Incontro dei laboratori di scrittura e delle attività di informazione dal carcere e sul carcere Ristretti Orizzonti, 12 maggio 2021 Ai responsabili dei laboratori di scrittura e delle attività di informazione e sensibilizzazione dal carcere e dall’area penale esterna: ci incontriamo in videoconferenza il 13 maggio alle 15.30. Segnalando l’adesione all’iniziativa alla mail ornif@iol.it riceverete il link ZOOM. Gentili tutti, abbiamo ricevuto da Francesco Lo Piccolo, giornalista, direttore del periodico “Voci di dentro”, realizzato con i detenuti delle Case circondariali di Chieti e Pescara, un invito a promuovere una videoconferenza per rilanciare le nostre attività. Noi della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ci occupiamo da anni di informazione e comunicazione, in particolare con il Festival della comunicazione dal carcere e sul carcere, e quindi accogliamo volentieri questo invito e vi chiediamo di manifestarci il vostro interesse a partecipare a un incontro web (indicativamente da tenersi tra il 15 e il 28 di questo mese) e a contribuire a rilanciare queste complesse attività, anche in considerazione dell’uso delle tecnologie, che riteniamo vada promosso con forza negli istituti di pena. Per la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Ornella Favero, presidente Carla Chiappini, responsabile della comunicazione Da Voci di dentro Onlus Da un anno tutte le attività delle associazioni di volontariato sono sospese o in casi più fortunati sono ridotte al minimo. In tutte le carceri anche i laboratori via web, compresi quelli di scrittura e per la realizzazione dei giornali, hanno subito drastiche battute d’arresto. In molti casi sospeso anche il servizio di prenotazione e distribuzione dei libri e altrettanto è stata ostacolata la stessa comunicazione dentro-fuori. Per motivi di sicurezza a causa dell’emergenza Covid, dal carcere è stata così estromessa la società civile, che comunque già prima della pandemia era spesso considerata come subalterna all’Istituzione. A titolo di esempio diciamo solo che nel carcere di Pescara era in piedi un progetto in un’area non utilizzata e da noi trasformata in uno spazio aperto con laboratori quotidiani di scrittura, teatro, fotografia, computer, musica, sartoria tenuti da 15 tra volontari e studenti tirocinanti per una quarantina di detenuti. Progetto chiuso dopo tre anni nel 2019 e trasformato in un unico laboratorio di scrittura due volte a settimana e limitato a soli 5 detenuti. Poi il Covid ha fatto il resto. Nel ritenere che oggi spesso nelle carceri non venga rispettato il dettato della Costituzione (art. 27) e le norme e le osservazioni-indicazioni della Comunità Europea, proponiamo al più presto un incontro di tutte le associazioni impegnate nelle carceri italiane con laboratori di scrittura, con la realizzazione di riviste e/o giornali del carcere e con altre attività di questo tipo. L’incontro oltre a fornire il quadro esatto della situazione nelle varie carceri, deve essere occasione di confronto e dibattito per giungere anche alla definizione di una linea comune di risposta rivolta al superamento di questa grave situazione, che di fatto ha trasformato le carceri italiane in luoghi di sempre maggior sofferenza per oltre 50 mila persone, e spesso al di fuori della legalità. Francesco Lo Piccolo Diritti in carcere, è l’ora di liberare gli affetti di Sarah Grieco Il Manifesto, 12 maggio 2021 Un Ordinamento penitenziario senza luoghi, tempi e spazi adeguati a garantire il mantenimento di relazioni affettive significative, oltre a produrre i suoi effetti nei confronti dei familiari, spesso “vittime dimenticate”, rischia di compromettere la salute psico-fisica dei detenuti. I contatti con il mondo esterno, attraverso i rapporti con famiglia e la tutela degli affetti, rappresentano il “biglietto da visita” di un ordinamento penitenziario che persegua l’obiettivo del reinserimento sociale del detenuto. Questi lunghi mesi di pandemia nelle carceri italiane sono stati segnati da bisogni insoddisfatti, mancanza di contatto umano, privazione dei più elementari gesti di intimità, come poter stringere una mano o prendere sulle ginocchia il proprio figlio. I colloqui, che in passato erano chiassosi e affollati, sono diventati un banco di prova difficile da superare, soprattutto per gli ospiti più piccoli. Da una recente ricerca che stiamo conducendo con l’Università degli Studi di Cassino in alcune carceri laziali, emerge che tanti bambini, a differenza del passato, non vogliano più entrare in carcere per far visita al loro genitore e che anche i rapporti della persona detenuta con il/la partner siano diventati più formali, meno autentici. Complice un plexiglass, spesso rovinato, che rende sfocate persino le immagini dei propri familiari. Un ordinamento penitenziario senza luoghi, tempi e spazi adeguati a garantire il mantenimento di relazioni affettive significative, oltre a produrre i suoi effetti nei confronti dei familiari, spesso “vittime dimenticate”, rischia di compromettere la salute psico-fisica dei detenuti, come sottolineato dallo stesso Comitato italiano di Bioetica nella relazione del 2019 “Salute dentro le mura”, dove salute e diritto all’affettività, vengono posti sullo stesso piano; quasi che siano da considerarsi complementari. Eppure ogni volta che si cerca di introdurre nel dibattito politico la necessità di uno slancio riformatore in grado di affermare quei diritti “castrati” che fuori dall’Italia sono pacificamente acquisiti, le resistenze non tardano a palesarsi. È quanto sta accadendo con il disegno di legge n. 1876, a tutela delle relazioni affettive intime dei detenuti, su iniziativa del Consiglio Regionale della Toscana, in discussione in Commissione Giustizia e che ha come relatrice la sen. Monica Cirinnà. Si tratta di una proposta che colma una lacuna del Regolamento del 2000 e che finalmente recepisce l’invito della Corte Costituzionale che con la sentenza n. 301 del 2012 spingeva il Parlamento a legiferare. Sono quattro articoli che potrebbero mutare profondamente la qualità della vita di migliaia di detenuti. Sono previste piccole unità abitative senza controllo visivo, viene regolamentato il diritto di visita (una volta al mese per un tempo che va da un minimo di 6 ad un massimo di 24 ore), i permessi familiari vengono previsti non più per gravi motivi ma per eventi rilevanti; viene aumentata la durata e la frequenza delle telefonate, quotidiane e con un tempo che va da 10 a 20 minuti. È infine previsto, molto realisticamente, un tempo di sperimentazione utile per l’adeguamento generalizzato alle nuove norme. Il nostro Parlamento sarà in grado di alzare lo sguardo, proiettandolo verso l’orizzonte delle numerose esperienze europee ed internazionali? Riuscirà ad abbandonare quella visione provinciale che troppo spesso sta caratterizzando la discussione? Stavolta anche il Governo dovrebbe fare la sua parte in questa che è, innanzitutto, una battaglia di diritto costituzionale. La ministra della Giustizia Cartabia, nella sua veste di Giudice costituzionale, rivolgendosi ai detenuti del carcere romano di Rebibbia, in un incontro tenutosi il 4 ottobre 2018, affermava: “Incidere sui rapporti familiari significa spostare l’afflittività della pena anche su persone che non hanno commesso reati. Quando si incide su quel rapporto, si tocca la vita non di una sola persona, ma anche quella di innocenti, tanto più se sono minori”. È proprio il momento per riprendere coraggiose riforme del carcere. Questa è una buona occasione. Bernardini: “Per la ministra Cartabia è prioritario ridurre il numero dei detenuti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 maggio 2021 Rita Bernardini racconta l’incontro avuto con la guardasigilli e con la delegazione composta dall’esponente Radicale, da Luigi Manconi e da Sandro Veronesi. “La ministra Marta Cartabia ha manifestato la convinzione che la priorità è la diminuzione della popolazione detenuta e che, per quanto l’edilizia penitenziaria, i soldi vanno indirizzati per ristrutturare le carceri e non costruirne di nuove”. Così Rita Bernardini spiega a Il Dubbio l’incontro, durato più di un’ora, avuto con la guardasigilli con la delegazione composta dall’esponente radicale, dall’ex senatore Luigi Manconi e dallo scrittore Sandro Veronesi. Per prima cosa l’esponente del Partito Radicale ha presentato i loro dati per quanto riguarda il sovraffollamento carcerario, il discorso delle celle inagibili che dilata ancor di più il numero dei posti disponibili. “Erano presenti anche i due sottosegretari alla Giustizia, in particolare Francesco Paolo Sisto si è reso disponibile per fare una nuova elaborazione del sovraffollamento reale carcere per carcere e presentare alla ministra la reale dimensione del problema”, racconta sempre la Bernardini. Dall’incontro è emersa una chiara, e non inaspettata, visione diametralmente opposta al ministro precedente. Dalle parole, si passerà ai fatti? “C’è una apertura da parte della ministra - spiega Bernardini - sulla necessità delle misure deflattive e c’è una possibilità che l’emendamento di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata, possa essere incardinata nel disegno delega sul penale”. Parliamo, ricordiamo, della proposta di modifica della liberazione anticipata già prevista dall’Ordinamento Penitenziario, che consiste di far passare gli attuali 45 giorni a 60 giorni di liberazione anticipata ogni semestre. Mentre per quella speciale si è in attesa di trovare un provvedimento alla quale agganciarla. Durante l’incontro, come osserva sempre Bernardini, è emerso che la ministra Cartabia, oltre al fatto che bisogna puntare alle misure alternative e non a nuove carceri, è ben coscia dell’importanza dei penitenziari che risiedono nel cuore delle città e non in mezzo al nulla. L’incontro tra le due donne, unite dalla stessa sensibilità sul tema penitenziario, non sarà l’ultimo. Ma il primo di una lunga serie. Ergastolo ostativo, la Consulta dà un anno al Parlamento e consiglia come intervenire di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 maggio 2021 La Consulta ha ribadito che è incostituzionale la preclusione assoluta della liberazione condizionale per chi è all’ergastolo ostativo e non collabora. La preclusione assoluta della liberazione condizionale per chi non collabora con la giustizia è incostituzionale, ma essendo una misura decisamente ben diversa dal permesso premio (poche ore l’anno di “libera uscita”), dovrà pensarci il Parlamento a varare una legge che modifichi l’ergastolo ostativo. Il motivo? Un intervento meramente “demolitorio” della Consulta, potrebbe produrre effetti disarmonici sul complessivo equilibrio di tale disciplina, compromettendo le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il fenomeno della criminalità mafiosa. La motivazione dell’ordinanza n. 97 - Parliamo della motivazione, appena depositata, dell’ordinanza n. 97 (redattore Nicolò Zanon) con cui la Corte costituzionale ha stabilito che spetta, appunto, al Parlamento, modificare questo aspetto della disciplina relativa all’ ergastolo ostativo. I giudici delle leggi danno tempo un anno, altrimenti dovranno pensarci loro il 22 maggio del 2022. Nella motivazione, la Consulta, nel ribadire l’incostituzionalità della preclusione assoluta, osserva nuovamente un punto ancora non chiaro ai detrattori di tale assunto: “La collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali”. Il senso è chiaro. Chi collabora con la giustizia non vuol dire che sicuramente è una persona ravveduta (alcuni potrebbero farlo per scopi non genuini): ben altri sono i parametri di valutazione. Stesso identico discorso per chi decide di non collaborare: non vuol dire automaticamente che sia una persona ancora legata alla mafia e non ravveduta. La Consulta ha esaminato la liberazione condizionale per chi è all’ergastolo ostativo - Le norme portate all’esame della Consulta stabiliscono che i condannati all’ergastolo per reati di contesto mafioso, se non collaborano utilmente con la giustizia non possono essere ammessi alla liberazione condizionale. Possono invece accedere a tale beneficio, dopo aver scontato almeno 26 anni di carcere, tutti gli altri condannati alla pena perpetua, compresi quelli per delitti connessi all’attività di associazioni mafiose, i quali abbiano collaborato utilmente con la giustizia. L’ordinanza della Consulta spiega che è proprio l’effettiva possibilità di conseguire la libertà condizionale a rendere compatibile la pena perpetua con la Costituzione: se questa possibilità fosse preclusa in via assoluta, l’ergastolo sarebbe invece in contrasto con la finalità rieducativa della pena richiamata dall’articolo 27 della costituzione. Ma, appunto, la Consulta dà un anno di tempo al parlamento per varare una legge, consigliando, ad esempio, di introdurre “prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione”. Consulta: “La collaborazione non può essere l’unica via per uscire dal carcere a vita” di Liana Milella La Repubblica, 12 maggio 2021 Nell’ordinanza del giudice Nicolò Zanon le ragioni che hanno spinto la Corte costituzionale a dare un anno di tempo al Parlamento per rivedere le norme sulla possibilità di concedere la liberazione condizionale ai condannati per mafia che non collaborano. Ergastolo “ostativo”, mafiosi in cella, diritto a ottenere la “liberazione condizionale”. La Consulta - con l’ordinanza firmata dal giudice Nicolò Zanon - formalizza la sua richiesta al Parlamento di cambiare le attuali regole nei prossimi 12 mesi. Regole che, oggi, rendono impossibile ottenere la “liberazione condizionale” se il mafioso in carcere, anche dopo 26 anni di pena scontata, non collabora con la giustizia. In un ampio comunicato la Corte stessa rende noto il contenuto dell’ordinanza. “La collaborazione con la giustizia - sintetizza l’ufficio stampa modella Corte riportando le parole di Zanon - “certamente mantiene il proprio positivo valore, riconosciuto dalla legislazione premiale vigente” e non è irragionevole presumere che l’ergastolano non collaborante mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di appartenenza. Tuttavia, l’incompatibilità con la Costituzione si manifesta nel carattere assoluto di questa presunzione poiché, allo stato, la collaborazione con la giustizia è l’unica strada a disposizione dell’ergastolano ostativo per accedere al procedimento che potrebbe portarlo alla liberazione condizionale. “La collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali”. È quanto si legge nella motivazione depositata oggi (e anticipata il 15 aprile) con cui la Corte costituzionale ha stabilito che spetta, però, al Parlamento, in prima battuta, modificare questo aspetto della disciplina relativa all’ergastolo ostativo. Un intervento meramente “demolitorio” della Corte, infatti, potrebbe produrre effetti disarmonici sul complessivo equilibrio di tale disciplina, compromettendo le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il fenomeno della criminalità mafiosa. Appartiene invece alla discrezionalità legislativa decidere quali ulteriori scelte possono accompagnare l’eliminazione della collaborazione quale unico strumento per accedere alla liberazione condizionale. Fra queste scelte “potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione”. Perciò la Corte ha ritenuto necessario rinviare il giudizio e fissare una nuova discussione alla data del 10 maggio 2022, così da garantire al legislatore il tempo necessario per affrontare la materia. Le norme censurate dalla Cassazione e portate all’esame della Consulta stabiliscono che i condannati all’ergastolo per reati di contesto mafioso, se non collaborano utilmente con la giustizia non possono essere ammessi al beneficio della cd. liberazione condizionale, che consiste in un periodo di libertà vigilata, a conclusione del quale, solo in caso di comportamento corretto, consegue l’estinzione della pena e la definitiva restituzione alla libertà. Possono invece accedere a tale beneficio, dopo aver scontato almeno 26 anni di carcere, tutti gli altri condannati alla pena perpetua, compresi quelli per delitti connessi all’attività di associazioni mafiose, i quali abbiano collaborato utilmente con la giustizia. Ergastolo: la collaborazione non può essere l’unica via per la liberazione condizionale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2021 Depositate le motivazioni della Corte costituzionale, ordinanza n. 97 di oggi. Un anno al Parlamento per individuare le alternative. Prossima udienza di discussione il 10 maggio 2022. La collaborazione con la giustizia “certamente mantiene il proprio positivo valore, riconosciuto dalla legislazione premiale vigente” e non è irragionevole presumere che l’ergastolano non collaborante mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di appartenenza. Tuttavia, l’incompatibilità con la Costituzione si manifesta nel carattere assoluto di questa presunzione poiché, allo stato, la collaborazione con la giustizia è l’unica strada a disposizione dell’ergastolano ostativo per accedere al procedimento che potrebbe portarlo alla liberazione condizionale. “La collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali”. È quanto si legge nella motivazione dell’ordinanza n. 97 (redattore Nicolò Zanon) depositata oggi, con cui la Corte costituzionale ha stabilito che spetta, però, al Parlamento, in prima battuta, modificare questo aspetto della disciplina relativa al cd. “ergastolo ostativo”. Un intervento meramente “demolitorio” della Corte, infatti, potrebbe produrre effetti disarmonici sul complessivo equilibrio di tale disciplina, compromettendo le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il