Carcere e missione riabilitativa: evidenze di un fallimento pubblico di Filippo Giordano* Avvenire, 9 luglio 2021 Gli accadimenti drammatici al Carcere di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile 2020 emersi nei giorni scorsi hanno riportato la questione carceraria sulle prime pagine dei giornali. Difficile non essere turbati da quelle immagini e sostenere tesi negazioniste su quegli episodi di violenza restituiteci in tutta la loro crudeltà dai video delle telecamere di sorveglianza. Eppure il rischio è che, superata l’emotività del momento, non si riesca a produrre politiche ed interventi in grado di generare cambiamenti, che il dibattito politico si areni come sempre sullo scontro tra chi vuole un carcere diverso e i difensori dello status quo. Il vero tema è che la pandemia ha palesato nella modalità più drammatica la crisi del nostro sistema penitenziario, già da diversi anni nota a tutti gli osservatori di questioni carcerarie e agli operatori stessi. Le rivolte nelle carceri della primavera del 2020 sono state la manifestazione di un disagio profondo che si è cercato di soffocare, sedare e ignorare per non dare agibilità politica a un dibattito serio sulla questione carcere. Per fare passi in avanti è necessario prendere atto che il Covid è stato una miccia innescata in un sistema già da anni sull’orlo di una crisi di nervi. Il tasso di sovraffollamento carcerario dal 2015 a fine 2019 è passato dal 105% al 120% (per poi essere riportato al 105% con gli interventi di alleggerimento durante il 2020). Nello stesso periodo sono cresciuti significativamente gli eventi critici. Dal 2016 al 2019 gli atti di autolesionismo sono aumentati del 31,9% e i tentati suicidi del 49,5%. Questi dati sono indice non solo di cattiva qualità delle condizioni di vita delle persone detenute, ma anche del peggioramento del contesto organizzativo in cui si trova a operare l’amministrazione penitenziaria nonché di un ambiente di lavoro difficile, tossico e carico di tensione. Dobbiamo senza ipocrisie ammettere che il carcere in Italia, per come è pensato e organizzato, non è un’istituzione in grado strutturalmente di perseguire il fine che gli viene affidato dalla nostra Costituzione. È un caso ormai conclamato di fallimento pubblico. Pur in assenza di dati consolidati sulla recidiva, altro vulnus da colmare al più presto, basta osservare alcune semplici cifre per capire che questa non è un’opinione. L’Italia (dati 2020 del Consiglio d’Europa) è il secondo Paese in Europa, dopo Malta, per percentuale di numero di operatori di Polizia penitenziaria (nelle statistiche internazionali custodial staff) presenti negli istituti di pena, l’84,3% sul totale degli operatori, con una media Ue del 61%. Dopo di noi la Turchia con l’82,1%. In Francia, per esempio, la percentuale è del 70,1, in Spagna del 63,8 per citare alcuni Stati simili a noi per caratteristiche di sistema. Questo si traduce in rapporto tra detenuti e polizia penitenziaria di 1,8 mentre tra detenuti e personale addetto alla rieducazione c’è un rapporto di 76 a 1. Non è solo un problema di quantità, ma anche di qualità dell’intervento e di competenze. In Paesi come Norvegia, Spagna e Germania la maggior parte dell’organico impiegato nell’attività di custodia non porta armi e viene formato attraverso corsi specializzati che toccano anche temi di psicologia e sociologia. Non solo. Oggi il carcere ha bisogno di professionalità in grado di gestire problemi di integrazione (più del 30% delle persone detenute sono straniere (in alcuni istituti si sfiora il 60%), di tossicodipendenza e di disagio psichico. È necessario incrementare la presenza di questo profilo di operatori e riconoscergli il dovuto spazio di azione. L’altra questione è: quante risorse e attenzione oggi l’amministrazione penitenziaria dedica all’attività rieducativa? I dati (fonte Antigone) ci dicono che nel 2020 il budget è stato di 6,8 milioni di euro a fronte di una spesa complessiva del Dap di circa 3 miliardi, in pratica 0,35 centesimi in media al giorno per detenuto. L’attività di rieducazione negli istituti dipende in prevalenza dall’iniziativa di volontari che apportano risorse, impegno e competenze al servizio della causa. Un attivismo lodevole e importante senza il quale le carceri sarebbero luoghi di mera detenzione, ma insufficiente e spesso non adeguato rispetto ai fabbisogni reali dei detenuti. Le criticità sono molteplici. I progetti coinvolgono pochi detenuti e non sono continui nel tempo poiché dipendenti da piccoli finanziamenti annuali da parte di enti locali e fondazioni. I volontari non ricevono alcun tipo di formazione e pochi sono gli attori che professionalmente si dedicano alla rieducazione dei detenuti. Inoltre, l’amministrazione penitenziaria abdica a un ruolo di governo di questi interventi, i cui esiti in termini di impatto non sono monitorati e quindi non conosciuti. Come riformare il sistema? I Paesi che hanno intrapreso percorsi di cambiamento hanno contrastato l’affollamento con misure alternative e combattuto la recidiva attraverso una maggiore apertura ai programmi riabilitativi, la socialità, il lavoro, l’istruzione e la responsabilità registrando miglioramenti nelle condizioni carcerarie e, conseguentemente, nel recupero dei detenuti. Gli esempi di Norvegia e Germania lo dimostrano. È importante sottolineare come questi Paesi siano passati attraverso importanti riforme giuridiche che hanno reso possibile un’organizzazione e un’allocazione delle risorse più funzionale alla missione riabilitativa del sistema. *Università Lumsa Non è un fenomeno isolato, non chiamateli “mele marce” di Valentina Stella Left, 9 luglio 2021 La mattanza di Santa Maria Capua Vetere ha radici profonde e rivela problemi strutturali nel sistema carcerario, dice il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. “Occorrono radicali interventi nella formazione della Polizia penitenziaria”. La ministra della Giustizia Marta Cartabia, in merito a quanto avvenuto nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020 a seguito di alcune rivolte nate dalla paura della diffusione del Covid dietro le sbarre, ha parlato di “tradimento della Costituzione” e di “un’offesa e un oltraggio alla dignità della persona dei detenuti e anche a quella divisa che ogni donna e ogni uomo della Polizia penitenziaria deve portare con onore”. 117 indagati, 52 persone raggiunte da misure cautelari, accusate a vario titolo di torture pluriaggravate, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico aggravato, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio. Tenendo fermo il principio di presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva, tuttavia fa orrore quanto scrive la Procura sammaritana: “Il personale di Polizia penitenziaria aveva formato un “corridoio umano” al cui interno erano costretti a transitare indistintamente tutti i detenuti dei singoli reparti, ai quali venivano inflitti un numero impressionante di calci, pugni, schiaffi alla nuca e violenti colpi di manganello”. A ricevere le prime segnalazioni delle violenze è stato il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, un faro sempre acceso nel buio delle prigioni. Garante, cosa ha provato appena ha visto il video pubblicato dal Domani in cui agenti della Polizia penitenziaria malmenavano moltissimi detenuti inermi e inginocchiati? La prima impressione è stata quella di uno sguardo al passato, del tipo “Siamo ancora qui”. Quelle immagini mi hanno ricordato Genova, Bolzaneto. Trovarsi a 20 anni di distanza dai fatti del GR del capoluogo ligure dinanzi a qualcosa che ricorda quei terribili giorni è particolarmente triste. Poi quelle immagini mostrano l’assenza di una qualunque catena di comando, una specie di branco che si getta contro altre persone. Anche l’utilizzo da parte di alcuni agenti penitenziari di affermazioni del tipo “abbattiamoli come vitelli” sanno di tifoserie da stadio da parte di gruppi di identità debole che si ritrovano in una falsa identità forte di tipo aggressivo. Inoltre quelle sequenze di violenza testimoniano un’operazione compiuta con la certezza dell’impunità, perché portata avanti nonostante le telecamere. Tutto ciò non è accettabile. L’altra riflessione è stata quella di interrogarmi su quali fossero le vittime. Ce ne sono di tre livelli: il primo livello di vittime è rappresentato dalle persone che hanno subito le violenze. Ed è paradossale perché talvolta quelle persone possono essere detenuti che hanno commesso reati gravissimi o hanno assunto nel carcere comportamenti aggressivi, ma nel momento in cui diventano oggetto di quelle violenze si trasformano indiscutibilmente in vittime. Il secondo gruppo di vittime è costituito proprio dal Corpo di Polizia penitenziaria e più in generale dall’Amministrazione penitenziaria, perché quelle azioni mostrate in quel video offendono la stragrande maggioranza di persone che lavora onestamente. Il terzo livello di vittime è - ahimè - questo Paese, in quanto quelle immagini gireranno, daranno l’idea che quello è il nostro livello di civiltà. Tutto ciò è abbastanza triste ma richiede una spinta forte di sradicamento di certi comportamenti e di certi contesti. Secondo lei si tratta di un episodio isolato o il problema è strutturale, anche dal punto di vista culturale, del custode verso i custoditi? Secondo me esiste il rischio che si tratti di un problema strutturale: l’impreparazione all’uso legittimo della forza nel rispetto delle persone e della loro dignità. Ciò non vuole dire che siamo in presenza di un fenomeno generalizzato ma neanche che sia isolato. In questo caso ci sono 117 indagati, sarebbe riduttivo parlare di qualche “mela marcia”. Ultimamente come Garante mi sono presentato come “persona offesa” in più procedimenti in cui si ipotizzano pestaggi, violenze e tortura contro i detenuti. Anche in questo caso distinguo queste situazioni in tre diversi livelli. Da un lato ci può essere quella violenza reattiva, sempre ingiustificata, nei confronti di un detenuto che ha insultato o provocato un agente che nel reagire dimentica di indossare la divisa. Poi c’è quel tipo di violenza, come accaduto a Torino e su cui la magistratura sta indagando, in cui si facevano una sorta di processi sommari per dare una aggiunta di punizione a coloro che rispondevano di reati particolarmente gravi e infamanti come quelli sessuali o su minori. A tale tipo di condotta non va assolutamente dato alcun segnale di impunità. In ultimo c’è il terzo livello di violenza che abbiamo riscontrato nel carcere sammaritano che viene descritto dai magistrati come “operazione punitiva”. Si tratta di modelli diversi che, se è vero che non rappresentano i 40mila agenti della Polizia penitenziaria, tuttavia necessitano di tre profonde riflessioni, a partire dalla formazione. Occorre infatti un radicale intervento sui percorsi formativi, iniziali e nel corso della carriera, che sappia estirpare quella cultura del branco che emerge troppo spesso e che si ritrova anche negli atti del provvedimento della Procura di Santa Maria Capua Vetere. Su quest’ultimo tema abbiamo da tempo condiviso la necessità di intervenire sulla formazione in incontri con i vertici di tutte le forze di Polizia. Lei è d’accordo sull’introduzione dei codici identificativi per riconoscere i singoli ufficiali di polizia? Sulla identificabilità delle persone che operano in situazioni complesse sono d’accordo dagli ultimi trent’anni. Avevo ribadito tale necessità proprio dopo i fatti del G8 di Genova, soprattutto per quegli agenti che operano nelle manifestazioni. In altri Paesi già è prevista e laddove non l’ho vista, nella mia esperienza internazionale, si trattava di Stati a democrazia più debole. In Italia dobbiamo sicuramente tornare a discuterne e cercare anche delle modalità attenuate per non far ricadere, ad esempio sul singolo, i risarcimenti civili. Possiamo immaginare che l’identificativo non sia della singola persona, ma dì una piccola unità di appartenenza. Possiamo essere d’accordo che siano identificati i caschi e non la persona. Insomma, possiamo trovare tutte le forme che, pur individuando la responsabilità penale, non espongano persone, spesso giovani, a forme risarcitorie personali. Non dobbiamo distruggere vite ma allo stesso tempo che le inchieste debbano essere archiviate perché non si è riusciti ad identificare le persone pur avendo degli elementi che ci dicono che una determinata operazione è avvenuta è un segno di arretratezza democratica molto forte. Secondo lei non sarebbe stato giusto trasferire in via cautelare gli agenti indagati? Sono dell’idea che la custodia cautelare debba essere una misura estrema. Mi sono dunque chiesto quali possano essere state le esigenze per disporre la carcerazione preventiva nei confronti di 8 agenti ad un anno e tre mesi dai fatti. Poi però quando mi sono accorto che le persone indagate in gran parte hanno continuato a lavorare sempre nel carcere di Santa Maria Capua Vetere mi sono chiesto: se fossero stati spostati ad altri istituti forse ora sarebbe venuta meno l’esigenza cautelare? Il leader della Lega Matteo Salvini la scorsa settimana si è recato presso il carcere campano e all’uscita dal colloquio con la direttrice ha risposto alle domande dei giornalisti. Ad una collega che gli ha chiesto se anche lui ritenesse quanto accaduto una “orribile mattanza” come scritto dal Gip, Salvini ha replicato: “La mattanza è stata la rivolta che c’è stata in questo e in altre carceri”. Lei che ne pensa? Ho letto anche una dichiarazione di Salvini molta ferma nei confronti di chi ha sbagliato. In merito alla sua domanda, non spetta né a me né al senatore Salvini stabilire qual è la mattanza. Questa valutazione spetta al giudice. Violenze in carcere, Giovanni Maria Flick: “L’informazione, snodo critico” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 9 luglio 2021 Il presidente emerito della Corte costituzionale: “Si riesce a trasformare in un conflitto politico una constatazione di tradimento della Costituzione”. “Ci si stupisce di questi fatti come fossero un caso eccezionale, mentre il meccanismo fa parte della quotidianità e della mentalità. Ci si indigna per tre giorni e poi ricomincia tutto daccapo, fino alla prossima volta”. L’ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, interviene sulle violenze ai danni di detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: “Giusto condannare ma ora c’è bisogno di agire per recuperare una fiducia nella giustizia perduta prima con le vicende elettorali e del Consiglio superiore della magistratura, e con quelle della correntocrazia e degli incarichi direttivi, ora con le vicende dell’organizzazione e dell’esecuzione della pena e con la tortura”. Agire in quale direzione? Il problema di fondo è che c’è un clima da superare completamente da parte di tutti quelli che a vario titolo, politici, magistrati, avvocati, burocrati in senso ampio, operatori dei media, sono coinvolti nella gestione della giustizia. La considerazione del detenuto come un “diverso senza diritti” deve essere modificata in tutti: dal livello base, il livello di chi esegue, salendo fino ai vertici, per arrivare al disinteresse della politica. Proprio in questi giorni ho in mano l’ordinanza di un tribunale di sorveglianza nella quale si dice che per il detenuto l’aver preso una laurea e un master (questa persona ha studiato in carcere) può diventare strumento per commettere altri reati e quindi motivo - non l’unico, per fortuna, - per non concedere la cosiddetta detenzione domiciliare facoltativa per motivi di salute. Un’interpretazione che annulla in un colpo solo le possibilità offerte dall’art 27 della Costituzione e il principio di dignità. È chiaro che qui c’è bisogno di una rieducazione profonda che non riguarda soltanto le ultime ruote del carro ma che riguarda tutti. Riguarda anche noi, che ci indigniamo davanti agli episodi di violenza, ma anche quando vediamo il detenuto che deve uscire per ragioni di salute, come è capitato recentemente durante il lockdown. Dove va cercata la causa dei comportamenti violenti? Il sovraffollamento incide pesantemente, insieme al clima di fortissima tensione che si continua a vivere nelle carceri e al fatto di avere messo da parte in malo modo i lavori della commissione organizzata dal ministro Orlando, la riforma Giostra del sistema penitenziario. Forse era troppo ampia, ma va ripresa anche alla luce di quanto accaduto nella gestione della pandemia, quando abbiamo sperimentato una contraddizione in termini: vietare il contatto tra chi è fuori, addirittura punendolo, e imporre invece la coabitazione coatta a chi è dentro. Le carceri affrontano ogni giorno una situazione di emergenza permanente nella quale il sovraffollamento continua a essere visto e gestito come un fenomeno di emergenza e non come un fenomeno strutturale. Un problema che è stato oggetto di disinteresse da parte della politica mentre, in un clima contraddittorio, si è continuato a limitare la libertà per rieducare la libertà. Ho sperato, come pochi altri, che