Incontro dei laboratori di scrittura e delle attività di informazione e sensibilizzazione Ristretti Orizzonti, 10 maggio 2021 Ai responsabili dei laboratori di scrittura e delle attività di informazione e sensibilizzazione dal carcere e dall’area penale esterna. Gentili tutti, abbiamo ricevuto da Francesco Lo Piccolo, giornalista, direttore del periodico “Voci di dentro”, realizzato con i detenuti delle Case circondariali di Chieti e Pescara, un invito a promuovere una videoconferenza per rilanciare le nostre attività. Noi della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ci occupiamo da anni di informazione e comunicazione, in particolare con il Festival della comunicazione dal carcere e sul carcere, e quindi accogliamo volentieri questo invito e vi chiediamo di manifestarci il vostro interesse a partecipare a un incontro web (indicativamente da tenersi tra il 15 e il 28 di questo mese) e a contribuire a rilanciare queste complesse attività, anche in considerazione dell’uso delle tecnologie, che riteniamo vada promosso con forza negli istituti di pena. Segnalare la propria adesione alla mail ornif@iol.it. Per la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Ornella Favero, presidente Carla Chiappini, responsabile della comunicazione Da Voci di dentro Onlus Da un anno tutte le attività delle associazioni di volontariato sono sospese o in casi più fortunati sono ridotte al minimo. In tutte le carceri anche i laboratori via web, compresi quelli di scrittura e per la realizzazione dei giornali, hanno subito drastiche battute d’arresto. In molti casi sospeso anche il servizio di prenotazione e distribuzione dei libri e altrettanto è stata ostacolata la stessa comunicazione dentro-fuori. Per motivi di sicurezza a causa dell’emergenza Covid, dal carcere è stata così estromessa la società civile, che comunque già prima della pandemia era spesso considerata come subalterna all’Istituzione. A titolo di esempio diciamo solo che nel carcere di Pescara era in piedi un progetto in un’area non utilizzata e da noi trasformata in uno spazio aperto con laboratori quotidiani di scrittura, teatro, fotografia, computer, musica, sartoria tenuti da 15 tra volontari e studenti tirocinanti per una quarantina di detenuti. Progetto chiuso dopo tre anni nel 2019 e trasformato in un unico laboratorio di scrittura due volte a settimana e limitato a soli 5 detenuti. Poi il Covid ha fatto il resto. Nel ritenere che oggi spesso nelle carceri non venga rispettato il dettato della Costituzione (art. 27) e le norme e le osservazioni-indicazioni della Comunità Europea, proponiamo al più presto un incontro di tutte le associazioni impegnate nelle carceri italiane con laboratori di scrittura, con la realizzazione di riviste e/o giornali del carcere e con altre attività di questo tipo. L’incontro oltre a fornire il quadro esatto della situazione nelle varie carceri, deve essere occasione di confronto e dibattito per giungere anche alla definizione di una linea comune di risposta rivolta al superamento di questa grave situazione, che di fatto ha trasformato le carceri italiane in luoghi di sempre maggior sofferenza per oltre 50 mila persone, e spesso al di fuori della legalità. Francesco Lo Piccolo “Alla fine facevo il carceriere, illuminato forse, ma carceriere ero”. Intervista a Luigi Pagano di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 10 maggio 2021 Luigi Pagano è stato per anni il “mitico” direttore di San Vittore, ma è stato anche Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ruolo che ha ricoperto tentando di dare impulso a una organizzazione delle carceri più aperta e dinamica. La sua esperienza di dirigente penitenziario l’ha raccontata in un libro, uscito di recente, “Il Direttore”. La nostra intervista come sai si focalizzerà sul tema complesso della “rieducazione”, ma io partirei dal tuo libro “Il Direttore” - uscito in autunno e già in procinto di essere ristampato - dove a un certo punto racconti il desiderio di poterti mettere alla prova nella direzione di un istituto e dici testualmente che volevi “cercare di creare qualcosa”. Dunque ti chiedo: in realtà che cosa volevi creare? Mah, considera che io sono della generazione immediatamente successiva alla riforma penitenziaria del ‘75 e quella riforma mi aveva appassionato, ci avevo anche fatto la tesi leggendo tutto quanto c’era da leggere sul carcere. E mi era rimasto addosso il senso di una realtà oscura, violenta, ingiusta. Ecco, ero giovane, non pensavo che sarei diventato direttore di un carcere, ma la voglia di fare qualcosa per cercare di cambiare queste cose l’avevo... Forse l’avrei fatto come avvocato o come criminologo, non lo so, ma di sicuro non mi piaceva quel mondo così spregiativo della dignità umana, il rendere le persone recluse soggette a potere o strapotere incontrollato, tutte quelle storie che si raccontavano sul carcere, di maltrattamenti fisici, di squadre, squadrette e quant’altro. Così quando ho vinto il concorso, mi sono detto “Adesso sei tu che comandi e allora vediamo cosa sei capace di fare”, così dai risultati ottenuti avrei capito anche se ero in grado di dirigerlo, un carcere. E, poi, sì mi interessava molto promuovere le misure alternative che mi convincevano come fase evolutiva, necessaria, del trattamento in carcere perché, come diceva il mio professore di criminologia, “soltanto in libertà ti potrai accorgere se una persona è reinserita oppure no”, che sembra una cosa banale, ma è sacrosanta verità. Cercando di fare una sintesi della tua lunga esperienza di direttore a San Vittore - ma forse anche già prima - mi sembra di rintracciare due istanze molto forti: una è la tutela della dignità delle persone e l’altra l’apertura del carcere al territorio. Ora, se mi è estremamente chiara la questione della dignità, sono più curiosa di capire perché hai ritenuto necessario aprire il carcere al territorio, cosa che, forse, ai tempi non era così scontata... Perché se decliniamo l’articolo 27 della Costituzione così come l’ha declinato l’Ordinamento Penitenziario, e se si parla di reinserimento sociale, sarebbe impossibile realizzarlo attraverso un’istituzione chiusa al territorio, incapace di comunicare con esso. Quindi se non creiamo contaminazione, osmosi tra le due realtà, giochiamo con le parole e non perseguiamo l’obiettivo che si vorrebbe raggiungere. Per pensare al reinserimento è indispensabile un istituto “poroso”, permeabile, recettivo al mondo esterno e, ovviamente, anche l’inverso, nel senso che il carcere guarda all’esterno e l’esterno deve guardare al carcere, non soltanto in termini di prevenzione generale - cioè vedo quanto è brutta la detenzione ed evito di commettere i reati, secondo la teoria classica - ma per rendersi conto che in definitiva i detenuti non sono dei mostri, ma persone come noi con cui si può, si deve avviare un dialogo. Ora, però, vorrei tornare alla parola “rieducazione”, perché appunto spesso viene sostituita da reinserimento, ma io mi sono andata a leggere la discussione dell’Assemblea Costituente sull’articolo 27 e in realtà, si parlava del fine educativo che devono avere le pene, insomma c’era l’idea che il carcere dovesse avere un indirizzo rieducativo. Spesso mi chiedo quanto l’amministrazione penitenziaria si ponga nell’ottica di dover essere un’organizzazione che ha la funzione rieducativa... Riguardo a quello che hai detto, che io ricordi l’Assemblea Costituente non è che fosse molto d’accordo sul come formulare quella norma, che senso dare al termine rieducazione, se si dovesse indicarlo specificamente come obiettivo della pena o affiancarlo ad altri. La discussione fu notevole, perché ogni parola poteva significare seguire una dottrina piuttosto che un’altra. È stato poi l’Ordinamento penitenziario che ha parlato di reinserimento sociale, opportunamente precisando il concetto di rieducazione, perché questa potresti pensare di realizzarla anche solo in internato, non è detto che si debba necessariamente realizzare attraverso le misure alternative; puoi anche pensare che sia la sofferenza della pena, la severità del carcere, a rieducare. Noterai che, al riguardo, pur essendo la sua parte più importante, la legge è stata un po’ generica, nel senso che non ha precisato che cosa si dovesse fare all’atto pratico. Alla fine, gli articoli che riguardano l’aspetto del percorso rieducativo sono cinque o sei, indicando quali attività hai a disposizione, lavoro, scuola, formazione scolastica, culto eccetera e rapporto con l’esterno. Il fatto è che si immagina il processo trattamentale capace di rilevare le cause del reato e di rimuoverle, cioè l’ottica della criminologica classica di impianto clinico: il reato come una malattia da curare, una concezione un po’ datata. Bene che l’Ordinamento penitenziario sia rimasto sul generico permettendo la discussione sul che cosa fare, se sia giusto cambiare le persone e se sì, come cambiarle… e quindi l’approccio psicologico, psicanalitico, comportamentale, i dialoghi maieutici di Angelo Aparo con il Gruppo della Tasgressione, il sostegno della cultura… In definitiva, tutti tentativi che devono sì farsi, ma che, a mia opinione, di scientifico, nel senso stretto del termine, hanno ben poco. Pur credendo nel cambiamento delle persone, se no non avrei fatto questo mestiere, non ti saprei dire come potrebbe avvenire questa “rieducazione” e mi chiedo anche se quel termine sia il più adatto a definirlo. Di una cosa però sono certo, nulla sarà mai possibile se non si ha in mente un primo fondamentale principio: non bisogna calpestare la dignità delle persone nonostante il carcere non sia proprio il luogo più adatto. Riuscire a salvaguardare la dignità della persona è il primo nostro obiettivo, poi che significhi rieducazione e come si accerti, onestamente, è tutto da vedere. Benissimo la tutela della dignità però poi al detenuto si chiede di dimostrare il suo cambiamento... Sì, certo ma il problema dell’approccio clinico è proprio questo: che significa rieducazione? Nel senso che per il raffreddore sappiamo che in 7 giorni dovrebbe passare, per un tumore passati 5 anni dopo le cure valutiamo la percentuale di sopravvivenza e via così. Ma l’idea del reato come sintomo di malattia non regge. Come si dimostra la guarigione? Io esco, non commetto reati per 5 anni, quindi sono guarito? E se all’inverso commetto un reato, è una ricaduta o, per attualizzare al Covid, sono stato vittima di una variante? E se torno a delinquere c’è stato errore del trattamento operato in carcere? O è la dimostrazione che quanto si realizza in internato è poca cosa perché la vera scommessa è l’incontro con la varietà degli stimoli esterni che in carcere non hai e dove per forza di cose hai poca autonomia di scelte. Le contraddizioni stanno nel sistema. E ci stanno perché tu stai utilizzando non il mezzo più adatto, quello che avresti voluto per realizzare il dettato costituzionale, ma quello che ti sei ritrovato, il carcere, e che non hai potuto eliminare o ridurre per una serie di ragioni che poco hanno a che fare con l’idea di reinserimento. Tu cerchi di utilizzarlo comprimendolo e compromettendolo tanto che alla fine dimentichi quale sia l’essenza originale del carcere, e perché molte norme sembrano stridere con un percorso trattamentale che dovrebbe portare a una crescita personale. Parliamo ad esempio di alcune sanzioni disciplinari, parliamo del fatto che se vogliamo accrescere il senso di responsabilità dovremmo dare più libertà personale al detenuto. Parlo di rapporti interpersonali, dialettici, tra il detenuto e noi operatori. Nella vita del fuori, a esempio, un gesto di fastidio, di stizza, una discussione accesa può sembrarmi normale, in carcere uno sfogo, anche plausibile viste le condizioni in cui molte versano, può significare, invece, un rapporto disciplinare e diminuzione delle possibilità di ottenere misure alternative. Su questo concetto della rieducazione il parametro più utilizzato, e che ritengo riduttivo, è quello dell’evitare comportamenti trasgressivi e, cessata la pena, la recidiva. Si fanno tentativi, proponiamo strade non sempre percorribili, diciamo “siamo qui se ti può interessare”. Cerchiamo di rafforzare le persone in quelle che noi crediamo siano le loro debolezze - o probabilmente sono le nostre - e poi diciamo che abbiamo ottenuto il risultato se non ci sarà recidiva. Che possa il liberato magari dormire sotto un ponte alla fine pare interessi ben poco. Se, invece, finirà per commettere un reato, diciamo che il reinserimento è fallito. Ci attribuiamo poteri che non abbiamo... ci esaltiamo o deprimiamo dimenticando non solo la personalità individuale, ma anche il ruolo della società esterna e la sua complessità. Ma di che stiamo parlando? In effetti c’è tutta una parte del tuo discorso che condivido profondamente, cioè la previsione sulle persone è ambiziosa e forse inutile... Esatto e non so nemmeno se eticamente regga. Però resta, a mio avviso, una domanda, l’istituzione, cioè, dovrebbe chiedersi quanto in realtà sia una comunità “rieducante”... Sarò monotono e limitato, come dicono alcuni, ma continuo a credere che il carcere non è una comunità rieducante. Abbiamo utilizzato uno strumento che esisteva già, che veniva utilizzato per tutt’altra cosa e che era organizzata per quella cosa. Andiamoci a leggere l’Ordinamento penitenziario; non la parte aulica che è bella e molto importante, ma la parte organizzativa e vedrai quali sono gli spazi che concede al detenuto, quali e quanti, come si sposa il concetto di responsabilità rispetto alla sorveglianza statica che il regolamento della polizia penitenziaria - varato nel 1988 - a esempio impone. Quanti istituti sono organizzati perché la persona possa restare “fuori dal detentivo” più tempo possibile al fine di partecipare alle attività trattamentali? Se la legge ha dovuto dire che il detenuto ha diritto di stare all’aperto almeno quattro ore, ed è una riforma del 2019 perché prima il minimo era di 2 ore, questo significa che per molti questa era l’unica possibilità di uscire dal reparto detentivo. Ma in ogni caso 2 o 4 ore che siano, avrebbe senso porre un limite, seppure minimo, se la comunità fosse rieducante? Certo, sono d’accordo, ma ora stiamo parlando di un’altra cosa secondo me. Dunque, posto che questo è quello che