Incontro dei laboratori di scrittura e delle attività di informazione dal carcere e sul carcere Ristretti Orizzonti, 13 maggio 2021 Ai responsabili dei laboratori di scrittura e delle attività di informazione e sensibilizzazione dal carcere e dall’area penale esterna: ci incontriamo in videoconferenza il 13 maggio alle 15.30. Segnalando l’adesione all’iniziativa alla mail ornif@iol.it riceverete il link ZOOM. Gentili tutti, abbiamo ricevuto da Francesco Lo Piccolo, giornalista, direttore del periodico “Voci di dentro”, realizzato con i detenuti delle Case circondariali di Chieti e Pescara, un invito a promuovere una videoconferenza per rilanciare le nostre attività. Noi della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ci occupiamo da anni di informazione e comunicazione, in particolare con il Festival della comunicazione dal carcere e sul carcere, e quindi accogliamo volentieri questo invito e vi chiediamo di manifestarci il vostro interesse a partecipare a un incontro web (indicativamente da tenersi tra il 15 e il 28 di questo mese) e a contribuire a rilanciare queste complesse attività, anche in considerazione dell’uso delle tecnologie, che riteniamo vada promosso con forza negli istituti di pena. Per la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Ornella Favero, presidente Carla Chiappini, responsabile della comunicazione Da Voci di dentro Onlus Da un anno tutte le attività delle associazioni di volontariato sono sospese o in casi più fortunati sono ridotte al minimo. In tutte le carceri anche i laboratori via web, compresi quelli di scrittura e per la realizzazione dei giornali, hanno subito drastiche battute d’arresto. In molti casi sospeso anche il servizio di prenotazione e distribuzione dei libri e altrettanto è stata ostacolata la stessa comunicazione dentro-fuori. Per motivi di sicurezza a causa dell’emergenza Covid, dal carcere è stata così estromessa la società civile, che comunque già prima della pandemia era spesso considerata come subalterna all’Istituzione. A titolo di esempio diciamo solo che nel carcere di Pescara era in piedi un progetto in un’area non utilizzata e da noi trasformata in uno spazio aperto con laboratori quotidiani di scrittura, teatro, fotografia, computer, musica, sartoria tenuti da 15 tra volontari e studenti tirocinanti per una quarantina di detenuti. Progetto chiuso dopo tre anni nel 2019 e trasformato in un unico laboratorio di scrittura due volte a settimana e limitato a soli 5 detenuti. Poi il Covid ha fatto il resto. Nel ritenere che oggi spesso nelle carceri non venga rispettato il dettato della Costituzione (art. 27) e le norme e le osservazioni-indicazioni della Comunità Europea, proponiamo al più presto un incontro di tutte le associazioni impegnate nelle carceri italiane con laboratori di scrittura, con la realizzazione di riviste e/o giornali del carcere e con altre attività di questo tipo. L’incontro oltre a fornire il quadro esatto della situazione nelle varie carceri, deve essere occasione di confronto e dibattito per giungere anche alla definizione di una linea comune di risposta rivolta al superamento di questa grave situazione, che di fatto ha trasformato le carceri italiane in luoghi di sempre maggior sofferenza per oltre 50 mila persone, e spesso al di fuori della legalità. Francesco Lo Piccolo Ergastolo ostativo. Quella “scelta tragica” fuori dalla Costituzione di Andrea Pugiotto Il Riformista, 13 maggio 2021 “O collabori o rimarrai dietro le sbarre”: questo scambio opprime la libertà di autodeterminazione che coincide con la dignità di ognuno, anche se criminale certificato. E la Consulta ha trovato le parole per dirlo. 1. È stato depositato il testo dell’ordinanza n. 97/2021 della Corte costituzionale, in tema di ergastolo ostativo alla liberazione condizionale, già sinteticamente anticipata per linee essenziali dal comunicato stampa di Palazzo della Consulta del 15 aprile scorso. Commentandolo, su questo giornale si è scritto che quella decisione rappresentava “un punto di non ritorno” per l’ergastolo ostativo (Il Riformista, 17 aprile 2021). L’ergastolo senza scampo, costituzionalmente, non aveva più scampo. È veramente così? 2. Da qui è bene partire, per non confondere forma e sostanza. È vero, infatti, che quella depositata è un’ordinanza, cioè una decisione interlocutoria che si limita a disporre il rinvio del giudizio in corso, fissando la data del 10 maggio 2022 per una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale. Ma è altresì vero che, nel merito, l’incostituzionalità della disciplina oggi in vigore è già stata acclarata. Su ciò, la lettura dell’ordinanza toglie ogni dubbio residuo. L’attuale disciplina dell’ergastolo ostativo preclude l’accesso alla liberazione condizionale per il condannato che, pur potendo, non collabora utilmente con la giustizia. Ciò in forza di un automatismo legislativo (mancata collaborazione, dunque perdurante pericolosità sociale, quindi impossibilità di concessione di qualsiasi misura extramurale) che “mette in tensione” i princìpi costituzionali e della Cedu elaborati dalle rispettive Corti. Princìpi secondo i quali una pena perpetua è legittima a condizione che l’ergastolano possa riacquistare la libertà proprio attraverso il beneficio della liberazione condizionale, se e quando meritata. Diversamente, “la pena perpetua de iure si trasformerebbe, così, in una pena perpetua anche de facto”: dunque inumana e degradante (secondo la Corte di Strasburgo) e contraria al suo necessario finalismo rieducativo (secondo la Corte costituzionale). È questo l’approdo sia dell’evoluzione legislativa in materia, sia della giurisprudenza delle due Corti, entrambe efficacemente riepilogate nell’ordinanza. Ecco perché “è necessario che la presunzione in esame diventi relativa”, cioè superabile sulla base dell’acquisizione di altri specifici elementi diversi dalla sola collaborazione. Così com’è - si legge nell’ordinanza - l’ergastolo ostativo “pone un problema strutturale” che va risolto “alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata”. 3. O collabori o rimarrai dietro le sbarre fino alla fine della tua pena: in breve, questo è lo scambio che la legge impone in caso di condanna per reati ostativi contenuti nella blacklist dell’art. 4-bis, 1° comma, ord. penit. È una condizione opprimente per la libertà di autodeterminazione, che fa tutt’uno con la dignità di ogni persona, anche se criminale certificato. La Corte cerca e trova le parole per dirlo. Laddove svela come quello scambio possa assumere “una portata drammatica” per il condannato all’ergastolo, obbligato “a scegliere tra la possibilità di riacquistare la libertà e il suo contrario, cioè un destino di reclusione senza fine”. Un’alternativa che può farsi “scelta tragica” tra una collaborazione necessaria alla “propria (eventuale) libertà, che può tuttavia comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia ad essa, per preservarli da pericoli”. Alternativa drammatica. Scelta tragica. Per tali parole la Corte (scommettiamo?) sarà populisticamente messa in croce, inchiodata dalle travagliate accuse di smemoratezza verso chi i propri cari li ha persi - drammaticamente, tragicamente - proprio per mano mafiosa. Sono invece espressioni costituzionalmente giustificate, e non solo perché l’esecuzione penale riguarda singole persone, non organizzazioni criminali. Infatti, secondo il diritto penale liberale incapsulato nella Costituzione italiana, la collaborazione con la giustizia può essere premiata, non coercita, e la si può pretendere soltanto se “naturalisticamente e giuridicamente possibile” (sent. n. 89/1999), non sotto ricatto. Passa anche da qui la capacità di uno Stato di diritto di combattere la criminalità organizzata, che invece usa indiscriminatamente contro le proprie vittime proprio la coercizione psico-fisica e la minaccia della morte in assenza di collaborazione. 4. Dunque, l’ergastolo ostativo è “incompatibile con la Costituzione”, come recitava correttamente il comunicato stampa del 15 aprile: oggi sappiamo perché. Se così è, che cosa ha precluso alla Corte di pronunciare una formale sentenza di annullamento di una disciplina penitenziaria così severamente censurata? Ad impedirlo è stata la radicalità della “posta in gioco”, misurabile su piani diversi ma sovrapposti. Il piano ordinamentale, essendo in questione “le condizioni alle quali la pena perpetua può dirsi compatibile con la Costituzione”. Il piano esistenziale, essendo in discussione per il condannato “la sua stessa possibilità di sperare nella fine della pena”. Il piano sanzionatorio, essendo sospettati di incostituzionalità “aspetti centrali e, per così dire, “apicali”“ della normativa di contrasto al crimine organizzato, quanto alle fattispecie di reato (di contesto mafioso), all’entità della pena (l’ergastolo) e al beneficio avuto di mira (la liberazione condizionale). Il piano, infine, della coerenza normativa, considerato che un accoglimento immediato delle questioni proposte potrebbe comportare “effetti disarmonici sulla complessiva disciplina in esame”, analiticamente illustrati nell’ordinanza. Ciò che era stato possibile quando in gioco era l’ostatività al permesso premio (sent. n. 253/2019) si rivela, per ora, impraticabile. In quel caso, la Corte non si era limitata ad accogliere la quaestio riguardante l’accesso al beneficio penitenziario che segna l’inizio del percorso di risocializzazione, ma ne aveva esteso gli effetti a chiunque avesse subìto una condanna (perpetua o temporanea) per qualsiasi reato ostativo. Rispetto a quel precedente, ora “la posta in gioco è ancora più radicale” e chiama in causa scelte di politica criminale che eccedono i poteri della Corte perché “non costituzionalmente vincolate nei contenuti”. I giudici costituzionali decidono così di fermarsi: “esigenze di collaborazione istituzionale” impongono il rinvio della causa a data certa, “dando al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia”. 5. Fa bene Giovanni Guzzetta (Il Riformista, 12 maggio 2021) a sottolineare l’occasione così offerta alle Camere di dimostrare, anche in quest’ambito, una centralità faticosamente ritrovata. E tuttavia, pare adulterata la narrazione dell’ord. n. 97 laddove accredita l’immagine di un legislatore che si sarebbe già attivato in direzione di “una disciplina di “assestamento”“ del regime ostativo applicato all’ergastolo. La realtà è diversa. Come in un gioco delle parti, i lavori della richiamata Commissione parlamentare antimafia si sono deliberatamente fermati, senza produrre iniziative legislative, in attesa del pronunciamento della Corte. La sola proposta di legge citata (AC n. 1951) è stata presentata in Commissione Giustizia il 2 luglio 2019 e mai discussa. Quanto all’esecuzione della sentenza Viola c. Italia n° 2, il problema strutturale rilevato dalla Corte di Strasburgo - checché ne dica il Governo presso il Consiglio d’Europa - non è stato ancora affrontato né tantomeno risolto con alcuna misura di carattere generale. 6. La liberazione condizionale è una misura intrinsecamente penale, e la materia penale è dalla Costituzione riservata alla legge parlamentare. Spetta, in primo luogo, al legislatore “ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo”: il ritorno alla politica, dunque, si giustifica e rappresenta - illuministicamente - la soluzione preferibile e più coerente dal punto di vista ordinamentale. Ma c’è un limite non valicabile oltre il quale il rispetto della discrezionalità legislativa cede alla ragione fondamentale della giurisdizione costituzionale, e quel limite è già segnato sul calendario: 10 maggio 2022. Allora, sarà compito della Corte “verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte”. O non assunte. Le motivazioni della Consulta lezione a chi ha diviso i detenuti in buoni e cattivi di Giovanni Guzzetta Il Riformista, 13 maggio 2021 Il deposito delle motivazioni dell’ordinanza della Corte costituzionale 97/2021 sul cosiddetto ergastolo ostativo fa giustizia di troppo affrettate interpretazioni del comunicato stampa con cui essa era stata annunciata qualche settimana fa. E pone il legislatore di fronte alla responsabilità di un intervento equilibrato, libero dai condizionamenti del fazionismo urlato che, in queste materie, impera. È un’occasione da non perdere per più di una ragione. Innanzitutto perché dopo mesi di marginalizzazione, dovuta anche alle vicende della pandemia, il Parlamento è chiamato a dimostrare di essere un organo vitale capace di assumersi le proprie responsabilità. L’abbandono dell’ubriacatura da Dpcm, il recupero dello strumento del decreto-legge (che il Parlamento deve convertire controllando così l’azione del governo), i compiti che a esso sono affidati nel quadro delle politiche di attuazione del Pnrr, restituiscono all’organo rappresentativo una centralità importante, seppur nella distinzione di ruoli tra maggioranza e opposizione. Si tratta di dimostrare che l’ubriacatura giacobina inneggiante alla democrazia della rete, da un lato, e la passiva subalternità a forzature operate con i poteri di ordinanza, dall’altro, non sono un ineluttabile destino per le nostre affaticate istituzioni. Inoltre il Parlamento è chiamato a dimostrare la propria capacità di interloquire autorevolmente con l’organo di suprema garanzia costituzionale che ha, per la terza volta negli ultimi anni, scelto un’apertura molto significativa alla leale collaborazione istituzionale con il potere politico. La decisione di sospendere il giudizio di legittimità sull’ergastolo ostativo consentendo al Parlamento di intervenire, calibrando una disciplina che rientra nella sua discrezionalità, è un’ulteriore mano tesa al legislatore, malgrado la pessima prestazione nel precedente del caso Cappato. Anche in quell’occasione la Corte aveva dato tempo alle Camere, ma alla fine dovette decidere comunque, avendo preso atto “di come nessuna normativa in materia sia sopravvenuta nelle more della nuova udienza”. Il terzo motivo per il quale l’occasione è importante attiene al merito della questione. Siamo in un’epoca in cui sulla giustizia grava il cielo plumbeo di una crisi fatta di scandali, di sospetti e di drammatiche preoccupazioni per la tenuta di un sistema affetto ormai da mali endemici. Di fronte a questa situazione, la politica, peraltro pesantemente coinvolta in molte vicende della giustizia, è tentata di proseguire in quella guerra di religione che ormai dura da decenni. Il fazionismo, le contrapposizioni ideologiche, le tifoserie dei talebani impazzano, esasperando conflitti che richiederebbero invece il rasoio di Occam per la delicatezza e la drammaticità di questioni che, in ultima istanza, si scaricano sulla carne viva dei cittadini. E le prime reazioni alla decisione della Corte, prima che ne fossero conosciuti i dettagli, non lasciavano ben sperare. Al contrario le motivazioni del giudice delle leggi fanno ragione delle posizioni più oltranziste, siano esse perdoniste o colpevoliste. Anzi, si può, in una battuta, dire che la Corte ha deciso di offrire una chance al Parlamento proprio in considerazione della delicatezza della materia, della complessità delle decisioni possibili, che richiederanno anche valutazioni di merito politico in relazione alle varie possibili alternative. Una forma di deferenza verso la rappresentanza popolare che spetta al legislatore dimostrare di meritare. Il problema è complesso proprio perché non può ridursi al semplice annullamento delle norme sull’ergastolo ostativo. La questione è nota e si risolve nella domanda: chi non ha collaborato con la giustizia può meritare di essere liberato (in via condizionale e poi, eventualmente, definitiva)? E la risposta della Corte parte da un approccio laico, in cui si fa strame di un doppio tabù. Quello per cui chi collabora possa dirsi per definizione “ravveduto” e quello per cui chi non collabora sia, per definizione, “pericoloso”. Il giudice delle leggi dà una lezione di cultura giuridica, rinunciando a una visione paternalistica e moralistica della politica criminale, ma cogliendone gli aspetti realistici e la necessità di distinguere. Non ci sono automatismi discendenti dall’avvenuta o mancata collaborazione: “La condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali”. Ciò non significa squalificare il ruolo di chi collabora, ma significa guardarlo senza retorica in funzione dell’utilità per lo Stato. Chi non collabora dal canto suo, non può essere inappellabilmente tacciato di conservare legami criminali, anche ciò non vuol dire che la mancata collaborazione non possa suscitare sospetti che vanno dissipati attraverso un rigoroso e specifico scrutinio. Non è dunque un “liberi tutti”, ma, al contrario, il riconoscimento della necessità che siano adottate procedure, prima e dopo l’eventuale liberazione condizionale, volte ad accertare in concreto, con modalità severe e tranquillizzanti per la comunità, che il percorso di ravvedimento, malgrado la mancata collaborazione, possa dirsi effettivamente provato. Per questo sarebbe più che opportuno l’intervento del Parlamento. Perché la calibratura di queste misure implica scelte discrezionali importanti nell’equilibrio tra principi costituzionali come l’interesse alla sicurezza dei cittadini e quello alla rieducazione dei condannati. Piuttosto che esultare o rammaricarsi per la decisione, la politica dovrebbe adesso dimostrarsi all’altezza della sua responsabilità. Le mafie si sconfiggono con la forza del Diritto di Edmondo Bruti Liberati Il Dubbio, 13 maggio 2021 Il segnale di civiltà offerto dalla sentenza della Consulta è una sfida al crimine. La Corte Costituzionale lo scorso 15 aprile ha ritenuto che la attuale disciplina che fa della collaborazione con la giustizia l’unica strada a disposizione ai condannati all’ergastolo ostativo per accedere alla liberazione condizionale è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ma ha deciso di rinviare il giudizio al 10 maggio 2022, così da garantire al legislatore il tempo necessario per affrontare la materia. La motivazione della ordinanza depositata l’11 maggio consente, a mio avviso, di superare allarmi e preoccupazioni da più parti avanzati. La Corte si è data carico del fatto che un intervento meramente “demolitorio” avrebbe potuto produrre effetti disarmonici sul complessivo equilibrio della disciplina dell’ergastolo ostativo, compromettendo le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il fenomeno della criminalità mafiosa. Ha riconosciuto il rilievo della collaborazione con la giustizia, ma ha giustamente rilevato che “non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali”. La scelta della Corte è stata criticata da punti di vista opposti. Si è proposto l’allarme per il cedimento che si determinerebbe nel contrasto alla criminalità mafiosa; all’opposto si è rilevata la incongruenza di mantenere in vita per un anno una disciplina ritenuta incostituzionale, con il rischio che nel frattempo il legislatore non intervenga. Occorre ricordare che nella sentenza Cedu del 13.6.2019 nel caso Viola contro Italia si legge: “La natura della violazione riscontrata dal punto di vista dell’art.3 della Convenzione indica che lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena”. Attenendosi a questa indicazione la nostra Corte ha inteso rimettere al legislatore la elaborazione delle condizioni che, eliminata la presunzione assoluta della non collaborazione, consentirebbero l’accesso alla liberazione condizionale: tra queste “potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione”. Oltre un anno addietro con la sentenza n. 253/2019 la Corte aveva dichiarato direttamente la incostituzionalità della preclusione assoluta limitatamente alla concessione dei permessi premio. Una grande responsabilità veniva assegnata alla magistratura di sorveglianza, non maggiore peraltro di quella che quotidianamente viene affrontata in tutti gli altri casi. È una responsabilità che la magistratura di sorveglianza affronta da quasi mezzo secolo, da quando il Parlamento ebbe il coraggio nel 1975, pur nel clima di allarme per la criminalità organizzata e per il terrorismo, di adottare la riforma penitenziaria. Nel 1975, nominato magistrato di sorveglianza a Milano, ho avuto modo, per la prima volta nella storia della Repubblica, di applicare questo istituto: il primo passo per la rottura della tradizionale immutabilità della pena inflitta, l’opposto della logica del “buttiamo la chiave della cella” e del “lasciamoli marcire in carcere”. La Corte con la sentenza n.253/2019 sottolineava che alla