fenomeno della criminalità mafiosa. Appartiene invece alla discrezionalità legislativa decidere quali ulteriori scelte possono accompagnare l’eliminazione della collaborazione quale unico strumento per accedere alla liberazione condizionale. Fra queste scelte “potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione”. Perciò la Corte ha ritenuto necessario rinviare il giudizio e fissare una nuova discussione alla data del 10 maggio 2022, così da garantire al legislatore il tempo necessario per affrontare la materia. Le norme censurate dalla Cassazione e portate all’esame della Consulta stabiliscono che i condannati all’ergastolo per reati di contesto mafioso, se non collaborano utilmente con la giustizia non possono essere ammessi al beneficio della cd. liberazione condizionale, che consiste in un periodo di libertà vigilata, a conclusione del quale, solo in caso di comportamento corretto, consegue l’estinzione della pena e la definitiva restituzione alla libertà. Possono invece accedere a tale beneficio, dopo aver scontato almeno 26 anni di carcere, tutti gli altri condannati alla pena perpetua, compresi quelli per delitti connessi all’attività di associazioni mafiose, i quali abbiano collaborato utilmente con la giustizia. L’ordinanza della Consulta spiega, innanzitutto, che, in base alla costante giurisprudenza costituzionale, è proprio l’effettiva possibilità di conseguire la libertà condizionale a rendere compatibile la pena perpetua con la Costituzione; se questa possibilità fosse preclusa in via assoluta, l’ergastolo sarebbe invece in contrasto con la finalità rieducativa della pena (articolo 27, terzo comma, Costituzione). La vigente disciplina “ostativa” mette però in tensione questo principio. Da una parte eleva l’utile collaborazione con la giustizia a presupposto indefettibile per l’accesso alla liberazione condizionale, dall’altra sancisce, a carico dell’ergastolano non collaborante, una presunzione assoluta di perdurante pericolosità. Assoluta appunto perché non superabile da altro se non dalla collaborazione stessa, e che non consente in radice l’accesso a nessun beneficio. La Corte ha spiegato che questa presunzione non è, in sé stessa, in contrasto con la Costituzione. Infatti, “l’appartenenza a una associazione di stampo mafioso implica, di regola, un’adesione stabile a un sodalizio criminoso, fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo”. È quindi “ben possibile che il vincolo associativo permanga inalterato anche in esito a lunghe carcerazioni, proprio per le caratteristiche del sodalizio criminale in questione, finché il soggetto non compia una scelta di radicale distacco, come quella che generalmente viene espressa dalla collaborazione con la giustizia”. L ‘incompatibilità con la Costituzione deriva dal carattere assoluto della presunzione, che fa della collaborazione con la giustizia l’unica strada a disposizione dell’ergastolano per accedere alla valutazione della magistratura di sorveglianza da cui dipende la sua restituzione alla libertà. Tra l’altro, può essere dubbio che la collaborazione sia frutto di una scelta sempre libera. Non sono in discussione “il rilievo e l’utilità della collaborazione, intesa come libera e meditata decisione di dimostrare l’avvenuta rottura con l’ambiente criminale”, ma l’ordinanza sottolinea che l’attuale disciplina prefigura una sorta di “scambio” tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità di accedere ai benefici penitenziari. Per l’ergastolano ostativo che aspira alla libertà condizionale, questo scambio può assumere una portata drammatica allorché lo obbliga a scegliere tra la possibilità di riacquisire la libertà e il suo contrario, cioè un destino di reclusione senza fine. “In casi limite - scrive la Corte - può trattarsi di una “scelta tragica”: tra la propria (eventuale) libertà, che può tuttavia comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia a essa, per preservarli da pericoli”. Allo stato attuale della legislazione, la Corte ha comunque ritenuto che un proprio intervento meramente “demolitorio” potrebbe comportare effetti disarmonici sulla complessiva disciplina vigente, compromettendo “le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il pervasivo e radicato fenomeno della criminalità mafiosa”. Nel ribadire, come ricordato, che l’intervento di modifica di questi essenziali aspetti deve essere, in prima battuta, oggetto di una più complessiva, ponderata e coordinata valutazione legislativa, la Corte ha concluso che “esigenze di collaborazione istituzionale” impongono di disporre il rinvio del giudizio in corso e di fissare una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale in esame, alla data del 10 maggio 2022, dando così al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia. Ergastolo, “la scelta di collaborare può essere tragica” di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 maggio 2021 Le motivazioni della sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale l’”ostatività” per i mafiosi condannati a vita che non collaborano con la giustizia. Il Parlamento deve legiferare entro il 10 maggio 2022 ed eliminare le disparità tra reclusi. È sempre libera la scelta dell’ergastolano che deve decidere se collaborare con la giustizia per avere la speranza di tornare prima o poi in libertà, mettendo però a rischio se stesso e i propri cari, o viceversa se optare per “un destino di reclusione senza fine”? È la domanda chiave alla quale i giudici della Corte costituzionale hanno risposto con l’ordinanza 97 del 15 aprile scorso (redattore Nicolò Zanon) - depositata ieri - che concede al legislatore tempo fino all’udienza del 10 maggio 2022 per rimuovere il divieto automatico e assoluto della liberazione condizionale per gli ergastolani mafiosi “non pentiti”. Si legge infatti nelle motivazioni della sentenza, che ha definito incostituzionale il cosiddetto ergastolo “ostativo”, che “in casi limite può trattarsi di una “scelta tragica”“. La collaborazione con la giustizia - scrive la Corte presieduta dal giudice Giancarlo Coraggio - sia pur “ragionevole” metro di giudizio, “non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento”. La collaborazione infatti può essere dettata da “valutazioni utilitaristiche” e non “anche segno di effettiva risocializzazione”, mentre il rifiuto a collaborare “può esser determinato da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali”. Dunque, “l’incompatibilità con la Costituzione deriva dal carattere assoluto della presunzione, che fa della collaborazione con la giustizia l’unica strada a disposizione dell’ergastolano per accedere alla valutazione della magistratura di sorveglianza da cui dipende la sua restituzione alla libertà”. Mentre invece, secondo i giudici, la decisione spetta al Tribunale di sorveglianza che valuterà caso per caso. Perché - sottolinea la Corte - “è proprio l’effettiva possibilità di conseguire la libertà condizionale a rendere compatibile la pena perpetua con la Costituzione”. Se questa possibilità fosse infatti preclusa in via assoluta, l’ergastolo - spiega la sentenza - sarebbe in contrasto con la finalità rieducativa della pena (articolo 27 della Carta) e con le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. La Consulta ha deciso però di non demolire immediatamente le norme (artt.4 bis e 58 ter L. 354/75; art.2 L. 203/91) per non “produrre effetti disarmonici sul complessivo equilibrio di tale disciplina, compromettendo le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva”. Inoltre, dovendo la Consulta attenersi al caso di specie sollevato dalla Cassazione, riguardante un mafioso condannato all’ergastolo “ostativo”, l’intervento demolitorio avrebbe creato una disparità con i condannati al carcere a vita per altri tipi di reati (dal terrorismo ai delitti contro la pubblica amministrazione o quelli di natura sessuale) che si rifiutano di collaborare. Proprio per questo nell’ordinanza i giudici costituzionali invitano il legislatore ad un intervento normativo che eviti diseguaglianze. Se poi il Parlamento non dovesse legiferare in materia, entro l’anno, la Corte “potrà persino estendere l’ambito del suo intervento, rimuovendo le preclusioni anche per l’accesso alle misure “intermedie” che consentono un graduale avvicinamento alla libertà, quali la semilibertà e il lavoro all’esterno. Insomma, questa ordinanza può spianare la strada per il ricorso a quella che si definisce illegittimità consequenziale”, spiega Marco Ruotolo ordinario di Diritto costituzionale all’Università Roma Tre. E avverte: “In ogni caso però né la libertà condizionale né i permessi premio potranno essere concessi ai reclusi al 41 bis, perché presupposto di quel regime è l’attualità del collegamento con la criminalità organizzata. Perciò, prima di poter richiedere i “benefici”, il condannato dovrebbe ottenere la revoca del carcere duro, dimostrando che quei collegamenti non sono più attuali. E la competenza in materia - conclude Ruotolo - spetta, per legge, al Tribunale di sorveglianza di Roma e non ai magistrati del luogo in cui il condannato è recluso”. Riccardo De Vito: “L’ergastolo non rieduca, è incostituzionale” di Natascia Grbic fanpage.it, 12 maggio 2021 Intervista a Riccardo De Vito, magistrato di sorveglianza e presidente di Magistratura democratica, in merito alla recente sentenza della Corte d’Assise che ha condannato all’ergastolo i due imputati nel processo per l’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. “Dobbiamo aspettare di leggere le motivazioni, ma simbolicamente c’è un disinvestimento sulla funzione rieducativa della pena”. “L’unica certezza della pena accettabile per Costituzione è che questa, una volta finita, abbia rieducato la persona, che torna quindi a vivere in società senza commettere reati. Dobbiamo certamente attendere le motivazioni della sentenza e capire perché sia stato erogato l’ergastolo, ma se trent’anni non sono una pena sufficiente per due ventenni, anche a fronte di un delitto di inaudita gravità, mi chiedo davvero cosa sia necessario fare”. A parlare ai microfoni di Fanpage.it è Riccardo De Vito, magistrato di sorveglianza e presidente di Magistratura democratica. Il commento è relativo alla sentenza emanata dalla Corte d’Assise nei confronti di Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth, i due turisti americani condannati all’ergastolo per l’omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega. Si tratta del massimo della pena prevista dall’ordinamento giuridico italiano - la cui costituzionalità è da tempo dibattuta - e che raramente si vede emanata nei confronti di soggetti così giovani. “Credo che a livello simbolico questa sentenza segni un disinvestimento dal principio di rieducazione - continua De Vito - perché se pensiamo che queste persone che ora hanno vent’anni non possano cambiare dopo trent’anni di carcere, vuol dire che abbiamo smesso di investire sulla principale funzione della pena, che è quella di risocializzare la persona”. Omicidio Cerciello: “Rieducazione per imputati dovrebbe essere maggiore” - Sin dall’inizio del processo l’ergastolo per i due americani è stato chiesto a gran voce da moltissime persone. Il vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega aveva solo 35 anni quando è stato ucciso, era in servizio e disarmato. Il ragazzo che ha materialmente sferrato le coltellate, Finnegan Lee Elder, era uscito dall’albergo con una lama lunga 16 centimetri, e lo ha colpito undici volte, scappando e lasciandolo esanime in terra. Con l’amico Gabriel Natale Hjorth (condannato anche lui all’ergastolo) era uscito per cercare la cocaina. Non solo: aveva anche ricattato un uomo per avere la droga, dandogli appuntamento per la restituzione dello zaino. Un omicidio odioso che ha sconvolto l’opinione pubblica, con l’ergastolo visto come la giusta pena da dare ai due ragazzi. Loro si sono sempre difesi dicendo che non sapevano che Cerciello e Varriale fossero carabinieri, e di aver pensato di essere stati attaccati da due pusher. Il legale di Elder ha invocato la legittima difesa, parlando nel processo anche dei disturbi mentali del suo assistito, che poco tempo prima aveva tentato il suicidio. Gli avvocati di Hjorth hanno invece sempre puntato sull’innocenza del ragazzo, che si trovava con l’amico ma non ha colpito il carabiniere, ingaggiando invece una colluttazione col suo collega. “So già che molti ora diranno che le mie sono parole da magistrato buonista - specifica De Vito - ma se siamo rassegnati a commenti di questo tipo vuol dire che non siamo in grado di capire che una pena di trent’anni è lunga, enorme e impegnativa per un essere umano, soprattutto in un periodo al limite della vigenza del processo minorile. Dobbiamo ricordare che stiamo parlando di personalità non ancora strutturate, dove la rieducazione dovrebbe essere maggiore”. Il dibattito sulla costituzionalità dell’ergastolo - Come anticipato, in giurisprudenza vige da tempo un dibattito sulla legittimità o meno dell’ergastolo. “La stessa Corte Costituzionale ha detto più volte che non è una pena conforme alla funziona rieducativa della pena, ma lo diventa nel momento in cui c’è la possibilità di applicare la libertà condizionale dopo 26 anni. Se però andiamo a vedere i numeri delle liberazioni, sono scarsissimi. Non c’è bisogno di essere ergastolani ostativi, anche per i cosiddetti ‘delitti comuni’ è difficile da ottenere. Lo scorso anno il Garante nazionale dei detenuti ha evidenziato solo quattro liberazioni in tutta Italia. Questo, e il fatto che si sia erogata una pena su cui c’è grande dibattito, fa attendere con ancora più ansia l’uscita delle motivazioni della sentenza”. Maria Falcone: “Dall’ergastolo il mafioso può uscire solo collaborando con la giustizia” di Liana Milella La Repubblica, 12 maggio 2021 Alla vigilia dell’anniversario di Capaci la sorella del giudice commenta l’ordinanza della Consulta sull’ergastolo ostativo, apprezza la decisione di affidare al Parlamento l’ultima parola. La sua voce, al telefono, assomiglia incredibilmente a quella del fratello. Maria Falcone parla proprio come Giovanni, con un modo tutto loro di sottolineare, col tono che si abbassa di poco, l’importanza o la gravità di un accadimento. E adesso Maria, con Repubblica, affronta la decisione della Consulta sul destino dell’ergastolo ostativo - è di oggi il deposito dell’ordinanza - che tra un anno sarà decisa dalle Camere. “Per me non c’è altra via che la collaborazione per concedere benefici ai mafiosi” è la sua drastica sintesi. Tra 12 giorni arriverà di nuovo il 23 maggio. E quell’ora, pochi minuti alle 18, che ha portato via Giovanni. A lei, a tutti noi, al mondo della giustizia, all’Italia, ai tanti che lo ricordano nel mondo. Partiamo da qui, dall’immagine e dal ricordo di suo fratello... e dal suo dolore... “Ogni volta, per me, è un trauma che si ripete, ma è giusto che gli italiani sappiano, cosa colpisce chi resta quando se ne va un uomo da ammirare per quello che era e per quello che stava facendo. Il 23 maggio del 1992 ha cambiato radicalmente la mia vita. Sino ad allora ero stata una mamma e un’insegnante, una sorella che amava il fratello che lavorava per tutti noi. Quel 23 maggio si chiude per sempre una stagione della mia vita e se ne apre una diversa”. Quella di quotidiana testimone di una tremenda strage? “Ogni anno si rinnova un momento di grandissimo dolore personale, ma anche di scoramento come cittadina italiana, perché con la morte di Giovanni, e subito dopo con quella di Paolo Borsellino, tutto quello che avevano fatto fino a quel momento era finito, tutto il patrimonio di idee e di metodi nella lotta contro la mafia rischiava di scomparire con loro. Per questo mi sono costretta ad agire, perché questo non accadesse. Come insegnante ho continuato a fare il mio lavoro, perché educando i giovani potevo contribuire a dar vita a una società diversa nella quale mettere da parte tutti gli atteggiamenti che sono propri di una società culturalmente accondiscendente nei confronti della mafia, dall’indifferenza verso i crimini all’omertà nella testimonianza. Il 23 maggio - per me - non è solo un anniversario di dolore, ma il momento della speranza che prima o poi si arrivi a una grande festa di liberazione dalla criminalità i cui protagonisti saranno i giovani e la loro voglia di cambiamento”. È solo un caso, ma proprio adesso viene pubblicata l’ordinanza della Consulta che chiede alle Camere, entro 12 mesi, di riscrivere le regole dell’ergastolo ostativo, di quella libertà condizionale che oggi può essere concessa ai mafiosi solo se collaborano. Ma la Corte, dopo i rilievi della Cassazione, vede un automatismo che giunge all’incostituzionalità nel momento in cui rende l’ergastolo una pena senza fine. Qual è il suo giudizio? “Nonostante tutto, la decisione della Consulta è stata ponderata, perché aver rinviato al Parlamento la possibilità di legiferare rappresenta una svolta importante. Solo le Camere possono decidere se nelle nuove disposizioni sul carcere per i mafiosi debba prevalere la sicurezza di tutti noi e della società rispetto all’interesse del singolo. Siamo stati allevati tutti e siamo cresciuti nell’ammirazione di Beccaria. Sappiamo bene come la pena sia un mezzo per tornare poi a vivere. Ma il legislatore deve avere ben presente che il mafioso non è un criminale comune, un criminale isolato. Il mafioso è un soggetto che appartiene a un’organizzazione solidissima di cui lui è una parte, un ingranaggio essenziale e che uscirà da lì solo con la morte. O, come diceva Tommaso Buscetta, con la collaborazione”. E quindi, per lei, proprio la collaborazione rappresenta l’unica, e sottolineo l’unica, via per rompere con la mafia? “Abbiamo degli esempi davanti a noi. Tutti i mafiosi che non collaborano e ai quali sono state concesse agevolazioni per buona condotta, le stesse che vengono riconosciute ai detenuti comuni, quando sono usciti dal carcere sono rientrati subito nell’organizzazione, commettendo nuovi delitti. Perché mio fratello Giovanni e Paolo hanno detto tante volte che il mafioso, dal punto di vista della pena, va trattato in modo del tutto particolare? Proprio per questo. Si badi bene, Giovanni e Paolo erano due grandi garantisti. Chi gli è stato accanto sa bene che non erano certo giustizialisti che volevano buttare via la chiave delle celle...”