si è ereditato, posto che ci sono queste rigidità evidenti, all’interno di questo mondo così rigido, non si potrebbe immaginare un personale che abbia un altro modo di relazionarsi con l’esterno e con le persone detenute, che usi un linguaggio adulto? “Infantilizzante” è anche, a mio avviso, il magistrato di Sorveglianza che non decide mai e lascia il detenuto in una sfiancante attesa... Non c’è bisogno che tu lo dica a me. Quando parliamo di sorveglianza dinamica, noi dicevamo proprio questo; dicevamo che per una serie di motivi, sia ben chiaro non dovuti a colpa loro, ma per una diversità temporale di varo delle leggi e di non incastro dei differenti valori cui facevano riferimento, noi pur avendo oggi delle persone inquadrate come poliziotti penitenziari, le utilizziamo come agenti di custodia. Se restringiamo lo spazio che il detenuto dovrebbe avere a disposizione addirittura confinandolo nella camera di pernotto (ovvero la cella) per buona parte della giornata (fatto ammesso dallo stesso DAP in una circolare del 2011) noi creiamo tutta una serie di danni: il detenuto rimane chiuso all’interno della camera di pernotto e sostanzialmente vincoliamo la funzione degli agenti alla mera custodia. Chiarisco; ho molta stima degli agenti di custodia, li ho vissuti totalmente nei miei primi anni di amministrazione, il loro lavoro era preziosissimo, ma erano funzionali a un carcere che puntava tutto sulla sicurezza, oggi la polizia penitenziaria ha incombenze anche rispetto al trattamento per questo deve conoscere di più la persona detenuta, ma conoscerà ben poco di lui se quello lo teniamo segregato. L’idea, non originale, lo dispone la legge, era quella di differenziare gli istituti o le sezioni di essi, non per catalogare ma per adattare quanto più possibile un trattamento individualizzato rispetto ai bisogni delle persone, Trattamento differenziato in questo senso, ma differenziato anche in termini di sicurezza. Se esiste differenza tra una persona che deve scontare un anno, e ne abbiamo in carcere circa 10000, e chi è stato condannato a vent’anni, tra un omicida condannato per mafia e un tossicodipendente, modulerò il trattamento e la sorveglianza, diminuendo o aumentando il personale di polizia penitenziaria, e lo faccio anche partecipare all’attività trattamentale. Se aumenta la conoscenza dell’agente nei confronti del detenuto, avverrà anche l’inverso, ci saranno persone che si confrontano, che dialogano e non solo uno che comanda e l’altro che deve ubbidire. Questo non ti porta a nulla. Tenere segregata una persona significa farla regredire ed è questa l’immagine che tu avrai di lui, ma, nel contempo, anche tu ti vedrai solo e unicamente come un guardiano. Il cambiamento noi l’avevamo immaginato così, ma non siamo riusciti a realizzarlo. Irridente qualche sindacato, irridente pur qualcun altro... col senno di poi mi rendo conto dei timori che possono derivare, ma se rischio c’è è un rischio che bisogna correre se l’obiettivo è quello di “recuperare” l’uomo. E attraverso non solo Bollate, come ci si rimprovera, qualche cosa si era dimostrato, per cui non ho mai capito la critica di un ministro che durante un convegno disse che non amava le carceri modello perché non avevano “contaminato il sistema”, come se ci fosse stato dato il tempo e il sostegno necessario per provarci. Mi sa che il potere politico teme che il carcere possa “democratizzarsi” e aprirsi all’esterno, perché la maggior parte lo legge come prevenzione generale, temono i riflessi negativi sull’opinione pubblica di quello che ritengono possa dare vantaggio alla criminalità, ma accettano il fatto che l’80% di quelli che escono tornino a delinquere. Sì io capisco la tua impostazione, quindi tu vedevi la possibilità di cambiamento soprattutto nel cambiamento dell’organizzazione? Sì certo. Ma in un’ottica più pedagogica e di formazione forse non basta… Aspetta un attimo, non per volerti contestare, ma io non sono un pedagogista; il mio ruolo e la mia responsabilità è di essere organizzatore. So che puoi fare tutti i discorsi che vuoi, ma se tu non tocchi l’organizzazione e non la metti al servizio dell’obiettivo che intendi raggiungere non riuscirai ad ottenere niente, perché le attività non le potrai fare. Se tu non dici agli agenti, estremizzo e non mi prendere alla lettera, ma ammetto di aver detto più o meno “sentite, a me che si corra il rischio che arrivi un telefonino nella media sicurezza non me ne può fregar di meno. Tanto anche telefonando attraverso i nostri apparati, previamente autorizzati, noi non possiamo ascoltare o registrare nulla per cui il detenuto può parlare con chi vuole dicendo che sta parlando con la mamma. Quindi, certe perquisizioni accuratissime, condotte anche su persone che entrano in carcere da anni, e durante le quali non si trova mai nulla, servono solo a ritardare l’ingresso in istituto di chi ci porta lavoro, degli insegnanti, dei volontari. Allora, se voi dite che bisogna farle a prescindere e poi rinvengo un cellulare in sezione sarebbe colpa vostra... se invece si fa come dico io, è evidente che mi accollo ogni responsabilità”. Oggi come oggi, però, funziona così e tu cosa pretendi? Un’impresa che porta lavoro dall’esterno alla 100ª volta che arriva in portineria e gli chiederanno ancora i documenti, poi il controllo, poi la perquisizione e nel frattempo se ha perso un’ora sta perdendo soldi, e come si può pensare che gli venga in mente di portare lavoro in carcere? E se lo fa quante volte deve andare a chiedere dove sia il detenuto, al cortile al passeggio? Ai colloqui? Dall’avvocato? Dall’educatore? O forse manca solo il personale per accompagnarlo? Vale per il lavoro come per gli insegnanti, i volontari. Mi spiego? se non parli di organizzazione tutti i vari tasselli che possono servire al reinserimento - compreso Aparo, compresa tu, compresa Ornella - non avranno mai la possibilità di operare. Questo spetta a me farlo, badare al trattamento e alla sicurezza, è il mio compito - ovviamente coadiuvato dai miei collaboratori - di organizzatore; io ti parlo come direttore, non ti posso parlare come educatore o come pedagogista, il mio compito è di mettere chi sa fare il suo mestiere, tu, Aparo, Ornella e tutte le persone che fanno qualcosa di utile, nelle migliori possibilità di poterlo fare perché i risultati poi li vedo; posso anche non capire come ci si arriva, ma li vedo. È chiaro, ma il Dipartimento che obiettivi consegna ai direttori? Perché questo, invece, è molto poco chiaro, cioè premia il direttore che apre il carcere, che fa trattamento, che fa rieducazione? Oppure premia il direttore in base alla sicurezza? O non premia nessuno dei due perché non è chiaro che cosa devono fare? A seconda dei momenti. Se ti devo dire la mia esperienza, ho vissuto di tutto; apriamo... no, contrordine chiudiamo! Ma basta vedere le vicende schizofreniche che hanno interessato l’Ordinamento penitenziario. Credo di averle raccontate abbastanza bene. Noi passiamo, nel ‘90, dall’apertura del carcere - perché c’è la legge Gozzini, perché c’è il Codice di procedura penale, perché abbiamo finalmente il nuovo corpo della polizia penitenziaria - al chiudere tutto e all’essere chiusi anche noi. In alcuni momenti storici, certo venivi premiato. Premiato in che senso? Premiato perché avevi la coscienza a posto, non è che prendessi aumenti o decorazione, anzi! Operare in una determinata maniera, aprire il carcere all’esterno ti comporta rischi e non parlo di evasioni, ma del fatto che da quel momento non potrai più tornare indietro. E l’amministrazione ci crede in queste cose? Devo risponderti con sincerità, non abbiamo molta cultura dell’amministrazione, colpa del potere politico che non ha mai dato continuità al sistema non tanto, non solo, per le leggi che cambiavano, ma perché cambiavano anche gli uomini messi a Capo del Dipartimento secondo logiche poco comprensibili. Ogni Ministro un nuovo Capo Dipartimento, se non addirittura cambiamenti in corsa dall’oggi al domani, grandi professionisti in altro ramo dell’amministrazione, ma senza alcuna esperienza non nel settore, ma proprio come amministratore. Questo significa interessarsi poco del valore della organizzazione. E i risultati sono evidenti, credo non esista altra amministrazione così frammentata nelle sue componenti e che cambi, a seconda di chi ne è a Capo, la linea di governo. Alla fine non solo i detenuti, ma anche il personale finirà per capirci poco. Certo la rieducazione è una questione complessa e il nostro punto di vista non potrà mai essere sovrapponibile a quello dell’istituzione… Certo, insisto, però, nel ritenere che il compito del direttore sia quello di creare le condizioni per cui il tuo lavoro di esperto, di volontario, di imprenditore si possa svolgere nel miglior modo possibile e non è giusto che ti dica “il tuo volontariato non mi piace”. Posso dire, in una accezione finalistica, “non mi serve”, ma questo l’ho detto poco; per me c’è lo spazio per il volontario che porta gli abiti, c’è spazio per chi porta la saponetta, c’è spazio per chi cerca il paradiso e c’è spazio per un volontariato professionale come il vostro. Io devo creare le condizioni affinché tutti possano lavorare assieme, in relazione a quelli che sono gli obiettivi, in relazione a quello che la legge dice, in relazione a quello che è la Costituzione… questo dovete chiedere a me, e penso di averlo fatto seriamente. E non mi voglio riscattare, alla fine facevo il carceriere, illuminato forse, ma carceriere ero. D’accordo però ho comunque un dubbio, cioè io non chiederei mai a un direttore di essere un pedagogista o di essere un filosofo dell’educazione. Quello che potrei chiedergli, però, è: quali sono, nel suo agire, i contenuti positivi e rieducativi? Allora uno può dire “per me un contenuto rieducativo potrebbe essere di impostare un rapporto onesto con le persone detenute”. Penso si tratti di questo: trovare contenuti condivisibili... Certo, assolutamente sì. Ma guarda, l’unica cosa di cui i detenuti mi hanno sempre reso atto, e per questo rispettato, è essere sempre stato chiaro con loro; non ho mai imbrogliato né loro né il Ministero. Rispetto assoluto delle norme, se pure potrà sembrare strano in un tipo come me, anche se con tante eccezioni, lo ammetto, ma motivate e precisando che tali erano. Ma non lo erano, che ne so, Bollate o l’Icam per le donne madri o il call center a San Vittore, replicato poi in tanti altri istituti, o il lavoro esterno in gruppo regolarmente pagato. Li con i miei collaboratori abbiamo operato una lettura, diciamo così, espansiva della norma, non creativa bada bene, orientata secondo la ratio dell’Ordinamento. A guardare i risultati penso sia andata bene, no? *Giornalista, esperta in metodologia autobiografica Il 9 maggio è il giorno del ricordo. Non della rimozione del pensiero di Aldo Moro contro l’ergastolo di Franco Corleone L’Espresso, 10 maggio 2021 Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in una lunga e molto impegnata conversazione con Maurizio Molinari ha affrontato temi assai delicati sulla lotta armata di sinistra e sul terrorismo fascista. Alcuni passaggi sono assai delicati come quello sugli intellettuali che favorirono chi sparava per la rivoluzione. Per fortuna non ha fatto riferimento a Leonardo Sciascia. Non è questa la sede per discutere tesi che richiederebbero uno spazio adeguato. Mi limito a sottolineare alcune assenze di fatti pesanti come pietre che non possono essere casuali, ma che indicano un imbarazzo preoccupante. Prima di tutto la dimenticanza che Aldo Moro due anni prima di essere sequestrato, tenuto prigioniero senza alcuna garanzia e dignità, sottoposto a un processo farsa e condannato a morte da un sedicente tribunale del popolo, aveva tenuto un corso di diritto penale all’Università di Roma sulla pena e sul suo senso. In particolare un capitolo straordinario era dedicato alla contestazione della pena di morte e con argomenti ultimativi veniva condannata la pena dell’ergastolo. Quel testo che pubblicai in un volume della collana della Società della Ragione edito dalle edizioni Ediesse intitolato “Contro l’ergastolo”, darà ripubblicato tra poco in un volume dal titolo “Contro gli ergastoli” curato da me, Stefano Anastasia e Andrea Pugiotto. Ebbene mi pare strano che Sergio Mattarella non faccia cenno a questo alto pensiero del giurista Moro. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha proclamato che l’ergastolo ostativo è contro la Costituzione questa rimozione appare davvero incomprensibile. Ancora. Nessun cenno alla scelta impegnativa della politica italiana e del Parlamento di approvare una legge come quella sulla dissociazione. Grave l’assenza di una riflessione di come chiudere finalmente una stagione che risale a Piazza Fontana. Recentemente ho ricordato che il Presidente Scalfaro decise la concessione di alcune grazie a persone condannate per atti di terrorismo. Ora dopo venti anni non ci si può limitare all’invito a “prendere tutti i latitanti”. Il Presidente Mattarella sicuramente sa che nelle patrie galere sono ancora tenuti rinchiusi dopo quaranta anni di detenzione alcune decine di uomini e donne “irriducibili”; fra questi anche soggetti che non hanno reati di sangue come Cesare Di Lenardo, torturato al momento dell’arresto e condannato per il sequestro del generale americano James Dozier. Verità e riconciliazione sono evocazioni nobili che per realizzarsi richiedono azioni da parte di tutti. Governo e riforme della Giustizia: Cartabia apre il cantiere di Liana Milella La Repubblica, 10 maggio 2021 La ministra apre oggi con i partiti il complicato dossier del penale chiedendo di “mettere da parte i contrasti”. La road map prevede tempi molto stretti. A giugno va in discussione la legge delega, poi tocca al Csm e al civile. Da quando ha messo piede in via Arenula il 13 febbraio la giurista Marta Cartabia ha perseguito un obiettivo fondamentale, “condurre in porto il prima possibile le riforme della giustizia che valgono solo l’1% dei miliardi del Recovery”. Ma proprio dalle riforme della giustizia civile, della giustizia penale, del Csm e dell’ordinamento giudiziario, dipenderà “l’arrivo dei fondi europei”. “Niente riforme, niente soldi”. Se questo è il goal, ne consegue la strategia di Cartabia che, rispetto a una maggioranza che tutto è fuorché unita sulla giustizia, ha evitato di esasperare i contrasti tra Pd e M5S da una parte, e il centrodestra dall’altra. Perché lo scopo è portare a casa le riforme entro la fine dell’anno. Riservandosi tre mesi - anziché i 12 inizialmente previsti - per scrivere e far approvare i decreti attuativi. Di occasioni di rissa ce ne sono state molte. L’ordine del giorno sulla presunzione di innocenza, l’obbligo dell’assenso del gip sulla richiesta dei tabulati fatta dal pm, la commissione d’inchiesta sulla magistratura, le palesi divergenze sulla prescrizione. In una parola, la voglia di garantismo del centrodestra. E anche quella di buttare giù le riforme dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Cartabia non ha raccolto una sola provocazione. Ha incontrato tutti i parlamentari che chiedevano un appuntamento. Ma ora è il momento di stringere. Per questo venerdì 30 aprile, quando ha incontrato i capigruppo della maggioranza del Senato per chiudere sul processo civile, Cartabia ha fatto una raccomandazione tutta politica: “Abbiamo scadenze imposte dal Recovery che non possiamo tradire. Il senso di responsabilità deve guidare ognuno di noi nella gestione parlamentare”. Un invito esplicito ad accantonare le divergenze. E lei ha dato il “buon esempio”. Ha fermato lo scontro in aula sulla prescrizione assumendosi la responsabilità dei futuri emendamenti. Ha nominato tre commissioni di rinomati giuristi che in meno di due mesi hanno elaborato gli emendamenti ai testi di Bonafede. Al quale Cartabia non ha dato lo “schiaffo” che il centrodestra chiedeva, buttare a mare i suoi disegni di legge. Che invece sono i testi base da cui partire per cambiare il Csm e la giustizia penale e civile. Lo stesso invito a “mettere da parte le divergenze” Cartabia si appresta a ripeterlo proprio oggi, quando avrà di fronte i capigruppo della Camera per affrontare il piatto più litigioso della giustizia, quello del processo penale. La prescrizione di Bonafede (stop dopo il primo grado per i condannati), la durata delle singole fasi del processo (due anni il primo grado, un anno e sei mesi l’appello, un anno o addirittura sei mesi in Cassazione), i tempi delle indagini preliminari (due anni ma con molte tagliole), ma anche il destino del processo di appello che potrebbe vedere il ritorno, ma riveduto e corretto, della legge Pecorella del 2006, bocciata l’anno dopo dalla Consulta, che vietava l’appello al pm che perde il processo. Se la vera sfida è quella dei tempi, e tutto deve essere chiuso entro la sessione di bilancio di quest’anno, Cartabia chiede a tutti di mettersi una mano sulla coscienza. Vediamo perché. Alla Camera, a giugno, sono in calendario il processo penale e la riforma del Csm. Che contiene la nuova legge elettorale che deve “guardare” al 2022, quando scadono i quattro anni dell’attuale Csm. Fonti della maggioranza già dicono che la discussione slitterà a settembre. Perché sarà complicato raggiungere la “quadra” sul processo penale. Dove il nodo della prescrizione è pesantissimo. Il gruppo di lavoro presieduto dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi ipotizza, con varie soluzioni, di mantenere lo stop di Bonafede in primo grado, ma agendo poi in appello sui tempi del processo. Una prescrizione “processuale” che non piace al centrodestra che vorrebbe voltare pagina rispetto alla Bonafede. Approvato tra giugno e luglio, il processo penale affronterà il Senato. E da lì dovrebbe arrivare alla Camera la riforma del processo civile. Nel frattempo, nella commissione Giustizia di Montecitorio, si affaccerà la riforma del Csm, della sezione disciplinare - oggi in primo piano dopo il caso Palamara - e del destino dei magistrati che scendono in politica. Il centrodestra si batte per ottenere il sorteggio come sistema elettorale, ma c’è da scommettere che non sarà questa la soluzione di Massimo Luciani, il costituzionalista al vertice del gruppo di lavoro istituito da Cartabia. Se l’aula della Camera riuscirà a votarla a settembre, solo un rush potrà garantirle di ottenere anche il via libera del Senato entro la fine dell’anno. Sulla durata dei processi il governo si gioca il Recovery. Ma la maggioranza è spaccata di Roberto Petrini e Conchita Sannino La Repubblica, 10 maggio 2021 In cambio dei finanziamenti europei l’Italia si è impegnata a tagliare i tempi di attesa delle sentenze e ad approvare tre leggi delega: per il Civile, il Penale e il Csm. Vietato giocarsi il futuro del Paese, usando la giustizia come pericoloso terreno di conflitto. O propaganda. È l’auspicio che il governo aveva rivolto già un mese fa alle forze di maggioranza. E che con sempre maggiore fermezza, in queste ore, arriva dagli uffici di Palazzo Chigi mentre si apre la settimana che dà il via ufficiale al percorso delle riforme, per i versanti civile e penale. Una sfida che costringe partiti e leader a scegliere da che parte stare. A cominciare da Matteo Salvini, con la sua campagna che appicca il fuoco sui referendum: cui già ha dato il via con la raccolta firme, per i quesiti su separazione delle carriere dei magistrati, misure cautelari, Csm. Maggioranza spaccata: il duello si è consumato anche sulla nomina dei relatori, tutti di Pd, M5s o Leu, sui provvedimenti da esaminare. La scommessa sull’intero pacchetto giustizia sarà fatale per uscire dall’emergenza. E passa, in particolar modo, per i nodi del civile che soffocano investimenti e bloccano il sistema delle garanzie e i diritti dei creditori. Una questione che vale mezzo punto di Pil. Nodi che, se risolti, potrebbero liberare 8 miliardi di euro. Oggi, da via Arenula on line, riunione dei capigruppo di maggioranza della commissione Giustizia alla Camera per il Ddl sul penale. Tra domani e dopodomani sono attesi gli emendamenti del governo al Senato, sempre in commissione, sul civile. Proprio su questo settore, il capitolo “Giustizia” del Recovery plan punta dritto alla risoluzione di uno dei più antichi problemi: come accelerare - in caso di fallimento o insolvenza - la riscossione da parte del creditore, cioè le banche, delle garanzie sulle quali gravano pegni ed ipoteche. Il dato indicativo: mezzo punto di Pil in più nell’arco di dieci anni, poco più di 8 miliardi, sarebbe il vantaggio che arriverebbe dalla riduzione dei tempi del processo civile. E, in particolare, dal superamento di quelle lungaggini dei meccanismi di esecuzione forzata: i tempi di recupero dei crediti, in via giudiziaria, non versati. Quelle riforme sono impegni imprescindibili su cui il governo Draghi non può permettersi cedimenti. Ritenute “indispensabili”, com’è noto, all’approvazione del nostro Pnrr, diventano strategiche per l’efficacia degli investimenti dei 248 miliardi del Recovery (3,2 solo per la Giustizia). Tanto che il patto Italia-Europa è vincolato a un’agenda stringente: entro 5 anni, devono ridursi del 40 per cento i tempi del giudizio civile; del 25 per cento quelli del penale. Entro la fine del 2021 è prevista l’approvazione delle leggi delega, a giugno in aula quella sul Csm. Una corsa contro il tempo: su strada impervia, dopo la crisi devastante che investe la magistratura, ora anche sotto la tempesta di fango e sospetti per la circolazione dei verbali secretati del caso Amara. Basta indugi, il governo chiama tutte le forze alla responsabilità. Anche perché la valutazione del “servizio-giustizia” ai cittadini ci pone in coda ai paesi industrializzati: secondo il Rapporto “Doing Business” del 2018, siamo al 108° posto su 190 Paesi per tempistica delle esecuzioni giudiziali degli obblighi contrattuali. Per il recupero di un credito in Italia occorrono 1.120 giorni. A fronte dei 395 giorni in Francia, e dei 499 giorni in Germania. Pochi, insufficienti i passi avanti registrati, negli ultimi anni, con risoluzioni e patti extragiudiziali. Il Recovery promette invece di andare a fondo. Primo passo: velocizzare i processi civili. Con la piena attuazione di un vero e proprio “Ufficio per il processo”, col potenziamento dello staff del magistrato, assunzioni dal 2022 di specialisti di dati, economia, informatica. A queste misure si affiancherà la digitalizzazione delle cancellerie, la creazione di nuovi edifici. L’altro pilastro, sul quale fanno leva i risultati di crescita e competitività propri del Recovery plan, è costituito dall’accelerazione di quei meccanismi di recupero dei crediti. È qui che si interverrà di cesello sul codice civile per ridurre i termini delle esecuzioni: con provvedimenti che dovrebbero mirare al più rapido esproprio degli immobili, che colpirebbero in modo particolare i debitori “professionali” e terrebbero al riparo i debitori inconsapevoli o sprovveduti che incappano in un default aziendale. Perché l’economia ne trarrà vantaggio? Tra le oltre 300 pagine del Recovery plan, c’è la risposta. La prima: le banche, con maggiore certezza sul recupero del credito, avranno rischi minori e potranno di conseguenza ridurre i tassi dei finanziamenti. La seconda; per analoghi motivi: consentirà agli istituti di credito di concedere finanziamenti anche ad aziende giovani e senza garanzie ridondanti, aprendo maggiormente il mercato. La riforma del processo: assoluzioni senza appello e priorità a certe indagini di Michela Allegri e Marco Conti Il Messaggero, 10 maggio 2021 Riforma della prescrizione, con due opzioni: processuale, oppure un rimedio compensativo con un’attenuante prevista in caso di eccessiva lungaggine del processo. L’inappellabilità e la sola possibilità di revisione del procedimento in Cassazione per le sentenze penali di assoluzione. Il coinvolgimento del Parlamento, tramite un atto di indirizzo, nell’indicare le priorità relative a determinati reati. E, soprattutto, la volontà di velocizzare i tempi, cercando spingere sui riti alternativi e di incidere sulle impugnazioni, prevedendo che la regola per l’appello sia di discussione scritta, salvo una differente richiesta da parte dell’imputato. Sarebbero queste le principali proposte relative alla riforma della giustizia e della prescrizione che, oggi pomeriggio, i membri della Commissione ministeriale istituita dalla Guardasigilli, Marta Cartabia, e coordinata dal presidente emerito della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi, presenteranno ai capigruppo in Commissione Giustizia della Camera. La scorsa settimana, invece, i gruppi parlamentari hanno presentato gli emendamenti, 718 in tutto, al ddl Bonafede, emanato dal precedente governo e che la Camera sta esaminando. Il tema più spinoso resta quello della prescrizione di fatto cancellata dal ministro Bonafede. Il ddl a suo tempo messo a punto dal ministro grillino era frutto di una sorta di compromesso tra M5S, Pd e Leu che a sua volta superava la legge Spazzacorrotti approvata dalla maggioranza M5S-Lega nel gennaio 2019. Se la Spazzacorrotti prevedeva che la prescrizione si fermasse dopo il processo in primo grado, il Lodo Conte2 - dal nome del deputato di Leu Federico Conte - mantiene il fermo della prescrizione dopo il primo grado, ma introduce una serie di meccanismi di durata massima di ogni fase processuale. La scorsa settimana su questo punto tutti i gruppi hanno presentato emendamenti discordanti: i Cinque Stelle e la Lega hanno proposto di tornare alla Spazzacorrotti, mentre il Pd ha puntato sul potenziamento dei riti alternativi per sgravare i tribunali, e sul ripristino della prescrizione se si sforano i tempi del processo in appello e Cassazione o, in alternativa, in uno sconto di pena se i tempi sono oltremodo lunghi. Forza Italia vorrebbe invece il ripristino della prescrizione a come era prima della Spazzacorrotti. Sulla questione da parte della commissione ci sarebbe apertura al confronto. Le ipotesi vagliate sono due: una prescrizione processuale secca e una di rimedio compensativo, con un’attenuante in caso di caso di processo di irragionevole durata. Sul tavolo anche la riforma del Csm che in alcuni emendamenti, si lega alla separazione delle carriere. “Sono stati affrontati tutti i temi del ddl Bonafede, dando sistema agli argomenti - ha detto il sottosegretario Francesco Paolo Sisto - I prossimi passi saranno comunicare le proposte ai capigruppo, un confronto costruttivo e poi l’approdo in Parlamento, come fase finale di un procedimento complesso. I lavori sono stati terminati in tempo record. C’è un ragionevole ottimismo in un buon risultato condiviso”. Su ogni testo presente in Parlamento ci sono già valanghe di emendamenti presentati soprattutto dall’ex ministro e ora deputato di Azione, Enrico Costa. A rendere il clima più effervescente c’è anche l’annuncio di Matteo Salvini di voler promuovere ben otto referendum sulla giustizia con il Partito Radicale di Maurizio Turco. Per i Radicali si tratta di un secondo tempo rispetto ai referendum già proposti, vinti e disattesi. Per Salvini l’occasione per una battaglia anche contro la legge Severino che potrebbe creargli qualche grattacapo. Il rischio è però di trasformare i quesiti sulla giustizia in un referendum su Salvini e di fermare le riforme necessarie ed inserite nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. “Devo essere molto chiara, senza riforme della giustizia niente fondi del Recovery”, ha sottolineato qualche giorno al Guardasigilli Cartabia in un’intervista a La Stampa. Le tre riforme che la ministra intende portare a compimento valgono 2,3 miliardi del Pnrr e il referendum rischia di rallentare l’iter legislativo. “Mi sembra un’iniziativa interessante”, ha sostenuto ieri non a caso la leader di FdI Giorgia Meloni secondo la quale “la riforma della giustizia è un tema che non può essere rimandato, e che non deve essere affrontato su un piano ideologico o come uno scontro tra politica e magistratura”. Più conciliazione e giudici di pace: così cambia il processo civile di Liana Milella La Repubblica, 10 maggio 2021 Ci sarà anche un team di aiuto per preparare le udienze. La Guardasigilli: “Abitudini e mentalità da rivoluzionare”. C’è una gag, in vita Arenula. La riforma del processo civile, la più importante di tutte perché dovrà accorciare della metà i tempi del processo, è mediaticamente la “Cenerentola della giustizia”. Poco attraente per guadagnare le prime pagine. Troppo noiosa per scatenare gli scoop. Eppure è quella con cui il cittadino - dalle liti di condominio agli incidenti stradali - fa i conti tutti i giorni. È la prima che vedrà materializzarsi al Senato nelle prossime 48 ore le proposte di Marta Cartabia. La ministra punta a una fondamentale inversione di tendenza: “Bisogna rivoluzionare abitudini e mentalità, e ognuno deve fare la sua parte. Con l’obiettivo di accelerare i tempi e ridurre l’arretrato”. Degli esempi? “Alla prima udienza avvocati e magistrati dovranno arrivare avendo già studiato fino in fondo il caso, nessuna improvvisazione”. Lo spirito degli emendamenti è questo: “Favorire il più possibile la conciliazione prima e durante il processo per evitare di intasare i tribunali”. Lo strumento? La mediazione per evitare la sorpresa di una decisione processuale. Un esempio? Se il giudice punta alla mediazione in una lite di condominio l’effetto finale sarà meno traumatico per le parti. Le novità? Eccole. Innanzitutto “l’ufficio del processo”, un team in aiuto del giudice che farà tutto il lavoro preparatorio. In arrivo 16mila assunzioni. Un vero cambio di passo. Poi la previsione delle “spese giudiziali” quale deterrente per azioni temerarie o condotte dilatorie. Ancora: una magica sigla - Adr - che sta per Alternative Dispute Resolution. Arbitrato, mediazione, negoziazione assistita. Tutti gli strumenti per chiudere le controversie senza arrivare davanti al giudice. Cambia il rito civile. Senza riscrivere tutto il processo, s’incide sui punti di crisi. Ci sarà l’obbligo, pena sanzioni, di garantire atti chiari e sintetici. Nel primo grado si propone di estendere la competenza del giudice di pace per le controversie fino a 30mila euro rispetto alla soglia attuale di 5mila. L’obiettivo è ridurre il carico sui tribunali e le corti di appello. Il tema del giudizio e le prove connesse dovrà essere definito negli atti introduttivi. E nella fase conclusiva ci sarà un modello uniforme di decisione che semplificherà il lavoro del giudice. Anche qui, come nel penale, si va a una stretta per accedere all’appello mantenendo un filtro per i casi di manifesta infondatezza. Nasce il “rinvio pregiudiziale in Cassazione”, un istituto che consente a ogni giudice che si trovi di fronte una questione di diritto nuova, che presenta carattere “seriale”, di chiedere alla Suprema corte di enunciare un principio di diritto, e quindi alleggerire il futuro contenzioso. Come durante il Covid diventeranno la regola le udienze con collegamento da remoto, anche per assumere prove testimoniali per chi abita in una sede diversa da quella del tribunale. Sarà possibile anche sostituire alcune udienze con uno scambio di note scritte. Novità per il processo del lavoro. Negoziazione assistita nelle controversie. Per i licenziamenti, l’abrogazione del rito Fornero. Con la logica che, per il bene di tutti, azienda e lavoratore devono sapere il prima possibile la decisione del giudice sull’eventuale reintegro del lavoratore. Altrimenti l’azienda rischia di rimanere bloccata nel fare altre assunzioni e il lavoratore nel cercare un posto. Novità importanti per i procedimenti di famiglia, che “entrano” nella riforma per espressa volontà di Cartabia. Rispetto all’estrema frammentarietà dei riti di oggi, con ritardi, lungaggini e vuoti di tutela, parte un rito unitario per tutelare il minore coinvolto. La commissione presieduta dal civilista Francesco Paolo Luiso lancia un tribunale unificato “per le persone, per i minorenni e per le famiglie”. Una riforma vera per ridare credibilità alla magistratura di Riccardo Mazzoni Il Tempo, 10 maggio 2021 Quando esplose lo scandalo Palamara, il presidente Mattarella parlò senza giri di parole di “un quadro sconcertante di manovre per veicolare le nomine di importanti procure” e chiese di accelerare le riforme - a partire da quella del Csm - per restituire credibilità alla giustizia nel rispetto della Costituzione. Sono passati due anni, e il Parlamento ha approvato solo una controriforma, quella che ha abolito la prescrizione, l’ultima sbandata giustizialista che ha fatto a brandelli il giusto processo scritto a chiare lettere proprio nella Costituzione. Mentre la proposta dell’ex ministro Bonafede di introdurre il doppio turno per la scelta dei componenti togati del Csm non farebbe altro che aumentare il peso delle correnti che si vorrebbero depotenziare: un salto dalla padella nella brace. Il fatto è che l’ennesimo scandalo innescato dall’avvocato Amara, con tanto di logge segrete, veleni, dossieraggi, oltre a una nuova - e tardiva - guerra tra procure per accaparrarsi la titolarità dell’inchiesta rischia di far sprofondare l’intera magistratura in una vera e proprio crisi di sistema. Per cui una vera, radicale riforma della giustizia non dovrebbe essere più rinviabile. Anche perché una sua parte non marginale è contenuta nel Recovery Plan da cui dipendono i fondi europei. Ma è difficile, se non impossibile, che questo Parlamento a trazione grillina, nonostante l’indubbia autorevolezza della ministra Cartabia, riesca a mettere insieme i numeri per una svolta in senso garantiste che ristabilisca i confini tra i poteri dello Stato. In questi giorni, non a caso, è già sceso prepotentemente in campo l’apparato mediatico che ha alimentato il circo giacobino degli ultimi trent’anni, secondo il quale i pm hanno sempre ragione in nome della funzione redentrice del potere giudiziario nei confronti di una politica e di una società inclini sempre e comunque a delinquere. Per cui anche solo ipotizzare una minima riforma diventa un attentato all’indipendenza della magistratura, come se la sua credibilità - scesa ormai sotto ogni livello di guardia - dipendesse da subdole manovre esterne e non fosse stata invece compromessa da veleni intestini, faide di corrente e soprattutto da uno spregiudicato uso politico della giustizia dal partito onnipotente delle procure. Così, nel tentativo di oscurare la storia e la cronaca, si ribaltala realtà attribuendo al centrodestra che spinge per una commissione d’inchiesta la volontà di mettere il bavaglio al controllo di legalità che la magistratura deve esercitare nei confronti della politica. E uno scontro che va avanti dai tempi di Tangentopoli, e che ha lasciato sul terreno carriere distrutte, governi caduti e riabilitazioni tardive con un’unica costante: nessun magistrato ha mai pagato per i suoi errori. L’onorevole Costa di Azione è andato a spulciare le valutazioni di professionalità con esito positivo espresse dal Csm sul lavoro dei magistrati: 97,73% nel 2010, 98,40% nel 2011, 97,15% nel 2012, 98,18% nel 2013, 97,13% nel 2014, 99,56% ne12015, 99,30% nel 2016 e così via. Tutti promossi, insomma. Numeri che stridono con quelli degli errori giudiziari, peri quali nel solo 2020 l’Italia ha speso 46 milioni di euro, in gran parte per le ingiuste detenzioni, e dal 1992 al 2020 gli innocenti indennizzati sono stati quasi trentamila. E a pagare è sempre e solo lo Stato, mentre chi sbaglia continua indisturbato la sua carriera. E c’è un ultimo dato che rappresenta bene la deriva giustizialista in atto: nel 2015 le Camere Penali hanno analizzato 8000 articoli di 27 quotidiani su diversi casi giudiziari. Risultato: 62% colpevolisti, 3,2% innocentisti, 24% neutri; per i160% fonti Pm e polizia, 7% la difesa; per 1’80% nessuno spazio alla difesa. “Ora è peggio”, ha commentato Costa su Twitter. E Crosetto ha giustamente chiosato: “Se gli atti che escono dai tribunali fossero stati trattati tutti con la prudenza usata con la fantomatica Loggia Ungheria, non avremmo avuto un buon 10% delle prime pagine degli ultimi venti anni”. “Separazione delle carriere? Avere due Csm non risolve il problema” di Errico Novi Il Dubbio, 10 maggio 2021 La responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando: “La riforma della Giustizia si farà prima del Referendum”. Domani il vertice su processo penale e prescrizione convocato da Marta Cartabia domenica 9 maggio 2021. “Prima dell’apertura della sessione di bilancio dobbiamo approvare le riforme su penale e civile in entrambi i rami del Parlamento, altrimenti perdiamo i soldi del Recovery. E la riforma del Csm, anche alla luce del caso Amara e prima ancora del caso Palamara, non è rinviabile”. Alla vigilia del vertice su processo penale e prescrizione, convocato da Marta Cartabia per domani, la responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando fa il punto sulle riforme in un’intervista all’Huffington. E a proposito dell’iniziativa referendaria sulla Giustizia lanciata dal leader della Lega Matteo Salvini insieme ai Radicali fa sapere: “C’è una discussione in Parlamento, ci sarà un voto prima dell’estate e Salvini invece passeggia per le strade. Si deve fidare di più dei suoi parlamentari”. La prossima settimana sarà una settimana cruciale per le riforme in materia di giustizia. Il Governo presenterà i suoi emendamenti al ddl sul processo civile al Senato, mentre, in via Arenula, si inizierà a trarre le fila anche sulla riforma del processo penale: al ministero della Giustizia, infatti, domani si incontreranno i capigruppo di maggioranza in Commissione Giustizia della Camera, la ministra Cartabia e i tecnici della commissione, presieduta dal presidente emerito della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi, costituita proprio per esaminare le soluzioni possibili sui temi della giustizia penale, tra cui il tanto dibattuto “nodo” della prescrizione. Una riunione per fare il punto sulla base degli emendamenti - oltre 700 - presentati alla Camera dalle forze politiche al ddl Bonafede, e delle conclusioni del lavoro, che saranno illustrate in quella sede, della commissione ministeriale. Un confronto, dunque, che rappresenta il primo passo verso quella sintesi che, successivamente, sarà fatta dalla Guardasigilli per la presentazione dei suoi emendamenti alla riforma che era stata approvata dal governo Conte. Nel frattempo il leader della Lega Matteo Salvini torna a sottolineare che “sulla giustizia, se i partiti non troveranno un accordo in Parlamento su riforme necessarie e urgenti, saranno i cittadini a farlo, tramite referendum”. “La nostra linea è nelle proposte che presentiamo in Parlamento, i tempi del referendum sono lunghi, le riforme arriveranno prima”, garantisce invece Rossomando, bollando l’iniziativa di Salvini come “propaganda”. La responsabile dem presenta quindi le proposte del Pd su civile e penale e riforma del Csm. Su quest’ultimo punto, che non rientra nel pacchetto Recovery, il “Pd ha proposte chiare”, sottolinea Rossomando. “I magistrati - spiega - non devono giudicare sé stessi quindi proponiamo un’Alta Corte almeno per il giudizio d’appello sul disciplinare; competente per tutte le magistrature non solo per quella ordinaria ma anche amministrativa e contabile. Quello che possiamo invece portare subito nella riforma del Csm in discussione alla Camera riguarda innanzitutto lo stop alle nomine a pacchetto. Nomine che invece devono essere fatte in ordine cronologico e decise almeno due mesi prima della scadenza, perché la modifica della legge elettorale del Csm è solo uno degli aspetti e non il più rilevante e incisivo”. E la separazione delle carriere? “Personalmente non credo che avere due Csm al posto di uno risolva il tema della sovraesposizione delle procure, che esiste”, replica Rossomando. Se l’indagato diventa il “colpevole” e l’avvocato il suo “complice” di Giuseppe Belcastro Il Dubbio, 10 maggio 2021 Se il difensore è identificato col suo assistito, finisce per meritare anche lui la punizione. Tutelare il (presunto) reo è di per sé una colpa. Logico, no? È un circolo vizioso quello che, in parte, può spiegare la perniciosa identificazione tra l’Avvocato e l’assistito. E si basa, mi pare, su due pilastri: la necessità e la distorsione. La necessità.Nel sistema degli equilibri democratici disegnato dalla Costituzione, è necessario che il cittadino che delega potestà allo stato sia messo nella condizione di verificare se e come quella potestà venga esercitata. Non fa eccezione la giurisdizione. Però la verifica, un tempo affidata in larga parte alla presenza diretta nei luoghi della giustizia (le aule), durante la effettiva celebrazione di quell’esercizio (il processo), da parte di chi ne avesse interesse (il cittadino o il cronista), è invece oggi affidata ad una mediazione diffusa, quella dei mass media. La struttura del villaggio globale rende così istantanea la divulgazione di informazioni, sopravanzate dalla loro stessa velocità di trasmissione; insomma, non importa tanto ciò che si racconta, quanto il fatto che lo si racconti per primi. L’attenzione e il racconto puntano allora direttamente sulla prima cosa disponibile: le indagini, fase pre-processuale incondizionatamente governata dalla parte che accusa. Ma se chiediamo di un fatto a chi rispetto ad esso ha un preciso (e legittimo) interesse ne otterremo assai probabilmente una narrazione che a quell’interesse è consentanea. Un’imperfetta competenza tecnica del narratore sull’argomento fa, a volte, il resto del lavoro. Dunque, si comprende agevolmente perché la narrazione della vicenda giudiziaria focalizzata sull’indagine restituisca ineluttabilmente l’idea che ogni indagato sia in realtà un colpevole. E questo incomincia a lumeggiare il secondo pilastro di cui si diceva. La distorsione. Perché, se l’indagato è un colpevole, tutto ciò che segue cronologicamente all’indagine non serve più. Il processo, insomma, da luogo di effettivo esercizio della giurisdizione, diventa inutile orpello, buono nella migliore delle ipotesi a confermare quanto già si sapeva dall’inizio. Il controllo collettivo sull’esercizio della funzione, insomma, alimentato da una narrazione precoce, parziale e a volte di scarsa qualità, non solo perde il suo scopo, ma rischia persino di corrompere dall’interno la funzione stessa cui è rivolto. Ecco, proprio quando questo accade (ormai quasi sempre) l’Avvocato diventa il suo assistito e, quasi come lui, merita la punizione. In fondo è logico: difendere un colpevole è di per sé una colpa che al contempo qualifica chi la commette e fa perdere inutilmente alla collettività tempo e risorse. In questo humus virulento, che favorisce talvolta episodi di isteria collettiva, invettive e minacce, l’Avvocato non partecipa più della giurisdizione, ma ne ostacola prezzolatamente