magistratura di sorveglianza deve essere assicurato “un efficace collegamento con tutte le autorità competenti in materia”. È una assunzione di responsabilità che si richiede anche alle forze di polizia che “devono acquisire stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata” e non limitarsi, aggiungo io, a pigre formulette “non si può peraltro escludere che…”. Ed inoltre sarà necessario rendere più incisivi i controlli richiesti dal regime di libertà vigilata. È un mutamento culturale e organizzativo che si richiede anche alle forze di polizia. Il percorso di reinserimento dei condannati nella società, i dati statistici lo dimostrano, è un efficace, anche se ovviamente non risolutivo, antidoto alla recidiva. Tutt’altro che “buonismo”, ma efficace politica per garantire maggiore sicurezza. Gli allarmi lanciati come reazione alla sentenza della Corte sui permessi sono stati smentiti dai fatti. I permessi concessi ad ergastolani ostativi si contano sulle dita di una mano e non hanno posto problemi. I detenuti in regime di ergastolo ostativo oltre 1200. Cosa ci dicono questi dati? Anzitutto che i magistrati di sorveglianza sono stati oculati e prudenti della concessione dei permessi. Inoltre si deve considerare che la concessione della liberazione condizionale (così come delle altre misure alternative) è sempre la conclusione di un percorso che prevede l’esito positivo di una pluralità di permessi. Sembra dunque eccessiva la critica secondo la quale il rinvio precluderebbe la concessione della liberazione condizionale, che comunque presuppone la positiva esperienza dei permessi per un congruo periodo. Per altro verso il rinvio disposto dalla Corte consentirà di sperimentare questi percorsi ed offrirà al legislatore concreti elementi di fatto sui quali modellare la nuova disciplina. Queste sono considerazioni di mero fatto, ma ogni tanto fare i conti con i dati di fatto anche su grandi questioni di principio non è inutile. Penso che la decisione della Corte sia stata, sotto i diversi punti di vista, una saggia decisione. Non si tratta di “allentare la guardia” di fronte alle organizzazioni mafiose ma di ricordare che in carcere non ci sono “organizzazioni”, ma persone. L’offrire una prospettiva di “uscita” dal carcere e di “rientro nella società” andrà incontro inevitabilmente anche a fallimenti, a errori valutazione. Ma sull’altro piatto della bilancia è il segnale di civiltà che un ordinamento democratico lancia come sfida proprio alle organizzazioni mafiose e non è illusorio pensare che forse potrà contribuire alla messa in crisi, silenziosa, di consolidate appartenenze. Cancelliamo l’incapacità di intendere e di volere di Franco Corleone Il Riformista, 13 maggio 2021 È un vecchio arnese del Codice Rocco che porta con sé lo stigma. Ora c’è una proposta di legge per affrontare il tema dell’imputabilità per i “folli rei” e respingere le pulsioni neo-manicomiali. Ieri alla Camera dei Deputati abbiamo presentata la proposta di legge n. 2939 a prima firma Riccardo Magi per affrontare radicalmente la questione delicata della imputabilità per i “folli rei”, finora risolta con perizie psichiatriche per stabilire l’incapacità di intendere e volere e comminare misure di sicurezza in ragione di una pretesa pericolosità sociale. Hanno partecipato Stefano Cecconi, Norina Dirindin, Pietro Pellegrini, Mimmo Passione. Il testo è stato discusso in maniera approfondita nel corso di seminari e incontri tra giuristi, psichiatri, operatori dei servizi di salute mentale, avvocati e militanti delle associazioni impegnati per la riforma. Cioè è frutto di una elaborazione collettiva coordinata dalla associazione La Società della Ragione, dall’Osservatorio sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, dal Coordinamento delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) e dei Dipartimenti di salute mentale (DSM) e da Magistratura democratica. Questo movimento ha partecipato alla lunga battaglia per completare il processo di liberazione per il superamento delle istituzioni manicomiali conclusosi con l’approvazione della legge 180, nel 1978. Non era stato affrontato il nodo dell’esistenza dei manicomi giudiziari, i famigerati OPG, espressione massima dell’istituzione totale, carcere e manicomio insieme. Si è dovuto attendere il miracolo della legge 81 del 2014 per realizzare una vera rivoluzione che si è concretizzata completamente nel 2017 con l’uscita dell’ultimo internato. La legge 81 prevedeva che il ricorso alle misure di sicurezza detentive dovesse essere una misura estrema; così non è sempre accaduto ma l’esperienza delle Rems ha mostrato la possibilità di buone pratiche terapeutiche grazie ad alcuni pilastri fondamentali (territorialità, numero chiuso, limite temporale della durata della misura di sicurezza evitando il cosiddetto ergastolo bianco, rifiuto della contenzione meccanica) e al cambiamento da struttura carceraria a struttura sanitaria. Purtroppo le difficoltà inevitabili di applicazione di una riforma che ha rotto molti stereotipi lombrosiani e il mancato investimento di risorse a favore dei Dipartimenti di salute mentale e di strutture nel territorio, sono state strumentalizzate con il rischio di tornare indietro. La nostalgia del manicomio si è manifestata anche con una questio alla Corte Costituzionale che sarà esaminato il 26 maggio e che prevede il ritorno alla presenza della polizia penitenziaria nelle Rems abolendo anche il numero chiuso, provocando sovraffollamento come in carcere. Anche per respingere le pulsioni neo-manicomiali abbiamo deciso di porre sul tappeto la cancellazione del cosiddetto doppio binario del Codice Rocco che riserva agli autori di reato - se dichiarati incapaci di intendere e di volere per infermità mentale al momento del fatto - un percorso giudiziario speciale. Siamo convinti e lo affermiamo con chiarezza che la responsabilità è terapeutica Scegliamo la via del giudizio per le persone affette da grave disabilità psicosociale, non per arrivare a una pena dura o esemplare, ma per riconoscere la loro dignità di soggetti e con la possibilità di comprensione le loro azioni, eliminando lo stigma che il verdetto di incapacitazione e l’internamento recano con sé. La proposta affonda le sue radici in un disegno di legge che presentai nel 1991 al Senato ed è stata elaborata da Giulia Melani, Katia Poneti e Grazia Zuffa e si è avvalsa delle riflessioni del Comitato Nazionale di Bioetica, del Consiglio Superiore della Magistratura e della Corte Costituzionale; in particolare è prevista una possibilità di accesso a misure alternative alla detenzione per i soggetti affetti da patologie psichiatriche. Questa soluzione favorirà anche l’intervento di sostegno psicologico nelle carceri che nell’anno della pandemia hanno visto peggiorare le condizioni di vita e annullate le possibilità di relazioni umane in vista della risocializzazione. Troppi sono i proscioglimenti conseguenti a perizie che sanciscono l’incapacità di intendere e volere. Alcuni casi hanno suscitato scandalo e clamore in Italia e in Francia e la spinta per rivedere la legge riduzionista e biologista si fa largo. Se si vuole parlare sul serio di riforma della giustizia non si possono eludere i principi di civiltà. E dopo novanta anni di vigenza del Codice Rocco, fondamento del regime fascista e dello stato etico, sarebbe davvero ora di cancellarlo e approvare un Codice della Repubblica. Chissà se la ministra Cartabia avrà questa ambizione. Covid: 294 detenuti positivi, numero più basso da inizio anno ansa.it, 13 maggio 2021 Scende sotto quota 300 il numero dei detenuti che hanno contratto il Covid raggiungendo il livello più basso del 2021. E si riducono per dimensioni i focolai nelle carceri. Rispetto a una popolazione carceraria di 52.561 detenuti, i positivi sono 294, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 10 maggio. Appena quattro giorni prima erano 371. Il calo è ancora più significativo se paragonato al picco di contagi raggiunto nel dicembre dell’anno scorso con 1.088 casi. Gli asintomatici sono 279, 13 detenuti sono ricoverati in ospedale, 2 con sintomi invece sono curati in carcere. Per quanto riguarda i focolai, si sono ridotti sensibilmente quelli nelle carceri di Reggio Emilia e Foggia: nel primo caso si è passati dai 64 positivi del 6 maggio agli attuali 39, nel secondo i casi da 61 sono diventati 36. Calo più modesto per il cluster di Rebibbia Femminile (da 44 a 41 detenute positive). Tra i poliziotti penitenziari, i positivi sono 324, di cui 297 asintomatici e 27 con sintomi. Tra il personale amministrativo e dirigenziale i casi sono 45. Per quanto riguarda le vaccinazioni, hanno raggiunto la cifra di 21.489 tra i detenuti e di 20.758 tra i poliziotti (su 36.939). “Adotta uno scrittore” in 13 scuole carcerarie di Antonella Barone gnewsonline.it, 13 maggio 2021 Sono 13 le scuole carcerarie che hanno aderito alla XIX edizione di “Adotta uno scrittore”, l’iniziativa di promozione della lettura del Salone del Libro di Torino (14 - 18 ottobre 2021) sostenuta dall’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte, in collaborazione con la Fondazione con il Sud. L’edizione 2021 coinvolgerà 37 autori e 32 classi (tra scuole primarie, secondarie di primo e secondo grado e carcerarie) e 2 università. Ogni adozione comprende tre appuntamenti fra a autori e studenti a distanza di settimane l’uno dall’ altro. Il punto di partenza è sempre rappresentato dalla lettura di un libro che diviene poi occasione di confronto e riflessione su altri testi. Gli scrittori adottati dagli istituti penitenziari sono Andrea Colamedici e Maura Gancitano (Minorile Torino, Ferranti Aporti), Fabio Cantelli (reclusione Asti), Tiziana Triana (circondariale Pozzuoli-NA), Donatella Di Pietrantonio (Circondariale Roma Rebibbia “Raffaele Cinotti”), Jonathan Bazzi (reclusione Saluzzo “Rodolfo Morandi”), Cathy La Torre (Alessandria, Istituti “Cantiello e Gaeta), Francesco “Kento” Carlo (Circondariale Locri, RC), Daniele Zito(Circondariali Gela e Piazza Armerina), Abdullahi Ahmed (Minorile Potenza” E.Gianturco”), Giuseppe Catozzella (circondariale Novara), Antonella Lattanzi (reclusione Turi), Davide Reviati (circondariale Biella)e Diego De Silva (circondariale Salerno “Antonio Caputo”). Alcuni degli incontri sono stati già avviati o programmati. Al “Ferrante Aporti” i filosofi divulgatori Colamedici Gancitano, in arte Tlon, hanno già avviato un confronto con i ragazzi sul loro ultimo libro “Prendila con filosofia” (Harper Collins) mentre Giuseppe Catozzella a Novara ha proposto “Italiana” (Mondadori). Il 14, 21 e 28 maggio (due date in presenza e una in streaming) la scrittrice Donatella Di Pietrantonio - premio Campiello 2017 per l’Arminuta (Einaudi 2017) e candidata al Premio Strega con Borgo Sud (Einaudi) sarà ospite della casa circondariale di Roma Rebibbia “Rafael Cinotti” dove incontrerà studenti dei percorsi scolastici interni dell’IIS J. Von Neumann, detenuti universitari o bibliotecari e detenuti comuni. L’iniziativa del Salone del Libro raggiunge così anche il carcere romano che ha aderito nell’ambito del Corso di Biblioteconomia realizzato dal CESP (Centro Studi per la Scuola Pubblica) e dalla Cattedra di Biblioteconomia e Bibliografia dell’Università Roma Tre. La platea di persone che potranno accedere a contenuti rilevanti sarà comunque molto più vasta grazie alla piattaforma SalTo per la Scuola che anche quest’anno, è accessibile anche docenti e studenti non coinvolti nel progetto. La novità della XIX edizione è rappresentata dal ciclo di video - lezioni “Adotta una parola”. Ogni autore sceglierà un termine da “smontare”, esplorare, interpretare da diversi punti di vista. Un’opportunità anche per i detenuti allievi di classi che non hanno aderito al percorso di conoscere, attraverso le parole che hanno scelto, gli autori adottati dalle scuole carcerarie. “Adotta uno scrittore è uno dei progetti più importanti del Salone del Libro per come riesce a far incontrare nel corso dell’anno studenti provenienti da scuole di tutta Italia con le personalità più importanti, originali e stimolanti della nostra scena culturale” - ha sottolineato il Direttore della manifestazione torinese Nicola Lagioia che ha aggiunto come si si sia voluto realizzare un contesto laboratoriale “per dare il tempo a studenti e autori di confrontarsi, discutere facendo insieme un tratto di strada che risulta alla fine per tutti un’esperienza importante”. Giustizia, maggioranza in subbuglio. I 5S tentati dal no alle riforme di Liana Milella La Repubblica, 13 maggio 2021 La preoccupazione di Draghi è che non si riesca a seguire un cammino comune e che il dibattito diventi una polveriera. Cartabia punta tutto sugli emendamenti al processo penale, nei quali terrà conto delle differenze tra partiti. La maggioranza si slabbra sulla giustizia. Prima la Lega terremota Cartabia con i referendum. E tira a destra. Ma adesso, dopo l’incontro di lunedì con la Guardasigilli, una forza propulsiva opposta tira a sinistra. È quella dei 5Stelle. Che davanti a Cartabia si sono comportati come dei signori. Ma poi, riflettendo sulle proposte, hanno cominciato a essere tentati di far saltare il banco. E quando, alla Camera, ieri mattina l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede ha incontrato Enrico Costa di Azione non è riuscito a trattenersi dal dirgli: “Siete contenti eh?!?!”. Alludendo, chiaramente, ad almeno tre o quattro punti delle proposte di Cartabia, che gli sono andate decisamente di traverso, e che sarebbero di stampo conservatrice. Per intenderci, roba di destra. Quali sono? Eccole. La netta marcia indietro, comunque vada, sulla prescrizione di Bonafede e addio allo stop dopo il primo grado; il processo d’appello praticamente quasi cancellato in stile Gaetano Pecorella (l’ex pupillo di Berlusconi che diede il nome alla legge, poi soppressa dalla Consulta, che legava le mani al pm che perde il processo); le priorità dell’azione penale decise dal Parlamento (le propose l’ex Guardasigilli Angelino Alfano); la stretta, inequivocabile, sui pubblici ministeri messi sotto l’usbergo dei gip. Che addirittura potranno fare le pulci al pm se conduce le indagini con troppa lentezza. Non basta: sempre il gip potrà controllare se il pm fa la furbata di cambiare la data di iscrizione dell’imputato nel registro degli indagati. A questo punto il tam tam delle lamentele degli M5S arriva a palazzo Chigi, entra nella stanza di Draghi, e nella testa del premier scatta un campanello di allarme. Si materializza il timore che sulla giustizia la maggioranza non riesca a tenere la barra dritta. Che faccia acqua in Parlamento. Un fatto, però, è certo, e anche documentato dalle verifiche di Repubblica. In via Arenula la giurista Cartabia è tranquilla. Convinta com’è che tutte le contraddizioni sfumeranno quando lei, tra una settimana, presenterà alla Camera i suoi emendamenti sul processo penale. Che terranno conto delle pur diverse anime della maggioranza, e che saranno una sintesi delle ben 721 richieste di modifica al testo base di Bonafede sul processo penale presentate dai partiti, ma anche del lavoro, considerato “prezioso”, dell’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi. Oggi al vertice del gruppo di lavoro che, per scelta di Cartabia, ha rimesso mano al processo penale in versione Bonafede. Con una mappa di modifiche che sicuramente piacciono alla destra, tant’è che proprio l’ex forzista Costa twitta entusiasta “il ‘fine processo mai’ va in archivio, la Cartabia illustra una proposta seria per cancellare i danni di M5S, lo smarrimento dei grillini è evidente, speriamo che il Pd non faccia di nuovo il loro gioco”. Una polveriera potenziale pronta a esplodere. Legittimo dunque che oggi, di fronte agli spifferi che entrano dalla sua finestra, Mario Draghi si preoccupi, anche perché la Guardasigilli Marta Cartabia, lunedì pomeriggio con modalità da remoto, il che ha evitato la rissa in diretta, ha presentato la riforma della giustizia accentuando molto il rischio che, se dovesse fallire il tentativo di approvare in tempo le riforme, anche i fondi del Recovery potrebbero saltare. O addirittura ne potrebbe essere richiesta una restituzione. E con l’aria che tira in Parlamento - M5S deluso e furibondo, Lega che punta sui referendum - tocca solo al Pd accollarsi il peso di un possibile compromesso. A questo punto la domanda legittima è, ma sulla giustizia la maggioranza terrà, o precipiterà rovinosamente? La proposta sul processo penale allontana i grillini da Cartabia di Giulia Merlo Il Domani, 13 maggio 2021 Il Movimento 5 Stelle ha accolto freddamente la relazione dei tecnici chiamati dalla ministra a proporre modifiche alla riforma del penale. “La nostra sensibilità in tema di prescrizione e di processo penale è molto diversa”, ha detto il deputato Cinque stelle Vittorio Ferraresi, che ha rilanciato il lavoro sul civile, considerato meno problematico. L’allarme è arrivato forte e chiaro a via Arenula, anche perché la velata minaccia di far slittare i tempi della riforma è più che attuale. Come da pronostico, il disegno di legge che riforma il processo penale rischia di diventare un problema per il governo e soprattutto per la ministra della Giustizia, Marta Cartabia. A inizio settimana si è svolto il vertice di maggioranza durante il quale la guardasigilli ha presentato il lavoro degli esperti da lei nominati per rimettere mano al testo del ddl. Le proposte di modifica hanno toccato la legge Bonafede che blocca la prescrizione dopo il primo grado, le modalità di appello, i tempi d’indagine e il rito del patteggiamento e sono state accolte in modo diverso dai partiti di maggioranza. Il centrodestra (che in materia di appello si è visto presentare, con qualche modifica, una proposta già avanzata nel governo del 2007), Azione e Italia Viva si sono detti soddisfatti delle proposte e delle modalità di lavoro, anche il Partito democratico ha plaudito al metodo Cartabia e alla sua volontà di superare con il pragmatismo le contrapposizioni ideologiche. L’unico ad accogliere freddamente la proposta è stato il Movimento 5 Stelle, e non poteva essere altrimenti. Immediatamente dopo l’incontro sono seguite dichiarazioni prudenti, con l’andare dei giorni invece i grillini hanno esplicitato tutto il loro malcontento. A tradurlo in dichiarazione è stato il deputato e membro della commissione Giustizia, Vittorio Ferraresi: “Rispettiamo il lavoro della commissione per le riforme istituita dalla ministra Cartabia, ma la nostra sensibilità in tema di prescrizione e di processo penale è molto diversa”. Parole misurate, ma che danno la dimensione del profondo disaccordo con quanto ascoltato durante la riunione e di quanto sia complicato il lavoro di sintesi che ora spetta a Cartabia, la quale dovrebbe presentare entro la settimana prossima gli emendamenti del governo al testo, cercando di rispecchiare tutte le anime della maggioranza. La contrarietà dei grillini riguarderebbe di fatto tutti gli aspetti caratterizzanti la proposta della commissione, a partire dalle due proposte di modifica della prescrizione: una che introdurrebbe la prescrizione per fasi processuali, l’altra che ripristinerebbe la prescrizione pre Bonafede con però sospensioni più lunghe. Il Movimento 5 Stelle, invece, ha presentato un emendamento che cancelli anche l’accordo di modifica trovato con il governo Conte 2, che prevedeva lo stop della prescrizione solo per i condannati in primo grado. Nessun accordo sarebbe possibile anche sull’inappellabilità da parte dell’accusa, né sulla rimessione al parlamento della decisione sui criteri di indagine, né infine sull’allargamento della premialità del patteggiamento. L’unico spiraglio è quello del credito che i grillini continuano a dare a Cartabia: “La proposta dei tecnici è piena di criticità, ora aspettiamo la sintesi politica della ministra”, dicono fonti interne al gruppo. Tuttavia, l’allarme è arrivato forte e chiaro a via Arenula, anche perché la velata minaccia di far slittare i tempi della riforma è più che attuale. “La priorità assoluta in tema di giustizia è la riforma del processo civile, come si legge dallo stesso Pnrr”, ha detto Ferraresi. Tradotto: sul penale l’accordo difficilmente si troverà in tempi brevi, quindi ora è meglio lavorare sul civile su cui è più facile avere convergenza. “Abbiamo riletto con attenzione le richieste europee: riguardano la velocizzazione dei processi civili e l’anticorruzione”, è il ragionamento dei grillini. Un ragionamento che preoccupa non solo la ministra ma anche il Partito