chimica ed è andata in Eritrea a lavorare in una farmacia. Lì ha incontrato mio padre”. Il lutto, innanzitutto. Quello dovuto “a quanti hanno sofferto la perdita dei loro cari”. Perché “la pandemia è stata una prova difficile per il nostro Paese, che tuttavia ha dato grande dimostrazione di sé”. Parte con queste parole il presidente della Consulta Giancarlo Coraggio che torna, “in presenza” davanti alle massime autorità dello Stato - dal capo dello Stato Sergio Mattarella, al premier Mario Draghi, alla ministra della Giustizia ed ex prima presidente donna della Corte Marta Cartabia - a raccontare agli italiani che cosa ha fatto la Corte costituzionale nell’anno nero della pandemia. Risultati positivi che non hanno risentito della pandemia e che hanno dimostrato come il “giudice delle leggi” ha saputo inventarsi una sua nuova dimensione. Una “efficienza” che Coraggio riassume così: nell’attività della Corte “non solo il numero di decisioni è stato sostanzialmente analogo a quello dell’anno precedente, e in linea con quello degli ultimi cinque, ma si sono anche ridotti i tempi di conclusione dei giudizi, scesi, per quelli incidentali, da circa un anno a otto mesi”. Ma è la sanità il focus della relazione di Coraggio. Perché se il 2020 è stato per tutti l’anno della malattia, dei centomila morti, dell’incubo dei vaccini, allora è proprio dalla sanità, dal suo ruolo “necessariamente” nazionale al di là delle competenze regionali, che si deve partire per ribadire che il diritto alla salute, al di là delle controversie, deve essere sempre garantito a tutti. Dice Coraggio: “La Corte ha tradizionalmente negato l’esistenza di un diritto illimitato alla salute, proprio in considerazione delle incontrollabili ricadute finanziarie, affermando anche, tuttavia, che il valore di una sana gestione delle risorse non può spingersi sino a comprimere i livelli essenziali delle prestazioni, che in tal modo divengono oggetto di un diritto fondamentale”. Ancora: “È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”. Ne consegue l’invito netto a ridurre la conflittualità tra Stato e Regioni. Che Coraggio riassume in questa frase: “Oltre all’ormai costante richiamo alla leale collaborazione dello Stato e delle Regioni nelle materie di interesse comune o in ambiti posti al crocevia di una pluralità di competenze, appare anche opportuno invitare tutti gli attori istituzionali a riflettere sulla necessità di apprestare più efficaci meccanismi di prevenzione e risoluzione dei conflitti”. Prosegue il presidente della Consulta: “Il fatto è che la peculiarità implicita in un servizio nazionale, ma a gestione regionale, può essere risolta solo con un esercizio forte, da parte dello Stato, del potere di coordinamento e di correzione delle inefficienze regionali: il suo esercizio inadeguato non solo comporta rischi di disomogeneità, ma può ledere gli stessi livelli essenziali delle prestazioni”. Il lavoro e la sua tutela in caso di licenziamento, la responsabilità genitoriale e la tutela dei minori, i diritti e i doveri delle coppie omosessuali, la genitorialità biologica e legale, la procreazione medicalmente assistista. Ecco i “diritti” che la Corte è venuta via garantendo con altrettanto sentenze. Così come - dice Coraggio - “le situazioni soggettive che vengono in rilievo di fronte alla complessa, stratificata e a tratti disomogenea legislazione sull’esecuzione carceraria ed extra muraria delle pene, oggetto di una incessante attività della Corte di adeguamento ai precetti costituzionali e, in particolare, all’articolo 27 della Costituzione”. Quello che fissa un inderogabile principio: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Dal caso Cappato, al carcere per i giornalisti, infine con l’ergastolo ostativo, la Consulta ha aperto una nuova pagina nei suoi rapporti con il legislatore. Stop ai “moniti” che non sortivano grandi risultati, rinvio al Parlamento, con l’obbligo di risolvere le questioni entro dodici mesi, i casi più controversi, quelli in cui c’è un’evidente incostituzionalità che però deve essere risolta dal legislatore perché comporta delle scelte. E qui Coraggio è esplicito: “Viene in evidenza il problema del rapporto con il legislatore, problema che da sempre costituisce un aspetto delicato del sindacato di costituzionalità e che del resto era stato sottolineato da autorevoli esponenti dell’Assemblea costituente. La consapevolezza di questo limite è una stella polare nell’attività giurisdizionale della Corte, cui si impone il rispetto delle prerogative del Parlamento, quale interprete della volontà della collettività, chiamato a tradurre il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale”. Per questo, spiega Coraggio, “in mancanza di punti di riferimento normativi e in presenza di interventi complessi e articolati, la Corte si è sentita obbligata a privilegiare il naturale intervento del legislatore, ricorrendo alla tecnica processuale della incostituzionalità “prospettata”: all’accertamento della contrarietà a Costituzione della norma censurata fa seguito non già la contestuale declaratoria di illegittimità costituzionale, ma il rinvio a una nuova udienza per l’esame del merito, dando tempo così al legislatore di disciplinare la materia”. Tra i rinvii alle Camere ecco la questione del carcere per i giornalisti. Le Camere avevano 12 mesi di tempo. Che scadono a giugno. Quasi nulla è stato fatto. E ciò fa prevedere che, come per il fine vita, anche questa volta la Corte sarà costretta a decidere da sola. Dice il presidente Coraggio in proposito: “La Corte ha dapprima osservato che il bilanciamento effettuato dalle norme del codice penale e da quelle della legge sulla stampa è divenuto inadeguato, anche alla luce della copiosa giurisprudenza della Cedu, e che questo impone una rimodulazione, come dicono i giudici di Strasburgo, in modo da coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica con le