l’esercizio, frapponendo cavilli per salvare il criminale di cui è certamente compare. E allora alla gogna pure l’Avvocato perché, in fondo, come si fa a difendere gente così? È un circolo vizioso, si diceva, per rompere il quale basterebbe forse un poco di ragionevolezza, che però oggigiorno è merce assai rara. Se ne potrebbe prendere a prestito da tutti quelli che gli ingranaggi del processo hanno assaggiato sulle loro carni, scoprendo, quand’anche colpevoli, che l’Avvocato difende diritti e non delitti. O persino e forse meglio da coloro, nient’affatto pochi, che ne sono usciti indenni nel corpo, ma non sempre nello spirito: gli assolti, gli ingiustamente accusati. Tutti costoro sanno in maniera esperienziale cosa sia per davvero un’indagine, un processo e, prima ancora, il clamore che lo precede; e sanno pure quanto siano vacui i rimedi postumi approntanti dal sistema a questo circo, troppo spesso indegno. Ma essi sanno soprattutto che non sarebbero arrivati sull’altra riva del fosso senza un Avvocato, altro da sé, a garantire il rispetto dei loro diritti. L’Avvocato non è il suo assistito e ogni assistito ha respirato questa elementare verità che chi può dovrebbe spiegare incessantemente per tutte le ore di tutti i giorni. Non fosse altro che al fine di evitare che, per capirlo, si debba prima o poi tutti provarlo sulla nostra pelle. Violenza sulle donne, i dieci anni del trattato che è rimasto utopia di Maria Novella De Luca La Repubblica, 10 maggio 2021 La Convenzione di Istanbul, approvata l’11 maggio del 2011, in Italia non ha ancora prodotto i risultati sperati. Leggi dure contro i femminicidi ma pochi investimenti su prevenzione e pari opportunità. Manente: “La Cassazione ha applicato quei principi nella sentenza per Sara Di Pietrantonio”. Poco conosciuta, poco applicata. Disattesa. Eppure così potente da far paura. Alla Turchia ad esempio, che ha deciso di tornare indietro sui diritti delle donne tanto da voler stracciare quel trattato. Alla Polonia, che ha istituito una commissione per boicottarla. A quelle organizzazioni pro-life, semi segrete, transnazionali e integraliste come “Ordo Juris” o “Agenda Europa” che in nome di un ritorno “all’ordine naturale”, vagheggiano un mondo di donne unicamente fattrici di bambini e sottomesse. All’Italia stessa, perché nelle aule di giustizia è spesso ignorata, così come nei luoghi della politica che decidono stanziamenti, fondi, strategie. La Convenzione di Istanbul, primo trattato internazionale contro la violenza sulle donne, compie oggi 10 anni. Era stata firmata l’11 maggio del 2011 a Istanbul (ma la Turchia il 20 marzo scorso ha disconosciuto l’accordo) da 45 paesi, tra cui l’Italia, dove è stata ratificata nel 2013. Ottantuno articoli che affermano un principio semplice e rivoluzionario: la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani. È basata sul “genere” perché colpisce le donne in quando donne. È strutturale e non episodica, in quanto figlia di una cultura radicata di sopraffazione maschile. Un testo da cui dovrebbero discendere, in ogni paese che lo ha ratificato, leggi e politiche di prevenzione dei femminicidi, dei maltrattamenti, delle disuguaglianze di genere. “Dieci anni dopo, però, dobbiamo dire che in Italia buona parte della convenzione è ancora da attuare”, afferma con rammarico Valeria Valente, presidente della commissione d’inchiesta sul femminicidio del Senato. “Delle quattro P attraverso le quali si dovrebbero attuare i principi di Istanbul, prevenzione, protezione e sostegno delle vittime, perseguimento dei colpevoli e politiche integrate, l’unico vero passo in avanti fatto dal nostro paese è quello della “P” di punizione. Dalla ratifica in poi abbiamo infatti scritto e approvato una serie di leggi fondamentali dal decreto-femminicidio del 2013 al Codice Rosso”. Leggi dure, efficaci, almeno sulla carta, ma non abbastanza dissuasive, visto che dall’inizio dell’anno in Italia sono state già 38 le donne assassinate da mariti, compagni, amanti, ex. Per questo, spiega Valente, dalla commissione sul femminicidio è partita un’indagine proprio sulla applicazione della convenzione. “Protezione: abbiamo una buona rete di centri antiviolenza che lavorano però in condizioni drammatiche, i fondi arrivano con il contagocce, mai sicuri, sempre in affanno. Restano del tutto disattese le ultime due P: la prevenzione e le politiche integrate. Invece è con la cultura che si combattono gli stereotipi che portano alla violenza, nelle scuole, con la raccolta dei dati, la specializzazione di chi entra in contatto con le vittime: giustizia, forze dell’ordine, medici”. Il punto di caduta è questo. La Giustizia. Nei tribunali di primo e secondo grado, denunciano i centri antiviolenza, la Convenzione di Istanbul non viene mai nemmeno citata dai giudici. Per mancanza di conoscenza, per una sottovalutazione del fenomeno. In particolare nella giustizia civile, dove spesso abusi e maltrattamenti vengono derubricati da magistrati, ancora figli di una cultura patriarcale, a conflitti familiari. E le donne subiscono drammatiche ingiustizie che si concretizzano in altrettante ingiuste sottrazioni di figli. Ci sono casi in cui invece, la Convenzione di Istanbul è stata recepita e applicata in sentenze esemplari. Ed è accaduto quasi sempre da parte della Cassazione. Il verdetto di condanna all’ergastolo di Vincenzo Paduano, ad esempio, vigilante che il 26 maggio del 2016 strangolò e dette fuoco alla sua ex fidanzata Sara Di Pietrantonio, che aveva 22 anni. Braccata nella notte mentre cercava di fuggire, Sara fu lasciata agonizzante per strada mentre Paduano tornò al suo lavoro come se niente fosse. Ricorda Teresa Manente, avvocata penalista, responsabile legale dell’associazione “Differenza donna” che in quel processo si era costituita parte civile: “Nell’argomentare la condanna all’ergastolo, confermando la corte d’appello, la Cassazione aveva citato non solo lo stalking, ma la radice culturale di quel femminicidio, esattamente come spiega la Convenzione di Istanbul. La sentenza afferma infatti che Paduano avrebbe agito per punire l’insubordinazione della ex fidanzata, da lui considerata di sua proprietà. Una volontà di dominio che nulla ha a che vedere con il sentimento. Una sentenza concettualmente straordinaria, anche se, purtroppo, rara”. Simona Lanzoni, vice presidente della Fondazione Pangea, fa parte del “Grevio”, il gruppo di controllo internazionale sull’applicazione della Convenzione. E conferma quanto scritto dal “Grevio” nel 2020 sul nostro paese: “Dieci anni dopo possiamo dire che l’Italia si è data un corpus di norme sempre più severe, ma questo non è sufficiente. Applicare la Convenzione vuol dire investire, con la stessa forza, nella protezione delle vittime, nelle strategie di pari opportunità, sulle radici culturali della violenza”. “Il dolore non si prescrive mai”. Anni di piombo, la voce delle vittime. di Concetto Vecchio La Repubblica, 10 maggio 2021 La figlia del giudice Galli: “Mio padre era solo, i suoi assassini no”. Il presidente della Camera: vanno superati i depistaggi. I familiari dei bersagli del terrorismo protagonisti alla giornata della Memoria insieme al presidente Mattarella. “Mio padre, Guido Galli, era giudice istruttore a Milano. Aveva appena portato a processo, in tempi brevissimi, Prima Linea, una delle più sanguinarie formazioni terroristiche degli anni di piombo, quando è stato ucciso, il 19 marzo 1980, mentre percorreva un corridoio dell’Università Statale. Andava ad insegnare i suoi studenti il valore della legalità. Lui era solo, ed aveva in mano il suo codice, l’arma delle istituzioni che rappresentava, in cui credeva. Tre invece erano i suoi assassini ed avevano armi potentissime per affrontarlo”. Carla Galli, giudice come il padre, ha ricordato così ieri al Senato la tragedia che colpì la sua famiglia. “Mi sono sempre chiesta: ma come hanno fatto quegli uomini a sottrarre un padre a cinque bambini?” disse anni fa la madre, di Carla, Bianca. “Quel maledetto giorno non era l’appuntato Casu che avrebbe dovuto accompagnare mio padre a casa: per un disguido l’autista di turno non era disponibile e lui, senza che nessuno lo chiedesse, si offrì spontaneamente per il servizio”, ha raccontato Mario Tuttobene, figlio del tenente colonnello Emanuele Tuttobene, ucciso dalle Br a Genova nel gennaio 1980, insieme al suo autista, l’appuntato Antonino Casu. Da queste testimonianze capisci che gli anni di piombo sono lontani ma anche terribilmente vicini. “Le cicatrici di queste ferite sono parte del nostro Dna collettivo. È un dolore che non si prescrive e che ci chiede oggi di proseguire con costante determinazione la strada per la verità e la trasparenza. Perché tante sono le pagine ancora da ricostruire e i silenzi fanno spesso più rumore delle bombe”, ha ricordato la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati durante la cerimonia della memoria per le vittime del terrorismo. La presidente ha citato le parole pronunciate dal capo dello Stato Sergio Mattarella nell’intervista al direttore di Repubblica, Maurizio Molinari: “Grazie al sacrificio e alla rettitudine di molti e grazie all’unità che il popolo italiano ha saputo esprimere in difesa dei propri valori”, il terrorismo è stato sconfitto”. Quest’anno la Giornata è caduta qualche giorno dopo l’arresto dei dieci terroristi che avevano trovato riparo in Francia grazie alla dottrina Mitterrand. Mattarella ha ricordato il dovere della memoria che quella stagione feroce c’impone. Memoria, ma anche verità. E quindi al nostro giornale ha formulato l’auspicio che i terroristi ancora latitanti - sono circa una ventina - vengano assicurati alla giustizia. “Grazie ad un’iniziativa condivisa con il presidente Fico - ha spiegato Casellati - abbiamo raggiunto un risultato storico: la rimozione del segreto funzionale dagli atti delle Commissione di inchiesta, che hanno lavorato sul terrorismo e sulle stragi. Si tratta di 32 filoni d’inchiesta, circa 7400 documenti e oltre centomila pagine consultabili nei quali è raccontata la storia costruita sulla paura e sulla strategia della tensione”. Casellati ha citato Sabina Rossa, figlia del sindacalista Guido Rossa, e Rosa Villecco, vedova dell’agente del Sismi, Nicola Calipari, “che hanno saputo costruire sul proprio dramma personale una battaglia di civiltà”. “Non può esserci piena riconciliazione senza piena giustizia. Le istituzioni devono continuare a cercare la verità sulle tante pagine ancora oscure di quegli anni, superando i depistaggi, le complicità, le omissioni posti in essere anche da parte dei settori deviati dello Stato”, ha detto il presidente della Camera, Roberto Fico. “Ricordare le vittime italiane del terrorismo è un dovere morale e civile per ogni cittadino della Repubblica”, ha detto Maurizio Molinari, che ha condotto la cerimonia insieme a Monica Maggioni. “È un dovere morale perché furono vittime di un odio efferato, ideologico, brutale, frutto del disprezzo di quanto abbiamo di più importante: il rispetto per la vita umana e per il prossimo, garantito dalla Costituzione repubblicana e sancito dalla dichiarazione universale sui diritti umani”. Il presidente Mattarella in mattinata aveva deposto una corona di fiori sotto la lapide di Aldo Moro, in via Caetani, quarantatré anni dopo l’uccisione dello statista dc. “Il terrorismo si sconfigge con la forza della democrazia” ha twittato il leader del Pd, Enrico Letta. “Le parole di Mattarella ci ricordano la verità”, ha spiegato il sottosegretario alla Difesa, Giorgio Mulé. Sui latitanti che ancora sfuggono è intervenuto Giovanni Bachelet, il figlio di Vittorio, il vice del Csm ucciso dalle Br nel febbraio del 1980 alla Sapienza. “Sono pochi gli eversori ancora vivi, sconosciuti e a piede libero. Forse, oppressi dal rimorso, usciranno allo scoperto, fornendo gli ultimi tasselli del puzzle delle bombe e degli attentati degli anni 70 e 80”. Terrorismo, chi copre la zona grigia di Miguel Gotor La Repubblica, 10 maggio 2021 L’intervista al presidente della Repubblica Sergio Mattarella stabilisce un nesso tra la necessità che si faccia piena luce sui fatti accaduti con il ruolo svolto dall’area di contiguità nel sostenere la lotta armata. L’intervista che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha rilasciato al direttore di questo giornale è importante per almeno quattro motivi. Primo: arriva all’indomani dell’operazione parigina “Ombre rosse”, su cui il capo dello Stato ha investito personalmente, e che ha consentito di ribadire un principio cardine dello stato di diritto: chi ha commesso reati di sangue e si è sottratto all’esecuzione della pena fuggendo all’estero non è al di sopra della legge. Secondo: spiega che la lotta armata non è scaturita dal biennio studentesco e operaio del ‘68-’69, anzi quella scelta sciagurata, figlia del settarismo e del nichilismo ideologico successivo, è servita a soffocare la spinta sociale, partecipativa e libertaria di quei movimenti. Terzo: rivendica con un orgoglio non ancora sufficientemente penetrato nella società italiana, ma riconosciuto all’estero, che la democrazia repubblicana ha saputo resistere all’onda d’urto della lotta armata, costituendo un precoce e virtuoso esempio di democrazia che è riuscita a vincere una guerra asimmetrica come quella contro il terrorismo, in cui elementi autoctoni e fattori spontanei si intrecciano con una dimensione internazionale. Quarto e ultimo, ma non per importanza: stabilisce un nesso tra la perdurante necessità che si faccia piena luce sui fatti accaduti - solennemente definita “un’esigenza fondamentale per la Repubblica” - con una questione centrale del suo intervento, ossia il ruolo svolto dall’area di contiguità nel sostenere la lotta armata. Si tratta di un elemento chiave del discorso - non si dimentichi che il nostro presidente è il fratello di Piersanti Mattarella, vittima nel 1980 di quello che il magistrato Loris D’Ambrosio ha acutamente definito “non un omicidio di mafia, ma di politica mafiosa” - che già Oscar Luigi Scalfaro ebbe modo di sollevare in anni ormai lontani. Sul piano storico quest’ultimo aspetto è centrale per due ragioni. Purtroppo, nel dibattito pubblico sugli anni Settanta, il concetto di area di contiguità è ancora utilizzato troppe volte in modo