Incontro dei laboratori di scrittura e delle attività di informazione dal carcere e sul carcere Ristretti Orizzonti, 11 maggio 2021 Ai responsabili dei laboratori di scrittura e delle attività di informazione e sensibilizzazione dal carcere e dall’area penale esterna: ci incontriamo in videoconferenza il 13 maggio alle 15.30. Segnalando l’adesione all’iniziativa alla mail ornif@iol.it riceverete il link ZOOM. Gentili tutti, abbiamo ricevuto da Francesco Lo Piccolo, giornalista, direttore del periodico “Voci di dentro”, realizzato con i detenuti delle Case circondariali di Chieti e Pescara, un invito a promuovere una videoconferenza per rilanciare le nostre attività. Noi della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ci occupiamo da anni di informazione e comunicazione, in particolare con il Festival della comunicazione dal carcere e sul carcere, e quindi accogliamo volentieri questo invito e vi chiediamo di manifestarci il vostro interesse a partecipare a un incontro web (indicativamente da tenersi tra il 15 e il 28 di questo mese) e a contribuire a rilanciare queste complesse attività, anche in considerazione dell’uso delle tecnologie, che riteniamo vada promosso con forza negli istituti di pena. Per la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Ornella Favero, presidente Carla Chiappini, responsabile della comunicazione Da Voci di dentro Onlus Da un anno tutte le attività delle associazioni di volontariato sono sospese o in casi più fortunati sono ridotte al minimo. In tutte le carceri anche i laboratori via web, compresi quelli di scrittura e per la realizzazione dei giornali, hanno subito drastiche battute d’arresto. In molti casi sospeso anche il servizio di prenotazione e distribuzione dei libri e altrettanto è stata ostacolata la stessa comunicazione dentro-fuori. Per motivi di sicurezza a causa dell’emergenza Covid, dal carcere è stata così estromessa la società civile, che comunque già prima della pandemia era spesso considerata come subalterna all’Istituzione. A titolo di esempio diciamo solo che nel carcere di Pescara era in piedi un progetto in un’area non utilizzata e da noi trasformata in uno spazio aperto con laboratori quotidiani di scrittura, teatro, fotografia, computer, musica, sartoria tenuti da 15 tra volontari e studenti tirocinanti per una quarantina di detenuti. Progetto chiuso dopo tre anni nel 2019 e trasformato in un unico laboratorio di scrittura due volte a settimana e limitato a soli 5 detenuti. Poi il Covid ha fatto il resto. Nel ritenere che oggi spesso nelle carceri non venga rispettato il dettato della Costituzione (art. 27) e le norme e le osservazioni-indicazioni della Comunità Europea, proponiamo al più presto un incontro di tutte le associazioni impegnate nelle carceri italiane con laboratori di scrittura, con la realizzazione di riviste e/o giornali del carcere e con altre attività di questo tipo. L’incontro oltre a fornire il quadro esatto della situazione nelle varie carceri, deve essere occasione di confronto e dibattito per giungere anche alla definizione di una linea comune di risposta rivolta al superamento di questa grave situazione, che di fatto ha trasformato le carceri italiane in luoghi di sempre maggior sofferenza per oltre 50 mila persone, e spesso al di fuori della legalità. Francesco Lo Piccolo L’ergastolo e la chimera della liberazione condizionale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 maggio 2021 La condanna dei due giovani statunitensi per l’omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega ha riaperto il dibattito sull’ergastolo e la liberazione condizionale. Ha provocato molti spunti di riflessione, ampi dibattiti, la condanna all’ergastolo per i due giovani statunitensi Lee Finnegan Elder e Gabriel Natale Christian Hjorth per l’omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, avvenuto nel luglio del 2019. Il dibattito è ritornato nuovamente sulla pena perpetua. La richiesta dell’abolizione dell’ergastolo è sempre appartenuta alla cultura giuridica e civile democratica. In Assemblea costituente fu espresso un significativo indirizzo e voci autorevoli si levarono, soprattutto da parte di coloro che avevano sofferto lunghissimi anni di detenzione durante il fascismo, contro la reclusione a vita. Al problema non fu dato tuttavia un diretto sbocco a livello costituzionale, poiché si ritenne che esso dovesse essere affrontato e risolto dal legislatore ordinario nell’ambito di una revisione del sistema delle pene. Ma sono passati 73 anni e non solo non è stato messo in discussione, ma nel frattempo si è aggiunto anche l’ergastolo ostativo, nato in un contesto emergenziale quando imperversava la mafia stragista. Le ragioni di chi chiede l’abolizione dell’ergastolo - Le ragioni di chi chiede l’abolizione di tale pena sono note: l’ergastolo è una pena inumana, che toglie all’uomo la speranza, che confligge in modo inconciliabile con il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena. D’altro canto la Corte costituzionale respinse a suo tempo l’eccezione di incostituzionalità di questo tipo di sanzione penale, solo perché dopo l’entrata in vigore della legge 25 novembre 1962, n. 1634, che aveva ammesso la liberazione condizionale anche per l’ergastolano dopo l’espiazione di ventotto anni (oggi ventisei) di detenzione, essa aveva cessato di connotarsi di fatto con quel carattere di perpetuità che sarebbe stato incompatibile con il concetto stesso di rieducazione. Il Garante: nell’ultimo anno tali le liberazioni condizionali sono state 4 - Ma è errato pensare che l’ergastolo, solo perché c’è la possibilità della liberazione condizionale, sia solo sulla carta. A spiegarlo è il garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. Ha prima premesso: “Pensare che per punire un gravissimo omicidio commesso a meno di vent’anni non si debba dare un’ipotesi di futuro diverso dal carcere (l’ergastolo), neppure molto lontano nel tempo, è dichiarare inutile ogni discussione sulla finalità rieducativa della pena”. Il Garante, infine, ha aggiunto qualche dato che fotografa la realtà dei fatti: “A chi poi obietta sulla possibile liberazione condizionale dopo ventisei anni, vale la pena far conoscere qualche numero: nell’ultimo anno tali liberazioni condizionali sono state 4 e il numero di detenuti ergastolani è sceso di 21; per gli altri 17 è stata evidentemente una pena a vita”. I dati sono significativi. Per questo bisogna ripescare un documento sempre del Garante, in particolare quello relativo all’Amicus Curiae per quanto riguarda l’allora imminente decisione della Consulta sull’ergastolo ostativo. Gli ergastolani sono 1.800 - Alla data del primo settembre 2020 le persone condannate all’ergastolo presenti negli istituti penitenziari risultano 1.800. Di esse, 1.271 sono detenute per reati inclusi nell’art. 4 bis, e che, in ragione di ciò, scontano un ergastolo ostativo. Ma veniamo al dunque. Si apprende che il numero di ergastolani presenti in carcere risulta, peraltro, in costante crescita negli ultimi quindici anni, essendo passato, senza flessione alcuna, dai 1.224 del 2005 ai 1.800 attuali, con un incremento medio annuo di 40 unità. Questo dato, considerato nell’arco di tempo cui si riferisce, secondo il Garante nazionale, induce a ritenere che l’andamento progressivo sia determinato dall’aumento delle condanne a vita e non sia inciso, se non per numeri davvero esigui, dalla diminuzione derivante dall’accesso alla liberazione condizionale di ergastolani comuni o (non più) ostativi. Ed ecco che, dati in mano, parlare di ergastolo solo sulla carta è un luogo comune. Tale istituto giuridico, pensando alla sola Europa, è stato abolito dalla Spagna, Portogallo e dal 2013 anche dal Vaticano grazie all’intervento dell’attuale Papa per dare un messaggio contro il populismo penale. Nel recente passato i partiti progressisti - ora quasi del tutto assenti in parlamento - avevano avanzato proposte di legge in tal senso. Si è tentato, invano, di compiere importanti passi in avanti nel campo del diritto penale verso l’introduzione di un nuovo codice, che sostituisca quello vigente, che risale al 1930 e che, malgrado le modifiche apportate e gli interventi della Corte costituzionale, è ancora caratterizzato da una concezione del diritto penale, e della pena, che mal si concilia con i princìpi costituzionali. Ciò diventa ancora più inconciliabile quando parliamo di giovani che hanno meno di 20 anni e se tutto va bene usciranno dopo quasi 30 anni. Se va male, solo da morti. Liberazione anticipata speciale. La ministra Cartabia incontra Bernardini, Manconi e Veronesi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 maggio 2021 Rita Bernardini incontrerà la ministra Cartabia per discutere le proposte del Partito Radicale e di Nessuno Tocchi Caino per ridurre la popolazione detenuta. Oggi, alle ore 17.30, Rita Bernardini del Partito Radicale incontrerà, assieme a Luigi Manconi e allo scrittore Sandro Veronesi, la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Sarà presente anche il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Si dialogherà sulle proposte del Partito Radicale e dell’associazione Nessuno Tocchi Caino per ridurre la popolazione detenuta. In particolare, analizzeranno le proposte, già presentate sotto forma di emendamento e di proposta di legge dal deputato Roberto Giachetti, sulla liberazione anticipata speciale. Ricordiamo che si tratta di una misura emergenziale di 75 giorni ogni semestre per coloro che sono stati detenuti in carcere durante l’emergenza Covid. Non solo. Si discuterà anche della proposta di modifica della liberazione anticipata - Parleranno anche della proposta di modifica della liberazione anticipata già prevista dall’Ordinamento Penitenziari, che consiste di far passare gli attuali 45 giorni a 60 giorni di liberazione anticipata ogni semestre. “La prima necessità “vitale” - spiega Rita Bernardini - infatti è quella di ridurre il sovraffollamento, come hanno scritto sui maggiori quotidiani Manconi, Saviano e Veronesi”. L’esponente radicale ricorda che c’è stato anche il supporto dell’appello dei giuristi Giovanni Fiandaca e Massimo Donini, sottoscritto da oltre 200 professori di discipline penalistiche “per un carcere più umano”. “Parleremo - aggiunge sempre Bernardini - anche di non violenza, della grande prova di oltre cinquemila detenuti e loro familiari che hanno partecipato al nostro sciopero della fame e dell’iniziativa memento che per mesi abbiamo portato avanti in via Arenula”. Nel frattempo sono usciti anche i dati delle presenze in carcere, aggiornati al 30 aprile. Risultano 53.608 detenuti e detenute (cento unità in più rispetto al mese precedente) su una capienza regolamentare di 50.785 posti. Attenzione, va precisato - come scrive il Dap - “che il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie”. In parole povere, i posti disponibili sono in realtà molti di meno. Ci sono celle inagibili che girano sempre intorno alle 4000 unità, a questo va aggiunto il fatto che ci sono ancora sezioni inutilizzabili a causa delle rivolte dello scorso anno. Sempre secondo i dati aggiornati al 30 aprile, risultano ancora 23 bambini dietro le sbarre. Ingiusta detenzione, a Reggio Calabria il record dei risarcimenti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2021 La Corte d’Appello da sola vale quanto Roma, Milano e Napoli. Il primato dei valori medi spetta invece a Palermo con 96mila euro. In diminuzione le misure cautelari personali: sono state 82.199 nel 2020 rispetto alle 94.197 del 2019. Il Dipartimento per gli Affari di Giustizia di Via Arenula ha inviato al Parlamento, come tutti gli anni, la Relazione sull’applicazione delle misure cautelari personali e i dati relativi alle sentenze di riconoscimento del diritto al ristoro per i ngiusta detenzione nonché il numero di procedimenti disciplinari iniziati nei riguardi dei magistrati che le abbiano disposte. Nel complesso sono stati iscritti 1.108 procedimenti per ingiusta detenzione nel 2020, e ne sono stati esauriti 935, di cui il 77% con pronunce di rigetto, mentre il 23 % sono state di accoglimento. Dai dati del Mef risulta poi che l’importo complessivamente versato a titolo di riparazione per ingiusta detenzione nell’anno 2020 è di 36.958.291 euro ed è riferito a 750 provvedimenti. Una somma inferiore a quello registrato nel 2019 (43.486.630), quando i provvedimenti però erano stati 1.000. L’importo medio per provvedimento invece è cresciuto attestandosi a 49.278 euro, era di 43.487 nel 2019. Quasi 27 milioni di risarcimenti hanno riguardato le sole Corti d’appello di Bari, Catanzaro, Palermo, Roma e Reggio Calabria. Quest’ultima, da sola, ha liquidato risarcimenti pari alla somma di quelli emessi complessivamente da Roma, Milano e Napoli. Nel dettaglio: a Palermo sono stati liquidati 4,4 mln, per un valore medio di 96mila euro; a Napoli 3,1 mln con una media di 31mila euro; a Reggio Calabri a invece si sono sfiorati gli 8mln di euro, e qui la media è stata di 88mila euro a ordinanza. A Catanzaro ristori per 4,9 mln e 69mila euro medi; a Bari, 3,6 mln e 47mila euro medi; a Roma: 3,6 mln e 46mila euro. Relativamente ai procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati, invece, nella Relazione si legge che “l ‘analisi normativa e il monitoraggio avviato dall’Ispettorato generale sulle ordinanze di accoglimento delle domande di riparazione per ingiusta detenzione consentono di ritenere: l’assenza di correlazione tra il riconoscimento del diritto alla riparazione e gli illeciti disciplinari dei magistrati”. Le azioni promosse nel 2020 sono state 21 e risultano tutte in corso e tutte partite dal Ministero. Nel triennio invece sono state 61, di cui soltanto 4 promosse dal Pg di Cassazione, con i seguenti esiti: 12 assoluzioni; 4 censure; 17 Ndp; 25 in corso. Misure cautelari personali - Dal confronto dei dati dell’anno 2020 con quelli del biennio 2018-2019, “risulta evidente una diminuzione significativa del numero totale delle misure emesse nell’anno 2020, dovuta molto probabilmente agli effetti della pandemia a tutt’oggi ancora in corso, che hanno fortemente rallentato, specie nei primi mesi dell’anno 2020, l’attività degli uffici giudiziari”. Mentre non emergono significative variazioni nella distribuzione percentuale per tipologia di misura emessa (nel 2020 si registra solo un lieve aumento degli arresti domiciliari). Le misure cautelari custodiali (carcere - arresti domiciliari - luogo cura) costituiscono il 58% circa di tutte le misure emesse, mentre quelle non custodiali (restanti tipologie) ne costituiscono circa il 42%. Una misura cautelare coercitiva su tre è quella carceraria (32%), mentre una misura cautelare coercitiva su quattro è quella degli arresti domiciliari (25%). Il 12% degli arresti domiciliari utilizza il c.d. ‘braccialetto’. Divieto di espatrio e custodia cautelare in luogo sono residuali: insieme non raggiungono l’l% del totale. Sezioni GIP (75%) e Dibattimentali (25%) dei Tribunali capoluogo di distretto detengono da sole circa il 50% delle misure nazionali. Il giudice dibattimentale utilizza le misure dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e del divieto di dimora in modo molto più frequente rispetto al GIP; all’inverso avviene, invece, per le misure della custodia cautelare in carcere e del divieto di avvicinamento. In particolare, per la custodia cautelare in carcere la differenza appare molto significativa: si è infatti rilevato come il GIP utilizzi tale misura con frequenza quasi doppia (34,4%) rispetto al giudice dibattimentale (18,1%). Infine, l’80% circa delle misure emesse in un dato anno, appartiene ad un procedimento iscritto nel medesimo anno presso l’ufficio. Università, i mille che studiano in carcere di Corrado Zunino La Repubblica, 11 maggio 2021 I tre anni della Cnupp: coinvolti 32 atenei e 82 istituti penitenziari. Ventuno studenti sono in regime di 41 bis e sessantaquattro recluse sono donne. Il professor Simonetta (Statale): “Cento esami anche durante la pandemia”. Da tre anni l’università italiana, trentadue atenei dell’università italiana, entra nelle carceri del Paese. In ottantadue carceri. E offre una prospettiva di riemersione alla vita - è l’ultimo bilancio, dell’anno accademico in corso - a 1.034 persone. Sono gli studenti detenuti, ventuno di loro studiano in regime di 41 bis, il più duro. La Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari (la Cnupp, istituita tre anni fa dalla Conferenza dei rettori) alla fine del primo mandato offre un riassunto dell’attività svolta, che trova le radici nei primi esperimenti di studio universitario in carcere realizzati a Torino all’inizio degli Anni Novanta. Venerdì scorso il seminario “Il diritto agli studi universitari in carcere” ha accompagnato questo racconto. Sono 109 gli studenti detenuti (il 10,5 per cento) in regime di esecuzione penale esterno. Le studentesse sono in tutto 64, il 6,2 per cento del totale. Negli ultimi tre anni nel circuito sono entrati cinque nuovi atenei e si sono iscritti 238 studenti (+29,9 per cento). I dipartimenti impegnati sono 196. L’87 per cento degli universitari in carcere insegue una laurea triennale, il 13 per cento una magistrale. Le aree disciplinari più frequentate sono quella politico-sociale (25,4 per cento), seguita dall’area artistico-letteraria (18,6), l’area giuridica (15,1), l’area agronomico-ambientale (13,7), l’area psico-pedagogica (7,4), l’area storico-filosofica (7,3), l’area economica (6,5). Quando uno studente detenuto deve essere trasferito in un altro carcere, la Cnupp si attiva per il parallelo trasferimento di ateneo. Si stanno sperimentando, ancora, possibilità di Didattica a distanza, a prescindere dalla pandemia. Solo l’Università Statale di Milano vede 103 studenti detenuti iscritti, il dieci per cento del totale nazionale, e sessanta studenti tutor ad affiancarli nella preparazione degli esami. Da sei stagioni la Statale entra nelle case di reclusione di Milano-Bollate e Milano-Opera, nella casa circondariale di San Vittore e nel carcere minorile Cesare Beccaria. Stefano Simonetta, docente di Storia della Filosofia e referente di Ateneo per il sostegno allo studio universitario delle persone sottoposte a misure restrittive, spiega: “C’è grande soddisfazione per i risultati raggiunti. Quando siamo partiti, gli studenti ristretti iscritti da noi erano appena cinque. Nonostante l’anno di pandemia, nel 2020 ottanta universitari hanno dato cento esami”. Insieme con l’Università di Milano-Bicocca e l’Università Bocconi, la Statale ogni anno organizza a giugno un open day nel carcere di Opera. Cartabia: entro l’autunno riforma del processo civile, penale e del Csm di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2021 La settimana prossima saranno presentati gli emendamenti del Governo in materia penale che terranno conto anche delle proposte dei partiti. Giro di vite sugli appelli. Due ipotesi per la prescrizione. “La riforma della giustizia è condizione perché arrivino in Italia, attenzione: non solo i 2,7 mld del PNRR destinati alla giustizia, ma i 191 mld destinati a tutta la rinascita economica e sociale italiana”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Marta Cartabia nel corso della riunione con i capigruppo della Commissione giustizia, aggiungendo che “il suo compito nella riunione di oggi è prevalentemente di ascoltare. Solo dopo, nei prossimi giorni, saranno messe a punto le proposte di emendamento”. “Non possiamo guardarci come avversari - ha aggiunto -, ci confronteremo, ma l’obiettivo è un’impresa corale, avendo negli occhi le nuove generazioni”. “Entro la fine del 2021 - ha proseguito - devono essere approvate le leggi di delegazione per la riforma del processo civile, penale e del CSM. Se non approveremo queste tre importanti leggi di delegazione entro la fine dell’anno anzi prima della sessione di bilancio autunnale, mancheremo a un impegno assunto con la Commissione”. “Il grande è quello della durata dei processi”. Una condizione, ha spiegato Cartabia, che determina due “disfunzioni” che costituiscono violazioni di principi costituzionali ed europei: il primo è quello dell’eccessivo numero di processi che si concludono con la prescrizione. “Con la prescrizione, la domanda di giustizia da parte delle vittime rimane frustrata. Lo Stato manca al suo compito. Il secondo è quello della violazione del fondamentale diritto alla ragionevole durata del processo da parte degli imputati. Un diritto garantito dalla Costituzione, oltre che dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Da