la pandemia fosse l’occasione per una svolta molto forte sul carcere, ma non è avvenuto. E non parlo di amnistia ma di una svolta che dovrebbe essere epocale. Non possiamo pensare, nel 2021, di rieducare alla libertà, privando della libertà in un contesto che già priva tutti del contatto umano. Dove va cercata, invece, la responsabilità? C’è stato una sorta di tentativo più o meno dilagante di difesa dell’esistente. Quando il sottosegretario del governo precedente è andato a dire che tutto era regolare, quando il ministro ha spiegato che si trattava del ripristino della legalità, o la catena di informazioni era fasulla, disorganizzata o manchevole, oppure siamo di fronte a complicità o, quantomeno, disinteresse per chi ci sta davanti e/o superficialità. Occorre non dimenticare mai l’insegnamento fondamentale di una persona che ho avuto il privilegio di poter chiamare a lavorare con me al Dap, Alessandro Margara: “Dietro a ogni detenuto c’è una persona”. Ora la figura di Margara viene celebrata spesso, ma ricordo che al suo funerale eravamo in quattro o cinque amici ed estimatori, complice il mese di agosto. Oppure si ritiene sufficiente la condanna a parole, per quanto sentite. Penso alla dichiarazione del Comitato dei giudici di sorveglianza, impegnati in prima linea per la legalità nell’esecuzione della pena: “Esprime…, riafferma…, rappresenta…, riconosce…, evidenzia…, interpella…, sottolinea…, auspica…”; l’unica parola mancante è “agisce”. A tutti i livelli, dai più alti ai più bassi, il tema di cui si dibatte non riguarda tanto e solo le vessazioni e le torture ai detenuti, ma quanta colpa ha la parte politica che non le condanna a sufficienza e quanta la parte politica che le giustifica troppo: cioè, si riesce a manipolare e a trasformare in un conflitto politico tra parti quella che dovrebbe essere una constatazione obiettiva di tradimento della Costituzione in cui dovrebbero essere in gioco tutti, per domandarci se e quali responsabilità abbiamo. In diversi ambiti si difende la costruzione di nuove carceri come soluzione di tutti i mali. Qual è la sua posizione? Non prendo posizione ma leggo interventi che non condivido, anche se motivati da ragioni serie, e non invece soltanto da simpatie panpenalistiche e pancarcerarie troppo diffuse di recente in nome di una sicurezza illusoria. Il discorso dell’analisi economica per la costruzione di nuove carceri riporta a un tema più ampio: si continua a vedere la giustizia come un parametro di tipo prevalentemente se non esclusivamente economico. Anche adesso. Mentre, almeno di fronte a situazioni di questo genere, bisognerebbe portare in primo piano una responsabilità di sistema e vedere quali strumenti abbiamo a disposizione per correggerla. Apprezzo in modo particolare la sensibilità con cui il ministro della Giustizia ha saputo completare e arricchire sotto il profilo costituzionale e umano il richiamo del presidente del Consiglio al rapporto fra la giustizia e il Recovery fund, che altrimenti in prima battuta avrebbe potuto essere frainteso o interpretato riduttivamente. Quanto alla correzione, suggerisco tre parole: formazione, informazione e responsabilizzazione in tutte le sue forme, comprese la responsabilità penale e quella disciplinare. Di queste qual è lo snodo principale? L’informazione è lo snodo più preoccupante perché se i vertici, ai vari livelli, vengono a dire in Parlamento che “va tutto bene, è tutto tranquillo, abbiamo ripristinato la legalità” significa che o non sapevano nulla e allora c’è da dubitare della loro capacità di guardare all’interno della struttura, o, nel caso avessero saputo, allora il problema cambia perché diventa una forma di concorso. Quando si afferma “non sapevo”, le cose sono due: o l’informazione è bugiarda e io non me ne accorgo, ed è preoccupante, o l’informazione è fraudolenta, allora va colpito chi ha dato l’informazione. Ma questo non vale solo per il periodo del ministro precedente perché quattro mesi passati da allora sono tanti: per i giudici, per la politica, per la pubblica amministrazione. La costruzione di nuove carceri come rimedio ricalca la logica della giustizia solo come coefficiente essenziale per raggiungere i finanziamenti, per non doverli restituire, ignorando in prima battuta la pena e la sua esecuzione. Si pensa a come fare per non restituire i soldi all’Europa: invece la dignità che abbiamo distrutto, ai detenuti come la restituiamo? “C’erano le denunce, il ministero ha fatto finta di nulla” di Angela Stella Il Riformista, 9 luglio 2021 L’accusa del Garante Ciambriello: “Non ci sono alibi per aver lasciato gli agenti al proprio posto. I detenuti hanno raccontato di essere stati minacciati, ora trasferiscono loro a 600 km da casa. Insisto: serve un indulto”. Le indagini sull’orribile mattanza del 6 aprile 2020 avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sono nate grazie ad un esposto presentato due giorni dopo dal Garante regionale dei diritti dei detenuti Samuele Ciambriello, con cui facciamo il punto della situazione. Garante, ieri lei e gli altri Garanti territoriali avete avuto un incontro con Carmelo Cantone, nuovo Provveditore regionale della Campania, a sostituzione dell’indagato Antonio Fullone. Cosa vi siete detti? Abbiamo fatto diverse richieste, la principale delle quali reintegrare i 42 detenuti trasferiti dal carcere di Santa Maria Capua Vetere in istituti penitenziari di altre regioni, in alcuni casi lontani dalla Campania anche 600 km. Cantone ci ha confermato che sono stati trasferiti su richiesta della Procura ma noi gli abbiamo fatto notare che la Procura non ha detto di mandarli a centinaia di chilometri di distanza dalla loro famiglie, proprio adesso che sono ripresi i colloqui. Lui si è mostrato sensibile a quanto gli abbiamo partecipato e ha detto che provvederà al reintegro in tempi ragionevoli, previa valutazione delle condizioni di autotutela. Il problema è che per più di un anno la tutela verso i detenuti non c’è stata perché sono rimasti accanto ai loro presunti aguzzini… Questo l’ho fatto presente in tempi non sospetti insieme al Riformista e al Dubbio. Adesso dopo un anno di amnesie e rimozioni della politica arrivano tante dichiarazioni, polemiche diversive, tesi deliranti e ipocrite. Va fatta una premessa però. Prego… In questo ultimo anno e mezzo non dobbiamo scordarci che certi magistrati, certi altri giornalisti, certi politici sono andati in televisione a parlare del famoso ‘papello di Salerno’ con cui si sarebbe dato inizio alle rivolte in tutta Italia con la complicità della ‘ndrangheta. Una stupidaggine che ha distolto lo sguardo dal vero problema che stava investendo le carceri. Ci sono una mentalità contrappositiva e atteggiamenti aggressivi ritorsivi verso la popolazione detenuta. Francesco Basentini non è stato rimosso da capo del Dap perché dal Ministero hanno visto che era negligente o omissivo. Paradossalmente questo clima forcaiolo che le ho appena descritto lo ha dimissionato per colpa della sua benevolenza, perché avrebbe deciso di mandare a casa alcuni detenuti malavitosi durante l’emergenza Covid. Questo mi sorprende e mi indigna perché poi al suo posto l’ex Ministro Bonafede ha messo due pro antimafia. Questo denota la mancanza di una moderna, efficiente e costituzionale gestione dell’amministrazione penitenziaria. Siamo sicuri che gli attuali vertici del Dap sappiano infondere a chi lavora nelle carceri quella funzione rieducativa che deve avere la pena? In questo clima è toccato a noi garanti osservare, controllare, supportare, denunciare avendo un quadro generale delle carenze che feriscono gli istituti di pena. Tornando alla mia domanda: il 3 luglio 2020, il locale provveditore ha trasmesso al DAP l’elenco del personale del Corpo nei confronti del quale è stata data formale comunicazione dell’avvio di procedimento penale da parte della procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere. Eppure sono rimasti lì fino a pochi giorni fa… I fatti erano noti: l’8 aprile c’è la mia prima denuncia alla Procura per presunti maltrattamenti dopo aver ascoltato le conversazioni tra i detenuti e i familiari, il 9 aprile io stesso, autorizzato dalla direzione del carcere, faccio i colloqui telefonici con i detenuti in isolamento che mi cominciano a raccontare delle violenze subite. Il 9 sera, inoltre, il magistrato di sorveglianza Marco Puglia si recava nel reparto Danubio dove erano isolati i detenuti coinvolti. Lui ha visto da vicino. Nel giro di dieci, dodici giorni invio un altro esposto alla Procura con i nomi dei detenuti pronti a denunciare. A giugno sono arrivati gli avvisi di garanzia per 117 persone. Parallelamente la stampa denuncia quanto avvenuto. E al Ministero hanno fatto finta di nulla? C’è stata una omissione gravissima Esiste l’autotutela: tu Ministero li trasferisci altrove, mica gli togli il lavoro. Non ci sono alibi per averli lasciati lì accanto ai detenuti che pure mi hanno raccontato di essere stati minacciati se avessero denunciato, qualche agente ha fatto intendere che ci sarebbero stati suicidi di massa. Ma il Ministero dice che essendoci una indagine in corso non avrebbe potuto fare nulla, anche perché non conosceva i reati per cui erano indagati… Ma per piacere, è inaccettabile una tale giustificazione. Esistono questioni di opportunità, oltre a obblighi costituzionali inderogabili che non ammettono discriminazioni tra cittadini liberi e persone recluse: ma cosa credevano al ministero che quegli agenti fossero stati denunciati per corruzione o per mancata pulizia? Questo io contesto al Ministero e al Dap. Sono ridicoli! Ora trasferiscono per autotutela le persone che hanno denunciato: oltre il danno la beffa. Da una intervista a Basentini al L’altro Quotidiano e dalla ricostruzione del suo interrogatorio emerge che nella relazione che Fullone gli invia B 27 aprile non c’è traccia delle violenze ma che poi in una telefonata gli avrebbe detto che qualcuno quel 6 aprile aveva esagerato. Secondo lei, tallone, Basentini, Bonafede possibile che non sapessero nulla delle violenze? Non sono un indovino ma alcuni quotidiani come il Riformista già tre giorni dopo i terribili fatti avevano dato conto delle presunte violenze. Loro non hanno letto i giornali? Non si sono posti almeno il ragionevole dubbio sulla gravità di quello che poteva essere accaduto? Non si tratta della denuncia di un singolo cittadino ma di un episodio di massa. Vogliono giustificarsi dicendo che i giornali raccontano fandonie? Non posso credere che questa possa essere la ragione di una inerzia durata oltre un anno. Il Segretario del Sindacato di polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo, chiede a De Luca che lei venga rimosso… Il nostro ruolo è di terzietà e di garantire il benessere di tutta la comunità penitenziaria. Non rispondo a chi fa queste affermazioni solo per prendere qualche tessera in più per il sindacato. Voglio solo ricordare che non è De Luca che mi ha messo al mio posto ma il Consiglio regionale della Campania. Io andrò avanti avendo come faro il dettato costituzionale. Mi conceda una ultima osservazione ora il motto della polizia penitenziaria è “garantire la speranza è il nostro compito” ma per decine di anni è stato “vigilare per redimere”. Queste violenze hanno offeso l’intero corpo, che pure rappresenta la parte sana. Ma da subito occorre una seria riflessione del carcere che così com’è non va bene. E insisto nel riproporre, come ristoro, un indulto generalizzato di due anni per tutti i detenuti. La prima nota sulla mattanza: “I detenuti sono pieni di lividi” di Vincenzo Iurillo Il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2021 C’è una nota del 10 aprile 2020 del coordinatore dei magistrati di sorveglianza, Giuseppe Provitera, che forse è il primo atto ufficiale a mettere nero su bianco la mattanza dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, avvenuta il 6 aprile. Il magistrato riferì al provveditore campano alle carceri Antonio Fullone, al procuratore di Santa Maria Capua Vetere e al direttore del carcere, che all’esito di un’ispezione del collega Marco Puglia “veniva altresì constatato che alcuni dei detenuti (…) presentano vistose ecchimosi agli occhi e ad altre parti del corpo, che gli stessi riferivano essere state causate dall’aggressione della polizia penitenziaria”. Puglia - e non solo lui - era lì compulsato da alcune segnalazioni, e raccolse le proteste di otto reclusi del Reparto Nilo tra i 14 mandati in isolamento al Reparto Danubio perché indicati come quelli che avevano opposto particolare resistenza alle “perquisizioni”. Gli otto lamentavano di essere stati privati della biancheria da letto e della possibilità di lavarsi e tra loro c’era anche il povero Hakimi Lamine, l’algerino morto suicida all’incirca un mese dopo. Fullone ricevette via mail la nota il 14 aprile e chiese immediatamente alla direzione del carcere “di relazionare con urgenza sui motivi di tali mancanze e su quant’altro evidenziato nella mail”. Attenzione alle date, in questa vicenda sono fondamentali. Come ha affermato l’allora capo del Dap Francesco Basentini ai pm di Santa Maria Capua Vetere in un verbale pubblicato ieri sul Fatto, Fullone al telefono gli espresse il timore che forse qualcuno “doveva aver esagerato durante le operazioni di perquisizione del 6 aprile 2020”. Non indicò allora le fonti di questa preoccupazione, ma certo erano giunte anche a lui diverse segnalazioni informali, tali da rappresentare fin da subito una situazione con criticità. Segnalazioni che, nell’annotazione dei magistrati di sorveglianza del 10 aprile, trovano una prima conferma. Fullone, nella relazione di servizio al Dap datata 22 aprile 2020, pur non entrando nel merito della materia oggetto del procedimento in corso, fa riferimento alle “presunte violenze che si sarebbero consumate, pare di comprendere, durante la perquisizione straordinaria” e alla “refertazione sanitaria di un cospicuo numero di personale penitenziario” così come di diversi detenuti, che “restituisce un contesto di resistenze da parte di queste ultime alle operazioni”. A quel punto ci sono dei soggetti refertati, ma quali furono gli accertamenti che il provveditore e la direzione del carcere avevano fin lì assunto? E quando? Quale fu la documentazione prodotta a riguardo? A definire il quadro - scrive sempre Fullone nella relazione a Basentini - “non aiuta la frammentarietà delle comunicazioni della direzione, tanto che lo scrivente ha richiesto tutta la documentazione prodotta”. Lo stesso provveditore spiega che quella perquisizione si rese necessaria - sottolineandone a più riprese la paternità della scelta - oltre che per le rivolte del 9 marzo e del 5 aprile, dal particolare contesto di quel carcere. Caratterizzato da una “paralizzante debolezza da parte della governance dell’istituto”, con uno “scollamento tra direzione e comando (della polizia penitenziaria, ndr) che emerge nitidamente negli atti prodotti, spesso in modo frammentario. A volte è come se mancasse una assunzione di quelle che sono le inevitabili responsabilità di posizione. Censurabili sono anche i tempi di riscontro alle note”. I Garanti: “Annullare i trasferimenti dei detenuti di S. Maria Capua Vetere” di Adriana Pollice Il Manifesto, 9 luglio 2021 Incontro tra i garanti di Caserta, Napoli e della Campania con il provveditore. I reclusi del reparto Nilo, pestati il 6 aprile 2020, spostati a 600 chilometri da casa dopo le misure cautelari disposte dal gip per gli indagati. Incontro ieri tra il provveditore reggente dell’amministrazione penitenziaria Carmelo Cantone, subentrato ad Antonio Fullone (sospeso perché indagato) e il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, quello napoletano Pietro Ioia e la garante di Caserta Emanuela Belcuore. Al centro del colloquio soprattutto l’inchiesta sulla “perquisizione straordinaria” del 6 aprile 2020 al reparto Nilo del carcere di S. Maria Capua Vetere, quella che il gip ha descritto come “un’orribile mattanza” disponendo le misure cautelari per 52 indagati, i reati vanno da tortura a maltrattamenti, lesioni, falso e depistaggio. I garanti hanno messo sul tavolo la questione dei detenuti trasferiti dopo l’esplosione dell’inchiesta, la scorsa settimana. Per oltre un anno “maltrattanti e maltrattati sono stati nello stesso istituto”, hanno spiegato, in un clima difficile poiché i detenuti ai magistrati hanno raccontato delle percosse e hanno fatto mettere a verbale i nomi degli agenti che hanno riconosciuto. Da venerdì scorso, di notte, sono cominciati gli spostamenti fuori regione, fino a 600 chilometri di distanza. Per ora sono in 42 a essere finiti a Modena, Sollicciano, Civitavecchia, Rieti, Palermo, Palmi. La disposizione è arrivata su segnalazione della procura, ha spiegato Cantone. “Ma la procura - la replica di Ciambriello - non ha specificato che dovessero essere tradotti così distanti”. E Belcuore: “L’allontanamento danneggia le famiglie e rende difficile il rapporto con il difensore. Poi è strano che chi ha fatto domanda di trasferimento sia