democratico, che in questi mesi ha tentato di porsi come mediatore e sponda per Cartabia, soprattutto nella dinamica con il Movimento 5 Stelle. Dal Nazareno arriva un segnale chiaro: basta usare la giustizia come bandierina identitaria sia da parte del movimento che del centrodestra, perché il rischio è far saltare la maggioranza. A non essere piaciute sono le affermazioni di chi, come l’esponente di Azione Enrico Costa, ha parlato di smantellamento della legge Bonafede. “Questi toni fanno scattare il riflesso pavloviano dei grillini, che si irrigidiscono. Ma così rischia di franare tutto”, è il ragionamento dei dem. La speranza è che, procedendo per gradi, gli angoli si smussino. “Vediamo i testi finali delle proposte di emendamento, ma chi pensa di usare questa fase per continuare a usare la giustizia come una clava non ha capito i rischi che corriamo: non fare le riforme e rischiare i finanziamenti”, avverte il deputato Pd in commissione Giustizia Walter Verini. Intanto, la ministra Cartabia ha depositato in commissione Giustizia al Senato gli emendamenti al ddl civile, che puntano all’obiettivo dell’efficienza e della riduzione del 40 per cento dei tempi dei processi. Un fronte meno problematico, in attesa di trovare una soluzione che eviti il ridimensionamento delle riforme al solo processo civile. Riforma Cartabia, cosa prevede il nuovo testo sulla giustizia che archivia l’epoca Bonafede di Tiziana Maiolo Il Riformista, 13 maggio 2021 È un po’ stupefacente aver sentito dalla bocca della ministra Cartabia espressioni come i “cosiddetti giustizialisti” e i “cosiddetti garantisti”, nell’incontro con i partiti per la riforma del processo. Stupefacente perché se ci sono due punti costituzionali di non ritorno, sono proprio quelli che attengono alle garanzie, l’articolo 27 sui diritti dell’imputato e il 111 sul diritto al giusto processo. Essere garantisti è prima di tutto un dovere, come fissato nel famoso “lodo Cartabia” dell’ordine del giorno votato all’unanimità dal Parlamento, su iniziativa del ministro guardasigilli, alla fine di febbraio. Questa premessa può essere un po’ noiosa, ma è indispensabile per capire se il famoso punto d’incontro tra le diverse forze politiche che compongono la maggioranza di sostegno al governo Draghi e che dovrà correre a perdifiato per approvare le indispensabili riforme del processo civile e penale entro il 31 dicembre, sarà inscritto in una cornice di rigore costituzionale o se sarà il solito pasticcio. Per pasticcio si intende per esempio usare la vecchia abitudine del Pd (e di tutti i suoi antenati, dal Pci al Pds ai Ds) di annacquare il rigore dei principi con i “salvo che” che ne vanificano il senso. Un po’ come il famoso “a meno che” dell’articolo 4 della Legge Zan sulla libertà d’opinione. Per pasticcio si intende anche qualunque cedimento al passato che vogliamo sperare superato della legge “spazza-corrotti” e all’abolizione della prescrizione del ministro Bonafede. Qualche bagliore di semaforo verde in realtà si vede, dalla prima bozza presentata dal presidente emerito della Corte Costituzionale Lattanzi, che la ministra ha voluto alla guida di una commissione speciale di giuristi che sta affiancando il governo nella stesura di una serie di emendamenti, che verranno presentati in commissione giustizia alla Camera, dove si sta discutendo da tempo una proposta di riforma del processo dell’ex ministro Bonafede. Pur non fidandoci dello strillo di Travaglio (“La svolta Cartabia è quella di Berlusconi”) e del manifesto (“Cartabia stravolge Bonafede”), qualche lampo di semaforo verde lo vediamo. Quello più politico, prima di tutto, e che rispecchia un’antica proposta delle Camere penali, e anche di Forza Italia, e che riguarda la necessità che sia il Parlamento a dare ogni anno l’indirizzo delle priorità d’indagine agli uffici requirenti. Non sarebbe una riforma da poco, perché si avvicinerebbe molto a mettere in discussione l’obbligatorietà dell’azione penale. È sotto gli occhi di tutti, e anche della parte più lungimirante della magistratura, che l’ipocrisia dell’obbligatorietà non potrà durare ancora a lungo, visto che si è ormai trasformata, visto il numero enorme di notizie di reato, nel totale arbitrio delle procure. Un indirizzo generale va dato, anche perché ogni periodo storico può essere diverso da un altro. Così ci sono momenti in cui sia urgente concentrare tutte le forze nella repressione del narcotraffico, così come in altri possa essere utile indagare in via prioritaria su delitti contro la persona, come gli stupri o i femminicidi. Naturalmente a questi provvedimenti dovrebbero accompagnarsene altri come un ampio piano di depenalizzazione, e poi il potenziamento dell’istituto della tenuità del fatto, l’archiviazione condizionata alle condotte di riparazione del danno, l’ampliamento della messa alla prova. Sfrondare, insomma. E magari anche tornare davvero alla notizia di reato, quella che dà il la all’inizio delle indagini, e accantonare il ricorso al “tipo d’autore”, quel meccanismo perverso e spesso frutto di scelte politiche, per cui prima si individua la persona da colpire e poi si cercano gli eventuali reati commessi. O non commessi, possiamo dire, visto il numero elevato di “errori” giudiziari scoperti ogni anno. Ecco perché è indispensabile dare spazio alle priorità politiche, di cui comunque il Parlamento dovrà rispondere davanti all’elettorato. Ma sarà indispensabile anche un ritorno allo spirito accusatorio della riforma del processo penale del 1989, che prevedeva un ampio ricorso ai riti alternativi al processo. Due sono i punti da riformare, e il lampo verde non potrà limitarsi a uno solo. Il patteggiamento o il ricorso al processo abbreviato dovranno essere resi appetibili per l’imputato, la scelta deve essere conveniente. Bene dunque portare lo sconto di pena da un terzo alla metà. Ma sarebbe opportuno anche portare da cinque anni a dieci il limite di pena prevista per l’applicazione per esempio del patteggiamento. La carne al fuoco è parecchia, e stiamo parlando solo del processo penale. Il cui vero punto critico, e spesso politico, è quello dell’inizio. Non c’è riforma del processo se non vengono fissati termini perentori alla durata delle indagini preliminari. Termini oltre i quali il pm non sarebbe sanzionato, come voleva la mentalità punitiva di Bonafede, sul piano disciplinare, ma semplicemente con la sparizione del fascicolo. Non hai trovato indizi sufficienti in tempo utile? L’inchiesta non c’è più, anche perché forse il reato non è mai esistito. Quanti pm tra i più famosi resterebbero disoccupati… Siamo così arrivati ai due punti più spinosi, le impugnazioni e la prescrizione. La commissione Lattanzi ha imprevedibilmente ripescato la riforma di Gaetano Pecorella, quella che vietava al pm il ricorso in appello contro le assoluzioni e l’ha raddoppiata, introducendo il divieto anche per le sentenze di primo grado finite con la condanna. C’è però da superare un ostacolo non da poco, perché nel 2006 era stata la Corte Costituzionale a bocciare quella legge, in quanto usava trattamenti dispari tra accusa e difesa. La commissione pensa quindi di introdurre limitazioni al diritto di impugnazione da parte dell’imputato, il che porterebbe la nuova norma totalmente al di fuori di quella cornice costituzionale dei diritti della difesa e creerebbe quel famoso pasticcio dei “salvo che”. E questo renderebbe questa norma assolutamente inaccettabile per le Camere penali, ma anche per una parte delle forze politiche. Il problema della prescrizione, infine, che prevede due ipotesi ancora aperte, che non cancellano del tutto la legge Bonafede. La prima ipotesi prevede di sospenderne il corso per due anni dopo la sentenza di primo grado e poi ancora di un anno per l’appello e la Cassazione. Se i termini non vengono rispettati la prescrizione riprende dall’inizio. La seconda ipotesi incide direttamente sui tempi del processo e prevede l’improcedibilità se si sforano i 4 anni del primo grado, i 3 dell’appello e i 2 della cassazione. Impossibile per ora poter dare un vero semaforo verde a tutte le questioni tecnico-giuridiche, che sono prima di tutto politiche. Il primo problema, quello vero è: a quali mani il Parlamento affiderà tutto ciò? Prima di tutto ai pubblici ministeri, cioè la casta di coloro che oggi sono nello stesso tempo i più potenti e i meno credibili. E siamo obbligati a dire, perché è vero, che ce ne sono sicuramente moltissimi che sono per bene e che si comportano da tecnici del diritto e non da politicanti da quattro soldi con la toga. Perché è così che appaiono ormai alla maggioranza dei cittadini. E poi verrà consegnato questo tesoretto di riforme nelle mani dei giudici. Che sono spesso (sempre ricordando che molti sono quelli indipendenti) i complici dei pm, che fanno il copia-incolla delle carte dell’accusa, che spesso a sua volta ha scopiazzato la relazione della polizia giudiziaria. E che poteri avranno i rappresentanti dei cittadini per accertarsi che ci sia un organo superiore e indipendente che terrà d’occhio tutti questi comportamenti, cioè il Consiglio superiore della magistratura? Nessuno, perché il Csm è quel girone d’inferno che ormai tutti hanno imparato a conoscere negli ultimi due anni, dopo le denunce di Luca Palamara. Quindi? Quindi auguri alla ministra Cartabia e alla sua riforma, perché si ricordi che il suo ruolo è politico, prima che tecnico-giuridico. E non si può far finta che non sia così. Processo penale telematico, le risposte del Ministero al question time non cancellano i dubbi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2021 De Angelis (Aiga): bene doppio binario per deposito atti ma le disfunzioni persistono, servono investimenti nell’infrastruttura. Il “doppio binario” che da aprile scorso consente il deposito analogico in caso di malfunzionamento del Portale telematico insieme all’impegno a migliorare l’infrastruttura, sono le risposte che il Sottosegretario alla Giustizia Anna Macina ha fornito ieri ad una serie di interrogazioni parlamentari alla Camera con cui si poneva il problema delle disfunzioni del processo penale da remoto. In sede di replica non sono mancate le perplessità su di un sistema che si è dimostrato farraginoso, in alcuni casi oscuro e non omogeneo senza però mettere in discussione il processo di digitalizzazione in sè. Il Sottosegretario ha riscostruito l’intero impianto normativo che ha previsto il deposito da remoto durante la pandemia, ricordando poi che l’articolo 6 del Dl 1° aprile 2021, n. 44, apporta all’articolo 24 del Dl 28 ottobre 2020, n. 137, alcune modificazioni con le quali si specifica che: “(…) il deposito è tempestivo quando è eseguito entro le ore 24 del giorno di scadenza (…)”; e che: “(…) il malfunzionamento del portale del processo penale telematico è attestato dal direttore generale per i servizi informativi automatizzati, è segnalato sul portale dei servizi telematici del Ministero della Giustizia e costituisce causa di forza maggiore (ai sensi dell’articolo 175 del cpp, 2-ter)”. E che “nei casi previsti dal comma 2-bis, fino alla riattivazione dei sistemi, l’autorità giudiziaria procedente può autorizzare il deposito di singoli atti e documenti in formato analogico. L’autorità giudiziaria può autorizzare altresì il deposito di singoli atti e documenti in formato analogico per ragioni specifiche ed eccezionali”. In un altro passaggio Macina afferma che; “Dal punto di vista più strettamente tecnico sono in corso implementazioni del sistema al fine di assicurare l’ulteriore miglioramento dei servizi del portale”. E fra questi cita l’interrogazione dei servizi “Seleziona Magistrato” e “Generalità indagato/imputato”, che non consentivano di visualizzare il relativo menu a tendina; dalla maschera “Procedimenti autorizzati” presente sul portale, lato difensore, è possibile interrogare il registro ReGeWeb per richiedere l’aggiornamento dell’elenco dei procedimenti nei quali il richiedente risulta essere stato inserito come difensore; il limite dei 30 megabyte, identico a quello normativo previsto per le PEC, relativo agli allegati al deposito indicato nelle specifiche tecniche sarà superato unitamente alla possibilità di depositare anche file multimediali (rilascio nel mese di settembre 2021). Con riferimento poi alle criticità sollevate relative al cosiddetto atto abilitante (di cui alle specifiche tecniche pubblicate sul PST il 24 febbraio 2021), per il Sottosegretario “appare opportuno, altresì, evidenziare che il deposito della memoria nella fase delle indagini preliminari non può seguire il processo del deposito analogico”. “Alla luce di quanto sinora esposto- conclude Macina -, risulta evidente e indiscutibile l’assiduo impegno profuso da questo Dicastero per la celere e definitiva risoluzione delle problematiche tecniche, tramite l’eliminazione dei difetti di funzionamento registrati, e normative derivanti dall’utilizzo del portale del processo penale telematico”. Le reazioni - “Bene la previsione del cosiddetto “doppio binario” per il deposito degli atti in caso di malfunzionamento e le implementazioni del sistema”, commenta il Presidente Aiga, Antonio De Angelis. “Devo tuttavia constatare - prosegue - che il malfunzionamento del portale permane rendendo a tutt’oggi ancora difficoltoso lo svolgimento dell’attività professionale, anziché semplificarlo. Rinnoviamo quindi l’invito al Ministero di implementare il PST giustizia, anche attraverso l’individuazione di appositi fondi del Next Generation finalizzati per il suo potenzialmente, così da renderlo più funzionale e, soprattutto funzionante, certi che il Processo Penale Telematico possa essere uno degli strumenti utili per migliorare il sistema giustizia riducendo al contempo i costi anche per il cittadino”. Per Jacopo Morrone (Lega) però non tutto è chiaro. “Non è dato sapere - afferma in replica - come si debba provare il malfunzionamento del sistema né per tutti gli avvocati è così semplice provarlo, perché non avvezzi alla tecnologia. Anche in questo caso, ciò che si rischia è sempre la lesione del diritto di difesa ossia la non ammissibilità del deposito dell’atto. In sostanza, ad oggi il portale non ha tempi immediati, certi e compatibili con quelli che sono i termini processuali penali, che sono “brevi”. Mentre Maschio (FdI) sottolinea: “In Italia, oggi, esistono 7 diversi tipi di processo telematico -a seconda che sia penale, amministrativo, tributario, civile, eccetera - questa è la dimostrazione lampante di come esista un “ufficio complicazione affari semplici”. “Occorre quindi velocizzare il processo di semplificazione e uniformazione del processo telematico. Nel frattempo, finché lo Stato non è in grado di fare questo, deve consentire l’utilizzo semplicemente delle modalità tradizionali, parallelamente a quelle telematiche”. Per Devis Dori (M5S): “Va dato atto e merito al Ministero, della possibilità del doppio binario che è certamente un primo passo importante. Dobbiamo però, ora, avere il coraggio di proseguire in questo percorso verso un’ampia digitalizzazione del sistema giustizia, anche grazie ai fondi messi a disposizione dal Piano nazionale di ripresa e resilienza”. Mentre Manuela Gragliardi (Misto) pone l’accento su una sorte di “federalismo processuale e giudiziario. Credo - ha proseguito - che nonostante gli aggiustamenti che si sono tentati di fare con il decreto n. 44 del 2021, questa situazione sia ancora, veramente, un po’ al limite dell’imbarazzo, soprattutto, per il fatto che ci sia disparità di trattamento tra un tribunale e un altro, perché ci sono tribunali che consentono l’invio delle nomine o degli atti via PEC, cosa che invece sarebbe assolutamente vietata dalla norma. Quindi, questo sistema va sicuramente rivisto”. Giustizia, Covelli: “Nella magistratura serve un recupero di consapevolezza” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2021 Intervista alla nuova responsabile dell’Ispettorato voluta dalla ministra Cartabia: “Accelerare i processi: gli ispettori nei tribunali per portare l’eccellenza”.?E sulla nuova bufera Csm - Procure: “Dal ministero massima attenzione”. A poche ore dal suo collocamento fuori ruolo approvato dal Csm, la nuova responsabile dell’Ispettorato del ministero della Giustizia, Maria Rosaria Covelli, ex presidente del Tribunale di Viterbo, che si è distinta per le sue performance, fortemente voluta dalla ministra Marta Cartabia, fa il punto con Il Sole 24 Ore sugli obiettivi della sua gestione. L’Ispettorato è tradizionalmente interpretato come uno strumento del ministero per intervenire sulle situazioni più critiche negli uffici giudiziari, per verificare la realtà dei fatti e individuare eventuali responsabilità dei magistrati coinvolti. Una funzione se non punitiva, certo di possibile preludio all’esercizio dell’azione disciplinare. In realtà la ministra Cartabia, come puntualizzato anche in Parlamento, intende privilegiare anche un’altra funzione, quella di individuazione e rafforzamento delle buone prassi. In apertura non si può evitare di chiederle: come intende muoversi il ministero alla luce di quanto sta emergendo nella vicenda che è tornata a interessare il Csm e che coinvolge uno dei principali uffici giudiziari del Paese, la Procura di Milano? Vorrei dare dei dati e chiarire dei profili. Come sa, il ministero della Giustizia svolge la funzione ispettiva in parallelo con la Procura generale della Cassazione. Questo non significa che su una vicenda debbano sempre muoversi entrambi insieme, soprattutto quando c’è dialogo tra Istituzioni. Sui fatti degli ultimi giorni, ci sono già più inchieste aperte dalle procure, si è mosso il Pg. Il ministero, per ora, continua a seguire con attenzione gli sviluppi, per verificare se in futuro sia necessario un intervento. Quanto ai dati: negli ultimi tre anni sono state 220 le azioni disciplinari promosse dal ministro della Giustizia (58 nel 2018; 80 nel 2019; 82 nel 2020), a fronte di 10.751 magistrati (a cui si aggiungono quelle della Procura generale di Cassazione ndr). Senza entrare nel merito, queste ultime giornate hanno riproposto il tema della credibilità dei magistrati... Sembra necessario recuperare un modello di magistrato che abbia piena consapevolezza della natura e dei limiti della funzione e dei poteri connessi. E abbia nello stesso tempo cura dell’immagine della categoria. Come sa, è stata avviata una forte fase riformatrice non solo sul processo civile e penale ma anche su ordinamento giudiziario e Csm. Va inoltre ricordata l’importanza della formazione dei profili dirigenziali e in questo la Scuola superiore della magistratura ha un ruolo di primo piano nel dare più spazio a una cultura dell’organizzazione. Torniamo alla funzione propositiva dell’Ispettorato... L’Ispettorato deve continuare a essere il garante della legalità delle condotte nell’amministrazione della giustizia. Ma avendo il compito di verificare il regolare funzionamento degli uffici giudiziari può diventare una leva importante sull’organizzazione al fine di coadiuvare realtà che presentino criticità. Il buon funzionamento della giurisdizione passa sempre più da un recupero di valori di efficienza, sui quali l’attenzione della Ministra è forte. Una buona organizzazione è strumentale alla tutela effettiva dei diritti, alla tempestiva repressione e prevenzione di reati. Crede che le criticità siano concentrate in alcune aree del Paese, in determinati contesti socioeconomici? E, se sì, quali sono le iniziative per farvi fronte? Le cronache non di rado riportano criticità in alcuni uffici del Mezzogiorno: è in corso di costituzione una Commissione insieme al ministero per il Sud per approfondire i problemi di funzionamento. A fronte di ciò, il mio mandato è sviluppare il supporto all’organizzazione degli uffici e porre maggiore attenzione alle best practices, per incentivarle e veicolarle, tenendo conto del contesto. Verrà implementato l’Ufficio studi per la realizzazione di un canale di trasmissione informativo ministero-uffici e rinnovato il sito web dell’Ispettorato. La comunicazione centro-territorio è cruciale. Le prassi dovranno misurarsi con i risultati sotto i profili di durata dei giudizi e scarsa prevedibilità delle decisioni. Su quest’ultimo aspetto, spesso trascurato, come possono aiutare accordi a livello locale? Penso all’esistenza nei tribunali di archivi informatici con i provvedimenti dei giudici o a convenzioni stipulate con le università per la realizzazione di rassegne di giurisprudenza e banche dati. Gli strumenti deflattivi messi in campo per evitare la crescita