qui la necessità di intervenire sui tempi del processo penale “per due, apparentemente opposte, ma concomitanti ragioni: per assicurare che giustizia sia fatta; per contenere i rischi che il processo, anziché luogo di garanzia, si trasformi in un anticipo di pena, quanto meno sul piano sociale”. La Commissione europea del resto, ha ricordato Cartabia, ha imposto al governo italiano degli obiettivi chiari: “in cinque anni dobbiamo ridurre del 40% i tempi dei giudizi civili e del 25% dei giudizi penali”. “Sono obiettivi davvero ambiziosi”, ha aggiunto. Cartabia ha poi stigmatizzato la spettacolarizzazione della giustizia affermando che se è vero che sul piano giuridico la persona non può essere considerata colpevole fino alla sentenza definitiva di condanna, “sul piano dell’effettività, con l’apertura di un processo penale l’imputato - specie se il fatto è reso pubblico nel circuito mediatico - è esposto a un giudizio (o meglio a un pregiudizio) di colpevolezza sociale che può avere gravi ripercussioni sulla sua reputazione, sulle sue relazioni personali e sociali, sull’attività economica e su molti altri aspetti della vita della persona”. E qualcosa trapela anche sul merito dei lavori delle Commissioni ministeriali. Il Governo intende infatti potenziare l’utilizzo delle tecnologie nel processo andando verso il principio della obbligatorietà anche alla luce della esperienza fatta con la pandemia. Vi sarebbe comunque una fase transitoria di prima applicazione graduale in cui differenziare sulla base del criterio di adeguatezza e di competenza digitale del personale coinvolto. Un vero e proprio “Piano per la transizione digitale della Amministrazione della Giustizia” - con un Comitato tecnico-scientifico -, dovrebbe garantire il completamento della riforma della digitalizzazione del processo civile e penale, e l’adeguata dotazione tecnologica dei servizi tecnici ed informatici del Ministero, nonché l’adeguata formazione e l’aggiornamento degli addetti del settore giustizia. Ma soprattutto sul fronte penale l’accento è posto anche sulle garanzie offerte alla difesa. Trasmissioni e ricezioni in via telematica dovranno assicurare al mittente e al destinatario certezza, anche temporale, degli invii. Nei casi di malfunzionamento dei sistemi informatici del Ministero, verranno predisposte soluzioni alternative ed effettive alle modalità telematiche che consentano il “tempestivo” svolgimento delle attività processuali. Sdoganato anche l’utilizzo delle videoregistrazioni ma come forma ulteriore di documentazione dell’interrogatorio e dell’attività di assunzione della prova dichiarativa. Sempre che ci sia il consenso delle parti, sarà poi possibile la partecipazione all’atto del procedimento o all’udienza a distanza. Irreperibili - Sul processo in assenza tra le proposte vi è l’interruzione (non più sospensione) del procedimento nel caso di irreperibilità: sentenza inappellabile di non doversi procedere, revocabile nel caso in cui l’imputato sia successivamente rintracciato e l’ampliamento della possibilità di rimedi successivi a favore dell’imputato e del condannato giudicato senza avere avuto effettiva conoscenza della celebrazione del processo. Indagini - Sulle indagini preliminari e udienza preliminare, si pensa ad una riorganizzazione del tempo a disposizione: con limitazione durata massima delle indagini (un anno) per le contravvenzioni. E razionalizzazione del meccanismo - farraginoso e poco trasparente - delle ripetute proroghe, con l’ampliamento per alcuni delitti del ‘tempo base’ a disposizione degli inquirenti ma con la riduzione ad una del numero delle proroghe. Appello - Novità anche in materia di Appello che diventerebbe un mezzo di impugnazione a critica vincolata a favore del solo imputato. Ma anche inammissibilità dell’appello per “aspecificità dei motivi”; inappellabilità delle sentenze di condanna e di proscioglimento da parte del pubblico ministero; inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e dei capi civili delle sentenze di condanna ad opera della parte civile in sede penale. La commissione ha poi proposto la ricorribilità per Cassazione delle sentenze di primo grado da parte del pubblico ministero e della parte civile per tutti i motivi di cui all’articolo 606 del codice di procedura penale; la previsione, nel caso di annullamento della sentenza di proscioglimento, dell’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale volta ad assumere prove decisive. Infine, in caso di annullamento della sentenza ai soli effetti civili, rinvio al giudice civile ai sensi dell’articolo 622 codice di procedura penale con l’obbligo da parte di quest’ultimo di valutare le prove. In sintesi il pm non può appellare, ma può andare direttamente in Cassazione. Se la Cassazione annulla, si torna in appello. Allo stesso tempo, in ottica di bilanciamento, anche l’imputato potrà fare appello solo per una lunga serie di motivi previsti dalla legge. Si tratta di una strutturazione dell’appello, quale revisione critica della sentenza e non come nuovo giudizio. Una necessità ribadita dalle Sezioni Unite della Cassazione nel 2016. Servirà dunque una motivazione più stringente per ricorrere in appello, da sempre collo di bottiglia dei processi. Prescrizione - Sono due le proposte sulla prescrizione. La prima prevede di sospenderne il corso, per due anni, dopo la condanna in primo grado, e per un anno, dopo la condanna in appello. Si tratta dei termini di ragionevole durata del processo previsti, per quelle fasi, dalla legge Pinto. Se la pubblicazione della sentenza d’appello, o di cassazione, non interviene entro il termine di sospensione, cessano gli effetti di questa e il periodo di sospensione è computato ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere. Rispetto alla disciplina vigente, la proposta della Commissione esclude la sospensione della prescrizione per l’assolto e limita temporalmente, in modo ragionevole, la sospensione del termine dopo la condanna. In ciò la proposta si distingue dal lodo Conte. La seconda proposta è del tutto alternativa e presuppone una scelta riformatrice più radicale, che allinei il nostro sistema al modello di altri ordinamenti, come ad esempio quello statunitense. La prescrizione, in questo caso, si interrompe con esercizio azione penale. Se il processo dura più di 4 anni in primo grado, 3 in appello e 2 in cassazione c’è improcedibilità. Parallelamente poi si ipotizza lo sconto della pena per irragionevole durata del processo. E se il processo è particolarmente lungo si potrebbe arrivare all’ineseguibilità della pena. Per gli assolti pensano a un indennizzo doppio rispetto alla Pinto. Riti alternativi - Incentivi al ricorso al patteggiamento e ai riti alternativi. In particolare, per incentivare il patteggiamento, specie quello allargato, si prevede la possibilità di sostituire la pena detentiva fino a 4 anni con una misura alternativa alla detenzione, applicata dal giudice di cognizione a titolo di sanzione sostitutiva. Si potrà così patteggiare la detenzione domiciliare, ad esempio, senza attendere l’eventuale concessione della misura nel giudizio di esecuzione. Si patteggerà cioè con la certezza di evitare l’ingresso in carcere. Giustizia, ecco le novità: stop all’appello per i pm. Due ipotesi di prescrizione di Conchita Sannino La Repubblica, 11 maggio 2021 La proposta sul processo penale: Cartabia punta su un netto snellimento. Vertice con i partiti: “Non siate avversari”. Ma i 5S: “Ci sono criticità”. Riforma della giustizia o salta tutto il Recovery. La ministra Marta Cartabia ribadisce l’indispensabile pre-condizione ieri, in riunione con i capigruppo della maggioranza in commissione alla Camera, per il ddl sul processo penale. Si parte soprattutto dalle modifiche su appello e prescrizione. Invitando tutti i partiti “a non considerarsi avversari, ma compagni di strada”, e richiamando il lavoro della commissione che ha lavorato in via Arenula in questi mesi, Cartabia punta tutto su un netto snellimento. Ma la strada non è in discesa: “Ci sono criticità” hanno fatto sapere subito i 5Stelle. Sul fronte dell’appello: il pm non potrà appellare né le sentenze di assoluzione né quelle di condanna, ma può ovviamente ricorrere in Cassazione (se la suprema Corte annulla, si torna poi in appello). E la stretta non esclude la difesa: visto che l’imputato potrà ricorrere solo per una lunga serie di motivi previsti dalla legge. Ma da via Arenula si tiene a sottolineare che in questo modo “non si vuole limitare la difesa, ma introdurre principi di maggior rigore per contestare la condanna di primo grado”. Sul fronte della prescrizione, sono due le proposte. La prima indica la sospensione della prescrizione dopo la condanna in primo grado, con ripresa se l’appello non si conclude in 2 anni; l’altra, la prescrizione processuale che si interrompe con l’esercizio dell’azione penale. Se il processo dura più di 4 anni in primo grado, 3 in appello e 2 in Cassazione, interviene l’improcedibilità. Si tratta dei termini di ragionevole durata del processo previsti, per quelle fasi, dalla legge Pinto. Rispetto a ciò che accade oggi, la proposta della commissione esclude la sospensione della prescrizione per l’assolto e limita temporalmente, in modo ragionevole, la sospensione del termine dopo la condanna. “Il grande problema che domina i dibattiti della giustizia italiana è quello della durata dei processi”, spiega la ministra, collegata online da via Arenula agli esponenti della maggioranza. “Il fattore tempo è al centro delle preoccupazioni dei cittadini, delle istituzioni europee, degli attori economici. Il fattore tempo è e deve essere al centro delle proposte di riforma che stiamo intraprendendo”. Per i tempi-lumaca del sistema italiano, argomenta Cartabia, “determinano due disfunzioni, che costituiscono violazioni di principi costituzionali ed europei: il primo è quello dell’eccessivo numero di processi che si concludono con la prescrizione, più volte rimproverataci da molti organi internazionali. Con la prescrizione, la domanda di giustizia da parte delle vittime rimane frustrata, e lo Stato manca al suo compito di assicurare l’amministrazione della giustizia. Il secondo, è quello della violazione del fondamentale diritto alla ragionevole durata del processo da parte degli imputati, un diritto garantito da Costituzione e Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. La strada dell’intesa dovrà essere ora breve e produttiva: una mission ardua. I 5S parlano di criticità anche se il presidente grillino della commissione Giustizia della Camera, Mario Perantoni non è negativo. “Sono emerse proposte molto interessanti, sulle quali i gruppi svolgeranno le loro valutazioni. I punti di intervento sono molti, tra questi la prescrizione per la quale sono state proposte soluzioni alternative. Personalmente sono ottimista e devo aggiungere che dobbiamo esserlo perché stiamo lavorando attorno al cuore del Pnrr: dunque è necessario il massimo impegno di tutti”. Prescrizione e appello, rivoluzione Cartabia: “In gioco il Recovery” di Marco Conti Il Messaggero, 11 maggio 2021 “Sulla durata dei processi il governo si gioca tutto il Recovery”, “non solo i 2,7 miliardi del Pnrr destinati alla giustizia, ma i 191 miliardi destinati a tutta la rinascita economica e sociale italiana”. Per questo “chi si sottrae al cambiamento si dovrà assumere la responsabilità di mancare una occasione così decisiva per tutti”. La riunione è a distanza ma la ministra Marta Cartabia non usa giri di parole e spiega ai componenti la Commissione Giustizia di Montecitorio che buona parte dei destini dei fondi del Recovery si giocano tutti sulla giustizia. Al punto che “se mancheremo gli obiettivi che la Commissione Ue ci richiede sulla durata dei processi”, “l’Italia dovrà restituire quella imponente cifra che l’Europa sta per immettere nella vita economica e sociale del Paese”. Giustizia, Giustizia, Cartabia: “Governo si gioca Recovery su durata processi” - La Guardasigilli definisce l’impresa di riforma del sistema della giustizia “titanica” perchè in cinque anni andranno ridotti del 40% i tempi dei giudizi civili e del 25% quelli dei giudizi penali. E titanico sarà anche il compito di mettere insieme una maggioranza molto divisa soprattutto sul tema. A pesare è l’annuncio di Matteo Salvini di voler raccogliere le firme con i Radicali su otto referendum sulla giustizia, ma soprattutto le resistenze del M5S che ieri ha assistito di fatto alla demolizione del testo presentato a suo tempo dal ministro Bonafede. Ed infatti, poche ore dopo la fine dell’incontro sono i componenti grillini della Commissione a prendere carta e penna sostenendo che l’incontro con la Cartabia è stato “interlocutorio” e che “ci sono criticità” nelle proposte messe a punto dalla Commissione ministeriale. Recovery, Gentiloni: se ha successo, il debito comune può diventare permanente - E che il problema rischia di non essere Salvini - che infatti derubrica a “stimolo” il suo impegno referendario - ma il M5S lo si comprende dall’insieme delle proposte elaborate dalla Commissione e che l’ufficio legislativo del ministero della Giustizia dovrebbe tramutare nei prossimi giorni in emendamenti. Due le proposte di riforma della prescrizione e tutte e due che ridanno certezza alla durata dei processi cancellata dalle norme del primo governo Conte. Obiettivo velocizzare i tempi dei processi e quindi il pm non potrà fare appello, ma ricorrere direttamente in Cassazione. Le indagini preliminari potranno durare al massimo un anno per le contravvenzioni e ci potrà essere una sola proroga per alcuni delitti, per il quali sarà comunque aumentato il tempo base per il pm. Si incentiva il ricorso ai riti alternativi: chi patteggia pene fino a quattro anni potrà farlo con la certezza di evitare il carcere. Toccherà al Parlamento indicare ogni anno ai pm i reati da perseguire. All’appuntamento la ministra si presenta per ascoltare e i commenti iniziali sono favorevoli. “La Costituzione è tornata nei processi penali nel metodo e nel merito, anche perchè il Parlamento è tornato protagonista”, dice il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Ed Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione definisce “organico e serio” il lavoro della Commissione. Restano le forti resistenze del M5S che si agitano qualche ora dopo e che vengono riassunte dalla presa di distanza dei componenti della Commissione Giustizia dal testo presentato dalla ministra: “Valuteremo ogni contributo - scrivono - ma per noi è importante mantenere il perimetro all’interno del ddl depositato in commissione se vogliamo giungere ad un risultato utile a tutti”. Una presa di distanza in linea con il giustizialismo grillino ma che deve fare i conti con i tempi stretti che ha il governo per non disattendere sin dall’inizio gli impegni assunti con il Pnrr. Le riforme del processo civile, penale e del Csm, andranno approvate tutte entro l’anno e poi servirà qualche altro mese per i decreti attuativi. “Non possiamo guardarci come avversari”, “siamo compagni di strada”, ha provato a stemperare la Cartabia che ha anche sottolineato l’esigenza di dover intervenire per una “giustizia troppo lenta, che produce sia “l’eccessivo numero” di processi che si concludono con la prescrizione, frustrando la domanda di giustizia delle vittime, sia il rischio che il giudizio si trasformi “in un anticipo di pena”, con il processo mediatico. Impresa “titanica”, appunto. Due exit strategies sulla prescrizione. I tecnici di Cartabia ribaltano il ddl penale di Errico Novi Il Dubbio, 11 maggio 2021 La commissione della ministra Marta Cartabia propone la riscrittura della riforma penale. E affronta in modo risoluto il moloch prescrizione. Pomeriggio da ricordare. In un vertice lungo perché tecnico, la commissione della ministra Marta Cartabia propone la riscrittura della riforma penale. Lo fa con puntualità, ampiezza, in modo organico, riferiscono quasi tutti i parlamentari in ascolto. È un progetto che affronta in modo risoluto il moloch prescrizione. Il gruppo di studio presieduto da Giorgio Lattanzi, predecessore di Cartabia al vertice della Consulta, offre ai capigruppo di maggioranza due soluzioni: un sostanziale ritorno alla prescrizione targata Orlando, con la sospensione appena ritoccata in appello, di 2 anni anziché un anno e mezzo, e con un anno di stop in Cassazione, e recupero del tempo “congelato” in caso di sforamento, nel senso che se “la pubblicazione della sentenza non interviene entro il termine di sospensione, cessano gli effetti di questa” e il periodo di sospensione è rimesso nel conto. Oppure un mix avveniristico fra prescrizione classica, cioè del reato, che esaurirebbe i suoi effetti addirittura alla richiesta di rinvio a giudizio, col subentrare però di una severa e tempestiva improcedibilità per sforamento dei termini di fase, che riguarderebbe tutti gli stadi del processo, compreso il primo grado. Nel secondo meccanismo, che convince di più il Pd, verrebbe prevista una disciplina separata per alcuni gravi reati. È in ogni caso un netto superamento dell’impostazione di Bonafede, sia riguardo la prescrizione sia per l’impianto del ddl penale. Cartabia precede l’illustrazione del piano, affidata ai tecnici, con diverse premesse forti. Primo: “Sulla durata dei processi il governo si gioca tutto il Recovery, non solo quello legato alla giustizia”. Secondo: “Chi si sottrae al cambiamento si dovrà assumere la responsabilità di mancare un’occasione così decisiva per tutti” ma “nessuno ce la può fare senza il contributo, l’entusiasmo, la disponibilità di tutti”. Terzo: “I giudizi lunghi recano un duplice danno: in caso di prescrizione, la domanda di giustizia da parte delle vittime rimane frustrata” e si “ledono le garanzie”. Perciò, “sui processi brevi dovrebbero convergere gli interessi dei cosiddetti giustizialisti quanto dei cosiddetti garantisti”. Sono messaggi che servono a richiamare alcune tendenze ellittiche, inclusa forse l’improvvisa virata di Matteo Salvini verso l’alleanza referendaria col Partito radicale. Ma l’argomento con cui Cartabia dà sostanza agli appelli è la tempistica: le ipotesi sventagliate ieri dagli esperti saranno tradotte già la settimana prossima in emendamenti, alcuni dei quali destinati a “valorizzare”, assicura via Arenula, le tante proposte avanzate dai partiti. Altro connotato ineludibile: il progetto messo a punto dalla “commissione Lattanzi” ha una forza organica, punta a ridurre i tempi con l’estensione dei riti alternativi, patteggiamento in primis (sconto di pena della metà anziché di un terzo, come proposto pure dal Pd) ma qui è là ridice anche i margini per la difesa (con una disciplina più restrittiva per le impugnazioni in appello). Zanettin (Fi), nota “l’inappellabilità, per il pm, delle assoluzioni, inserita fra i nostri emendamenti”. Bazoli (Pd) parla di “svolta nell’equilibrio” e rivendica la convergenza del ministero su diverse soluzioni prospettate dal Nazareno, dalla “videoregistrazione degli interrogatori” ai “criteri di priorità per i pm”, oltre che sull’ipotesi “processuale” della prescrizione. Conte (Leu) fa notare come “proprio i due percorsi ipotizzati sulla prescrizione premino la logica del mio lodo, che innanzitutto distingueva fra condannati e assolti in primo grado e già prevedeva meccanismi di recupero del tempo congelato”. I deputati del M5S non negano “criticità” ma neppure lanciano anatemi. E il presidente pentastellato della commissione Giustizia, Perantoni, riconosce che le proposte di via Arenula sono “interessanti” e si dice “ottimista”. Un piccolo miracolo, anche se non è finita. Ma certo, come dice Cartabia in un suo libro sul carcere, un’altra storia inizia qui. Cartabia tenta l’impresa: unire i partiti sulla riforma penale di Giulia Merlo e Filippo Teoldi Il Domani, 11 maggio 2021 La guardasigilli al vertice di maggioranza: “Non possiamo guardarci come avversari, senza riforme niente soldi del Recovery”. Presentate le proposte di modifica di appello e prescrizione e per ridurre la durata dei processi. Durante l’incontro di maggioranza sul disegno di legge di riforma del penale, la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha dovuto bilanciare tecnicismo e politica. Davanti a lei, infatti, si sono posti due ordini di problemi. Il primo e preliminare è quello politico, che riguarda i partiti della maggioranza di governo. Ognuno ha presentato emendamenti diversi e antitetici - soprattutto su come riformare la prescrizione - e il rischio è che le riforme della giustizia (civile, penale e dell’ordinamento giudiziario) si trasformino in una guerra di logoramento. Invece, il tempo è prezioso e determinante: la riforma penale è inserita nel Pnrr, deve essere approvata entro fine 2021 e proprio alla velocizzazione dei processi penali e civili è legato l’ottenimento dei fondi europei del Next generation Eu. Dunque la ministra tecnica per antonomasia ha dovuto trasformarsi in politica e richiamare alla responsabilità le anime della maggioranza: “Non possiamo guardarci come avversari ma come compagni di strada”, avrebbe detto, spiegando che il confronto sarà ampio ma che il fine deve essere lo stesso: velocizzare la giustizia nell’interesse dei cittadini, e “chi si sottrae, si assumerà la responsabilità di mancare gli obiettivi chiesti dall’Unione europea”. La ministra ha poi elencato le condizioni per cui i 191 miliardi destinati all’Italia, 2,7 dei quali per la giustizia, arrivino in Italia: la riduzione del 40 per cento del tempo per i giudizi civili e del 25 per cento di quelli penali, entro cinque anni. Secondo chi era presente sul fronte politico, l’esito del vertice è stato “positivo”, dunque la ministra avrebbe centrato i toni e i contenuti. Il percorso, tuttavia, è difficile e il ministero ha fatto capire di voler procedere a tappe forzate, a partire dal penale. Il ddl penale è in commissione Giustizia alla Camera, il testo era stato redatto durante il precedente governo e ora i gruppi hanno presentato i loro emendamenti. Anche la commissione di esperti presieduta dal presidente emerito della Consulta, Giorgio Lattanzi ha presentato la sua relazione su come migliorare il testo e a giorni arriveranno le specifiche proposte di emendamento al ddl. “Giudizi lunghi recano un duplice danno: frustrano la domanda di giustizia e ledono le garanzie”, per questo realizzare processi breve dovrebbe far “convergere gli interessi tanto dei cosiddetti giustizialisti, quanto dei cosiddetti garantisti”, ha detto la ministra nel presentare le proposte della commissione, ritornando così nelle sue vesti di tecnica. Tre i punti essenziali. Prescrizione - La prescrizione è il tema più divisivo e la commissione ha proposto due possibili linee riformatrici. La prima prevede di sospendere il corso della prescrizione per due anni dopo la condanna in primo grado e per un anno dopo la condanna in appello, riprendendo i termini di ragionevole durata del processo previsti dalla legge Pinto. Inoltre, si prevedrebbe uno sconto di pena in caso di irragionevole durata del processo. La seconda prevede di interrompere la prescrizione con l’esercizio penale ma scatta l’improcedibilità se il processo dura più di 4 anni in primo grado, 3 in appello e 2 in cassazione. Stretta su appello - Il grado d’appello, come mostrano i grafici di questa pagina, è l’imbuto del processo penale. Per questo la proposta della commissione prevede di intervenire per ridurne i numeri: il pm non potrà più appellare né le sentenze di assoluzione né quelle di condanna; per l’imputato, invece, i motivi di appello saranno tassativi e previsti dal codice. Così, l’appello si trasformerebbe in un mezzo di impugnazione vincolato e a favore solo degli imputati. Il rito sarebbe trasformato in camerale, con trattazione orale solo su richiesta. Inoltre, la proposta prevede un maggiore controllo del Gip sulle inerzie del pm nella decisione tra archiviazione e rinvio a giudizio. Indagini - La commissione prone anche di limitare a un anno la durata massima delle indagini per le contravvenzioni, inoltre di razionalizzare il meccanismo delle proroghe di indagine sugli altri reati, con ampliamento del tempo base per alcuni delitti, ma la riduzione del numero di proroghe da poter richiedere. Infine, la commissione ha previsto incentivi al patteggiamento, con la possibilità di sostituire la detenzione fino a quattro anni con una misura alternativa, come la detenzione domiciliare (senza dover aspettare che venga concessa nel giudizio di esecuzione). Ora, l’attesa è per gli emendamenti puntuali e per la reazione dei partiti, in vista dell’inizio dei lavori sul testo base. “È l’ora della riforma, non del referendum. Addio imputati a vita” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 11 maggio 2021 Enrico Costa (Azione): “Sotto il profilo della prescrizione la riforma Bonafede è praticamente archiviata”. Ieri il vertice con la ministra della Giustizia. Enrico Costa, deputato di Azione, spiega che dopo l’incontro in videoconferenza di ieri con la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, “sotto il profilo della prescrizione la riforma Bonafede è praticamente archiviata” e dice che più che sui referendum proposti da Salvini “dobbiamo concentrarci sul far approvare i nostri emendamenti”. Onorevole Costa, quanto confida che nel dl penale possano entrare i temi a voi più cari, legati alla presunzione d’innocenza e alle novità sulle misure cautelari? Ho posto questi quesiti in maniera chiara alla ministra Cartabia. La commissione ministeriale ci ha illustrato proposte e idee e poi c’è stato dialogo sui nostri emendamenti, basati anche su altri temi come il segreto istruttorio, le intercettazioni, il diritto all’oblio. Tutta una serie di proposte che andavano oltre la proposta Bonafede, al cui filo conduttore si è legato invece il lavoro della commissione. Penso e spero che i temi presenti negli emendamenti possano avere cittadinanza, perché ispirati ai medesimi principi seguiti dalla stessa commissione, cioè ragionevole durata del processo e presunzione d’innocenza. Il loro accoglimento significherebbe tuttavia trasformare il dl penale attuale, prendendosi più tempo, che invece stringe. Intravede disponibilità nella ministra Cartabia nell’accogliere le modifiche? Questo non lo so, dobbiamo chiudere la legge di delegazione entro la fine dell’anno sia alla Camera che al Senato e i tempi saranno piuttosto stretti. Tuttavia è evidente che nell’esame non possiamo limitarci al perimetro della riforma Bonafede, all’approvazione della quale tra l’altro io mi trovavo all’opposizione. Condivide l’iniziativa di Matteo Salvini di esercitare pressione attraverso i referendum su una maggioranza che sappiamo essere divisa? Noi siamo una forza politica seria che vuole portare avanti le proprie proposte in Parlamento, che è la sede dell’attività legislativa. Penso che abbiamo l’occasione, noi come altre forze politiche, di presentare le nostre proposte e di vederle approvate. Il referendum è un’opportunità nel caso in cui non ci fosse questa possibilità, ma penso che dobbiamo dare fiducia alla ministra Cartabia evitando di mettere il carro davanti ai buoi. Dobbiamo concentrare le forze sul cercare di portare avanti e far approvare i nostri emendamenti. Anche perché sulla custodia cautelare, sulla separazione delle funzioni e sui magistrati fuori ruolo, i nostri testi sono simili a quelli dei Radicali. Tra i referendum che Salvini propone c’è quello sulle carriere dei magistrati. C’è concreta possibilità che venga abrogata qualche norma tramite referendum? Il referendum abrogativo è molto complesso. Sulla separazione delle carriere abbiamo una proposta di legge di iniziativa popolare proposta dall’Ucpi che è pendente in Parlamento. In generale, sul fatto che il referendum possa essere utilizzato per modificare la norma sulla separazione delle carriere ho molti dubbi. Un conto è la separazione delle funzioni, in merito alla quale si può intervenire sul decreto legislativo del 2006, un altro conto è la separazione delle carriere. Mi piacerebbe vedere come articolerebbero il quesito. È soddisfatto delle ipotesi avanzate da via Arenula per la modifica della prescrizione di Bonafede? Devo dire che sotto questo profilo la riforma Bonafede è praticamente archiviata. Ci sono state proposte due ipotesi: la prescrizione processuale e la prescrizione sostanziale, ma in entrambe le circostanze si archivia lo stop alla prescrizione di Bonafede che determinava il fine processo mai, che come noto per noi era inaccettabile. Chi glielo dice al M5S? La maggioranza è ampia ed è vero che il M5S al momento alle ultime Politiche rappresentava il 33 per cento del Parlamento, ma è anche vero che oggi rappresenta molto meno e se c’è una convergenza del resto della maggioranza su alcune norme di certo ascolteremo la voce del Movimento, ma questa non sarà così determinante come era nelle altre maggioranze. Possiamo dire che oggi la voce del Movimento è un po’ più flebile. A tre mesi dall’insediamento della ministra Cartabia, pensa che la politica stia riuscendo a dare un’immagine di sé al Paese che sia meno divisiva su temi fondamentali come quelli della giustizia? Il cambiamento più evidente è che ora c’è un approccio organico alla materia, non finalizzato ad avere titoli di giornale come accaduto in passato. Su un punto siamo tutti d’accordo e su questo dobbiamo focalizzare l’attenzione: bisogna cercare di avere una ragionevole durata del processo, ancorando le scelte ai principi costituzionali e non a mere visioni politiche dettate da scelte di pancia solo per avere consenso popolare, che portano poi a norme inefficaci. Bongiorno: “Non siamo sabotatori, ma riformare i processi non è sufficiente” di Liana Milella La Repubblica, 11 maggio 2021 L’avvocato leghista: I referendum? Nessuno schiaffo al governo, ma è vitale un radicale riordino della magistratura” Dica la verità, senatrice Bongiorno, ma la Lega vuole davvero i fondi del Recovery che sono legati alle riforme della giustizia o vuol far saltare il tavolo? “Sono accuse del tutto pretestuose. Noi sosteniamo il ministro Cartabia e condividiamo l’urgenza di una profonda riforma della giustizia. Siamo in attesa dei testi, ma è già noto - a titolo d’esempio - che il ministro tiene molto ai temi della digitalizzazione e delle assunzioni. Chi volesse controllare il numero delle assunzioni programmate durante il mio mandato come ministro della Pubblica amministrazione avrà modo di verificare che anche per me è stata una priorità assoluta. Aggiungo che il ministro Cartabia vuole introdurre alcune novità nel processo penale che io stessa avevo suggerito a Bonafede quando era ministro - per esempio, quella di uno staff qualificato in grado di aiutare il giudice - e che erano state bocciate. Però vogliamo anche andare oltre”. Lei dice così, ma le mosse del suo leader Salvini danno la sensazione opposta. Sembrate dei sabotatori... “Ripeto, nessun contrasto, noi vogliamo andare oltre. Quello che è venuto a galla, tra l’altro, è un correntismo esasperato che ha enormi ricadute sull’attività giurisdizionale: mina alla base la fiducia nella magistratura, nella sua indipendenza, nel suo ruolo di contrappeso agli altri poteri, come mai era accaduto nella storia della Repubblica. Un cambiamento radicale non è semplicemente necessario, ma addirittura vitale. Ed è sollecitato da tantissimi magistrati che non si rispecchiano in alcun modo nelle torbide acque di quanto emerso sinora”. Allora come interpreta questa mossa sui referendum? Pare uno schiaffo a Cartabia e al suo disperato tentativo di tenere assieme una maggioranza disomogenea sulla giustizia. O no? “Non conosco i testi del ministro Cartabia, ma da quanto ha annunciato si occuperà di riforme sui processi, con qualche correzione al sistema delle nomine al Csm. La Lega ritiene questi temi fondamentali e darà il suo contributo, ma a noi non basta riformare le procedure. Ogni giorno vengono lanciate accuse gravissime tra magistrati. Ricordo che i magistrati sono coloro che decidono sulla nostra libertà, il nostro patrimonio, la nostra vita. A ciò si aggiunga che l’obbligatorietà dell’azione penale è poco più che un mito: in realtà c’è un’enorme discrezionalità, che riguarda anche la velocità da imprimere alle inchieste e i mezzi da impiegare. Serve una radicale riforma dell’ordinamento giudiziario, non basta riformare i processi”. Ma era proprio necessario, e proprio adesso, lanciare la palla dei referendum? O è una “vendetta” per i processi di Salvini sulla immigrazione? Si spiegherebbe così la voglia di far saltare la legge Severino... “Dissento da questa lettura. Non è più il tempo di assegnare etichette o colori ai tentativi di riforma della giustizia. Si prenda atto che a forza di temporeggiare, di fare “melina”, la giustizia è sull’orlo del baratro. Si cambi rotta. Ora o mai più. Le faccio presente poi che i processi a carico del senatore Salvini hanno ad oggetto la condotta tenuta da un ministro nell’adempimento dei propri doveri. L’esistenza stessa di quei processi dimostra ancora una volta come il Parlamento votando a favore del processo abbia abdicato al proprio ruolo delegando alla magistratura una valutazione politica”. Consentirà dubbi sulla reale voglia di riforme sulla giustizia della Lega vista la sua contrapposizione con l’ex guardasigilli Bonafede... e se l’entrata in vigore della legge sulla prescrizione è slittata di un anno è proprio per una sua trovata. La Lega vuole o non vuole le riforme della giustizia? “Ho definito il blocco della prescrizione una bomba atomica per il processo penale perché so cosa accade in tribunale. Senza la tagliola della prescrizione non si fissano le udienze, è inutile negarlo. Ho chiesto il differimento per l’entrata in vigore perché Bonafede diceva che in pochi mesi avrebbe accelerato il processo penale e non si sarebbe posto alcun problema. E invece...”. Un accordo con M5S e con il Pd è realistico? “È realistico nella misura in cui chiunque reputi urgente assicurare al nostro Paese una giustizia degna di una compiuta democrazia liberale, voglia trovare una base di discussione comune, dove le divisioni strumentali siano accantonate in nome di una visione più ampia. Come ai tempi della Costituente”. Alla Camera avete presentato oltre 150 emendamenti, c’è di tutto, perfino l’obbligo delle scuse all’imputato se il processo si chiude con un’assoluzione. Questo lei lo chiama corretta collaborazione con Cartabia? “Si tratta di tentativi di ribadire che il nostro è un sistema che si fonda sulla presunzione di innocenza, non già sul principio per cui chi viene assolto è un colpevole che l’ha fatta franca”. Insomma, non volete chiudere con questo governo? “Assolutamente no. Proponiamo una grande riforma non più differibile, di ampio respiro, che riabiliti una funzione essenziale per un Paese democratico. Il sistema attuale è stato un fallimento. Bisogna avere il coraggio di prenderne atto e proporre soluzioni. Per il bene di tutti i cittadini”. “Vince la Costituzione, nelle idee e nel metodo. Non vedo i 5S in trincea” di Errico Novi Il Dubbio, 11 maggio 2021 Ddl penale, parla il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto: “Si torna ai principi del giusto processo e della ragionevole durata con un impianto forte”. “Si riafferma la Costituzione. Nel metodo e nel merito. Si torna ai principi del giusto processo e della ragionevole durata con un impianto forte. Si realizza lo spirito della Carta anche nel percorso di condivisione dialettica fra il governo e il Parlamento. Nessuno fra i parlamentari presenti alla riunione ha potuto far altro che plaudire all’impostazione seguita dal gruppo di esperti, e dal presidente Giorgio Lattanzi che l’ha guidato. Ma una condivisione di fatto si è notata anche rispetto ai contenuti, seppur con la necessaria riserva di dover leggere, appena possibile, la traduzione delle ipotesi governative nei veri e propri emendamenti”. Francesco Paolo Sisto è nella prima linea del governo sulla giustizia. Non solo per il ruolo di sottosegretario, ma anche perché ha partecipato a tutte le riunioni della “commissione Lattanzi”, voluta dalla guardasigilli Marta Cartabia per studiare le possibili modifiche al ddl penale. “Posso dire con molta tranquillità che l’autorevolezza e la capacita di declinarla con un approccio pacato sono stati la forza di Lattanzi in questo lavoro. La competenza ha un suo peso insuperabile, quando si tratta di giustizia e di Costituzione”. Al punto da stemperare la contrarietà del Movimento 5 Stelle? Alla riunione sono intervenuti, per il Movimento, il capogruppo in commissione Saitta e il presidente Perantoni. Hanno espresso apprezzamento, come tutti, per il percorso scelto: proposte illustrate nel loro significato, con successiva, imminente traduzione in emendamenti governativi ma tutto il tempo, per i gruppi alla Camera, di subemendarli. Con la possibilità, dunque, di una transazione, di una sintesi fra tecnici e forze politiche. La Costituzione è anche in questo, nel rispetto dialettico dei ruoli fra governo e Parlamento. Quindi il superamento della prescrizione di Bonafede non provocherà l’uscita dei 5 stelle dal governo? Guardi, le rispondo così: non mi è sembrato di aver visto barricate. E il motivo mi pare chiaro, lo ripeto: la competenza delle proposte ha una forza che vince su tutto, s’impone, e si è imposta. Due soluzioni per la prescrizione: ce le illustra? La proposta “sostanziale”, come mi sembra di poterla definire, è molto netta: sospensione di due anni in appello, ma solo per i condannati in primo grado. Se dinanzi al tribunale si è stati assolti, il tempo di estinzione del reato continua a decorrere. Se i due anni di durata massima dell’appello vengono superati anche di un solo giorno, l’intero tempo di prescrizione congelato ritorna nel conteggio. Anche se la sentenza di secondo grado conferma la condanna? Certo, perché deve prevalere davvero il principio della ragionevole durata del processo. Stesso discorso in Cassazione, dove la sospensione è di un anno soltanto. Non le sarà sfuggito un dettaglio? Quale? Due anni per l’appello, un anno per il giudizio di legittimità: sono i termini massimi oltre i quali interviene il diritto al risarcimento ex legge Pinto. E infatti è un’ipotesi molto chiara nel riaffermare le garanzie. La seconda? È più articolata, e per tale motivo potrà essere valutata appieno solo nel dettaglio dell’enunciazione tecnica. In ogni caso la prescrizione del reato, seppur con alcune variabili di dettaglio, scompare dalla scena una volta esercitata l’azione penale. Cioè già con la richiesta di rinvio a giudizio? Sì. Interviene invece una prescrizione cosiddetta, impropriamente, processuale, qualora siano sforati i limiti di durata per ciascuna fase, che sarebbero di quattro anni in primo grado e di tre in appello. Raggiunto quel limite, interviene l’improcedibilità. Sarebbe in ogni caso un superamento chiarissimo della legge Bonafede... Sulla modifica della prescrizione introdotta nel 2019 c’è evidentemente una valutazione critica. Ma vorrei far notare che il vero spirito della proposta governativa è la brevità del processo coniugata con le garanzie. Lo si coglie anche negli altri contenuti. Innanzitutto, la rafforzata efficacia della funzione di filtro per l’udienza preliminare: si va a processo se vi sono elementi veri per ipotizzare un giudizio di condanna, non se gli elementi sono subordinati a un loro eventuale ulteriore sviluppo. Altra cosa molto rilevante, anche per affermare la presunzione d’innocenza a cui tengo personalmente molto: l’iscrizione a registro è un atto a garanzia dell’indagato, e non può avere altre conseguenze se non quelle inerenti il procedimento penale. C’è una novità importante anche sui criteri di priorità per l’esercizio dell’azione penale. Cosa cambia rispetto al ddl dell’ex ministro Bonafede? Deve essere il Parlamento a fissarli. Altra proposta forte della commissione Lattanzi: viene recuperata la legge Pecorella, è cioè precluso il ricorso del pm in appello se l’imputato è assolto in primo grado, con possibilità di ricorrere per Cassazione, naturalmente. Previsione bilanciata da una procedura più stringente per l’appello dell’imputato, vincolata a motivi specifici. C’è una ricerca di bilanciamento anche nella celebrazione da remoto per il secondo grado e la cassazione, sempre derogabile, e senza condizioni, su richiesta della difesa. Inoltre, si ipotizza un forte allargamento dei riti speciali, sia per il patteggiamento che per l’abbreviato. Era un altro snodo critico del ddl Bonafede... Nella proposta Lattanzi c’è un’estensione forte, che ricorre anche nell’allargamento delle fattispecie procedibili a querela, nella possibilità di patteggiare le sanzioni alternative, la confisca, le pene accessorie, nella valorizzazione dei lavori di pubblica utilità. Viene ampliata la messa alla prova, alcuni reati si estinguono con meccanismi di riparazione. Un disegno che la commissione guidata dal presidente Lattanzi sottopone al Parlamento dopo meno di due mesi. Vengono riconsiderate alcune scelte del passato, generate da alcune distrazioni. Sottosegretario, è una revisione molto profonda, il che difficilmente potrà non avere conseguenze sul piano politico... Ma nessuno impone nulla. C’è una logica che definirei di condivisione dinamica. Fra dieci giorni le proposte della commissione ministeriale si tradurranno in emendamenti, i gruppi parlamentari potranno subemendarle. Se si entra nella logica di passi indietro simmetrici, la transazione è possibile. Ma una cosa è certa. Con un impianto del genere si torna davvero alla Costituzione. E lo si fa secondo quel fine della brevità che va rispettato. Ricordiamo cosa ci è stato chiesto: ridurre del 25 per cento la durata media dei procedimenti penali, entro un quinquennio, e ridurli del 40 per cento in campo civile. Meglio di così, l’impegno sollecitato all’Italia dall’Unione europea non si potrebbe realizzare. “Basta conferenze show e Pm in prima pagina”, intervista a Francesco Paolo Sisto di Viviana Lanza Il Riformista, 11 maggio 2021 Parla il sottosegretario alla giustizia. Il processo e la gogna mediatica, la presunzione di innocenza e i tempi della giustizia. Sono tutti elementi di un complesso ingranaggio che si mette in moto ogni volta che c’è un’inchiesta penale, o meglio ogni volta che c’è un’inchiesta penale che sale alla ribalta delle cronache e all’attenzione dell’opinione pubblica perché c’è un indagato o un fatto su si scatena la curiosità collettiva, una curiosità che spesso porta a superare ogni barriera di garantismo e garanzie, ogni limite del segreto istruttorio. E si arriva così alla spettacolarizzazione del processo per cui - e ormai non è una novità - il processo mediatico giunge a sentenza prima ancora di quello reale celebrato nelle aule di tribunale. “Oggi chi è sotto processo corre il rischio di non essere più un uomo. Il cittadino che riceve un’informazione di garanzia, infatti, viene mediaticamente colpito nell’immagine, nella persona, negli affetti familiari, nella posizione lavorativa, nella dignità. E questa pena sociale è spesso molto più pesante rispetto a quella derivante dal fatto reato”. Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia, lo ribadisce nel corso di una lectio magistralis all’Università della Campania Luigi Vanvitelli. “Non si può ragionare di rieducazione del reo se non si interviene in modo deciso sul processo mediatico perché oggi la sentenza arriva comunque troppo tardi, quando ormai è stata dispiegata tutta la forza spietata della condanna pubblica”, sottolinea centrando uno dei punti chiave di questo delicato tema. “L’obiettivo - aggiunge - è dunque quello di orientare nuovamente il procedimento giudiziario in senso costituzionalmente ortodosso, a cominciare dallo stop a quelle conferenze stampa post arresti che sono ormai diventate vere e proprie feste cautelari, passando dalla inibizione alla pubblicazione di foto e nomi dei magistrati impegnati nei processi, fino alla effettiva garanzia di un doveroso diritto all’oblio”, conclude. Sisto precisa che uno dei suoi impegni proprietari è proprio quello finalizzato a frenare il dilagare dei processi mediatici e, appellandosi anche all’aiuto dell’avvocatura per riportare la giustizia nelle aule di tribunale, ribadisce: “Bisogna restituire il processo alle aule di tribunale, a chi, nella giurisdizione, determina le sorti del processo”. Per comprendere di cosa si parla, basta pensare che nell’ultimo report annuale dell’associazione Antigone è emerso che, su un campione di più di 7mila articoli di stampa, “in oltre il 60% dei casi si è riscontrato un approccio colpevolista alle vicende giudiziarie o un atteggiamento acritico rispetto alle ipotesi dell’accusa”. La percentuale è stata stilata all’esito di una ricerca condotta dall’Unione delle Camere Penali. “A farne le spese non sono solo le garanzie per le persone coinvolte nei procedimenti penali - si legge nel rapporto di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie del sistema penale - ma anche la serenità di giudizio del magistrato, la sua effettiva imparzialità e la necessaria riservatezza delle indagini”. La questione è delicata anche perché è difficile bilanciare il diritto alla privacy e il diritto alla presunzione di innocenza di chi finisce al centro di una vicenda giudiziaria con il diritto dei cittadini di conoscere le modalità con cui viene gestita la giustizia e con il diritto di cronaca dei giornalisti. Inoltre, c’è un forte sbilanciamento del processo per cui si dà più peso e più attenzione mediatica alla fase preliminare delle indagini che alla fase dibattimentale del processo. E il fatto che i processi arrivino a sentenza molti anni, a volta anche dieci anni, dopo la fase dell’inchiesta non aiuta, anzi cronicizza questo sbilanciamento per cui quando il processo arriva a conclusione, spesso non interessa più a nessuno se non ai diretti interessati. Sicché l’indagato o l’imputato finisce per essere ricordato per i sospetti che avevano inizialmente dato impulso all’indagine e non per l’assoluzione o il proscioglimento che lo hanno scagionato da ogni accusa. L’incidente probatorio in diretta tv da Giletti di Valentina Stella Il Dubbio, 11 maggio 2021 A “Non è l’Arena” di Massimo Giletti l’ennesimo criminal show sul caso che vede indagato Ciro Grillo e suoi tre amici per un presunto stupro avvenuto nel 2019 in Sardegna. Domenica sera è andato in scena a Non è l’Arena di Massimo Giletti l’ennesimo criminal show sul caso che vede indagato Ciro Grillo e suoi tre amici per un presunto stupro avvenuto nel 2019 in Sardegna. Durante tutta l’ora dedicata alla vicenda sono stati mostrati corposi stralci dei verbali delle sommarie informazioni testimoniali raccolte dai carabinieri e anche audio ricostruiti delle dichiarazioni delle presunte vittime. Al momento gli indagati hanno ricevuto il nuovo avviso di conclusioni indagine e non c’è stata ancora l’udienza premilinare. Chiediamo all’avvocato Luca Brezigar, co-responsabile dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Ucpi, se in queste circostanze diffondere stralci dei verbali di un provvedimento sia lecito oppure no: “pur se gli atti non sono più coperti da segreto, avendone anche gli indagati conoscenza, rimane comunque il divieto di pubblicazione totale o parziale fino allo svolgimento dell’udienza preliminare. Lo scopo è quello di tutelare l’interesse allo svolgimento di un giusto processo dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale il cui convincimento si deve formare in aula nel principio della parità delle parti”. Il problema però, prosegue Brezigar, “è che le sanzioni per chi non rispetta quanto previsto dal codice sono troppo blande: l’art. 684 cp prevede l’arresto fino a trenta giorni o una ammenda da euro 51 a euro 258. Bisognerebbe sanzionare più pesantemente per creare una maggiore deterrenza”. Il problema della pubblicazione degli atti non ha sfiorato gli ospiti di Giletti, anzi sono fioccati complimenti per chi li ha ottenuti e pubblicati. Proprio il vice direttore de La Verità, Francesco Borgonovo, presente in studio ha commentato: “ricordiamo che il primo a tirare fuori - non un verbale - ma il racconto di un video è stato Beppe Grillo”. Si tratta, per l’avvocato Brezigar, “di una risposta priva di senso perché non è entrato nel merito della questione. Grillo è rimasto il solito giustizialista che è sempre stato, a differenza di quello che qualcuno ha sostenuto; tuttavia è divenuto vittima dei meccanismi perversi del processo mediatico perché nulla giustifica la pubblicazione degli atti”. Ma poi come arrivano gli atti nelle mani dei giornalisti? “In generale, possono arrivare dalla polizia giudiziaria, ma anche dagli uffici di procura interessati a sviluppare una particolare attenzione mediatica nei confronti di personaggi pubblici per ricevere appunto l’afflato dell’opinione pubblica. Ma anche i legali di parte civile potrebbero avere lo stesso interesse: far parlare del procedimento in corso per raccogliere consenso popolare ma anche solo per farsi pubblicità. Qualunque sia la fonte si tratta di pubblicazioni che inquinano il processo”. Un altro episodio a parer nostro clamoroso è che durante la trasmissione abbiamo assistito ad una contestazione formale a un teste da parte di Giletti, come se stessimo già in aula. Il gestore del B&B dove hanno alloggiato le due ragazze, presunte vittime dell’aggressione sessuale di gruppo, ha riferito che dopo quella notte “erano scosse”. A quel punto il conduttore e i suoi ospiti presenti in studio gli hanno contestato che nelle dichiarazioni rese a verbale davanti ai carabinieri aveva detto una cosa completamente diversa ossia che le ragazze “erano felici”. L’uomo, posto davanti all’ambiguità delle sue parole, ha replicato in maniera confusa dicendo che tutto quello che ha riferito ai giornalisti corrisponde al vero, e che semmai sono stati i carabinieri a verbalizzare in modo erroneo le sue dichiarazioni, aggiungendo - altro aspetto grave - che all’inizio credeva che le ragazze avessero forse rubato una borsetta ma poi, venuto a sapere del presunto stupro dai giornalisti, ha cambiato percezione dei fatti. “È un dato eclatante - ci dice esterrefatto Brezigar. Avanzare prove durante una trasmissione o addirittura fare un incidente probatorio non fa affatto bene al processo che forse ne seguirà, soprattutto perché si rischia di inficiare la verginità cognitiva dei giudici. Inoltre quel testimone appare alquanto inattendibile a questo punto, anche se capita sempre più spesso che i pm utilizzino quanto sentito o letto nei massi media. Tali situazioni potrebbero essere arginate se i pubblici ministeri vietassero ai testimoni, come previsto dal nostro codice, di andare a riferire a chiunque e a maggior ragione alla stampa quello che già hanno dichiarato nelle sedi opportune”. Lasciamo andare l’avvocato Brezigar impegnato in un convegno organizzato dagli Osservatori Media, Errori Giudiziari ed Europa dell’Ucpi dal titolo “Presunzione d’innocenza: la direttiva europea e la realtà italiana”: “stiamo lavorando ad un disegno di legge che vada a limitare le distorsioni del processo mediatico bilanciando il diritto di cronaca con quelli del giusto processo”. Leonardo morto a scuola, un anno alla maestra: quel processo inutile da fare per forza di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 maggio 2021 Il primo verdetto: un anno con la condizionale. Ma lo strumento giudiziario non può sanare le sofferenze per la tragedia, né lenire i sensi di colpa di chi ora se ne senta indicare formalmente responsabile. Leonardo, 5 anni e mezzo, il 18 ottobre 2019 perse la vita precipitando nella tromba delle scale della scuola primaria “Pirelli” di Milano. Ci sono processi che devono essere fatti per forza, ma che tutti sanno essere perfettamente inutile che si facciano, essendo abissale la sproporzione tra la concatenazione di eventi che in una manciata di attimi determinarono una certa tragedia e la invece strutturale incapacità dello strumento giudiziario tanto di sanare le sofferenze di chi all’epoca l’abbia patita, quanto di lenire i sensi di colpa di chi ora se ne senta indicare formalmente responsabile. Per quel che dunque vale, ieri in Tribunale a Milano la giudice dell’udienza preliminare Elisabetta Meyer ha condannato a 1 anno una maestra, rinviato a giudizio una insegnante di sostegno, e ratificato il patteggiamento a 2 anni di una bidella, tutte imputate dalla pm Letizia Mocciaro di “omicidio colposo” di Leonardo, il bambino di 5 anni e mezzo che il 18 ottobre 2019 perse la vita precipitando nella tromba delle scale della scuola primaria “Pirelli” di Milano. Intorno alle 9,30 il piccolo ebbe dalle maestre il permesso di uscire da solo dalla sua classe per andare in bagno, ma, di ritorno dai servizi igienici, e probabilmente “incuriosito dal vociare” dei bambini di un’altra classe che stavano andando in palestra, trovò in corridoio una sedia girevole con le rotelle, vi salì, si sporse dalla balaustra del secondo piano, perse l’equilibrio e cadde nel vuoto da 13 metri di altezza: subito soccorso, morì dopo quattro giorni in ospedale a causa delle gravi ferite riportate nella paurosa caduta. Quale traduzione giuridica di questa dinamica? La collaboratrice scolastica G.R., dopo aver chiesto nei mesi scorsi di patteggiare 1 anno e 10 mesi, ritenuti pochi da un altro giudice, ieri con i legali Daniela Covini e Pierfrancesco Peano ha patteggiato a 2 anni l’accusa di “non avere vigilato sulla sicurezza e incolumità dell’alunno” mentre seguiva altri due bambini in bagno, essendosi allontanata dal gabbiotto dal quale avrebbe potuto vedere il piccolo, e lasciando incustodita la sedia girevole poi afferrata dal bimbo. Alla maestra I.A. - condannata in rito abbreviato (cioè con la riduzione di un terzo) a 1 anno senza aggravante della violazione della normativa antinfortunistica in quanto “preposta alla sicurezza”, e con invece attenuanti generiche e sospensione condizionale della pena - è stato addebitato di non essersi sporta dall’uscio della classe per accertarsi che ci fosse la bidella a sorvegliare l’andata in bagno dei bambini: comportamento che ad avviso dei difensori Simone Briatore e Matteo Gritti non era esigibile perché non previsto dal regolamento di istituto e perché non sarebbero dovuti esserci dubbi sulla presenza delle bidelle. L’altra maestra O.C., difesa dal legale Michele Sarno nel processo che per lei inizierà l’11 luglio, condivide l’accusa di aver omesso la dovuta vigilanza sul bambino: “Sono solidale con le due colleghe in questa terribile tragedia di cui - dice - ognuno di noi porta e porterà sempre un peso anche psicologico terribile”. Dawda, che sognava di fare il calciatore ma fu scambiato per uno scafista di Alessia Candito La Repubblica, 11 maggio 2021 Il ragazzo che aveva appena 18 anni approdò a Vibo Valentia. Ora è stato assolto dopo un’odissea giudiziaria durata più di cinque anni. Sognava di fare il calciatore, ma è stato scambiato per uno scafista e condannato ad un’odissea giudiziaria conclusasi solo dopo più di cinque anni. Aveva da poco compiuto 18 anni Dawda Manneh, quando da solo è partito dal Nord della Libia, con in tasca una lettera di referenze del Bollore Football club, la sua squadra in Gambia e il sogno di giocare a calcio in Europa. Per realizzarlo, ancora minorenne si è messo in viaggio dalla sua città natale, ha sopportato la prigionia nei lager libici e come tanti si è messo in fila per tentare la traversata del Mediterraneo e provare a costruire un futuro altrove. Era il novembre del 2016. Gli scafisti, quelli veri, ad un certo punto gli hanno lasciato il motore in mano e indicato approssimativamente la rotta. Ed era lui a tentare di governare la bagnarola su cui viaggiava con altri trenta quando la Topaz Commander li ha individuati, soccorsi e accompagnati a Vibo Valentia. È lì, racconta oggi il Quotidiano del sud, che per Dawda Manneh è iniziato un nuovo incubo. Poco dopo lo sbarco viene arrestato. Per gli investigatori, era lui lo scafista e come tale viene condannato prima dal tribunale di Vibo Valentia, poi dai giudici della corte d’Appello. Ci è voluta la Cassazione e un nuovo e più approfondito processo d’appello per riconoscere che Manneh non è che l’ennesima vittima di chi traffica con le vite di esseri umani dalla Libia. “Nel nuovo processo è stata sentita una donna siriana che ha viaggiato con il mio assistito e ha detto chiaramente che lui si era messo al timone per salvare gli altri e non perchè fosse in combutta con chi ha organizzato il traffico. Ma soprattutto - specifica l’avvocato Salvatore Perri, che ha seguito il caso - la signora, rintracciata in Germania grazie all’Interpol, ha specificato che quando è stata sentita era stanchissima e poco lucida”. Per due gradi di giudizio però ci si è accontentati di acquisire i verbali di chi come lei con il ragazzo ha viaggiato ed è stato sottoposto ad interrogatorio dopo un viaggio rischioso e interminabile. “Manneh è stato ingiustamente in carcere per quasi tre anni e il suo è forse uno dei casi più tragici, ma purtroppo - commenta il legale - non è l’unico”. Inerzie, orientamenti consolidati, difficoltà nel reperire i testimoni troppe volte - spiega l’avvocato - portano a giudizi frettolosi che non considerano la dinamica ormai nota della maggior parte dei viaggi dalla Libia. “Spesso il timone viene messo in mano al più giovane o ingenuo dei passeggeri. E non è una proposta, ma un ordine”. Per Manneh, una luce di speranza è arrivata a fine 2019, quando la Cassazione ha annullato la sentenza di condanna a 5 anni e mezzo che gli era stata inflitta e ha ordinato un nuovo processo. Dopo tre anni dietro le sbarre, il ragazzo è stato scarcerato e ospitato in un centro d’accoglienza in Calabria, ha provato a costruirsi una vita. Ma ha fatto in fretta a capire che per lui in Italia non ci sarebbe stato futuro, che nel giro di poco per lui l’unico destino sarebbe stato quello di finire a ingrossare l’esercito dei braccianti costretti ancora a lavorare per pochi euro a cassetta. Per questo, si è rimesso in viaggio. Destinazione, Germania. Oggi è a Francoforte, ha fatto richiesta di protezione internazionale e in attesa che il suo caso venga definito, lavora e frequenta una scuola di tedesco. E con cinque di ritardo, ha anche iniziato a lavorare al suo sogno, giocando in una squadra locale. La posizione del minore nel processo di Francesca Ferrandi* Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2021 Con l’ordinanza n. 3159, resa lo scorso 9 febbraio 2021, la Cassazione ha ribadito il principio secondo il quale in generale i minori, nei procedimenti giudiziari che li riguardano, non possono essere considerati parti formali del giudizio. In particolare, nel caso di specie il ricorrente aveva adito la Suprema Corte per la cassazione del decreto con cui, in parziale accoglimento del reclamo proposto dalla controricorrente avverso il provvedimento del Tribunale di Treviso, reso in materia di affidamento e collocamento della figlia minore, la Corte di Appello di Venezia ha disposto il collocamento della piccola presso la madre, disponendone inoltre l’affidamento ai servizi sociali al fine di favorire gli incontri tra lui e la figlia. Il ricorrente ha lamentato ben sei motivi di impugnazione: con il primo ha denunciato la violazione e la falsa applicazione degli artt. 27 Cost., 337-ter c.c., e dell’art. 116 c.p.c., in quanto, a suo dire, la corte di merito aveva disposto il collocamento presso la madre della minore, all’esito di dichiarazioni insufficienti ed univoche della stessa su “presunte condotte abusanti paterne”, rese “in un contesto di conclamato condizionamento grave della bambina”. Con il secondo motivo, ha denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (inattendibilità delle dichiarazioni della minore in quanto afflitta da sindrome di ‘“Alienazione Parentale”), mentre con il terzo lamentava la violazione e falsa applicazione degli artt. 118 c.p.c. e 2909 c.c. per aver la Corte di appello disposto che potesse tenere con sé la figlia minore la madre sino ad allora ritenuta inidonea, giudizio che non poteva ritenersi come tale, e senza altra motivazione, superato da quello formulato sul padre. Con il quarto motivo, poi, censurava la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., in ragione del fatto che la Corte di merito aveva deciso solo in base all’ultima relazione dei Servizi Sociali e non considerando gli altri documenti richiesti con ordinanza del 18 ottobre 2018, mentre con la quinta censura rilevava la nullità della sentenza per grave vizio di motivazione (travisamento del presupposto giuridico/fattuale, contraddittorietà ed illogicità), in quanto la Corte non aveva inteso le critiche mosse dal ricorrente alla relazione dei Servizi Sociali su cui aveva fondato la propria decisione e di cui costui aveva lamentato la parzialità per avere rifiutato ogni contatto con la famiglia paterna. Infine, con l’ultimo motivo di impugnazione sosteneva la violazione e falsa applicazione degli artt. 337-octies e 315-bis comma 3, c.c., dell’art. 336-bis c.p.c., dell’art. 38 disp. att. c.c., nonché della normativa internazionale in materia di audizione dei minori, in quanto la Corte territoriale aveva collocato la minore presso la madre in ragione della relazione dei Servizi Sociali, senza che, però, si fosse provveduto ad ascoltare la figlia; un adempimento, quest’ultimo, ritenuto dal ricorrente necessario a pena di nullità, secondo quanto disposto dalla normativa nazionale ed internazionale. Il minore quale parte sostanziale. Nell’esaminare il