altrettante pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti. E Coraggio volutamente cita proprio le parole della Corte dei diritti dell’uomo quando dice che “un simile, delicato bilanciamento spetta in primo luogo al legislatore, sul quale incombe la responsabilità di individuare complessive strategie sanzionatorie, in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica; e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime - e talvolta maliziose - aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività”. Migranti. La guerra alle Ong e i favori alla Libia non fermano gli sbarchi di Enrico Fierro Il Domani, 14 maggio 2021 Dal primo gennaio di quest’anno al 10 maggio, sulle coste siciliane, sono sbarcate 12.894 persone (1.373 i minori), erano 4.184 nello stesso periodo dell’anno scorso, 1.009 nel 2019. Tutto questo accade nonostante gli accordi con la Libia sottoscritti dal ministro dell’Interno Marco Minniti quattro anni fa, riconfermati da Matteo Salvini, e benedetti da Mario Draghi. “Sono passati più di vent’anni dai primi sbarchi di migranti provenienti allora dalla Tunisia, e ancora parliamo di emergenza. Non se ne può più, l’immigrazione diventi uno dei primi punti dell’agenda di questo governo”. Totò Martello è il sindaco di Lampedusa. In tasca ha la tessera del Pd ma non lesina critiche al suo partito. “Mi hanno lasciato solo. Loro a Roma tentennano, Salvini e Meloni alimentano la campagna d’odio, e io ricevo le minacce”. Pietro Bartolo, medico che ha passato anni sul molo dell’isola a curare migranti e riconoscere cadaveri, ora da parlamentare europeo dice: “Gli sbarchi di queste ore dimostrano la totale inutilità degli accordi con la Libia. Soldi buttati al vento, o peggio, regalati a una Guardia Costiera che è una cosa sola con i trafficanti d’uomini. L’aumento delle partenze dalle coste libiche di queste ultime ore dimostra che i trafficanti hanno bisogno di svuotare i campi in vista di nuovi arrivi”. Sono già troppi - A Lampedusa, in ventiquattr’ore, dal 9 al 10 maggio, sono sbarcate 2.146 persone. Una cifra che rischia di far saltare i precari equilibri sull’isola. Nell’hot-spot di Contrada Imbriacola ci sono 1.400 persone, tra container e spazi che al massimo ne possono ospitare 400. I migranti vengono spostati sulle navi quarantena che il governo ha noleggiato dai privati. La nave Splendid, che dovrebbe accogliere 365 persone, e la Allegra, con 6-700 migranti. Altri 200 sono stati trasferiti a terra con la nave Sansovino. “A tutti è stato fatto il tampone”, assicurano le autorità sanitarie dell’isola. Oltre 400 persone hanno trascorso la notte all’addiaccio sulla banchina del molo militare Favarello. Situazioni al limite, viste le condizioni dell’hot-spot, e quelle sulle navi quarantena denunciate da diverse organizzazioni umanitarie. “Ma chi parla di invasione - dice l’eurodeputato Bartolo - fa solo propaganda. Quando Giorgia Meloni invoca il blocco navale, non sa di cosa parla, il blocco navale lo fai sparando, vogliamo questo?”. “Salvini voleva chiudere i porti. Perché non l’ha fatto? Semplice, sapeva che era impossibile”, è l’opinione del sindaco Martello. I dati non autorizzano ad agitare lo spettro dell’Italia invasa, ma diconoa di molte cose. Fallimento libico - Dal primo gennaio di quest’anno al 10 maggio, sulle coste siciliane (Lampedusa per ovvi motivi geografici fa la parte del leone) sono sbarcate 12.894 persone (1.373 i minori), erano 4.184 nello stesso periodo dell’anno scorso, 1.009 nel 2019. Nonostante gli accordi con la Libia sottoscritti dal ministro dell’Interno Marco Minniti quattro anni fa, riconfermati da Matteo Salvini nei mesi in cui ha ricoperto lo stesso incarico, e benedetti da Mario Draghi nella sua contestatissima visita in Libia. “Un fallimento evidente”, per Pietro Bartolo. Ritorno al passato - “La Libia va aiutata a costruire la pace, non certo ad aumentare i lager. E l’Europa va responsabilizzata: via gli accordi di Dublino, sì al ricollocamento automatico e obbligatorio dei richiedenti asilo. Tutti gli Stati si facciano carico di una situazione disperata. Fino a quando ci saranno guerre, violenze, persecuzioni, fame, la gente partirà sempre”. Ma i dati ci dicono anche altro. Negli ultimi giorni dalle coste libiche non partono più gommoni, ma barconi usa e getta, proprio come qualche anno fa. Il loro costo, racconta chi monitora il mondo degli scafisti, si aggira tra i 10 e i 20mila euro. Una spesa irrisoria per chi riesce ad imbarcare fino a 150 persone che pagano un ticket che oscilla tra i 2 e i 3mila dollari. Inoltre, le barche sono più sicure dei gommoni monotubolari e senza chiglia made in China, con motori che non possono percorrere 130 miglia. Comportano un minore rischio di affondamento. Meno tragedie in mare, significa anche meno riflettori accesi sulla Libia e sul suo governo in questa delicata fase di transizione. Ora la Tunisia - L’altro dato che emerge è quello della nazionalità dei migranti sbarcati nei primi cinque mesi del 2021. Al primo posto (1.716 arrivi) si colloca la Tunisia, al secondo la Costa D’Avorio (1.292), al terzo il Bangladesh (1.216). Ed è proprio la Tunisia, secondo gli esperti, il punto di maggiore crisi nell’area mediterranea in questo momento. Il Paese è fragilissimo, la democrazia conquistata più di dieci anni fa con la caduta del regime di Ben-Alì e la rivoluzione dei gelsomini rischia di sfaldarsi. Le manifestazioni di massa dei mesi scorsi hanno mostrato una economia sull’orlo del baratro, con un debito pubblico all’84,5 per cento, il dinaro che rispetto all’euro perde il 45 per cento, e la disoccupazione, soprattutto giovanile, ormai oltre il 30. “Dati che ci dimostrano come abbiamo sbagliato tutto - dice Bartolo -, è necessaria una politica di sostegno per l’Africa del Nord, insieme alla definizione di corridoi umanitari e rotte regolari di ingresso. Alzare di continuo l’asticella favorisce solo i