rimasto e proprio loro, solo ora, siano stati spostati”. Da Cantone l’impegno a verificare il rientro. Sono rimasti 15 mesi nello stesso carcere con gli indagati perché né il Dap né il provveditore campano hanno preso iniziative prima che arrivassero le misure cautelari. Eppure la notizia che qualcosa fosse successo è iniziata a circolare anche sulla stampa dopo i post sui social dei detenuti pestati, siamo all’8 aprile 2020. Lo stesso giorno Ciambriello fa un esposto in procura. Il magistrato di sorveglianza Marco Puglia il 9 fa un’ispezione, inoltra la relazione e, sulla base di quanto riscontrato, l’11 vengono sequestrate le telecamere. A giugno arrivano gli avvisi di garanzia. I pm negli atti raccontano il clima in carcere. Pasquale Colucci (comandante del nucleo traduzioni e piantonanti), Gaetano Manganelli (comandante della polizia penitenziaria), Anna Rita Costanzo (responsabile del Nilo) con altri ispettori e agenti sono accusati di “minacce gravi, azioni crudeli, degradanti e inumane, prolungatesi per circa 4 ore del giorno 6 aprile e nei giorni successivi”. Al detenuto Ciro Motti è stato riscontrato “un trauma policontusivo, principalmente localizzato al dorso, ai glutei, alla mano destra e al piede sinistro e un trauma psichico consistente in “disturbo da stress post-traumatico”. Il 6 aprile era nella cella 3, IV sezione del Nilo. Arrivano gli agenti e lo mettono faccia al muro, si deve spogliare per essere perquisito: flessioni con colpi inferti ai fianchi e la minaccia “mo’ ti mettiamo il manganello nel culo e ti facciamo uscire il telefono”. Lo portano nella sala socialità tra pugni, calci e schiaffi fino a farlo cadere al suolo. Nella stanza finisce ancora faccia al muro, in ginocchio. Il pestaggio è talmente forte da fatargli mancare l’aria. Nel ritorno in cella altre botte tra due file di agenti. Dopo il 6 il regime cambia: rasatura quotidiana della barba per tutti, inibite le videochiamate con i familiari o comunque il contatto con l’esterno. La conta si deve fare in piedi, le mani dietro la schiena, lo sguardo basso. Gli agenti commentano: “Chiusura per sempre e non possono fermarsi vicino a nessuna cella, solo passeggio, nessuno parla, solo grazie scusate e per favore, non vola una mosca. E chi non lo fa giù al gabbione”. Il 9 aprile, in occasione della conta, un agente trova Motti seduto a leggere la corrispondenza. Lo preleva e lo porta al piano terra, difronte all’infermeria. In quattro lo prendono a schiaffi e pugni. Il 17 aprile il medico del carcere riporta in cartella clinica “riferito trauma cranico da percosse”. Motti ha spiegato che i disturbi alla testa e alla vista sono una conseguenza delle aggressioni del 6 e 9. Dopo 2 o 3 giorni, due agenti lo invitano a modificare la versione resa: “Il verbale fatto dal medico non va bene - gli dicono -, perché non si capisce le lesioni da chi sono state fatte” e gli suggeriscono di dire che sono opera di altri detenuti. A dare manforte arrivano altri 10 poliziotti: “Farai una brutta carcerazione - aggiunge uno di loro - e ti cito per diffamazione perché non hai niente. Guarda che qui devi stare 3 anni”. Il 25 aprile nuova visita con un altro medico, che chiama il 118. Due agenti dirottano l’ambulanza verso un altro detenuto. Si ripete la minaccia: “Ti denunciamo per diffamazione se continui a sostenere di stare male”. La direttrice del carcere ha creduto al depistaggio di Federico Marconi e Nello Trocchia Il Domani, 9 luglio 2021 Aveva definito le nostre inchieste dello scorso autunno “articolacci”. Aveva parlato di olio bollente, spranghe, bastoni, presenti il giorno prima della “orribile mattanza” del 6 aprile all’interno del carcere. Aveva raccontato di un magistrato di sorveglianza, Marco Puglia, trattato malissimo dai detenuti contraddicendo le dichiarazioni rilasciate da lui stesso. Aveva detto che Lamine Hakimi, il giovane algerino morto abbandonato da tutti un mese dopo il pestaggio degli agenti di polizia penitenziaria, era morto perché voleva strafarsi. Insomma, aveva creduto appieno alla linea depistaggio. Parliamo della direttrice del carcere di Santa Maria Capua Vetere, Elisabetta Palmieri. Il suo nome non è presente tra quelli dei 117 indagati per le violenze e le torture che sarebbero state commesse a inizio aprile 2020 nel suo carcere: 52 persone sono state destinatarie di un’ordinanza di custodia cautelare, 77 sono state temporaneamente sospese dal servizio per disposizione del ministero di Giustizia. Dopo la diffusione dei video da parti di Domani, si era diffusa la notizia falsa che anche lei fosse presente il giorno dei pestaggi con un manganello tra i detenuti: non era vero, Palmieri non era in carcere. È tornata due mesi dopo. Nei giorni delle proteste dei detenuti per la paura dell’epidemia e della mattanza, così come nelle settimane successive, la direttrice Palmieri era assente per malattia. La reggenza dell’istituto di pena era nelle mani della vicedirettrice Maria Parenti, anche lei non indagata. La direzione del carcere infatti, come emerge dagli atti di indagine, era stata completamente scavalcata nella decisione di effettuare la “perquisizione straordinaria” da quelli che la procura considera i “registi” del pestaggio: il provveditore regionale delle carceri Antonio Fullone, il comandante del Nucleo operativo traduzioni e piantonamenti del carcere di Secondigliano Pasquale Colucci, il commissario della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere Gaetano Manganelli, e il commissario capo responsabile del reparto Nilo Anna Rita Costanzo. Anche se la direttrice Palmieri non ha nessuna responsabilità delle violenze e il suo nome non risulta tra quelli degli indagati, a inizio ottobre sembra aver creduto al depistaggio portato avanti dai “registi” della mattanza, con cui ha continuato a lavorare per mesi, quasi senza informarsi di ciò che era veramente avvenuto ai detenuti dell’istituto sotto il suo controllo. Durante una lunga telefonata con Domani dello scorso ottobre, per chiarire alcune questioni prima della pubblicazione delle nostre prime inchieste, la direttrice Palmieri aveva parlato di oggetti non consentiti, come olio bollente, spranghe, bastoni ricavati dai piedi dei tavolini, utilizzate dai detenuti il 5 aprile. Strumenti atti ad offendere che sarebbero stati ritrovati il 6 aprile, giorno della perquisizione, ma anche l’8, due giorni dopo. Questi oggetti però, secondo la pubblica accusa, sarebbero stati fabbricati e fotografati successivamente per giustificare le violenze: “Un atto deprecabile di depistaggio”. Il carcere in mano agli uomini in divisa - Palmieri dirige il carcere in provincia di Caserta dal dicembre del 2017. Nel corso degli anni, come ha potuto ricostruire Domani, alcuni detenuti hanno lamentato la sua scarsa presenza con loro. “Alcuni detenuti dell’alta sicurezza non l’avevano mai vista prima di un incontro di qualche mese fa”, racconta una fonte all’interno del mondo carcerario campano. “Ci sono tanti che la considerano una figura assente, hanno la sensazione che il carcere sia gestito dalle persone in divisa (la polizia penitenziaria, ndr) piuttosto che dai civili”. Domani ha contattato la direttrice Palmieri. Avremmo voluto sapere da lei in che modo è stata informata della “perquisizione straordinaria” del 6 aprile, se era stata aperta un’indagine conoscitiva su quei fatti, com’è stato lavorare per tanti mesi con le persone accusate delle violenze, come è stato possibile che un detenuto possa morire ingerendo un gran numero di pillole mentre era tenuto in isolamento nonostante i suoi problemi psicologici, perché ad ottobre sosteneva le tesi del depistaggio. Palmieri però, dopo aver voluto sentire solo la prima domanda, non ha voluto rispondere perché “non autorizzata a parlare, è necessaria un’autorizzazione del provveditore”. Gli interrogativi, dunque, rimangono. L’inchiesta sulla diffusione dei video - Lunedì 12 luglio il tribunale del riesame si esprimerà sulle misure cautelari, con la procura di Santa Maria Capua Vetere che ha chiesto l’inasprimento di alcuni provvedimenti. Ieri mattina, dopo l’interrogatorio di garanzia, uno degli agenti di Santa Maria Capua Vetere è stato scarcerato dopo l’interrogatorio di garanzia. Inizialmente arrestato e sottoposto ai domiciliari perché accusato di essere tra gli autori del pestaggio, l’agente ha fatto emergere che non era in servizio il 5 e il 6 aprile 2020 e che c’era stato un errore nell’identificazione, non era lui quello ripreso dai video. Intanto i magistrati campani hanno aperto un’inchiesta sulla diffusione dei video delle violenze avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020. L’apertura del fascicolo da parte dei pm avviene a 9 giorni di distanza della pubblicazione da parte di Domani delle immagini della “orribile mattanza”. Si apprende dalle agenzie che “in questa fase di indagine gli atti non possono essere divulgati”. Perché Cartabia non riferisce in Parlamento sui pestaggi? di Stefano Feltri Il Domani, 9 luglio 2021 Quasi ventimila persone hanno firmato una petizione lanciata da Domani tramite change.org che chiede, tra l’altro, una cosa molto semplice: che il ministro della Giustizia Marta Cartabia venga in parlamento a spiegare come è stata possibile la violenza di Stato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, quali lezioni ne ha tratto e cosa farà il governo per evitare che si ripeta. Spetta proprio a lei, perché gli agenti che si sono macchiati delle violenze rivelate dal nostro giornalista Nello Trocchia appartengono al corpo della polizia penitenziaria che risponde al ministero della Giustizia. Ministero che, durante il governo Conte 2, ha avallato la versione fornita dai responsabili del pestaggio anche se era già ampiamente noto, grazie agli articoli di Domani e non solo, che era fondata su bugie e parte di un tentativo di depistaggio dell’inchiesta giudiziaria. In questi giorni la ministra Cartabia ha sospeso gli agenti indagati che, incredibilmente, erano ancora in servizio nelle carceri a oltre un anno dal pestaggio. Poi ha fatto sapere a Repubblica di avere “un nodo alla gola” di fronte alle immagini (che pure noi avevamo cercato di farle vedere in anteprima, senza successo). Da un retroscena sempre di Repubblica apprendiamo poi che la ministra pensa che occorra “una riflessione sull’accaduto” che “bisogna capire come questi fatti siano potuti avvenire” e così via. Sappiamo anche che ha parlato col premier Mario Draghi. Benissimo, ma la notizia del pestaggio a Santa Maria noi l’abbiamo pubblicata il 28 settembre 2020, i 13 morti dopo la rivolta nel carcere di Modena risalgono a marzo 2020. Di quanto tempo pensa di aver bisogno la ministra Cartabia per farsi un’idea? Come pensa si sentano i 53mila detenuti nelle carceri italiane e i loro parenti a vedere una ministra della Giustizia che ha il tempo di confidare i suoi turbamenti a tutti i giornali ma non di intervenire in parlamento e fare un’analisi chiara e prendere impegni netti e precisi? In questi giorni è molto occupata a negoziare la contro-riforma della prescrizione, lo capiamo, ma se trovasse una mezz’ora per parlare di Santa Maria Capua Vetere in parlamento la credibilità vacillante del sistema giustizia ne trarrebbe un gran beneficio. Polizia penitenziaria, la catena di comando parte dai sindacati di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 luglio 2021 Inchiesta sull’universo delle rappresentanze. Stefano Anastasia: “Manca la consapevolezza di un ruolo che li rende differenti dalla polizia di Stato”. Gennarino De Fazio (Uilpa Pp): “Il nostro punto debole è che troppo spesso ci facciamo orientare dalla pancia del Corpo, da esigenze estemporanee e dalla campagna di tesseramento. Invece di avere uno sguardo ampio e lungo per migliorare le forze di polizia al servizio del Paese”. Santa Maria Capua Vetere è solo la punta di un iceberg? La domanda risuona da giorni, di nuovo, come ogni volta che, forza maggiore, siamo costretti ad aprire gli occhi su quel mondo separato e apparentemente lontano da noi che è l’universo carcerario. Dal 5 luglio 2017, quando il reato venne introdotto nel nostro codice penale, sono molti i procedimenti per tortura attualmente aperti in Italia: San Gimignano, Ferrara, Firenze, Torino, Palermo, Milano Opera, Melfi e Pavia, secondo l’associazione Antigone. Ogni volta che le cronache ricalcano “non solo la definizione giuridica ma anche quella letteraria e cinematografica di tortura”, per usare le parola del pm di Santa Maria, assistiamo allo stesso rituale: da un lato i processi mediatici, dall’altro i sindacati di polizia penitenziaria che si chiudono a riccio a difesa quasi incondizionata della “purezza” del corpo, rifiutando persino a volte di ammettere ciò che è ormai sotto gli occhi di tutti. Un universo nell’universo carcerario, quello delle sigle sindacali degli agenti penitenziari (almeno una ventina), all’interno del quale si fa fatica a distinguere destra o sinistra, ispirazioni, programmi, orientamenti politici. Sembrano tutti uguali, ma non lo sono. Solitamente però, e forse non a caso, ogni agente è iscritto a più sindacati contemporaneamente. Le sigle ammesse alla contrattazione nazionale dal ministero della Pubblica amministrazione (quelle che hanno una rappresentatività non inferiore al 5% del dato associativo complessivo) sono il Sappe con 8 distacchi sindacali, l’Osapp e la Uilpa con 5, il Sinappe con 4 sindacalisti a tempo pieno, l’Uspp e la Cisl Fns con 3, la Cgil Fp/pp e la Fsa Cnpp con due distacchi. Ma l’altro giorno ad essere convocati dalla ministra Cartabia erano in 24, perché nell’universo detentivo hanno un peso, seppur minore, anche i medici e gli operatori socio-sanitari. E naturalmente i dirigenti, che nell’amministrazione penitenziaria rappresentano una selva a sé stante: “Solitamente ai vertici del Dap siedono persone provenienti da altre dirigenze, spesso in conflitto con la dirigenza della polizia penitenziaria - riflette Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Pp che conta 4600 agenti iscritti -. Proprio riguardo i fatti di S.M. Capua Vetere abbiamo fatto presente che nell’amministrazione penitenziaria ci sono sei dirigenze, con cinque carriere diverse, con regimi e determinazioni giuridiche diverse. Per dirla in termini banali, alla fine non si sa chi comanda”. E non è mica facile comandare un corpo di 37.181 unità, di cui realmente operativi solo 32.545. Secondo il XVII rapporto di Antigone, “la differenza fra personale previsto e effettivamente presente è pari al 12,5%. La carenza di agenti non è però equamente distribuita a livello nazionale. Abbiamo infatti provveditorati con un sotto organico superiore al 20%, come in Sardegna e in Calabria, e altri invece con un numero di unità effettive leggermente superiore a quelle previste, come in Campania e in Puglia-Basilicata”. Dati smentiti però dal Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello: “Nella mia regione mancano 700 agenti ma né i governi gialloverdi né quelli giallorossi hanno risolto il problema. Gli agenti fanno turni massacranti, dovrebbero essere di 6 ore e ne fanno 8 o anche 10. Nessuno si preoccupa della loro salute mentale, del burnout provocato da quel tipo di lavoro (Ciambriello è uno dei pochi ad aver organizzato un corso, ndr), dei suicidi che sono più frequenti che in ogni altro corpo di polizia (circa 12 l’anno, ndr). Poi c’è da dire che almeno da dieci anni, dei 4500 agenti penitenziari campani, per vari motivi, ogni giorno nei 15 istituti della regione mancano all’appello tra le 300 e le 500 unità”. Perché i poliziotti vengono allocati anche in altre funzioni: scorte, picchetti ai varchi dei tribunali e in altri posti di sicurezza (circa 6 mila). Poi ci sono quelli impiegati nell’amministrazione (circa mille), un numero imprecisato di persone che ogni giorno si occupano delle traduzioni, delle matricole, del sopravvitto, dei conti correnti e così via, ed alcune centinaia che gestiscono i bar, le mense e gli spacci interni agli istituti. “Tutti ruoli istituzionali”, tiene a precisare Donato Capece, segretario generale del Sappe (9350 iscritti, di cui 86 dirigenti). Sì, perché nel 2020 è stato corretto il decreto legislativo 95/2017 che separava i compiti amministrativi da quelli istituzionali dando così agli agenti la possibilità di “evadere” dal contatto diretto con i detenuti. Il Dap di Basentini aveva comunque calcolato un fabbisogno a livello nazionale di 17 mila nuove unità. “Il problema - evidenzia Capece - è che il nostro è un Corpo di persone anziane, il personale che non ce la fa più. E lo stress, la sopportazione quotidiana di aggressioni fisiche e verbali - azzarda - può portare qualcuno a perdere il controllo”. Capece è tra i più accaniti difensori della teoria delle “poche mele marce”, considera Fratelli d’Italia e la Lega i partiti più vicini, parla di “grande inflazione di Garanti, che a mio avviso non dovrebbero neppure esistere” perché “già ci sono i magistrati di sorveglianza”, dei detenuti dice che gli unici che sicuramente “non creano problemi” sono i mafiosi e