. La Corte però scrive che esistono anche le false collaborazioni, quelle strumentali proprio per ottenere dei benefici.... “Questo non è del tutto vero, perché il collaboratore che usufruisce di determinati benefici e poi viola il programma, li perde subito. Quindi questa interpretazione cade”. Ma il “fine pena mai” è contro la Costituzione... “Certo, ma chi commette un crimine ed è mafioso sa bene che può cambiare pagina e collaborare con la giustizia. Ma lei ricorda Giovanni Brusca? Era tra i carnefici di Giovanni, eppure ha collaborato con la giustizia e gli sono stati riconosciuti dei vantaggi. Brusca non morirà in carcere, però ha permesso di andare avanti in tante indagini, ha rivelato fatti importantissimi”. Quindi, per lei, la collaborazione non ammette alternative... “Esatto, proprio così. Ma chi non la pensa come me perché non si pone una semplice domanda: perché quel mafioso non collabora?”. Glielo dico io, può dire, ad esempio, che la collaborazione potrebbe provocare ritorsioni gravi nei confronti della sua famiglia... “Questo argomento non mi convince affatto, perché con il pentimento scatta un programma di protezione che permette di scongiurare questi pericoli”. La sua idea è che abbia ragione chi - come Di Matteo e Ardita - ritiene che questo passo realizzi le richieste di Riina dopo le stragi del ‘92-’93? “Io penso semplicemente che il mafioso che non collabora, che ha fatto o potrebbe fare ancora altre stragi, dev’essere fermato per quello che potrebbe fare ancora. Io penso di dire adesso le stesse cose che avrebbe detto Giovanni, anche se lui lo avrebbe fatto utilizzando il diritto. Il mafioso dev’essere trattato per quello che è, non può avere nulla se non esce dalla mafia, perché continuerà a farne parte, anzi sarà apprezzato proprio perché non ha collaborato”. Non ha dubbi su questo? “Noi ci dobbiamo chiedere perché i più noti capimafia, anche sopportando il carcere duro fino alla morte, non si sono mai pentiti. Lo hanno fatto perché dovevano dare l’esempio. Per questo la collaborazione è stato il grimaldello che ci ha permesso di scardinare Cosa nostra. E allora dobbiamo chiederci se facendo concessioni ai mafiosi non ci sia il rischio che poi non si pentirà più nessuno. Ecco perché è importante che a decidere sia il Parlamento. Rispondendo a un interrogativo: conta di più la sicurezza dei cittadini o il mafioso che sembra diventato buono anche se non si pente? Per la lotta alla mafia l’ergastolo ostativo è, e deve restare, uno strumento fondamentale”. Non è un segreto che Marta Cartabia la stimi tantissimo. Proprio l’atteggiamento della ministra verso il sempre possibile recupero di un detenuto non la convince? “Io penso che il detenuto si può recuperare attraverso la collaborazione. Se collabora, la mafia non lo accetta più, lo considera un nemico, e se sgarra nei confronti dello Stato gli vengono tolti i benefici”. Ha visto però che la Consulta, nell’ordinanza firmata dal giudice Nicolò Zanon, che certo non è un giurista di sinistra ma un garantista, sottolinea come i detenuti al 41 bis siano del tutto esclusi comunque da possibili benefici. Questo non la rassicura? “E se il futuro intervento sull’ergastolo ostativo fosse propedeutico ad alleggerire o addirittura a togliere il 41bis? Quante volta ne abbiamo sentito parlare male? E comunque questa argomentazione non mi tranquillizza”. Così il nodo “Fine Pena Mai” evita l’isolamento dei Cinquestelle sulla giustizia di Errico Novi Il Dubbio, 12 maggio 2021 Grillini e Lega saranno uniti nel no alla legge chiesta dalla Corte costituzionale. E i dissensi di Bonafede sulla prescrizione non saranno l’epicentro delle liti col resto della maggioranza. Non è una giornata facile per il Movimento 5 Stelle. Sono passate poche ore dal vertice con la commissione Lattanzi, il gruppo di esperti scelto da Marta Cartabia che ha preparato la revisione strutturale del ddl Bonafede. Nel summit celebrato lunedì è stata sventagliata una batteria di potenziali emendamenti alla riforma del processo: numerosi, radicali, in alcuni casi drastici, certo piuttosto lontani dall’impostazione general- preventiva cara ai pentastellati. Poche ore, e il Movimento si trova a leggere la sentenza, depositata ieri mattina, con cui la Corte costituzionale scardina il vincolo assoluto della collaborazione per il riconoscimento, agli ergastolani ostativi di mafia, della liberazione condizionale. Ebbene, i deputati grillini reagiscono alla sentenza con una durezza assai più esplicita di quanto non avessero fatto di fronte alle proposte di Lattanzi, con cui pure è sembrato preannunciarsi l’addio alla norma Bonafede sulla prescrizione. Il secondo dei due colpi subiti dalla linea restrittiva sulla giustizia rischia di essere, imprevedibilmente, un fattore di equilibrio proprio per chi sente franare definitivamente quella prospettiva. Intanto la Consulta rimette al centro del dibattito la questione carcere. Non dimenticata ma certo neppure in cima all’agenda, perché non prevista fra le priorità necessarie per ottenere i fondi del Recovery. Secondo la Corte, l’incostituzionalità delle norme attuali è evidente, eppure reclama un intervento del legislatore, piuttosto che una “demolitoria” sentenza di illegittimità. Al Parlamento il giudice delle leggi concede un anno di tempo. La maggioranza inedita che va dalla Lega ai pentastellati, e unisce gli storici avversari del centrodestra e del centrosinistra, dovrà - dovrebbe - approvare una legge sull’ergastolo ostativo, che non precluda in assoluto la liberazione dei mafiosi “non collaboranti”, ma la regoli. L’ulteriore incombenza, che a prima vista appare come un peso tremendo pure per le spalle larghe di Cartabia, rischia di diventare un paradossale balsamo. Perché può riavvicinare le posizioni della Lega a quelle del Movimento, almeno sul punto. Ed evitare così un rischiosissimo effetto isolamento per i grillini. I quali, se messi in tutto e per tutto all’angolo, potrebbero finire anche per dichiarare guerra sulla prescrizione, opporsi al progetto Cartabia sul ddl penale e minacciare traumatici distacchi dalla maggioranza. Scenario che in tempo di stabilità imposta dal Recovery, si rivelerebbe esiziale. E poi, opporsi alla Consulta sull’ergastolo ostativo potrà sembrare pretestuoso, ma consente al Movimento di affermare la propria identità, e di poter elaborare con minori compulsioni il nodo prescrizione. “L’ergastolo ostativo, da sempre misura fondamentale per la lotta alle mafie, è stato fortemente voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. A seguito della sentenza della Corte costituzionale, che rispettiamo ma non condividiamo, il Parlamento è obbligato a intervenire. La proposta di legge che abbiamo depositato mira a difendere il principio per cui il mafioso che non collabora non può sostenere di avere interrotto i legami con l’associazione mafiosa. Il Movimento 5 Stelle vigilerà, in Parlamento, affinché a nessuno venga in mente di indebolire la nostra normativa antimafia”. È il testo letterale della nota diffusa ieri dai deputati 5 stelle della commissione Giustizia. Che rivendicano una legge in netto contrasto con l’indicazione venuta due ore prima dalla Consulta. Una dichiarazione di guerra mai vista. Ma, per il Movimento, un segno di vitalità. Al quale non è escluso che si associ la Lega. Proprio il partito di Matteo Salvini aveva voluto, durante il governo gialloverde, una legge molto severa in materia di ergastolo, con cui è stato abolito l’accesso al rito abbreviato per i reati punibili con il fine pena mai. Riforma peraltro ritenuta legittima dalla Consulta. Sul carcere, il Carroccio è molto più distante da Cartabia e da gran parte della maggioranza attuale che dai pentastellati. Che certo, ieri si sono espressi anche con i toni, più sereni scelti da Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera, il quale ha fatto notare come la Corte costituzionale riconosca “la assoluta importanza della legislazione antimafia” e non tocchi “la disciplina del 41 bis. L’intervento del Parlamento, richiesto per adeguare le disposizioni sull’ergastolo ostativo ai principi costituzionali, non potrà in alcun modo intaccarne le fondamenta”, fa notare Perantoni. Ma ciò che conta è che, sulla giustizia, i 5 stelle da ieri non sono più gli unici “cattivi” del gruppo, destinati a starsene all’angolo. Uno schema che Cartabia teneva a scongiurare, pur ferma sulla necessità di riaffermare i principi costituzionali. Da ieri l’obiettivo, comunque non semplice, è un po’ più a portata di mano. Ingiusta detenzione, l’Italia paga per i pm. “Ora serve una vera responsabilità civile” di Felice Manti Il Giornale, 12 maggio 2021 Se la libertà avesse un prezzo attaccato sopra sarebbe di 235,82 euro. Tanto vale un giorno passato ingiustamente in carcere. Nel 2020, mentre in lockdown ci siamo tutti sentiti “detenuti”, lo Stato ha speso una carrettata di milioni di euro per risarcire chi da innocente è finito in cella ingiustamente. Quasi 38 milioni di euro, una media di 50mila euro per chi è stato privato per errore della libertà. Dei 38 milioni, quasi 27 hanno riguardato le sole Corti d’appello di Bari, Catanzaro, Palermo, Roma e Reggio Calabria. Che da sola “pesa” quanto Roma, Milano e Napoli insieme, mentre Catanzaro si ferma a 4,9 milioni. Cifre che danno l’entità del problema, al netto di alcune inchieste di ‘ndrangheta con strascico di manette, pompate dai giornali ma dimostratesi evidentemente senza troppo fondamento. Ma mentre si discute di riforma della giustizia il dossier pubblicato online dal Sole24Ore riaccende i riflettori sul vero punto dolente legato all’ingiusta detenzione: la responsabilità civile dei magistrati. Chi paga? Il magistrato? No, lo Stato. La legge 18 del 2015 voluta da Matteo Renzi che ridefinisce la fattispecie di colpa grave “è rimasta praticamente inapplicata, pur essendo un pannicello caldo”, spiega al Giornale Claudio Defilippi, legale esperto in revisioni processuali e ingiusta detenzione, come dimostrano i 4,5 milioni di euro per 23 anni da innocente in carcere che lo Stato ha riconosciuto al suo assistito Domenico Morrone. Tutti soldi nostri, non di chi l’ha fatto condannare. “Penso sia impossibile, e non solo al momento attuale, sperare in una legge diversa da quella vigente, che sembra costituire una sorta di presidio normativo non riformabile in peius”, dice infatti un altro avvocato, Ivano Iai. E poi dal punto di vista disciplinare (e lo si è visto con il caos al Csm) “le toghe rischiano poco o nulla - insiste Defilippi - Bisogna anche potenziare l’ufficio giudiziario che verifica la progressione in carriera dei magistrati e istituire una commissione di controllo sugli errori giudiziari”. Già, perché a combattere per la verità non dovrebbero essere solo gli avvocati ma soprattutto lo Stato. La cifra massima del risarcimento per legge peraltro non può mai eccedere l’importo complessivo di 516.456,90 euro (il vecchio miliardo di lire) da dividere per la durata massima della custodia cautelare in carcere, che è di sei anni. “Ma c’è gente che è rimasta dentro per 7 o otto anni”, ribatte Defilippi, e poi in caso di indennizzo diretto, il responsabile cioè il magistrato “deve essere litisconsorte necessario, cioè deve entrare nel meccanismo risarcitorio”. Cosa che oggi non è obbligatoria. Come uscirne? Con una vera riforma della giustizia. “Il mio auspicio è che venga introdotto almeno il principio della lealtà processuale - conclude Iai - ossia quel canone superiore idoneo a scongiurare nel magistrato iniziative manifestamente pretestuose od oggettivamente ostili all’imputato ancorché formalmente legittime”. Giustizia, maggioranza in subbuglio. I Cinquestelle tentati dal no alle riforme di Liana Milella La Repubblica, 12 maggio 2021 La preoccupazione di Draghi è che non si riesca a seguire un cammino comune e che il dibattito diventi una polveriera. Cartabia punta tutto sugli emendamenti al processo penale, nei quali terrà conto delle differenze tra partiti. La maggioranza si slabbra sulla giustizia. Prima la Lega terremota Cartabia con i referendum. E tira a destra. Ma adesso, dopo l’incontro di lunedì con la Guardasigilli, una forza propulsiva opposta tira a sinistra. È quella dei 5Stelle. Che davanti a Cartabia si sono comportati come dei signori. Ma poi, riflettendo sulle proposte, hanno cominciato a essere tentati di far saltare il banco. E quando, alla Camera, ieri mattina l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede ha incontrato Enrico Costa di Azione non è riuscito a trattenersi dal dirgli: “Siete contenti eh?!?!”. Alludendo, chiaramente, ad almeno tre o quattro punti delle proposte di Cartabia, che gli sono andate decisamente di traverso, e che sarebbero di stampo conservatrice. Per intenderci, roba di destra. Quali sono? Eccole. La netta marcia indietro, comunque vada, sulla prescrizione di Bonafede e addio allo stop dopo il primo grado; il processo d’appello praticamente quasi cancellato in stile Gaetano Pecorella (l’ex pupillo di Berlusconi che diede il nome alla legge, poi soppressa dalla Consulta, che legava le mani al pm che perde il processo); le priorità dell’azione penale decise dal Parlamento (le propose l’ex Guardasigilli Angelino Alfano); la stretta, inequivocabile, sui pubblici ministeri messi sotto l’usbergo dei gip. Che addirittura potranno fare le pulci al pm se conduce le indagini con troppa lentezza. Non basta: sempre il gip potrà controllare se il pm fa la furbata di cambiare la data di iscrizione dell’imputato nel registro degli indagati. A questo punto il tam tam delle lamentele degli M5S arriva a palazzo Chigi, entra nella stanza di Draghi, e nella testa del premier scatta un campanello di allarme. Si materializza il timore che sulla giustizia la maggioranza non riesca a tenere la barra dritta. Che faccia acqua in Parlamento. Un fatto, però, è certo, e anche documentato dalle verifiche di Repubblica. In via Arenula la giurista Cartabia è tranquilla. Convinta com’è che tutte le contraddizioni sfumeranno quando lei, tra una settimana, presenterà alla Camera i suoi emendamenti sul processo penale. Che terranno conto delle pur diverse anime della maggioranza, e che saranno una sintesi delle ben 721 richieste di modifica al testo base di Bonafede sul processo penale presentate dai partiti, ma anche del lavoro, considerato “prezioso”, dell’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi. Oggi al vertice del gruppo di lavoro che, per scelta di Cartabia, ha rimesso mano al processo penale in versione Bonafede. Con una mappa di modifiche che sicuramente piacciono alla destra, tant’è che proprio l’ex forzista Costa twitta entusiasta “il ‘fine processo mai’ va in archivio, la Cartabia illustra una proposta seria per cancellare i danni di M5S, lo smarrimento dei grillini è evidente, speriamo che il Pd non faccia di nuovo il loro gioco”. Una polveriera potenziale pronta a esplodere. Legittimo dunque che oggi, di fronte agli spifferi che entrano dalla sua finestra, Mario Draghi si preoccupi, anche perché la Guardasigilli Marta Cartabia, lunedì pomeriggio con modalità da remoto, il che ha evitato la rissa in diretta, ha presentato la riforma della giustizia accentuando molto il rischio che, se dovesse fallire il tentativo di approvare in tempo le riforme, anche i fondi del Recovery potrebbero saltare. O addirittura ne potrebbe essere richiesta una restituzione. E con l’aria che tira in Parlamento - M5S deluso e furibondo, Lega che punta sui referendum - tocca solo al Pd accollarsi il peso di un possibile compromesso. A questo punto la domanda legittima è, ma sulla giustizia la maggioranza terrà, o precipiterà rovinosamente? Referendum giustizia, Pd contro Forza Italia di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 12 maggio 2021 Il giorno dopo gli applausi comuni alle proposte della ministra Cartabia, il sottosegretario forzista Sisto prova a comprendere la campagna della Lega con i radicali: uno stimolo. No della dem Rossomando: in questa fase sono solo di ostacolo. La maggioranza plaude alle proposte dei saggi di Cartabia - non tutta la maggioranza perché i 5 Stelle sono fermi nel ruolo di custodi dell’eredità Bonafede - ma la strada della ministra della giustizia verso la riforma del processo penale non è affatto in discesa. La concordia si è registrata sulla esposizione orale delle riforme proposte dalla commissione Lattanzi, la settimana prossima arriveranno gli emendamenti e i partiti prima di andare oltre una condivisione di massima degli obiettivi vogliono vedere dentro i testi. Non hanno molto tempo a disposizione, perché secondo i piani esposti da Cartabia il primo sì della camera al disegno di legge delega sul processo penale (in parallelo a quello del senato sul processo civile) deve arrivare entro la sospensione estiva. Altrimenti ci si può dimenticare di chiudere il percorso parlamentare entro la fine dell’anno, che poi significa entro la sessione di bilancio, come il governo si