rancoroso, ricattatorio, insinuante, vendicativo, senza compiere lo sforzo necessario di calarsi nel clima del tempo per cercare di comprenderlo. Una cultura pubblica di un Paese che si interroga così sul suo passato in realtà non desidera elaborare la memoria di ciò che è stato perché teme il bisturi di un giudizio storico su quel periodo. Ad esempio, non vuole riconoscere l’atmosfera di paura, il primo effetto di ogni azione terroristica, che costrinse tanti alla viltà, ma neppure il clima di complicità generazionale che indusse molti a far finta di nulla, a essere reticenti o addirittura solidali con chi praticava la lotta armata. Inoltre, l’area di contiguità è anche una zona di infiltrazione degli apparati investigativi in quanto costituisce l’anello debole, incerto, ambiguo e scivoloso che consente però di entrare in comunicazione con il nemico. Per questo motivo è una lingua di terra insidiosa che deve comunque essere presidiata: è utile se si vuole portare la guerra, ma anche per firmare la pace. Non deve quindi sorprendere che proprio in quest’ambito compaiano i segnali più visibili di una doppia attività di raccolta di informazioni e di infiltrazione a opera dei servizi segreti nazionali ed esteri che non sono di facile né rapida ricostruzione. La stessa memoria dei testimoni muta con lo scorrere della loro vita, rispondendo alle più diverse e cangianti motivazioni consce e inconsce. Il passato è una scimmia che ci portiamo, volenti o nolenti, sulle spalle e può continuare a lambirci e a ricattarci con i suoi ricordi ed emozioni, imponendo omertose solidarietà e rapidi imbellettamenti della memoria. Per questo la dipendenza dalla memoria è necessaria, ma non basta, e serve la progressiva disintossicazione della storia. Milano. Con i vaccini il carcere deve tornare a vivere di Luisa Bove chiesadimilano.it, 10 maggio 2021 Gli istituti di pena sul territorio della diocesi tra riaperture e limiti. Parla Ileana Montagnini, responsabile dell’Area carcere e giustizia di Caritas. Vaccini, colloqui, lavoro, volontariato e altro ancora sono solo alcuni dei temi che stanno a cuore a Caritas ambrosiana in riferimento alla situazione dei sette istituti di pena sul territorio della Diocesi. Seppure a ritmi differenti la somministrazione dei vaccini anti-Covid, al personale penitenziario e ai detenuti, è iniziata, “sia nelle 5 Case circondariali sia nelle 2 di reclusione - dice Ileana Montagnini, responsabile dell’Area carcere e giustizia di Caritas - A Bollate e Opera la gestione è più semplice, mentre nelle case circondariali bisogna affrontare i continui nuovi ingressi, quindi praticare anche gli isolamenti, però si procede”. Negli ultimi mesi la situazione in generale è migliorata? Il fatto che la casa circondariale di San Vittore stia gradualmente riammettendo una serie di volontari e di operatori, pur con tutte le cautele dovute, è un buon segno. Così pure la richiesta di vaccinazione per i volontari stessi è stata accolta e a fine aprile sono iniziate le prime dosi. Questo ci fa ben sperare che dopo l’estate, magari anche prima, potremo rientrare stabilmente con tutte le attività, dalla scuola ai vari servizi dei volontari. Questa è la speranza, ma anche l’accorato invito che facciamo alle direzioni di tutti gli istituti, perché risentono del deserto di attività della società civile, che invece è molto importante. Qualcuno è già rientrato? Oltre alle scuole, ho notizie delle cappellanie (non limitate ai soli cappellani) e di alcune attività culturali e progettuali. Per “Biblioteche in rete” a San Vittore sono rientrati solo due operatori, ma la nostra speranza è procedere più velocemente con gli ingressi. Siamo ancora in attesa di nuove disposizioni, però è chiaro che si è innescato un meccanismo diverso. Auspichiamo che rientri stabilmente anche l’anagrafe, altrimenti è un problema, il Comune e il garante si sono impegnati in questo. Insomma, occorre che ritorni a regime tutto ciò che consentiva le attività per rispondere alle necessità. I colloqui con i familiari, che erano stati interrotti e l’anno scorso sono stati la causa di scontri e rivolte interne, sono ripresi? Stanno riprendendo quelli in presenza, ma non in tutti gli istituti; intanto continuano anche quelli con le tecnologie. È importantissimo che le acquisizioni introdotte a causa del Covid (skype, piattaforme, videochiamate…) rimangano anche dopo per garantire i colloqui a distanza. Penso ai colloqui con l’estero, ma anche in zone d’Italia dove i familiari sono molto lontani. Ci auguriamo che anche la scuola sia svolta in modo misto (presenza e distanza), perché le tecnologie hanno grandi potenzialità e possono essere utilizzate in parallelo. E poi viaggiare costa… Esatto. Prima del Covid i parenti viaggiavano con oneri personali o appoggiandosi alle associazioni che offrono accoglienza, ma di fatto si sobbarcano i costi di spostamenti e pernottamenti, per questo la tecnologia diventa essenziale. Noi sappiamo che coltivare gli affetti familiari è la prima prevenzione al suicidio in carcere. Ha fatto scalpore la notizia dei cellulari nelle celle, ma non bisogna pensare subito alla criminalità organizzata, perché in moltissimi casi le telefonate che partivano dagli istituti erano agli stretti familiari (moglie, mamma, figli). Questo è un bisogno che non può essere ignorato, è un diritto per tutti. Non dimentichiamo che i familiari non sono rei, ma spesso vittime secondarie. Le celle sono ancora chiuse durante il giorno per ridurre i rischi di contagio? Sappiamo che là dove è possibile c’è una riapertura, anche se non in tutti i reparti. Non abbiamo notizie precise, però non ci devono essere scuse: la sorveglianza dinamica deve tornare. Così come devono tornare a circolare i volontari e gli operatori dall’esterno. L’emergenza sanitaria è un motivo sufficiente per stare attenti, ma non bisogna cadere negli automatismi, per questo occorre vigilare. Altre questioni aperte? Siamo preoccupati per l’interruzione dei tirocini e dei corsi di formazione che speriamo possano riprendere. La crisi generata dalla pandemia colpisce le fasce più fragili, incluse le famiglie delle persone detenute e coloro che escono a fine pena o alle misure alternative. La mancanza di tirocini, formazione e lavoro inevitabilmente genererà sacche di povertà ancora più vaste. In questi giorni stanno però partendo i nuovi progetti finanziati dal Fondo sociale europeo e siamo contenti. Tuttavia l’esigenza di casa e lavoro fuori dal carcere non può essere un progetto a tempo. Basta progetti, occorre attivare servizi stabili, perché uscire dal carcere e avere bisogno di una prospettiva non rappresenta l’emergenza, è la normalità. E difficile immaginare che dopo la detenzione una persona riesca a reinserirsi senza una spinta. Milano. “Col Covid è stata dura a Bollate, ora c’è attesa e speranza” di Luisa Bove chiesadimilano.it, 10 maggio 2021 Un clima di grande attesa nella Casa di reclusione, come testimonia il cappellano don Fabio Fossati. La Casa di reclusione di Bollate, alle porte di Milano, aperta solo nel 2000 oggi conta 1200 detenuti tra uomini e donne. Anche qui il Covid ha segnato profondamente la vita delle persone ristrette. “Adesso va abbastanza bene, il periodo più brutto è passato - ammette il cappellano don Fabio Fossati -, ma abbiamo vissuto mesi molto difficili, soprattutto prima di Natale, a novembre e dicembre. Adesso a Bollate c’è un clima di grande attesa e di grande speranza”. “Le attività scolastiche sono riprese, come pure i colloqui in presenza - spiega don Fossati - anche se rimangono restrizioni sotto i 12 anni e sopra i 65, e questo è un grande problema, perché vuol dire che i bambini piccoli e i genitori anziani non possono vedere i loro figli, se non online, attraverso whatsapp”. Anche il volontariato, seppure con lentezza, sta riprendendo. “Ieri abbiamo ricominciato gli incontri di catechesi - continua il cappellano -, però c’è ancora il vincolo di non tenere insieme detenuti di reparti diversi. Un limite rimasto imprescindibile”. Tra le associazioni del Terzo settore è rientrata per esempio la Sesta opera san Fedele, realtà che fa capo ai gesuiti e che svolge assistenza ai reclusi. La loro presenza è ancora ridotta, entra infatti una persona al giorno. “Noi con i volontari legati alla cappellania riprendiamo adesso - dice don Fossati - con qualche incontro anche nei piani. È una ripresa molto lenta, ma da quello che capisco, dal punto di vista della direzione le attività potranno tendenzialmente riprendere con una certa decisione solo dopo la seconda dose dei vaccini. Ora siamo ancora in una fase interlocutoria”. Intanto la polizia penitenziaria presente nell’istituto di Bollate è già stata vaccinata, come pure gli operatori impegnati nell’area sanitaria, anche la somministrazione ai detenuti si sta concludendo, mentre il cappellano è tuttora in attesa di vaccino. Il carcere di Bollate è noto per le tante attività lavorative che si svolgono all’interno, molte delle quali gestite da cooperative sociali. Per fortuna molte continuano, il call center, l’assemblaggio organizzato da Bee-4, il vivaio di Cascina Bollate e altro ancora. Poi ci sono i lavoranti esterni (come stabilisce l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario), che escono al mattino e tornano la sera. “Al momento escono tutti e quando rientrano non devono mescolarsi con gli altri - puntualizza il cappellano -, però sono tanti coloro che hanno perso il lavoro a causa del Covid”. Anche i detenuti che escono in permesso premio, quando rientrano devono rimanere separati. “Quelli che non hanno famiglia e venivano accolti nelle associazioni o i più poveri che uscivano solo per 12 ore sono tuttora bloccati. Chi può andare a casa ottiene permessi anche di cinque giorni. Per gli altri invece non ci sono possibilità, anch’io prima ospitavo e ora non più”. Poi ripete: “La situazione da noi è stata davvero difficile, abbiamo attraversato mesi molto duri, ora però è un buon momento e le prospettive sono discrete”. Firenze. I detenuti cucinano ogni sera per i senzatetto della città di Maurizio Costanzo La Nazione, 10 maggio 2021 Una bella catena di solidarietà, che vede impegnati in prima persona i detenuti nel preparare ogni sera il cibo per i senzatetto della città. Succede a Firenze, grazie alle attività sociali dell’istituto Madonnina del Grappa, la storica struttura religiosa, con sede nel capoluogo toscano, che si occupa di servizi di accoglienza. I pasti sono preparati dai reclusi in pena alternativa, seguiti in un percorso di reinserimento nella società anche attraverso importanti opere di volontariato come questa. Ogni sera vengono preparati oltre 30 porzioni di cibo per i senza dimora della città che vengono distribuiti dalla Protezione civile. Nello specifico, quattro detenuti che scontano una pena alternativa a Casa Caciolle, una villa del Settecento dove si trovano i reclusi in uscita da Sollicciano, si stanno impegnando quotidianamente a servizio del prossimo bisognoso, cucinando ogni sera in grandi quantità generi di prima necessità. Oltre trenta pasti al giorno nella cucina della struttura, con tanto di padelle e pentoloni, dove i reclusi si impegnano per aiutare chi si trova emarginato. “Ogni volta che cuciniamo per i senzatetto della città - racconta uno di loro - è come se fosse una terapia di redenzione che in qualche modo ci ricorda il nostro passato marginale e randagio, dove anche noi avremmo avuto bisogno di un pasto caldo”. Tutto è stato studiato nel dettaglio, per arrivare dalle cucine alle persone bisognose che vivono per strada. Accade ogni sera intorno alle 20, quando il cibo preparato dai detenuti viene prelevato dalla Protezione Civile, della Misericordia e dalla Croce Rossa, che poi portano immediatamente il cibo ai senza dimora che vivono all’addiaccio sul territorio fiorentino. “Pensare che attraverso il nostro lavoro di volontariato possiamo aiutare i più bisognosi per noi è come una rinascita” dicono all’unisono i reclusi che vivono a Casa Caciolle. Che poi aggiungono: “In questo periodo di pandemia e sofferenza collettiva, essere partecipi di questo movimento di solidarietà è altrettanto importante per noi”. Promotore del progetto, come detto, è la Madonnina del Grappa. Spiega il presidente don Vincenzo Russo:”I detenuti che escono dal carcere spesso si trovano in condizioni peggiori di quando sono entrati perché durante la permanenza in cella non sono stati realizzati progetti di recupero socio professionale. Noi, a Casa Caciolle - prosegue don Vincenzo Russo - ospitiamo i detenuti a fine pena che scontano pene alternative e li seguiamo in un percorso di reinserimento nella società anche attraverso opere di volontariato”. Voghera (Pv). Detenuti e bambini dell’asilo, collaborazione a distanza di Alessio Alfretti La Provincia Pavese, 10 maggio 2021 Un carcere e un asilo, binomio insolito che regala gradi sorprese. Da alcuni mesi la casa circondariale di Voghera ha avviato una collaborazione con la Fondazione Marzotto di Mortara, che ospita una casa di riposo, un centro diurno e una scuola d’infanzia. Proprio quest’ultima è protagonista dell’originale accoppiata che vede una collaborazione a distanza tra i detenuti che lavorano nella falegnameria del carcere e i bambini dell’asilo. I primi confezionano manufatti in legno, i secondi li completano. Il tutto è nato per caso con un piccolo gesto del carcere per la struttura mortarese e poi, grazie alla lungimiranza del direttore della casa circondariale, Stefania Mussio, e della dirigente scolastica, Anna Maria Pissi, l’insolita collaborazione è diventata un appuntamento fisso. “Le persone detenute addette alla falegnameria, P.C. e C.B., hanno creato una serie di oggetti in legno che i bambini della scuola materna hanno decorato e donato ai propri genitori, in occasione di speciali festività, quella del papà e della mamma, arricchiti da colorati Scooby Doo ai quali si è dedicata un’altra persona, S.F., particolarmente abile nel destreggiarsi tra fili di cotone. I falegnami hanno provveduto, poi, a realizzare alcune pedine della dama che i bimbi avevano perso e infine hanno curato la realizzazione degli alimenti in legno che poi i piccoli coloreranno ed utilizzeranno per giocare nelle loro cucine” raccontano i dirigenti. Un progetto che potrà