i camorristi, e crede che sui fatti di Santa Maria “bisogna essere garantisti” con gli agenti ritratti in video. I migliori ministri di Giustizia? Per lui sono stati “Martelli, Vassalli, Conso, ma pure Orlando”. Di tutt’altro orientamento, De Fazio: “Non si può parlare di mele marce o schegge impazzite: è un sistema che non funziona e va riformato. Punto”, dice. Il problema, spiega, è il reclutamento, e il grado di istruzione: solo da quest’anno agli aspiranti agenti di penitenziaria viene richiesto almeno il diploma superiore e “fino al 2017 si accedeva solo per il tramite delle forze armate, cosicché gli agenti avevano una formazione militaresca, abituati più a teatri di guerra che a compiti di “riabilitazione” nei quali il rapporto umano ha una grande importanza”. Di per sé, ragiona il segretario Uilpa, “l’ostacolo potrebbe anche essere superabile, ma i corsi di formazione post-concorso dovevano durare un anno, sono subito stati ridimensionati a 9 mesi e l’altro giorno ho sentito perfino chiedere di ridurli a 3 soli mesi”. Dunque, una grande differenza di vedute, tra le sigle sindacali. Anche se, come ricorda Ciambriello, “il vecchio motto degli agenti penitenziari era “Vigilare per reprimere”, che tradiva una concezione custodiale. Adesso, da anni, è “Infondere speranza”, che è più adatto al dettato costituzionale. Anche se col tempo c’è stata un’evoluzione, però, purtroppo l’imprinting è rimasto”. “La riforma della penitenziaria è arrivata nel 1990, dopo quella della polizia di Stato che risale al 1981 - spiega il portavoce dei Garanti territoriali Stefano Anastasia - Per loro il processo di democratizzazione e sindacalizzazione è iniziato tardi, e da allora per quel sindacato, caratterizzato sempre più da dinamiche corporative, è stata sempre una rincorsa ad ottenere ciò che avevano già ottenuto gli altri. Ed è questo che rischia di caratterizzarli come un Corpo di serie B. Mi sembra che manchi in loro la consapevolezza di un ruolo che li rende differenti dalla polizia di Stato, mentre la loro importante qualificazione professionale è essere operatori del trattamento penitenziario”. Certo, l’immagine del provveditore campano Fullone che spiega a Basentini perché era “indispensabile riportare la calma e dare un segnale al personale”, mostra che la catena di comando è al contrario: il vertice del Dap più che comandare sembra essere comandato. Dal sindacato. Che a sua volta, come riconosce lo stesso De Fazio, “è troppo spesso disposto a farsi orientare dalla pancia del Corpo, da esigenze estemporanee e dalla campagna di tesseramento. Invece di avere uno sguardo ampio e lungo per migliorare le forze di polizia al servizio del Paese”. Violenze nelle carceri: chi fa marcire le mele? di Diego Bianchi La Repubblica, 9 luglio 2021 Mi scusi, ho capito bene? State vaccinando anche nel carcere?”, chiesi al responsabile del centro vaccinale della Fiera di Bergamo. Era il mese di marzo, i vaccini cominciavano ad essere somministrati in tutto il Paese, e io mi trovavo in Lombardia a scoprire per la prima volta la procedura con la quale avremmo familiarizzato nei mesi a seguire. Quella che passava da prenotazioni, convocazioni, sms, disguidi, efficienza, anamnesi, dubbi e preferenze sul vaccino da iniettare. E ancora: effetti collaterali veri, presunti o immaginari, quindici minuti di attesa dopo la somministrazione, la Tachipirina a portata di mano. Erano i giorni in cui il vaccino passava per privilegio o azzardo a seconda delle sensibilità, e fu pertanto con compiaciuto stupore da potenziale cittadino di paese civile che recepii la notizia fin lì ignota che tra i soggetti “fragili” o comunque più a rischio contagio della media, si stava vaccinando anche la popolazione carceraria, detenuti e guardie. Immediatamente per un riflesso dovuto alla consapevolezza di non stare in un Paese civile quanto vorrei, pensai fosse strano che nessun politico avesse ancora scritto un post reclamante “prima il vaccino agli italiani incensurati”. Il ghiotto boccone di basica propaganda per qualche settimana scappò, fino al giorno in cui Salvini o chi per lui se ne accorse, e puntualmente protestò. Ripenso a quel momento nelle ore in cui Salvini si reca a Santa Maria Capua Vetere a margine della mattanza perpetrata da oltre cinquanta guardie penitenziarie ai danni di detenuti rei di aver protestato per la propria salute nell’aprile del 2020. La rara capacità dell’ex ministro dell’Interno di precipitarsi nel posto giusto a dire sempre la cosa sbagliata, tocca un nuovo apice di mancanza di decenza, di vergogna, di senso dello Stato. È vero che siamo pur sempre nel Paese in cui la Meloni pensa che il reato di tortura possa impedire agli agenti di fare il proprio lavoro, ma per qualche ragione ogni tanto mi illudo che davanti all’evidenza di immagini orribili, qualcosa possa cambiare. Quasi sempre sbaglio. L’esigenza di esprimere solidarietà alle forze dell’ordine da non confondere con 52 “mele marce”, l’assurdità di equiparare la mattanza dei 52 agenti alle proteste dei detenuti (“anche la rivolta dei detenuti fu mattanza” ha detto Salvini), fanno raggiungere nuovi picchi di disumanità a chi, parlando di carcere, finisce ogni frase con le espressioni “buttare la chiave”, o “marcire in galera”, senza accorgersi che tanto parlare di marciume rischia di far marcire ogni giorno più mele, soprattutto se la mela più guasta e contagiosa sei tu che ne parli. Che il tutto avvenga a vent’anni dal G8 di Genova, è solo la conferma di quanto e come la percezione di vivere in un Paese civile, ancora oggi sia spesso fallace. Botte in carcere, non è giustizia di Marina Lomunno vocetempo.it, 9 luglio 2021 Parlano i garanti - La vicenda dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere venuta alle cronache nei giorni scorsi ha scosso l’amministrazione carceraria italiana e i Palazzi del Governo fino alla presa di posizione del ministro della Giustizia, Marta Cartabia, che ha chiesto immediatamente “un rapporto completo su ogni passaggio di informazione e sull’intera catena di responsabilità”. L’anno scorso, in piena emergenza Covid, in numerose carceri italiane divampano le proteste dei detenuti accese dalla sospensione di visite, attività formative e per la carenza di dispositivi anti-contagio. E la convivenza già problematica, in strutture spesso obsolete e sovraffollate, si fa critica. Il 5 aprile nella Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere “Francesco Uccella” (Caserta) c’è un caso Covid e i reclusi reclamano test e mascherine: gli agenti reagiscono con un raid “per ripristinare la calma”, 300 detenuti vengono malmenati con ferocia. Ci sono video inequivocabili che documentano i fatti che portano ad un’inchiesta con 117 indagati e misure cautelari per 52 agenti e responsabili della sicurezza del penitenziario. Una vicenda venuta alle cronache nei giorni scorsi che scuote l’amministrazione carceraria italiana e i Palazzi del Governo fino alla presa di posizione del ministro della Giustizia, Marta Cartabia, che ha chiesto immediatamente “un rapporto completo su ogni passaggio di informazione e sull’intera catena di responsabilità” e relazioni sulle altre carceri, perché, purtroppo, il penitenziario casertano non è l’unico ad essere teatro di scontri tra reclusi e agenti, segno di un malessere diffuso nelle “patrie galere”. E mentre le indagini sono in corso, anche i Garanti dei detenuti (in primis Mauro Palma, Garante nazionale) che operano nei penitenziari italiani hanno espresso subito forte preoccupazione: “Le immagini dei ristretti presi a manganellate dagli agenti non possono lasciarci indifferenti” commenta Bruno Mellano, garante della Regione Piemonte “occorre una risposta istituzionale alta e di lungo periodo perché quello che è successo a Caserta non deve essere la regola. Tutte le istituzioni che si occupano di carcere devono fare uno sforzo organizzativo per la comunità penitenziaria: investire sulla formazione professionale degli agenti, inserire operatori non militari negli istituti e nominare un Sottosegretario dedicato ai penitenziari”. Bruno Mellano sottolinea come un episodio così tragico “debba essere occasione di ripartenza per ripensare lo sconto della pena in chiave trattamentale così come prevede la nostra Costituzione”. Concorda sulla necessità di formazione degli agenti in contatto soprattutto con i giovani reclusi, Maria Cristina Gallo, garante dei detenuti del Comune di Torino, che lo scorso anno, in seguito a denunce di alcuni ristretti, aveva segnalato all’autorità giudiziaria violenze nel carcere torinese avviando un’inchiesta che sfociò in 25 indagati. “Siamo indignati su quanto è avvenuto per mano di chi dovrebbe usare il potere per ripristinare un clima di legalità all’interno dei penitenziari” ribadisce la garante “fatti come questo riportano l’ordinamento carcerario indietro di cento anni: e dobbiamo ringraziare se i pestaggi sono stati ripresi dalle telecamere. Diversamente sarebbe stato molto complesso mettere alla luce le efferatezze compiute. Ma quante zone d’ombra ci sono all’interno delle sezioni, quante voci di soprusi e brutalità vengono raccolte da noi garanti, cappellani, insegnanti, volontari?”. Monica Cristina Gallo segnala come le regole anti-contagio abbiano “svuotato” le carceri di presenze esterne mettendo in luce la necessità di una riapertura rapida. “Ma con un incremento di personale civile, con ispezioni più frequenti che si avvalgano di periti non dipendenti dell’amministrazione carceraria che possa svelare ciò che non funziona e con una magistratura di sorveglianza più attenta alle dinamiche interne ai penitenziari non conformi alla rieducazione della pena”. Giustizia, l’Italia volta pagina: ecco cosa cambia con la riforma Cartabia di Francesco Grignetti La Stampa, 9 luglio 2021 Assunzioni e processi più brevi, così l’Italia avrà i fondi dell’UE. Premessa indispensabile, su cui tutti i partiti, nessuno escluso, concordano: i tempi della nostra giustizia sono troppo lenti. In Europa siamo uno scandalo. E quindi ecco perché la Commissione europea ha subordinato i miliardi del Recovery Plan a una riforma della giustizia penale che garantisca un taglio del 25% (del 40% per il civile) sui tempi per arrivare a sentenza. Detto questo, come fare? Il vero grande investimento della ministra Marta Cartabia è sugli organici (16.800 assunzioni triennali di laureati in materie giuridiche ed economiche). Daranno vita a un Ufficio del processo che assisterà i magistrati, istruendo i fascicoli, studiando i precedenti, facendo da segreteria. Poi c’è tutto il resto. Sotto il profilo normativo, la scommessa è scandire meglio i tempi, a cominciare dalle inchieste preliminari e poi le varie fasi del processo. E poi i riti alternativi e la giustizia riparativa: fuori di gergo, significa che il grosso dei processi dovrebbe essere definito subito, per le vie brevi, con sentenze immediatamente eseguibili. La speranza è che i dibattimenti saranno riservati ai casi importanti. Se così sarà, forse la rapidità è davvero dietro l’angolo. Superata la prescrizione. Se si sforano i tempi c’è l’improcedibilità - Non chiamatela prescrizione, quella non esiste più dopo che Alfonso Bonafede l’ha eliminata. Ora la parola magica è “improcedibilità”. Il compromesso, che è linguistico, ma anche giuridico, alla fine soddisfa tutti, amici e nemici della prescrizione. Perché è la sostanza quel che conta. E allora: la riforma Cartabia immagina che la vecchia prescrizione, cioè la cancellazione di un reato dopo un determinato periodo, può scattare soltanto se in quel tempo non si riesce ad avere nemmeno una sentenza di primo grado (come era nel ddl Bonafede), poi è sospesa a tempo indefinito. Casi rari. A quel punto, per celebrare il secondo e il terzo grado, si concedono 2 e 1 anno. Altrimenti scatta la tagliola della “improcedibilità” detta altrimenti prescrizione processuale. Di fatto, guai a sforare quei tempi. È una clausola di garanzia contro i processi-lumaca. Ma con le debite eccezioni. Quando si celebrano processi di particolare complessità, i tempi per appello e Cassazione saranno più lunghi: 3 anni e 18 mesi. Andrà così anche per corruzione e concussione. Restano esclusi dalla tagliola del tempo i reati da ergastolo, attualmente imprescrittibili. Più spazio alla riconciliazione. L’archiviazione per i reati minori - Un altro strumento per disboscare la massa dei procedimenti sarà l’archiviazione da parte del pm per particolare tenuità del fatto. Già, perché in Italia si celebrano processi, lenti e costosi, davvero per tutto. Celebre il caso del furto di una melanzana da un campo, arrivato fin in Cassazione. Bene, la riforma ne estende l’ambito di applicabilità. Ad esempio quando la pena detentiva non è superiore nel minimo a due anni, sola o congiunta a pena pecuniaria. Si potrà applicare, ad esempio, al furto in supermercato di generi alimentari di modico valore. Con provvedimento successivo, il ministero rivedrà i casi di esclusione da questo tipo di archiviazione. Si vuol dare più importanza alla condotta susseguente al reato (esempio classico, la riparazione del danno). La ministra tiene molto alla giustizia riparativa. Un percorso di riconciliazione tra vittima e reo - sempre su base volontaria - sarà valorizzato nelle diverse fasi del processo e dell’esecuzione della pena, con il consenso libero e informato della vittima e dell’autore, e la positiva valutazione del giudice. Si prevede la ritrattabilità del consenso, la confidenzialità delle dichiarazioni e la loro inutilizzabilità nel procedimento penale. La stretta sui rinvii a giudizio. L’udienza preliminare solo per crimini gravi - L’udienza preliminare è un incredibile appesantimento dei tempi del processo penale. Ed è un fallimento sotto tutti i punti di vista: trent’anni di dati statistici, hanno spiegato i saggi chiamati dalla ministra Cartabia, sono impietosi. Nei casi in cui l’udienza preliminare si conclude con un rinvio a giudizio, pari al 63% dei casi, essa genera un aumento di durata del processo di primo grado di circa 400 giorni. Di fatto l’udienza preliminare filtra poco più del 10% delle imputazioni per i processi nei quali è prevista e non incide peraltro in modo significativo sul tasso dei proscioglimenti in dibattimento, tanto è vero che c’è una percentuale molto alta di assoluzioni in primo grado, pari a circa il 40%. Ora si intende cambiare prospettiva: il pubblico ministero chiederà il rinvio a giudizio solo quando gli elementi acquisiti consentono una “ragionevole previsione di condanna”. Anche il gip dovrà pronunciare sentenza di non luogo a procedere, quando gli elementi acquisiti non consentono una “ragionevole previsione di condanna”. Intanto l’udienza preliminare si terrà soltanto per reati di particolare gravità; parallelamente, si estendono le ipotesi di citazione diretta a giudizio. Gli accordi tra pm e imputati. L’estensione dei riti abbreviati - Il ragionamento della ministra Cartabia, sulla scorta della commissione dei saggi che ha lavorato a questa riforma, presieduta dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, è che non si riuscirà mai a velocizzare la giustizia se resta intatta la massa dei processi che va a dibattimento. La macchina è ingolfata irrimediabilmente. L’unica soluzione sono i riti alternativi. Per quanto riguarda il patteggiamento, si prevede che quando la pena detentiva da applicare supera i 2 anni, l’accordo tra imputato e pubblico ministero potrà estendersi anche alle pene accessorie e alla loro durata, nonché alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare. Attualmente c’era un secondo round che sovente scoraggiava l’accordo. Per il giudizio abbreviato, si prevede che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto nel caso di rinuncia all’impugnazione da parte dell’imputato, stabilendo inoltre che la riduzione della pena sia applicata già dal giudice dell’esecuzione. Si salta così un ulteriore passaggio, che appesantiva inutilmente la procedura. Prima dell’eventuale condanna. Niente sospensione per gli indagati - Porta una cifra garantista, la riforma Cartabia. E quindi non può meravigliare la disapprovazione di un ex presidente della Corte costituzionale nei confronti della cosiddetta “gogna mediatica” che scatta immancabile quando una figura pubblica si trova al centro di un procedimento penale. A volte basta un avviso di garanzia, che certo non è una sentenza di colpevolezza. I processi sui media e sui social sono tanto più veloci di quelli che si fanno faticosamente nelle aule di giustizia. E se poi sono sommari, chi ci bada? Incalcolabili, però, gli effetti, in termini non di pena, ma di perdita della reputazione. Per raddrizzare la barra, e mandare un segnale culturale controcorrente, la riforma Cartabia introduce una novità coraggiosa: “in linea con il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza”, si prevede che la mera iscrizione del nominativo di una persona nel registro delle notizie di reato non può determinare “effetti pregiudizievoli” sul piano civile e amministrativo. In