è impegnato a fare nel Piano nazionale di riprese e resilienza. Il guaio è che i prossimi due mesi saranno anche quelli nei quali entrerà nel vivo la campagna referendaria sulla giustizia, dove una parte della maggioranza procederà in direzione oggettivamente contraria a quella delle riforme di Cartabia. Non solo la Lega di Salvini, che a breve presenterà i quesiti abrogativi con i radicali e li depositerà in Cassazione e comincerà la raccolta estiva delle firme, ma anche Forza Italia che non può certo farsi spiazzare dall’ingombrante alleato sul fronte della sfida alla magistratura. E così il sottosegretario forzista alla giustizia Francesco Paolo Sisto deve prodursi in una dichiarazione assai sofisticata, sostenendo che “i referendum sulla giustizia non danneggeranno il processo di riforma perché la democrazia diretta è sempre un plus, se esercitata nelle forme previste dalla Costituzione. Al contrario, questa iniziativa può essere un modo per sensibilizzare ulteriormente il paese sulla necessità di intervenire sul sistema giudiziario”. Frase che la responsabile giustizia del Pd Anna Rossomando bolla come “cerchiobottista”. Il referendum abrogativo in effetti non è un stimolo né un suggerimento per il parlamento, ma un potere legislativo in capo agli elettori che, nel caso dei quesiti radical-leghisti, punterà tra le altre cose alla separazione netta delle carriere di giudici e pm. “Sisto dice che il referendum è uno strumento di democrazia, grazie, lo sapevamo, ci mancherebbe - aggiunge Rossomando. Ma il suo ragionamento poteva forse avere un senso in un’altra fase del lavoro di riforma della giustizia - spiega - non adesso che siamo arrivati al punto. Ora abbiamo un testo di legge e degli emendamenti già presentati, sono in arrivo quelli del governo e ogni iniziativa contraria può essere solo di ostacolo”. Abrogare Bonafede? Il Pd al bivio sulla riforma della giustizia di Valerio Valentini Il Foglio, 12 maggio 2021 La tentazione di vederci l’obliterazione del grillismo manettaro, per molti è irrinunciabile. “Se il Pd non fa da palo al M5s, stavolta liquidiamo davvero il populismo giudiziario”, sentenzia il calendiano Enrico Costa. E però dall’altra parte, cioè appunto quella del Pd, c’è chi, come Anna Rossomando, suggerisce di non limitarsi alla tattica politica. “Non c’è dubbio - spiega la senatrice dem, responsabile Giustizia nella segreteria di Enrico Letta - che una legislatura iniziata col ‘contratto di governo’, per cui la Lega concedeva al M5s lo stop alla prescrizione in cambio della legittima difesa, trova con la ministra Cartabia una evidente svolta. Quello proposto dalla Guardasigilli è un impianto di riforme ampio e ambizioso, e sbaglieremmo a non coglierne il valore complessivo”. Inutile dire, però, che il centro gravitazionale del dibattito che s’è acceso dopo l’incontro a Via Arenula tra la Cartabia e i rappresentanti della maggioranza, il nodo imprescindibile nella polemica politica intorno alla riforma del processo penale in discussione alla Camera, resta sempre lo stesso: la prescrizione. “Per noi le soluzioni avanzate dalla ministra sono entrambe validissime”, osserva Costa, che nella battaglia contro la riforma bandiera del M5s s’è guadagnato sul campo i gradi di pasdaran, lasciando intendere che però, tra le due, preferirebbe quella più radicale. “Che è in verità anche la più semplice da applicare”, precisa lui, sornione. “Si pongono dei tempi precisi, due anni per il primo grado e un anno per l’appello, per celebrare il processo, oltre i quali il decorso della prescrizione torna normale. Del resto è il ‘lodo’ proposto da Andrea Orlando nel dicembre del 2019”. Al che Anna Rossomando, che dell’attuale ministro del Lavoro è una fedelissima, precisa che sì, a loro quella soluzione piace eccome, “ma forse sull’altra ipotesi, quella che contempla l’improcedibilità dell’azione penale, cioè una sorta di prescrizione del processo, oltre un certo limite di tempo, si può raggiungere un più ampio consenso parlamentare”. E qui allora si ritorna al busillis: che fare col M5s? “In una maggioranza così eterogenea, contano i numeri”, spiega Costa, vagheggiando un asse che va da Forza Italia fino a Italia viva, passando per Azione. “Se la Lega, con la scelta bizzarra di dedicarsi ai referendum, si chiama fuori dal dibattito sulle riforme, e il M5s è l’unico a voler difendere certe posizioni, è finisce in minoranza, non vedo perché qualcuno dovrebbe accorrere in suo soccorso”. La Rossomando non si nasconde: “È indubbio che proprio sulla giustizia abbiamo misurato le distanze maggiori col M5s. Ma noi, come Pd, non abbiamo le ansie di visibilità tipiche di quei partiti che hanno bisogno di agitare lo scalpo dell’avversario per ottenere titoli sui giornali. Noi pensiamo invece che si debba trovare la soluzione più condivisa, e che l’importante sia spostare l’asse della maggioranza sulle posizioni più avanzate possibili. Da queste riforme dipendono gli oltre 3 miliardi del Pnrr destinati al comparto, e gli oltre 200 del Recovery nel complesso: eviterei dunque tatticismi pretestuosi”. Sul resto, peraltro, la convergenza pare assai più agevole. “Il perseguimento della ragionevole durata del processo è l’obiettivo di fondo di questo impianto riformatore, e per questo ci soddisfa”, esulta la Rossomando. E come lei, anche Costa vede nel potenziamento dei riti alternativi “un notevole passo in avanti”. “Anche i limiti di tempo sulle indagini preliminari mi paiono doverosi”, prosegue il deputato di Azione, già viceministro della Giustizia nel governo Renzi, quando a guidare Via Arenula era proprio Orlando. “I tecnici della Cartabia - concorda la Rossomando - hanno inoltre ripreso un tema a me caro: quello sulla necessità d’introdurre un termine di tempo tra la conclusione delle indagini e l’avvio del processo”. Semmai, delle divergenze restano su un altro punto: quello dell’inappellabilità delle sentenze di primo grado da parte dei pm. “Confido nel fatto - dice Costa - che due presidenti emeriti della Corte costituzionale, come la ministra e il suo consigliere Giorgio Lattanzi, sapranno intervenire negli spazi che un precedente intervento della Consulta aveva ristretto assai”. Riferimento alla bocciatura, da parte della Corte, della legge Pecorella nel 2006. “Valuteremo nel merito la proposta”, dice, più guardinga, la Rossomando, “anche per capire in che modo questo orientamento sarà collegato alla preannunciata compressione delle possibilità di appello per l’imputato”. Il garantismo modello Draghi non è una rivoluzione, è un ritorno alla normalità di Claudio Cerasa Il Foglio, 12 maggio 2021 Verrebbe quasi naturale definirla una “rivoluzione copernicana” quella che nelle prossime ore il governo Draghi, e in particolare il ministero guidato da Marta Cartabia, offrirà al Parlamento sui temi della giustizia. E in un certo senso, una rivoluzione vi sarà davvero se l’esecutivo riuscirà a fare quello che sembra avere intenzione di fare, ovverosia spingere i partiti su una strada per così dire garantista, con un’idea di giustizia più vicina ai princìpi costituzionali, guidata da quattro direttrici chiave: innocenza fino a prova contraria, durata ragionevole del processo, processo costruito intorno al principio della condanna solo oltre ogni ragionevole dubbio, limitazione dei poteri assoluti di cui godono oggi i pubblici ministeri. L’intenzione della ministra Cartabia, alla luce di ciò che è già emerso in queste ore e alla luce di ciò che ha raccolto il Foglio nella giornata di ieri per avere qualche elemento ulteriore rispetto a quanto già emerso dalle cronache dei giornali, è un’intenzione nobile, che ha a che fare con la volontà di perimetrare l’attività del pubblico ministero fissando sul terreno di gioco alcuni paletti necessari per rendere l’attività di indagine meno discrezionale. L’intenzione della riforma Cartabia, come è in parte noto, prevedrà la possibilità di rinviare a giudizio solo in presenza di una prognosi di probabilità di condanna concreta e non aleatoria. Si proverà a rendere più difficile la presenza di atti di accusa costruiti solo con l’idea di offrire a un giudice l’esposizione di un teorema vago. Si proverà a rendere più vincolante la presentazione di fronte al giudice, già in fase di richiesta di rinvio a giudizio, di elementi solidi per poter condannare. Si proverà a offrire formule di archiviazione più vaste sia al giudice sia al pubblico ministero. Si proverà a offrire una formula innovativa come quella dell’archiviazione meritata, la possibilità cioè per il pm di chiedere l’archiviazione a seguito di condotte riparatorie messe in campo da un sospettato già nella fase delle indagini. Si proverà a rendere effettivo il divieto di impugnazione delle sentenze di assoluzione in primo grado da parte del pm. Si proverà a mettere in atto un’estensione dei criteri per rendere più appetibile un patteggiamento, non aumentando lo sconto di pena, ma offrendo la possibilità di patteggiare anche per le pene accessorie, rendendo chiaro, anche dal punto di vista del proprio casellario giudiziario, che un patteggiamento, in qualsiasi ambito, possa essere equiparato a una sentenza di condanna, a un’ammissione di colpevolezza. Si proverà a cambiare l’attuale legge sulla prescrizione bloccando la prescrizione solo in caso di condanna in primo grado e dando un termine fisso e massimo di due anni alla Corte d’appello per decidere cosa fare rispetto alla sentenza di primo grado - se la Corte d’appello non decide entro due anni, la prescrizione torna a decorrere computando anche i due anni trascorsi per attendere la sentenza d’appello. Si proverà, dato meno noto, a mettere in atto anche un’altra piccola rivoluzione, che coinciderà con la volontà di specificare, all’interno del pacchetto di riforme sulla giustizia, un fatto elementare, che è incredibile sia diventato necessario da specificare: la semplice esposizione a un’indagine non potrà, in nessun caso, avere alcuna conseguenza pregiudizievole nei confronti dell’indagato, e nessuna norma, neppure le interdittive antimafia, potrà più essere costruita per fare del sospettato un colpevole fino a prova contraria. Rispetto a quello che è il quadro desolante della giustizia italiana, le proposte consegnate da Cartabia ai partiti sono oggettivamente rivoluzionarie. Ma il dato sconfortante della riforma Draghi-Cartabia è che ciò che propone oggi il governo non ha a che fare in verità con una rivoluzione vera, ovvero con uno stravolgimento dell’ordinamento attuale. Ha a che fare, piuttosto, con l’ammissione di una verità che andrebbe riconosciuta anche da tutti coloro che negli ultimi anni hanno contribuito a trasformare il nostro sistema giudiziario in un far west senza regole. E la verità è questa: la rivoluzione in corso, possibile e auspicabile, è una rivoluzione che punta a rispettare alcuni princìpi non negoziabili della nostra Costituzione che la politica ha scelto negli ultimi anni di negoziare sull’altare del consenso elettorale. Si può davvero dire oggi, come prescrive l’articolo 27 della Costituzione, che l’imputato non sia considerato colpevole sino alla condanna definitiva e che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che debbano tendere alla rieducazione del condannato? Si può davvero dire, oggi, come prevede l’articolo 111 della Costituzione, che ogni processo si svolga nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, di fronte a un giudice terzo e imparziale, all’interno di un percorso che garantisce alla persona accusata di un reato di essere informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico e di avere diritto a una durata ragionevole del processo? Si può davvero dire oggi, come prevede l’articolo 112 della Costituzione, che l’obbligatorietà dell’azione penale sia volta a garantire sia l’indipendenza del pubblico ministero, quale organo appartenente alla magistratura, sia l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e non sia invece diventata tutto il suo opposto? La vicenda Palamara, sommata al caso Amara, sommata alla guerra tra correnti della magistratura, sommata alla lotta tra bande nel Csm, sommata all’utilizzo sempre più discrezionale dell’azione penale, sommata all’uso spregiudicato degli strumenti del circo mediatico e sommata alla battaglia tra giustizia amministrativa e giustizia ordinaria, che ieri ha portato alla decapitazione formale via Consiglio di stato della testa della procura di Roma, è un cocktail letale, che dimostra come la giustizia italiana non abbia bisogno di svolte copernicane ma abbia semplicemente bisogno di una rivoluzione guidata da un unico motore: combattere la giustizia marcia attraverso l’ordinario rispetto della Costituzione. E il fatto che la normalità appaia oggi come una rivoluzione offre la dimensione precisa della grandezza del buco nero all’interno del quale la politica, a colpi di populismo penale, ha fatto sprofondare, negli anni, la nostra giustizia. Se vogliamo, la resilienza della giustizia passa tutta da qui: non da una rivoluzione epocale, ma dal semplice ritorno alla normalità. La sbornia del populismo penale sta passando di Davide Varì Il Dubbio, 12 maggio 2021 Prescrizione, ragionevole durata, presunzione di innocenza: sono bastati tre mesi per riprenderci dalla sbornia del populismo penale e rivedere il diritto tornare ad affacciarsi tra le stanze di via Arenula e sulle pagine dei giornali. Intendiamoci, nulla è ancora nero su bianco, ma il clima che si respira è di quelli che fanno ben sperare perché, come ha detto ieri il sottosegretario Sisto al nostro giornale, la competenza delle proposte ha una forza che vince su tutto. E così, anche l’avamposto grillino che era a guardia della riforma Bonafede sembra cedere di fronte al lavoro della commissione Lattanzi. Già Lattanzi, è lui l’uomo della svolta, l’uomo della competenza, per citare Sisto. Ma è la forza tranquilla delle ministra Cartabia, la sua fede nel diritto che - scusateci - il nostro giornale aveva colto già al suo esordio a via Arenula che ha permesso l’avvio di questa nuova rivoluzione copernicana. E se la competenza non fosse bastata, la ministra ha trovato il modo di essere ancora più convincente spiegando alla “sua” maggioranza che senza riforme della giustizia addio Recovery: una responsabilità troppo grande anche per chi sogna manette e galera perpetua. “Sulla durata dei processi il governo si gioca tutto il Recovery, non solo quello legato alla giustizia”, ha infatti spiegato Cartabia in Commissione. E poi: “Chi si sottrae al cambiamento si dovrà assumere la responsabilità di mancare un’occasione così decisiva per tutti”. Ecco da dove è nata la piccola rivoluzione che in soli tre mesi ha rovesciato il dibattito sulla giustizia. E a chi ha ancora qualche dubbio possiamo ricordare che appena un anno fa eravamo impelagati in discussioni surreali: “Gli innocenti non finiscono in galera”, ricordate? Ecco, quella roba lì sembra archiviata. E scusate se è poco. Udienze da remoto, diritto di difesa garantito dall’assenso dell’imputato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2021 La Corte costituzionale, sentenza n. 96 depositata oggi, ha dichiarato inammissibile un ricorso che poneva la questione della legittimità della norma in un caso in cui le parti erano già in udienza. “La garanzia del diritto di difesa richiede che le parti, e in particolare l’imputato, debbano essere informate con ragionevole anticipo della data, dell’ora e delle modalità di svolgimento dell’udienza, così da esprimere il loro eventuale consenso alla partecipazione alla medesima udienza da remoto”. “Tuttavia, una volta che tale comunicazione sia mancata e, quindi, le parti si siano presentate fisicamente all’udienza (tanto più, come nel caso di specie, per effetto di un precedente rinvio), non può in alcun modo ritenersi che esse potessero, in quella sede, essere interpellate in ordine alla loro volontà di acconsentire alla celebrazione della medesima udienza da remoto”. È uno dei passaggi della decisione della Consulta n. 96 depositata oggi, che ha dichiarato inammissibile il ricorso sollevato dal Tribunale ordinario di Spoleto, con ordinanza del 21 maggio 2020, in riferimento agli articoli 70 e 77 della Costituzione. La questione di costituzionalità era posta con riferimento all’articolo 3, comma 1, lettera d), del Dl 30 aprile 2020, n. 28 (poi convertito, con modificazioni, nella legge 70/2020), nella parte in cui, introducendo l’ultimo periodo nel comma 12-bis dell’articolo 83 del Dl 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, nella legge n. 27del 24 aprile 2020, ha stabilito “in aperto contrasto” con quanto da quest’ultima previsto che, nel periodo compreso tra il 9 marzo e il 31 luglio 2020, “la modalità ordinaria di partecipazione all’udienza penale fosse quella in presenza”. “Del resto - osserva la Consulta - se la previsione della trattazione delle udienze penali da remoto era rivolta a ridurre la diffusione del contagio, sarebbe stato contraddittorio consentire alle parti di manifestare il loro consenso in favore di tale modalità di partecipazione all’udienza quando le stesse erano già fisicamente comparse davanti al giudice”. Cosa che, secondo quanto emerge dall’ordinanza introduttiva, sarebbe accaduto nel giudizio a quo, dove le parti sono state informate dal giudice della possibilità di prestare il loro consenso all’udienza da remoto solo quando si erano già presentate fisicamente all’udienza del 21 maggio 2020 e, pertanto, in un momento in cui il rimettente non poteva più dare applicazione alla disposizione di cui deduce l’illegittimità costituzionale. Niente causa di non punibilità per plurime violazioni anche se tutte di tenue entità di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2021 La comminazione della sola ammenda per l’abuso edilizio impedisce la proposizione dell’appello. Non è appellabile la sentenza di condanna che commina la sola ammenda. E tale limite applicato tout court non è illegittimo costituzionalmente. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 18154/2021, ha in prima battuta respinto il rilievo di incostituzionalità avanzato dal ricorrente sulla ricorribilità della sentenza che riconosce la causa di non punibilità e la esclude per quella che commina la sola ammenda. La Cassazione chiarisce, infatti, interpretando l’articolo 131 bis del Cp e il comma 3 dell’articolo 593 del Cpp, che la sentenza di proscioglimento per tenuità del fatto non è appellabile se il reato per il quale si procede può comportare in concreto la comminazione della sola ammenda. Quindi non vi è alcuna disparità di trattamento. Il ricorrente lamentava poi, in particolare, il mancato pronunciamento del giudice di merito sulla richiesta difensiva di applicazione della causa di non punibilità. La risposta della Cassazione è stata che non vi è vizio di legittimità per tale “silenzio” del giudice vista l’acclarata commissione in tempi distinti di tre diverse violazioni del testo unico dell’edilizia, che di per sé determinano l’abitualità del comportamento che esclude la non punibilità per l’offesa tenue. La “plurima” violazione costituisce il sintomo di abitualità del comportamento e a nulla rileva che le singole condotte siano di per sé sussumibili nella nozione di tenuità del fatto. La causa di non punibilità prevista dall’articolo 131 bis del Codice penale è, infatti, sottoposta al ricorrere della duplice condizione della tenuità dell’offesa e della non abitualità del comportamento. Cioè entrambe devono sussistere. E la valutazione sull’abitualità va operata dai giudici solo se sussiste il presupposto della prima condizione che viene accertata in base alle modalità di commissione del reato e all’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato. Infine, la Cassazione respinge anche l’argomento difensivo che sosteneva l’estinzione del reato edilizio a seguito dell’ottenimento del permesso di costruire in sanatoria. L’estinzione, infatti, non scatta per violazioni della normativa antisismica o di quella relativa a opere di conglomerato cementizio. Spaccio, inammissibile il ricorso contro la confisca del profitto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2021 Lo ha deciso la Cassazione, con la sentenza n. 18160 depositata oggi, chiarendo che il negozio è inesistente. La Cassazione, sentenza n. 18160 depositata oggi e segnalata per il “Massimario”, rafforza un risalente principio in base al quale a seguito di patteggiamento il condannato non ha diritto di impugnare la confisca del denaro frutto del reato di cessione di stupefacenti in quanto il negozio è inesistente. Inammissibile dunque il ricorso di una donna contro la sentenza del Tribunale di Bergamo che, ai sensi dell’articolo 444 cod. proc. pen., le aveva applicato la pena concordata in relazione a tre violazioni dell’articolo 73, comma 5, Dpr n. 309 del 1990, con riferimento ad altrettante cessioni di sostanza stupefacente del tipo cocaina e hashish. Il Tribunale aveva altresì disposto la confisca del denaro sequestrato - pari a 1.475 euro - trovato in contanti presso l’abitazione dell’imputata all’esito della perquisizione domiciliare. A tal proposito, scrive la Terza sezione penale, va richiamato l’orientamento di questa Corte, “affermato da una risalente sentenza delle Sezioni Unite, e tuttavia mai sconfessata sul punto, secondo cui, con riferimento al sequestro di una somma di denaro, ritenuta profitto della cessione di una modica quantità di sostanza stupefacente, allorché il giudice di merito abbia provveduto, con la sentenza in sede di patteggiamento, alla confisca del somma in sequestro, l’eventuale ricorso per Cassazione va dichiarato inammissibile per carenza di interesse, mancando, in capo all’imputato, parte di un negozio illecito per contrarietà a norme imperative, il diritto a rientrare nella disponibilità della somma costituente la controprestazione della cessione”. Un orientamento, prosegue la decisione, ripreso in successive sentenze, le quali hanno ribadito che: “In tema di ricorso per Cassazione avverso sentenza di applicazione della pena, difetta l’interesse dell’imputato ad impugnare la confisca del denaro provento del reato di cessione di sostanze stupefacenti, in quanto frutto di un negozio inesistente improduttivo di effetti giuridici, privo di una situazione giuridica soggettiva tutelata dall’ordinamento” (Sez. 3, n. 29982/2019; sez. 6, n. 26728 /). In altri termini, insiste la Corte, “il condannato con sentenza dl patteggiamento, con cui è stata disposta la confisca dei proventi del reato di cessione di stupefacenti, non ha diritto alla restituzione di detti proventi, atteso che, pur non essendo prevista l’ablazione obbligatoria del profitto del reato in caso di patteggiamento, tali beni non sono mai entrati nel patrimonio dell’imputato, trattandosi del corrispettivo di una prestazione concernente un negozio contrario a norme imperative (Sez. 3, n. 45925/2014,; sez. 6, n. 44096/2010). La ricorrente, conclude la Corte, laddove si limita a censurare la quantificazione del profitto del reato, sostenendo che la somma sequestrata, almeno in parte, sia provento dell’attività di sarta, “risulta meramente assertivo, nulla avendo al riguardo allegato la ricorrente”. Tale ipotesi alternativa, dunque, “rimane paralizzata dal difetto di autosufficienza”, di fronte alla prova di “derivazione della somma in sequestro dall’attività illecita, desunta dalle convergenti dichiarazioni dei tre acquirenti”. Lazio. Carceri, il 70% dei detenuti ha ricevuto il vaccino Moderna tg24.info, 12 maggio 2021 Prima somministrazione per 3.954 detenuti nei 14 istituti di pena. Anastasìa: “Adesso attendiamo indicazioni sulla ripresa in sicurezza dei colloqui in presenza con i familiari”. Il 70 per cento delle persone detenute ha ricevuto la prima somministrazione del vaccino Moderna, vale a dire 3954 su 5648 detenuti presenti nei 14 istituti di pena del Lazio il 6 maggio. È questo il dato trasmesso dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise al Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa. La maggiore percentuale di somministrazioni effettuate riguarda il “Mammagialla” di Viterbo, con il 98,5 per cento di persone vaccinate (589 detenuti vaccinati su 598), seguito da Cassino, con il 92,1 per cento (164 su 178), e dalla Casa di reclusione di Rebibbia con l’87,7 per cento (286 su 326). “Si tratta di un significativo successo della campagna vaccinale predisposta dalla Regione Lazio - ha commentato Anastasìa - che ancora può crescere, in occasione delle seconde somministrazioni previste in questo mese di maggio. A questo punto si apre il tema della ripresa in condizioni di sicurezza delle attività trattamentali e dei colloqui in presenza con i familiari. Attendiamo al più presto indicazioni in tal senso da parte dell’Amministrazione penitenziaria”. Sul fronte della diffusione del virus si registra un ulteriore calo dei casi di positività nelle carceri del Lazio. Secondo quanto comunicato al Garante dalla Direzione regionale salute e integrazione sociosanitaria - Area rete integrata del territorio, si riduce ancora il numero di persone detenute positive al coronavirus: a fronte dei 40 casi tre maggio, il 10 maggio sono stati registrati 17 casi in tutto: 14 detenute positive nel carcere femminile di Rebibbia (la scorsa settimana erano 33), un caso a Civitavecchia Nuovo complesso, un caso a Rieti. “Una lezione che ci ha insegnato l’emergenza è la necessità di sfruttare la tecnologia in carcere, per le comunicazioni con familiari e avvocati, per l’assistenza sanitaria e per le attività di formazione e reinserimento sociale”, ha proseguito Anastasìa, ricordando che la Regione Lazio per il 2021 ha stanziato 600 mila euro per la connettività e le attività digitali in carcere. “Si possono intensificare le relazioni familiari e migliorare l’assistenza sanitaria. C’è tutta la questione dell’istruzione e della formazione: la didattica a distanza, la formazione professionale, l’idea che il carcere possa svolgere una funzione rieducativa utilizzando la tecnologia. Occorre realizzare infrastrutture di rete - ha concluso Anastasìa - per consentire le comunicazioni a distanza con istituti scolastici, servizi, patronati e tutte le realtà che ormai lavorano interamente in rete”. San Gimignano (Si). Pestaggi nel carcere, ci fu una vera spedizione punitiva di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 maggio 2021 Le motivazioni della sentenza di condanna per i dieci agenti penitenziari, autori dei pestaggi e delle torture nel carcere di San Gimignano. Il detenuto recluso al carcere di San Gimignano era tranquillo, c’era l’assenza di qualsivoglia ragione di allarme, necessità, urgenza. Eppure sono intervenuti 15 agenti penitenziari mentre stava per andare a fare la doccia, commettendo il reato di tortura e lesioni. Parliamo delle motivazioni, appena depositate, relative alla sentenza di condanna con rito abbreviato nei confronti dei dieci agenti della polizia penitenziaria del carcere di San Gimignano accusati di avere usato metodi violenti nei confronti del detenuto tunisino, Meher, nella fase di trasferimento da una cella a un’altra. Una vicenda resa pubblica per la prima volta da Il Dubbio, grazie a una lettera di denuncia di altri detenuti a San Gimignano, testimoni dell’accaduto, indirizzata all’associazione Yairaiha Onlus. Ma c’è anche l’associazione Altro Diritto che, fin da subito, ha seguito questa vicenda accanto sia alla vittima che ai detenuti testimoni del pestaggio. Il video della scena incriminata sufficiente per ricostruire l’accaduto - Ricordiamo che durante l’udienza precedente alla sentenza di condanna, sono stati visti ampi spezzoni del video che riprese la scena incriminata. L’avvocato Michele Passione, parte civile che ha rappresentato il Garante nazionale delle persone private della libertà, ha detto fin da subito che il video è apparso sufficiente per ricostruire quanto è accaduto nel reparto isolamento della Casa circondariale di San Gimignano. Infatti, nelle motivazioni, viene ben raccontata questa scena rappresentata nel video acquisito in tempo utile prima che fosse sovrascritto dalle registrazioni. I fatti sono avvenuti l’11 ottobre del 2018, poco dopo le ore 14.50, quando il detenuto Meher è stato spostato dalla cella che occupava, la numero 3 del reparto A, alla cella numero 19 del reparto B del carcere di San Gimignano. Dal filmato si vede che, poco prima dell’inizio delle operazioni di spostamento, un gruppo di agenti della polizia penitenziaria si raduna nei pressi della cancellata che separa la zona A dalla zona B del reparto di isolamento. Dal video si evince che poco dopo, precisamente alle ore 14.58, quattordici agenti in gruppo, tutti con i guanti, si avvicinano alla cella occupata dal detenuto Meher, nel reparto A, con un agente scelto leggermente in testa al gruppo che chiude alcuni spioncini delle porte blindate delle celle che precedono quella del detenuto, la vittima. Una volta che tutti e quattordici sono assiepati dinanzi alla porta blindata della cella occupata dalla persona offesa, l’agente scelto apre la porta e il detenuto Meher esce immediatamente dalla cella, qualche frazione di secondo dopo che l’ispettore fa al detenuto un repentino gesto con la mano destra, inequivocabilmente segnalante l’ordine di uscire che, come ci tiene a sottolineare il giudice nelle motivazioni, è stato adempiuto in maniera istantanea, spontanea e pacifica da parte di Meher. La vittima era in attesa di andare al reparto docce - E ancora, nelle motivazioni si osserva che la vittima era in attesa di essere condotto al reparto docce. “Egli, dunque, non era in attesa di uno spostamento di cella, ma era in attesa di andare a fare la doccia e ciò, ancor prima che dalle dichiarazioni del medesimo emerge dalla mera visione del filmato”, sottolinea il giudice. Dal video emerge che Meher viene fatto cadere a terra a causa delle spinte provocate dalla massa di agenti che si spostava e quando cade, prima delle cancellate di separazione tra il lato A e il lato B del reparto di isolamento, si vedono distintamente e chiaramente numerosi calci che vengono sferrati in danno del corpo a terra. Dopodiché viene rialzato, privo dei pantaloni che nel frattempo gli si erano tolti, e viene condotto con forza, quasi trascinandolo, nella sezione B. Ricade a terra, a quel punto si vede l’assistente capo che si inginocchia di peso (non indifferente, perché è obeso) sulla schiena del detenuto che giaceva già immobilizzato, a terra, riverso pancia in sotto. Il detenuto Meher stretto al collo, quasi a soffocarlo - “Con estrema violenza - si legge nelle motivazioni -, il detenuto Meher viene rialzato, mentre l’assistente capo gli stringe una mano intorno al collo, quasi per soffocarlo, e l’assistente capo gli torce con forza il braccio sinistro dietro la schiena”. Giunti presso la cella, gli agenti spingono dentro il detenuto e poi, per due minuti circa, quasi tutti entrano nella cella (non ripresa dalle telecamere). In questa fase viene tirato fuori un tavolino dalla cella, che poi un agente porta via, ma anche dopo la rimozione del tavolino gli agenti continuano ad entrare e uscire senza portare fuori alcunché, fi quando la porta della cella blindata viene chiusa e nessuno - fino alla fine delle riprese - si recherà più presso il detenuto Meher. Tutti e 10 gli agenti, sono stati condannai per i reati di tortura e lesioni che - scrive il giudice - “possano essere ritenuti unificati dal vincolo della continuazione, poiché commessi in virtù del medesimo disegno criminoso rispondente alla volontà di realizzare una spedizione punitiva nei confronti del detenuto Meher”. Pavia. Botte in carcere, giudice riapre le indagini di Maria Fiore La Provincia Pavese, 12 maggio 2021 Annullata l’archiviazione delle denunce di pestaggi ai danni dei detenuti. Esulta l’associazione Antigone: “Andiamo avanti”. Le indagini sui presunti pestaggi denunciati dai detenuti dopo la rivolta in carcere a Torre del Gallo, la sera dell’8 marzo dello scorso anno, vanno avanti. La giudice Valentina Nevoso ha annullato l’archiviazione decisa alcuni mesi fa dal giudice di pace, chiamato a esaminare la richiesta della procura. Richiesta, come si legge nel provvedimento del tribunale, “accolta con la mera apposizione di un timbro”, quindi senza motivazioni. Soddisfatto l’avvocato Pierluigi Vittadini, che rappresenta alcuni detenuti, e l’associazione “Antigone”, che tutela i diritti dei reclusi. “Continueremo a monitorare il procedimento di Pavia - spiega l’avvocata di Antigone, Simona Filippi. Proprio sul caso pavese presentammo un esposto ad aprile dello scorso anno”. Esposti in tutta Italia - Dopo le rivolte nelle carceri italiane, in piena emergenza Covid, oltre alle indagini sui saccheggi degli istituti furono presentati anche diversi esposti su presunti pestaggi ai danni dei detenuti. “Sono quasi tutti in fase di indagine, ad eccezione del caso di Modena, dove si registrarono nove morti e la procura ha chiesto di recente l’archiviazione - spiega Filippi -. Il caso di Pavia colpisce perché la richiesta di archiviazione è stata valutata da un giudice di pace, che non ha neppure motivato la decisione. E questo al di là delle valutazioni della procura”. La sommossa - I fatti denunciati dai detenuti si intrecciano con la rivolta esplosa a Torre del Gallo la sera dell’8 marzo dello scorso anno, quando alcuni reclusi diedero fuoco ai materassi e agli arredi e poi salirono sui tetti del carcere di Torre del Gallo per protestare contro il blocco dei colloqui a causa dell’emergenza sanitaria. Gli esposti ripercorrono alcuni momenti della ribellione, che coinvolse diversi detenuti. Alcuni, dopo essere riusciti ad aprire una porta, salirono sui tetti della struttura carceraria e si convinsero a scendere solo diverso tempo dopo. I firmatari degli esposti negano di essere coinvolti nella rivolta, ma soprattutto si soffermano sui fatti avvenuti all’indomani della rivolta, il 9 marzo. Secondo la loro ricostruzione gli agenti si sarebbero prima presentati nelle loro celle, verso le due di notte, per insultarli e minacciarli. Il giorno dopo alcuni detenuti sarebbero stati convocati nella saletta ricreativa della sezione, dove sarebbero stati picchiati. Archiviazione annullata - Nel provvedimento del tribunale di Pavia si ripercorrono i motivi della richiesta di archiviazione: “Il pubblico ministero rilevava come gli autori del reato fossero rimasti ignoti e che quindi le circostanze del caso non rendessero opportuno lo svolgimento di ulteriori indagini, i cui esiti sarebbero stati negativi”. Dal suo canto la difesa aveva invece chiesto ulteriori indagini. “Il gip, tuttavia, archiviava, senza dire nulla in merito”, si legge nel provvedimento. Da qui l’annullamento dell’archiviazione. Avellino. Ciambriello visita la Rems e il carcere di Sant’Angelo dei Lombardi ottopagine.it, 12 maggio 2021 Elogiata la scelta dei vaccini da parte della direzione Asl di Avellino. “Ho constatato la solita nota dolente: la mancanza di medici sia specialisti in psichiatria sia in medicina generale. Nella Rems di San Nicola Baronia, nelle carceri avellinesi e nell’articolazione psichiatrica presso la casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi. È una piaga irrisolta, denunciata con particolare dovizia anche dalla Magistratura di Sorveglianza