beneficiare anche dell’aiuto del personale del Gruppo Mauro Saviola - Società Industria Truciolari (S.I.T.) che ha sede a Mortara e ha espresso la disponibilità a donare all’istituto penitenziario dei pannelli di legno da utilizzare per incrementare e sostenere l’attività artigianale del laboratorio. Il successo dell’iniziativa, che premia la voglia di fare degli ospiti della casa circondariale e dà sfogo alla creatività dei più piccoli sembra destinato a continuare. “Un incontro tra realtà molto diverse dove, tuttavia, gli aspetti educativi contribuiscono a favorire la crescita e il recupero di valori e pensieri positivi. Speriamo in una vivace collaborazione futura che possa nel tempo consolidarsi e arricchirsi di nuovi spunti creativi, certi che i bambini hanno sempre molto da insegnarci” spiega lo staff del carcere. Più soli con il Covid, crolla l’impegno in politica e volontariato di Ilvo Diamanti La Repubblica, 10 maggio 2021 Secondo l’Osservatorio sulla Sicurezza tutti i dati sulla partecipazione in attività “sociali” sono in calo a partire da inizio 2020 con la pandemia. Solo un italiano su dieci ha aderito a impegni di partito, uno su quattro alla vita associativa. Ridotte le iniziative di protesta sul territorio: hanno interessato solo il 20% dei cittadini. Tutti sperano che la pandemia finisca presto. Ma siamo consapevoli, al tempo stesso, che lascerà conseguenze profonde non solo sulla nostra salute e sul sistema sanitario. Ma sulla nostra vita. Personale e pubblica. Sulla realtà politica, sulla democrazia, come abbiamo già osservato. E sulla società. Perché la società è un tessuto di “relazioni inter-personali” e di “azioni personali”. Molti di noi, in tempi normali, dedicano una parte del loro tempo a iniziative ed esperienze di partecipazione. Di impegno civile, comunitario. Di espressione e ri-creazione. Si tratta di pratiche necessarie a costruire e ri-produrre la società. Perché “partecipare” significa “prendere parte”. Senza partecipazione non c’è società, ma solo una somma di individui. Racchiusi, talora: chiusi e perfino rin-chiusi, nel loro ambiente “privato”. Insieme ai familiari e a - pochi- amici. Per questo occorre prestare attenzione al declino della partecipazione. E, con velocità crescente, dall’inizio del 2020. Cioè, dall’avvento del Covid. I dati dell’Osservatorio sulla Sicurezza, curato da Demos per la Fondazione Unipolis, offrono un profilo chiaro - e inquietante - di questa tendenza. Tutte le principali forme di partecipazione appaiono in calo, soprattutto dopo il biennio elettorale 2018-19. Questo fenomeno, però, non riguarda solo - e soltanto - le iniziative “politiche”. Si allarga, invece, a tutti i settori. A partire dal volontariato. E coinvolgono le organizzazioni che operano in ambito culturale, sportivo e ricreativo. Le esperienze più “partecipate”, che accompagnano tutti i contesti. E tutte le età. Nell’ultimo anno e mezzo, cioè: dalla fine del 2019, la partecipazione è crollata. In ambito politico: risulta sparita. Infatti, “ammette” di averla praticata, anche una sola volta nel corso dell’anno, meno del 10% degli italiani (intervistati). Lo stesso orientamento emerge per le “manifestazioni pubbliche di protesta”. Ciò non significa che non vi siano più mobilitazioni. Di certo non mobilitano le “masse”. E per ottenere visibilità sui media e sui social, adottano azioni e “parole” appariscenti. Anche la partecipazione a iniziative collegate ai problemi locali e del territorio, nell’ultimo anno e mezzo, si è ridotta sensibilmente. Praticamente, dimezzata: da 38% al 20%. Com’è avvenuto nel “volontariato sociale”, che vede la partecipazione scendere dal 44% al 24%. Oggi, nel sondaggio dell’Osservatorio sulla Sicurezza di Demos-Fondazione Unipolis, quasi 6 italiani su 10 (il 57%) afferma di non aver partecipato ad alcuna attività pubblica e sociale. È una dinamica che appare particolarmente “dinamica”, in rapida accelerazione, negli ultimi mesi. Dunque, nel 2021. Una dinamica che rende più “statica” la società. Ovviamente, si tratta di un orientamento tutt’altro che in-giustificato e in-comprensibile. Al contrario. Visto che quasi 9 italiani su 10 (oggi: l’85%) si dicono (abbastanza o molto) preoccupati dalla diffusione del Covid. D’altronde, l’andamento del contagio e dei decessi resta molto elevato, come sottolineano i “bollettini” che si susseguono, ogni giorno. Senza sosta. Perché la paura non fa solo paura. Ma anche spettacolo. Comunque: ascolti elevati. Tuttavia, non possiamo sottovalutare il significato - ed effetti - di questa tendenza sul piano sociale. Perché la paura del Covid può indebolire e di erodere le basi stesse della società. Il sistema di relazioni fra le persone. L’impegno nella vita pubblica. I legami di solidarietà. Più semplicemente, i rapporti con gli altri. E “confonde” la nostra identità, che si forma con-vivendo, vivendo insieme, con-dividendo: valori, esperienze. Le stesse paure. Si tratta di un percorso insidioso per tutti, che procede in modo particolarmente veloce al crescere dell’età. Fra i più giovani gli indici di partecipazione sono calati, ma in misura molto ridotta rispetto agli adulti e agli anziani. I settori maggiormente colpiti dalla pandemia, fino a qualche mese fa. Prima che il Covid si diffondesse anche fra i giovani. Fra coloro che superano i 65 anni, la vita associativa e sociale appare “rarefatta”. Comprensibilmente, perché la prudenza si somma ai problemi e ai timori im-posti dall’età. Tuttavia, nella società italiana, demograficamente, la più “vecchia” in ambito europeo, il sondaggio di Demos-Fondazione Unipolis disegna una cornice “sicuramente in-sicura”. Racconta la storia di una società “ancorata al presente”. Anzi, “all’immediato”. Tratteggia, dunque, una “società senza storia”. Perché “il passato è passato e il futuro non si vede”. Così, viviamo, in un “tempo sospeso”. In una “società sospesa”. Per questo è importante osservare e contrastare l’impatto del Covid, sotto il profilo sanitario e della salute. Ma senza trascurare le conseguenze sulla vita pubblica. Sulle relazioni inter-personali. Per non ritrovarci, in un futuro (speriamo) prossimo, liberi dal Virus. Ma soli. Senza società. E senza futuro. La fretta di togliere i limiti con i rischi per la solidarietà di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 10 maggio 2021 In un ribaltamento di ruoli, la sinistra si batte per difendere le regole, la destra contro le restrizioni della libertà. La voce di tanta Italia di oggi è anche quella di una ragazza sui vent’anni, romana, intervistata per strada da “Dritto e Rovescio”, trasmissione orgogliosamente populista condotta su Rete 4 da Paolo Del Debbio. Dice la ragazza, testuale: “Comunque i giovani della mia età non muoiono di Covid. Neanche mio padre che ha 50 anni muore di Covid. No, dai, muoiono solo le persone anziane. Quello che penso io, arrivati a questo punto… Anche i miei nonni: tengo molto ai miei nonni, ma se devono morire, morissero, cioè”. Cioè. Una disinvoltura disumana, ma il tono è lieve, quasi allegro, senza neanche la finzione di un’ombra di pena per le vite dei nonni, dei vecchi, degli altri. Ci siamo fatti tre ondate, adesso basta, e se qualcuno, qualche altra migliaia di qualcuno, finirà intubato e poi al cimitero, amen. Mors tua, ma almeno vita mea, che ho tutto il diritto di tornare a godermela. E anche in fretta, possibilmente. Il sospetto è che il crudo sentimento di quella ragazza non sia una provocazione figlia dell’età, e neanche il pensiero di una minoranza irresponsabile e sfrontata. Al contrario, è forse la ribollente maggioranza nelle coscienze del Paese, calmierata dall’ipocrisia di non fare esplicito riferimento ai danni collaterali di un precipitoso liberi tutti. Questo siamo, questo siamo diventati, o lo eravamo già prima della pandemia, soltanto con un po’ più di pudore nel mostrarlo? La legge della giungla, spietata con i deboli, come bussola dell’Italia del dopo Covid? La revisione annunciata del coprifuoco tra una decina di giorni, con l’ipotesi di toglierlo del tutto, è il segnale atteso della fine di un tempo di sacrifici durissimi ma indispensabili. Ormai sembra deciso, si riapre, anche se dall’Istituto superiore della Sanità timidamente osservano che sì, tutte le curve calano, compresa quella dei decessi, ma specialmente quest’ultima è ancora in una fase iniziale. Tradotto: senza più barriere al contagio, altri anziani, altri nonni, altri fragili rischiano di non farcela. Ma il dado è tratto, o sta per esserlo, e politicamente è un’indiscutibile vittoria della destra, di governo (Salvini) e di lotta (Meloni), che ha impugnato il vessillo di questa battaglia, sventolando come il drappo davanti al toro: la promessa della cancellazione dei doveri come premio a un’Italia sfiancata e inferocita dal lungo obbligo di rispettarli. Sintetizzando brutalmente, la sinistra nasce per contrastare l’ordine costituito e le regole che lo governano, la destra per conservare il primo e le seconde. Durante la pandemia, il campo si è invertito, con la destra a premere per affrancare i popoli (in Italia e dovunque) dal giogo delle regole e delle restrizioni della libertà, compresa quella di infettare il prossimo, e la sinistra a resistere contro l’insofferenza crescente nel nome della prudenza civile. La strategia della destra non ha premiato durante la prima ondata, come insegna il caso Trump, la più ingombrante vittima politica del Covid. Ma adesso, in coda alla terza ondata e con la contraerea del vaccino in piena azione, fare leva sull’esasperazione generale e proporsi come ribelli alla “dittatura sanitaria” sta dando ottimi frutti. L’ultima prova è la Spagna, dove alle Regionali di Madrid ha appena trionfato Isabel Dìaz Ayuso, potenziale nuova leader del populismo iberico, che ha concentrato la campagna elettorale proprio su questo genere di promessa: ciao Covid, riprendiamoci la plaza. Anche noi stiamo per farlo. Piazze, spiagge, palestre, e presto anche stadi, discoteche, feste di matrimonio, battesimo, comunione, senza più orario di rientro né altra coercizione che non sia un fermo richiamo al buonsenso e alla cautela, per altro già sapendo che non avrà grande ascolto. L’altra sera, con la misura del blocco alle 22 ancora vigente, una cronista di questo giornale, Paola Caruso, fotografava la situazione a Milano con questo tweet: “Esco dalla redazione a mezzanotte e mi aspetto di non vedere nessuno in giro. Sbagliato: capannelli di ragazzi in Brera e a Porta Venezia davanti ai locali chiusi, uno sopra l’altro, senza mascherina”. E alle Colonne di San Lorenzo (assembramento da mille persone) hanno preso a bottigliate la Polizia colpevole di aver rotto le scatole a chi voleva soltanto bersi qualcosa fuori orario. Cioè. L’indice RT, cioè quanti infettati da un solo positivo, è in bilico, appena sotto l’1 per cento di salvaguardia? Nessun problema: le Regioni hanno già chiesto di abolirlo come metro per l’assegnazione dei colori. Se ne adotterà presto un altro, l’importante è chiudere quanto prima con questa non più sopportabile e asfissiante stagione. Al di là delle infinite ragioni di macro e micro economia, oltre alla urgente necessità di recuperare il tempo perduto per il Paese e per ogni cittadino che ne fa parte, si è ormai sollevata un’onda emotiva non più gestibile, che la destra ha cavalcato e che la sinistra, in ordine sparso (qualche presidente di Regione del Pd si era già portato avanti per tempo), si trova adesso a dover inseguire. Resterebbe, alle forze progressiste, il compito di circoscrivere i possibili effetti derivanti dall’avere preteso di abolire la pandemia per manifesta intolleranza popolare. E magari, oltre a insistere sui diritti civili annunciati e al momento incagliati o già archiviati (dalla legge Zan allo ius soli), allargare il campo a un dovere che dovrebbe essere proprio di ogni democrazia degna di questo nome: pretendere che l’Europa cominci a fare qualcosa, oltre che per sé stessa, anche per i Paesi poveri, ai quali servirebbero almeno 2 miliardi di dosi di vaccini, con un investimento intorno ai 30 miliardi di dollari. Tutti i leader occidentali, a cominciare dal nostro premier Draghi, ripetono e ribadiscono che è un imperativo morale ma finora siamo rimasti nel terreno sterile degli annunci. Non si tratta di essere più o meno solidali. È una questione di lungimiranza e anche di minima memoria: l’apocalisse con cui tutti ci stiamo misurando è cominciata in una lontana provincia cinese. Una catastrofe umanitaria in Africa, come quella che sta devastando l’India, finirebbe, finirà per ripercuotersi anche su quella parte di mondo che sta cominciando a mettersi in salvo. Lo scontro sui brevetti con le multinazionali del farmaco, che hanno ricevuto enormi finanziamenti pubblici per arrivare ai rispettivi vaccini, dovrebbe includere anche questa emergenza ampiamente sottovalutata. Restituire qualcosa a chi ne ha più bisogno: ecco, battersi perché avvenga, sarebbe fare una cosa di sinistra. Un po’ come non accettare che i nonni, in quanto nonni, se devono morire, morissero. Cioè. A Lampedusa oltre 1.400 migranti. Salvini: ora basta, devo vedere Draghi di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 10 maggio 2021 Sbarchi record. Meloni attacca Lamorgese: “palesemente inadeguata”. Quando le motovedette della Capitaneria e della Guardia di Finanza si sono trovate ieri mattina davanti all’ennesimo barcone stracarico di migranti, 398 per la precisione, compresi 6 bambini e 24 donne, il viaggio di questo peschereccio fantasma era praticamente concluso. Intravisto solo a tre miglia da Lampedusa. Invisibile, nel Mediterraneo battuto da navi militari, mezzi e radar a sorvegliare il Canale in subbuglio dopo l’assalto armato dei libici ai pescatori di Mazara del Vallo. Le motovedette erano in battuta in una domenica ad alta tensione perché un’altra carretta (con 90 disperati e un neonato) e un gommone con 98 persone a bordo erano stati soccorsi poco prima. Come è accaduto altre 14 volte in un mare che sembrava olio, un sole estivo, senza vento, appunto il clima che ha trasformato la giornata domenicale in un assalto a Lampedusa. Con l’effetto che a tarda sera si contavano al Centro accoglienza di contrada Imbriacola 1.409 ospiti mentre la struttura potrebbe ospitarne al massimo 