pratica, non ci potranno essere sospensioni dal lavoro o altri provvedimenti disciplinari per i dipendenti pubblici indagati, fintanto che non ci siano le condanne. Quelle vere. L’indirizzo del parlamento. L’ordine delle priorità con una legge - Un punto particolarmente delicato è l’ordine di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Che occorra, lo dicono tutti. “In un sistema ad azione penale obbligatorio tutti i reati devono essere perseguiti - dice anche il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia - e quando ci sono molti reati bisogna stabilire delle priorità, ma un principio deve essere sacrosanto: tutti i reati vanno perseguiti, priorità non significa accantonarli in attesa che vadano prescritti”. Il punto è chi deve fissare queste priorità. Perché si rischia di coartare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, che è un valore costituzionale. Con la riforma Cartabia, si prevede che gli uffici del pubblico ministero, “per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale”, individuino priorità trasparenti e predeterminate, da indicare nei progetti organizzativi delle Procure, e da sottoporre al Consiglio superiore della magistratura. Ma il tutto nell’ambito di criteri generali indicati con legge dal Parlamento. Non sarà sufficiente dunque un “atto di indirizzo”, bensì una legge. E come è noto, il giudice in Italia è soggetto solo alla legge. Riforma della Giustizia, il Cdm approva all’unanimità: decisiva la mediazione di Draghi di Antonio Lamorte Il Riformista, 9 luglio 2021 Sì unanime del Consiglio dei ministri al testo della riforma della Giustizia proposto dalla ministra Marta Cartabia. Decisiva la mediazione del Presidente del Consiglio Mario Draghi. È partito due ore in ritardo il Cdm, a causa di una riunione tra lo stesso Draghi, la ministra Cartabia e i ministri del Movimento 5 Stelle. Il compromesso è stato raggiunto inserendo tempi più lunghi per i reati contro la Pubblica amministrazione, compresi dunque corruzione e concussione, come richiesto dai ministri grillini. La riforma Cartabia tocca numerosi punti: dalla prescrizione all’appello alle indagini preliminari alle misure alternative. Confermata la prescrizione con lo stop dopo la sentenza di primo grado, sia in caso di assoluzione che di condanna, e si prevede una durata massima di due anni per i processi d’appello e di un anno per quelli di Cassazione. Previsto un’ulteriore proroga di un anno e sei mesi in Cassazione per i reati gravi, come associazione a delinquere semplice, di tipo mafioso, traffico di stupefacenti, violenza sessuale, corruzione, corruzione. L’improcedibilità interviene trascorsi questi termini. I reati puniti con l’ergastolo restano esclusi dalla disciplina. Si delega inoltre il Governo a rendere più efficiente e veloce la Giustizia penale tramite digitalizzazione e tecnologie informatiche. Il deposito degli atti potrà essere effettuato per vua telematica, con notevole risparmio di tempo. Per quanto riguarda le indagini preliminari, si stabilisce che il pubblico ministero possa chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato solo quando gli elementi acquisiti consentono una “ragionevole previsione di condanna”. Si rimodulano i termini di durata massima delle indagini rispetto alla gravità del reato. L’iscrizione del nominativo della persona nel registro delle notizie di reato non può determinare effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo - in linea con il principio costituzionale di non colpevolezza. La previsione dell’udienza preliminare si limita a reati di particolare gravità e, parallelamente, si estendono le ipotesi di citazione diretta a giudizio. Il giudice dovrà pronunciare sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentano una ragionevole previsione di condanna. Si conferma in via generale la possibilità in grado di Appello, sia del pubblico ministero che dell’imputato, di presentare appello contro le sentenze di condanna e proscioglimento. Si recepisce il principio giurisprudenziale dell’inammissibilità dell’appello per aspecificità dei motivi. Si prevedono limitate ipotesi di inappellabilità delle sentenze di primo grado, per esempio in caso di proscioglimento per reati puniti con pena pecuniaria e di condanna al lavoro di pubblica utilità. Per quanto riguarda la Cassazione si introduce un nuovo mezzo di impugnazione straordinario, in linea con le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Novità anche per i procedimenti speciali: quando la pena detentiva supera i due anni sul patteggiamento si prevede che l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata come alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare; nel giudizio abbreviato si prevede che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto, nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato. Il governo è delegato a estendere la procedibilità a querela a specifici reati contro la persona e contro il patrimonio con pena non superiore nel minimo a due anni, salva la procedibilità d’ufficio, se la vittima è incapace per età o infermità. La riforma punta anche a razionalizzare e semplificare il procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie. Altre deleghe al Governo: misure alternative alla detenzione, estensione dell’istituto della messa alla prova, disciplinare in modo organico la Giustizia riparativa. “Lo sforzo della riforma è stato dare un’immagine del processo penale in cui tutti potessero riconoscersi”, ha detto, secondo quanto riporta Il Corriere della Sera, la ministra Marta Cartabia, illustrando gli emendamenti al Cdm. Il Movimento 5 Stelle aveva minacciato di astenersi mentre Forza Italia aveva chiesto la sospensione del Cdm. Draghi, che incassa l’approvazione unanime, ha invitato le forze politiche “a sostenere il provvedimento con lealtà in Parlamento”. Sì unanime al testo Cartabia: via la prescrizione targata Bonafede di Valentina Stella Il Dubbio, 9 luglio 2021 Dopo 2 anni l’appello muore, ma il Movimento ottiene 12 mesi in più in secondo grado e 6 in Cassazione anche per i reati contro la Pa: è la modifica che ha favorito il via libera. Alla fine, dopo una lunga e difficilissima giornata di trattative, la ministra Cartabia e il premier Draghi sono riusciti a porre il sigillo sulla riforma del processo penale con il consenso di tutta la maggioranza. L’atto conclusivo è arrivato intorno alle 20.30, quando il presidente ha chiesto al Consiglio dei ministri se tutti avrebbero sostenuto convintamente il testo della riforma e sarebbero stati leali in Parlamento: nessuna obiezione tra i presenti. È passata così la proposta della guardasigilli su processo e prescrizione. Non un voto formale ma il sostegno unanime al testo. Prima però gli animi si erano infuocati: nel pomeriggio, a poco meno di un’ora dalla riunione di Palazzo Chigi, dai 5 Stelle - incerti e divisi per l’intera giornata - era trapelata la volontà di astenersi, e questo nonostante rimbalzassero rumor di un Draghi molto fermo sul testo: “Prendere o lasciare”. Dopo ore di tensione, con i grillini pronti a far saltare tutto, soprattutto sul fronte dei contiani e dell’ala vicina a Bonafede, la quadra sul pomo della discordia della prescrizione è stata trovata. Come? Dal punto di vista politico grazie alla umiltà e alla saggezza del premier e di Cartabia, che hanno visto i ministri del M5S per tentare una nuova intesa prima di entrare in Cdm, che quindi è iniziato alle 19 con due ore di ritardo. Dal punto di vista tecnico invece l’accordo si è materializzato sull’improcedibilità dell’azione normata dall’inserimento dell’articolo 14-bis nel ddl penale. Si prevede la conferma, come nella legge Bonafede, dello stop della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sia in caso di condanna che di assoluzione, ma si annunciano tempi certi per i processi d’appello (2 anni) e Cassazione (1 anno). A questi limiti, oltre i quali il giudizio muore, fanno eccezione i reati puniti con l’ergastolo, che sono imprescrittibili, e altri reati gravi per i quali i termini massimi diventano 3 anni in appello e 1 anno e 6 mesi in Cassazione: l’associazione a delinquere semplice di tipo mafioso, il traffico di stupefacenti, la violenza sessuale e, proprio per venire incontro alla richiesta grillina, anche gli illeciti contro la Pa, con tutte le sfumature della corruzione. Possibilità di proroga anche per la complessità del giudizio (ad esempio per il numero di vittime, delle parti o delle imputazioni). Un aspetto importante è che, come per la prescrizione del reato in primo grado, in appello e Cassazione l’imputato potrà rinunciare all’improcedibilità. L’improcedibilità poi non pregiudica gli interessi delle parti civili in quanto, se l’imputato era stato condannato al risarcimento del danno per la parte civile e poi interviene in appello la “morte del processo”, il giudice penale trasmette gli atti al giudice civile, per la decisione sul risarcimento (valutando le prove acquisite nel penale). Questa nuova disciplina si applica per i reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, data di entrata in vigore della legge Bonafede. In questa ottica si ribalta la prospettiva: il problema non è più la prescrizione del reato, ma la durata del processo. Il rimedio all’irragionevole durata è così interno al giudizio: l’improcedibilità, appunto, che non estingue il reato. “Lo sforzo della riforma è stato dare un’immagine del processo penale in cui tutti potessero riconoscersi” ha detto Cartabia. È bene sottolineare che gli emendamenti governativi sulla prescrizione fanno parte di un ddl delega, da attuarsi nel termine di un anno, in linea con gli impegni assunti nell’ambito del Pnrr. Ma guardiamo agli altri punti nodali del restyling operato dalla guardasigilli sul testo, con gli emendamenti “promossi” ieri: sul piano dell’obbligatorietà dell’azione penale si prevede che gli uffici del pm, nell’ambito di criteri generali indicati con legge dal Parlamento, individuino priorità trasparenti e predeterminate, da sottoporre al Csm. Un passo indietro è stato fatto sulle impugnazioni: resta in via generale la possibilità - tanto del pm, quanto dell’imputato - di presentare appello contro le sentenze. Si recepisce solo un principio giurisprudenziale (sezioni unite della Cassazione - Galtelli, 2017): inammissibilità dell’appello per aspecificità dei motivi. Via dunque il cosiddetto appello a critica vincolata, come richiesto dall’avvocatura. Un altro aspetto non da poco è che in linea col principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, la mera iscrizione del nominativo della persona nel registro delle notizie di reato non può determinare effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo. Nella fase preliminare viene confermata la previsione che il giudice dovrà pronunciare sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna.Ora la palla passa al Parlamento ma, dopo il placet di tutta la maggioranza, il lavoro sub-emendativo sarà agevole. Anche se permangono, in casa 5 Stelle, malcontento e divisioni, con Bonafede che viene descritto deluso e amareggiato dal “verdetto” uscito dal Cdm. Un commento a caldo ce lo fornisce Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto processuale penale all’università di Roma “La Sapienza”: “È da rilevare positivamente che la ministra Cartabia ha tenuto conto delle riserve espresse sia dall’accademia, sia dall’avvocatura che dalla magistratura in questi mesi, a conferma del reale metodo di dialogo preannunciato all’inizio delle trattative”. Riforma della giustizia, le armi spuntate dei Cinquestelle di Massimo Franco Corriere della Sera, 9 luglio 2021 Ma era scontato anche che alla fine i grillini l’avrebbero votata: altrimenti si sarebbero trovati isolati e insieme spaccati. Prigionieri non di una strategia ma dell’assenza di qualunque strategia. Le convulsioni del Movimento Cinque Stelle sulla riforma della giustizia erano prevedibili. Ma era scontato anche che alla fine i grillini l’avrebbero votata: altrimenti si sarebbero trovati isolati e insieme spaccati. Prigionieri non di una strategia ma dell’assenza di qualunque strategia, e risucchiati in un passato nostalgico. Esiste un grillismo giustizialista che soffia sul fuoco dell’indignazione. Grida d’ufficio alla “controriforma” proposta dalla Guardasigilli, Marta Cartabia, demonizzata in realtà per boicottare l’azione del governo di Mario Draghi. E ieri ha cercato di forzare la mano al premier, facendo tardare la riunione a Palazzo Chigi. Alla fine, però, i Cinque Stelle si sono piegati. Si sono resi conto che la maggioranza sarebbe andata avanti lo stesso, approvando la mediazione. Così, è arrivato il “sì”, dopo avere riaperto per un’ora la trattativa; minacciato l’astensione; e preteso qualche concessione sulla prescrizione. Tre anni fa la linea del manicheismo giudiziario avrebbe prevalso senza resistenze. Stavolta si è affacciato e poi ritratto, indebolito da chi, nello stesso Movimento, ha chiesto senso di responsabilità: seppure timidamente, per il timore di essere sbranato dai cosiddetti puri e duri. D’altronde, il tema divide una formazione che sulla delegittimazione anche giudiziaria degli avversari ha costruito la propria sottocultura e le proprie fortune elettorali. Quel grillismo ritiene di poter sopravvivere solo se non perde referenti e parole d’ordine estremiste: al punto da utilizzare la propria crisi per tentare di riproporle e imporle. Sembra non vedere, o forse banalmente non gli interessa, che senza una riforma della giustizia come quella preparata faticosamente dall’esecutivo i contraccolpi saranno pesanti; e non solo per i processi, i giudici, le vittime e gli imputati. Lo saranno perché il sistema così com’è viene ritenuto incapace di offrire garanzie all’Europa. E può spingerla a porre condizioni-capestro all’Italia prima di concederle una parte dei finanziamenti del Fondo per la ripresa. Una giustizia inefficiente comporta costi non solo sociali. Favorisce una florida economia dell’inefficienza che genera corruzione e acuisce le disuguaglianze. Forse sarebbe più saggio prendere atto che la riforma controversa dell’ex Guardasigilli grillino Alfonso Bonafede non è solo figlia di un altro governo. Riflette una stagione populista finita da tempo, e non rimpianta: se non da qualche orfano del potere. Non stupisce che nello scontro consumatosi ieri nelle file del M5S siano stati i seguaci dell’ex premier Giuseppe Conte a bersagliare la mediazione di Palazzo Chigi, difesa invece dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. È tipico, nei momenti di difficoltà, che i partiti scarichino i problemi interni sul governo. Ma stavolta lo schema era così smaccatamente strumentale che Draghi l’ha smontato rapidamente. D’altronde, è difficile bloccare una soluzione magari parziale, imperfetta, eppure obbligata. Anche perché si intravede un’altra incognita, simmetrica e opposta a quella rappresentata dalle convulsioni del M5S. Si tratta dei sei referendum sulla giustizia promossi dai radicali e dalla Lega, e abbracciati in parte anche da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Sebbene tocchino per lo più temi che non rientrano nella riforma, finiscono per raccogliere un fronte eterogeneo, teso a ridimensionare il potere di una magistratura in crisi di identità e di credibilità. Il testo preparato dal governo serve a evitare una contrapposizione tra supposti alleati e supposti nemici dei giudici: schema da muro contro muro tra populismi, in questo caso contrapposti e non solidali. Puntare i piedi per un’ora minacciando sfracelli e poi intascare le piccole concessioni del premier, per il M5S è un magro bottino. Il richiamo giustizialista, per quanto prepotente, si è rivelato un’arma spuntata. Un tempo, l’immagine di un Movimento “solo contro tutti” sarebbe stata la certificazione di cromosomi virtuosamente antisistema. Oggi, invece, nasconde malamente la guerra interna. La novità è che il resto della coalizione guidata da Draghi va avanti, indifferente al minaccioso lessico grillino. Anche sotto questo aspetto, i tempi sono cambiati. Giustizia, perché questa riforma di sistema mette fine ai processi lumaca di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 9 luglio 2021 Le proposte della ministra Cartabia incidono positivamente non solo sui procedimenti penali. Il dibattito politico si è concentrato troppo a lungo sul tema della prescrizione. Le proposte che la ministra Cartabia ha ieri portato all’esame del Consiglio dei ministri sono di largo respiro e giustamente si intitolano alla riforma della giustizia penale e non del solo processo penale. Sono infatti interessati aspetti del processo penale e del diritto penale sostanziale, in particolare del sistema sanzionatorio. Finalità, limiti, garanzie costituzionali operano in ognuno di questi settori della materia penale. E vi sono soluzioni processuali (come patteggiamento, giudizio abbreviato), che comportano conseguenze sulla quantificazione della pena, così che diviene perfino difficile segnare i confini tra