presso il Tribunale di Avellino al Ministro della Giustizia. Il tema della salute mentale in carcere, cioè dei detenuti con problematiche psichiatriche anche gravi, necessita di una equipe multidisciplinare perché tali reclusi o internati rischiano di vivere una doppia reclusione”, così Samuele Ciambriello, garante campano delle persone private della libertà personale, dopo la visita effettuata oggi alla Rems di San Nicola Baronia e al carcere di Sant’Angelo dei Lombardi. Nella residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezze, accompagnato dal direttore Berniero Ragone, ha fatto visita ai 20 internati (di cui 19 hanno già ricevuto la vaccinazione) ascoltando le loro storie di vita e le critiche che hanno manifestato nei confronti del cibo proveniente dall’esterno. Ciambriello ha ricevuto la stessa critica dai ristretti della Rems di Calvi Risorta: “Ritengo che in queste strutture una cucina interna autonoma possa aumentare le relazioni così da far vivere un clima familiare”. Il garante campano ha anche donato delle pitture utili alla realizzazione di murales sia all’interno della struttura sia presso il piccolo centro cittadino. Subito dopo si è recato presso l’istituto penitenziario di Sant’Angelo dei Lombardi dove oggi sono stati vaccinati 96 detenuti e 8 agenti, mentre ad Ariano Irpino 132 e a Bellizzi 130. Venerdì prossimo continueranno le vaccinazioni nel carcere di Avellino e saranno vaccinate le 9 donne recluse nell’Icam di Lauro. Il garante ha visitato l’articolazione psichiatrica dove su sette posti disponibili uno solo era occupato. Ha poi incontrato e dialogato con una delegazione di detenuti. Ciambriello così conclude “ho apprezzato la scelta del direttore generale dell’Asl di Avellino Maria Morgante per aver deciso per i detenuti sia il vaccino monodose sia il vaccino Pfizer per gli utenti fragili. Ancora una volta a Sant’Angelo dei Lombardi ho verificato con mano che è un carcere modello dove anche le relazioni umane agenti-personale educativo-operatori socio-sanitari- detenuti sono significative realizzando così il volto costituzionale della pena con finalità rieducativa”. Cuneo. “Il carcere non è l’unica risposta, ma un tassello del sistema giudiziario” targatocn.it, 12 maggio 2021 Un’analisi dell’ultimo anno di attività del carcere “Cerialdo” di Cuneo come quella realizzata nella serata di lunedì 10 maggio a favore delle Commissioni comunali I e VII non può che partire dai numeri della pandemia da Covid-19 riguardanti la struttura penitenziaria - comunicati dal garante regionale dei detenuti Bruno Mellano: dei 61 detenuti positivi dall’inizio dell’epidemia oggi se ne contano zero (stesso risultato per i due operatori sanitari contagiati nelle scorse settimane). Dei 32 agenti positivi, invece, ne rimangono tre. “La pandemia è ed è stata una faccenda complicata - ha sottolineato Mellano -, che ha fatto emergere le difficoltà operative e strutturali delle carceri della provincia di Cuneo. Ma i dati riguardo le vaccinazioni parlano di 147 detenuti che hanno ottenuto la prima dose, 15 alla seconda e altri 35 che hanno dato disponibilità alla vaccinazione dopo una prima titubanza; in questo modo potranno riprendere le attività carcerarie, attualmente sospese o ridotte ai minimi termini e portate avanti nonostante le grosse difficoltà tecnologiche”. L’incontro con le commissioni ha visto anche la presenza di Mario Tretola - garante cittadino, dimissionario a gennaio 2021 - e l’educatore Gaetano Pessolano. Il neo direttore del carcere di Cuneo Francesco Frontirré è stato invitato, ma non ha potuto presenziare. “Ringrazio Mario Tretola e Bruno Giraudo, ma anche il vicesindaco Patrizia Manassero, per tutto il lavoro che, assieme alle persone che lavorano e gravitano sul carcere di Cerialdo, hanno realizzato nel corso degli anni - ha detto il sindaco di Cuneo, Federico Borgna. La figura dei Garanti è importante, può aiutare a rendere più aderente al dettato costituzionale la realtà del carcere, e a ricordarsi che la qualità di un gruppo sociale si valuta dalle condizioni in cui versano i membri che più faticano”. Patrizia Manassero: “I garanti sono utili per comprendere meglio e affrontare con tempestività situazioni complesse: come amministratori cerchiamo di essere sempre vicini e “di supporto” a chi governa il carcere e alle sue attività, coinvolgendo la struttura in iniziative come Scrittorincittà o la Fiera del Marrone. I detenuti chiedono di lavorare, più di ogni altra cosa ma le risorse utili per permetterglielo a livello di amministrazione comunale arrivano in modo complicato e farraginoso; se mi è consentito un appello, chiedo più sintonia ed efficacia in questo senso”. Al centro dell’incontro - oltre appunto all’analisi dell’attuale situazione nel carcere del capoluogo di provincia - anche la modifica al regolamento relativo alla figura del garante cittadino dei detenuti: dal mandato tradizionalmente legato a quello del sindaco in carica, il garante nazionale Mauro Palma ha chiesto di definire il mandato a quattro anni per sottolineare ancor di più l’autonomia della figura dalla politica. Importanti per la struttura del “Cerialdo” anche le novità annunciate da Mellano in riferimento ai lavori strutturali, le cui carenze sono state denunciate più volte negli ultimi anni. A seguito di un incontro con il neo-direttore, Mellano ha infatti comunicato come ci si aspetti che una buona parte dei lavori nel padiglione ex-giudiziale - che una volta aperto permetterà di ospitare 100 nuovi detenuti - venga conclusa nel prossimo autunno; metà dei quattro piani del padiglione 41-bis ancora chiusi sono stati invece recentemente riaperti. “La Regione Piemonte ha, in tutte le carceri, un garante e forse è un unicum a livello nazionale - ha detto Tretola nel suo intervento. Tramite queste figure è possibile affacciarsi sulle problematiche del carcere in maniera approfondita, coordinata e puntuale, ma avere contatto costante con persone dalla libertà ristretta e in chiara difficoltà non è un’esperienza facile per chi la persegue”. “C’è ancora troppa indifferenza rispetto alle tematiche carcerarie, le strutture di detenzione sono ancora troppo distanti dalla società vera e propria: serve superare questo disagio, questa voglia di non vedere certe situazioni. Rimuovere i pregiudizi rispetto ai carcerati e sul valore della pena. Le paure perdono significato, davanti ai volti dei detenuti” ha concluso. “Noi cittadini vediamo spesso il carcere come un luogo autonomo e chiuso in se stesso, con un compito preciso e dal quale ci attendiamo il raggiungimento di alcuni obiettivi nell’ottica di sicurezza generale: dal 1975, però, il carcere viene considerato un pezzo del sistema giudiziario, ed è necessario considerarlo come un tassello e non come risposta unica e autoreferenziale. Per questo è necessario che le istituzioni del territorio siano consapevoli di come il carcere possa funzionare al meglio solo se inserito in un contesto che gli dia attenzione” ha esordito Mellano. “L’unico modo per fornire il carcere delle risorse necessarie al suo funzionamento è quello di potenziare i collegamenti con il territorio - ha ribadito Mellano, ricordando l’attivazione della scuola edile e l’ingresso dell’istituto alberghiero nel “Cerialdo” come esempi positivi di questa permeabilità tra struttura e società. Nella relazione con il territorio si può lavorare per offrire a tutti i detenuti un’esecuzione penitenziaria in carcere efficace ed efficiente, che punti all’abbassamento della recidiva come interesse della collettività; il periodo carcerario deve portare il detenuto a imboccare percorsi alternativi a quelli che l’hanno generato”. Il Garante regionale ha poi sottolineato ancora una volta il problema del sovraffollamento - che riguarda il carcere “Cerialdo” come molti altri in provincia e in Piemonte - e quello, tutto cuneese, degli avvicendamenti nel ruolo di direttore: “Un carcere di primo livello come questo non può sperimentare da anni una carenza grave di questo tipo - ha detto -. Si tratta di un problema grave e preoccupante, che inficia la possibilità di governare davvero la complessa macchina dell’amministrazione penitenziaria”. Genova. Fare scuola, fare giustizia: un convegno per migliorare la scuola in carcere di Alessandra Nasini tuttoscuola.com, 12 maggio 2021 Si è svolto lo scorso 13 aprile il Convegno di presentazione del “Vademecum per il dialogo - Fare scuola, fare giustizia”, redatto grazie ad un percorso congiunto e coinvolgente che ha visto protagonisti i docenti dei Cpia (Corsi provinciali per l’istruzione degli Adulti), il personale della scuola in carcere, la polizia penitenziaria e i funzionari giuridico pedagogici. Tutti gli attori coinvolti hanno espresso i loro bisogni formativi e le loro idee per monitorare e migliorare l’esperienza di scuola in carcere (“unire le parole della scuola alle parole del carcere”). Il Provveditore regionale di Piemonte Liguria e Val D’Aosta, Pier Paolo D’Andria, Il Direttore Regionale dell’USR Liguria, Ettore Acerra, e la dottoressa M. Rosaria Roberti a nome del Direttore Regionale di USR Piemonte hanno sottolineato il valore di questa buona pratica di sistemi che interagiscono, che darà forma ad una collaborazione più strutturata e continuativa, ancora più nevralgica oggi con le restrizioni alla didattica imposte dall’emergenza. Lo scopo del Vademecum, realizzato grazie alla sinergia degli Uffici Scolastici Regionali per la Liguria e per il Piemonte e del Provveditorato per l’Amministrazione Penitenziaria di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta è di dare un concreto seguito al protocollo rinnovato il 19 ottobre 2020 tra il Ministero dell’Istruzione e quello di Giustizia, per garantire la continuità dell’istruzione e della formazione in carcere ed il diritto allo studio di adulti e minori reclusi e in area penale esterna anche durante la situazione emergenziale. La dirigente Ada Maurizio, che ha coordinato l’équipe di lavoro e redatto il vademecum, ha evidenziato che fare scuola in carcere significa “lavorare in stretta collaborazione tra tutti I profili professionali che vi operano, per garantire a tutti i detenuti il diritto allo studio. In assenza di tale sinergia viene meno la qualità dell’istruzione in carcere che, ricordiamo, è uno dei pilastri del trattamento”. Dal Vademecum: “Fare scuola in carcere non è sedersi in cattedra e parlare, misurare le conoscenze attraverso la correzione di un compito oppure interrogare e dare un voto, mantenere la disciplina tenendo tutti seduti e zitti. La scuola in carcere rappresenta la volontà dello Stato di migliorare la società”. Fare scuola in carcere è anche “lavorare in rete col territorio, coinvolgendo le scuole disponibili nella progettazione di visite tra studenti e, laddove possibile, di attività comuni”. Lo scopo ultimo di tale impegno è quello di reintegrare il detenuto nella vita sociale con un suo progetto di vita. I numerosi e sentiti interventi dei partecipanti al Convegno si sono concentrati proprio su questo imprescindibile obiettivo. In particolare Mauro Palma, Presidente nazionale dell’Autorità Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, ha ricordato che “il percorso educativo porta il detenuto a riflettere sulla propria esperienza, costruendo intorno a lui una rete di saperi in modo modulare e non strettamente legato alle discipline; in questo progetto di istruzione non può mancare il rafforzamento delle competenze tecnologiche per un suo futuro reinserimento nel mondo del lavoro.” Nello stesso tempo, il Vademecum comprende anche interessanti cenni storici della Scuola in carcere ed un glossario emotivo e relazionale per capire e sostenere lo stato d’animo dei detenuti, che comprende anche solitudine, rabbia, vergogna e trauma post arresto. Il dirigente tecnico Roberto Peccenini, nel coordinare il convegno e la tavola rotonda, ha ribadito proprio l’obiettivo comune di ricostruire dentro al carcere il tessuto relazionale del detenuto, “spezzato” nei confronti dell’esterno. Infine, il dirigente dell’Ufficio VI del Ministero dell’Istruzione, Marco Fassino, ha annunciato che la scelta della scuola penitenziaria (in particolare della Secondaria di II grado) da parte dei detenuti è cresciuta di un terzo a partire dall’anno scolastico 2017-18; ha inoltre sottolineato che essi sono studenti che richiedono un percorso individualizzato, che preveda un sostegno anche dopo l’uscita dal periodo di detenzione. Il Convegno si è concluso con i ringraziamenti della dirigente dell’USR Piemonte, Serena Caruso Bavisotto, e del Dirigente Alessandro Clavarino dell’USR Liguria, certi che questa “sinergia di sistema porterà ad un salto di qualità di strumenti e percorsi didattici, con sempre maggiore consapevolezza e condivisione”. Il “Vademecum scuola-carcere: piccola guida per conoscere, conoscersi e interAgire” è stato recentemente pubblicato a cura di Anna Nervo in piacevole formato ebook, fruibile al link https://read.bookcreator.com/sJqESH8aN0WTc75Y7cmfrraYwl63/az8k1CPcRlWxmmMiWE_irA e sui siti delle USR Piemonte e Liguria. Il Gruppo di lavoro al completo: Antonietta Centolanze e Tecla Riverso (USR Piemonte), Gisella Merenda, Roberto Peccenini (USR Liguria), Matilde Chareun, Maurizio Plaia e Francesca Romana Valenzi (Prap Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta), Francesco Fienga (IIS V. E. Ruffini di Genova). Brescia. “La scrittura come emancipazione”, venerdì un incontro in Sant’Afra quibrescia.it, 12 maggio 2021 Il progetto “Fili da Riannodare. Dal carcere a nuovi spazi di libertà nasce” dall’iniziativa dell’associazione “Fiducia e Libertà Carcere” che opera nelle carceri di Brescia dal 2017 dove svolge la propria attività di volontariato alla popolazione carceraria attraverso colloqui, progetti culturali, iniziative di sensibilizzazione, attività teatrali e laboratori sul tema della genitorialità ed affettività. Il progetto prevede cinque incontri da maggio a luglio 2021 aperti alla popolazione, che si svolgeranno presso il Teatro Sant’Afra, vicolo Delle Ortaglie 6, dalle ore 18,30 alle ore 20,30, con ospiti impegnati da anni in attività di formazione culturale e artistica, promozione sociale, difesa dei diritti dei detenuti, impegno divulgativo negli istituti di pena italiani. Il primo appuntamento, il 14 maggio alle 18,30, ha come tema “La scrittura come emancipazione e testimonianza”. Pino Roveredo, scrittore e giornalista, vincitore del Premio Campiello 2005: da detenuto a garante dei detenuti del Friulia Venezia Giulia. Testimonianze e letture di Redouane Bouadili, Ernesto Settesoldi, Amanuel Tesfaj, David Turcato. A cura di Abderrahim El Hadiri, regista e attore, accompagnamento musicale Marcelo Solla. Il significato dell’iniziativa è mettere a fuoco uno dei momenti più delicati per un/a detenuto/a: quello del termine della pena. Tornare a tessere la vita dopo anni di reclusione, infatti, non è davvero facile, è indispensabile osare il coraggio della speranza ma per questo non basta la buona volontà o i percorsi formativi del carcere. È necessario il coinvolgimento della società civile che va responsabilizzata, coinvolta e informata. L’idea guida del progetto ‘Fili da Riannodare’ è quella di mettere al centro le testimonianze e l’esperienza delle persone detenute, consentendo di accorciare le distanze tra il “dentro e il fuori”, alzare il velo di diffidenza dell’istituzione che talvolta vive come un’intrusione lo sguardo esterno, e della società civile combattuta tra il pregiudizio e l’indifferenza. L’esperienza della detenzione crea una lacerazione nell’esistenza, sancisce un prima e un dopo, si impone come evento apicale e traumatico. Il tempo della pena e della detenzione delinea nuovi significati e impone interrogativi: è ancora il carcere un luogo di rieducazione? Cosa significa avviare e implementare processi di umanizzazione dentro e fuori dal carcere, con quali scopi, competenze? Con quali esiti? Scontare la detenzione non esaurisce evidentemente la pena: implica la ricostruzione di trame esistenziali, sociali, affettive attraverso percorsi che quando ben preparati, arginano la recidiva e favoriscono il reinserimento sociale del detenuto. Ddl Zan, il coltello del pedagogista di Michele Ainis La Repubblica, 12 maggio 2021 Questa legge rifugge dalle clausole generali e confeziona regole minute e puntute come spilli. Anche a costo di gonfiare a dismisura il diritto penale. Legge sull’omofobia, l’ultima trincea di guerra. Ma è possibile prendere partito senza intrupparsi negli schieramenti di partito? Si può ragionarne laicamente, mentre destra e sinistra si fronteggiano in due blocchi compatti? Perché è questo che è avvenuto: la militarizzazione del dibattito. Peraltro nemmeno un gran dibattito, nulla di simile al confronto d’opinioni sul divorzio, sull’aborto, sulle unioni civili, sulla fecondazione assistita. Quando i partiti lasciavano libertà di coscienza ai propri eletti, sicché i fronti si mescolavano, si contaminavano a vicenda. Adesso, viceversa, nessuna libertà, ammesso che sopravviva la coscienza. E in Parlamento è muro contro muro: l’anno scorso Lega e Fratelli d’Italia hanno depositato più di 800 emendamenti, ora l’ostruzionismo continua fra schermaglie procedurali e progetti alternativi al disegno di legge Zan. Eppure avremmo avuto tutto il tempo di rifletterci senza pregiudizi, dato che il primo testo venne presentato da Nichi Vendola nel 1996, un quarto di secolo fa. E la riflessione chiama in causa i due valori fondanti della democrazia: libertà d’espressione e tutela delle minoranze. Giacché la legge in questione intende offrire una speciale protezione contro l’hate