250. Quanto basta per innestare una durissima polemica politica con Matteo Salvini all’attacco: “È necessario un incontro col presidente Draghi, con milioni di italiani in difficoltà non possiamo pensare a migliaia di clandestini (già 12.000 sbarcati da inizio anno)”. E Giorgia Meloni ancora più dura, critica con la ministra Lamorgese, “palesemente inadeguata a fronteggiare quella che è una vera invasione”, decisa a insistere su un punto: “Con Fratelli d’Italia chiediamo il blocco navale. L’immigrazione clandestina va fermata. Vanno fermati gli scafisti e le Ong immigrazioniste che speculano sulle tragedie”. Tanti provano ad arginare la reazione degli esponenti di centrodestra, ma la voce più forte si leva proprio da Lampedusa dove il sindaco Totò Martello, tessera Pd in tasca, replica su tutto il fronte, assicurando che l’isola può reggere anche i 1.400 arrivati, ma che “certamente bisogna superare il silenzio imbarazzante del governo e del mio stesso partito”. Detto questo, bacchetta Salvini: “Ha perso il pelo ma non il vizio. È da irresponsabili ricominciare a fomentare odio sociale mettendo gli italiani contro i migranti”. E sulla Meloni, tranciante: “Il blocco navale è una sciocchezza talmente evidente da non meritare neppure commenti”. Le agenzie di stampa continuavano ad incrociare commenti e repliche fino a tarda sera mentre a Lampedusa, sotto i gazebo del molo Favarolo, i medici guidati dal responsabile del Poliambulatorio Francesco Cascio sottoponevano a controllo i migranti poi inviati per il tampone anti Covid al Centro, prima di essere divisi per gruppi, alcuni lasciati all’aperto per mancanza di spazi vitali. Non è facile fare convivere gli africani del Ghana, “neri neri”, come li definiscono tunisini e marocchini, con gli etiopi, con gli stessi egiziani. Diffidenze legate al colore della pelle, all’etnia, alla fede religiosa in un miscuglio di umanità che gli operatori del Centro faticano ad assecondare, assistendo a volte impotenti alla contesa per una branda, per un angolo coperto da una tettoia. Dicono che già oggi in 200 saranno trasferiti a Porto Empedocle e che in serata arriverà una nave quarantena da 800 posti. Secondo un copione antico, riproposto mentre i lampedusani da tre giorni sono impegnati in una campagna da 3 mila vaccinazioni per presentarsi ai turisti come isola Covid-free. United Roads of America. Il business della sofferenza di Emiliano Bos La Regione, 10 maggio 2021 Il re è nudo in New Jersey. La contea di Essex ha detto “basta”. Non lucreranno più sulla pelle di migranti e richiedenti asilo. Letteralmente. Sì, i democratici - al potere quasi da sempre in un paio di distretti alle porte di New York - sfruttavano gli immigrati. Un paradosso durato un sacco di anni nonostante proteste e denunce. Nessun traffico di esseri umani, of course. Ma un vero e proprio contratto per affittare al governo federale di Washington i posti letto non utilizzati nel proprio carcere per ospitare immigrati irregolari. E incassare denaro grazie ai soggiorni (spesso prolungati illecitamente) di chi viene imprigionato dopo l’arrivo qui in America senza documenti, in cerca di una vita migliore o in fuga dalla violenza. Victor Salama me ne aveva parlato un paio d’anni fa. L’avevo incontrato negli uffici con i poster colorati appesi alle pareti nella sede della First Friends of New Jersey, di cui era il direttore. Un edificio da far paura all’ora del crepuscolo invernale, a metà strada esatta tra la città-dormitorio di Newark e il West Side newyorchese. Lì accanto, la prigione subaffittata dalla contea come centro di detenzione gestito dall’ICE, l’agenzia federale per l’immigrazione e le dogane. Che negli anni di Trump è diventata il volto temibile delle politiche anti-immigratorie della sua amministrazione: famiglie separate, rimpatri forzati (pure con Obama a dire il vero), raid in aziende con manovalanza prevalentemente immigrata. Facile, per i democratici, denunciarne gli eccessi. Ma per anni, pure loro, in New Jersey, ne hanno approfittato. In senso etimologico: ne hanno tratto profitto. Soldi, destinati - va detto - ai bilanci pubblici. Dal pubblico al privato - Le denunce degli attivisti sono state rivolte spesso alle società private che macinano guadagni sulla sofferenza altrui. Da anni i migranti irregolari vengono distribuiti in strutture sparpagliate da costa a costa, gestite in parte dal pubblico e per circa il 10% dai privati. In New Jersey le proteste di decine di associazioni per i diritti civili - in corso da tempo - si sono intensificate con la pandemia. Accuse documentate e sempre più insistenti di condizioni inaccettabili. Pochi giorni fa, il capo della contea di Essex, il democratico Joe Di Vincenzo, ha ceduto. Pur negando di aver subito pressioni, ha annunciato la fine del contratto con l’agenzia ICE entro il prossimo agosto. Ma “solo per motivi economici”, si è giustificato. I 165 immigrati lì detenuti verranno trasferiti altrove. La vecchia prigione verrà affittata a una contea vicina, che vi collocherà i propri carcerati. “Più conveniente” ha detto alla stampa locale il dirigente democratico. Business is business, anche nel burocratico commercio di posti-letto destinati ai vulnerabili. “Era un luogo orribile”, secondo l’ex detenuto Carlos Sierra, fuggito da Cuba e rimasto per oltre un anno nel centro di detenzione in New Jersey. Il Cacerolazo di Jeanette - Ma non accade solo da quelle parti. Succede anche a mezza America di distanza dalla costa orientale, in Colorado. Stavolta proteste non contro il pubblico, ma contro il privato. Alla periferia di Denver avevo visto un gruppo di donne picchiare duro col mestolo su pentole di metallo. Una marcia rumorosa per farsi sentire dalle famiglie rinchiuse all’interno del centro di detenzione di Aurora, appena fuori città. Un cacerolazo in salsa country, le marmitte riempite con gli stessi ingredienti delle latitudini sudamericane dove queste marce sono tradizione: indignazione e rabbia. A guidarle c’era Jeanette Vizguerra, minuta e cocciuta attivista, immigrata senza documenti dal Messico e diventata uno dei simboli della battaglia contro la deportazione. Si era rifugiata in una chiesa di Denver, ottenendo il rinvio del rimpatrio e della separazione dai suoi 4 figli. Nel 2017 la rivista Time l’aveva indicata tra le 100 personalità più influenti al mondo. La incontrai mentre teneva in mano l’immancabile megafono. Per scandire i nomi di chi è “là dentro”, un complesso carcerario del tutto simile ad anonimi capannoni di una zona industriale. “Là dentro” c’erano persone e famiglie non colpevoli di reati violenti. In alcuni casi, soltanto richiedenti asilo. “Sfruttati da una società privata finanziata dai soldi dei contribuenti”, mi aveva detto Jennifer Piper, dell’”American Friends Committee”, organizzazione impegnata per i diritti dei migranti. Stando alle testimonianze, aveva spiegato, “i migranti che si rifiutano di svolgere lavori come pulizia di bagni o spazi comuni vengono minacciati di finire in isolamento. Se invece accettano queste mansioni come volontari, ricevono solo qualche snack”. Secondo Jeanette Vizguerra, è il lavoro dei detenuti che permette a questa società di guadagnare, riducendo al minimo i costi del proprio personale. Il mercato degli usati - Sono usati e abusati questi detenuti. Pagano per il telefono, spesso la visita medica e a volte pure per la carta igienica. La prigione di Aurora - dove grida e battiti di pentola superavano il filo spinato - è gestita dalla GEO Group, una delle principali società del settore negli Stati Uniti. Ha in appalto quasi 75mila posti letto in una settantina di strutture simili in tutto il Paese. Nel 2020, la GEO Group ha incassato 2,3 miliardi di dollari, in lieve calo a causa della pandemia. I tentativi di ottenere informazioni dai diretti interessati - sulla retribuzione ai detenuti, sul personale, sulle condizioni all’interno del centro di detenzione in Colorado - andarono a vuoto già un paio d’anni prima. La GEO Group mi rimandò all’Agenzia ICE. Che ovviamente non è in grado di rispondere alle domande sui dettagli della ditta privata alla quale è affidato l’appalto. Questa società, come pure la Core Civic - principale appaltatrice privata di carceri in USA e firmataria di contratti con i democratici in New Jersey - avevano contribuito con 250mila dollari all’inaugurazione presidenziale di Trump. I loro profitti sono poi schizzati all’insù con la susseguente amministrazione. Quella attuale ha promesso di porre fine al lucroso business privato su detenuti in strutture carcerarie federali, comunque una piccola percentuale rispetto alle prigioni dei singoli Stati. Cambierà il clima con Biden alla Casa Bianca? Per ora i vertici democratici della contea di Hudson - vicini di casa di quelli di Essex, da cui siamo partiti - hanno invece appena sottoscritto un contratto decennale con il governo federale. Cioè con l’amministrazione Biden. Lì, davanti a New York, appalteranno a pagamento la loro prigione per altri dieci anni all’agenzia per gli immigrati. Ma forse, hanno detto pochi giorni fa questi democratici, faranno marcia indietro. Le donne afghane in ostaggio di Marta Serafini Corriere della Sera, 10 maggio 2021 Vent’anni fa il mondo si accorse di milioni di donne costrette in una prigione di stoffa. Il burqa azzurro, giallo, rosso divenne il simbolo dell’arretratezza dell’Afghanistan, ma anche una delle ragioni per giustificare l’intervento internazionale. La lotta al burqa garantì alla guerra la simpatia degli elettorati democratici. É logico prevedere che se i Talebani vincessero, le donne e i loro diritti sarebbero le prime vittime. Tanti sacrifici, anche italiani, per tornare alla casella di partenza? Ne valeva la pena? La condizione delle donne afghane è stata vittima di guerra o, come in questi ultimi 20 anni, medaglia da appuntarsi al petto. Un ritorno talebano potrebbe trasformarla in moneta di scambio. Prima dei talebani - Negli Anni 70, almeno l’80 per cento degli afghani viveva di ciò che coltivava senza sapere leggere o scrivere. Del rimanente, solo la metà era alfabetizzato. Le figlie dell’élite si fotografavano in minigonna davanti all’Università, ma il 99% dei matrimoni era combinato e la famiglia dello sposo “comprava” la ragazza. Nel 1978 il governo sotto l’influenza di Mosca fissò per legge il “prezzo della sposa” ad un valore simbolico. Il femminismo sovietico voleva liberare le donne afghane, ma fu un autogol perché, in assenza di pensioni, gli anziani erano a carico dei figli maschi e la “vendita delle figlie” era il contributo femminile alla vecchiaia dei genitori. I “combattenti della Guerra Santa”, mujaheddin, raccolsero consensi anche reclamando la libertà del “prezzo delle spose”. L’Afghanistan è in guerra dall’anno successivo il varo di quella legge. L’agricoltura abbandonata, il Paese desertificato e alla fame, con 8 milioni di profughi e 2 di morti, l’importante era sopravvivere, l’emancipazione femminile non la priorità. Con i talebani - Gli “studenti del Corano” pongono fine alla guerra civile tra i mujaheddin che avevano battuto i sovietici. Permettono di tornare ai campi, a mangiare. Con loro al governo dal 1996 l’educazione delle bambine doveva fermarsi agli 8 anni quando diventava proibito ogni contatto con maschi che non fossero parenti. Vietate anche le visite dei medici così la mortalità femminile si impennò. Le donne potevano comparire in pubblico solo coperte dal burqa e senza tacchi. Le scarpe non potevano essere bianche. La vita media delle donne scese a 40/42 anni contro i 48 degli uomini. Il reddito pro capite era di 0,47 dollari al giorno. In tutto il Paese c’erano 50mila automobili. Dopo i talebani - L’aspettativa di vita è salita a circa 60 anni. Tre milioni e mezzo di bambine sono iscritte a scuola, 100mila ragazze all’università. Il budget statale è lievitato grazie alle donazioni internazionali dai 27 milioni dell’era talebana a miliardi di dollari. Improvvisamente si sono potute fare moltissime cose. Eppure, ancora oggi, ci sono altre 3 milioni di bimbe fuori da scuola e solo un’adolescente su tre sa leggere e scrivere contro uno su due se maschio. Il 70% dei matrimoni è combinato (e pagato) e un parto su due avviene in casa. In un Paese con 30 milioni di abitanti solo 4mila donne hanno la patente. Dopo il ritiro Usa - Gli ultimi decreti firmati dallo scomparso mullah Omar (capo e fondatore del movimento) riconoscevano che “l’istruzione moderna è importante per l’Afghanistan” e che le “donne hanno diritto alla proprietà privata, all’eredità, all’educazione, alla salute, a scegliere il marito, alla sicurezza e a una buona vita”. Era il 2014. Il mullah senza un occhio non aveva cambiato idea, semplicemente non avrebbe potuto controllare aree del Paese senza l’aiuto di Ong che provvedessero a ospedali, scuole, strade creando consenso. Oggi un afghano su tre ha il telefonino. Gli stessi Talebani usano Twitter, apprezzano gli hotel di lusso e producono video patinati. Ci sono donne al tavolo delle trattative e i barbuti integralisti non se ne vanno. Dovessero governare, anche i talebani avrebbero bisogno di soldi stranieri. Nel 2001 venivano soprattutto da Pakistan e Al Qaeda interessati a un Afghanistan arretrato. Domani basterà seguire i dollari per capire che tipo di Paese vorrà il “donatore”. Le donne saranno ancora una volta in ostaggio del “grande gioco” sul Paese. (Andrea Nicastro) “La pace arriva dall’istruzione femminile” - “L’Afghanistan non vedrà mai pace senza che vengano assicurati i diritti delle donne, per primo quello all’istruzione”. Malalai Joya, attivista, nel lontano 2003 è stata eletta alla grande assemblea, la Loya Jirga. “L’attacco alla scuola è responsabilità di tutti: dei talebani, dell’Isis (che altro non sono i vecchi talebani che si sono riciclati), le potenze straniere che hanno occupato questo Paese senza fare nulla, del governo corrotto. Nessuno è innocente”, spiega. Oggi, dopo aver denunciato la corruzione del sistema ed essere stata allontanata dalla vita politica, è costretta a nascondersi. “In Afghanistan, il solo fatto di essere una donna ti rende un bersaglio”. Ma una speranza resta. Ed è rappresentata dalle persone. “Conosco un uomo che ogni giorno percorre 14 chilometri in moto per accompagnare le figlie a scuola”.