del contenzioso civile non hanno funzionato granché. Una maggiore conoscenza da parte dei diretti interessati delle probabili conclusioni della propria vicenda è di grande utilità e previene il contenzioso. In quali settori e con quali soggetti vede un terreno fertile per le buone prassi? Innanzitutto, l’ufficio del Processo. Poi, sulle convenzioni gli interlocutori degli accordi sono diversi a seconda delle materie, dall’avvocatura agli altri ordini, gli enti locali, le università, le camere di commercio, le case circondariali. In materia di diritto di famiglia, sulla gestione delle udienze; poi in materia di procedure concorsuali, per agevolare i compiti dei curatori, per le procedure esecutive, i protocolli sulla liquidazione dei compensi o concernenti la tenuta delle udienze telematiche o gli scambi di informazioni tra uffici diversi. Può fare qualche esempio di buona prassi che considera esemplare? Ce ne sono tanti, anche se non fanno rumore. Ho presente molte esperienze ma ho intenzione di avviare una mappa della “Giustizia che funziona” da aggiornare con la banca dati del Csm. Prima di avere un quadro completo, posso citare le convenzioni, finalizzate ai bilanci di responsabilità sociale degli uffici giudiziari, uno dei primi credo sia stato il Tribunale di Milano. Importante, sul piano della cooperazione sul territorio, anche l’apertura di sportelli informativi per l’utenza o di ascolto per le vittime dei reati, convenzioni stipulate da tribunali e procure con enti locali, ceto forense, Asl, forze dell’ordine, ordine degli psicologi. Una giustizia che dialoghi con tutti gli attori non solo funziona meglio ma diventa altresì motore economico. Poi c’è il tema delicato del carcere e delle sue alternative... Qui sono centrali le intese sul lavoro di pubblica utilità e sulla formazione dei detenuti, ai fini di un percorso di reinserimento e prevenzione di recidive. E cruciali sono le università. Convenzioni stipulate da tribunali e procure con case circondariali, avvocatura, università, soggetti privati hanno avuto a oggetto l’ammissione di detenuti al lavoro esterno, con ottimi risultati. Caos Csm, tra Davigo e Morra volano gli stracci di Simona Musco Il Dubbio, 13 maggio 2021 L’ex pm smentisce di aver mostrato i verbali al presidente della Commissione antimafia. Che però conferma la sua versione. Se non è uno psicodramma poco ci manca. Perché l’ultima puntata del terremoto interno alle toghe si è arricchito di una nuova frattura, quella tra Nicola Morra e Piercamillo Davigo, presidente della Commissione parlamentare antimafia il primo, ex consigliere del Csm il secondo. Lo strappo si è consumato a distanza, ancora una volta all’interno di uno studio televisivo. Intervistato da Giovanni Floris, a Di Martedì, l’ex pm ha smentito le dichiarazioni rilasciate da Morra solo poche ore prima, dallo studio di Massimo Giletti: “Non gli ho mostrato nessun verbale”, ha tuonato Davigo, avvisando l’ex premier Matteo Renzi che presto lo avrebbe querelato per quella battuta sul suo supposto giustizialismo ad intermittenza. La colpa di Renzi sta tutta in una frase: “Non sono Davigo, giustizialista con gli avversari e divulgatore di notizie con i parlamentari amici”, ha detto il leader di Italia Viva. E la querela è servita, perché Davigo nega di aver mai mostrato a Morra i verbali dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, quelli contenenti le dichiarazioni sulla presunta loggia “Ungheria” e sulla presenza, tra i tanti nomi, di quello di Sebastiano Ardita, anche lui consigliere del Csm e punto di riferimento, assieme a Davigo, della politica giudiziaria di Morra. Il senatore, ieri, non ha mancato di replicare, ribadendo quanto già affermato non solo in tv, ma anche ai pm di Roma: “Ho ascoltato e riletto attentamente quanto ha affermato il dottor Davigo - ha riferito all’Adnkronos -, ma non ho altro da aggiungere se non ribadire che confermo quanto riferito all’autorità giudiziaria”. La smentita dell’ex consigliere del Csm è stata secca, senza ammissione di repliche, dura. “Il senatore Morra, presidente della commissione Antimafia, è venuto da me e voleva in quel momento parlare con Ardita, con il quale avevo interrotto i rapporti perché in passato si erano verificati alcuni fatti che avevano fatto venire meno il rapporto fiduciario - ha spiegato Davigo -. Morra voleva che parlassimo insieme con Ardita, siccome insisteva, l’ho preso in disparte e gli ho chiesto di uscire dalla mia stanza. Non gli ho fatto vedere alcun verbale per la semplice ragione che il senatore Morra dice che non gli ho detto di che Procura si trattava. Ora si dà il caso che sui verbali c’è scritto su ogni foglio qual è la Procura”. Quei verbali, com’è noto, sono al centro della guerra interna alla Procura di Milano: è stato il pm Paolo Storari (ora indagato a Brescia per rivelazione del segreto d’ufficio) a consegnarli a Davigo, lamentando un’inerzia nelle attività d’indagine attribuita al suo capo, il procuratore Francesco Greco, che avrebbe ritardato l’iscrizione degli indagati sull’apposito registro, per non danneggiare, secondo le ipotesi, il processo Eni-Nigeria, chiusosi a marzo con assoluzioni. Così, anziché seguire le vie ufficiali previste - la lamentela sarebbe dovuta arrivare alla procura generale di Milano e al comitato di presidenza del Csm -, tutto è avvenuto all’ombra, con l’intento, ha spiegato Davigo, di proteggere le indagini. Ma ora è proprio l’ex pm di Mani Pulite ad essere finito nel mirino, con l’accusa di aver divulgato informazioni segrete, comunicando il contenuto di quei verbali a Morra. Accusa che Davigo ha respinto con forza, smentendo, in questo caso, il suo amico Morra. “Gli ho spiegato che oltre alle altre ragioni per cui non volevo parlare con Ardita c’è anche una questione che potrebbe riguardare una associazione segreta. E gli ho ricordato che nella sua qualità di pubblico ufficiale, come presidente dell’Antimafia, era tenuto al segreto. Non l’ho detto al bar, l’ho detto al presidente della commissione Antimafia - ha spiegato -. Ho fatto di tutto per mantenere segreti questi verbali. È folle pensare che possa c’entrare con la loro divulgazione. Non ho divulgato un bel niente. Sono rimasto basito per i fatti che sono accaduti: se è stata la mia segreteria, non me ne capacito. Mi sembrava di assoluta affidabilità, era una funzionaria del Csm ed ha sempre avuto da tutti parole di elogio”. Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo, è infatti accusata dalla procura di Roma di calunnia per aver spedito quei verbali a Repubblica e Fatto quotidiano, nonché al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ha poi svelato tutto nel corso del plenum, denunciando un’attività di dossieraggio ai danni di Ardita. Tornando alle lamentele di Storari, “l’iscrizione della notizia di reato deve avvenire immediatamente dice il Codice, non è che il pubblico ministero può decidere di non procedere. Se decide di non procedere deve chiedere l’archiviazione al giudice - ha evidenziato Davigo -. Storari mi disse che era seriamente preoccupato perché da mesi sono state raccolte dichiarazioni gravi, gravissime se false, e che non era stata ancora iscritta la notizia di reato. Innanzitutto mi chiese un consiglio. Io gli consigliai di mettersi al riparo dai guai che sarebbero finiti sulla sua testa, mettendo per iscritto al procuratore quello che finora aveva detto verbalmente, cioè che bisogna iscrivere. Cosa che lui mi ha assicurato di aver fatto con diverse mail. Non si poteva seguire la via ordinaria perché non poteva mandarla al procuratore, visto che era la persona con cui aveva il dissenso, il procuratore generale non c’era, la sede era vacante, e nella mia esperienza è difficile che il reggente prenda decisioni che creino situazioni irreversibili. Nell’ipotesi migliore avrebbe detto “aspettiamo che arrivi il nuovo procuratore generale”. Lui - ha aggiunto Davigo - aveva già detto molte volte che bisognava iscrivere e l’iscrizione non avveniva. All’inizio di maggio vado a Roma, chiedo a Storari se l’iscrizione era avvenuta e lui mi dice di no. Allora chiamo il vicepresidente del Csm e lo prego, appena arriverà a Roma, di contattarmi perché gli devo parlare di una cosa urgente e importante”. Secondo quanto riferito dall’ex pm, il vicepresidente del Csm David Ermini avrebbe ricevuto i verbali, circostanza che il numero due di Palazzo dei Marescialli ha finora sempre smentito, ribadendo che l’unica via da seguire era quella ufficiale. E avrebbe informato anche il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi - che a maggio 2020 ha contattato Greco, ottenendo, poco dopo, l’apertura del fascicolo con l’iscrizione di tre persone sul registro degli indagati - e il primo presidente Pietro Curzio. Sulla credibilità di Amara, invece, Davigo è chiaro: “Sarà anche stato screditato ma fino a quel momento, e anche dopo, la Procura di Milano lo ha ritenuto attendibile sia in una relazione che ha fatto sia indicandolo come teste in un importante processo”. Secondo Davigo, sarebbe stato impossibile seguire le vie formali. “L’importante era informare il Consiglio - ha concluso. Non era possibile attivare una pratica immediatamente per una ragione semplicissima, perché nelle dichiarazioni erano indicati come appartenenti a questa associazione segreta due componenti del Consiglio. Si sarebbero dovute convocare commissioni e consigli escludendo queste persone per la necessità di mantenere il segreto. Tanto che nessuno dei componenti del comitato di presidenza, compreso il procuratore generale (Salvi ndr) si è sognato di dirmi di formalizzare”. Intanto a Roma, la difesa di Contrafatto ha dubbi sulla contestabilità del reato di calunnia. “La calunnia - spiega Alessia Angelini, avvocato della dipendente del Csm - ha come elemento costitutivo quello di incolpare di un reato qualcuno che si sa innocente. L’altro punto è che non sono stati messi a disposizione della difesa gli atti d’indagine o, quantomeno, i famosi verbali, che sono in mano a tutti i giornali, ma non nelle nostre. Secondo noi c’è una gravissima lesione del diritto di difesa. Mi sembra oggettivamente certo un elemento: la questione del presunto ritardo dei vertici della Procura di Milano è un punto controverso, perché Storari e Davigo sostengono che per 13 mesi non ci sia stata alcuna indagine su questa loggia e il procuratore Greco che sostiene il contrario”. Contrafatto è accusata di calunnia nei confronti di Greco perché nel dattiloscritto allegato ai verbali sarebbe contenuta l’accusa al procuratore di aver tenuto tutto chiuso in un cassetto. Contrafatto, nel corso del primo interrogatorio, si è avvalsa della facoltà di non rispondere, ma si è detta disponibile a partecipare a tutti gli accertamenti. E forse saranno proprio le sue parole a fare un po’ di chiarezza su una vicenda intricatissima. Prepotenza e nemesi: l’autodistruzione del partito dei giudici di Dimitri Buffa L’Opinione, 13 maggio 2021 La “Hybris” chiama sempre la “nemesys”. O, se si preferisce, dopo l’era della prepotenza istituzionale, per il partito dei giudici - e speriamo non per tutta la magistratura - sta arrivando, sulle ali del vento, la stagione dell’autodistruzione. Dalle stelle alle stalle nell’immaginario - anche falsato dai media - della pubblica opinione. Chi lo avrebbe detto anche solo un paio di anni orsono. E invece… “daje e daje”, come dicevano gli antichi, “se maturano pure le canaje”. È di qualche giorno fa una quasi condivisibile idea dell’ex presidente del Senato, Marcello Pera, cioè quella di cambiare la Costituzione per assoggettare l’ufficio del pubblico ministero all’esecutivo e al controllo parlamentare. Che non è una bestemmia, visto che pare che in Europa sia quasi la regola e, inoltre, in questo momento appare oggettivamente come il male minore. Nonché l’esplicitazione del cattivo karma del cosiddetto partito dei giudici. Naturalmente questa riforma costituzionale andrebbe accompagnata con quella dell’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Che in Italia - pochi lo sanno e molti fingono di non saperlo - fu introdotta per la prima volta dal codice Rocco e quindi dal Fascismo. Dovrebbe essere invece il Parlamento (e non l’arbitrio dei singoli o il caso) anno per anno - come è in tanti Paesi - a indicare le priorità, su proposta dell’esecutivo pro tempore. Non è una bestemmia. È una realtà in molti Paesi e rischia di diventare una necessità impellente qui da noi. Giovedì scorso chi voleva ha potuto assistere a uno spettacolo tanto disdicevole quanto da fantapolitica: i maggiori protagonisti e alcune comparse di questo ultimo scandalo - che solo l’ipocrisia non lo fa chiamare con il nome di un noto ex magistrato - si prendevano quasi a male parole l’un l’altro nella trasmissione di Corrado Formigli su La7. Con il conduttore più imbarazzato che interessato a farli continuare a mostrarsi alla gente per quel che sono: uomini come tutti gli altri, con debolezze e miserie e poca ma poca nobiltà. Di questo passo l’autodistruzione della patina di stima che sinora li ha protetti dallo sdegno da parte dei cittadini comuni inizierà a manifestarsi urbi et orbi. Anche perché l’autostima quasi narcisistica che nei decenni scorsi è stata usata come scudo contro le critiche si è ormai dileguata da tempo. È evaporata nel tragicomico se non nel ridicolo. Nessuno sta a sentire nessuno. Il Csm (Consiglio superiore della magistratura) oramai prende schiaffi dal Tar del Lazio e da tutti le sezioni del Consiglio di Stato sulle nomine e sulle promozioni o anche sulle punizioni. Gli alti discorsi retorici che si sentono a Radio Radicale nei direttivi dell’Anm (Associazione nazionale magistrati) danno semplicemente la nausea e persino l’attuale capo dello Stato non sa più come venire a capo della situazione. Oltre a prendere in considerazione la riforma costituzionale proposta da Pera, un’altra possibilità di rimettere le cose a posto potrebbe venire dai referendum dei Radicali: da qualche giorno anche la Lega di Matteo Salvini sta dando una mano per la raccolta delle firme. Non sarà facile, perché in Italia contro i referendum si attiva subito la parte peggiore della politica - e in questo caso della magistratura - quantomeno per boicottarne l’esito, che spesso è favorevole. Come fu già per il quesito promosso sull’onda emotiva del caso Tortora. Forse sarà allora l’Europa a imporre a questi signori - pochi a cospetto di quelli che fanno il proprio dovere senza credersi influencer tipo Fedez - di rientrare nei ranghi. Di certo in Italia quello del partito dei giudici è diventato negli anni il più grave pericolo per la democrazia. Non hanno fatto un golpe strisciante, ma poco ci manca: tutti siamo in balia di questa prepotenza e di questa hybris. E se non ci saranno le riforme dovremo solo sperare nella dea “nemesys”. “La gogna ha quasi ucciso Giovanna: non sia più la regola in questo Paese” di Simona Musco Il Dubbio, 13 maggio 2021 Intervista alla senatrice Paola Binetti, che ha annunciato un’interrogazione parlamentare sul caso di Giovanna Boda, la dirigente del Miur che ha tentato il suicidio dopo aver saputo di essere indagata. Un’interrogazione parlamentare affinché il corto circuito mediatico-giudiziario che ha portato Giovanna Boda a tentare il suicidio non si verifichi più. Ad annunciare al Dubbio l’iniziativa è la senatrice di Forza Italia Paola Binetti, intenzionata a far sì che quanto accaduto all’ex dirigente del Miur non accada più. La storia è nota: Boda, ad aprile, si è gettata dal secondo piano di un palazzo a due passi dal centro di Roma, a poche ore dalla perquisizione disposta dalla procura di Roma per un presunto giro di corruzione che la vedrebbe protagonista assieme ad una sua collaboratrice e all’editore dell’agenzia di stampa Dire. Uno shock immenso, il suo, sbattuta sui giornali come l’ennesima furbetta da mortificare pubblicamente in modo esemplare. E ciò nonostante le accuse a suo carico siano ancora tutte da verificare. Un’indagine appena partita che ha già provocato una marea di conseguenze gravissime. “L’unica cosa che vorrei è capire come restituire giustizia ad una persona coinvolta in una vicenda che, a mio avviso, ha dei contorni drammatici”, spiega Binetti, che oltre ad essere una politica è anche neuropsichiatra. Ed ora vuole evitare che la gogna rimanga la regola nel nostro Paese. Senatrice, perché le interessa tanto il caso di Giovanna Boda? Perché non c’è solo l’accusa che è stata perpetrata nei suoi confronti, ma anche quel tentativo di suicidio. C’è stata, evidentemente, una sofferenza di cui probabilmente porterà le tracce a lungo su di sé. Il mio unico desiderio è capire come poter essere utile alla verità delle cose, alla giustizia dei fatti e ristabilire, in qualche modo, un ordine in eventi che si sono creati prima ancora di essere interpretati correttamente. Fatti sbattuti subito in prima pagina. È un desiderio di chi ha conosciuto Giovanna Boda, in tanti momenti, in tante situazioni e ne ha apprezzato l’intelligenza. Che persona è? La prima volta che l’ho vista è stato durante il secondo governo Prodi: lei ha organizzato una delle prime navi della legalità, portando a Palermo tanti studenti, nel luogo stesso in cui, per l’immaginario collettivo, c’è stata la maggiore offesa e trasgressione alla legalità. Tutte le volte che sono entrata in contatto con lei ho sempre trovato una persona disponibile, generosa, capace di farsi in quattro e allo stesso tempo coraggiosa. Una persona di quelle che siamo contenti di avere nella pubblica amministrazione, perché non si muoveva a rallentatore in quelle che sono le ganasce di una burocratizzazione un po’ inerte. Non era una di quelle che diceva “non si può fare”, come spesso accade quando ci si avvicina ad un problema un po’ più complesso. Mi ha colpita molto e mi rallegro che sia uscita da qualunque tipo di rischio, anche se non escludo affatto che porterà a lungo le conseguenze di quel gesto. Le fratture ci sono, ma non sono solo fisiche: sono anche nell’anima. Davanti ad un’incomprensione che l’ha spinta a questo bisogno di fuga vuol dire che quelle ferite sono state profonde, non una minaccia epidermica. Come ha saputo di questa vicenda? Dai giornali. Avevo visto Giovanna un mese prima circa, non avrei pensato mai una cosa del genere. È stato esplosivo. Cosa ha pensato? L’idea di aver associato immediatamente l’accusa di corruzione con quella risposta, il tentativo di suicidio, ti fa rendere conto di quanto deve essere stata forte questa aggressione. Di quanto deve essere stata devastante questa accusa per lei. Di gente accusata di reati contro la pubblica amministrazione ce n’è tanta in giro, ma se si percepisce la cosa in maniera così infamante da mettere a repentaglio la propria vita, vuol dire che l’umiliazione subita, la ferita subita, è così profonda da non aver trovato vie di scampo, vie di fuga. Non c’è nessuno che le abbia detto che le cose si sarebbero potute chiarire. È come se le avessero sparato addosso una tale carica di rischio che in quel momento ha preferito fuggire. Non c’è nessuna accusa che possa permettere di capire perché una persona arrivi a mettere a repentaglio la propria vita, se non una percezione di sé così limpida, così onesta che anche un solo rischio di compromettere la propria immagine fa sembrare la vita non più degna di essere vissuta. Mi sono chiesta: quanto è giusta una giustizia che spinge una persona a fare questo? In questo caso è il cortocircuito mediatico che gioca anche un ruolo importante: il suo nome è finito sui giornali e non sono mancate ricostruzioni e parallelismi con casi clamorosi, come la vicenda Palamara... Esattamente. La notizia dell’accusa è stata data contestualmente al tentativo di suicidio: è come se non le avessero lasciato alcuna speranza. Quali iniziative ha intenzione di intraprendere? Ho intenzione, nel suo interesse, di fare un’interrogazione parlamentare. Cosa chiederà? Chiederò tre cose. Che ci sia una maggiore discrezione, quindi evitare fughe di notizie da parte dei magistrati, perché qualcuno l’avrà detta questa cosa alla stampa. Chi permette che ciò accada? La prima riserva è dunque precauzionale. La seconda è chiedere che la stampa rispetti maggiormente il proprio codice etico. Se noi non abbiamo tutti gli elementi non possiamo permettere che si faccia carne da macello con la buona fama di una persona. La stampa è partita con un tempismo pazzesco, in tempo reale. Vuol dire che qualcuno ha detto e qualcuno ha voluto. Ma i diritti valgono solo a senso unico o possono essere manipolati a puro