diritto e processo penale. Pregio del testo in discussione è dunque quello di considerare e incidere su ognuno di essi. Il dibattito politico e i contrasti esposti alla opinione pubblica si sono concentrati sul tema del regime della prescrizione dei reati, in una realtà di patologica -anche se sistematica- troppo lunga durata dei procedimenti. Le posizioni che si sono scontrate hanno a lungo impedito l’esame di soluzioni ragionevoli, rispettose di diverse esigenze di principio, riguardanti i limiti del diritto dello Stato di punire, il diritto degli accusati di non esser considerati colpevoli fino alla condanna definitiva e a una durata ragionevole del processo, le conseguenze insuperabili del rispetto dei diritti che rendono equo il giudizio. La soluzione portata all’esame del Consiglio dei ministri, frutto della negoziazione politica, non sembra quella preferita dalla Commissione Lattanzi. Se diverrà legge, saranno i risultati ad offrire il metro per valutarla. Superate ora, come pare, le difficoltà politiche in Consiglio dei Ministri, si può sperare che il tema della prescrizione non continui a lasciare in ombra i tanti altri aspetti della riforma elaborata dalla Commissione Lattanzi. Anche se non tutte le proposte formulate dalla Commissione sono state portate all’esame del Consiglio dei Ministri, essi, tutti insieme, rappresentano un importante ed organico intervento riformatore. Le proposte vengono formulate come emendamenti al testo già in Parlamento, presentato dal precedente governo. In realtà, con aggiunte, eliminazioni e modifiche si propongono riforme di ben altro respiro, per ampiezza e per ispirazione culturale. Si vede il congiungersi delle indicazioni che la ministra Cartabia espresse nella sua prima esposizione delle linee programmatiche in Parlamento, con l’esperienza e professionalità proprie della Commissione Lattanzi. La questione della durata dei procedimenti penali è in Italia gravissima, come quella dei processi civili. Da tempo e ripetutamente se ne sono discusse cause e conseguenze. Ora pesano anche i richiami -anch’essi ripetuti- che vengono dalle sedi europee di cui l’Italia è parte: l’Unione europea anche con il grande progetto di finanziamento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, e il Consiglio d’Europa con la Corte europea dei diritti umani per gli aspetti che riguardano il diritto fondamentale all’equo processo di durata ragionevole. Le proposte che sono state elaborate dalla Commissione ministeriale ne tengono conto, così come considerano le esperienze di altri Stati europei, con un’attenzione non usuale ai suggerimenti che vengono dalla comparazione giuridica. La Commissione ha preso le mosse dalla constatazione che la crisi del processo penale di stampo accusatorio introdotto dalla riforma del 1989 è legata dallo scarso (e molto diseguale nelle diverse sedi giudiziarie) successo dei riti alternativi a quello “normale”, che conduce al dibattimento e all’applicazione del pesante insieme di regole che lo caratterizzano. Così si propongono nuovi vantaggi per l’accusato che adotti un rito alternativo. Il successo di questo tentativo condiziona il miglioramento dei tempi dei giudizi ordinari (per la deflazione che dovrebbe verificarsi), ma ne è anche condizionato poiché la prospettiva dei loro tempi infiniti (e la possibilità di prescrizione) è un motivo che sconsiglia l’accettazione dei riti semplificati. Nello stesso ordine di idee viene proposta l’introduzione di un nuovo istituto, chiamato archiviazione meritata: per reati di scarsa gravità, al termine della indagine del pubblico ministero sarà possibile richiedere al giudice la archiviazione per estinzione del reato, come conseguenza dell’adempimento di una serie di prestazioni in favore della vittima del reato o della collettività. Si tratta di una misura che potrebbe rivelarsi efficace, anche in favore della vittima, cui si rivolge anche direttamente la proposta di introdurre le pratiche proprie della c.d. giustizia riparativa. Si tratta di sistemi che tendono a ricostituire i rapporti offesi e interrotti tra il responsabile del reato e la vittima. In generale una attenzione speciale viene prestata alla vittima del reato, anche in linea con indicazioni che vengono dall’Unione europea e che finora erano state trascurate. La ministra Cartabia ha anche accolto e portato in Consiglio dei ministri le proposte elaborate dalla Commissione sul terreno delle sanzioni. Da un lato vi è una maggior varietà di sanzioni sostitutive di quella detentiva (detenzione domiciliare, affidamento in prova al servizio sociale, semilibertà, lavoro di pubblica utilità, pena pecuniaria) e dall’altro esse verranno applicate dal giudice all’esito del giudizio e non più in sede di esecuzione di una pena detentiva astrattamente comminata. Il giudice considererà la individualità della posizione del condannato, la sua personalità, la sua capacità di reagire positivamente sul piano della risocializzazione e della riparazione della lesione cagionata dal reato. Nella rimodulazione dell’insieme delle pene rientra l’attenzione portata alla pena pecuniaria, divenuta ormai evanescente perché solo il 2% di quelle inflitte dal giudice sono poi effettivamente eseguite. Rendere effettiva la sanzione pecuniaria è condizione preliminare al suo recupero, anche nei confronti della pena detentiva (spesso peraltro sospesa). Sulla scorta dell’esperienza già maturata da altri Stati europei, si propone di modulare la sanzione pecuniaria per quote giornaliere, di cui il giudice stabilirà il numero e l’ammontare pecuniario, tenendo conto naturalmente del fatto di reato, ma anche della capacità economica del condannato. Come si vede nelle proposte della Commissione e ora del governo si intrecciano e sostengono temi diversi, che insieme intervengono sulla efficienza del processo penale e sull’ammodernamento del sistema di giustizia penale. Al Parlamento il governo offre ora una occasione da non perdere. Albamonte: “Ci voleva molto più coraggio per ampliare i riti alternativi” di Paolo Colonnello La Stampa, 9 luglio 2021 Il magistrato: “Questa occasione non può essere sprecata Il patteggiamento doveva arrivare almeno fino alla metà della pena”. Più coraggio. Per Eugenio Albamonte, ex presidente dell’Anm e attuale segretario di Area, corrente di sinistra della magistratura, nonché pm a Roma, questa riforma è vittima dei veti incrociati della politica. “Manca un vero ampliamento dei riti alternativi che era una proposta congiunta di magistrati e avvocatura e che non è stata recepita. Siamo un po’ perplessi”. Un pannicello caldo per riceve i fondi dall’Europa? “La riforma ci voleva, la stiamo aspettando da tempo e quindi, dato che è anche collegata ai fondi europei, l’occasione non può essere sprecata. Forse ci voleva un po’più di coraggio su altri passaggi”. Quali? “Per esempio va bene il potenziamento dell’udienza preliminare, va male che non ci sia un effettivo potenziamento dei riti alternativi. Si era detto che patteggiamento poteva arrivare fino alla metà della pena invece questa possibilità è scomparsa. C’era bisogno di scelta coraggiosa. Allora sì che avremmo avuto una decurtazione degli arretrati e una riduzione tempi”. Gli avvocati storcono il naso sulla differenza di trattamento per i reati della Pa: più durezza verso i politici come volevano i 5 stelle. Ma non si crea una disparità di trattamento? “Qua bisogna intendersi molto chiaramente: la misura dell’improcedibilità di fatto agli occhi delle parti del processo e del cittadino, produce gli stessi effetti della prescrizione, l’altro profilo è che un anno per la Cassazione può pure andare bene, due anni per l’appello non sono sufficienti, quando le 10 corti d’appello più importanti d’Italia, sforano quasi del doppio. Quindi o si mettono deroghe per i reati più gravi oppure creeremo un incentivo a fare più appelli per avere l’effetto dell’improcedibilità. Quindi la misura adottata per i reati più gravi, compreso corruzione è concussione, era una scelta senza alternativa”. Per i pm come lei la vita si fa più dura: dovrete avere una previsione di ragionevole condanna prima di chiedere il rinvio giudizio e il gup diventa dirimente. “È così e quella norma è positiva, abituerà il pm a svolgere una selezione ancora più accurata del materiale che manda a giudizio. Questo potenziamento del gup viene accompagnato però a una riduzione dei reati che passano per il gup e questo secondo me è altro passaggio mancato” I criteri generali indicati dal Parlamento per l’azione penale non mettono a rischio indipendenza e obbligatorietà dell’azione penale? “Un criterio generale e astratto previsto dal Parlamento può ben essere introdotto a patto che a livello locale siano definiti criteri commisurati alle singole emergenze criminali del territorio. L’Italia è una lunga penisola...” Il commissario Ue Reynders: “L’Italia sveltisca i processi, nelle carceri mai più violenze” di Claudio Tito La Repubblica, 9 luglio 2021 Il rapporto europeo sulla salute degli ordinamenti giudiziari evidenzia i ritardi del nostro Paese. Gli impegni del Pnrr ora diventano centrali: “Bisogna investire nella giustizia e assumere più magistrati, per questo il Recovery è importante”. “Sulla giustizia l’Italia ha ancora molta strada da fare”. Mentre il rapporto annuale di Bruxelles sullo stato di salute degli ordinamenti giudiziari dell’Unione torna a illuminare i severi ritardi che riguardano il nostro Paese e in modo particolare sui tempi dei processi, il commissario europeo alla Giustizia, Didier Reynders, avverte che ancora c’è molto da fare. Che gli impegni del Pnrr a questo punto assumono una centralità senza precedenti. E anche sul provvedimento approvato ieri dal Consiglio dei ministri che disciplina in particolare la prescrizione dei reati, ripete: “L’importante è che si migliori l’efficienza del sistema e che si tuteli la garanzia di un processo equo”. Mentre sulle violenze perpetrate contro i detenuti del Carcere di Santa Maria Capua a Vetere avverte: “Gli Stati dell’Unione hanno il dovere di impedire questi episodi. La violenza non è mai tollerabile. Contro i cittadini in libertà e contro i detenuti”. Intanto Commissario, i dati sui processi civili in Italia non sono affatto confortanti. “Questo rapporto è soprattutto un modo per conoscere la situazione. È chiaro che la pandemia ha avuto un impatto sull’efficienza dei sistemi. E quest’anno abbiamo insistito su alcune priorità: in primo luogo la digitalizzazione. Dovevamo capire quanto siamo avanzati, ad esempio, nell’uso delle tecnologie come le videoconferenze. Il Covid ha reso necessario adeguare le procedure”. L’altra priorità? “L’efficienza. In dieci Stati membri è migliorata e in nove è peggiorata. La media delle cause civili è di due anni. In Italia molto di più. E questo genera anche una nuova percezione sui magistrati. Proprio durante la pandemia è cresciuta la sensazione nei cittadini - in almeno metà degli Stati - che ci siano delle pressioni della politica e dei poteri economici”. Ma si tratta di percezione o di realtà? “Difficile dire se è realtà. In ogni caso dobbiamo fare in modo che non ci sia. E per questo bisogna investire proprio a cominciare dalla digitalizzazione. Almeno la metà degli Stati membri è pronta a farlo. Bisogna impiegare più soldi nella Giustizia”. Anche in Italia? “Certo, so bene che questo argomento nel vostro Paese è un elemento importante di discussione. Non voglio nascondere che si sono stati anche dei miglioramenti. Ma nello stesso tempo sappiamo che il Covid non ha migliorato la situazione. In Italia c’è stato un avanzamento, ad esempio, sul pesante arretrato. Ma è una battaglia che non si può considerare esaurita”. In che senso? “Se guardiamo ai tempi dei processi, alla loro durata, e quindi all’efficienza del sistema si capisce che nonostante i progressi la strada da compiere è molto lunga. La media temporale è molto alta. Ne parlerò anche la prossima settimana con il ministro della Giustizia Cartabia”. In questo quadro quanto contano gli impegni del Pnrr? “Sono fondamentali. Faccio un esempio: il numero di magistrati è tra i più bassi nell’Ue. L’efficienza non è determinata da una loro qualità bassa ma dal numero. L’Italia ha già ricevuto una raccomandazione specifica su questo. Per questo è importante il Recovery. Il nuovo governo ha assunto un impegno preciso: ridurre i tempi dei processi civili del 40 per cento e di quelli penali del 25 per cento. Se stai sotto la media europea, il problema è tuo. E l’Italia ha una lunga storia al riguardo”. Sta arrivando in Parlamento una prima riforma del processo penale. Che ne pensa? “Ci aspettiamo dei passi avanti. Non ne conosco ancora i dettagli ma l’importante è migliorare l’efficienza. E tutelare i diritti fondamentali e l’equità del processo. Naturalmente è una questione delicata che monitoreremo”. Nei mesi scorsi in Italia è stata presentata anche una riforma del Csm. Che ne pensa? “Non è ancora un testo definitivo. L’obiettivo per noi è garantire l’indipendenza, questione fondamentale. E prevedere una stretta separazione tra il ruolo dei magistrati e le funzioni politiche. L’assenza o la percezione di assenza di indipendenza incide anche sull’economia”. Perché? “Un imprenditore che non ha la certezza dell’indipendenza dei magistrati e non sa se la giustizia è efficiente, esita a fare investimenti in quel Paese”. In questi giorni in Italia si sta consumando un vero e proprio scandalo. Le violenze nei confronti dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Cosa ne pensa? “Prima di tutto vorrei dire una cosa in generale: prima di questo episodio avevo già chiesto a tutti i ministri della Giustizia di avviare una discussione sulle condizioni dei detenuti e sull’uso della custodia cautelare. La Pandemia aveva infatti creato situazioni difficili. Si possono utilizzare, anche in questo caso degli strumenti nuovi come i dispositivi elettronici. E poi servono investimenti per modernizzare gli edifici carcerari”. E sul caso specifico? “Lo stiamo seguendo. L’Ue è contro tutte le violenze. So che questa è una competenza nazionale ma ci aspettiamo una inchiesta trasparente e indipendente per capire cosa sia davvero successo. È dovere delle autorità nazionali proteggere tutti i cittadini dalla violenza. In ogni circostanza e quindi anche durante la detenzione”. Ma lei, leggendo o guardando in tv quelle immagini, come si è sentito? “Male. Serve un’indagine accurata ed eventualmente delle misure perché non si ripeta più. Dobbiamo tutti ricordarci che la detenzione non può essere una tortura”. L’anno zero della giustizia. Parlano Bruti Liberati, Nordio e Rossi di Annalisa Chirico Il Foglio, 9 luglio 2021 Ci sono magistrati che guerreggiano, gli uni contro gli altri, a colpi di dossier e denunce, e poi ci sono magistrati che disegnano percorsi di riforma, immaginano un mondo nuovo, con regole e prassi capaci di coniugare diritto e buon senso. Forse l’età della saggezza aiuta a guadagnare distacco, a formulare analisi più lucide e autonome rispetto all’andamento correntizio e alle schermaglie quotidiane che certo non favoriscono il necessario processo di riabilitazione di una magistratura in crisi di autorevolezza. Bruti Liberati: “Riorganizzare la geografia giudiziaria” “Il primo tema da affrontare è la lentezza dei processi civili e penali - dichiara al Foglio Bruti Liberati, Nordio e Rossi, Edmondo Bruti Liberati, toga storica di Md -. Prima del Covid-19 in alcune sedi i tempi erano ormai allineati con quelli europei. Il programma Best Practices, finanziato dall’Ue con il Fondo sociale europeo e promosso dal Csm, ha prodotto a partire dal 2007 innovazioni organizzative importanti. Rimaneva la distanza tra i pochi uffici virtuosi e i tanti in difficoltà. Oggi con gli ulteriori problemi posti dal virus è urgente un intervento riformatore e i fondi europei sono un’occasione da non perdere. Per essere efficace la riforma deve muoversi simultaneamente sui due piani delle riforme processuali e dell’innovazione organizzativa. Quest’ultimo punto sembra appassionare meno il dibattito politico ma dovrebbe essere centrale nell’impegno di spesa del Pnrr. Senza radicali interventi sull’organizzazione, le riforme processuali cadrebbero nel vuoto. Vi sono buone premesse su due punti e totale silenzio su un terzo”. Quale? “La ministra Marta Cartabia si impegna per rendere operativo l’Ufficio del processo con un piano di assunzione di 16.500 addetti, rilanciando l’iniziativa promossa nel 2014 dal ministro Andrea Orlando. Oltre all’assunzione di segretari e cancellieri, ma anche informatici e statistici, la novità è quella degli assistenti dei magistrati che mette a regime la positiva esperienza dei giovani laureati che hanno svolto periodi di tirocinio negli uffici giudiziari. La ministra inoltre ha rilanciato l’iniziativa delle Best Practices promuovendo la diffusione dei migliori modelli organizzativi nelle situazioni di maggiore difficoltà. Ma vi è un terzo, essenziale, settore di intervento sul quale invece tutto tace: la geografia giudiziaria. La