ricorso, la Suprema Corte si è dapprima soffermata proprio su quest’ultimo motivo, affermandone la manifesta fondatezza e ricordando come, nei procedimenti giudiziari che riguardano i minori, essi non possono essere considerati parti formali del giudizio, dal momento che la legittimazione processuale non risulta attribuita loro da alcuna disposizione di legge; essi sono, tuttavia, parti sostanziali, in quanto portatori di interessi comunque diversi, quando non contrapposti, rispetto ai loro genitori. Al riguardo, infatti, occorre qui ricordare come i procedimenti in materia familiare che riguardano il minore, possano essere di due tipi: da una parte, quelli volti ad accertare o a negare l’esistenza della titolarità di status, nei quali il minore è parte necessaria, e dall’altra, quelli attinenti alla crisi familiare, con incidenza sui diritti personali o patrimoniali di cui il minore è titolare e, in ogni caso, destinatario della pronuncia e, quindi, dei suoi effetti. E proprio riguardo a questa seconda categoria di procedimenti si pone la vexata questio circa la sua qualità di parte formale (qualità, questa, che ricorre quando il soggetto può beneficiare delle prerogative e garanzie del giusto processo), oltre che sostanziale (ovvero il giudicato materiale si esprimerà anche sulle situazioni di cui è titolare), in considerazione del fatto che nonostante egli non possa essere soggetto di atti processuali subisce gli effetti del risultato del processo (per un approfondimento di questi aspetti v. C. Cecchella, “Diritto e processo nelle controversie familiari e minorili”, Bologna, 2018, 33 ss.). Tuttavia, sebbene la qualità di parte sostanziale del processo sia collegata alla capacità giuridica e sia sempre stato abbastanza agevole riconoscerla anche in capo ai minori, avuto riguardo ai loro diritti patrimoniali nei confronti dei terzi, non poche difficoltà si riscontrano, ancora oggi, in relazione alla tutela di simili diritti del minore, laddove coinvolti nella crisi familiare (cfr. B. Bottecchia, “Il ruolo del minore nel processo, in Autodeterminazione e minore di età”. Itinerari di diritto minorile, a cura di R. Senigallia, Pisa, 2019). Infatti, nonostante la qualità di parte del minore sia stata riconosciuta dalla Consulta, con la nota pronuncia dei primissimi anni duemila (cfr. Corte Cost., 30 gennaio 2002, n. 1), la quale, attraverso il richiamo alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, ha affermato che in qualsiasi procedimento in cui il minore è coinvolto necessita della nomina di un curatore e di un difensore, nella prassi si riscontra, in realtà, ancora una difficoltà di tutela effettiva, a cui si è cercato di supplire attraverso l’ascolto. L’ascolto del minore. Quest’ultimo strumento, avente la funzione di far sentire la voce dei minori nei procedimenti che li vendono direttamente coinvolti e già riconosciuto dall’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, nonché dall’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, è stato previsto nel nostro ordinamento a seguito della riforma complessiva della filiazione, ad opera della L. n. 219 del 2012 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali, in G.U. n. 293 del 17-12-2012) e del D.Lgs. n. 154 del 2013 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norme dell’art. 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219, in G.U. n. 5 dell’8-1-2014), la quale ha portato al riconoscimento diritti sostanziali e processuali del minore. In particolare, oggi, la disposizione di cui all’art. 315- bis c.c., dispone il diritto del minore ad essere ascoltato, in tutti i procedimenti che lo riguardano, quando egli abbia compiuto gli anni dodici e quando, anche di età inferiore, sia capace di discernere, mentre quella di cui all’art. 316 c.c. prevede che il figlio sia ascoltato dal giudice di merito, anche in presenza di contrasto da parte dei genitori, su questioni che lo coinvolgono direttamente. Quanto, poi, alla disciplina generale, essa è racchiusa nell’art. 336-bis c.c., dove si prevede l’ascolto del minore che abbia compiuto dodici anni, o che, se minore di tale limite di età, abbia la capacità di discernimento, disponendone l’obbligatorietà del suo ascolto, in tutti i procedimenti, nei quali debbono essere adottate decisioni che lo riguardano; obbligo, quest’ultimo, che può essere escluso, solo nell’ipotesi in cui il giudice, esclusivamente con provvedimento motivato, lo reputi inutile o manifestamente contrario all’interesse del minore. Riguardo, poi, alle modalità di esecuzione, lo stesso dovrà essere condotto dal giudice, anche attraverso esperti ed ausiliari, mentre i genitori, i difensori delle parti, il curatore speciale (art. 78 c.p.c.), se del caso, all’uopo nominato, il Pubblico Ministero, debbono assistere, solo se autorizzati dal Giudice, previa redazione di processo verbale e registrazione audio video. Inoltre, all’art. 38-bis disp. att. c.c., si prevede che, nell’ipotesi in cui la salvaguardia di un minore sia assicurata con mezzi idonei, quali l’uso di un vetro specchio, unitamente ad un impianto citofonico, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore, il Pubblico Ministero, possano seguirne l’ascolto, anche in luogo diverso da quello in cui il minore si trova effettivamente, senza dover richiede alcuna autorizzazione al giudice, dovendo in ogni caso il minore, prima di procedere all’escussione, essere informato della natura del procedimento e degli effetti dell’ascolto (previsione, quest’ultima, contenuta anche nell’art. 3 della Conv. di Strasburgo del 25 gennaio 2006 sull’esercizio dei diritti del minore, in cui si precisa che il fanciullo, deve ricevere ogni informazione pertinente, ed essere informato delle eventuali conseguenze che tale opinione potrebbe comportare nella pratica e della sua incidenza sulle decisioni da prendersi). Da quanto seppur brevemente ricordato, ne discende che il minore, oltre ad essere oggetto di protezione, è anche soggetto di diritto e in quanto tale titolare di diritti soggettivi da portare nel processo, attraverso la disciplina dell’ascolto, strumento ormai essenziale per la realizzazione delle sue aspettative nel giudizio,, a pena di nullità della sentenza, a meno che l’organo giudicante non decida di motivarne l’esclusione, in ragione dell’età, delle condizioni e dei disagi, magari manifestati dal fanciullo. Costituisce, pertanto, violazione del principio del contraddittorio e dei diritti del minore il suo mancato ascolto, quando non sia sorretto da un’espressa motivazione sull’assenza di discernimento, tale da giustificarne l’omissione (conf. ex multis Cass. civ., 30 luglio 2020, n. 16410; Cass. civ., 24 maggio 2018, n. 12957 e Cass. civ., 29 settembre 2015, n. 19327). Conclusioni. Nel caso di specie, secondo gli Ermellini, il giudice di secondo grado ha mancato di fare applicazione dei principi sopra ricordati non motivando sulla capacità di discernimento della minore nata nell’aprile del 2009, al fine di giustificarne l’omesso ascolto e non provvedendo neppure a precisare la natura della “nota allegata alla relazione” dei Servizi Sociali, in cui sono riportate le dichiarazioni della prima, e tanto al fine di verificare in quale contesto la minore sia stata ascoltata e, segnatamente, se gli indicati Servizi abbiano operato su mandato del giudice (sul punto cfr. Cass. civ., 29 settembre 2015, n. 19327); certo essendo poi, prosegue la S.C., che: “l’audizione del minore ultradodicenne o di età inferiore L. n. 184 del 1983, ex art. 15, come modificato dalla L. n. 149 del 2001, è un atto processuale del giudice, il quale può stabilire, nell’interesse del minore stesso, modalità particolari per il suo espletamento, comprendenti anche la delega specifica ad esperti, ma allo stesso non è equiparabile l’assunzione del contributo dell’adottando in maniera “indiretta”, tramite le relazioni che gli operatori dei servizi sociali svolgono nell’ambito della loro) ordinaria attività” (cfr. Cass. civ., 22 luglio 2015, n. 15365). In accoglimento del sesto motivo di ricorso, assorbiti gli altri nella natura del vizio lamentato, la Suprema Corte ha, quindi, cassato il decreto impugnato con rinvio alla Corte di appello di Venezia, altra sezione, anche per le spese del giudizio di legittimità. Emilia-Romagna. Marighelli: “Ancora troppi i detenuti, passi avanti sul fronte Covid” redattoresociale.it, 11 maggio 2021 Il Garante dell’Emilia-Romagna ascoltato in commissione: “Dare attuazione al principio di territorialità nell’esecuzione della pena. Quanto alle madri con figli in carcere, attendiamo le risorse promesse per potenziare il sistema delle case famiglia”. Il 2020 è stato l’anno dell’emergenza, con il Covid-19 il tema del sovraffollamento è diventato ancora più complesso. Il problema del distanziamento, così come quello delle protezioni individuali, sono diventati centrali. Lo scorso anno anche le attività rieducative sono state ridotte al minimo. “In questa situazione l’articolo 27 della Costituzione in qualche modo è stato sospeso. Abbiamo raccolto le preoccupazioni delle persone in carcere, che lamentano una segregazione amplificata: per la pena che devono scontare, ma anche per l’emergenza sanitaria” Intervenendo in Commissione per la parità e per i diritti delle persone, il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale Marcello Marighelli ha tracciato un bilancio delle condizioni nelle carceri dell’Emilia-Romagna. “Superato questo momento - ha spiegato - si dovranno affrontare con decisione i problemi della detenzione negli 11 istituti dell’Emilia-Romagna, dando prima di tutto attuazione al principio di territorialità nell’esecuzione della pena, per ridurre sensibilmente il numero delle persone recluse, per rendere il carcere più sicuro e vivibile e per garantire un effettivo sostegno alla realizzazione delle misure alternative alla detenzione”. Nel 2020 i casi di Covid tra la popolazione detenuta sono stati circa 150, due terzi dei quali si sono verificati a Bologna. Persistono problemi legati ai numeri della popolazione detenuta: nei primi due mesi del 2021 i dati descrivono una significativa ripresa delle presenze. Il 28 febbraio 2021 in Italia i detenuti erano 53.697, con un aumento di 333 unità rispetto ai 53.364 del 31 dicembre 2020. “Nella nostra regione, alla stessa data, i detenuti erano 3.270, con un aumento di 131 unità rispetto ai 3.139 del 31 dicembre 2020 - a fine 2019 erano però 3.834”. Le detenute donne in Italia nel febbraio 2021 erano 2.252, con una diminuzione di 3 unità rispetto alle 2.255 del dicembre 2020, “ma nella nostra regione, in controtendenza, le donne recluse sono passate, nello stesso arco di tempo, da 133 a 146, 13 in più”. Un passaggio anche sulla situazione delle mamme con figli nelle carceri: “Anche questo è un tema da affrontare, la situazione è inaccettabile. Nel 2020 sono stati 11 i casi in regione. Auspichiamo, come promesso, che vengano indirizzate risorse per potenziare il sistema delle case famiglia protette rivolte a questa categoria di persone”. Con l’emergenza sanitaria è stata avviata anche un’attività di monitoraggio, condotta attraverso la corrispondenza. Tra gli ambiti indagati, l’ambito penale, che riguarda le carceri e i luoghi di esecuzione penale esterna; l’ambito forze di polizia, che riguarda le camere di sicurezza gestite dalle forze dell’ordine; l’ambito migranti, che riguarda i centri di accoglienza per cittadini stranieri richiedenti protezione internazionale; l’ambito salute che riguarda i servizi psichiatrici di diagnosi e cura per quanto attiene agli accertamenti e ai trattamenti sanitari obbligatori ospedalieri. “Rileviamo con soddisfazione - ha spiegato il garante - la piena collaborazione di tutti gli istituti contattati”. Analizzata in commissione anche la situazione sanitaria all’interno delle carceri della regione: “Le azioni collegate al contenimento dei rischi epidemiologici stanno funzionando, anche la campagna vaccinale è arrivata a buon punto. È già terminata - almeno per la prima dose - a Piacenza e Ferrara ed è in fase di completamento nelle altre province - anche a Reggio Emilia dove si contano ancora 62 positivi”. Campania. “Vacciniamoci, saremo più liberi”: lo spot per sensibilizzare i detenuti di Viviana Lanza Il Riformista, 11 maggio 2021 Da oggi, nelle Case circondariali campane, sarà trasmesso uno spot per sensibilizzare i detenuti ad effettuare il vaccino anti-Covid. Nel promo, a metterci il volto, ci sono i Garanti delle persone private della libertà Pietro Ioia (per il Comune di Napoli) e Samuele Ciambriello (per la Regione Campania), la vicepresidente dell’associazione “Il Carcere Possibile” Elena Cimmino, il sacerdote pastorale delle carceri di Napoli don Franco Esposito, l’avvocato di Antigone Manuela Mascolo e l’infettivologo Luigi Greco. Lo spot è frutto dell’opera di alcune organizzazioni napoletane tra cui il Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, Assocciazione “Il carcere possibile”, Antigone, la Pastorale delle Carceri di Napoli. Il video è patrocinato dal Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria della Campania, diretto dal dottor Antonio Fullone. “Con questa iniziativa - spiega il coordinatore del Festival Maurizio Del Bufalo - vorremmo sottolineare l’importanza di un’azione combinata tra Istituzioni e Società Civile per combattere la pandemia nei luoghi più lontani dall’attenzione della pubblica opinione e dei media. Si tratta di un gesto che riteniamo esemplare per la città di Napoli e la nostra Regione, in un momento in cui le categorie socialmente fragili sono spesso dimenticate e lasciate sole, ignorando quanto sia rischioso per tutti, e soprattutto per i detenuti e le detenute, per gli agenti di polizia penitenziaria e gli operatori del carcere, ritardare la vaccinazione e creare le condizioni di emergenza del primo lockdown che portarono a rivolte e morti nelle carceri italiane”. “Siamo ancora in attesa - ricorda Del Bufalo - di sapere di più su quegli episodi drammatici e per questo ci adoperiamo con tutte le nostre forze perché non avvenga mai più nulla di simile”. “Cogliamo l’occasione - conclude - per ringraziare tutti coloro che hanno voluto lasciare una testimonianza in questo filmato e la Sly Production, la Breeze Entertainment e Coraggio Salerno che ne hanno permesso la realizzazione tecnica in tempi brevissimi”. Napoli. Poggioreale, ci sono 2mila detenuti ma solo 24 sono stati vaccinati di Andrea Esposito Il Riformista, 11 maggio 2021 Il paradosso è evidente: mentre il governatore campano Vincenzo De Luca annuncia che “la campagna vaccinale in Campania va avanti in modo eccellente”, da due settimane la somministrazione del siero anti-Covid è al palo nel carcere di Poggioreale, struttura tra le più affollate in Europa dove, di conseguenza, è impossibile osservare il distanziamento sociale. A certificarlo sono le statistiche che parlano di soli 24 detenuti vaccinati a fronte di una popolazione carceraria di 2.118 persone. Non va meglio a Secondigliano dove, dopo un avvio incoraggiante, la campagna vaccinale si è bloccata a 56 detenuti immunizzati a fronte di una platea di 1.159 persone. Certo, la campagna è su base volontaria e quindi la quota di vaccinati va calcolata non sul totale dei detenuti presenti, ma sul numero di quelli che hanno accettato di farsi inoculare il siero anti-Covid. Ed è altrettanto vero che la guerra al virus è stata finora condizionata dalle poche dosi di farmaci disponibili. Il dato fornito da Samuele Ciambriello, garante regionale delle persone private della libertà, è però ugualmente preoccupante se si considerano il rischio sanitario connesso al sovraffollamento e la presenza di detenuti attualmente positivi al Covid: dieci a Poggioreale e quattro a Secondigliano più uno a Santa Maria Capua Vetere. “Nei due principali penitenziari napoletani - spiega Ciambriello - la campagna vaccinale si è fermata proprio quando dal commissario Figliuolo è arrivato il via libera alle immunizzazioni a scaglioni e a oltranza, senza limiti connessi all’età”. Il Garante dei detenuti ha sollecitato i vertici dell’Asl Napoli 1 che hanno assicurato 350 vaccinazioni a Secondigliano e 250 a Poggioreale a partire da martedì. “La campagna deve riprendere subito e a tambur battente, non a macchia di leopardo - aggiunge Ciambriello - Non è accettabile che i detenuti siano trattati come “figli di un dio minore” perché il diritto alla salute va garantito a tutti, a cominciare da chi è più esposto al contagio”. Il problema riguarda anche il personale della polizia penitenziaria, gli educatori e tutti gli altri soggetti che, entrando e uscendo continuamente dai penitenziari, potrebbero contrarre il virus all’esterno per poi trasmetterlo a chi vive dietro le sbarre. Di qui la necessità di immunizzarli al più presto. Attualmente il personale vaccinato tocca quota 2.240 su una platea di 4mila unità, mentre i poliziotti attualmente positivi al Covid sono 48 e rischiano di scatenare o alimentare pericolosi focolai. Eccezion fatta per Napoli, la campagna vaccinale fa segnare risultati incoraggianti. I detenuti immunizzati sono circa 380 nel Casertano, 38 tra Benevento e Airola, 246 tra Salerno, Eboli e Vallo della Lucania, 102 tra Avellino, Ariano Irpino e Sant’Angelo dei Lombardi. Ottima la performance del carcere femminile di Pozzuoli dove, in soli due giorni, il siero anti-Covid è stato somministrato a 122 detenute su 130: probabilmente un record nazionale. In totale, in Campania, i reclusi vaccinati sono circa 1.400 su circa 19mila in tutta Italia. Il dato è tutto sommato positivo, ma non ancora sufficiente per garantire un’alta protezione dal Covid a chi vive o lavora nei penitenziari di Napoli e dintorni. “La vaccinazione è un diritto-dovere per chi accede e per chi è dentro il carcere - conclude Ciambriello - Bisogna accelerare, magari puntando sul vaccino a dose unica che evita complicazioni burocratiche e presenta diversi vantaggi organizzativi”. Parma. La pandemia nel carcere: “Il Covid ha stravolto la vita dei detenuti” di Greta Magazzini ilparmense.net, 11 maggio 2021 Il Garante dei detenuti Roberto Cavalieri e il Direttore Valerio Pappalardo spiegano la situazione del carcere di Parma durante il Covid Quando a fine febbraio 2020 si apprendevano le prime notizie a tema Covid nel nostro Paese, c’era chi veniva a conoscenza del nuovo Coronavirus in maniera molto indiretta. Si tratta dei detenuti, ovvero di tutte quelle persone che stanno scontando una pena in carcere, un luogo che costituisce una sorta di “mondo a parte”, diviso e separato dal resto del mondo con massicce recinzioni. La Sars-Cov-2 iniziava quindi a circolare tra le persone, prima nel Nord Italia, poi in tutto lo stivale. Ma presto il Covid è penetrato anche nell’“altro mondo”, facendo sorgere molti dubbi e domande. Nel mese di marzo 2020 infatti, le normative anti-contagio hanno stravolto l’organizzazione delle Case circondariali: le visite dei parenti sono state interrotte, sono state limitate le uscite dal carcere ed è stato disposto il distanziamento sociale negli spazi interni delle strutture. Dopo pochi giorni però, si sono scatenate numerose rivolte da parte dei detenuti, con un grido di disperazione e rabbia che faceva tornare a galla un problema ben noto e già insediato nel profondo delle carceri italiane da ben prima dello scoppio della pandemia: il sovraffollamento. Mentre quindi nella primavera dello scorso anno tutta la popolazione stava affrontando i primi giorni di quarantena, si stava smuovendo un’altra battaglia all’interno delle carceri, che talvolta trovava un buco d’aria nel tam tam di notizie riportate dai media. Si sono contati poi i primi contagi tra gli agenti di polizia penitenziaria e tra i detenuti, finché a un anno di distanza si possono contare anche i morti per Covid dentro le carceri. Secondo il rapporto rilasciato da Antigone l’11 marzo 2021, in un anno sono stati 18 i detenuti morti a causa dell’infezione da Coronavirus nelle carceri d’Italia. Nel rapporto si legge anche che in 12 mesi c’è stata una significativa diminuzione del numero dei detenuti: al 29 febbraio 2020 erano detenute 61.230 persone; il 28 febbraio 2021 53.697. Si tratta della riduzione del 12,3% del totale. A un anno di distanza quindi, è possibile stilare una sorta di bilancio di come i detenuti hanno vissuto la pandemia, tra la situazione all’interno delle celle e le relative complicazioni, e la preoccupazione rivolta per i cari che stavano fuori. Abbiamo quindi posto qualche domanda a Roberto Cavalieri, Garante dei detenuti del Comune di Parma e a Valerio Pappalardo, direttore del carcere di Parma, dove qualche mese fa è scoppiato un focolaio che ha coinvolto fino a 66 persone. L’organizzazione del Carcere di Parma durante il Coronavirus: videochiamate e distanziamento garantiti. “Qui non c’è un problema di sovraffollamento” Come spiega Roberto Cavalieri, il Carcere di Parma è composto da quattro circuiti detentivi a seconda della tipologia di reato compiuto: Media sicurezza per i reati comuni, AS3 per i reati associativi di stampo mafioso, AS1 per gli ex leader di cartelli mafiosi ed infine 41bis per i detenuti che ricoprono ancora ruoli di rilievo in organizzazioni mafiose. Quando hanno iniziato a susseguirsi i diversi Dpcm, si è avuto all’interno del carcere “l’effetto dirompente dell’amplificazione della distanza tra i detenuti e i propri familiari e la comunità esterna rappresentata per lo più dai volontari, - spiega Cavalieri - e tutto questo ha avuto ripercussioni pesanti sulla qualità della vita dei detenuti”. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziario ha cercato quindi di “compensare la sofferenza aumentando il numero e la durata delle chiamate, introducendo anche le videochiamate prima mai viste”. Anche Pappalardo ha riportato che è stato consentito ai detenuti di “collegarsi via Skype con i loro congiunti, ad eccezione del circuito detentivo aggravato speciale”. La condizione fisiologica di ansia, come riferisce il direttore del Carcare di Parma, era evidente, e soprattutto è stata percepita preoccupazione da parte dei detenuti per la salute dei familiari più stretti. “Le videochiamate non sono la stessa cosa di una visita nel corso della quale si può abbracciare un figlio”, afferma Cavalieri, bisogna però affermare che “i detenuti hanno compreso che a Parma tutti abbiamo sofferto per le misure contenitive della pandemia”. “Da parte di tutti - sanitari, Polizia penitenziaria, Direzione e detenuti stessi - è stata spesa molta energia per contrastare univocamente la pandemia”, continua Cavalieri. Tuttavia, la risposta all’emergenza sanitaria è stata positiva, come spiega il Garante dei Detenuti, perché il carcere di Parma non soffre del sovraffollamento, avendo anzi in questo momento “celle vuote nel nuovo padiglione”. “I problemi nel nostro penitenziario - riferisce Roberto Cavalieri - derivano piuttosto dall’alto numero di detenuti con problematiche sanitarie, l’assenza di organici completi tra il personale della Polizia Penitenziaria e del personale educativo”. È invece nel marzo di questo anno che si è diffusa la notizia di un possibile focolaio nel carcere di Via Burla. Faissal Choroma, responsabile sanitario del carcere di Parma, ha infatti lanciato l’allarme circa la diffusione dei contagi tra i detenuti del 41bis, e presto si è arrivati alla conta di 66 contagiati su un totale di 704 detenuti. Mentre il direttore del carcere Valerio Pappalardo ha dichiarato che “presumibilmente il contagio si è alimentato per ipotetici comportamenti inappropriati o forse approssimativi, ma è difficile poter assicurare tale origine”, il Garante dei Detenuti è sceso più nel dettaglio. “Tenuto conto che la Comunità esterna non può entrare in quell’area del carcere e che i trasferimenti dei detenuti sono molto rari - illustra Cavalieri - non rimangono molte altre persone che possono accedere in quel reparto: o i sanitari o la Polizia penitenziaria”. Tuttavia, continua il Garante, non è questa la questione: “Quello a cui si è assistito è stata l’attivazione di una macchina organizzativa tra Direzione e sanitari che è stata ineccepibile: tamponi, isolamenti sanitari, creazione di zone pulite, gestione dei rifiuti, tenuta delle presenze del personale hanno permesso di tenere sotto controlla la situazione e di arginare il focolaio che oggi si è ridotto a 11 casi”. Nessuno dei detenuti comunque ha sviluppato sintomi gravi della malattia, “salvo qualche ricovero per più idonee cure ospedaliere, ma senza pericolo di vita”, spiega Pappalardo. Congiuntamente anche il Garante dei Detenuti ha affermato che sono state erogate cure al pari dei pazienti liberi e nel contesto della propria abitazione, e ha aggiunto: “So che sono stati coinvolti anche sanitari del Reparto Barbieri che sono venuti in carcere a fare visite ai detenuti contagiati”. Nel frattempo, mentre i detenuti contagiati si stanno curando, si sta procedendo anche con le vaccinazioni, un’àncora alla quale anche dentro il carcere ci si appiglia per poter avere una protezione contro il possibile contagio. Valerio Pappalardo infatti conclude: “Per la popolazione detenuta le vaccinazioni sono allo stato in corso e sono stati interessati circa 100 individui. Fra il personale operante invece più del 60% ha ricevuto la prima dose vaccinale”. Cassino (Fr). Mistero nel carcere, la ministra Cartabia incontra la madre del detenuto morto di Clemente Pistilli La Repubblica, 11 maggio 2021 “Mi ha promesso che farà indagini sull’istituto”. Il caso del 32enne di Pietralata morto nella Casa circondariale di Cassino arriva al ministero. La donna: “Quattro anni senza verità: io non mi arrendo”. Mamma Alessandra non vuole rinunciare alla verità sulla morte in carcere del figlio. La cerca instancabilmente da quattro anni. E ieri lo ha detto direttamente alla ministra Marta Cartabia. Mimmo D’Innocenzo, romano di Pietralata, è deceduto all’età di 32 anni nella casa circondariale di Cassino, il 27 aprile 2017 e, dopo lunghe e tormentate indagini, il sostituto procuratore Roberto Bulgarini Nomi ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta. “Non accetto che si possa archiviare un caso del genere, ci sono persone che devono pagare per quello che hanno fatto. Mio figlio aveva finito la sua pena e ora deve pagare chi ha sbagliato. Questo lo faccio per mio figlio e per tutti gli altri che sono morti nelle carceri”, dichiara Alessandra Pasquire, che dopo aver manifestato la settimana scorsa davanti al Ministero della giustizia ha ora avuto il faccia a faccia con la guardasigilli. Nell’inchiesta della Procura di Cassino compaiono un detenuto sospettato di aver ceduto sostanze stupefacenti alla vittima, un medico e un’infermiera che gli inquirenti ritengono non abbiano detto la verità su quanto accaduto prima del dramma, testimonianze contrastanti e persino il registro dell’infermeria del carcere sparito, ma per gli inquirenti si tratta di tanti indizi che non fanno una prova. Mimmo D’Innocenzo, finito nel tunnel della cocaina, mise a segno una rapina in un supermercato. Venne condannato e finì in isolamento nel carcere di Cassino, dove quattro anni fa morì in circostanze mai chiarite. I consulenti medico-legali del sostituto procuratore Bulgarini Nomi hanno trovato il foro di una siringa sulla salma del giovane, stabilendo che al 32enne era stata fatta un’iniezione non più di 24 ore prima del dramma. La polizia penitenziaria ha poi raccolto le confidenze di un detenuto, il quale ha riferito che un altro detenuto avrebbe ceduto a D’Innocenzo il Subotex, un farmaco equivalente al metadone, in cambio di sigarette, specificando che, dopo l’assunzione di quel medicinale, il giovane era stato male. Il presunto responsabile della cessione del Subotex è stato indagato con le accuse di spaccio e morte come conseguenza di altro delitto, avendo anche stabilito la consulenza medico-legale che il detenuto era deceduto per “insufficienza cardiorespiratoria conseguente ad intossicazione acuta da sostanza esogena di tipo stupefacente”. Sono stati quindi indagati anche un medico della casa circondariale, successivamente trovato dalla Polizia di Roma in possesso di cocaina, e un’infermiera, con l’ipotesi di omicidio colposo. “L’attività di indagine - ha però sostenuto il sostituto Bulgarini Nomi chiedendo l’archiviazione - non consente allo stato di esercitare l’azione penale nei confronti degli indagati. Pur essendo emersi elementi indiziari nei loro confronti, gli stessi elementi non sono sufficienti ai fini di un proficuo esercizio dell’azione penale”. La mamma della vittima, tramite l’avvocato Giancarlo Vitelli, si è opposta alla richiesta di archiviazione e ora dovrà decidere il gip. Mamma Alessandra ha però chiesto giustizia allo stesso guardasigilli Cartabia. “Ho trovato davanti a me una bravissima persona a livello umano - assicura Alessandra Pasquire dopo l’incontro con la ministra - e sono rimasta molto sorpresa come donna. Mi ha detto che personalmente non può intervenire sul procedimento penale, non può entrare in merito a quello che i magistrati decidono, ma ha anche aggiunto che avrebbe fatto indagini sul carcere di Cassino, dove succedono troppe cose che non vanno bene. Quella di mio figlio non è stata l’unica morte in quel carcere”. La guardasigilli ha inoltre invitato la madre del 32enne a rivolgersi al garante per i diritti dei detenuti. “Mi ha assicurato che lo avrebbe contattato anche lei”, aggiunge la donna. Mamma Alessandra è decisa a non arretrare di un millimetro. “Possono anche archiviare ma io non mi fermo. Ho promesso a mio figlio che verrà fatta giustizia e questo deve essere”. Siena. Torture nel carcere di Ranza, depositate le motivazioni del giudice radiosienatv.it, 11 maggio 2021 “Condotte reiterate, violenze e minacce gravi e sofferenze acute”. Pestaggio di un detenuto, depositate oggi le attese motivazioni con cui il giudice Jacopo Rocchi del tribunale di Siena, lo scorso 17 febbraio, ha condannato 10 agenti della Polizia Penitenziaria in servizio al carcere di Ranza. Sono state depositate il 7 maggio le attese motivazioni con cui il giudice Jacopo Rocchi del tribunale di Siena, lo scorso 17 febbraio, ha condannato 10 agenti della Polizia Penitenziaria in servizio al carcere di Ranza, col rito abbreviato, per il reato di tortura, in relazione al violento pestaggio di un detenuto tunisino, avvenuto l’11 ottobre 2018 durante un trasferimento di cella. Gli operatori di Polizia furono condannati a pene a salire da 2 anni e 3 mesi fino a 2 anni e 6 mesi e 2 anni e 8 mesi. Gli imputati, oltre che di tortura in concorso, erano accusati sempre in concorso di lesioni aggravate. La tortura fu riconosciuta come reato autonomo e non come aggravante, una delle prime volte in un processo in Italia: come si legge nel dispositivo del giudice di cui Siena Tv ha avuto visione, questi nel ritenere la sussistenza del reato, spiega che “per la decisione risulti la commissione da parte degli imputati, del delitto di tortura, mediante condotte reiterate, con violenze e minacce gravi che hanno cagionato acute sofferenze fisiche”. Il giudice aggiunge che il reato di tortura è oggettivo in quanto presenta ulteriori elementi, “quali il verificabile trauma psichico, la crudeltà degli imputati, e il trattamento inumano e degradante”. Il 18 maggio altri 5 agenti andranno di fronte al giudice del dibattimento Ottavio Mosti con le medesime contestazioni. Tolmezzo (Ud). Sopralluogo del senatore Dal Mas per i problemi non risolti del carcere telefriuli.it, 11 maggio 2021 Sovraffollamento, organico insufficiente, finanziamenti inadeguati per la manutenzione e per i compensi ai detenuti lavoratori. Questi i principali problemi della casa circondariale di Tolmezzo emersi durante il sopralluogo effettuato stamani da Franco Dal Mas, senatore di Forza Italia e componente della commissione Giustizia a Palazzo Madama. Visita che rappresenta la seconda tappa di un giro delle carceri del Friuli Venezia Giulia iniziato il 2 aprile scorso a Pordenone. A illustrare nel dettaglio le criticità la dottoressa Irene Iannucci, direttore del carcere. “Quello di Tolmezzo, uno dei 22 in Italia con una sezione per il 41 bis, è il carcere più grande della regione e come gli altri, in Fvg come in Italia, registra un numero di detenuti ben superiore alla capienza: 199 i ristretti contro un numero massimo di 149. Un problema diffuso e solo parzialmente alleviato dalla concessione dei domiciliari conseguente alla pandemia, peraltro non verificatasi a Tolmezzo. Passata l’emergenza sanitaria la situazione andrà affrontata, qui come altrove”, ha commentato Dal Mas ricordando il focolaio di Covid scoppiato quest’inverno proprio nel carcere di Tolmezzo. La situazione in Fvg vede oggi una capienza massima di 467 detenuti a fronte di una popolazione carceraria di 639. E a fronte di un sovraffollamento di oltre il 30% si registra una carenza di organico: dei 32 ispettori e 49 sovrintendenti previsti a Tolmezzo, sono rispettivamente 8 e 2 quelli operativi, a cui si aggiunge la mancanza di due dirigenti o funzionari su 3 e persino del comandante. “Facile immaginare come, nonostante la buona volontà e la disponibilità del personale in servizio a Tolmezzo, sia complicato garantire un’organizzazione del lavoro efficiente e far sì che la detenzione svolga una funzione realmente rieducativa per i detenuti”, ha proseguito Dal Mas. A rendere più complessa la situazione la scarsità di fondi per la manutenzione e la ristrutturazione - ad esempio le due caserme dell’istituto e la serra presso cui lavorano gli internati, divelta dal vento e non ancora rimessa in sesto. Così come mancano fondi per le mercedi, i compensi assegnati agli internati che prestano attività lavorative all’interno del carcere. “Non servono fiumi di denaro per migliorare il quadro. Non siamo certo ai tempi dell’invettiva di Calamandrei, ma è pur vero che se crediamo nella funzione rieducativa della pena è necessario intervenire, a Tolmezzo come altrove. Con strutture più moderne dove poter lavorare in sicurezza e più rispettose dei diritti”, ha concluso Dal Mas. Pavia. Detenuti ancora più isolati: solo telefono e video chiamate di Anna Rancati La Provincia Pavese, 11 maggio 2021 La ex Garante dei detenuti di Pavia, Vigevano e Voghera spiega le difficoltà della vita dentro Torre del Gallo durante la pandemia. Durante il periodo di chiusure, cominciato l’anno scorso a marzo e proseguito fino ad oggi a fasi alterne seguendo le fasi dell’epidemia di Covid-19 molti si sono chiesti come i detenuti vivessero la situazione all’interno delle carceri. A Torre del Gallo, sulla Vigentina a Pavia, a inizio pandemia erano ospitati 730 detenuti a fronte di 518 posti, ora sono 650 grazie al distanziamento. In tutta Italia a marzo 2020 scoppiarono rivolte nelle carceri: ora sono 99 i detenuti indagati per quella di Pavia, scoppiata per protestare contro il blocco dei colloqui e finita con accuse di devastazione, saccheggio e resistenza a pubblico ufficiale. Vanna Jahier, ex garante dei detenuti di Pavia, Voghera e Vigevano ha lasciato l’incarico, dopo cinque anni, a gennaio 2021 ed è stata sostituita da Laura Cesaris, professore a contratto del corso di Diritto dell’esecuzione penale dell’università di Pavia. Jahier ha provato a spiegare le conseguenze della pandemia sulla vita nel carcere di Pavia. A Torre del Gallo come sono state affrontate le rivolte? “C’è stata una rivolta a marzo 2020 perché per i detenuti i diritti che la chiusura fece venire meno erano molto importanti. Fu sedata a fatica, con dure repressioni. Ci sono stati due focolai di Coronavirus in due diversi padiglioni, quindi tutte le attività sono state sospese e i detenuti di fatto si sentivano abbandonati a se stessi. La dirigente (Stefania D’agostino, ndr), giungendo a un compromesso, concesse sette videochiamate al mese e quattordici chiamate normali ai detenuti, per mantenere un minimo di rapporto con l’esterno nonostante le restrizioni”. Come hanno vissuto la pandemia i detenuti? “Vivono in condizioni durissime, soli, chiusi in una stanza, gli unici contatti si limitano a chiamate e pacchi spediti dalle famiglie. Sono rassegnati, e chi non è in grado di reggere cade nell’autolesionismo. Fortunatamente al momento non si sono verificati tentati suicidi”. Come sono stati affrontati i contagi Covid in carcere? “Tra i detenuti, la persona infetta viene portata in infermeria e isolata nell’apposito reparto Covid, nel caso in cui presenti sintomi gravi viene trasferito al carcere di Bollate. Per quanto riguarda il personale si è sottoposti al tampone quando si entra, in più ora è in corso la campagna vaccinale”. Che funzione ha la figura del “garante” in un carcere? “Il garante è colui che tutela i diritti delle persone private della libertà personale, di chi non ha voce propria. C’è un garante nazionale, uno per regione e comunali, in alcuni casi ci sono anche quelli provinciali. Si occupa di tutelare vari aspetti nella vita dei carcerati: la sicurezza, il corretto svolgimento delle varie attività, il comportamento della polizia penitenziaria e la parte sanitaria, che è gestita insieme al ministero della salute. La garante diventa quindi una figura di riferimento per i detenuti”. Palermo. AVO: il volontariato per l’alternativa al carcere ed il reinserimento nella società di Andrea Monteleone* giornalelora.it, 11 maggio 2021 Quando a fine anno 2019 gli uffici dell’Uepe del Tribunale di Palermo ci hanno contattato per proporci la sottoscrizione di una convenzione per aderire ai servizi gestiti dall’Uepe di Palermo, in un primo momento eravamo scettici sulla reale utilità di tale convenzione. Pensavamo che AVO Palermo non fosse ben strutturata per poter gestire al meglio questo delicatissimo impegno a favore della collettività. Nell’Assemblea dei volontari AVO che è stata indetta per decidere l’adesione alla convenzione proposta dal Tribunale di Palermo, diversi volontari erano scettici su questa nuova iniziativa, ma alla fine è prevalsa la volontà di confrontarsi con tutti gli aspetti della nostra variegata società ed oggi possiamo dichiarare che è stata la scelta migliore. La Dr.ssa Eloisa Princiotta, dell’Uepe, ci ha informati sul sistema alternativo alla pena e la messa alla prova e su come AVO Palermo poteva interagire con questa opportunità del sistema penitenziario italiano favorendo il percorso di recupero e di reinserimento della persona giudicata dal Tribunale, aiutandola a superare le difficoltà d’adattamento e reinserimento. L’uso della misura alternativa alla detenzione è un traguardo di civiltà del nostro sistema giuridico e detentivo, quindi poter dare esecuzione a questo semplice concetto diventa sicuramente strategico per tutti quegli operatori impegnati all’interno dei Tribunali, e ciò a Palermo si realizza anche grazie alla disponibilità di AVO. Dall’inizio del 2020, dopo aver sottoscritto la convenzione con il Tribunale di Palermo, AVO Palermo, pur nel pieno della pandemia, ha già accolto diverse persone ed i volontari AVO Palermo grazie a queste persone hanno avuto la possibilità di scoprire una nuova umanità che merita la nostra attenzione e disponibilità. Questo istituto, previsto dalle vigenti normative, è stato concepito per aiutare le persone interessate, e per il loro miglior reinserimento sociale. Quindi dare loro, attraverso l’AVO Palermo, l’opportunità di conoscere il mondo del volontariato, apprezzarne la sua forza sociale dirompente, scoprire che esiste all’interno della nostra frenetica società un mondo fatto da persone che antepongono l’aiuto disinteressato del prossimo rispetto alla rincorsa del successo e dell’affermazione economica, per loro è stata una piacevole scoperta. I volontari AVO hanno apprezzato il loro atteggiamento ed approccio al mondo del volontariato notando che dopo il primo impatto, spesso fatto di diffidenza verso un mondo per loro sconosciuto, imparano ad apprezzarne le dinamiche e gli obiettivi. Rendersi conto che esiste una componente importante della nostra società che ha il coraggio di “spendersi” gratuitamente e senza alcun secondo fine nell’aiuto ed assistenza di chi si trova in difficoltà per queste persone ha un impatto positivo che apre loro la certezza che fare del bene al prossimo non è una “debolezza” ma la vera forza trainante della nostra società. Come AVO Palermo ci auguriamo che incentivare queste soluzioni rispetto alla pena “tradizionale” serve per uscire fuori da schemi punitivi che da soli non contemplano l’inserimento dei soggetti interessati. *Presidente AVO Palermo Il ddl Zan e l’alfabeto del gender: perché bisogna conoscerlo di Vittorio Lingiardi e Chiara Saraceno La Repubblica, 11 maggio 2021 Il disegno di legge fornisce strumenti minimi per identificare condizioni umane che possono essere oggetto di aggressioni, disprezzo e odio immotivati e inaccettabili. Ma è dalla loro comprensione che derivano le libertà più profonde. Il dibattito attorno al ddl Zan ha introdotto nel discorso pubblico concetti non d’uso comune nel linguaggio quotidiano; non perché siano frutto di forzature ideologiche, ma perché si riferiscono