scopo di lucro? La terza questione qual è? Giovanna è stata per molto tempo il direttore generale della Pubblica istruzione, con delega agli studenti. Sono decine di migliaia i ragazzi che l’hanno avvicinata, l’hanno conosciuta e hanno partecipato alle iniziative da lei promosse. Che cosa resterà dentro di loro di tutto ciò? Se, come mi auguro, si dimostrerà la sua piena innocenza, quali saranno per loro le conseguenze della consapevolezza di come una persona può essere massacrata? Io spero con tutto il cuore che nel momento in cui si dimostrerà la sua assoluta innocenza meriti una restituzione, non da dodicesima pagina in basso a sinistra. Quello è il rischio... Spero meriti la restituzione di una dignità piena, perché attraverso di lei si sono colpite anche molte intelligenze giovani, molta passione civile da parte dei ragazzi. E abbiamo alla base questa drammatica vicenda che ogni tanto si crea, l’associazione assai poco sana tra una certa magistratura e una certa stampa, che invece di essere al servizio della verità corre il rischio di essere al servizio dello scoop. Questo ha a che fare anche con la riforma della giustizia e il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza? Esattamente. Noi dobbiamo essere garantisti e sostenere una persona, nel momento in cui c’è un avviso di garanzia. Non possono confondere la comunicazione dell’indagine con la comunicazione della condanna. Bisogna fare capire al cittadino onesto che non bisogna aver timore della giustizia. Ma è evidente che in una situazione del genere il timore di una giustizia ingiusta abbia presidiato gesti come quello di Giovanna che, non dimentichiamolo, ha una bimba di tre anni. Ma poi mi domando: si sta compiendo un’indagine, che bisogno c’è di trasformarla in un processo mediatico? Ci sono due problemi: da un lato il fatto che il garantismo venga percepito in maniera distorta, come se chi lo professa chiedesse l’impunità per feroci criminali, dall’altro c’è anche un problema mediatico. Come si risolve questa situazione? Noi siamo davanti ad un’informazione che è sempre più spregiudicata. Per carità, per me il giornalismo d’inchiesta è fondamentale, ma ribadisco: ci deve essere un codice etico. È assolutamente ingiusto sbattere il mostro in prima pagina, anche se si tratta di personaggi pubblici. Se si vuole stigmatizzare un fatto in modo esemplare prima bisogna avere tutte le garanzie e la certezza che ciò che si sta dicendo è vero. Perché se è falso si contraddice il più profondo dei principi del buon giornalismo. E in questo caso falsificare i fatti, che significa forzarli prima ancora di averli verificati, è confondere l’intuizione con una dimostrazione. Il sospetto si può avere, ma va verificato. Perché tutto questo ha un costo altissimo. Per questo vogliamo la riforma della giustizia. Parma. Detenuto muore per un ictus, i familiari presentano denuncia Quotidiano di Sicilia, 13 maggio 2021 I familiari di Francesco Lo Cascio, 61 anni, di Camporeale (Palermo), morto il primo maggio nel carcere di Parma, hanno presentato una denuncia ai carabinieri, assistiti dall’avvocato Antonio Di Lorenzo. L’autopsia disposta dalla procura ha stabilito che il decesso è dovuto a ictus. Lo Cascio da tempo soffriva di ipertensione, ma per i familiari non è tutto chiaro: “Avevamo presentato diverse richieste di scarcerazione per motivi di salute, sia a Palermo che al Tribunale di sorveglianza di Bologna - dice l’avvocato - Una sola volta a Palermo gli sono stati concessi i domiciliari in una struttura sanitaria, prima di tornare in carcere. Vogliamo sapere se lo Stato abbia garantito, come è giusto che sia, tutti i diritti, a cominciare da quello della tutela della salute”. I familiari vogliono sapere se tra le cause della morta possa esserci il vaccino; cinque giorni prima della morte il detenuto aveva fatto il Moderna. Lo Cascio era in carcere per una condanna a vent’anni per l’omicidio di Giuseppe Billtteri, il cui cadavere non è stato mai trovato. Era stato indagato anche per avere favorito la latitanza al boss di Altofonte, nel Palermitano, Domenico Raccuglia. Milano. “Noi detenuti e l’isolamento da Covid: ecco come abbiamo vinto la rabbia” di Stefano, Giorgio, Davide, Sergio, Francesco, Massimo, Luigi, Azzedine Corriere della Sera, 13 maggio 2021 “Prima arrivò la paura del contagio. E la paura per le nostre famiglie fuori. Poi vennero la rabbia e la frustrazione. Solo dopo, con l’aiuto dell’équipe, siamo riusciti a trasformarle in occasione di riflessione sulla sofferenza”. La testimonianza di un gruppo di detenuti di san Vittore su un anno di Covid vissuto in carcere. La pandemia da Covid-19 ha creato una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti, che i governi mondiali devono affrontare tutelando la salute e i diritti delle persone: soprattutto di quelle appartenenti alle categorie più fragili come bambini, persone anziane, soggetti con disabilita, migranti, senza fissa dimora o persone private della libertà. In Italia tra le disposizioni volte alla protezione delle persone detenute c’è stata quella per cui, nel febbraio 2020, i colloqui con i familiari in presenza sono stati sostituiti da chiamate a distanza. Lo scorso giugno i colloqui in presenza sono ripresi, ma solo per i familiari con un’età compresa tra i 12 e i 65 anni. Bambini e genitori anziani non entrano in carcere per avere colloqui dal febbraio 2020 e se è vero che anche oltre le mura del carcere siamo tutti chiamati a rispettare rigide prescrizioni per il contenimento del virus - tra le quali il distanziamento sociale - vero è pure che questi provvedimenti hanno determinato un ulteriore allontanamento del carcere dalla società, aggravando nel contempo le condizioni di detenzione. Questo scritto nasce dalle riflessioni di alcuni pazienti del reparto “La Nave”: reparto di trattamento avanzato per la cura delle dipendenze patologiche presso la casa circondariale di San Vittore a Milano. Qui è nata l’idea di utilizzare la rabbia e la frustrazione per la mancanza dei colloqui in presenza come occasione per lavorare sulla propria capacità di gestire le emozioni “scomode” - che in passato hanno spesso portato a comportamenti impulsivi - e sulla possibilità di sviluppare nuove competenze, come l’essere in grado di mettersi nei panni dell’altro e la capacità di fermarsi a pensare e documentarsi prima di agire. Durante le discussioni in gruppo si e spesso parlato del Covid 19 da vari punti di vista. Inizialmente era dominante da parte di tutti il timore del contagio. Poi sono arrivate la rabbia e la frustrazione. E solo dopo, solo dopo tutto questo, è stato possibile spostare lo sguardo aldilà delle mura e dei cancelli. Si è parlato delle persone che hanno perso la vita perché colpite dalla malattia e anche di chi si è tolto la vita per la disperazione profonda generata dal virus, di chi è in carcere e fatica ancor di più a ricevere l’assistenza sanitaria di cui ha bisogno, di chi ha perso il lavoro e non si è sentito tutelato dallo Stato, dei bambini e dei ragazzi che non possono andare a scuola e delle dottoresse che si assentano dal lavoro per badare ai loro figli e dei figli che da oltre un anno non vedono ii loro genitore detenuto, nonostante fuori dal carcere si inizi a intravedere qualche apertura. Questo passaggio continuo, nelle nostre discussioni, tra l’interno e l’esterno del carcere ha lo scopo di ridurre la distanza tra chi è dentro e chi è fuori nell’ottica di essere tutti parte della stessa società. Per questo ci sembra utile diffondere all’esterno i pensieri e le emozioni che arrivano da chi è costretto dentro il carcere. E qui la sofferenza maggiore e la mancanza dei colloqui in presenza nonostante lo sforzo fatto dal carcere per istituire le video chiamate e per intensificare le telefonate. “In me emozioni contrastanti... Il non poter fare colloqui con mia madre ormai anziana, il non poter stare in mezzo agli altri nonostante vivessi già una condizione di recluso. Mi sembrava assurdo subire una prigione nella prigione. Il primo istinto è di rabbia, poi rassegnazione, infine arrivano la riflessione e la consapevolezza di dover integrare nel mio essere anche questa sofferenza. Sofferenza e costante preoccupazione per un genitore troppo anziano per rientrare nella categoria dei parenti ammessi ai colloqui e anche per acquistare un pc e iniziare a usare Skype. E quando uscirò?”. Pur essendo una misura, in termini generali, necessaria per la tutela della salute, bisogna ricordare che l’isolamento causato dal distanziamento sociale e dalla mancanza di contatto fisico tende a indurre sentimenti di solitudine e paura nella comunità. In carcere il pensiero va ai familiari che non si possono incontrare, ai bambini che crescono e ai genitori che invecchiano e che si ha il timore di ritrovare troppo cambiati dopo questa esperienza. Durante i gruppi abbiamo imparato, dagli studi della teoria dell’attaccamento, quanto il contatto fisico costituisca una componente essenziale dello sviluppo psicologico, emotivo, cognitivo, fisico e neurologico dell’esperienza umana sin dall’infanzia. Il contatto fisico contribuisce infatti a strutturare lo stile di attaccamento nei neonati e contribuisce alla regolazione emotiva durante tutto l’arco di vita. La comunicazione non verbale passa anche attraverso il contatto fisico e può trasmettere vicinanza, sostegno e affetto nei momenti di difficoltà. Infatti in ambito assistenziale influenza positivamente la relazione tra caregiver e pazienti con grandi benefici per entrambe le parti. È per questo che in alcune Rsa sono stati messi a punto dei dispositivi per gli abbracci in sicurezza in tempo di Covid. Quando questo tipo di contatto è limitato, o addirittura assente, si può sviluppare la cosiddetta “skin hunger” che causa in primo luogo un incremento dei livelli di stress, ansia e depressione. “La paura più frequente è il non sapere che effetti avrà il distacco fisico da mia figlia crea in me incertezza, destabilizzazione dovuta all’angosciante certezza che un bambino non può capire a pieno questa situazione che crea sconforto anche in una persona adulta, figuriamoci in un bambino. La perdita del contatto fisico con la mia compagna, anche solo un bacio a colloquio bastava a far si che il rapporto non si raffreddasse fino a spegnersi. L’ansia di avere dei genitori di 70 anni con delle patologie, che in questo periodo di pandemia si sobbarcano problematiche che spetterebbero a me. II senso di colpa molte volte prende ii sopravvento”. In carcere il pensiero va ai bambini che da oltre un anno non vedono il loro papà, i bambini che prima trascorrevano il colloquio sulle sue ginocchia avvolti da un grande abbraccio e che oggi chiedono perché adesso che si può di nuovo uscire non posso venire da te? Teniamo presente che questi bambini devono gestire comunque una non presenza del genitore nella quotidianità domestica, ma che oggi è amplificata e associata alle fatiche che tutti i bambini a causa della pandemia stanno subendo. Questo non significa negare l’importanza delle misure di distanziamento adottate, ma mettere in luce quali conseguenze ha il protrarsi di questa situazione e quali effetti la comunità e il sistema sanitario si troverà a dover gestire in futuro dal punto di vista del disagio psicologico. “L’appuntato mi chiama con il telefono in mano e sento le voci delle mie figlie parlare tra loro. II cuore mi si riempie di gioia. I primi tre minuti passano così, senza capire nulla. II tempo passa: mancano otto minuti. Chiedo alle piccole di farmi parlare con la mamma; mentre parliamo loro cercano attenzioni... cinque minuti. Sale la rabbia, chiedo alla mia compagna di farmi parlare con le bimbe. Due minuti! Come già finita? Chiedo di lasciarmi ancora qualche minuto, ma non si può. Mi domando come sia possibile vedere la propria famiglia 15 minuti la settimana. Provo una rabbia intensa che gela momentaneamente tutte le emozioni provate nel vedere la mia famiglia”. *Detenuti del reparto “La Nave” di San Vittore Aosta. Riavviata l’attività dell’Associazione Valdostana Volontariato Carcerario di Sandra Lucchini voxpublica.it, 13 maggio 2021 La cura dell’orto, la coltivazione dello zafferano, l’apicoltura con l’acquisto di nuove api e la scultura a intaglio. I detenuti della Casa Circondariale, di Brissogne, hanno ripreso a lavorare nei settori definiti dalla Direzione carceraria. In concomitanza, hanno riavviato la loro opera spontanea anche i volontari dell’Associazione Valdostana Volontariato Carcerario. Piera Asiatici, una delle referenti dell’Associazione, sottolinea la piacevole sorpresa di aver riallacciato, seppure in termini parziali, un filo interrotto un anno fa, con l’esplosione della pandemia. Una ‘mission’ di grande valore sociale che permette di ingentilire la durezza della reclusione. “Nessuno di noi si aspettava di riprendere le nostre visite in carcere - dice. Una ripresa non del tutto al completo, ma sufficiente per colmare le carenze determinate dall’emergenza. La distribuzione degli indumenti e del kit per l’igiene personale non è mai mancata. Ma, avveniva a ‘distanza’. Nel senso che si consegnava il tutto agli addetti. Noi non si poteva avere alcun contatto con i detenuti. Ci entusiasma la ripresa della coltivazione dell’orto, dell’apicoltura e, soprattutto, dei lavori artigianali”. Riferisce dell’impegno di tre ospiti del penitenziario nello scolpire oggetti in legno di particolare pregio. “Verranno esposti alla Foire d’été, sul banco riservato al Volontariato Carcerario - fa sapere Piera Asiatici. Non possiamo ancora riprendere i nostri colloqui con i detenuti e, soprattutto, la redazione del giornale mensile ‘Pagine Speciali’, realizzato nella biblioteca dell’Istituto penitenziario e divulgato dal Corriere della Valle, a cui rivolgiamo sempre il nostro ringraziamento per questa opportunità. Non sappiamo ancora quando riavremo l’assenso dalla Direzione carceraria”. L’alba di un nuovo giorno è rinata anche per i volontari di un’associazione, l’unica, ad oggi, in Valle d’Aosta, costituita trent’anni fa con l’obiettivo di lenire il disagio di chi, per i più svariati motivi, ha varcato la soglia di uno degli ambienti più problematici della società. La loro forma di accoglienza nei confronti di queste persone può contribuire a rasserenare gli animi e, soprattutto, a presentare una nuova opportunità di vita al termine della detenzione. Il rientro nella società, in famiglia, in un ambito lavorativo può essere l’incentivo prioritario per dare una svolta definitiva alla propria vita, lasciandosi alle spalle periodi di sofferenza, tribolazione, privazione. Padova. Il liceo Curiel ridipinto dai carcerati del Due Palazzi padovaoggi.it, 13 maggio 2021 Bisato: “Così si ritrova la giusta strada”. Il Curiel è il terzo istituto ad essere ridipinto dai carcerati dopo le aule del Belzoni nel 2018 e del Fermi nel 2019 grazie al piano interventi individuato dalla Provincia terminati i lavori di tinteggiatura che i carcerati del Due Palazzi di Padova hanno eseguito al liceo scientifico Curiel di via Durer a Padova. L’intervento rientra nel progetto “Detenuti per la scuola” che la Provincia ha attivato ormai da alcuni anni insieme alla direzione del carcere e all’associazione Operatori carcerari volontari (Ocv) per favorire il reinserimento sociale. Nella mattina di mercoledì 12 maggio si è tenuta la presentazione dei lavori in presenza del presidente della Provincia Fabio Bui, del consigliere provinciale delegato all’Edilizia scolastica Luigi Bisato, del direttore del carcere di Padova Roberto Mazzeo e della dirigente scolastica del Curiel Michela Bertazzo. Erano inoltre presenti i detenuti coinvolti nel progetto Cosimo e Salvatore, la referente dell’associazione Ocv Luisa Zotti e il dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale Roberto Natale. “Questa è la terza scuola che i detenuti padovani tinteggiano nei tre anni in cui è attivo il progetto - ha spiegato il presidente Bui - Parliamo di un’iniziativa talmente densa di valori e significati che ogni volta è difficile non uscirne umanamente arricchiti. Le scuole sono un bene di tutti, un bene che rappresenta il futuro della comunità e i detenuti sentono molto questo compito sia come riscatto personale, sia come percorso per riabilitarsi alla società. L’educazione civica è rientrata nelle materie scolastiche, ecco io credo che questo progetto sia un esempio concreto di come le Istituzioni, le associazioni e le realtà padovane possano collaborare insieme per il bene pubblico”. Il Curiel è il terzo istituto ad essere ridipinto dai carcerati dopo le aule del Belzoni nel 2018 e del Fermi nel 2019 grazie al piano interventi individuato dalla Provincia. Il progetto che avrebbe dovuto durare solo alcuni mesi, è stato prorogato per consentire ai carcerati di dipingere l’intera scuola. “Ancora una volta i detenuti hanno dimostrato impegno, dedizione e amore per il lavoro che hanno svolto con meticolosità e grande cura - ha detto il consigliere Bisato - Gli edifici scolastici hanno bisogno di continue manutenzioni e piccoli interventi per dare ai ragazzi ambienti di studio curati, salubri e funzionali. Se a farlo sono persone che nella vita hanno sbagliato, ma stanno anche affrontando un percorso di riscatto, il valore di questi lavori è sicuramente inestimabile da un punto di vista umano e sociale. Ringrazio il direttore del carcere e i volontari perché credono nel recupero dei detenuti e nell’importanza di far ritrovare sempre la strada della dignità umana. È una visione che condividiamo e che, come Provincia, continueremo a promuovere”. Il progetto rientra tra gli obiettivi pedagogici che il carcere porta avanti per offrire, mediante il lavoro all’esterno, opportunità di formazione professionale e di esperienze utili al reinserimento sociale. Brescia. Fili da riannodare, dal carcere a nuovi spazi di libertà di Valerio Gardoni popolis.it, 13 maggio 2021 Dal carcere di Brescia cinque incontri teatrali dal 14 maggio al 2 luglio aperti alla popolazione. “Fili da Riannodare. Dal carcere a nuovi spazi di libertà” è un progetto che nasce dall’iniziativa dell’Associazione ‘Fiducia e Libertà Carcere’ che opera nelle carceri di Brescia dal 2017 ove svolge la propria attività di volontariato alla popolazione carceraria attraverso colloqui, progetti culturali, iniziative di sensibilizzazione, attività teatrali e laboratori sul tema della genitorialità ed affettività. Il progetto prevede cinque incontri dal 14 maggio al 2 luglio aperti alla popolazione, che si svolgeranno presso il Teatro S’Afra, via Dell’Ortaglie, 6 dalle ore 18,30 alle ore 20,30, con prestigiosi ospiti impegnati da anni in attività di formazione culturale e artistica, promozione sociale, difesa dei diritti dei detenuti, impegno divulgativo negli istituti di pena italiani. Il significato dell’iniziativa è mettere a fuoco uno dei momenti più delicati per un/a detenuto/a: quello del termine della pena. Tornare a tessere la vita dopo anni di reclusione, infatti, non è davvero facile, è indispensabile osare il coraggio della speranza ma per questo non basta la buona volontà o i percorsi formativi del carcere. È necessario il coinvolgimento della società civile che va responsabilizzata, coinvolta e informata. L’idea guida del progetto ‘Fili da Riannodare’ è quella di mettere al centro le testimonianze e l’esperienza delle persone detenute, consentendo di accorciare le distanze tra il “dentro e il fuori”, alzare il velo di diffidenza dell’istituzione che talvolta vive come un’intrusione lo sguardo esterno, e della società civile combattuta tra il pregiudizio e l’indifferenza. L’esperienza della detenzione crea una lacerazione nell’esistenza, sancisce un prima e un dopo, si impone come evento apicale e traumatico. Il tempo della pena e della detenzione delinea nuovi significati e impone interrogativi: è ancora il carcere un luogo di rieducazione? Cosa significa avviare e implementare processi di umanizzazione dentro e fuori dal carcere, con quali scopi, competenze? Con quali esiti? Scontare la detenzione non esaurisce evidentemente la pena: implica la ricostruzione di trame esistenziali, sociali, affettive attraverso percorsi che quando ben preparati, arginano la recidiva e favoriscono il reinserimento sociale del detenuto. Fili da Riannodare. Dal carcere a nuovi spazi di libertà’ è un’esperienza-esperimento in quanto, per la prima volta, si è creato un laboratorio teatrale fuori dal carcere in un housing in via Mantova a Brescia, dove dei detenuti in misura alternativa, sono stati coinvolti nell’allestimento