speech, le parole d’odio basate sull’orientamento sessuale. Per arginarle, per incriminarle, introduce un reato e una specifica aggravante. Da qui tutto il sale della legge, come ha dichiarato Alessandro Zan al Corriere della sera: in futuro nessuno potrà dire che i gay devono essere bruciati nei forni. E perché, adesso si può dire? L’istigazione a delinquere è già un reato, punito dall’articolo 414 del codice penale con la reclusione fino a cinque anni; e infatti il consigliere regionale della Lega che nel 2016 avrebbe pronunziato quella frase è stato denunciato. Del resto pure l’aggravante figura già nel nostro ordinamento: si chiama circostanza aggravante per motivi abietti o futili, e a norma dell’articolo 61 del codice penale comporta l’aumento fino a un terzo della pena. Qual è allora il “di più” di questa legge? Una tecnica normativa che rifugge dalle clausole generali, confezionando regole minute e puntute come spilli. Anziché dire “è vietato insultare il prossimo”, si preferisce elencare gli insultati - i neri, gli ebrei, e poi i gay, i trans, le donne, i disabili. Anche a costo di gonfiare a dismisura il diritto penale, come se 35 mila fattispecie di reato - già in vigore per gli accidenti più svariati - in Italia non fossero abbastanza. Tuttavia su quest’aspetto non c’è troppa differenza fra il ddl Zan e i disegni di legge proposti dalla destra. Anzi: quest’ultima rivendica un aumento perfino maggiore delle pene, in caso di discriminazione e di violenza. La differenza sta piuttosto nell’intenzione, nello scopo. La destra si muove in una logica puramente repressiva; per la sinistra la nuova disciplina avrà invece una funzione pedagogica. Come traspare fin dal primo articolo del ddl Zan, con il diritto all’affettività verso ogni sesso, con l’enunciazione dell’identità di genere come “identificazione percepita” della propria sessualità. E come dimostra l’istituzione di una Giornata nazionale contro l’omofobia, oltre che di programmi informativi nelle scuole. Però, attenzione: talvolta il pedagogista danneggia i propri allievi. Ne è prova il sondaggio realizzato da varie associazioni femministe e diffuso dalla Stampa, dove il 66% s’oppone al self-id, la libera autocertificazione del proprio genere sessuale. Non è forse la cancellazione del femminile, dopo decenni di lotte per difenderne la specificità? E infatti in Gran Bretagna l’identità di genere è finita nel cestino dei rifiuti. Ma anche i gay e le lesbiche potrebbero rimetterci, alla fine della giostra. Perché ogni misura di speciale protezione verso questa o quella minoranza rischia d’abbassarne l’autostima, alimentandone il senso d’inferiorità sociale. “Non avevo mai fatto caso alla mia pelle finché non sono stato ammesso al college in quanto nero, grazie a un piano di affirmative action”, disse uno studente dell’università di Berkeley. È il coltello del pedagogista: un’arma a doppio taglio. Migranti, l’emergenza umanitaria di Roberto Saviano Corriere della Sera, 12 maggio 2021 I duemila arrivi a Lampedusa ripropongono il problema, che non va considerato come se fosse un’invasione. L’emergenza migranti c’è, ma non nei termini in cui viene raccontata, perché non è emergenza invasione ma emergenza umanitaria e l’Italia, insieme all’Europa, ancora una volta non sembra essere sulla strada giusta. Da un lato va sottolineata con forza la assoluta necessità di salvare migranti in mare, dall’altro bisogna mostrare lungimiranza e pragmatismo ammettendo, una volta per tutte, che l’immigrazione, per un Paese demograficamente morto come l’Italia, è una benedizione e una necessità. Benedizione e necessità da riportare immediatamente nei confini della legalità e del rispetto dei diritti umani che, al momento, non sono rispettati nei campi di detenzione libici, in mare dove mancano soccorsi e in Italia, dove i lavoratori stranieri senza permesso di soggiorno vengono trattati come schiavi. La situazione è disperata e non perché l’Italia non sia in grado di accogliere chi raggiunge le sue coste, ma perché le forze politiche populiste - Matteo Salvini e Giorgia Meloni - continuano sui migranti a fare campagna elettorale, mentre il ministro Di Maio e il presidente Draghi sembrano convergere su un maggiore coinvolgimento dell’Europa, a cui l’Italia chiede di unirsi al finanziamento della Guardia costiera libica. Non basta l’errore di aver dato noi soldi e imbarcazioni alle milizie libiche, ora chiediamo anche all’Europa di partecipare. Così come, a un’Europa che ci piace descrivere come egoista lontana e matrigna, l’Italia chiede di farsi carico di accogliere volontariamente una parte dei migranti giunti tra domenica e lunedì a Lampedusa. Come sempre dimentichiamo che non siamo gli unici ad accogliere, che il fronte libico non è l’unica strada attraverso cui i migranti raggiungono l’Europa e ci accontentiamo di un racconto che non corrisponde alla realtà dei fatti. È giunto invece il momento di cambiare passo, possiamo e dobbiamo farlo. Filippo Grandi, alto ufficiale delle Nazioni Unite per i rifugiati, ha detto una cosa profondamente vera: gli arrivi degli ultimi giorni sono numeri gestibili. Le oltre 2.000 persone, arrivate in autonomia nelle ultime ore a Lampedusa, sono un numero che non può gettare nel panico un Paese come l’Italia che ha gestito flussi ben maggiori, con o senza pandemia. E arrivate in autonomia significa giunte in Italia da sole, senza le Ong a fare da pull factor, come abbiamo sentito dire per anni, e come ipotizzato da tante indagini della magistratura siciliana che a oggi non hanno portato a nulla di concreto. Spesso mi chiedo come sia possibile cedere al più falso dei racconti: i migranti che tolgono lavoro agli italiani, gli italiani in difficoltà abbandonati a favore dei migranti, gli italiani che devono restare in casa mentre i migranti sarebbero liberi di spostarsi. È una follia collettiva da cui non riusciamo a uscire, una ragnatela che più ti muovi più ti imprigiona. E poi la consapevolezza che chi è chiamato a gestire il fenomeno migratorio spesso decide di strumentalizzarlo per generare odio e paura, perché con la paura si governa meglio, anzi, con la paura si comanda meglio. E l’odio è un sentimento facile da alimentare, la solidarietà al contrario si muove lentamente ed è vista con diffidenza. Chi odia è sempre percepito come autentico perché permane il retro pensiero secondo cui se odi sei schietto, coraggioso, diretto; mentre occuparsi dell’altro innesca il sospetto della manipolazione, della furbizia per ottenere consenso, benevolenza. Eppure è vero l’esatto contrario. Occorre più coraggio ad aiutare rischiando il fraintendimento, che a girare lo sguardo per non avere il quotidiano avvelenato e compromesso. Con oltre 2.000 persone arrivate autonomamente a Lampedusa, mi aspetterei che il ministro Di Maio chiedesse scusa (formula tanto cara al suo partito) alle Ong per averle definite “taxi del mare”. Perché il fenomeno migratorio non lo puoi fermare bloccando le Ong, non lo puoi fermare con i post sponsorizzati da Salvini su Facebook o invocando, come fa Meloni da anni, improbabili blocchi navali (blocco navale tecnicamente significa che se l’imbarcazione non si ferma bisogna sparare). Salvini e Meloni forse non si rendono conto di stare cavalcando una tigre inferocita che non si può più fermare, in questa ormai palese guerra fratricida a chi mostra la maggiore ferocia. Il vero pull factor, oggi come sempre, è l’arrivo dell’estate e il mare relativamente calmo ma, come avverte Sergio Scandura dai microfoni di Radio Radicale, calmo solo in apparenza, perché pieno di insidie. E così pescherecci e gommoni stipati di persone arrivano prevalentemente dalla Libia, altri, più piccoli, dalla Tunisia. A nulla è servito il muro delle vedette libiche che dal mare, per settimane, hanno riportato migranti nei campi di detenzione: appena possibile dalla Libia si tenta la traversata ancora e ancora, perché la Libia è un inferno su cui l’Italia e l’Europa non hanno alcun controllo. A Lampedusa sono arrivati natanti stracarichi di persone partite da Zuara attratti non da buonisti favorevoli all’invasione dell’Europa, ma da prospettive di vita accettabili. Sogno che, peraltro, condividono centinaia di migliaia di nostri connazionali che, ogni anno, senza fuggire da guerre o persecuzioni, decidono, con il cuore gonfio di sofferenza, di lasciare l’Italia. In Italia ogni anno una città di medie dimensioni svanisce per il calo delle nascite e per effetto dell’emigrazione, i migranti che arrivano non sostituiranno gli italiani - è davvero infantile pensarlo - ma occuperanno i posti vuoti in una dinamica del tutto naturale, una dinamica che esiste da quando esiste l’uomo. Il dramma sta nel non essere riusciti, dopo tanti anni, a muoverci dal primo gradino, quello in cui chi arriva viene trattato da invasore e quindi privato di diritti e ridotto in schiavitù. La ministra Lamorgese annuncia una cabina di regia, che in verità dovrebbe già esistere, insieme a un nuovo patto per la redistribuzione di migranti che però, vale la pena ricordarlo, riguarderebbe soprattutto le persone soccorse in acque internazionali. Ma gli Sos che arrivano quotidianamente ad Alarm Phone da imbarcazioni ferme in mare senza acqua, cibo e carburante vengono sistematicamente ignorati, quindi di fatto si sta lavorando per redistribuire naufraghi che stanno morendo in mare e che il mare ci restituisce cadaveri. Quattro corpi annegati, tra cui una donna e un bambino, sono stati ritrovati dalla Croce Rossa libica in corrispondenza di Gasr Garabulli, sulla costa a est di Tripoli. E così, sulla pelle dei disperati, si riaprono le danze macabre anche quest’anno. Ma se anche questa volta l’intenzione del governo è quella di appaltare a un dittatore come Erdogan (cit.) e ai delinquenti libici la gestione dei flussi migratori verso l’Europa, ritengo doveroso che si passi per il Parlamento che deve assumersi la responsabilità politica di voler bloccare i flussi migratori rinchiudendo esseri umani in campi di concentramento. Se dobbiamo prepararci all’ennesima estate di morte e disperazione, all’ennesima propaganda che si alimenta di odio e paura, almeno il Parlamento, questa volta, se ne assuma la responsabilità. Il silenzio dell’Europa sui migranti: nessuno raccoglie l’appello dell’Italia di Marco Bresolin La Stampa, 12 maggio 2021 Dopo la richiesta d’aiuto del governo, niente adesioni per accogliere le persone sbarcate in Sicilia. Le telefonate e le mail dei funzionari della Commissione europea che si occupano di immigrazione sono proseguite per tutta la giornata, ma senza grandi risultati. All’ora di cena, il numero di Stati disponibili ad accogliere una quota di migranti sbarcati negli ultimi giorni in Italia era ancora fermo a zero. Non è detto che lo resterà anche nei prossimi giorni, ma dal Palazzo Berlaymont ammettono “una certa difficoltà” a trovare Paesi volenterosi. Le principali obiezioni sollevate dalle Capitali, anche da quelle che in passato si erano mostrate disposte a partecipare alla redistribuzione su base volontaria, sono legate alla pandemia. Tra tamponi, quarantene, isolamento, gestire i trasferimenti è diventato più complicato. Ma ci sono anche ragioni politiche. Macron è frenato dal clima pre-elettorale: basti pensare che Michel Barnier - tentato dalla corsa all’Eliseo con i Repubblicani - ieri ha proposto di “sospendere per 3-5 anni l’immigrazione e ridiscutere Schengen”. Altri non hanno invece problemi a esplicitare la loro contrarietà. E il caso dell’Austria: “Distribuire i migranti in Europa - dice la ministra Karoline Edstadler - non può essere una soluzione, manderebbe un messaggio sbagliato”. Edstadler ha parlato dopo aver partecipato alla riunione del Consiglio Affari generali, durante la quale il sottosegretario Enzo Amendola ha sollevato la questione: “Ho sottoposto tra i temi prioritari dell’agenda Ue anche la ripresa degli sbarchi. Il tema non riguarda solo il nostro Paese, ma l’Europa e le sue frontiere”. Al momento la questione non è nell’agenda nel Consiglio europeo informale del 25 maggio, che inizierà la sera prima con una cena e che ha già un programma piuttosto denso: Russia, Clima e relazioni post-Brexit con Londra. Il governo vorrebbe aggiungere anche il dossier immigrazione per dare una spinta al vertice dei ministri dell’Interno in programma il 7 giugno, ma molto dipenderà dall’evoluzione degli sbarchi nei prossimi giorni. Intanto ieri mattina Mario Draghi ha riunito la cabina di regia con i ministri dell’Interno, della Difesa e degli Esteri. Di certo non sarà facile convincere gli altri Paesi europei a ripristinare una missione Ue di salvataggio nel Mediterraneo, come proposto dal segretario del Pd Enrico Letta (nonostante l’opposizione della Lega). La nascita dell’Operazione Irini - che agisce in un’area più defilata rispetto a quella delle rotte dei migranti - è frutto proprio dello scontro tra i governi sulla gestione degli sbarchi della missione Sophia che l’aveva preceduta. Scettica anche Ylva Johansson, commissaria Ue all’immigrazione: “Salvare vite in mare è sempre un obbligo, ma dobbiamo lavorare per frenare le partenze”. Di questo si è parlato ieri a Lisbona, dove c’è stata una riunione dei ministri Ue con i Paesi di origine e di transito dei migranti. Luciana Lamorgese ha ribadito che gli aiuti in Africa non bastano: “Servono interventi nel sistema di gestione all’interno dell’Ue, con l’attivazione di concreti meccanismi di solidarietà, anche d’emergenza, sul modello di quelli previsti a Malta nel 2019”. Migranti, il piano del Viminale. Hotspot in mare per la quarantena di Alessandra Ziniti La Repubblica, 12 maggio 2021 Cinque navi, 3.500 posti, tamponi e assistenza sanitaria a bordo. È ad un enorme hotspot in mare che il Viminale si affida per non farsi trovare impreparati davanti ad un’estate che si prospetta assai difficile. Una Lampedusa in costante assetto di emergenza è un’ipotesi che l’Italia intende assolutamente scongiurare perseguendo, di iniziativa propria, il rinnovo del patto di Malta. Una via parallela rispetto alla strada tutta in salita dei negoziati europei che punta ad una strategia condivisa per bloccare le partenze dalla Libia. Luciana Lamorgese lo ha ribadito ieri agli altri ministri dell’Interno europei riuniti a Lisbona sulla gestione dei flussi migratori: “Servono concreti e solidi meccanismi di solidarietà, anche d’emergenza, sul modello di quelli previsti a Malta nel 2019”. E, nei prossimi giorni, il premier Draghi (che ieri mattina ha fatto il punto del dossier immigrazione con Lamorgese, Di Maio e Guerini) tornerà a sollecitare gli Stati che ad ottobre 2019 avevano aderito all’accordo di Malta (Francia, Germania, Portogallo, Irlanda) perché rinnovino l’intesa che nei sei mesi di sperimentazione prima che il Covid bloccasse il meccanismo, ha portato al ricollocamento di circa 1000 migrati sbarcati sulle nostre coste. Se l’iniziativa italiana dovesse trovare adesioni, il governo lo comunicherà alla Commissione europea. Nel frattempo, però, il Viminale mette a punto il piano per l’estate. E punta tutto sulle navi quarantena: cinque (con personale della Croce Rossa a bordo) quelle ingaggiate con l’ultimo bando del 19 aprile, spesa giornaliera 36.000 euro, a carico della Protezione civile con il concorso della Salute e delle Regioni per quel che riguarda le spese sanitarie visto che, in tempi di Covid, ci sono da garantire le spese sanitarie. Per il momento i posti non mancano: per alleggerire l’hotspot, sono state mandate a Lampedusa la “Azzurra” e la “Allegra”: dei 1.620 posti disponibili, ne sono stati occupati 1.130. Una terza nave, la “Adriatico” ha invece appena sbarcato a Porto Empedocle alcune centina di persone salvate due settimane fa dalla Sea Watch. A disposizione, ancora vuote, la Splendid e la Excellence. “Le navi-quarantena - spiegano fonti del Viminale - assicurano sistemazioni più che dignitose e assistenza sanitaria adeguata alle persone che arrivano, e garantiscono anche la pace sociale”. Il riferimento è alle tensioni più volte esplose l’estate scorsa nelle località siciliane e calabresi, turistiche ma non solo, per le fughe di decine di migranti ospitati in strutture in cui avrebbero dovuto osservare i quattordici giorni di quarantena, spesso difficile da far rispettare in edifici non controllati da cui è facile allontanarsi. Situazioni che, finché possibile, il Viminale vuole assolutamente evitare. Una volta finito il periodo di isolamento, naturalmente, fino a quando non tornerà attivo un meccanismo di redistribuzione, l’Italia dovrà farsi carico della sistemazione dei migranti in attesa dell’esito delle commissioni sulle richieste d’asilo. Anche in questo caso, i posti nei centri non mancano: dal 2019 ad oggi le persone a carico del sistema di accoglienza italiano sono diminuite quasi di un terzo, sono oggi 75.000 a fronte delle quasi 120.000 del 2019, 50.000 sono in strutture medio-grandi, 25.000 in appartamenti nei comuni che hanno aderito all’accoglienza diffusa. Certo, se i numeri dovessero aumentare, le prefetture dovranno rifare gli appalti per la gestione dei centri, i cui costi (da quando Salvini era al Viminale) sono stati parecchio tagliati, decurtando i fondi per l’integrazione, spingendo molte realtà del Terzo settore a disimpegnarsi da un’ospitalità di tipo alberghiero. Il piano di Lamorgese ha altri due obiettivi: la ripresa dei corridoi umanitari per far arrivare in sicurezza i più fragili con diritto d’asilo (donne, bambini, famiglie) reclusi nei centri di detenzione e individuati dalle agenzie dell’Onu. E i rimpatri volontari assistiti, un piano biennale condiviso da Viminale e Farnesina, per