trafficanti di esseri umani”. Per il sindaco Martello “va bene la cabina di regia annunciata da Draghi, ma forse è arrivato il momento che il Parlamento si riunisca per discutere di politiche migratorie. Davvero basta con slogan e annunci”. Uno slogan dei recenti anni passati era stato appiccicato addosso alle Ong, viste come “pull factor”, fattore attrattivo dell’immigrazione. Inchieste giudiziarie, sequestri delle navi, hanno ridotto al lumicino la presenza delle navi umanitarie nel Mediterraneo. Non c’è più “attrazione”, ma gli sbarchi continuano. Migranti. Quella non è una casa (e non sottratta a un italiano), ma questo è un uomo di Roberto Saviano Corriere della Sera, 14 maggio 2021 Vicino a una baraccopoli, nel Foggiano, a un immigrato hanno sparato da un suv e ha perso un occhio. Lo sciacallaggio di certa politica vorrebbe farci credere sia normale. Per aver osato dire che il Sud è spopolato e che regolarizzare gli immigrati servirebbe anche a farlo rinascere, mi sono tirato dietro le ire di Salvini e Meloni per i quali l’odio inveterato per gli stranieri poveri e disperati è un eterno cavallo di battaglia. Lo sciacallaggio di certa politica, l’indifferenza dell’opinione pubblica e il fallimento di ogni riforma sono tutti in questa foto e in quel ragazzo lì accanto. Come se fosse normale vivere così. Se questa è una casa. Non so da dove iniziare per descrivere questa abitazione. Forse dal più piccolo dei dettagli: un lucchetto. Un lucchetto che immagino serva a preservare poche cose ma fondamentali. Cose magari di poco valore, però utili nel quotidiano. Cose magari che per reperirle, il ragazzo in piedi lì accanto, avrà impiegato settimane, mesi. Se questa è una casa... mi pare ovvio che non lo sia. Eppure lì dentro ci vivono uomini. Tanto ovvio quanto le tavole accostate e il telo di plastica che copre un buco da cui entra l’acqua quando piove. Se questa è una casa... una casa sottratta a un italiano. E se il lavoro che chi ci vive ha trovato è un lavoro sottratto a un italiano... Se la parte di suolo su cui quella “casa” sorge è suolo sottratto a un italiano e l’aria che quel ragazzo respira è anche quella aria sottratta a un italiano... Di questo parliamo, di sottrazione. Per aver osato dire che il Sud è spopolato e regolarizzare gli immigrati servirebbe anche a farlo rinascere, mi sono tirato dietro le ire di Salvini e Meloni per i quali l’odio inveterato per gli stranieri poveri e disperati è un eterno cavallo di battaglia. Lo sciacallaggio di certa politica, l’indifferenza dell’opinione pubblica e il fallimento di ogni riforma sono tutti in questa foto e in quel ragazzo lì accanto. Come se fosse normale vivere così. Siamo nel Foggiano, dove tre immigrati che rientravano in macchina all’insediamento di braccianti di Torretta Antonacci vengono inseguiti da un Suv da cui partono colpi di fucile a pallini, quelli usati per la caccia ai cinghiali. I tre migranti scendono dall’auto e iniziano a correre nei campi. Poi chiamano i soccorsi. Uno di loro, ferito più gravemente, viene portato in ospedale e operato d’urgenza. È un trentenne del Mali, si chiama Sinayogo Boubakar, ma tutti lo chiamano Biggie, per via della sua stazza imponente. Ha lasciato in Mali la moglie e una figlia piccola per venire a lavorare qui. È in Italia da circa 7 anni. Da oltre uno attende risposta sul suo permesso di soggiorno, ma ora avrà una difficoltà in più da affrontare, perché i pallini sparati dal fucile lo hanno colpito al volto e ha perso un occhio. Le indagini sull’agguato non escludono l’azione ritorsiva. Un paio di notti prima, alcuni malviventi si erano introdotti nell’insediamento di Torretta Antonacci, il Gran Ghetto, tentando di rubare da una cisterna il gasolio per l’impianto di illuminazione. Alcuni immigrati, scoperti i ladri, avevano chiamato la polizia. Uno di loro - un pregiudicato foggiano - è bloccato dagli abitanti del ghetto. Aveva con sé una pistola rubata e con quella li minaccia. Poi capisce che non ha scampo e tenta di corromperli col denaro per farsi liberare, ma i migranti non cedono e lo consegnano alle forze dell’ordine. Gli altri riescono a scappare, urlando: “Vi uccidiamo tutti, neri bastardi”. Gli immigrati sanno che frasi così non sono solo orrende minacce razziste, ma si trasformano in azioni criminali. A marzo del 2019, in zona Borgo Mezzanone, verso Manfredonia, non lontano dai luoghi di questo agguato, Daniel Nyarko, un ghanese di 51 anni, regolare, che lavorava come bracciante agricolo e guardiano in un podere, fu ucciso a colpi di pistola sulla sua bici davanti alla casa colonica in cui viveva. Tragedia nella tragedia, la salma restò all’obitorio 4 mesi, finché alcune associazioni di immigrati e la Caritas locale poterono raccogliere i soldi per funerali e sepoltura. Le indagini si orientarono su un regolamento di conti dopo una rissa tra immigrati, ma l’ipotesi da subito non convinse chi conosceva Daniel, che invece ricordò che qualche tempo prima aveva denunciato una banda di malavitosi italiani. Il proprietario del suo podere si rifiutava di pagare il pizzo, la banda allora aveva cercato di rubargli dei mezzi agricoli e Daniel aveva chiamato la polizia, facendoli arrestare. Si era opposto a un’ingiustizia, al racket che distrugge le aziende sane. Quella che vedete nella foto non è senz’altro una casa, ma lì accanto, a destra, quello che vedete è sicuramente un uomo. Non dimentichiamolo mai. Medio Oriente. L’esercito israeliano attacca Gaza con aviazione e carri armati di Sharon Nizza La Repubblica, 14 maggio 2021 Netanyahu: “Andremo avanti per tutto il tempo necessario”. Il portavoce delle forze armate: “Nessuna truppa ha varcato il confine”. Il premier israeliano: “Ho detto che avremmo fatto pagare un prezzo molto alto ad Hamas. Lo facciamo e continueremo a farlo con grande intensità”. Il presidente francese Macron: “Faccio un forte appello al cessate il fuoco e al dialogo. Vi chiedo calma e pace”. A tre giorni dall’inizio dell’escalation, poco dopo la mezzanotte l’esercito israeliano ha lanciato un massiccio attacco con forze aeree e di terra contro la Striscia di Gaza. Si tratta dei bombardamenti più duri dall’Operazione Margine Protettivo del 2014. Per due ore, aerei, artiglieria e carri armati israeliani hanno attaccato circa 150 obiettivi nelle aree settentrionali e orientali della Striscia. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Hamas pagherà un prezzo alto per i lanci di missili contro la popolazione israeliana e che “l’operazione continuerà per tutto il tempo necessario”. “Agiremo con tutte le nostre forze contro i nemici all’esterno e contro i fuorilegge all’interno per riportare la calma nello Stato di Israele”. Media locali riferiscono di famiglie palestinesi che stanno scappando dal Nord della Striscia verso Gaza City a causa di quello che viene descritto come un vero e proprio diluvio di fuoco. L’agenzia stampa palestinese Wafa riferisce di due morti e una dozzina di feriti a Beit Lahia. Ieri l’esercito aveva dispiegato al confine con la Striscia unità di fanteria e corazzati e richiamato 9,000 riservisti. L’esercito ha ordinato alla popolazione israeliana nel raggio di 4 chilometri dalla Striscia di rimanere chiusi nei rifugi fino a nuova comunicazione. Nel corso della notte si è registrata un’altra vittima israeliana a Sderot. Secondo alcune testimonianze raccolte dal Wall Street Journal, le truppe israeliane sono avanzate da nord con i carri armati. Il portavoce dell’esercito ha tuttavia smentito la presenza di truppe all’interno della Striscia. La notizia dell’ingresso via terra era stata inizialmente comunicata da diversi media internazionali che si basavano su una conferma del portavoce dell’esercito data in inglese, Jonathan Conricus, creando grande confusione tra i cronisti. Secondo il corrispondente militare della televisione israeliana Kan11, potrebbe trattarsi di un tentativo di trarre in inganno Hamas, in una sorta di “battaglia psicologica”. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Hamas pagherà un prezzo alto per i lanci di missili contro la popolazione israeliana e che “l’operazione continuerà per tutto il tempo necessario”. “Agiremo con tutte le nostre forze contro i nemici all’esterno e contro i fuorilegge all’interno per riportare la calma nello Stato di Israele”, ha detto il premier. Che ha parlato anche dell’altro fronte, quello delle rivolte nelle città israeliane: “Appoggiamo al cento per cento la polizia ed il resto delle forze di sicurezza per riportare la legge e l’ordine nelle città di Israele. Non tollereremo l’anarchia”. La gaffe dell’invasione via terra annunciata e poi negata - Il Times of Israel prova a spiegare la clamorosa gaffe dell’esercito israeliano, che stanotte attraverso un suo portavoce ha prima annunciato l’avvio delle operazioni di terra a Gaza e dopo un paio d’ore ha precisato che invece le truppe non erano mai entrate nella Striscia, adducendo “un problema interno di comunicazione”. “Le forze di difesa israeliane - scrive il giornale sul suo sito web - sembrano aver indotto erroneamente i media stranieri a credere che l’esercito avesse lanciato un’invasione di terra nella Striscia durante il suo massiccio bombardamento del nord di Gaza. Nella sua dichiarazione iniziale in inglese, l’esercito ha espresso in modo ambiguo dove si trovavano le sue forze di terra durante l’attacco, dicendo che “le truppe aeree e di terra dell’Idf stanno attualmente attaccando nella Striscia di Gaza”. Quando è stato chiesto di chiarire la questione, ovvero se ci fosse stata un’invasione di terra, il portavoce dell’esercito Jonathan Conricus ha risposto: ‘Sì. Come è scritto nella dichiarazione. In effetti, le forze di terra stanno attaccando a Gaza. Questo vuol dire che sono nella Striscia’“. Ma, continua Times of Israel, sebbene dire che l’esercito era dentro Gaza “fosse tecnicamente corretto”, è stato fuorviante: “Alcune truppe dell’Idf erano effettivamente posizionate in un’enclave tecnicamente all’interno del territorio di Gaza, ma a tutti gli effetti sotto il controllo israeliano. Per questo la loro presenza lì non poteva rappresentare un’invasione di terra”. Oltre 1.800 razzi lanciati dall’inizio del conflitto, Israele risponde con i raid - Sono oltre 1.800 i razzi lanciati da Gaza in direzione delle città israeliane da quando sono iniziate le ostilità fra Hamas e Israele. Secondo il portavoce militare, circa il 90 per cento di quelli diretti verso aree abitate sono stati intercettati dal sistema antimissilistico Iron Dome. Mercoledì mattina le stesse forze armate avevano spiegato che da lunedì alle 18 - inizio delle ostilità con il lancio di sei missili su Gerusalemme - mille razzi erano stati lanciati da Gaza. In parallelo, Israele sta portando avanti una pesante offensiva militare nella Striscia di Gaza. In più di mille attacchi aerei in tre giorni sono stati centrati 750 obiettivi e sono stati uccisi almeno 60 operativi di Hamas e della Jihad Islamica, tra cui alcuni leader appartenenti allo Stato maggiore di Hamas, come Bassem Issa, il comandante della Brigata di Gaza City, Jomaa Tahla, capo dell’unità cyber, e figure altamente qualificate come Nazzem Hatib, capo dell’unità di ingegneria. Secondo un rapporto fornito dal portavoce dell’esercito, sono stati colpiti anche 33 tunnel di Hamas, 160 rampe di lancio, la Banca Islamica Centrale, arteria economica di Hamas. L’aviazione israeliana ha bombardato con attacchi senza precedenti diversi palazzi residenziali che ospitavano infrastrutture logistiche e di intelligence di Hamas. L’esercito ha allertato i residenti palestinesi affinché evacuassero l’area prima degli attacchi. In serata, i media arabi hanno denunciato una strage nel villaggio Um el-Nasser, presso Sheikh Zayed, nel nord della Striscia di Gaza. Secondo i media locali sarebbero 11 i palestinesi rimasti