degli incontri, guidati con grande competenza e passione dal regista Abdul Abderrahim el Hadiri di Cicogne Teatro, in un positivo clima di rispetto e collaborazione. Durante il laboratorio teatrale, durato più mesi, si è lavorato sul valore del tempo, del suo trascorre, della sua importanza. Sulla capacità creativa ed interpretativa della persona: il teatro è metafora della vita abitua alla puntualità, al rispetto, alla responsabilità del lavoro di gruppo. il teatro può rivelarsi uno strumento privilegiato per creare relazioni significative, giocare le proprie modalità espressive senza il timore del giudizio, aiuta ad acquisire maggiore consapevolezza e fiducia in sé stessi. Le circostanze che portano un uomo o una donna alla rottura del patto sociale sono molteplici, non è facile oggi vivere come non è facile talvolta resistere alle tentazioni in una società basata sull’effimero, ma la maggior parte delle persone che perdono la libertà spesso ricadono perché non hanno trovato opportunità e accoglienza che andasse oltre al giudizio. L’associazione FILI è formata da un ristretto numero di persone che danno valore all’essere umano, che del valore della vita e la fiducia che si possa dare una seconda possibilità ne hanno fatto una filosofia. Fili da riannodare è stata per gli ospiti in detenzione alternativa di Fiducia e Libertà un’occasione unica per parlare, raccontare emozioni e sofferenze di una delle peggiori esperienze di vita dopo la morte. Durante l’evento sarà inoltre possibile visionare le opere di artisti di varia nazionalità. L’esposizione è stata coordinata da Karen Alvarez Velasquez. I nostri ragazzi fuori dalla clausura di Don Antonio Mazzi Corriere della Sera, 13 maggio 2021 Non esistono gli autistici, i bipolari, gli schizofrenici, gli anoressici, gli psicotici, i violenti aggressivi, ma esistono degli adolescenti e dei giovani con problemi. Contesto il metodo “claustrale” per recuperarli. Sempre più di frequente mi arrivano madri disperate a causa delle conseguenze nate da questo lungo anno di pandemia. Stiamo inventando, come sempre è accaduto, ambienti particolari, separati, terapeutici e, secondo me, maledetti. Non mi riferisco a nessuna esperienza particolare. Desidero solo contestare il metodo “claustrale” già a suo tempo inventato per recuperare i ragazzi tossicodipendenti. Da noi arrivano già da tempo ragazzi, che gli specialisti chiamano “pazienti alienati”, immersi in storie, le più impensate o, sempre usando il vocabolario dei saggi, affetti da disturbi internalizzanti o esternalizzanti. E io, Mazzi Antonio, da ignorante proibisco che vengano relegati in bunker o in strutture create ad hoc. Ricevo le telefonate, creo appuntamenti, ascolto tutto quello che mi raccontano. Seduti una poltrona di fronte all’altra, per una buona mezz’ora cerco di passare dalle urla, dai pianti, dalla disperazione, a quel minimo di tranquillità che permetta il dialogo. Poi chiamo uno tra gli educatori che reputo più adatto al caso. Lo mando con il “paziente” a fare un giro nel verde, mentre convinco la mamma o i genitori (raramente) che dobbiamo, insieme, affrontare la sofferenza di un ragazzo che in minima parte è anche malattia. Se arrivo a questi livelli, cerco e trovo un posto tra le molte mie realtà. Se per il genitore è solo un figlio malato, saluto genitore e figlio. Noi non abbiamo mai pensato, in quasi cinquant’anni di attività, di inchiodare comodini, di attaccare telecamere su tutti gli angoli o di alzare inferiate sulle finestre. Non abbiamo anteposto le malattie e tanto meno orientato gli interventi in chiave esclusivamente terapeutica. Per noi è dall’educazione che dobbiamo partire e a cui dobbiamo arrivare. Non esistono gli autistici, i bipolari, gli schizofrenici, gli anoressici, gli psicotici, i violenti aggressivi, ma esistono degli adolescenti e dei giovani con problemi. Nelle équipe che vivono con loro c’è l’educatore, lo psicologo, il musicista, il maestro di danza e insegnanti vari. Settimanalmente viene il medico o lo psichiatra e, sempre nel più normale dei modi (senza camici bianchi e studi medici), chiacchierano, vedono, incontrano e poi ne discutono con il gruppo degli educatori nei momenti di formazione permanente o, come diciamo noi, nei momenti “della parola”. Mi rifiuto (salvo casi gravissimi) di catalogare i ragazzi che chiedono aiuto, come ci siamo sempre rifiutati di etichettare chiunque. Tutti conoscono i casi che sono passati nelle mie comunità, compresi i terroristi pentiti o dissociati (in questi giorni tornati di moda). Ci bastano i nomi, talvolta nemmeno i cognomi. Ho seguito gente che ha ammazzato madri, padri, fratelli, che hanno tentato il suicidio più volte, spacciatori milionari, ragazzi e ragazze che si sono tagliuzzati fin dove non riusciamo ad immaginare, ragazzi e ragazze che hanno fatto di tutto e di più. Ne abbiamo salvati parecchi, talvolta con qualche farmaco (non li abbiamo salvati tutti per non far concorrenza al padreterno o a qualche clinica superlativa milanese o romana). Come li abbiamo salvati? Primo perché non li abbiamo emarginati, ma li abbiamo seguiti, in modo ben preciso nel gruppo normale; secondo perché il lavoro più impegnativo e strategico lo facciamo preparando il gruppo dei compagni all’accoglienza. Chiunque arriva, due minuti dopo, è lì da secoli. I compagni, sensibilizzati, sono i medici e gli infermieri migliori. E mentre noi educatori abbiamo bisogno di incontri singoli, bilaterali, con uno o più specialisti, i compagni in pochi minuti (parlando da prete) li hanno battezzati e cresimati. Arrivato a questo punto di riflessione, so di aver creato dissenso e divisione in molti, però, testa bastarda come sempre ho fatto e sto facendo, vorrei fermare tutti quei Signori, non so se spaventati o interessati, che stanno inventando nuovi luoghi magici. Prepariamo educatori, troviamo località e strutture belle, famigliari, toniche, nel verde, con tanta musica e tanta amicizia. Ho appena comprato l’ultimo libro dell’amico Vito Mancuso, dal titolo “A proposito del senso della vita”. Vado alle ultime pagine, perché suggeriscono alcuni piccoli passi quotidiani, verso la costruzione del senso della vita. Tutti abbiamo perso il senso della vita, ed è per questo che i nostri figli si stanno distruggendo. “Se il senso viene dal consenso, il consenso bisogna costruirlo giorno dopo giorno, mediante la politica dei piccoli gesti che conducono la nostra coscienza a capire e ad amare sempre più la logica profonda della vita, con la misteriosa e insieme dolorosa poesia”. E qui Vito va giù con tre pagine di buone pratiche. Io, non sono filosofo e vi cito solo qualche riga (con piccoli ritocchi). “Constatare la bruttezza, ma non farsene ferire: il sentimento non diventi mai risentimento. Accogliere anche le situazioni brutte del mondo e disporle accanto alle proprie situazioni brutte. In ogni occasione, anche la più scabrosa, ricercare la poca bellezza rimasta. Curare il linguaggio, evitare la violenza e favorire l’armonia, amare la natura. Ricordarsi sempre che la bellezza è la via della salvezza”. Se queste buone pratiche le avessi dette io, i soloni avrebbero sorriso sornionamente, come fecero negli anni Settanta-Ottanta quando ho affrontato alla mia maniera l’inferno del Parco Lambro. Allora le buone pratiche me le ha benedette Vittorino Andreoli, contro tutti. Oggi, per fortuna, me le dice Vito Mancuso. E mentre lui me le suggerisce, noi già le facciamo, non con i ragazzi dell’oratorio, ma con quelli “appesi a un filo”. Sono queste le vere medicine e le vere terapie. Allarme vaccini per senza fissa dimora e stranieri irregolari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 maggio 2021 La campagna di vaccinazione anti Covid va a ritmo veloce, ma rimangono fuori i senza fissa dimora e stranieri irregolari privi di carta d’identità. In sostanza, senza una residenza, non solo perdono il diritto al voto, al gratuito patrocinio, alla riscossione della pensione, a iscriversi al collocamento o aprire una partita Iva, ma perdono soprattutto il diritto all’assistenza sanitaria - tranne il pronto soccorso - e al welfare. Secondo la Caritas nel nostro Paese ci sono circa 500mila persone che rischiano di non accedere alla vaccinazione anti Covid: italiani senza fissa dimora, richiedenti asilo, rifugiati e apolidi accolti in strutture collettive, cittadini comunitari in condizione di irregolarità, una parte della popolazione Rom e Sinti. A febbraio scorso, ricordiamo, tutte le associazioni aderenti al Tavolo immigrazione salute hanno scritto una lettera al ministro della Salute, Roberto Speranza, per includere nel piano vaccinale le categorie a oggi a rischio di esclusione. Ma nessuna risposta. Per quanto riguarda i senza dimora, i comuni mettono a loro disposizione una via fittizia che consente l’iscrizione anagrafica e quindi accedere a tutti i servizi come gli altri cittadini. Quindi anche la possibilità di vaccinazione. Ribadiamo, fittizia perché esiste solo sulla carta, non fisicamente. Una via virtuale frutto di una finzione giuridica che tuttavia produce effetti reali. Ma quanti ne usufruiscono? Non esistono dati ufficiali, non esiste un elenco presso l’Istat (l’ultimo dato risale al 2015). La Federazione italiana organismi per le persone senza dimora, la Fiopsd, ha raccolto dei dati ed esce fuori una realtà disarmante: a ricevere dai comuni una via fittizia, sono solo poco più di 200 su una platea di 8000 senzatetto. Accade così che abbiamo migliaia di persone “invisibili” alla campagna di vaccinazione anti Covid. La Fiospd insiste nel dire che fare il vaccino è un diritto e un dovere di tutti. Come federazione sottolinea che non deve esistere una corsia diversa, sia essa privilegiata o trascurata. Le persone senza dimora, insiste nel dire la Fiospd, sono e valgono come tutte le altre persone che si trovano in Italia, cittadini o non cittadini, residenti o senza residenza, italiani o stranieri. Per questo la Federazione chiede che si applichino a loro i medesimi criteri e tempi di vaccinazione previsti per tutti. Per i senza fissa dimora e stranieri irregolari restano le associazioni a prendersi cura di loro. Dall’Asgi (Associazione Studi Giuridici Immigrazione), alla Caritas Italiana, passando per Centro Astalli ed Emergency, alla stessa Intersos, Médecins du Monde, Medici contro la Tortura, Medici per i Diritti Umani (Medu), Medici Senza Frontiere (Msf), Sanità di Frontiera e Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (Simm), c’è chi si è fatto carico e garantito alla popolazione migrante quella prima assistenza sanitaria, spesso negata per burocrazia e ostacoli all’accesso. Associazioni che ora, riunite nel Tavolo immigrazione salute, hanno da mesi, com’è detto, lanciato un appello al ministro della salute affinché faccia rientrare nel piano tutte queste persone lasciate sole. Ma questa pandemia ha messo in luce un problema che va al di là della possibilità dell’accesso alla vaccinazione, ma allo stesso sistema sanitario. Il Covid 19 rappresenta un ulteriore fattore di esclusione e di isolamento che aumenta l’invisibilità dei bisogni e amplifica le disuguaglianze tanto sul piano sociale che su quello, appunto, della salute. Ddl Zan, i confini delle libertà di Luigi Manconi La Repubblica, 13 maggio 2021 Ma davvero il disegno di legge contro l’omotransfobia, una volta approvato, potrebbe limitare la parola? La risposta è no. Ma davvero, una volta approvato il disegno di legge contro l’omotransfobia, verrebbe limitata la libertà di parola? E chi dicesse “l’utero in affitto è una schifezza” o il matrimonio omosessuale “è contro natura” verrebbe sanzionato penalmente? La risposta è un no, chiaro e tondo: non c’è in alcun modo questo rischio. Eppure, tale insidiosa alterazione della verità dei fatti (e della lettera della proposta di legge) si riproduce imperturbabile. Ma perché si può serenamente affermare che si tratta di una manipolazione? Il disegno di legge (ddl) Zan si inserisce nella trama della “legge Mancino”, volta a punire le condotte di propaganda, istigazione, violenza e associazione finalizzate alla discriminazione fondata sull’odio etnico, nazionale, razziale o religioso. Ma rispetto a questo testo emerge una differenza cruciale: nel disegno di legge contro l’omotransfobia non è prevista la sanzionabilità della mera propaganda. Ovvero esattamente ciò che attiene alla incondizionata libertà di espressione. Come argomentano giuristi, quali Federica Resta e Angelo Schillaci, nel modificare la lettera a) dell’articolo 604-bis del codice penale, il ddl Zan non prevede la penalizzazione dell’attività di propaganda, ma solo quella di istigazione a commettere atti di discriminazione. Il comportamento penalmente rilevante è, in sé, la condotta del discriminare: si tratta dunque di delitti di vera e propria discriminazione, non di opinioni. Parliamo, cioè, della parola che si fa o rischia di farsi azione per la sua valenza istigativa. La parola che si traduce in comportamento e che produce la discriminazione o la violenza: le idee che diventano azioni e solo nel momento in cui diventano azioni. Viene previsto come sanzionabile, quindi, il nesso di causalità e il rapporto diretto e consequenziale tra parola e fatto, proprio in ragione dell’effetto istigativo (da verificare in concreto) della prima. È, del resto, proprio questo il requisito cui la Corte Costituzionale ha subordinato la legittimità delle fattispecie di istigazione o apologia, tracciando il confine che separa la libertà di espressione dalla violazione dell’altrui dignità. La Consulta ha ritenuto, infatti, compatibili con la libertà di espressione quelle ipotesi di reato (istigazione o apologia), solo se non siano applicate alla “manifestazione di pensiero pura e semplice”: ovvero è sanzionabile solo quella condotta che “per le sue modalità integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti” (sentenza 65/1970). Si tratta di un parametro non molto diverso da quello del clear and present danger al quale la giurisprudenza americana subordina la legittimità di fattispecie analoghe all’istigazione; un parametro che la Corte europea dei diritti umani (Cedu) ha assunto a riferimento nella sua giurisprudenza prevalente. Il ddl Zan, dunque, non ha nulla a che vedere con l’uso simbolico-performativo della norma penale per promuovere - come affermano i critici - “un clima culturale di favore verso le differenze” (e anche se fosse...). Al diritto penale si assegna, opportunamente, un compito ben più limitato: proteggere la persona dalla violenza e dalla discriminazione per consentirle di vivere liberamente il proprio modo di essere e le proprie scelte affettive. Questa impostazione è confermata dal fatto che il ddl Zan, oltre a prevedere sanzioni dotate di un contenuto più significativamente “rieducativo”, introduce alcune misure complementari di prevenzione del fenomeno. Va in questo senso l’elaborazione di una strategia di contrasto volta a incidere sulle cause, essenzialmente culturali, dell’omofobia. Poi, non c’è dubbio che il testo del disegno di legge possa essere ulteriormente migliorato. Ma questo è un altro discorso. Dunque, chi voglia a tutti i costi dire che “l’amore omosessuale è un obbrobrio” è padronissimo di continuare a farlo, senza che la “legge Zan” gli possa torcere un solo capello. Zanda (Pd): “Il ddl Zan è una nostra battaglia, va approvato anche al Senato senza modifiche” di Giovanna Casadio La Repubblica, 13 maggio 2021 Il senatore dem giudica “fisiologica” la spaccatura all’interno della maggioranza sul provvedimento: “Il governo Draghi nasce come risposta all’emergenza Covid. I diritti civili siano discussi dai partiti in piena libertà”. “Modificare il ddl Zan al Senato per metterlo a rischio in una nuova lettura alla Camera, sarebbe un errore politico davvero grave”. Luigi Zanda, senatore del Pd, ex capogruppo a Palazzo Madama, è convinto che “ci siano momenti nella vita del Parlamento in cui il valore politico di un provvedimento deve fare premio sui dubbi”. Ieri il Pd ha tenuto l’assemblea dei senatori con il segretario Letta sulla legge contro l’omotransfobia. E sulla spaccatura della maggioranza che sostiene Draghi, con Salvini e Tajani, ovvero Lega e Forza Italia, contrari alla legge Zan al punto da averne presentata una propria, Zanda dice: “È fisiologico. La maggioranza dell’esecutivo Draghi nasce da una convergenza sull’emergenza Covid, sull’emergenza economica e sul rapporto con l’Europa, i diritti civili siano discussi dai partiti in piena libertà”. Senatore Zanda, sulla legge contro l’omofobia il Pd ci mette la faccia? “La legge Zan è un provvedimento del Pd. Il Pd lo ha presentato alla Camera. Il primo firmatario è un deputato dem, Alessandro Zan. A Montecitorio è stato approvato con il contributo decisivo del Pd. Al Senato è stato calendarizzato per iniziativa soprattutto del Pd. E il testo base ora adottato a Palazzo Madama è appunto quello del Pd. In definitiva è un nostro provvedimento”. Da non modificare, come ha chiesto il segretario dem Enrico Letta, di fatto blindando il ddl Zan? “Comprendo che anche sul disegno di legge Zan contro l’odio nei confronti delle parti più deboli della società - così come era accaduto per le unioni civili diventate poi legge nella passata legislatura - possano essere sollevate limitate obiezioni sui singoli punti del provvedimento. Ma ci sono materie e momenti nella vita del Parlamento in cui il valore politico di un provvedimento deve essere tenuto in una particolare attenzione, e fare premio su tutti i dubbi. Modificare il ddl Zan al Senato e metterlo a rischio in una nuova lettura alla Camera, sarebbe un errore politico davvero grave”. Però nello stesso Pd sono state chieste modifiche, ad esempio dal senatore Andrea Marcucci durante l’assemblea dem a Palazzo Madama ieri. “Marcucci ha ragione quando chiede rispetto. Questo rispetto c’è stato nell’assemblea dei senatori dem al Senato, che si è svolta con la più assoluta libertà di ciascun senatore nell’esprimere le proprie opinioni. Anche chi ha manifestato obiezioni ha però convenuto sulla necessità di approvare il ddl, riconoscendone il valore politico. Comunque se vuole sapere la mia opinione sull’opportunità di modifiche, lo riterrei uno sbaglio”. Le senatrici del Pd Valeria Fedeli, ex ministra della Scuola, e Valeria Valente, presidente della commissione femminicidi, hanno molte perplessità sull’introduzione delle discriminazioni per sesso, e quindi che riguardano le donne e la misoginia. Sostengono che è un arretramento delle battaglie femministe, dal momento che le donne tutto sono tranne che una minoranza. Lei cosa ne pensa? “Non esprimo valutazioni sui dubbi e le obiezioni che ho ascoltato nella nostra assemblea. Ripenso a come andò sulle unioni civili: anche allora le obiezioni sui singoli punti furono superate dall’esigenza istituzionale di approvare la legge”. Perché in Italia si apre sempre uno scontro sui diritti civili tra un fronte progressista e uno clericale e conservatore? “La società italiana è sensibile al tema dei diritti civili e entra in fibrillazione, però non solo tra destra e sinistra anche dentro gli stessi schieramenti. Personalmente su questi punti rifiuto la distinzione tra laici e cattolici”. Comunque il ddl Zan spacca la maggioranza di governo con Lega e Forza Italia del tutto contrari. Avrà conseguenze? “No, non credo proprio. È fisiologico. La maggioranza dell’esecutivo Draghi nasce come convergenza su emergenza Covid, sull’emergenza economica e sul rapporto con l’Europa. Le questioni che riguardano i diritti civili e in questo caso la lotta all’omofobia sono estranee al patto di maggioranza ed è normale che siano discusse dai partiti in piena libertà. Il ddl Zan è un provvedimento che il Pd deve difendere fino a farlo approvare”. Sui diritti l’asse giallo-rosso tiene, ma per le amministrative l’alleanza si sta rivelando un flop, come mai? “In tempi come il nostro in cui le ideologie e gli ideali sono così poco frequentati, tutte le alleanze politiche compresa quella tra Pd e 5Stelle valgono per il tempo in cui si stringono. E hanno un valore positivo, ma sono pur sempre alleanze tattiche. Poi tra i partiti alleati può esserci anche l’intenzione o addirittura la volontà di renderle più strutturali e strategiche, ma per farlo ci vuole tempo”. Se l’immigrazione si trasforma nel nuovo fronte aperto di Draghi di Paolo Delgado Il Dubbio, 13 maggio 2021 La tregua è finita e il combattimento è destinato a scatenarsi di nuovo, anche più agguerrito, fazioso e propagandistico di prima. Ma stavolta per