a realtà complesse e multi-determinate. Anche Michele Serra, nella sua Amaca di venerdì, ha lamentato una “eccessiva specializzazione” nel distinguere tra manifestazioni di odio e violenza rivolte contro il “genere”, l’“identità di genere”, l’“orientamento sessuale”. Proviamo allora a spiegare tali concetti nel modo più semplice possibile, ricordando che il ddl Zan né li usa per fissarli giuridicamente né ha la pretesa di entrare in dibattiti filosofici. Fornisce semplicemente strumenti minimi per identificare condizioni umane che l’esperienza insegna possono essere oggetto di aggressioni, disprezzo e odio immotivati e inaccettabili. In questa prospettiva, per sesso si intende l’insieme di elementi anatomici e biologici che caratterizzano alla nascita una femmina o un maschio (ma che in qualche caso sono invece incerti, perciò si parla di persona intersessuale, nata con caratteri sessuali non univocamente definibili di maschio o femmina: dunque anche il sesso di nascita può non essere “semplice”). Per identità di genere si intende, invece, il senso soggettivo di appartenenza alle categorie di femminile, maschile o altro (dove “altro” rimanda a una dimensione non obbligatoriamente dicotomica maschile/femminile, per esempio ciò che oggi viene definito genere non-binario). L’identità di genere è spesso allineata al proprio sesso biologico (cisgender), ma può anche non corrispondervi (transgender). Le condizioni cosiddette di “incongruenza” o “disforia” di genere (i termini scientifici oggi in uso), non sono capricci di chi, per gioco o bizzarria, si sente (non “sceglie” di essere) in disaccordo con il sesso assegnato alla nascita. Si tratta di vite e percorsi del corpo e della mente, non di abiti che si mettono e tolgono. Le dimensioni transgender, connotate da una spinta biopsicologica, implicano esperienze psicofisiche impegnative, intense, anche dolorose, per esempio a causa dell’incomprensione e del rifiuto delle famiglie. In ambito scientifico e culturale la distinzione tra sesso e genere è acquisita da anni. È noto che il termine genere investe il versante sociologico e culturale, cioè l’insieme di significati che il contesto attribuisce alle categorie di maschile e femminile. Dal sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “genere si riferisce alle caratteristiche di donne, uomini, ragazze e ragazzi che sono socialmente costruite. In quanto costruzione sociale, il genere varia da società a società e cambia nel tempo”. Altra cosa è l’orientamento sessuale, che come tutti sappiamo si riferisce alla direzione del desiderio e risponde alla domanda “chi mi piace” (mentre l’identità di genere risponde alla domanda “chi sono”, “a qualche genere mi sento appartenente”). Nonostante queste distinzioni siano assimilate da tempo in campo scientifico, pur nella varietà delle interpretazioni e sfumature, ancora si commette l’errore di sovrapporre e confondere i concetti di sesso, genere, identità di genere e orientamento sessuale. Anche per questo motivo, tutte le associazioni scientifiche e professionali (in tutti i campi: psicologia, medicina, sociologia) dispongono di glossari e linee guida per spiegare differenze e interazioni tra questi termini. Le discriminazioni e le macro- e micro-aggressioni che le persone riunite (per comodità semplificatoria) sotto l’acronimo Lgbtqi+ subiscono nella vita di ogni giorno, non sempre derivano dall’ostilità. A volte sono prodotte dalla poca conoscenza o persino dalla preoccupazione di dover ragionare su cose troppo complicate, cioè non binarie. Non dobbiamo avere paura della complessità, è dalla sua comprensione che derivano le libertà più profonde. Migranti. In Libia 70 mila pronti a partire. Lamorgese: ora un sistema Ue di solidarietà di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 11 maggio 2021 Disponibili a intervenire Francia, Spagna, Portogallo e Romania. Il vertice con Draghi. Cabina di regia con Interni, Esteri e Difesa. Ipotesi di una rete di emergenza. I numeri fanno paura. Nei rapporti che la nostra intelligence fornisce in modo costante al presidente del Consiglio lo scenario non è per niente rassicurante: attualmente in Libia ci sarebbero almeno 900 mila migranti, provenienti da altri Paesi africani. Di questi fra 50 mila e 70 mila sarebbero già sulla fascia costiera, pronti per finire nella rete dei trafficanti. Se i numeri fanno paura, anche in vista dell’estate, tolgono il sonno al nostro governo anche ulteriori dettagli forniti dall’Aise: scafisti e trafficanti libici dopo quasi due anni di fermo per la guerra civile, stanno riorganizzandosi, in modo più strutturato del passato, con molti agganci e zone opache all’interno del nuovo governo libico. Il profilo di alcuni personaggi noti ai nostri Servizi, conduce sempre allo stesso schema: nuovi e vecchi trafficanti sono disposti a trattare con chiunque, servizi di intelligence, diplomatici, militari, ma solo se debitamente pagati. I titolari dei dossier - È anche in questo quadro di allarme che per oggi, o al massimo per domani, lo stesso Mario Draghi ha convocato una sorta di cabina di regia con i ministri che hanno la competenza sul dossier: Luciana Lamorgese, che ieri ha chiamato la commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson, Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, Luigi Di Maio, ministro degli Esteri. Ci sono problemi logistici immediati da risolvere, per i quali la titolare del Viminale ha contatti quasi quotidiani con il capo del governo: a Lampedusa sono disponibili almeno 4 navi che servono per garantire la quarantena delle migliaia di migranti che stanno sbarcando sulle nostre coste, con cadenza giornaliera, ma esiste un problema di gare e appalti per l’estate, quando le compagnie di navigazione potrebbero non rinnovare i contratti stipulati con lo Stato. Rete di emergenza - Si sta anche pensando ad una rete di emergenza da mettere i piedi in pochissimo tempo: lo schema è che le navi a disposizione smistano i migranti, ma prima della distribuzione nei centri di accoglienza delle diverse regioni va fatta la quarantena in posti adibiti ad hoc per le esigenze sanitarie e di prevenzione. Si sta pensando a caserme, hotel Covid, altre strutture. Dipenderà anche dall’andamento dei flussi. Sul piano diplomatico europeo non ci sono grandi novità: da quasi un anno non si è spesa una parola, né in sede di Commissione, né all’interno dei Consigli europei, sul tema. Il dossier migranti per tanti anni è stato sotto i riflettori, a causa del Covid è uscito completamente dai radar. Il summit di oggi - A settembre dell’anno scorso ha fatto brevemente capolino per l’ultima volta la proposta della Commissione per rivedere regime giuridico dei migranti e superamento degli accordi di Dublino, con nuove norme per i richiedenti asilo: ad oggi, e chissà per quanto altri tempo, è tutto congelato. Il ministro dell’Interno, che il 20 maggio sarà a Tunisi, sta pressando sia la Commissione che i singoli Stati europei per mettere in piedi il prima possibile “un meccanismo europeo di solidarietà su base volontaria”. Cioè con gli Stati che ci stanno. Almeno per tutti i migranti che vengono salvati in mare. Al momento sarebbero disponibili, ma chissà con quali quote, la Francia, il Portogallo, la Spagna e la Romania. Sulla Germania nessuno è disposto a scommettere (a settembre si vota). Sarebbe una riedizione dell’accordo di Malta del 2019. Oggi i ministri dell’Interno della Ue, alcuni in presenza, altri in collegamento come Lamorgese, parteciperanno ad un summit dedicato proprio all’argomento: saranno presenti o collegati con Lisbona, che ospita l’evento, anche una decina di Paesi africani, e le principali organizzazioni internazionali. La presidenza di turno della Ue, portoghese, ce la sta mettendo tutta, ma Matteo Salvini avverte i colleghi di governo: “Non sarà la Ue a salvarci”. Lamorgese alla Ue: è tempo di ricollocare i migranti in Europa di Aldo Varano Il Dubbio, 11 maggio 2021 Cinque morti nel naufragio di un barcone al largo delle coste libiche che trasportava 700 tra uomini, donne e bambini, mentre a Lampedusa proseguono gli sbarchi di migranti: sull’isola sono arrivate nelle ultime ore oltre 600 persone. Sono cinque le persone morte nel naufragio di un barcone al largo delle coste libiche che trasportava 700 tra uomini, donne e bambini, mentre a Lampedusa proseguono gli sbarchi di migranti: sull’isola sono arrivate nelle ultime ore oltre 600 persone. All’indomani dell’eccezionale ondata di arrivi che ha portato sulla più grande delle Pelagie quasi 2mila migranti, con gli sbarchi che sono proseguiti anche la scorsa notte, l’attenzione resta massima. La politica - dal Partito democratico al centrodestra - reagisce e chiede un intervento urgente dell’Unione europea e del governo. “Credo che la missione militare europea di fronte alle acque libiche per lo stop al commercio delle armi debba essere trasformata”, afferma il segretario dem Enrico Letta. “Deve diventare - spiega intervenendo a Radio 1 - la missione che consente di gestire il salvataggio in mare. L’Europa deve fare di tutto per far sì che queste regole vengano rispettate, come quelle di ricollocamento e gestione. Sono convinto che Draghi sia la persona giusta per fare questo perchè in Europa è ascoltato”. Anche Italia viva su appella all’Ue: “È il momento che anche su questo tema delicato dimostri il suo nuovo corso. Auspico che si lavori, per la prima volta concretamente e in modo produttivo, sulle questioni del ricollocamento e della gestione dei flussi. Ognuno deve fare la sua parte”, dice Giuseppina Occhionero, capogruppo di in Commissione Difesa alla Camera. Il leader della Lega si rivolge invece a Palazzo Chigi “A Draghi porteremo i modelli degli altri Paesi europei. Siccome giustamente si parla di un governo europeista e di quello che ci chiede l’Europa, chiederemo che l’Italia si comporti come si comportano la Spagna, la Grecia e la Francia. In nessun altro Paese ci sono i numeri, le dimensioni e i problemi che abbiamo in Italia”. I numeri - sottolinea Matteo Salvini - “dicono che sono arrivati ieri, in una domenica di maggio, il doppio dei clandestini che sbarcarono in tutto il mese di maggio quando ero ministro. Con il più che c’è il Covid. Sicuramente così non si può andare avanti. Volere è potere”. E a chi gli chiede un giudizio sul ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, risponde: “Se si aspetta la solidarietà europea penso che andrà a finire come sui vaccini: il nulla. Gli altri Paesi non stanno aspettando l’Europa, ma stanno difendendo i loro territori per conto loro con pieno diritto. Il presidente Draghi dice che noi meritiamo rispetto e anche sul fronte dell’immigrazione meritiamo rispetto. Non possiamo invitare i turisti da mezzo mondo su un’isola che ogni giorno vede migliaia di sbarchi. Non è serio”. Giorgia Meloni ribadisce sui social il pensiero di Fratelli d’Italia: “Il blocco navale che chiede FdI è una missione militare europea, fatta in accordo con le autorità del Nord Africa, per impedire ai barconi di partire in direzione dell’Italia. È l’unica misura seria per contrastare il business dell’immigrazione clandestina e fermare una volta per tutte le morti in mare”. Per Forza Italia si deve invece “riattivare subito un dialogo costante con i Paesi d’origine e con quelli del Nord Africa per limitare il più possibile le partenze”, afferma il capogruppo azzurro alla Camera, Roberto Occhiuto. “Dobbiamo inoltre pretendere dall’Unione europea una compartecipazione alla gestione degli immigrati. Ogni Paese Ue - conclude - dovrà fare la sua parte e farsi carico di una quota di migranti. L’Italia non venga, come al solito, lasciata sola. Draghi e Lamorgese facciano sentire la nostra voce in Europa”. Intanto il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ha avuto un colloquio telefonico con la commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson. Il colloquio si è incentrato sulla situazione dei flussi migratori nel Mediterraneo, in particolare sull’intensificazione dei viaggi verso il nostro Paese negli ultimi giorni. Il commissario, secondo quanto riferiscono fonti del Viminale, ha riconosciuto che l’Italia deve avere “un riconoscimento di solidarietà per quello che sta facendo”. Nella telefonata si è parlato anche del viaggio in Tunisia che il ministro Lamorgese e Johansson faranno la settimana prossima. In attesa che venga definito il nuovo Patto europeo per asilo e immigrazioni, l’Italia chiede che venga attivato per l’estate “un meccanismo temporaneo di solidarietà tra gli Stati membri dell’Ue, intenzionati ad aderire, e finalizzato al ricollocamento dei migranti salvati in operazioni di ricerca e soccorso in mare”. “Non si può continuare a parlare di “emergenza migranti”, il fenomeno è strutturale, va avanti da anni e non si può certo risolvere lavorando solo sull’accoglienza. Occorre agire sulle partenze, lavorare sull’altra sponda del Mediterraneo”, spiega il sindaco di Lampedusa, Totò Martello, Il maltempo nei giorni scorsi ha concesso una tregua alla piccola isola ormai da anni abituata agli approdi dei migranti sulle proprie coste. Ma ieri, complici le condizioni meteo favorevoli, le motovedette di Capitaneria di porto e Guardia di finanza sono state impegnate senza soluzione di continuità in una ventina di operazioni di soccorso. “Certo non ci si può affidare al meteo - avverte il primo cittadino - perché se è bastato un giorno di bel tempo per portare sull’isola 2mila migranti, in una settimana rischiamo di vederne arrivare 14mila”. “Il fenomeno non si risolve con gli slogan e gli annunci - sottolinea Martello. Salvini e Meloni facciano una proposta concreta per affrontare il problema, invece di indicare strade non percorribili come quella del blocco nave”. E al “capitano” che su Twitter ha scritto “sbarcano 1.200 clandestini in un giorno, un problema gravissimo per la piccola e splendida Lampedusa, ma per il sindaco è #colpadisalvini. Non sta bene”, il primo cittadino replica a distanza. “Non ho mai detto che è colpa sua, Salvini punta a confondere le acque. Ho solo detto che bisogna smetterla con la propaganda buona sola a fare campagna elettorale e ad aumentare di qualche punto le preferenze nei sondaggi. Il tema è serio e non possono esserci bandierine di partito”, conclude il sindaco. Sui migranti la replica tragica della speculazione sovranista di Antonio Gibelli Il Manifesto, 11 maggio 2021 È la tetra litania salviniana che domina la scena mediatica, che corre sui telegiornali, occupa i talk show e purtroppo trova spazio al governo. Siamo alla nuova replica dell’allarme migranti. Replica tragica, perché nelle more di un problema irrisolto, anzi mai affrontato, uomini e donne continuano a cercare scampo e invece trovano morte e violenza sulla loro strada, in mare e in terra. Replica tragica, perché i migranti vengono ignorati quando annegano, diventano pericolosi quando si salvano e approdano. Ed ecco levarsi le voci della speculazione sovranista: allarme invasione, lo sbarco dei mille, prima gli italiani, chiudiamo i porti, difendiamo i confini, cabina di regia. È la tetra litania salviniana che domina la scena mediatica, che corre sui telegiornali, che occupa i talk show e purtroppo trova spazio al governo. La tetra litania di chi ha smantellato le pur deficitarie strutture di accoglienza esistenti, ha peggiorato con questo i problemi dell’ordine pubblico, ha scatenato fiumi di odio, ha simulato una soluzione del problema ricattando l’Unione Europea col corpo dei migranti sequestrati: se non ve li prendete, per me rimangono in mare. Possono vomitare, possono partorire, possono morire. E se sapranno di dover morire, non fuggiranno più da dove già muoiono. Se si desse ogni tanto la parola agli storici, e magari ai sociologi e agli antropologi si capirebbe che il discorso sui migranti, sul problema e sul modo di farvi fronte, non ha niente a che fare con questa sceneggiata allestita al semplice scopo di alimentare le paure e di guadagnare consensi. Perché l’Italia, come tutti sappiamo, ha conosciuto le sue migrazioni, interne ed esterne, fatte di partenze e di arrivi, da tempo immemorabile, ben prima che battesse alle sue porte il popolo disperato dei gommoni. E in questa storia di migrazioni, benché ogni fenomeno sia diverso nel tempo e nello spazio, ci sono analogie che possono aiutare a dissipare le nebbie. Per fare un esempio. Una stravagante teoria sostiene che la colpa dei flussi via mare dipende da due fattori: ossia non dai migranti, ma da coloro che li trasportano e da coloro che li salvano quando stanno per annegare. Ossia dai trafficanti di uomini e dalle organizzazioni umanitarie. È vero semmai l’inverso: i trafficanti di uomini esistono perché esistono milioni di uomini e donne che cercano salvezza altrove e perché nessuna istituzione pubblica italiana nè europea si è posta il problema di organizzare espatri legali per coloro che ne hanno bisogno, nemmeno quando fuggono da paesi che sono stati riconosciuti come non sicuri come la Libia. Tutto quel che i governi sono oggi capaci di fare è pagare altri paesi, compresi quelli insicuri (cioè pericolosi) perché li trattengano, con le buone o con le cattive. La Libia è uno di questi e lo fa chiudendoli nei lager, andando a riprenderli quando si imbarcano sui gommoni grazie alle motovedette che le ha regalato l’Italia, bastonandoli quando reagiscono e lasciandoli annegare quando il mare è troppo agitato. Quanto alle organizzazioni umanitarie, si è fatto in modo di dissuaderle dal girare in mare per i salvataggi: sono state criminalizzate, bloccate, denunciate e infatti sono dovute sparire, ma i migranti come si vede in questi giorni hanno continuato a muoversi e a morire. In forme diverse qualcosa di simile accadde nei decenni della grande ondata migratoria transoceanica italiana tra fine Ottocento e primo Novecento. Allora i trafficanti di uomini erano di due tipi. Erano i cosiddetti agenti di emigrazione, ossia persone che agivano sul territorio italiano per conto di aziende americane promettendo mari e monti a coloro che avevano bisogno, magari pagando loro il viaggio cioè comprando con anticipo la manodopera a basso prezzo, per esempio quella dei contadini: braccianti o piccoli proprietari e affittuari corrosi dal “tarlo dei debiti” come lo chiamò un grande storico delle migrazioni, Ercole Sori, ignorato dagli attuali costruttori di musei. Ed erano gli armatori (a cominciare dai genovesi) che, alzandosi l’ondata, capirono presto che l’emigrazione era un grande affare, perché consentiva di viaggiare tra le due sponde dell’Atlantico con le navi sempre cariche, all’andata di uomini, al ritorno di merci. Qualche volta si trattava di navi vecchie e logore sulle quali il viaggio era un inferno e qualche volta finirono in fondo al mare. Ma, allora come oggi, i motori delle migrazioni erano una conseguenza, non una causa. E anche allora il dibattito tra emigrazionisti e anti-emigrazionisti era mosso da fini diversi da quelli dei bisogni dei migranti, anche se la classe dirigente italiana di fine secolo era mediamente meglio di quella che sbraita oggi sui social. Anche allora i governi si mossero in ritardo e principalmente in termini di ordine pubblico: stabilirono misure restrittive per fermare l’emigrazione in uscita, soprattutto su pressione degli agrari che si vedevano sfuggire di mano la forza lavoro. Si dovette aspettare sino al 1901, auspice il liberale Giolitti, per vedere la prima legge di tutela dei migranti. Insomma, la storia c’è. Anche quella può servire a smontare le narrazioni inventate. La storia non può insegnarcela Salvini. Jihad e “questione dei giovani”: i nuovi tormenti dell’Africa di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 11 maggio 2021 La stabilità tradizionale in varie aree è finita e manca una politica sociale degli Stati, così le popolazioni locali non beneficiano delle nuove presenze economiche. Ormai, in Africa, quasi più che in Medio Oriente, il jihad è protagonista della vita di tante regioni. È un problema che non si riduce alla radicalizzazione dell’islam: c’è qualcosa di più profondo ed esteso, non solo religioso. Dal 2017-18, in Mozambico, dove l’islam è minoritario (circa 20% della popolazione), la guerriglia islamista è attiva nel Nord, nella provincia di Cabo Delgado, una delle più povere del Paese. C’è stato un ruolo dei predicatori estremisti venuti da fuori, ma anche dei giovani musulmani mozambicani, inviati dal governo a studiare in Arabia Saudita per scalzare l’islam tradizionale. Ma solo questo non spiega uno