uccisi e 50 i feriti da un bombardamento israeliano. Sei sono membri della famiglia locale Tanani. Fra i morti, secondo i media, ci sono anche bambini. Queste informazioni non hanno però avuto una conferma da parte delle autorità sanitarie di Hamas. In Israele l’episodio non è stato ancora commentato. Scontri nelle città a popolazione mista, due persone linciate - L’escalation militare con Gaza trova si sta ripercuotendo anche all’interno del Paese, provocando scontri senza precedenti in particolare nelle città a popolazione mista, musulmana ed ebraica. Grande shock per due linciaggi avvenuti mercoledì sera ad Akko e a Bat Yam, al confine sud con Giaffa. Ad Akko un uomo di 30 anni è in condizioni critiche dopo essere stato assalito brutalmente da manifestanti arabi. A Bat Yam invece, una folla di manifestanti ebrei ha attaccato un conducente arabo, prelevandolo dall’auto e picchiandolo selvaggiamente. A Lod, dove nei giorni scorsi si erano registrati gli scontri più duri, il coprifuoco notturno annunciato dalla polizia è stato violato da molti e si sono registrati numerosi incidenti violenti. A Haifa, 59 inquilini di una palazzina sono stati curati in ospedale per inalazioni di fumo, dopo che cinque veicoli dati alle fiamme hanno provocato un massiccio incendio che ha coinvolto il parcheggio residenziale. Timori per sabato, anniversario della nascita di Israele - Oltre 370 persone coinvolte nelle violenze sono state arrestate negli ultimi 2 giorni. Vi è timore che nuovi pesanti scontri possano avvenire nella giornata di sabato, per i palestinesi il Giorno della Nakba, la “Catastrofe”, ossia la data che indica la nascita dello Stato d’Israele nel 1948. Il ministro della difesa ha dispiegato 10 unità di riserva della polizia di frontiera per contenere la situazione. “Ai cittadini d’Israele dico: questa anarchia è ingiustificabile: non mi interessa se vi ribolle il sangue. Non avete nessun diritto di prendere la legge in mano”, ha detto Netanyahu in un messaggio alla popolazione. “Nulla giustifica il linciaggio di cittadini arabi da parte di ebrei né quello di ebrei da parte di arabi”. Il presidente Rivlin si è detto “estremamente preoccupato” e ha supplicato i leader, i cittadini, i genitori a fare tutto il possibile per mettere fine agli episodi di violenza. “Siamo sotto la minaccia di continui lanci di missili e ci occupiamo di una guerra civile senza ragione”. Anche il leader del partito islamico Ra’am, Mansour Abbas, ha condannato le violenze e invitato i manifestanti a rispettare la legge e l’ordine. Abbas ha annunciato la sospensione delle trattative per la formazione di un governo “fino a che la situazione non si placherà”. Ancora stallo nella formazione del governo - Israele è nel pieno dello stallo politico, dopo quattro elezioni in due anni. Messo in secondo piano dall’escalation di sicurezza, lo scenario politico torna improvvisamente alla ribalta quando ieri sera Naftali Bennett annuncia il congelamento dei colloqui con il “campo del cambiamento” guidato da Yair Lapid, e in un clamoroso dietrofront torna a negoziare con Netanyahu per formare un governo di destra. Domenica riunione all’Onu per discutere dell’escalation - L’ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Linda Thomas Greenfield, ha annunciato che domenica si riunirà il Consiglio di sicurezza Onu per discutere dell’escalation in corso tra Israele e la Striscia di Gaza. “Il consiglio di sicurezza dell’Onu si riunirà domenica per discutere della situazione in Israele ed a Gaza”, ha scritto su Twitter, evidenziando che “gli Stati Uniti continueranno ad impegnarsi attivamente in azioni diplomatiche al più alto livello per cercare di far rientrare le tensioni”. Nelle scorse ore il segretario di stato Usa, Antony Blinken, aveva fatto sapere che gli Stati Uniti sarebbero stati disponibili a prender parte alla riunione all’inizio della settimana prossima. Israele-Gaza, viaggio nelle città dell’odio: Bat Yam e Lod, dove va in pezzi la convivenza di Davide Frattini Corriere della Sera, 14 maggio 2021 Bat Yam, Lod, Giaffa: squadracce di arabi e ebrei si danno la caccia. E salta la coalizione anti Netanyahu. “Sulla vetrina stava scritto Victory, in inglese. Per sapere che la gelateria è proprietà di una famiglia araba bisogna esserci andati fin da bambini, fino alla sera prima, a scambiare qualche parola con quei vicini di strada e di voglia di rimanere a galla tra i palazzoni di Bat Yam, in fondo a Tel Aviv e ai pensieri dei politici a Gerusalemme. Individuare il locale che offre il narghile da fumare seduti sui divani - alla araba, appunto - è più semplice. O il venditore di falafel, anche se le polpettine di ceci fritte sono considerate cibo nazionale dagli israeliani ebrei quanto da quelli di origine palestinese. Non sono giorni da dispute su chi prepari l’hummus migliore o riesca a mangiarne di più. Sono giorni di rabbia e di squadracce con le magliette nere che hanno devastato un negozio dopo l’altro sul lungomare, a terra restano i vetri e i cocci di una convivenza che per ora non sembra più possibile. Hanno spaccato tutto quello che per loro esalava di altro, di altri, anche la testa di un uomo pestato mentre tentava di proteggersi a terra. Viene da Ramle, un’altra città dove gli arabi rappresentano un quarto della popolazione - sono il 20 per cento in tutto il Paese - un’altra città dove la coesistenza è saltata. Gli ultranazionalisti hanno tentato di marciare verso Giaffa, volevano vendicare le sinagoghe bruciate a Lod (nella notte che il presidente Reuven Rivlin ha definito “un pogrom”), la caccia ai residenti ebrei. Alla rotonda che segna il confine con la zona a maggioranza araba hanno trovato la polizia antisommossa. Solo lì. A impedire che lo scontro coinvolgesse Tel Aviv, dove ieri una troupe televisiva è stata malmenata dagli estremisti di destra e un soldato che camminava per Giaffa è stato assalito da arabi. Gili abita dal 