Matteo Salvini una probabile nuova emergenza immigrazione sarà un rischio invece che una facile occasione di propaganda e per Draghi potrebbe configurarsi come una minaccia di prima grandezza. Gli sbarchi sono ripresi. La strategia italiana è tutta concentrata sul controllo delle partenze dalla Libia e dalla Tunisia ma il quadro libico è ancora troppo caotico per garantire un controllo tale da evitare flussi di massa e le proteste, pur timide e sommesse, sulle continue violazioni dei diritti umani da parte di un Paese di fazioni che, di fatto, sono sovvenzionate per fare ‘il lavoro sporco’ renderà probabilmente le maglie libiche un po’ meno strette. Nell’ultimo anno e mezzo lo spettro dell’immigrazione, ingigantito com’era da una propaganda che puntava sull’allarmismo per moltiplicare i consensi, era di fatto scomparso, soppiantato dalla paura, ben più realistica e fondata, della pandemia. Ma via via che la minaccia del virus si affievolirà il fantasma dell’ ‘ invasione’ riemergerà. L’eredità del Covid peggiorerà in realtà il quadro perché, complice la scelta di non sospendere i brevetti, i profughi saranno sospettati di essere pericolosi in quanto diffusori del virus. Se poi, come non è affatto escluso, la bassa percentuale delle vaccinazioni in vaste aree povere del mondo portasse a una variante del virus in grado di sfuggire ai vaccini attuali da una accresciuta diffidenze si passerebbe al panico e alla richiesta di erigere muri invalicabili. Il rischio che di qui a poche settimane l’immigrazione torni a campeggiare nella lista delle emergenze, vere o avvertite come tali poco importa, della politica italiana. Di certo FdI, che sta sfruttando al meglio la postazione privilegiata di unico grande partito d’opposizione, martellerebbe con la precisa intenzione di mettere in difficoltà la Lega, in quanto interna alla maggioranza. Salvini a propria volta non potrebbe non alzare la voce trovando però un muro sul fronte opposto della maggioranza, contrariamene a quanto capita di solito in questi casi. Stavolta, infatti, Pd, M5S e LeU non hanno interesse, come sempre accade, nel difendere la maggioranza ma, al contrario, sperano attivamene di sfasciarla costringendo la Lega a levare le tende. Il gioco delle parti è lo stesso che va in scena oggi sulle riaperture ma, se in ballo ci fosse l’immigrazione, quella che oggi è in buona misura sceneggiata a uso del popolo votante diventerebbe ben più concreta. L’esame, se mai ci si arriverà, sarà difficile anche per Draghi. L’asso nella manica del premier è la sua indiscussa possibilità di incidere sulle scelte europee, di confrontarsi da pari a pari e anzi spesso con una particolare autorevolezza con Bruxelles e con le capitali europee. Ma in questo caso, con le posizioni di chiusura senza spiragli di molti Paesi ulteriormente potenziate dalla pandemia. Nessuno in Europa può modificare a breve l’atteggiamento dell’Unione, in concreto la scelta di far ricadere tutto il peso sui Paesi di prima accoglienza come l’Italia. Sull’immigrazione, dunque, potrebbero scaricarsi tutte le tensioni latenti sia nelle singole alleanze politiche, la ‘ maggioranza di Conte’ da un lato e il centrodestra dall’altro, sia all’interno e della maggioranza belligerante di Draghi. Ieri, rispondendo alle interrogazioni alla Camera, il premier ha indicato essenzialmente una sola via: quella della sorveglianza delle coste da parte delle guardie costiere libiche e tunisine. È una via incerta, perché la capacità di controllo di quei Paesi e in particolare della Libia è frammentata ed è anche una via pericolosa, perché i metodi della Libia sono quelli che sono e anche il richiamo di Draghi al rispetto dei diritti umani, ripetuto ieri in aula, appare ben poco realistico. Ma se la situazione, come è probabile, peggiorerà, se gli sbarchi estivi supereranno il livello di guardia, la sola strada praticabile per Draghi e per la ministra degli Interni Lamorgese sarà quella di impostare la loro strategia e poi di tenere dritta la barra nonostante la protesta rumorosa di una parte della maggioranza e forse, per motivi opposti, persino di entrambe le sue anime. L’ipocrisia europea nella partita dei migranti di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 13 maggio 2021 Il tema è sempre affrontato come se fosse una prima volta. E anziché un terreno da curare nell’interesse della comunità, è un campo di battaglia tra destra e sinistra. L’Europa ci è matrigna, ma dalla nostra abbiamo almeno un europeo. Chissà, dunque, se l’indiscusso prestigio di Mario Draghi smuoverà anche il doloroso dossier sull’immigrazione, incartapecorito da anni tra veti incrociati ed egoismi nazionali. Per ora è andato piuttosto male il vertice di martedì a Lisbona tra i ministri dell’Interno della Ue insieme con una decina di Paesi africani: era propedeutico proprio alla partita che si giocherà nel Consiglio europeo di fine maggio, dove il premier italiano pare deciso a porre con chiarezza il problema (prima neppure in calendario), mettendo sul tavolo un documento elaborato in questi giorni a Palazzo Chigi. Ogni speranza è lecita, molta prudenza è consigliabile. Rendere europea la questione è del resto faccenda abbastanza rilevante per i nostri partner mediterranei, irricevibile per quelli del Nord e dell’Est (Ungheria in testa), del tutto vitale per noi: pena il collasso del nostro già sgangherato sistema di accoglienza e della nostra già precaria convivenza civile sotto la pressione di flussi che, salvo correzioni, torneranno fuori controllo. I migranti enfatizzano le lacerazioni ancora assai profonde di un’Europa a 27 diverse sensibilità, nella quale il particulare di ciascuno blocca tutti gli altri (l’ultimo stop ai ricollocamenti viene dall’Austria) e che solo il comune choc della pandemia ha in parte rammendato; un’Europa che svela tutta la propria suicida debolezza disinteressandosi della frontiera mediterranea italiana. Intendiamoci: qualche formale parola di solidarietà non ci è stata negata nemmeno stavolta, prima e durante l’incontro portoghese cui ha partecipato in collegamento la nostra Luciana Lamorgese, alle prese con l’approssimarsi di un’estate di sbarchi e con il temuto tracollo di Lampedusa (21 imbarcazioni approdate in poche ore). La commissaria europea Ylva Johansson ha invitato gli altri membri della Ue a “supportare l’Italia”, ma poi ha ammesso che “facciamo progressi piuttosto lentamente”. Fonti Ue hanno spiegato quindi che non ci sono impegni specifici, almeno per ora. Insomma, un cerotto di belle chiacchiere, per avviluppare la prima istanza della nostra ministra, che non manca certo di pragmatismo e vorrebbe almeno tornare in via provvisoria a un principio di redistribuzione degli arrivi simile a quello sancito nel summit di Malta del settembre 2019 (su base volontaria e pur limitato ai soli richiedenti asilo, parte minima dei flussi sulle nostre coste). Purtroppo, le cose da allora sono addirittura peggiorate. In ragione del Covid-19, che certo non spinge verso l’apertura. E a causa della freddezza della Germania, dove le elezioni di settembre potrebbero sconsigliare ad Angela Merkel slanci solidaristici (è vero tuttavia, per converso, che un eccesso di egoismo della cancelliera, ormai a fine corsa, potrebbe persino spingere gli elettori più europeisti verso i Verdi, in grande ascesa e molto disponibili al dialogo). Ciò che lascia di stucco sulle migrazioni (mentre fonti dei servizi sussurrano al nostro governo di settantamila poveretti già pronti sulla costa libica a farsi impacchettare in qualche carretta del mare dagli scafisti) è constatare come il tema venga sempre affrontato da tutti gli attori del dramma quasi fosse una prima volta, un inedito assoluto, trattando da emergenza un dato strutturale da almeno due decenni: i grandi movimenti migratori di questa nostra era globalizzata. È un’illusione ottica che colpisce noi giornalisti per primi, condannati a una coazione a ripetere fin nelle virgole. Dieci anni fa scrivevamo della “collina della vergogna” dove, appena sopra il porto di Lampedusa, s’erano accampati poco meno di seimila profughi; oggi, cronache giustamente indignate narrano del “molo della vergogna”, il Favaloro, sempre a Lampedusa, dove si replicano quasi le stesse scene a fronte di un centro d’accoglienza pieno sei volte la propria capienza. “Naufragio di clandestini, cinquanta dispersi”, era un terribile titolo dell’8 marzo 2002, sulla morte di donne e bambini migranti a un pugno di miglia da Lampedusa. “Morti in 130, le Ong accusano Tripoli” è il titolo del 23 aprile di diciannove anni dopo. In mezzo, un’ecatombe che solo dal 2014 è costata la vita a ventunomila persone, ha ricordato la Johansson. Abbandonati dall’Europa e imprigionati nella camicia di Nesso del regolamento di Dublino (che vincola il migrante al Paese di primo approdo: assai spesso l’Italia, dunque, vista la posizione nel Mediterraneo), abbiamo a nostra volta fatto del nostro peggio. Sposando la visione più emergenziale possibile dell’accoglienza, abbiamo privilegiato strutture elefantiache, dalla gestione opaca e (solo sulla carta) provvisorie piuttosto che agili insediamenti di seconda istanza nei Comuni (gli Sprar, oggi Sai). Abbiamo fatto del problema, anziché un terreno bipartisan da curare nell’interesse della comunità, un campo di battaglia tra una destra portata a lucrare sulle paure degli italiani, enfatizzandole a ogni sbarco, e una sinistra determinata a ignorarle, derubricandole a ubbie insensate. Abbiamo pagato i libici (così come Erdogan al limite della rotta balcanica) per tenere a bada i profughi nel Mediterraneo al posto nostro. E questa sembra, nel breve termine, la linea che finirà per prevalere ancora, forse in accordo con l’Europa. Un’idea pessima. Sia per evidenti ragioni umanitarie (i campi di detenzione in Libia sono uno scandalo difficilmente tollerabile, i guardacoste tripolini sono in odore di pirateria), sia per meri motivi utilitaristici: dare a un buttafuori il compito di sbrigare le nostre faccende più sgradevoli significa attribuirgli (Erdogan insegna) un potere di ricatto che ci si rivolterà contro. Esistono responsabilità che vanno assunte in proprio, con coraggio, senza ipocrisie. Un’Unione degna della sua storia di civiltà, che dopo la pandemia si pone giustamente il problema di quanto blu sia il mare, non avrà vita lunga se non affronta con umanità e rigore anche la questione di quanto rossi siano i suoi fondali. Gran Bretagna. Il viaggio di Marta: “Messa in cella come una criminale” di Antonello Guerrera La Repubblica, 13 maggio 2021 Il racconto di Marta, italiana detenuta alla frontiera a Londra. La testimonianza di una 24enne pugliese, fermata a Heathrow perché “migrante senza visto lavorativo” nell’era post Brexit: “Mi hanno sequestrato tutto, anche il cellulare per non divulgare foto o video”. Poi la prigione: filo spinato, sbarre alle finestre”. Con lei anche una ragazza toscana, “detenuta da 5 giorni”. Fino al 31 dicembre 2020 italiani ed europei potevano entrare facilmente in Regno Unito per cercare lavoro o per piacere. Dopo la concretizzazione della Brexit, invece, se non si hanno il visto e i documenti giusti si può essere rinchiusi in un carcere, anche per diversi giorni come capitato a decine di italiani ed europei dal 1 gennaio, “scoppiare a piangere” e vivere “un incubo completo”. Regola numero uno della prigione: niente foto né video, e dunque cellulare sequestrato. Lo racconta, a Repubblica, Marta Lomartire, 24 anni, originaria di un paesino vicino a Taranto e laureata in Progettazione artistica dell’impresa all’Accademia di Belle Arti di Verona. Qualche settimana fa, Marta è stata detenuta dalle autorità di frontiera britanniche che l’hanno fermata all’aeroporto di Heathrow, trasferita in piena notte nel vicino “Immigration Removal Centre” di Colnbrook (definito una “prigione” persino da Google Maps) e infine, dopo un giorno, espulsa su un volo per Milano. “Sono stati proprio gli agenti di frontiera a Heathrow ad annunciarmi che mi avrebbero mandato in “prison”, prigione, come ho capito da Google Traduttore, perché l’inglese ancora non lo parlo bene”, ci racconta al telefono Marta. “Non me ne capacitavo. Non avevo fatto nulla di male. Credevo di avere la documentazione giusta. E invece: filo spinato sulla mura intorno, sbarre alle finestre, cancelli enormi blindati. È stato uno shock. Una volta entrata, sono scoppiata in un pianto terribile, perché per me era inconcepibile. E loro mi dicevano: “Tranquilla sei al sicuro”. Ma io pensavo: “Come posso essere al sicuro in un posto del genere?”“. Lo scorso gennaio, proprio al centro di Colnbrook, c’è stato un cluster di Covid, mentre un’inchiesta del Guardian del 2015 ha raccontato come in questo carcere “non ci sono finestre, non c’è aria, qui tutti soffrono di disturbi mentali”. Simili “Immigration Removal Centre” in Inghilterra, come quello di Harmondsworth, sono stati messi sotto accusa per “negligenza” dopo la morte di un rifugiato nigeriano, il 34enne Oscar Lucky Okwurime, in stato di detenzione. Il cugino di Marta, Giuseppe Pichierri, italiano, medico e microbiologo della sanità pubblica inglese “Nhs” e residente a Londra da quasi 15 anni, è esterrefatto da quanto successo: “Siamo furiosi e indignati, inclusi mia moglie e mio suocero inglesi, che non si capacitano di quello che sta accadendo al loro Paese”. Pichierri ha provato a far uscire Marta su cauzione, ma senza successo: “Eppure siamo residenti qui”, spiega, siamo tutti persone rispettabili, avrebbero dovuto concederci il bail, come è capitato ad altri. Non solo: avevamo parlato anche con il deputato conservatore Paul Scully, che rappresenta la circoscrizione di Londra dove viviamo, e ci avevano assicurato che non ci sarebbero stati problemi”. Invece sì. Giuseppe aveva fatto avere a sua cugina Marta una lettera a sua firma per superare la frontiera britannica e farla entrare come ragazza alla pari, accogliendola per qualche tempo nella sua famiglia. Causa Covid e sospensione del turismo e viaggi di piacere, negli ultimi mesi per i non residenti in Regno Unito è stato possibile entrare solo per lavoro. Purtroppo, però, serve anche un visto lavorativo, che Marta non aveva chiesto preventivamente. La lettera di Giuseppe, che oltre a un ricongiungimento familiare presupponeva anche un lavoro per sua cugina e la possibilità di un compenso, non è stata ritenuta sufficiente dalle autorità di frontiera. Che anzi hanno applicato alla lettera le nuove norme approvate dal Ministro dell’Interno del governo di Boris Johnson, la “falca” euroscettica Priti Patel. La quale è lei stessa figlia di immigrati rifugiati, ma ha sempre avuto il pugno durissimo contro l’immigrazione irregolare. Negli ultimi mesi, Patel ha più volte ripetuto “grazie alla Brexit, basta corsie preferenziali agli europei, a loro si applicheranno le norme di tutti gli altri”. Pichierri ribatte: “Marta il visto non lo aveva perché non c’è ancora una procedura regolare per ragazze alla pari, nessuno sa quale visto serva, nemmeno Priti Patel. Non lo sa nessuno perché non c’è. Hanno distrutto le regole prima di chiarirle. E questo non riguarda solo au pairs e simili, ma anche altri lavori dall’Ue”. Interpellato da Repubblica, il ministero dell’Interno britannico, che non commenta sui singoli casi, ha risposto che “i cittadini Ue sono nostri amici e hanno il diritto di restare se residenti nel Regno Unito prima del 31 dicembre 2020. Chi è arrivato dopo deve invece dimostrare di averne diritto e attenersi alle nuove regole comunicate in ogni Paese Ue, nella propria lingua”. Sulle condizioni degli ospiti dei centri, l’Home Office ci ha rimandato a linee guida che però non parlano né di sbarre, né di sequestro dei cellulari. A quanto si apprende, l’Home Office sta lavorando con urgenza su questi casi. Se fino a pochi mesi fa si applicava la libera circolazione dei cittadini europei anche nel Regno Unito, allo stesso tempo ben pochi italiani o europei pensavano che, nonostante il nuovo corso, potessero rischiare di essere sbattuti in un carcere. Invece, se non si hanno i documenti giusti, è proprio così, come ci racconta Marta. “Sono partita la mattina del 17 aprile da Brindisi, ho fatto scalo a Milano e sono arrivata a Londra nel pomeriggio, dove sarei stata a casa dei miei cugini”. E poi cos’è successo, Marta? “Mi hanno controllato i documenti: gli ho mostrato la lettera di mio cugino per essere ragazza alla pari, con tutte le mansioni che avrei ricoperto. Era il mio primo viaggio internazionale, non sapevo che avessero cambiato le regole. Ho provato a spiegare che il datore di lavoro era mio cugino e che sarei stata con la sua famiglia. Poi però mi hanno sequestrato valigia ed effetti personali, mi hanno perquisito, fatto domande, chiusa in una stanzetta sotto sorveglianza in aeroporto. Fino alle 4 di mattina”. Quindi l’hanno trasferita nel centro di espulsione? “Sì, perché mi hanno detto che non sarebbe stato possibile rimanere in quella stanzetta in aeroporto per 24 ore. Così, in piena notte, mi hanno trasferito in una stanza “con più agevolazioni”. Anche se poi mi hanno detto: “È una prigione”“. Le stesse autorità di frontiera lo hanno ammesso? “Sì, Google Traduttore, con il quale comunicavamo, diceva prison, prigione”. E ci assomigliava molto? “Sì. Filo spinato lungo le mura, sbarre alle finestre e questi cancelloni enormi blindati... È stato abbastanza uno shock. Non me ne capacitavo: “Sono in prigione!”. Sono scoppiata in un pianto terribile. Ho chiesto alle guardie di vedere mio cugino Giuseppe, anche in loro presenza, anche perché lui sa l’inglese molto bene. Ma inizialmente me lo hanno negato”. Non poteva telefonare a Giuseppe? “No, perché mi hanno sequestrato il cellulare. Mi hanno detto che non potevo tenere con me il mio telefono perché, avendo una fotocamera, temevano che avessi potuto girare video o scattare foto. Mio cugino e la mia famiglia non sapevano che fine avessi fatto. Successivamente, mi hanno fornito un vecchio telefono senza fotocamera. Ma non aveva credito. Ho provato a ricaricarlo, ma io avevo solo euro e loro accettavano solo sterline. Allora ho chiamato Giuseppe dai telefoni pubblici della prigione e così è riuscito a trovarmi”. Durante la detenzione le hanno sequestrato tutto? “Tutto. Valigia, portafogli, soldi, telefono: tutti i miei averi sono stati messi in bustine siglate con il mio nome. Mi è stato chiesto se mi servissero indumenti per passare la notte. Somiglia molto a un carcere, anche se le autorità lì fanno di tutto per rassicurarti. Ma ogni volta che fai un passo, sei seguito da una guardia. Le porte sono blindate. E poi le perquisizioni. Ho perso il conto di quante perquisizioni mi sono state fatte” Anche dopo esser entrata nel centro? “Sì sì, sono stata perquisita da capo a piedi. E mi hanno preso impronte digitali e foto”. Com’era la stanza dove ha passato la notte? “Sbarre alla finestra, c’erano tre lettini ma ero l’unica ospite. Due scrivanie e una porta blindata con una finestrella tonda. Ho chiesto il favore di non chiudere a chiave la porta, perché mi sarei sentita ancora peggio. Hanno acconsentito”. Quanto tempo è rimasta nel centro? “Nella sfortuna sono stata fortunata, perché mi hanno trovato un volo verso l’Italia il giorno dopo. Sono ripartita domenica 18 aprile alle 19. Sono rimasta in quel centro di detenzione circa 12 ore. Mi hanno scortata fino a quando mi sono seduta in aereo, per essere certi che venissi espulsa. Solo all’imbarco al gate mi hanno riconsegnato gli effetti personali, la valigia e lo smartphone, poco prima di salire sull’aereo. Il passaporto, invece, l’ho ricevuto una volta atterrata a Milano”. Ha visto altre ragazze nel braccio femminile di Colnbrook? “C’era un’altra giovane italiana, della Toscana, non ricordo il suo nome. Ricordo però che aveva anche lei 24 anni ed era lì da addirittura cinque giorni. Neanche lei sapeva perché. Secondo lei, non le era stato fornito un aereo di rientro subito, perché il biglietto di ritorno costava più di quanto pagato da lei. Ma non ne sono sicura”. In che stato si trovava questa ragazza? “È stata da sola per quattro giorni, poi al quinto altre due ragazze sono arrivate nella sua stanza. Mi ha detto che i primi giorni stava impazzendo, “un incubo completo”. Anche a lei avevano sequestrato il cellulare e non ricordava i numeri di telefono a memoria dei familiari che poteva chiamare. Ha dovuto aspettare che la trovassero loro”. Ora avrà il passaporto marchiato dall’espulsione. “Sì, c’è un timbro dell’aeroporto di Heathrow con la data e una croce sopra”. Questo potrà essere un problema in futuro, se vorrà trasferirsi a lavorare in altri Paesi. “Spero di no, almeno così mi hanno assicurato. Ma è chiaro che il prossimo agente di frontiera che vedrà quella “X” sul passaporto mi tratterà con molto più sospetto di altri”. Medio Oriente. Quel conflitto senza fine che ci rende tutti più stupidi di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 13 maggio 2021 Perché l’eterna contesa israelo-palestinese, più di qualsiasi altro conflitto mai apparso sul nostro pianeta, suscita così tante passioni e chiamate alle armi tra chi quel conflitto non lo sta vivendo? È quasi un riflesso condizionato che affiora ogniqualvolta la crisi si riaccende e balza in cima alle cronache: l’opinione pubblica occidentale si divide, si arruola e si posiziona automaticamente dietro le rispettive trincee. Chi con l’elmetto, chi con le cartine geografiche sguainate come spade, chi con i libri di storia, tutti con il ditino puntato contro gli avversari. E con il catalogo prestampato di insulti e illazioni da rovesciare in faccia all’ “altro”: “Antisemita!”, “Imperialista!”, “Terrorista!”, “Genocida!”