shock militare e sociale, che ha prodotto 700.000 rifugiati dalla regione. Il povero tessuto sociale di Cabo Delgado è stato sconvolto dall’impatto con le grandi multinazionali a seguito della scoperta del più grande giacimento di gas naturale del mondo, lo sfruttamento dei rubini (di cui il Mozambico è il primo produttore mondiale), la domanda cinese di legname. La stabilità sociale tradizionale è finita. Alcuni villaggi sono stati spostati. Alcune terre sono state espropriate. Non c’è stata una politica sociale dello Stato, mentre le popolazioni locali non beneficiavano delle nuove presenze economiche. Il movimento islamista esprime anche la reazione agli sconvolgimenti indotti dalla politica, dalla presenza delle compagnie petrolifere, dal commercio di legname e rubini. Un ambiente è crollato: in una regione a maggioranza giovane, la rivolta trova nel jihad una lettura del mondo che identifica i nemici e che dà protagonismo ai combattenti. L’islamismo, molto diverso dal marxismo, diventa però una grammatica della rivolta con una funzione ideologica simile e motivante. Alcuni testimoni locali hanno notato tra i combattenti qualcuno di origine cristiana. Il fatto - se confermato - rivela che è anche un fenomeno generazionale: una “rivolta dei giovani”. Queste rivolte poi divengono processi settari e militari, da cui non è facile uscire per chi combatte. Sarebbe inoltre da spiegare la poca reazione del governo mozambicano, che ormai ha perso il controllo di parte della provincia, mentre la capitale provinciale, Pemba, si sente minacciata da infiltrazioni islamiste. Si ripete lo scenario d’incapacità di vari Stati africani nel contrastare i fenomeni radicali e coglierne le radici. Il caso mozambicano (con rischi per il vicino Malawi) è l’ultimo di varie esplosioni jihadiste in Africa: da Boko Haram in Nigeria, in Camerun e Niger, quasi una setta militarizzata che - come osserva Mario Giro - irretisce i giovani e distrugge la tradizione, fino al pullulare di gruppi armati radicali nel Sahel, tanto che si parla di Afghanistan saheliano. Non solo la Francia, ma pure alcuni altri Paesi europei, come l’Italia, hanno finalmente realizzato che la sicurezza del vecchio continente passa nel cuore del grande deserto, terra d’instabilità e di passaggio di migranti. A quest’area si aggiunge l’irrisolta Somalia, con la presenza degli shabaab, responsabili di azioni in Kenya. L’Africa orientale, dalla Somalia al Nord del Mozambico, rappresenta uno spazio d’espansione islamista. Anche in altri Stati africani nascono, inaspettati, gruppi islamisti: una realtà in crescita. C’è diversità di storie locali, mentre l’affiliazione dei gruppi alle sigle terroristiche internazionale è variabile: al Qaeda, Stato islamico e altri. La realtà è che, in alcune regioni africane, per un mondo di giovani senza lavoro e alla ricerca di dignità, il jihad è un’alternativa, seppur ancora minoritaria, accanto all’emigrazione. Non è solo una questione militare ma un problema generazionale, che gli Stati non affrontano potenziando l’istruzione, le opportunità di lavoro, una politica del welfare. La privatizzazione del sistema educativo in Africa è un’aggravante che crea rancore tra i giovani. La crisi dello Stato africano favorisce la ricerca di nuove chiavi di lettura del mondo globale: l’islam radicale ne offre una semplificata e attrattiva. Una domanda decisiva è posta dal politologo Parag Khanna: “Che fare di quel 60 per cento della popolazione del continente africano che ha meno di 24 anni?”. È la grande questione per il continente, mentre l’Europa sa di essere vicina e coinvolta. La chiusura ai flussi migratori non scalfisce il problema e forse, nel tempo, una marea umana travolgerà gli ostacoli. C’è un’enorme questione africana nel futuro e nel cuore della politica internazionale. Può essere affrontata solo con una sinergia tra Stati non africani e africani. Questi ultimi si devono ristrutturare, superando l’indifferenza alle politiche sociali e del lavoro che caratterizza molti. Ma anche le religioni, a partire dall’Islam africano fino alle Chiese, non possono sfuggire al confronto con quella che è in larga parte una “questione dei giovani”. Solo una coalizione di nuove energie potrà evitare esiti drammatici in una situazione già degradata, che ha sullo sfondo la crisi ecologica del continente. Gerusalemme, ora è guerra: da Gaza razzi sulla città, raid di Israele sulla Striscia di Davide Frattini Corriere della Sera, 11 maggio 2021 Sale la rabbia nei Territori: missili di Hamas verso Gerusalemme. A Sheikh Jarrah e Silwan una ventina di famiglie palestinesi minacciate di sfratto: vivono lì da sessant’anni. Secondo le autorità di Gaza, almeno 24 palestinesi sono stati uccisi. Ventinove giorni dall’inizio di Ramadan. Un paio d’ore tra un ultimatum e l’altro, il primo per le 18 ore locali, l’altro con scadenza alle 21. Pochi minuti per la risposta dell’aviazione che ha bombardato Gaza dopo i lanci di 7 razzi verso Gerusalemme e decine sulle città nel Sud del Paese. Gli scontri tra la polizia israeliana e i palestinesi si sono trasformati in conflitto aperto: Hamas aveva annunciato il sostegno alle proteste, ha minacciato di accendere le micce se gli agenti non si fossero ritirati dalla Spianata delle Moschee e gli arrestati fossero stati liberati. Ha mantenuto le promesse guerresche: le sirene sono risuonate anche nei sobborghi attorno a Gerusalemme per la prima volta dai 59 giorni di battaglia nell’estate del 2014. Il sistema di difesa Cupola di ferro ha intercettato solo 2 razzi, uno è riuscito a colpire un edificio senza causare vittime. Negli stessi momenti un commando palestinese ha centrato con un missile anticarro un’auto dall’altra parte del reticolato. I jet hanno bersagliato la Striscia, le aree verso la barriera che divide il corridoio di sabbia da Israele: i morti palestinesi sono già 24, tra loro anche 9 bambini. Lo Stato Maggiore ha interrotto un’ingente esercitazione che sarebbe dovuta durare una settimana e ha convogliato le truppe verso sud. Il consiglio di sicurezza del governo israeliano avverte che le operazioni militari potrebbero durare giorni e “non ci limiteremo a bombardare qualche duna di sabbia”. I capi di Hamas, che dal 2007 spadroneggiano su due milioni di palestinesi chiusi nella Striscia, hanno questa volta rivendicato tutte le operazioni. È il segnale che per ora non vogliono ridurre la tensione: in passato il ritorno alla calma era stato favorito dalla scusa (per tutti) di accusare qualche fazione fuori controllo. A Gerusalemme gli scontri sono cominciati quasi un mese fa, quando la polizia ha deciso di circondare la piazzetta davanti alla porta di Damasco con delle barriere di metallo, impossibile arrivarci o sedersi. I comandanti volevano evitare che quel luogo di incontro fuori dalle mura diventasse un punto per organizzare le proteste. Adesso che nessuno sembra in grado di controllare la violenza, gli analisti fanno notare che ai vertici della polizia nazionale e del distretto che controlla la città ci sono due nuovi ufficiali e forse piazzare le transenne durante il Ramadan e dopo un anno di limitazioni imposte dalla pandemia non è stata una buona mossa. Il governo di Benjamin Netanyahu ha cercato di ridurre le cause di attrito, le barriere rimosse. La Corte Suprema ha anche rinviato la decisione sul possibile sfratto - altro movente per le manifestazioni di queste settimane - di una ventina di famiglie che vivono nelle zone di Sheikh Jarrah e Silwan dopo che alcune organizzazioni di coloni oltranzisti hanno ottenuto dal tribunale la conferma del diritto di proprietà sugli edifici: appartenevano a ebrei prima della nascita dello Stato d’Israele nel 1948, i palestinesi ci abitano da almeno sessant’anni. Non è bastato. Hamas vede un’opportunità per sfruttare la rabbia palestinese e vuol mettere in difficoltà il presidente Abu Mazen che ha cancellato le elezioni parlamentari. I boss fondamentalisti rischiano di aver sovrastimato il disordine politico in Israele (senza un governo stabile da oltre 2 anni) e sottostimato la volontà di Netanyahu di riprendersi il titolo di Mr Sicurezza: “Hamas ha varcato una linea rossa, pagherà un prezzo molto duro”. Il Malawi ha abolito la pena di morte di Luca Cereda lifegate.it, 11 maggio 2021 Il Malawi è il ventiduesimo paese dell’Africa subsahariana ad abolire la pena di morte, dichiarata incostituzionale dalla Corte suprema. Dopo l’Europa, è il continente africano quello che si sta schierando con maggiore convinzione contro la pena di morte. La Corte suprema del Malawi - paese che si estende intorno al lago Malawi, tra Mozambico, Tanzania e Zambia - ha stabilito a fine aprile che la pena di morte è incostituzionale. Il Malawi segue la scia del Ciad e diventa il ventiduesimo paese subsahariano ad abolire la pena di morte, dichiarandola fuori legge in quanto nega il diritto alla vita. La Corte suprema ha ordinato anche l’annullamento della condanna alla pena capitale per almeno 37 detenuti, ai quali sarà garantita una riformulazione della sentenza. Da oggi, la massima punizione in Malawi sarà l’ergastolo. Il fronte dei malawiani che hanno espresso soddisfazione per la sentenza è compatto, mentre chi si opponeva a questo provvedimento temeva che potesse venire meno il “miglior” deterrente alla criminalità. Le esecuzioni di stato non avvengono nel paese da quasi trent’anni e inoltre venivano comminate ai meno abbienti, che non potevano pagarsi l’assistenza legale per difendersi. Stando al report di Amnesty International, organizzazione che si batte per la difesa dei diritti umani, le ultime esecuzioni sono state eseguite in Malawi nel 1992. Un anno non casuale, infatti è solo nel 1994 che il Malawi ha eletto il suo primo presidente scelto democraticamente da quando fu dichiarata l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1964: è stato proprio il presidente Bakili Muluzi a decidere, all’inizio degli anni Novanta, di non applicare più la pena capitale, e di commutare le sentenze di 120 condannati a morte in ergastoli. Oggi più di trenta paesi africani prevedono ancora la pena di morte nelle loro Costituzioni anche se, secondo Amnesty, negli ultimi anni meno della metà ha eseguito le condanne a morte. Notizie opposte giungono invece dall’Egitto dove, solo il 26 aprile 2021, sono stati giustiziati nove detenuti, tra cui un uomo di 82 anni condannato per la morte di 13 agenti di polizia in un attacco a Kerdasa nell’agosto 2013 - dopo un processo che Amnesty ha giudicato “gravemente iniquo”, in cui “è stato negato l’accesso agli avvocati”. Afghanistan. Il fallimento della “liberazione” delle donne di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 11 maggio 2021 Il conto alla rovescia è cominciato e si concluderà l’11 settembre, una data simbolicamente infelice per la conclusione dell’intervento americano in Afghanistan che proprio da quella data aveva preso il via. Sono passati vent’anni e con il ritiro delle truppe - non solo americane - entro l’11 settembre l’Afghanistan dovrebbe tornare “libero”. La guerra più lunga sostenuta dagli Usa presenta un bilancio fallimentare. In Afghanistan molti temono questo ritiro, soprattutto le donne, e gli attentati degli ultimi giorni, che hanno preso di mira una scuola femminile (a Kabul, 60 vittime) e studenti che preparavano l’esame per accedere all’università nella provincia di Logar (30 vittime), giustificano le preoccupazioni. Poco importa la rivendicazione, la matrice è nell’estremismo islamico che non è stato eliminato, anzi è stato alimentato dalla presenza straniera, con la diffusione anche dell’isis. Il ritiro lascia terra bruciata e se tra gli obiettivi più ipocriti vi era “la liberazione delle donne dal burqa” il fallimento è evidente. Si ritorna al 2001 quando questa guerra era iniziata per cacciare i taleban e si finisce con il ritorno dei taleban, sdoganati dagli stessi Usa che li volevano eliminare. Gli attentatori delle torri gemelle non provenivano dall’Afghanistan - ma dall’Arabia saudita - però l’Afghanistan aveva dato ospitalità a Osama bin Laden e, soprattutto, i media avevano amplificato le immagini delle donne afghane sottomesse a un regime oscurantista che nella lotta al sesso femminile aveva fatto la sua bandiera e la guerra contro gli studenti coranici otteneva facilmente il plauso. Le donne non avevano diritti: né di lavoro, né di scuola, né di voce, né di visibilità, costrette com’erano a vivere sotto il burqa. Erano vietati anche i tacchi a spillo che potevano fare rumore! L’intervento occidentale aveva suscitato molte aspettative, ne avevamo discusso allora con molte donne, cercando di sfatare molte illusioni rispetto a un intervento militare, ma era comprensibile il loro desiderio di libertà a qualsiasi prezzo. E molte di loro si sarebbero poi impegnate nella lotta contro l’occupazione. Non sono stati certamente i militari a liberare le afghane, ma ricordo la prima manifestazione delle donne contro il burqa a Kabul, quando alzando quell’orribile velo scoprivano una pelle squamata perché privata per anni dei raggi del sole che avevano provocato anche carenze di vitamine. Nulla è stato regalato a queste donne che hanno saputo conquistarsi spazi a un caro prezzo in politica, nell’informazione, nelle arti e in molti altri lavori. Il burqa è stato sostituito con un foulard che lascia vedere ciocche di capelli, c’è anche chi non lo usa sempre. E c’è chi osa denunciare il marito violento e abbandona la famiglia per vivere in case protette, organizzate da Ong come Hawca. Nel mondo si sono fatte conoscere donne straordinarie come Malalai Joya, deputata espulsa dal parlamento al grido di “stupratela” perché aveva osato denunciare i signori della guerra presenti nella Loya Jirga. O Selay Ghaffar che, dopo aver diretto Hawca, è diventata portavoce del partito Solidarietà (Hambastagi). Due donne coraggiose costrette a vivere in clandestinità in quello che è considerato il paese meno sicuro per le donne. Perché molte hanno perso la vita: Farkhunda nel 2015 è stata uccisa a calci e bastonate per strada senza che gli agenti della polizia intervenissero. Più recentemente, il 3 marzo, Mursal Habibi, Saadia e Shahnaz avevano appena lasciato l’Enikass tv, dove lavoravano a Jalalabad, quando sono state uccise da uomini armati. Sono solo alcune delle vittime, molte anche fra i giornalisti. È possibile un peggioramento? È quanto emerge da un rapporto di Ashley Jackson dell’Overseas Development Institute del 2018 sulle condizioni imposte nelle zone controllate dai taleban: l’educazione cessa alla pubertà, le donne non possono andare al mercato e possono lavorare solo in zone protette (segregate). I taleban già controllano buona parte del paese ma se tornassero, e torneranno in base agli accordi con gli Usa, al governo il loro potere sarebbe maggiore. A confermare l’”inflessibilità” dei taleban anche nei negoziati e l’accettazione del rispetto dei diritti delle donne solo in base alla legge islamica è un rapporto del Consiglio di informazione nazionale degli Usa. Myanmar. “Sparano alla testa, ma non sanno che la rivoluzione è nel cuore” di Raimondo Bultrini La Repubblica, 11 maggio 2021 Il martirio dei poeti contro i golpisti. Si allunga la lista di intellettuali uccisi, imprigionati e torturati dai militari per fermare il sostegno alla resistenza. Il giorno prima di venire uccisa da un proiettile dei militari la pacifica insegnante e rinomata poetessa Myint Myint Zin pubblicò uno dei suoi ultimi messaggi. Come altri autori del Myanmar si era esposta in prima persona usando le parole come arma emotiva per far capire a tutti la necessità di agire contro i golpisti. “Scendete nelle strade come cani pazzi” scrisse. E come un cane è stata giustiziata da soldati che non amano né la letteratura né i dissidenti. Sul braccio aveva tatuato il suo gruppo sanguigno come fanno ancora in tanti in caso d’emergenza. Il suo assassinio è avvenuto nello stesso giorno, nella stessa città e nelle stesse circostanze - 3 marzo, un colpo in testa sparato da cecchini militari - dell’uccisione di un altro poeta, K Za Win, 39 anni, colpito mentre partecipava a un corteo nelle strade di Monywa nella regione di Sagaing e trascinato via dai suoi compagni lasciando una scia di sangue sulla strada ribattezzata “Via dei martiri”. I due si conoscevano di persona, e K Za Win era anche molto amico dell’ultima vittima di ieri, Khet Thi, 45 anni, il terzo dei cantori senza più voce di questa rivoluzione intrisa di romanticismo tragico e di appelli al sacrificio che fanno breccia tra i militanti della disobbedienza civile. Khet, ultimo di una lunga lista di intellettuali incarcerati, torturati e uccisi, non è caduto in strada sotto i colpi di fucile come i i suoi amici Za Win e Myint Myint. E’ deceduto per le torture subite nella prigione dove lo avevano rinchiuso a Shwebo, altra città del Sagaing. Come gli altri due, anche Khet era piuttosto noto e ora tutti lo ricordano tra gli stessi netizen più giovani di lui per le frasi diventate un epitaffio del suo pensiero sobillatore: “Sparano alla testa, ma non sanno che la rivoluzione è nel cuore”. Sua moglie Chaw Su ha detto di essere stata portata nella stessa caserma per essere interrogata e che suo marito è stato trasferito altrove, ma non è mai più tornato se non cadavere, il ventre e il petto orrendamente mutilati. Secondo lei erano evidenti i segni di un macabro rituale condotto dai chirurghi militari per estrarre gli organi vitali prima di restituire il corpo alla famiglia. Non ha bisogno di spiegare che lo hanno fatto per celare le ferite inflitte durante le torture, ma dalla sua descrizione è come se avessero voluto asportargli di proposito quel cuore rivoluzionario. Anche lei è un’attivista e sa che esistono categorie sempre più numerose come i poeti nella lista dei nemici più odiati dai soldati perché hanno un seguito influenzato dalla loro arte. E’ la stessa sorte di scrittori, giornalisti, attori e registi rinchiusi in massa nel giro di poche settimane. Tra tutti Khet Thi, l’ultimo poeta ucciso, fu quello che più espose il travaglio della sua conversione dal pacifismo gandhiano del primo movimento alla lotta costi quel che costi. Avvenne quando si convinse che le parole non possono perforare le corazze mentali dei militari e che occorrevano scelte più drastiche. Fino a poco tempo fa, quando ancora non fischiavano i proiettili nelle strade, si definiva un chitarrista, un pasticcere e un poeta, non qualcuno che sapeva sparare con una pistola. Ma l’entità della tragedia che si dipanava davanti ai suoi occhi lo ha reso dubbioso dell’efficacia della sua stessa amata arte come arma vincente: “La mia gente viene uccisa e io posso solo sparare poesie”. “Ma quando sei sicuro che la tua voce non è abbastanza - ha aggiunto - allora devi scegliere un’arma con attenzione. Io sparo.” Alle stesse conclusioni era evidentemente giunto anche il poeta K Za Win, che ha consegnato alla storia emotiva di questa protesta un altro epitaffio “Ribellati in tutti i modi. Salva il futuro”. Ma anche questo esempio di abnegazione umanitaria ispirata a Voltaire: “Anche se ho punti di vista diversi dai vostri, darò la mia vita per tutti voi”. Con questi precedenti si segue ora con particolare apprensione la sorte delle centinaia di artisti e intellettuali contrari al golpe tenuti in cella assieme a migliaia, forse 10mila, dissidenti. Nel primo giorno del colpo di Stato destinato a tagliare la testa politica della Lega per la democrazia, ovvero Aung San Suu Kyi, finirono in varie carceri del paese anche tre scrittori, Than Myint Aung, Maung Thar Cho, Htin Lin Oo, e il regista Min Htin Ko Ko Gyi. Li seguì il celebre commediante Lu Min e più di recente l’altrettanto noto autore satirico e comico Zarganar, agli arresti dal 6 aprile. Gli intellettuali sono tradizionalmente ed effettivamente stati nel Myanmar l’avanguardia di movimenti sempre più vasti come l’attuale. Durante il primo regime militare un leggendario leader dei Moustache Brothers, popolarissimo gruppo comico che si esibiva in una cantina-teatro di Mandalay visitata anche dai turisti, sintetizzò in una gag amara la condizione in cui era stato ridotto - ed è tornato a soffrire - il suo paese. “Par Par Lay - raccontò l’artista parlando di sé in terza persona - qualche tempo fa andò in India per farsi curare un gran mal di denti. Il dottore fu stupito di sapere che veniva da così lontano. ‘Ma non li avete i dentisti in Birmania?’, gli chiese. ‘Oh, si, li abbiamo, li abbiamo - rispose Par Par - Ma nel mio Paese non è permesso di aprire la bocca’.