2003 attorno a via Yefet, nell’antichità era parte della strada che arrivava giù fino a Gaza, resta la più vivace e ingorgata di Giaffa. Gili va a letto tardi e si sveglia presto, da quando davanti alla porta di casa si sono incrociate le sue notti di telavivi festaiolo con le albe dei pescatori arabi. Da allora non ha smesso di lavorare con loro, di aiutarli a sbrogliare la matassa di reti delle leggi israeliane sulla pesca. “Questa mattina sono andato al negozietto dove faccio la spesa e per la prima volta in vent’anni ho trovato la saracinesca abbassata. Dentro c’era Nasser, il proprietario arabo cristiano, in lacrime. Mi ha detto che non ha senso aprire, le gente sta in casa. Non è la paura dei razzi. È questa violenza tra di noi. Sono cresciuto ad Haifa. La chiamano la città della coesistenza. Sono ebreo, per me e gli arabi che conosco è esistenza: tra la gente del porto conta solo quanto rispetti il mare e se riesci a tenere la barca”. Quello che sembra aver perso il controllo del timone è il premier Netanyahu. Adesso il governo ha deciso di imporre il coprifuoco a Lod e dalle 5 di ieri pomeriggio nessuno può entrare nella città: durante i disordini di martedì un arabo è stato ucciso da un ebreo israeliano, ieri un ebreo è stato ferito, dai video gli spari nelle strade risuonano come durante una battaglia. Il cordone di agenti non sta impedendo al caos - “siamo al limite della guerra civile” commenta all’Ansa monsignor Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme - di tracimare nel resto del Paese. Troppo tardivo l’invio massiccio della polizia per fermare i rivoltosi arabi, troppo deboli le parole di condanna degli estremisti ebrei. Amir Ohana, che pure dovrebbe sovrintendere alla Sicurezza Pubblica, ha chiesto il rilascio dell’uomo che ha sparato a Lod: “I cittadini che rispettano la legge e vanno in giro armati accrescono la capacità delle autorità di ridurre i pericoli”. Yair Lapid stava ancora cercando di salvare le trattative con i leader dei partiti arabi che gli avrebbero permesso di formare un governo: “I facinorosi a Lod o Acri - ha dichiarato - non rappresentano tutti gli arabi israeliani. I facinorosi a Bat Yam sono un mucchio di patetici razzisti che non rappresentano gli ebrei israeliani”. Un’alleanza con l’appoggio esterno di Ayman Odeh e Mansour Abbas per mandare un segnale a tutta la nazione. Naftali Bennett ha chiuso le porte a questa possibilità di cambiamento ed è tornato nell’abbraccio di Netanyahu: “Adesso serve l’ordine - si sarebbe giustificato -. Una coalizione sostenuta dagli arabi non riuscirebbe a imporlo”. Regno Unito. Spuntano nuovi casi di italiani ed europei detenuti alla frontiera dopo Brexit di Antonello Guerrera La Repubblica, 14 maggio 2021 Dopo i casi raccontati da Repubblica e Politico negli ultimi giorni, ora anche il Guardian si occupa della “drammatica e umiliante esperienza subita da altri cittadini europei”: fermati, detenuti in carceri ed espulsi. Il governo Johnson: “Siamo nel giusto”. Si ingrossa il caso dei cittadini italiani ed europei detenuti alla frontiera britannica dopo la Brexit e portati addirittura in prigione fino all’espulsione, in caso di mancanza di visto lavorativo o della giusta documentazione. Dopo l’intervista della 24enne Marta Lomartire a Repubblica sulla sua inquietante esperienza a Londra e i casi simili di cittadini spagnoli e greci nei giorni scorsi raccontati da Politico, ora anche il quotidiano britannico Guardian si occupa della vicenda. E, con un articolo pubblicato oggi, racconta nuovi casi di europei presi, rinchiusi per ore/giorni in prigioni e poi espulsi dalle autorità di frontiera perché non autorizzati a varcare la frontiera del Regno Unito. La storia di Marta purtroppo è capitata, a quanto si apprende, anche ad altri decine di italiani dal primo gennaio scorso, quando si è concretizzata la Brexit: arrivata lo scorso 17 aprile alla frontiera per fare la ragazza alla pari a Londra in casa di suo cugino, ma considerata migrante illegale “senza visto lavorativo” nell’era post Brexit e subito trasportata in un carcere vicino all’aeroporto di Heathrow. “Mi hanno sequestrato tutto”, ha rivelato Marta, “anche il cellulare per non divulgare foto o video. Poi la prigione: filo spinato, sbarre alle finestre. Sono scoppiata a piangere. Con me c’era anche una ragazza toscana, “detenuta da 5 giorni”“. Oggi il Guardian invece parla della “drammatica e umiliante esperienza subita negli ultimi mesi da altri cittadini europei”, anche coloro che avevano colloqui di lavoro già fissati e che in teoria potevano entrare nel Regno Unito anche senza visto. Invece no: fermati, detenuti in questi centri di “rimozione” ed espulsi. Oltre dieci cittadini europei, in grande maggioranza giovani donne, sarebbero state detenuti ed espulsi dopo essere atterrati all’aeroporto di Gatwick nelle ultime 48 ore. Alcuni di loro sarebbero stati spediti nel centro di detenzione Yarl’s Wood Immigration Removal Centre, in Bedfordshire, a due ore di auto dallo scalo e dove ci sarebbero stati anche contagi di Covid. Una di questi, una ragazza spagnola di nome Maria, appena fermata dalla polizia di frontiera si sarebbe offerta di tornare immediatamente in patria con un altro volo a sue spese, che sarebbe decollato di lì a poche ore. Ma gli agenti sono stati irremovibili: “Deve andare nel centro di detenzione Yarl’s Wood”. “Sono ancora sotto shock”, ha riferito la donna, “mi hanno tolto la libertà e non potevo rivolgermi nemmeno a un avvocato”. Come capitato a Marta, anche a Maria e a un’altra ragazza basca, Eugenia di 24 anni, è stato sequestrato tutto fino al momento dell’espulsione, incluso lo smartphone, affinché gli ospiti di queste carceri siano impossibilitati a scattare foto del luogo. E come Marta, anche loro hanno incontrato nel centro di detenzione almeno una decina di altri cittadini europei detenuti, tra cui italiani, portoghesi, una francese e