riforma Severino di dieci anni addietro è rimasta incompiuta, per gli insensati limiti posti dalla legge delega: mantenimento di tutte le corti di appello e dei tribunali dei capoluoghi di provincia e per finire la ciliegina della regola del 3, tre tribunali almeno per ogni distretto di Corte di appello. Ma è sotto gli occhi di tutti che il Tribunale ‘sotto casa’ non ce lo possiamo più permettere. Vi è almeno una ventina (se non di più) di piccoli, troppo piccoli, tribunali che per loro ridotte dimensioni non sono in grado di garantire efficienza, ed entrano in crisi totale quando sopravvengono emergenze. Per le corti di appello il principio è quello di una per regione. Ma la Sicilia ne ha quattro: Palermo, Caltanissetta, Messina e Catania; la Puglia ne ha tre: Bari, Lecce e Taranto. Se due corti sono sufficienti per macroregioni come Lombardia e Campania altrettante dovrebbero bastarne per Sicilia e Puglia. È stato insensato mantenere un tribunale in ogni capoluogo di provincia, tanto sono diversificate le situazioni. L’assurda ‘regola del 3’ mantiene tre tribunali anche nelle mini corti di appello che, invece, andrebbero soppresse. Il ministero della Giustizia dispone di tutti i dati aggiornati necessari per procedere alla revisione. Non ignoro le resistenze dei deputati, degli amministratori locali e di una parte dell’avvocatura. Ma deve essere chiaro che in mancanza di un incisivo e preventivo intervento sulla revisione della geografia giudiziaria sarà inevitabile un gigantesco spreco dei fondi europei e si renderà più difficile il raggiungimento dell’ambizioso obiettivo di ridurre la durata dei processi nel civile del 40 percento e nel penale del 25 per cento”. La commissione ministeriale, presieduta dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, disegna un nuovo processo penale. “La Commissione Lattanzi modifica significativamente la proposta Bonafede: piuttosto che ideologia e propaganda, prevede interventi coraggiosi sul processo per assicurare insieme celerità e garanzie. Meno casi a giudizio, grazie a un ampliamento dei criteri per l’archiviazione da parte del giudice dell’udienza preliminare, e dunque maggiore celerità per quelli che effettivamente meritano di andare a processo. S’introduce anche il concetto dell’archiviazione meritata, una misura innovativa per i reati meno gravi, subordinata a riparazioni verso la vittima o a lavori di pubblica utilità. L’effetto deflattivo sul dibattimento potrebbe essere significativo”. La maggioranza però sembra spaccata sul nodo della prescrizione. “Vi sono diverse proposte per attuare un ragionevole equilibrio. Il blocco dopo il giudizio di primo grado, che peraltro è la regola in gran parte d’Europa, nella nostra situazione potrebbe portare al ‘fine processo mai’. Ma non dimentichiamo che grazie alla riforma ex Cirielli la prescrizione ha vanificato indagini e processi anche per reati gravi e anche dopo la pronuncia di primo grado. Altrettanto potrebbe accadere per alcune posizioni nel processo per il crollo del ponte Morandi. Il processo infinito non è la soluzione ma occorre evitare che la prescrizione sia agevolmente raggiungibile. Non dobbiamo dimenticare l’ovvio: il difensore ha il dovere deontologico di avvertire il cliente che una impugnazione meramente dilatoria con possibilità di successo zero può far fruttare la prescrizione. Tempi ragionevoli per il processo e obiettivo prescrizione (pressoché) irraggiungibile: così imporrebbe un approccio razionale”. Con i sei referendum sulla giustizia promossi da Lega e Radicali torna il tema della responsabilità civile su cui gli italiani si espressero in modo netto già nel 1987. “La semplificazione del ‘chi sbaglia paga’ è ricorrentemente proposta - risponde Bruti Liberati - ma rimane fuorviante. Se in un sondaggio di opinione si chiede se sia opportuno che il giudice sia tenuto a risarcire i danni che abbia cagionato con una decisione colpevolmente errata, i più risponderanno di sì. ‘Chi sbaglia, paga’, sembra ovvio. Ma che la responsabilità personale del giudice per i danni (problema, si noti, diverso e indipendente dalla responsabilità dello stato) costituisca uno strumento efficace e opportuno allo scopo, non è affatto ovvio, anzi. Già dieci anni fa si esprimeva così, sul Corriere della sera, un grande professore di Diritto civile, Pietro Trimarchi, e non si potrebbe dire meglio. La responsabilità dello stato per le disfunzioni della giustizia esiste dovunque in Europa. La responsabilità diretta del magistrato che qualcuno vorrebbe introdurre da noi non esiste da nessuna parte in Europa. In caso di condanna dello stato, esiste già nel nostro sistema la cosiddetta azione di regresso nei confronti del magistrato ma i casi sono stati pochissimi e, a mio avviso, giustamente. In Francia, dove è previsto un sistema abbastanza simile al nostro, l’azione di regresso, action récursoire, nei confronti del magistrato di fatto non è mai stata esercitata. Una disciplina ‘vendicativa’ nei confronti del singolo magistrato avrebbe il solo risultato di renderlo più timoroso di fronte a quei casi difficili che però sono il pane quotidiano della giustizia. Gli eccessi sulla responsabilità professionale dei medici hanno portato alla medicina difensiva. I magistrati professionalmente attrezzati, quale che sia la futura disciplina, continueranno ad assumersi le loro responsabilità”. Nordio: “Rimettiamo mano al codice Vassalli” Per l’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, toga blu della magistratura e oggi in pensione, “è bene distinguere le riforme necessarie e urgenti tra quelle possibili, quelle difficili e quelle impossibili. Tra le prime vi è quella della giustizia civile, perché i suoi ritardi incidono gravemente sull’economia con un impatto sul pil stimato in due punti percentuali. È una riforma facile perché esistono dei sistemi, come quello tedesco, che si possono copiare. Non è divisiva come quella penale, e per di più è quella che ci vien chiesta con maggiore insistenza dall’Europa. Questa riforma è dunque possibile. Poi vi sono almeno un paio di reati che impattano negativamente sull’economia, perché rallentano o paralizzano l’attività amministrativa: mi riferisco all’abuso d’ufficio e al traffico di influenze, aggiungiamoci anche la legge Severino. Andrebbero aboliti, e non ci sarebbe un vuoto di tutela. Ma ci sarebbero forti resistenze parlamentari, soprattutto da parte del M5s. Sarebbe quindi una riforma difficile. Infine, quelle impossibili. Prima di tutto un nuovo Codice di procedura penale. L’attuale codice Vassalli è stato così snaturato, demolito e imbastardito che ormai è un mostriciattolo da sopprimere, nessuno ci capisce più nulla. Va riscritto di sana pianta, recuperando l’originale disegno di un rito accusatorio e liberale. L’idea che si possa fare entro cinque o sei mesi è metafisica perché con questo Parlamento conservatore si arriverebbe al massimo a un pasticcio. A seguire, con le altre riforme necessarie ma impossibili, vi è quella del Csm, ormai screditato come tutto il sindacato della magistratura. Io auspico da sempre l’elezione per sorteggio, e sono stato considerato a dir poco un eretico; mi rallegro che oggi anche molti colleghi, unitamente a illustri giuristi, la pensino così. Il sorteggio non è previsto dalla Costituzione ma associarlo a un’elezione di primo o secondo grado potrebbe superare il problema. Anche qui le resistenze sarebbero enormi. In tempi normali un governo con un capo così autorevole e una ministra come Marta Cartabia, in assoluto la migliore dai tempi di Gonella, potrebbe anche provarci, ma occupato com’è dalla crisi pandemica ed economica non so se sarà in grado di rischiare”. Non abbiamo parlato del ruolo delle procure. “Non mi sottraggo. Ogni procura ha centinaia di ‘fascicoli virtuali’, vale a dire esposti che si riferiscono ai fatti più diversi. E da lì pesca se e quando vuole. Poi esiste il ‘fascicolo clonato’, cioè quello che il pm estrae dalle sue stesse indagini creandone di nuove ed estendendole a soggetti diversi. Questo in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale che in realtà è diventata arbitraria e conferisce ai pm un potere enorme, con una facoltà di intervento virtualmente illimitata, senza alcuna responsabilità. Rilevo che nel sistema accusatorio il District attorney americano dirige le indagini ma la sua attività è valutata alla fine del suo mandato quadriennale attraverso le elezioni. Chi sbaglia paga con la rimozione, non con il giudizio disciplinare che da noi è una favola vuota, e tantomeno con il risarcimento, che peraltro è affidato a un ente assicurativo. Finché avremo un pm che in nome della cosiddetta cultura della giurisdizione - espressione di vuota astrazione speculativa - gode dell’indipendenza del giudice ma con un potere di iniziativa insindacabile, non risolveremo il problema. Personalmente preferisco il sistema britannico dove il pm è l’avvocato dell’accusa ma le indagini sono affidate a Scotland Yard. In ultimo, c’è da rifare il Codice penale firmato da Mussolini e da re. Cosicché, paradossalmente, se entrasse in vigore la legge Zan avremmo delle condanne fondate sull’impalcatura di un Codice elaborato da chi ha promulgato le leggi razziali… E questo la dice lunga sulla disgregazione complessiva del nostro sistema penale”. Che opinione ha dei referendum di Lega e Radicali? “Credo che solo il referendum possa dare uno scossone a un’impalcatura marcita. Pur nutrendo molti dubbi sulla formulazione dei quesiti, l’importante sarebbe il messaggio innovatore che arriverebbe da una larga partecipazione e magari da una convincente vittoria”. Rossi: “Niente più leader unici o notabili nel Csm” Per Nello Rossi, già procuratore aggiunto di Roma e oggi direttore della rivista Questione Giustizia, “la crisi della magistratura non passa. Montata due anni fa, l’ondata di piena non accenna a placarsi, alimentata da campagne martellanti, dai toni spesso parossistici e da mediocri conflitti interni al mondo dei magistrati che ostacolano la severa ‘critica di se stessi’ indispensabile per rialzarsi e ricostruire”. La credibilità della magistratura, dottor Rossi, è ai minimi storici: quali sono le conseguenze? “Una magistratura quotidianamente additata al sospetto e una giustizia inefficace e paralizzata sono un danno incalcolabile per il paese. Nasce da qui la scommessa ambiziosa della ministra della Giustizia Cartabia di puntare su riforme che restituiscano alla giurisdizione un accettabile grado di efficienza e tempestività favorendo una visibile rinascita etica della magistratura”. Con quale ordine e quali priorità? “È giusto - prosegue Nello Rossi - che il processo riformatore inizi dal luogo in cui la crisi è nata: il Csm, organo che la Costituzione prevede ‘eletto’, nella sua componente togata, da tutti i magistrati. Non c’è spazio per il sorteggio. Proprio chi è convinto che le aggregazioni tra magistrati che hanno una comune visione della giustizia e dei suoi problemi siano non solo legittime ma anche indispensabili deve ‘volere’ che il sistema di elezione dei membri togati del Csm sia liberato dal peso opprimente dei leader unici e incontrastati (à la Cosimo Ferri, per intenderci), dei notabili onnipotenti (à la Palamara, per capirci), delle oligarchie onnipresenti, anche in seno alla magistratura progressista”. Insomma, il correntismo ha da finire. “Muoiano pure le correnti come apparati di potere, signore delle elezioni e dispensatrici di posti, se questo può servire a far rivivere i gruppi di magistrati che hanno ancora voglia di pensare insieme, ragionando del diritto e della sua politica, della giustizia e della sua organizzazione e alimentando quei vivaci centri di elaborazione culturale che sono le riviste. È un fatto che la vigente legge elettorale del Csm, datata 2002 e targata Berlusconi-Castelli, ha miseramente fallito l’intento proclamato di annullare o ridurre il peso elettorale delle correnti. Eppure quella legge era il trionfo dell’atomismo: i gruppi associativi non vi erano mai menzionati, non c’erano liste di candidati, le candidature erano tutte rigorosamente individuali. Piccolo inconveniente: quella legge non faceva i conti con la ritrosia dell’elettore per il voto inutile. E poiché tutti i voti espressi a favore di un candidato non eletto venivano cancellati e mandati al macero, i gruppi associativi hanno avuto buon gioco nel suggerire di concentrare i voti su chi aveva - sulle base delle loro indicazioni o, nel migliore dei casi, sulla base di elezioni primarie - concrete possibilità di essere eletto. Un boomerang classico delle riforme mal concepite: la produzione di effetti opposti a quelli desiderati”. La commissione ministeriale, presieduta dal professor Massimo Luciani, intende riformare il sistema elettorale per la componente togata del Csm. “Oggi, sulla scorta delle indicazioni della commissione Luciani, si punta sul sistema elettorale del ‘voto singolo trasferibile’ che chiede all’elettore di dare una pluralità di preferenze ‘in scala’ nell’ambito di una platea di candidati presentati da pochi sostenitori. Il sistema dovrebbe consentire agli elettori scelte più articolate e attente alle qualità dei candidati, e sparigliare i calcoli meramente elettoralistici. Il meccanismo funzionerà se le candidature saranno numerose e se sarà alto il numero di preferenze che l’elettore ‘dovrà’ esprimere. Nel rispetto, tra l’altro, dell’esigenza di una equilibrata rappresentanza di genere, sempre più avvertita in una magistratura ricca di presenze femminili”. Dunque per lei, dottor Rossi, il metodo di elezione del Csm resta la priorità. “L’urgenza della riforma del meccanismo elettorale nasce dalle cose, il rinnovo del Csm non è lontano, e dalla consapevolezza che solo un Consiglio rigenerato e depurato da scorie clientelari potrà gestire efficacemente le molte modifiche dell’ordinamento giudiziario prefigurate dalla Commissione in tema di nomine e conferme dei dirigenti, formazione dei magistrati e organizzazione degli uffici”. La Commissione Lattanzi invece si è concentrata sul processo penale. “È l’altro grande ammalato della nostra giustizia che pone in evidenza il nodo, oggi enormemente controverso, della collocazione istituzionale e del ruolo processuale del pubblico ministero. Su questo terreno la commissione Lattanzi si muove su due linee diverse e parallele, ma non contraddittorie. Da un lato propone di intensificare il controllo del giudice sull’operato del pubblico ministero e impone al pm di rinunciare all’appello contro le assoluzioni, in perfetta coerenza con la regola che chiede al giudice di primo grado di assolvere l’imputato in presenza di un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza. Dall’altro, al fine di ampliare i riti alternativi e deflazionare il dibattimento, conferisce all’organo inquirente maggiore discrezionalità e libertà di manovra, ad esempio in tema di patteggiamenti e di proposte di archiviazioni ‘meritate’ per effetto della riparazione delle conseguenze dannose dei reati. È mia opinione che la nuova fisionomia del pubblico ministero richiederà, con ancora più forza, che l’ufficio rimanga ancorato alla giurisdizione e alle sue regole. Si tratta di sanzionare rigorosamente le violazioni e le cadute (che ci sono) ma non di trarne spunto per snaturare il modello italiano che sta orientando la riflessione sul pubblico ministero in corso di svolgimento in ambito europeo. Del resto, quali alternative vi sono al nitido disegno costituzionale?”