facilitare il ritorno nei Paesi d’origine di chi, bloccato in Libia, accetta il finanziamento di un piccolo progetto per provare a ricostruirsi una vita lì da dove è fuggito. “Liberate le navi umanitarie, non bisogna sacrificare la vita di centinaia di persone” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 12 maggio 2021 L’appello delle Ong all’Italia. Parla Giorgia Linardi, portavoce della Sea Watch. Due navi della Ong tedesca sono bloccate da fermi amministrativi della Guardia costiera. “Ci lascino tornare in mare, oltre a salvare la vita di centinaia di persone salveremmo anche la dignità dell’Italia e dell’Europa inermi davanti al fallimento delle loro politiche. È la cosa più semplice da fare in questo momento. Poi speriamo che si riescano a costruire politiche di soccorso. Stiamo parlando delle vite di persone, centinaia di persone in poche settimane che stiamo sacrificando”. È accorato l’appello di Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch, la Ong tedesca con due navi bloccate da settimane da provvedimenti amministrativi della Guardia costiera. Perché le vostre navi sono ferme? “C’è un braccio di ferro con la giustizia amministrativa che adesso approderà davanti alla Corte di giustizia europea. Come succede ormai da mesi, ogni volta che portiamo a terra dei migranti, la Guardia costiera fa delle ispezioni a bordo e ci fa una enorme serie di rilievi immotivati che ci costringono al fermo fino a quando non avremo messo a punto accorgimenti impossibili. Avevamo vinto al Tar, l’avvocatura dello Stato ha fatto ricorso e ha vinto e quindi le nostre navi restano bloccate: la Sea Watch è al porto di Augusta, la Sea Watch 4 è in rada davanti al porto di Trapani con l’equipaggio in quarantena dopo l’ultimo sbarco. Anche qui una cosa incredibile: i migranti che abbiamo soccorso hanno osservato una quarantena di dieci giorni, al nostro equipaggio (tutti con tampone negativo) hanno imposto invece un fermo di due settimane. E quando finiranno la nave verrà comunque bloccata. Il modo scelto da questo governo per fermare la nostra attività”. Siete convinti che sia uno strumento per fermarvi? Perché questo governo dovrebbe impedirvi di lavorare? “Da quando siamo scesi in mare, nel 2015, ad oggi in Italia si sono susseguirsi quattro governi con le più disparate forze politiche ma con una continuità su alcuni punti. Il primo è certamente quello di fermare le navi umanitarie che proprio la Guardia costiera (che oggi ci punisce facendoci dei rilievi assurdi) ha gestito e coordinato per due anni. Basti pensare che la nostra prima nave era un ferrovecchio che andava a quattro nodi e che certamente non aveva le tecnologie e le attrezzature che hanno oggi le nostre navi. Eppure allora non ci facevano nessuna ispezione e la normativa di riferimento non è cambiata. Fermano le nostre navi facendo finta di preoccuparsi per la sicurezza delle persone che salviamo. Ma se fosse questa la loro preoccupazione scenderebbero in mare loro quando le Ong non ci sono e invece le navi della Guardia costiera si sono ritirate. E allora è evidente che vogliono fermarci, con questa assurda teoria che la nostra presenza aumenti i flussi dall’Africa”. È la teoria del pull factor, il fattore di attrazione ma bastano i duemila arrivi a Lampedusa di domenica, giorno in cui non c’era nessuna nave Ong nel Mediterraneo per dimostrare che i trafficanti fanno partire le persone che ci siano navi pronte a soccorrerli o no... “Non c’è dubbio. In più, tenendoci lontano dal mare, il governo italiano paradossalmente mette a rischio Lampedusa. Le Ong giocano un ruolo fondamentale nel decongestionare situazioni emergenziali come quella che sta vivendo ora Lampedusa. Ci si priva di una risorsa che aiuterebbe ad alleggerire la pressione sull’isola. E ci si dimentica quanto siamo preziosi per evitare naufragi come gli ultimi che ormai nell’indifferenza generale sono accaduti davanti alle coste libiche”. Insomma, in questa emergenza il vostro ruolo è fondamentale? “È questa parola emergenza alla base di tanti errori. L’Italia continua a non gestire in modo strutturale un fenomeno che emergenziale non è. E ogni anno facciamo finta di sorprenderci quando in questa stagione cominciano ad arrivare migliaia di persone e la situazione diventa ingestibile. L’Italia si fa trovare impreparata e si preoccupa solo della redistribuzione. Si perde tempo ad occuparsi delle Ong e ad esternalizzare il controllo delle frontiere. L’Italia da questo punto di vista è il braccio esecutivo dell’Europa, sostenendo, formando, finanziando la Guardia costiera libica e facendo un passo indietro da quel mare che conosciamo così bene”. Israele-Gaza, la guerra si allarga: razzi di Hamas anche su Tel Aviv di Davide Frattini Corriere della Sera, 12 maggio 2021 Cinque morti in Israele per i missili lanciati dalla Striscia. Raid dello Stato ebraico: i palestinesi uccisi salgono a 35. Sospeso temporaneamente anche il traffico aereo all’aeroporto Ben Gurion. Adesso che lo scontro è aperto, le porte alla guerra spalancate, gli analisti israeliani si esercitano a chiedersi quali pensieri siano passati per la testa di Mohammed Deif, comandante militare di Hamas, il suo boss indecifrabile. Avi Issacharoff, tra i più attenti studiosi delle dinamiche palestinesi, ipotizza che quel richiamo urlato dai giovani sulla Spianata delle Moschee - “Deif, Deif, radi al suolo Tel Aviv” - gli abbia forzato la mano sui bottoni dei razzi. Nella speranza, com’è successo nei round più recenti, che Benjamin Netanyahu scelga un confronto di durata breve. “Abbiamo vinto la battaglia per Gerusalemme e stabilito un nuovo equilibrio tra le forze”, esulta Ismail Haniyeh, tra i leader dell’organizzazione. Si illude: la formula che ha fermato le ostilità in passato - la calma per la calma - per ora non sembra avere spazio. Il primo ministro israeliano ha chiuso la riunione del consiglio di sicurezza avvertendo che i bombardamenti si intensificheranno: “Hamas sta per subire una botta che non si aspettava, la pagheranno cara, la campagna va avanti”. Invita gli israeliani a prepararsi a un lungo periodo di combattimenti. “È solo l’inizio - continua Benny Gantz, il ministro della Difesa -. Abbiamo ancora centinaia di obbiettivi da abbattere”. Le scuole nel Paese oggi restano chiuse, la vita normale interrotta. Le Brigate Al Qassam, braccio armato dell’organizzazione, sostengono di aver trovato un modo per evadere la difesa antimissile: concentrano centinaia di proiettili (in un caso 137 durante 5 minuti) verso Ashkelon o le altre città a sud e cercano di bucare il sistema Cupola di Ferro. Ci sono già riusciti, alcuni edifici sono stati centrati, due donne sono morte. Un’altra è stata uccisa a Rishon Lezion nel centro del Paese dove i razzi hanno preso i palazzi e un bus in strada, era vuoto. Altre due vittime sono state colpite a Tel Aviv e Lod, oltre 100 i feriti. I jet israeliani hanno colpito la Striscia senza pausa e Aviv Kochavi, il capo di Stato Maggiore, ha fatto capire subito ai vertici delle fazioni quale sarà la strategia: nessuna immunità per i leader, i portavoce dell’esercito annunciano di aver ucciso 15 estremisti, anche comandanti della Jihad Islamica. In totale secondo il ministero della Sanità a Gaza sono state uccise 35 persone, tra loro 10 minori, mentre sono state ferite 203 persone. Gli israeliani contestano la contabilità della morte, dicono che un terzo delle centinaia di razzi è ricaduto dentro la Striscia causando parte delle vittime. I missili livellano un intero grattacielo di 13 piani fatto evacuare prima del bombardamento: è un colpo anche agli interessi economici che il movimento ha costruito in questi 14 anni. Per Hamas è una linea rossa: risponde con 130 razzi verso Tel Aviv, i voli sull’aeroporto di Ben Gurion vengono sospesi durante il raid. I due milioni di palestinesi chiusi nel corridoio di 365 chilometri quadrati si stavano preparando a celebrare questa sera la fine del Ramadan con la festa di Eid Al Fitr. Restano le bombe, le esplosioni, la paura. Le proteste da Gerusalemme si sono estese ad altre città, dove gli scontri hanno coinvolto gli arabi israeliani e i vicini di casa ebrei. A Lod un uomo ha sparato contro i dimostranti arabi e ha ucciso una persona e alcuni media hanno riferito di sinagoghe e negozi dati alle fiamme. Le divisioni dentro Israele toccano anche la politica: il centrista Yair Lapid sta provando a formare un governo e ha bisogno dell’appoggio esterno dei partiti arabi. Che per ora hanno interrotto il dialogo. “Tra i palestinesi abbandonati dai Paesi arabi cresce la disperazione per l’occupazione” di Vincenzo Nigro La Repubblica, 12 maggio 2021 “Ma Hamas provocherà più repressione”. Parla Ali Jarbawi, 67 anni, professore di Scienze politiche a Bir Zeit, in passato ministro della Pianificazione nel governo palestinese del premier Salem Fayyad. “Sul fronte politico interno Netanyahu potrebbe beneficiare di un periodo prolungato di scontri” Ministro, come si è arrivati a questa nuova esplosione di violenza? “La dinamica è abbastanza chiara: è stato un crescendo che tutti possono ricostruire andando a rileggere i giornali, le notizie dei siti israeliani e palestinesi diciamo dell’ultimo mese. La questione decisiva è quella del quartiere arabo di Gerusalemme di Sheikh Jarrah, dove 12 famiglie palestinesi rischiano di essere sfrattate per una decisione della giustizia israeliana dalle abitazioni dove vivono da decenni. Una giustizia che viene considerata dai cittadini palestinesi strumento delle pressioni dei coloni ebrei e dell’ultradestra che vuole liberare Gerusalemme dalla presenza dei palestinesi. Poi c’è stato lo scontro attorno al Bab Al Amoud (anche nota come porta di Damasco, n.d.r.). La polizia ha installato delle barriere, i giovani che volevano riunirsi la sera per il Ramadan hanno iniziato a manifestare e a scontrarsi. Poi c’è stata l’esplosione di violenze sulla Spianata delle Moschee, con gli scontri che tutti avete visto in tv, con i fumogeni che sono entrati perfino all’interno della moschea di Al Aqsa”. Ma perché proprio adesso? Ci sono partiti o movimenti che hanno preparato questa fase di rivolta? “Partiti, gruppi politici e di militanza palestinese sono già saltati su questo movimento per sfruttarlo politicamente. Ma credo che l’esplosione sia stata innescata autonomamente da anni di compressione dei diritti dei cittadini palestinesi, dalla sensazione che il nostro popolo sia stato definitivamente abbandonato a un destino di occupazione militare che ci sta soffocando”. I primi ad aver abbandonato quella che una volta era la “causa palestinese” sembrano essere proprio gli altri paesi arabi. “È vero, e questa è l’impressione dei palestinesi. Ci sono mille ragioni: innanzitutto paesi come Libia, Yemen, Libano, Siria, Iraq attraversano ancora anni profonda instabilità politica se non di guerra. Gli altri paesi, i più importanti del mondo arabo, sono tutti impegnati a seguire, controllare, provare a influenzare questi sviluppi. Che siano gli arabi ad aver abbandonato i palestinesi, o l’Europa o l’America che con Trump aveva preso una direzione radicalmente antipalestinese, il risultato non cambia. E giorno dopo giorno ha un effetto sul nostro popolo: cresce soltanto la disperazione”. L’epicentro di questa fase di scontri è stata Gerusalemme “Perché a Gerusalemme la compressione dei diritti dei palestinesi, la loro possibilità di vivere una vita semplice, normale, è drammaticamente alta. Da quando Trump ha offerto a Netanyahu la sua decisione di spostare l’ambasciata da Tel Aviv, di riconoscere tutta la città come capitale di Israele, Netanyahu e la destra israeliana non hanno avuto più nessun freno. E questo significa far di tutto per espellere in ogni modo i palestinesi. Iniziando a comprimere in ogni modo i loro diritti. I palestinesi di Gerusalemme sono isolati dai palestinesi della Cisgiordania. In effetti sono questi ultimi a non poter entrare a Gerusalemme senza permessi, ma di fatto l’isolamento è reciproco. A Gerusalemme est i palestinesi vivono in gabbia”. Lei dice che quindi è la gente, i giovani, la popolazione normale ad aver avviato questo ciclo di violenze? “Si, è quello che penso. Poi chiunque tenterà di sfruttare a suo vantaggio questa situazione, da Hamas o altri nel nostro campo, oppure i partiti dell’ultradestra israeliana. Ma la ragione fondamentale è questa: l’occupazione militare sta soffocando il popolo palestinese”. Hamas ne ha approfittato per attaccare Israele, per allargare la sua legittimità agli occhi dei cittadini palestinesi colpendo civili israeliani con i suoi razzi? “L’Anp ha deciso di perseguire gli interessi del popolo palestinese con la politica, con negoziati politici. Hamas crede alla resistenza, alla lotta armata. Quando ha visto questa escalation ha scelto di cavalcare il movimento, di lanciare centinaia di razzi anche sapendo che la risposta militare di Israele sarebbe stata pesantissima. I capi di Hamas hanno già chiesto a egiziani e ad altri mediatori di negoziare una tregua perché sono soddisfatti dei risultati che hanno ottenuto. Ma per il momento Netanyahu non vuole una tregua, devono vendicarsi dei razzi che Hamas ha lanciato sulle città centrali di Israele”. Ministro, crede che si possa arrivare comunque a una guerra generalizzata, all’ingresso dell’esercito di Israele a Gaza? “Al momento, se non ci saranno episodi gravi ma sempre possibili, io penso che la situazione tornerà sotto controllo in alcuni giorni. Netanyahu ha detto che Hamas dovrà pagare un prezzo molto alto. Ma non credo che nessuno in Israele sia pronto a lanciare un attacco di terra, con carri armati e soldati che entrano nella Striscia. Tra l’altro in tutto questo c’è la partita di politica interna che sta giocando Netanyahu”. Infatti, una variabile molto delicata potrebbe essere quella dell’interesse di Netanyahu a continuare una guerra oltre il necessario… “Lui potrebbe beneficiare di un periodo ancora prolungato di scontri, potrebbe chiedere un governo di unità nazionale, per scompigliare i piani dei partiti che con molta fatica stavano provando a formare un governo senza di lui”. In tutto questo voi palestinesi moderati, assieme alla Autorità palestinese del presidente Abu Mazen, sembrate sempre più in difficoltà, quasi irrilevanti sulla scena politica del vostro popolo. “È molto difficile essere un palestinese moderato in questi periodi di esplosione della violenza. Ma dopo anni di compressione di tutti i nostri diritti, noi oggi abbiamo capito una cosa: noi non abbiamo più un partner in Israele per costruire il famoso accordo politico ‘due popoli, due Stati’. Erano gli israeliani a dirci ‘non abbiamo un partner per la pace’. Con tutti i nostri difetti e problemi, il partner palestinese c’era. Adesso invece è la parte palestinese a non avere una controparte. Israele ha deciso di fare tutto da sola, ha stretto accordi con paesi arabi che non mostrano più nessun vero interesse a far cessare l’occupazione militare. La soluzione dei due Stati ormai non è più nella testa di Netanyahu e di molti altri”. Lei dice che Netanyahu ormai è irrecuperabile al dialogo con l’Anp, con i palestinesi moderati? “Io paradossalmente le dico che nello spettro politico israeliano Netanyahu rimane il più cinico di tutti, ma è quasi un uomo politico di centro, non più di destra. La politica israeliana si è spostata drammaticamente verso destra, anzi verso l’ultradestra. Senza i partiti religiosi, senza gli ultraortodossi è difficile, quasi impossibile formare un governo. Senza il voto dei coloni della Cisgiordania, senza il sostegno dei movimenti radicali dei coloni che vogliono entrare a Gerusalemme Est lo stesso Netanyahu non riesce a formare un governo. Questo è un dramma per noi: ripeto, siamo noi palestinesi moderati a non avere più un partner per la pace in Israele”. In queste condizioni quale sarebbe una proposta accettabile per una soluzione politica? “Al momento non ne vedo. Girano da mesi idee di uno “Stato minus” palestinese, una sorta di autonomia ancora più limitata di tutte le riduzioni che negli anni erano state previste per avere un giorno un nostro piccolo Stato. Abu Mazen è in un angolo, i palestinesi della strada gli chiedono ‘dove ci porti se Israele non ci dà nulla?’. Per questo per tanti Hamas sembra la risposta giusta, anche se tutti sappiamo che l’azione militare di Hamas provocherà più repressione e compatterà buon parte del mondo attorno a Netanyahu”. Ultima domanda: a parte lo scontro con Hamas, crede che a Gerusalemme, in Cisgiordania sia possibile assistere a una nuova Intifada, a una rivolta popolare prolungata? “È difficile dirlo, il livello di frustrazione è altissimo. Non posso dire per quanto l’occupazione militare continuerà ad avere il controllo di un altro popolo, ma non potrà continuare così all’infinito”. Stati Uniti. Data di esecuzione per un malato terminale di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 maggio 2021 La domanda è se arriverà prima il cancro o il boia. Gerald Ross Pizzuto, 65 anni, di origini italiane, ha un cancro alla vescica in fase terminale, soffre di diabete e ha problemi cardiaci e polmonari. Nell’ultimo anno gli sono stati prescritti 42 diversi farmaci. La procura generale dello stato dell’Idaho vuole partecipare alla macabra gara a chi porrà prima fine alla sua vita. La data dell’esecuzione per Pizzuto, condannato a morte per aver ucciso due cercatori d’oro nel 1985, è stata fissata al 2 giugno. Sarebbe la prima esecuzione nell’Idaho in nove anni. Ma, come avrete capito, non è certo che avrà luogo. Gli avvocati di Pizzuto hanno fatto ricorso sostenendo che questo accanimento giudiziario è del tutto inutile.