una ragazza ceca, “che era disperata”. Alle domande di Repubblica e di altri giornalisti britannici stamattina, il portavoce di Boris Johnson ha dichiarato che “i cittadini europei sono nostri amici e vicini”, ma si è rifiutato di commentare i singoli casi individuali emersi in questi giorni. Downing Street non ha criticato i sequestri di cellulari e effetti personali ai cittadini Ue e nemmeno la “mano pesante” dei Ministero dell’Interno nella gestione di questi casi: “L’approccio che stiamo utilizzando è quello deciso in partenza. La maggioranza dei migranti non ha riscontrato problemi alla frontiera. Continueremo a lavorare in questo modo. Per coloro che vogliono entrare nel Regno Unito abbiamo diffuso il più possibile tutte le informazioni riguardanti i visti e la documentazione necessari. Quindi sanno che”, se non in regola, “potrebbero essere respinti”. Il ministero dell’Interno britannico, che anch’esso non commenta sui singoli casi, ci ha risposto che “i cittadini Ue sono nostri amici e hanno il diritto di restare se residenti nel Regno Unito prima del 31 dicembre 2020. Chi è arrivato dopo, come ci chiedono i britannici, deve invece dimostrare di averne diritto e attenersi alle nostre nuove regole comunicate in ogni Paese Ue, nella propria lingua”. Sulle condizioni degli ospiti dei centri, l’Home Office ci ha rimandato a linee guida proprie della “detenzione” di individui. La Commissione Ue si è detta “preoccupata” per il trattamento dei cittadini europei. In Italia, intanto, il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova, con delega ai rapporti con i paesi europei e agli italiani all’estero, sta seguendo la vicenda ed è in contatto con le autorità diplomatico-consolari a Londra. L’Ambasciata d’Italia ha svolto passi formali con le autorità britanniche per chiedere che vengano rispettate le previsioni del diritto consolare internazionale e che le nostre autorità diplomatiche vengano informate immediatamente in caso di detenzione di cittadini italiani affinché possa essere prestata loro assistenza consolare. Il Sottosegretario ha fatto analoga richiesta all’Ambasciatrice del Regno Unito a Roma, Jill Morris, in un colloquio alla Farnesina. Della Vedova si recherà prossimamente in visita nella capitale britannica. Cile, le ragazze che hanno perso gli occhi per la nuova Costituzione di Elena Basso La Repubblica, 14 maggio 2021 Il 15 e il 16 maggio si eleggono i deputati che scriveranno la Carta, archiviando finalmente quella di Pinochet. Un traguardo storico ottenuto grazie anche alle centinaia di migliaia di giovani che sono scesi in piazza. E sono stati accecati dalla polizia. Come Fabiola Campillai e Nicole Kramm. Cosa vuol dire perdere la vista per le proprie idee? Cosa si prova quando si esce di casa per manifestare per un Paese più giusto e si torna senza i propri occhi? È accaduto a oltre 460 cittadini cileni che, durante le manifestazioni iniziate nell’ottobre 2019, sono stati accecati parzialmente o totalmente dalle forze dell’ordine a causa dello sparo di proiettili di gomma o di lacrimogeni lanciati in pieno viso. Come conseguenza delle proteste che hanno portato in piazza oltre un milione e mezzo di persone, lo scorso 25 ottobre è stato indetto un referendum per abrogare la Costituzione scritta durante la sanguinaria dittatura del generale Augusto Pinochet e ancora in vigore. Oltre il 78 per cento di cittadini ha votato per scriverne una nuova e - dopo un rinvio dovuto a un picco di contagi da Covid-19 - nelle giornate del 15 e 16 maggio i cittadini cileni si recheranno ora alle urne per votare i 155 candidati che nei prossimi due anni scriveranno la nuova Costituzione del Cile. Ma quale prezzo si è pagato per ottenere questo cambiamento? “Ci sono mattine in cui non voglio svegliarmi, per poter continuare a sognare. Sai, quando sogno ho di nuovo i miei occhi, non sono cieca. Sono la stessa donna di prima, posso passeggiare con i miei figli, vedere i loro visi e prenderli in braccio. È meraviglioso. Poi mi sveglio, mi rendo conto che non posso più vedere e mi cade il mondo addosso”. Mentre dice queste parole la sua voce si spezza. Fabiola Campillai ha 37 anni e il 26 novembre del 2019 a Santiago del Cile un gruppo di dieci carabineros l’ha colpita in pieno viso con un lacrimogeno cambiando la sua vita per sempre. Fabiola è sopravvissuta, ma ha perso la vista ad entrambi gli occhi, il gusto e l’olfatto, e l’aggressione le ha provocato fratture multiple dal naso alla testa. Dal novembre del 2019 si è sottoposta a dieci operazioni chirurgiche, il suo caso è noto in tutto il Paese e oggi lei è un simbolo della rivolta. Ma ancora nessuno ha pagato per ciò che le è accaduto. “È difficile, è come rinascere una seconda volta, ma senza i propri occhi” dice Fabiola “La mia vita è cambiata al 100 per cento. Devo imparare come affrontare anche i gesti più quotidiani: camminare, lavarmi, cambiarmi i vestiti, rispondere al telefono. Ho paura del fuoco e non posso più cucinare da sola. Lavoravo come operaia in una fabbrica e ovviamente ho dovuto lasciare. Non posso uscire di casa senza mio marito che mi accompagni. Io sono madre di tre figli, quando è il compleanno di uno di loro di solito preparo i panini, addobbo la casa e preparo la festa. Ora non posso più farlo. Non posso nemmeno prendere in braccio mio figlio: se faccio sforzi rischio di perdere liquido encefalico dalle narici”. Fabiola è seduta sul divano in casa sua, la madre cucina nella stanza accanto e il marito è in veranda. Il pomeriggio è soleggiato e nella casa di fronte un cartello scritto a mano, “Forza Fabiola”, campeggia sopra la bandiera Mapuche, il popolo originario di Cile e Argentina da anni al centro di episodi di abusi delle forze dell’ordine. Fabiola ha sempre vissuto a San Bernardo, un’area umile della capitale cilena. La strada di fronte a casa sua è molto stretta, le case sono una attaccata all’altra e gli abitanti