. Se critichi Israele vuoi la sua distruzione, se critichi la leadership palestinese sei complice dell’occupazione, se ti capita di sospendere il giudizio vieni bastonato da entrambe le parti. Non ci sono se, non ci sono ma, non ci sono sfumature: bisogna schierarsi e basta. E se a volte rimani in mezzo sei semplicemente un “vigliacco” o un “indifferente”. Ribaltando Marx è come se nella nostra società fosse lievitata una specie di general sultification, un retroterra cognitivo distorto che accompagna e ammorba qualsiasi discussione sulla crisi in Medio Oriente. Prima dell’avvento dei social-network il monopolio della logomachia apparteneva ai media maistream e al dibattito ristretto “tra intellettuali”. Certo, all’epoca esisteva ancora la politica di massa e ci si lacerava nelle sezioni, nelle piazze, a cena con gli amici. Il perimetro era più angusto, ma il climax del tutto identico a quello di oggi. A proposito, il sottoscritto ha assistito ad amicizie miseramente naufragate nei fumi della polemica partigiana. E stiamo parlando di persone che non hanno mai avuto nessuna implicazione personale in quella guerra di cui conoscono i sommi capi tramite immagini video e la lettura di articoli consumati unicamente per confermare le proprie opinioni di partenza. C’è qualcosa di profondamente sgradevole in questa replica h24 del conflitto riprodotto dai caldi salotti delle nostre case, dalle tastiere di telefoni e pc, uno zelo piccolo borghese che si nutre di tragedie lontane per alimentare il rancore, la frustrazione domestica e la propria spocchia ideologica. Mai come in questo caso la parola “strumentalizzazione” sembra così appropriata per descrivere il bullismo saccente con cui viene affrontato il dossier israelo-palestinese da chi, invece, dovrebbe avere il buon gusto di fare un passo indietro, forse anche due visto che non gli piovono in testa i missili. Ma forse c’è di più: quel dramma geopolitico dev’essere in qualche modo anche un luogo della psiche. Un luogo cupo dove regnano il rancore e la regressione tribale, qualcosa che ci rende più stupidi ma di cui evidentemente abbiamo bisogno. Non si spiegano altrimenti l’accanimento e la tenacia con cui ognuno blinda le sue certezze e le sue convinzioni. Abbiamo visto cattolici convertiti all’islam, musulmani convertiti al cristianesimo, religiosi diventati atei, socialisti diventati fascisti, comunisti diventati liberisti e così via, ma praticamente mai un sostenitore di Israele ha cambiato opinione per abbracciare la “causa palestinese” e viceversa mai un pro-Palestina ha provato a interrogarsi sulle “ragioni di Israele”. Soltanto i tifosi delle squadre di calcio (che a parte alcuni casi clinici come Emilio Fede e Marco Travaglio non si cambia mai nel corso di una vita) vivono la loro appartenenza con tanto ribaldo dogmatismo. “Sono il più filo-arabo degli amici di Israele”, disse un giorno il presidente francese Jacques Chirac: oggi verrebbe infilzato da entrambe le falangi della general stultification. Medio Oriente. Razzi, bombe e scontri. Da Tel Aviv a Gaza la guerra dei due fronti di Sharon Nizza La Repubblica, 13 maggio 2021 Viaggio a Lod, la città teatro della rivolta della minoranza araba: bruciate le sinagoghe. Uccisi nella Striscia 4 capi militari di Hamas: morti almeno 65 palestinesi e 6 israeliani. Nelle ore drammatiche in cui il confronto tra Israele e Hamas degenera senza ancora assumere formalmente il titolo di guerra, la battaglia per lo Stato ebraico si divide su due fronti: la Striscia di Gaza, da dove continua ad arrivare una pioggia di missili, mentre non si placano i pesanti bombardamenti israeliani. Ma c’è anche il fronte domestico, con rivolte violente a Lod, Gerusalemme, Ramla, Acri, Haifa, le città a popolazione mista da dove arrivano immagini che rievocano l’inizio della Seconda Intifada dell’ottobre 2000. Le scene degli scontri nella Moschea di Al Aqsa, virali sui social, fanno scendere per le strade folle di giovani arabi arrabbiati. A Lod, 80.000 anime, ebrei e musulmani che convivono a fasi alterne, sembra si concentrino tutte le tensioni che il Paese sta vivendo nelle ultime settimane. Scene di vera e propria guerriglia urbana hanno portato il premier Netanyahu a dichiarare lo stato di emergenza. Dalle 20:00 di ieri è in vigore un coprifuoco notturno, proprio mentre ha inizio Eid al Fitr, la festività che chiude il mese del Ramadan. La polizia si prepara a usare il pugno duro. Trenta auto, una sinagoga e due scuole di studi ebraici sono stati dati alle fiamme, presi d’assalto dalla folla che lancia sassi e molotov e issa una bandiera palestinese al posto di quella israeliana in un parco pubblico. Ebrei barricati in casa lamentano l’assenza della polizia fino a che parte lo sparo che fa una vittima tra gli assalitori. Il giovane ebreo che ha sparato è agli arresti, e la sua comunità protesta perché invece “tra gli arabi non è stato arrestato nessuno”. La polizia in serata comincia a effettuare i primi fermi anche tra gli arabi. Come previsto, diversi giovani sfidano il coprifuoco, e nuovi scontri sono inevitabili. Anche Akko brucia e in un tentativo di linciaggio rimane ferito gravemente un ebreo. Pogrom, li ha definiti il presidente Rivlin, chiedendo una chiara condanna da parte della leadership araba. Nel clima avvelenato che si respira, un gesto importante arriva da Mansour Abbas, leader del partito islamista Ra’am, che, in arabo, invita i manifestanti a fermare le violenze. Mantiene così il suo potere negoziale nelle trattative per la formazione di un governo che Yair Lapid cerca di mandare avanti mentre il Paese dà segnali di andare verso una campagna più lunga e fatale di quanto ci si aspettasse. In un messaggio diretto ai palestinesi tramite i social media, il ministro della Difesa Benny Gantz minaccia che “se Hamas non cessa le violenze, Gaza subirà un colpo più duro di quanto inflitto nel 2014”. Nella seconda giornata dall’inizio dell’escalation, l’aviazione israeliana riduce in macerie altri palazzi interi nella Striscia di Gaza, da cui vengono fatti evacuare per tempo gli inquilini. Secondo quanto riferito dal portavoce dell’esercito, gli obiettivi ospitano quartier generali dell’intelligence di Hamas, che continua nella pratica di stabilire le proprie infrastrutture nel cuore della popolazione civile. Il ministero della Salute di Gaza riporta 65 vittime, tra cui 16 bambini. Israele rivendica ieri l’uccisione di quattro operativi tra i vertici di Hamas, appartenenti alla cerchia di Mohammad Deif, il comandante delle Ezzedin al-Qassam. Tra questi anche Bassem Issa, il comandante della divisione di Gaza City e Jomaa Tahla, capo dell’unità cyber. A oggi, più di mille missili hanno colpito Israele, raggiungendo anche la periferia di Tel Aviv e provocando 7 morti, l’ultimo un bambino di 5 anni. Le sirene non cessano di suonare per tutto il giorno, anche mentre siamo a Lod, a pochi chilometri dall’aeroporto Ben Gurion. Qui, la notte di martedì, durante uno degli attacchi più pesanti, un missile aveva fatto due nuove vittime: padre e figlia sedicenne, arabi israeliani. Come dice Umm Yousef, con cui ci troviamo a cercare riparo mentre suona nuovamente la sirena, “i missili non distinguono tra ebrei e musulmani. Hamas dovrebbe tenerlo a mente”. Medio Oriente. David Grossman: “A rischio il fragile equilibrio di Israele: così perdiamo tutti” di Francesca Caferri La Repubblica, 13 maggio 2021 L’intervista allo scrittore: “La violenza fra arabi israeliani ed ebrei è orribile: spezza ogni idea di coesistenza, la speranza di vivere l’uno accanto all’altro”. Ansia. Delusione. Amarezza. E anche paura: c’è tutto questo nella voce di David Grossman, uno dei maggiori scrittori israeliani contemporanei, quando risponde al telefono dalla sua casa non lontano da Gerusalemme. “Abbiamo avuto quattro esplosioni abbastanza vicine da sentirle con chiarezza. Vicinissime a luoghi dove ci sono mio figlio, mia nipote, alcuni amici. Ho 67 anni e ho vissuto diverse situazioni estreme: ma questa è una delle peggiori”. Grossman, lei è un attento osservatore della realtà del suo Paese: riesce a spiegarci come ha fatto la situazione a precipitare tanto in fretta? “Se guarda alle operazioni militari a cui abbiamo assistito dal 2006 ad oggi, sono tutte nate in fretta. È un accumularsi di minacce, rabbia, frustrazione: a un certo punto scoppia e ci troviamo improvvisamente nel mezzo di un’operazione militare. O di una vera guerra. La spiegazione è logica, ma non basta per smettere di chiedersi come sia possibile che dopo tutti questi anni siamo ancora prigionieri di questo circolo vizioso, senza che si intraveda una via d’uscita”. Questa volta però c’è un elemento diverso: gli scontri fra cittadini arabi israeliani e cittadini ebrei israeliani sono a un livello mai raggiunto prima... “È una situazione estremamente pericolosa: quando parliamo di arabi israeliani, parliamo di un quinto della popolazione israeliana. Persone che sulla carta hanno tutti i diritti, ma che nella realtà si vedono negate moltissime cose: basti pensare alla legge che dichiara Israele Stato nazione degli ebrei e che fa degli arabi quasi cittadini di serie B. O al bilancio dello Stato, che non stanzia mai per queste comunità fondi sufficienti per combattere criminalità e violenza: magari perché fa comodo a molti che la comunità araba sia afflitta da questi problemi. E poi ci sono eventi come la marcia che celebra il Giorno di Gerusalemme, in cui i partecipanti danzano con bandiere di Israele dentro la Città vecchia: è come se facessimo qualunque cosa possibile per provocare i palestinesi e dimostrare loro quanto siamo forti noi e quanto sono deboli loro. Lunedì scorso Benjamin Netanyahu ha ordinato di cancellare la marcia solo all’ultimo minuto: ma l’incendio era già acceso e le scintille si sono diffuse. Hamas le ha colte come pretesto per dichiararsi protettore di Gerusalemme e ha appiccato il fuoco. È una violenza orribile quella di cui mi chiede perché spezza ogni idea di coesistenza, il sottile filo che si era creato negli anni e che faceva pensare che gradualmente saremmo riusciti a vivere l’uno accanto all’altro. Per la prima volta dopo le ultime elezioni un partito arabo era nella posizione di poter influenzare la scelta su chi sarebbe stato primo ministro. Un segnale importante, ma non è bastato”. Perché? In fondo, il successo del partito islamista Raam è stato il vero elemento di novità dell’ultimo voto... “Dobbiamo guardare al fenomeno globale. E il fenomeno globale ci dice che, dopo 73 anni dalla creazione dello Stato di Israele, la maggioranza ebraica ha generosamente concesso a un partito arabo-israeliano di giocare un ruolo nella costituzione di una coalizione. È una cosa ridicola: ci abbiamo messo 73 anni a legittimare i nostri concittadini. E non è neanche una posizione condivisa da tutti: quante volte in questi mesi abbiamo sentito le parole: “Mai con l’appoggio degli arabi”. Ora chiunque abbia aperto alla possibilità di collaborare con loro è accusato di essere un traditore”. Questa posizione però è il risultato anche di anni di assenza di dibattito pubblico: la soluzione dei due Stati è tramontata, ma al suo posto non si è affermata un’idea alternativa. Il dibattito fra i due lati si è fermato, è come se anche chi come lei per anni ha parlato di pace avesse perso la speranza: è così? “Abbiamo parlato per decenni con i palestinesi e non siamo arrivati da nessuna parte. Chi per anni ha sostenuto il dialogo è stato delegittimato dall’assenza di risultati e oggi è visto come una sorta di traditore. Da entrambi i lati, crescono solo gli elementi più violenti ed estremisti. Si nutrono l’uno dell’altro: ogni volta che c’è un conflitto lo usano per legittimare le loro posizioni estremiste”. Ha visto tante crisi simili, come crede che finirà questa? “Per esaurimento, come sempre. Uno dei due lati a un certo punto non ce la farà più e inizierà una mediazione: bisognerà solo vedere quante persone moriranno nel frattempo. In una situazione che sarebbe potuto essere prevenuta”. All’inizio di questa intervista, lei ha parlato di paura: vorrei chiudere chiedendole qual è oggi la sua paura maggiore... “È facile risponderle. Vedo il fragile equilibrio su cui si basa la società israeliana a rischio oggi: e so che se non riusciremo ad arrivare a uno Stato in cui le due comunità si sentiranno a casa, perfettamente uguali, e potranno contare sul fatto che le loro vite hanno lo stesso peso sulla bilancia, avremo perso tutti. Solo se la minoranza arabo- israeliana si sentirà protetta e la maggioranza di religione ebraica non minacciata, ci sarà la possibilità di creare qualcosa di valore e si ridurrà lo spazio per la violenza. Da entrambe le parti. È il mio sogno, la mia speranza, e oggi il mio timore maggiore è che si spezzi”. Colombia. Il presidente “giovane” odiato dai giovani fino a morire di Santiago Torrado La Repubblica, 13 maggio 2021 Ivan Duque, salito al potere a 42 anni, è il leader meno anziano della storia recente del paese, ma si è alienato il favore dei ragazzi: il 74% nella fascia 18 -25 anni ha un’opinione negativa di lui. E hanno pagato un prezzo alto di vite nella repressione sanguinosa delle proteste contro il governo. I giovani colombiani sono in prima linea nelle proteste contro il governo di Iván Duque, proteste che hanno portato a scontri con le forze di polizia nelle strade. I manifestanti hanno messo nell’angolo l’esecutivo, al punto da costringerlo a ritirare la bozza di riforma tributaria che ha dato origine alle mobilitazioni. Sono giovani anche le 24 vittime che si sono registrate nell’arco di una settimana fra i partecipanti ai cortei, indetti nel quadro dell’autoproclamato sciopero nazionale. Gli interventi brutali delle forze di polizia sono stati condannati dagli organismi internazionali. “Ci stanno uccidendo”, una delle frasi che campeggiano sugli striscioni delle manifestazioni che si sono succedute in Colombia durante il mandato di Duque, il presidente oggi in grave crisi di popolarità, prima era riferita ai continui assassini di leader sociali che avvenivano nelle zone più remote del paese, oggi invece indica anche le giovani vittime degli scontri nelle città e i numerosi episodi di uso eccessivo della forza che si sono verificati durante le proteste. Un altro slogan molto popolare è “voglio studiare per cambiare la società”. I manifestanti si sono riversati nelle strade nonostante nel paese infuri la pandemia e la terza ondata di contagi stia portando gli ospedali al collasso. “C’è gente che muore di fame, non solo di Covid… La peggiore pandemia è il razzismo,” ha detto Isamari Quito, una studentessa di diritto di vent’anni legata alle organizzazioni degli afro-colombiani, durante una delle prime manifestazioni a Bogotá. “In pratica ci danno la caccia,” ha aggiunto Luna Giraldo Gallego, studentessa universitaria nella città di Manizales, che dal 28 di aprile scende in piazza tutti i giorni e più di una volta ha respirato i gas lacrimogeni lanciati dagli Esmad, i reparti antisommossa. Stando ai sondaggi, sembra che Duque abbia decisamente perso l’appoggio dei giovani. In un’indagine recente di Cifras y Conceptos, il 74% degli intervistati fra i 18 e i 25 anni ha dichiarato di avere un’opinione negativa del presidente. Duque, 44 anni, è il più giovane presidente della storia recente della Colombia e, pur essendo arrivato al potere a 42 anni compiuti, fin dalla campagna elettorale ha manifestato idee apertamente conservatrici. Questo paradosso ha aleggiato su tutto il suo mandato ed è apparso ancor più evidente durante questa settimana di disordini. Il governo ha aperto al dialogo politico, con l’obiettivo di arrivare a una riforma condivisa, ma la mobilitazione non si è fermata e i giovani rappresentano una parte fondamentale dello scontento verso l’esecutivo del Centro Democrático, il partito di governo fondato da Álvaro Uribe. L’ex presidente ha dichiarato che polizia e militari hanno il diritto di usare le armi contro i manifestanti. “Bisogna dialogare con le persone che scendono in piazza, si tratta per lo più di giovani che non studiano e non lavorano, giovani dolorosamente consapevoli di non avere un futuro e che non si sentono ascoltati,” ha dichiarato mercoledì la sindaca di Bogotá, Claudia López, riferendosi al difficile processo innescato dal governo nazionale. Le notti di scontri nella capitale hanno prodotto centinaia di feriti e durante le mobilitazioni un gruppo di persone a volto coperto ha abbattuto le recinzioni di sicurezza che circondano il Campidoglio, sulla Plaza de Bolivar. Alcuni parlamentari sono stati evacuati a titolo precauzionale. Secondo l’ufficio del difensore civico, che ha pubblicato anche una lista con decine di dispersi, il bilancio di questa settimana di proteste in diverse città della Colombia è di 24 morti, mentre Human Rights Watch ha ricevuto 31 denunce di decessi. “La sensazione è che questo governo, nonostante sia guidato dal presidente più giovane della storia, insista su idee obsolete, superate, di seconda mano,” dice Jennifer Pedraza, 25 anni, rappresentante studentesca dell’Università Nazionale e membro del Comitato per lo sciopero, organo che riunisce le varie organizzazioni promotrici delle manifestazioni. Annuncia che, nonostante la riforma tributaria sia stata ritirata, la mobilitazione continuerà fino a quando l’esecutivo non garantirà il diritto costituzionale alla protesta e non demilitarizzerà le città. “Uscire a manifestare con questo governo è un’attività ad alto rischio,” si lamenta. La popolazione colombiana in generale e i giovani in particolare, assicura, si aspettano un cambiamento. “Anni di governi repressivi e con un approccio economico molto rigido, invece di rendere la vita più facile alle nuove generazioni l’hanno resa molto più difficile”. I giovani sono uniti dal disincanto, dal rifiuto della classe politica e da un profondo malessere nei confronti del governo. I protagonisti dell’ondata di proteste che ha scosso il paese alla fine del 2019 erano gli studenti delle università pubbliche e private. Con la loro azione collettiva “hanno ottenuto un risultato titanico in un paese in cui la norma sono cinismo e scetticismo, sono riusciti a ispirarci,” scrive la politologa e internazionalista Sandra Borda in Parar para avanzar, il suo libro sul movimento studentesco. Questa nuova ondata di proteste però è diversa. La pandemia e i lockdown hanno fatto aumentare le disuguaglianze e hanno reso più difficile l’accesso all’istruzione, alla salute e persino al cibo, rendendo anche meno controllabili le proteste sociali. Sono manifestazioni più spontanee ed emotive, che sfuggono al controllo delle organizzazioni sindacali o studentesche e potenzialmente, come si è visto negli ultimi giorni in città come Bogotá o Cali, più violente. Molti di questi giovani non sono integrati nel sistema educativo né in quello lavorativo. Le loro famiglie sono emarginate e prive di reti di appoggio. “Sono manifestazioni per la sopravvivenza. Si tratta di giovani molto più al limite, che provengono da quartieri nei quali il rapporto con la forza pubblica è pessimo,” aggiunge Borda. Il dialogo proposto dall’esecutivo di Duque presenta problemi che agli occhi di questi giovani sono difficili da superare, in primis la repressione attuata dalle forze di sicurezza. “Non puoi chiedere alle stesse persone che uccidi per le strade di sedersi intorno a un tavolo. C’è un problema di credibilità enorme”.