della zona si conoscono da sempre. Mentre parla passa un uomo che saluta suo marito: “Ciao vicino”. Le proteste contro il governo di centrodestra di Sebastián Piñera, eletto con un secondo mandato nel marzo del 2018, sono scoppiate il 18 ottobre del 2019 per l’aumento del costo del biglietto della metro. Per la società cilena quell’aumento di 30 pesos è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e in pochi giorni milioni di persone hanno riempito le piazze per manifestare contro le enormi disuguaglianze che da decenni affliggono il Paese. In Cile il costo della vita è in costante aumento e il modello economico neoliberale instaurato dalla dittatura di Pinochet ha prodotto una delle società più diseguali al mondo: l’1 per cento della popolazione detiene il 26,5 per cento della ricchezza. Negli anni i cittadini cileni hanno assistito alla continua privatizzazione dei servizi essenziali (salute, educazione, pensioni) con una politica che ha schiacciato la classe lavoratrice del Paese. “Quando mi hanno aggredita non mi trovavo a una manifestazione, ma quando le proteste sono cominciate mi sono sentita felice: finalmente il Cile si era risvegliato” afferma Fabiola “Voglio che i miei figli e i miei nipoti possano vivere in un Paese migliore”. Erano le 20.30 del 26 novembre del 2019, Fabiola stava camminando nella strada accanto a casa sua per recarsi al lavoro. Era accompagnata dalla sorella e nel loro quartiere non c’erano manifestazioni. All’angolo un gruppo di dieci carabineros armati, e d’improvviso uno scoppio: una bomba lacrimogena ha colpito Fabiola in piena faccia. Sua sorella ha cercato di soccorrerla mentre la giovane era riversa a terra, piena di sangue e l’occhio fuori dall’orbita. Gli agenti, sentite le urla della sorella di Fabiola, hanno sparato altre tre bombe lacrimogene vicino alle due donne e sono andati via senza chiamare un’ambulanza. “Quale pericolo potevamo rappresentare per quei carabineros? Due donne, disarmate e di bassa statura”, ricorda Fabiola con commozione. La repressione delle forze dell’ordine sin dai primi giorni è stata violentissima: a oggi sono oltre 8mila i manifestanti che hanno denunciato di essere stati pestati, detenuti illegalmente, torturati o stuprati. Sono decine i manifestanti morti e migliaia quelli incarcerati, mentre non arriva all’1 per cento il numero di cause in cui è stato dichiarato colpevole un agente dello Stato. Per le gravissime violazioni dei diritti umani perpetrate durante la rivolta, a inizio maggio il presidente Piñera è stato denunciato davanti alla Corte penale internazionale. “Il caso di Fabiola dimostra chiaramente che la giustizia non è uguale se l’imputato è un militare”, dice Alejandra Arriaza, 50 anni, avvocata di Campillai. “I processi sono estremamente lenti, viene richiesto un numero di prove altissime e l’imputato quasi mai rimane in prigione preventiva”. Ad oggi per il caso Campillai c’è un solo imputato e si trova agli arresti domiciliari. Fabiola non ha ricevuto alcun indennizzo e nemmeno delle scuse da parte dello Stato. “In Cile dall’ottobre 2019 si è generato un contesto in cui la nostra polizia considera i manifestanti non come cittadini ma come nemici dello Stato. Si è cercato di spaventare le persone in modo tale che smettessero di protestare”, spiega Matías Vallejos, 28 anni, direttore esecutivo della fondazione Los Ojos de Chile che sostiene i manifestanti accecati. “La repressione che abbiamo vissuto la conoscevamo solo per i racconti che ci avevano fatto i genitori o i nonni a proposito dei tempi della dittatura: è stato uno shock viverla in prima persona”, dice Nicole Kramm, 30 anni, documentarista e fotografa cilena. La notte del 31 dicembre 2019 si trovava per strada a Santiago, documentava le manifestazioni. Camminava insieme a un collega, stavano passando vicino a un gruppo di carabineros e d’improvviso Nicole è caduta a terra: un proiettile di gomma l’aveva colpita in piena faccia. “Riuscivo a vedere solo nero. Dicevo a me stessa: ‘Speriamo che mi abbiano colpita al naso, la fronte o la bocca. Tutto, ma non gli occhi’. Ma poi sono arrivati i soccorritori urlando: ‘C’è un trauma oculare’ e ho capito” ricorda Nicole, “quando si sono avvicinati i soccorritori (cittadini volontari che dal primo giorno delle proteste aiutano i manifestanti) i carabineros hanno continuato a sparare. Il ricordo più intenso di quella notte è il rumore di decine di proiettili che rimbalzavano sugli scudi dei soccorritori”. Mentre parla Nicole si ferma e mima il rumore degli spari. Cosa vuol dire essere una fotografa e perdere la vista? “Gli occhi sono la mia professione, il mio strumento di lavoro: per me sono tutto” spiega Nicole, “continuavo a vedere solo nero, ma non potevo credere che stesse davvero capitando a me e così mi dicevo che il giorno dopo la vista sarebbe tornata”. Mentre parla si commuove. Ha la frangetta e i capelli scuri. È molto minuta e guardandola ci si chiede quale pericolo potesse rappresentare mentre camminava con la sua macchina fotografica per le strade di Santiago. Quella notte ha perso la vista all’occhio sinistro. “Ho iniziato la terapia per capire come adattarmi a questa nuova dimensione: come muovermi negli spazi, come usare la camera. È un lungo percorso per cercare di essere quella di prima, ma so che non succederà mai. Seguo anche una terapia psicologica per superare il trauma dello sparo. Se oggi vedo una persona in uniforme inizio a tremare, a sudare, divento nervosa, mi alieno e cado nella disperazione”. Anche per l’aggressione di Nicole fino ad oggi non ci sono responsabili. Dall’ottobre del 2019 le manifestazioni non si sono mai fermate, così come gli spari agli occhi dei manifestanti: dal dicembre del 2020 si sono registrati sei nuovi casi. Nicole si guarda intorno e dice: “So che non smetteranno di accecare i manifestanti e ogni volta che sparano a qualcuno è come rivivere la propria aggressione”.