. Che idea si è fatto dei referendum promossi da Lega e Radicali? “Il referendum radical-leghista sulla separazione delle carriere è così mal congegnato che non porterà da nessuna parte. Le cinque leggi coinvolte e una infinità di quesiti referendari di segno divergente rendono impossibile per il cittadino rispondere con un secco sì o no, come impone la logica dell’istituto del referendum abrogativo. Diversa è la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dall’Unione delle Camere penali: concorsi di accesso separati, carriere separate, due Consigli superiori distinti. L’Unione proclama di voler salvaguardare l’indipendenza dei magistrati del pubblico ministero e l’obbligatorietà dell’azione penale rivendicando la perfetta buona fede della sua iniziativa. C’è da crederle: gli avvocati penalisti non hanno infatti alcuna voglia di veder iniziare i processi con la formula che si ascolta nei legal thriller televisivi: ‘Lo stato di New York contro XY’. Ma è difficile pensare che i pubblici ministeri italiani, una volta divenuti, a seguito della riforma, altrettanti samurai senza padrone, reggerebbero l’urto delle prime dure polemiche dovute al distacco. Infine, ad agitare le acque, ritorna l’eterno tema della prescrizione che si potrà risolvere solo a patto che si scelga il pragmatismo delle soluzioni mediane e compromissorie indicate dalla commissione Lattanzi. Senza dar vita a guerre di religione promosse da forze politiche che, dichiarandosi estranee alle ideologie, finiscono con il trasformare in totem ideologici questioni che meritano di essere affrontate con ragionevolezza e sensibilità istituzionale”. A Davigo non piacciono i quesiti del referendum sulla giustizia, ma sono legittimi di Giovanni Guzzetta Il Riformista, 9 luglio 2021 In materia di referendum sulla giustizia si è già acceso un notevole dibattito, come del resto accade sempre quando simili iniziative tocchino temi particolarmente “caldi”. E che la giustizia sia uno di questi è evidente, “oltre ogni ragionevole dubbio”. Nei dibattiti sulle iniziative referendarie c’è sempre un rischio: quello di confondere il merito politico con le questioni di legittimità giuridica della proposta. Sul merito politico, ovviamente ogni opinione è lecita. Proprio perché è politica la decisione che il corpo elettorale dovrebbe assumere nel momento in cui si andasse a votare. Ma, come sappiamo, perché si possa votare il quesito referendario è necessario, per i promotori, superare una serie di ostacoli giuridici. La Costituzione, come interpretata dalla Corte costituzionale che giudica l’ammissibilità dei referendum, pone, infatti una serie di limiti anche sostanziali. Non si possono, ad esempio, promuovere referendum per abrogare norme costituzionali o per intervenire su determinate materie disciplinate dalla legge (amnistia e indulto, trattati internazionali, leggi tributarie o di bilancio). Il quesito, inoltre, dev’essere chiaro e omogeneo, cosicché gli elettori possano esprimere un voto consapevole. E via discorrendo. Il rischio a cui accennavo è che chi partecipa al dibattito utilizzi presunti limiti giuridici per rafforzare le proprie, legittime, contrarietà di merito. Ad esempio, nel caso dell’attuale iniziativa referendaria è stato autorevolmente (ma erroneamente) sostenuto che sarebbero costituzionalmente inappropriati i referendum sulla magistratura, in quanto ne minaccerebbero l’indipendenza garantita dalla Carta fondamentale. L’onestà intellettuale, in un dibattito così cruciale, vorrebbe invece che i due piani si tenessero chiaramente distinti, e si evitassero gli argomenti “a effetto”, soprattutto da parte degli esperti, la cui responsabilità, nell’aiutare i cittadini a capire e scegliere liberamente, è importantissima. Per questo non convincono affatto le perplessità di Piercamillo Davigo sull’ammissibilità del referendum relativo alla responsabilità civile dei giudici. Davigo infatti ritiene che la previsione di una azione diretta del cittadino nei confronti del singolo magistrato renderebbe il quesito inammissibile. L’unica reazione possibile di fronte al danno causato da dolo e alla colpa grave del magistrato sarebbe quella di rivolgersi allo Stato (solo questo potrebbe poi “rivalersi” sul magistrato). L’azione diretta invece determinerebbe una illegittima “personalizzazione” della responsabilità, tale da intimidire il magistrato e da potere persino indurlo a “svendere” la propria indipendenza. In particolare, poi, la giurisprudenza costituzionale, riferita ai principi di indipendenza della magistratura, conforterebbe questa lettura critica e sbarrerebbe la strada alla soluzione proposta dai promotori dell’iniziativa. Nessuno di noi può sapere cosa deciderà la Corte costituzionale sul punto. I precedenti, però, offrono alcune indicazioni che vanno in direzione opposta a quella preconizzata da Davigo. Innanzitutto perché di responsabilità “diretta” dei pubblici funzionari (tra cui i magistrati) parla espressamente l’art. 28 della Costituzione, mentre manca qualsiasi deroga “espressa” a tale disposizione negli articoli che si occupano della magistratura. Inoltre appare difficile che la Corte costituzionale tradisca un proprio precedente specifico. Con la sentenza 26 del 1987, la Consulta ha già ammesso, come ricorda lo stesso Davigo, un referendum sulla responsabilità civile dei giudici. Un referendum che, peraltro, aveva una portata assai più estesa, in quanto, puramente e semplicemente, abrogava le norme del codice civile (art. 55, 56, 74) che limitavano la responsabilità civile dei magistrati rispetto agli altri dipendenti pubblici. In quella sentenza, peraltro molto breve, la Corte sottolineava due aspetti assai importanti. Innanzitutto (riprendendo anche un precedente del 1968) affermava che l’art. 28 della Costituzione stabilisce un “principio generale” che rende tutti i pubblici funzionari “sia pure magistrati (…) personalmente responsabili”. In secondo luogo, sebbene riconoscesse che la Costituzione ammette che la “responsabilità sia disciplinata variamente per categorie o per situazioni” (in particolare con riferimento alla magistratura), la Consulta affermava chiaramente che, in questo campo, non esiste una scelta “obbligata”, per cui il referendum non incontrerebbe il limite di intervenire su norme “a contenuto costituzionalmente vincolato”, così da dover essere dichiarato inammissibile. Insomma, non è opportuno soprattutto in presenza di tali precedenti (e se si vuole, con onestà intellettuale, contribuire al dibattito), tirare per la giacchetta il giudice costituzionale. È sufficiente dichiararsi, nel merito, contrari al referendum. E anche per Davigo è assolutamente lecito schierarsi politicamente contro. Ancor meglio se facendolo da cittadino, più che da “esperto”. Magistratura Democratica, un congresso che non può essere rituale di Livio Pepino Il Manifesto, 9 luglio 2021 Oggi i temi sul tappeto, strettamente connessi con la questione morale, sono di nuovo quelli di una giustizia disuguale, di una repressione spesso cieca e guidata da ragioni di ordine pubblico, di una frequente caduta delle garanzie, di un continuum tra potere politico e giurisdizione. Luigi Pintor descriveva i magistrati come “mostri spesso ossuti e avvizziti, più spesso obesi e flaccidi, col viso marcato dalle nefandezze del loro mestiere” e Fabrizio De André cantava Il giudice, mentre la magistratura aveva il sostegno incondizionato della destra. Non per caso, ma per la prevalente intraneità del corpo giudiziario al sistema di potere che governava il Paese. Trent’anni dopo il quadro sembrava capovolto. La giustizia era tra i pochi temi capaci di mobilitare una sinistra smarrita, divisa, priva di idee e accodata (un po’ innaturalmente) a una concezione della giurisdizione come veicolo di progresso e di democrazia, mentre ad attaccare giudici e pubblici ministeri, con un accanimento a dir poco inconsueto, erano la destra e suoi paladini. Anche qui, non per caso ma per i profondi mutamenti intervenuti nel sistema giustizia, in conseguenza del clima politico esterno e della spinta di vivaci componenti interne. Oggi il quadro è nuovamente cambiato. I magistrati hanno scoperchiato santuari intoccabili e affermato diritti precedentemente privi di tutela ma nello stesso tempo (e talora insieme, in un intreccio perverso) ci sono state gravi cadute sul piano delle garanzie, assunzione di compiti impropri in particolare da parte di pubblici ministeri, riallineamenti con i forti a scapito dei deboli. Poi è intervenuto il “ciclone Palamara”, spia del vuoto di ideali di un ceto associativo impegnato a tempo pieno nel distribuire favori e promozioni con una volgarità disinteressata finanche alle forme. Così sembra essere crollato un mito, c’è nei confronti dei magistrati (e del loro Consiglio superiore) una diffidenza bipartisan e sono in molti a cogliere l’occasione per tentare di riportare i giudici “sotto il trono” del sistema politico. In parallelo, nella maggioranza della magistratura è forte la sindrome della “cittadella assediata” che amplifica il corporativismo e l’incapacità di dialogo con la società. Si colloca su questo crinale il congresso di Firenze di Magistratura democratica, un appuntamento importante e non di routine. Delle vicende della magistratura negli ultimi 50 anni, infatti, Md è stata protagonista fondamentale e con una spiccata autonomia, come ricordano, non senza ironia, Paolo Borgna e Jacopo Rosatelli nella ricca conversazione Una fragile indipendenza (Edizioni SEB 27, 2021): “Md non era la cinghia di trasmissione del Pci. Casomai, nella testa di qualche dirigente di Md il rapporto era rovesciato, il Pci doveva fare quello che diceva Md”. Ciò - merita sottolinearlo - è avvenuto in stagioni non meno complicate di quella attuale: basti pensare alla conventio ad excludendum degli anni ‘70 nei confronti dei giudici progressisti, ai rapporti con Sindona di un magistrato potente come Carmelo Spagnuolo, agli ammiccamenti con la P2 del segretario della corrente maggioritaria dell’Associazione magistrati. Allora Md, pur numericamente ridotta, seppe essere, dentro e fuori l’istituzione, un imprescindibile elemento di confronto e realizzò una vera e propria egemonia culturale nella costruzione di un modello alternativo di magistrato, di organizzazione giudiziaria, di politica della giustizia egualitaria, garantista e coerente con il modello costituzionale. Poi, per una pluralità di ragioni, quel ruolo si è attenuato. E se ne sono visti gli effetti… Oggi i temi sul tappeto, strettamente connessi con la questione morale, sono di nuovo quelli di una giustizia disuguale, di una repressione spesso cieca e guidata da ragioni di ordine pubblico, di una frequente caduta delle garanzie, di un continuum tra potere politico e giurisdizione (a volte longa manus di poteri forti: non ingannino alcune rumorose indagini sedicenti eccellenti!). La storia non si ripete mai allo stesso modo ma di nuovo, per uscire in avanti da questa situazione ci vogliono intelligenza politica, coerenza e, soprattutto, consapevolezza che senza conflitto, anche interno al corpo giudiziario, vincono sempre corporativismo e status quo. Per questo, e non per ragioni di schieramento, il congresso di Md non può essere rituale. Consulta: sequestro di persona, ok alle attenuanti per i recidivi di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 9 luglio 2021 I giudici hanno ribadito l’esigenza di assicurare “una pena adeguata e proporzionata alla differente gravità del reato” nel caso in cui sia un “fatto di lieve entità”. La Corte costituzionale, ieri, con il deposito delle motivazioni della sentenza numero 143 ha inferto un ennesimo colpo al severo regime del bilanciamento delle attenuanti per i casi di recidiva reiterata. Il caso in esame riguardava l’attenuante del “fatto di lieve entità” nel sequestro di persona a scopo di estorsione. Una circostanza, peraltro, introdotta dalla stessa Consulta con una sentenza del 2012, espressamente rivolta a mitigare le pene, particolarmente aspre, previste dall’articolo 630 del codice penale, in caso di minor gravità del fatto. Punti fermi della Consulta, la proporzionalità della pena, la parità di trattamento tra i coimputati e la effettiva funzione rieducativa della sanzione penale, che perde di significato se eccessivamente sproporzionata. Nel reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, visto che la forbice tra il minimo e il massimo della pena edittale è di soli 5 anni, la Consulta ha ribadito l’esigenza di assicurare ‘ una pena adeguata e proporzionata alla differente gravità del fatto - reato”, precisando che “la disposizione censurata, nel precludere la prevalenza sulla recidiva reiterata dell’attenuante del fatto di lieve entità vanifica la funzione mitigatrice che questa Corte ha riconosciuto”. La Corte costituzionale ha riconosciuto, dunque, la possibilità di bilanciare con giudizio di prevalenza l’attenuante del “fatto di lieve entità” rispetto all’aggravante della cosiddetta recidiva reiterata, anche nel reato di sequestro di persona a scopo di estorsione. Il senso dell’intervento è chiaro: da una parte, rammenta che le pene eccessivamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto non giovano alla finalità rieducativa dell’articolo 27 della Costituzione; dall’altra ribadisce che il sistema penale si dota di circostanze attenuanti, la cui funzione mitigatrice non può essere annichilita dal legislatore. La vicenda, da cui nasce la rimessione della questione di legittimità, da un processo davanti alla Corte d’assise d’appello di Bari che, pur riconoscendo l’attenuante in questione, a parità di fatto, condannava i recidivi a pene più elevate. La disparità di trattamento di pena, rispetto a medesime e non gravi circostanze di fatto, modo e tempi, e la necessità di adeguare la condanna alla non eccessiva gravità del comportamento illecito erano state le argomentazioni della Cassazione poste alla base della questione di legittimità costituzionale. La corte d’assise d’appello, riformando il giudizio di primo grado, aveva infatti deciso, di riconoscere a tutti gli imputati questa attenuante, in quanto il sequestro si era consumato per poche ore e nei confronti di un partecipante al sodalizio, che aveva sottratto del denaro dalla vendita di stupefacente che gli era stato consegnato dai sodali in custodia. Al giudice non era però sfuggito nelle sue argomentazioni a sostegno della non manifesta infondatezza della questione, che proprio con la sentenza del 2012 la Consulta aveva affermato la funzione mitigatrice dell’attenuante del “fatto di lieve entità”, soprattutto rispetto ai casi di risposte punitive improntate a particolare asprezza anche in ragione di interventi di natura emergenziale. L’avvocatura dello Stato aveva obiettato che la questione dovesse essere considerata infondata visto che il giudice ben avrebbe anche potuto escludere la recidiva reiterata nel caso non obbligatoria. La Corte costituzionale dal canto suo aveva risposto che non avrebbe potuto abdicare dall’offrire una risposta alla questione in concreto proposta. Il problema si era posto dopo la legge numero 251 del 2005, la ‘ex Cirielli’, che fu animata da un generale senso di inasprimento del sistema penale soprattutto in riferimento ai recidivi, sia in termini di aumenti della pena che di divieti ai benefici penitenziari. Obiettivo del legislatore era inasprire la risposta sanzionatoria; tuttavia questo ha creato un effetto dirompente sull’esponenziale aumento della pena in modo indipendente rispetto alla gravità del caso concreto. È anche per tale motivo che va ricordato che il regime del divieto della prevalenza delle attenuanti sulla recidiva, introdotto proprio dalla ex Cirielli, sia stato più volte oggetto di verifica della legittimità costituzionale nei singoli casi e che numerose siano state le pronunce, in cui la Consulta ha restituito al giudice il potere di valutare in concreto la prevalenza delle singole attenuanti rispetto alla recidiva reiterata, soprattutto per i reati in cui le prime avrebbero inciso sul giudizio di un minor gravità della condotta, rispetto ad una pena finale proporzionata e costituzionalmente orientata nel senso della finalità rieducativa. Liguria. Garante dei detenuti, il Terzo Settore propone il criminologo Stefano Padovano savonanews.it, 9 luglio 2021 Hanno inviato una lettera al presidente Toti e ai membri del consiglio regionale proponendo il nominativo che “possiede tutti i requisiti indispensabili per assolvere tale incarico”. Una lettera inviata al presidente Giovanni Toti e ai membri del consiglio regionale, scritta da professionisti che operano negli ambiti di competenza normati dalla legge della Regione Liguria i quali lo scorso 29 marzo hanno promulgato l’istituzione del “Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale”. “Nel manifestarvi la nostra soddisfazione per la decisione assunta dalla Giunta regionale, relativamente al ruolo indicato è nostra cura segnalare i tratti chiave a cui tale figura dovrebbe rispondere, affinché il ruolo di Garante sia esercitato con impegno e serietà per la durata dell’incarico. In questo senso, ci pregiamo di segnalare il nominativo del Prof. Stefano Padovano” dicono i criminologi, psichiatri e rappresentanti del settore. “La figura che ci permettiamo di indicare possiede, a nostro parere, tutti i requisiti indispensabili per assolvere tale incarico: sia dal punto di vista delle competenze professionali (criminologo, docente, formatore, esperto in tematiche di disagio psichiatrico e dipendenze, sia per le qualità di intermediazione e sintesi con le figure istituzionali degli ambiti coi quali avrà la facoltà di interagire (autorità di pubblica sicurezza, conferenza nazionale garanti, Tribunale di Sorveglianza, Uepe) e in cui è riconosciuta la sua professionalità” continuano. “Inoltre, risponderebbe ai tratti costitutivi del profilo unanimemente condiviso dalle realtà che hanno partecipato alla recente Audizione della Rete Carcere con l’ufficio di Presidenza e la Conferenza dei Capigruppo: preparazione, età, motivazioni, e quell’insieme di capacità professionali che rappresenterebbero un valore aggiunto per una scelta istituzionale che investe in prima persona la Regione Liguria” concludono. Puglia. Diritto agli studi universitari in carcere, accordo fra Dap ed atenei noinotizie.it, 9 luglio 2021 È stata sottoscritta a Lecce, nella sala conferenze del Rettorato dell’Università del Salento, la convezione per il diritto agli studi universitari in carcere tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Provveditorato Regionale della Puglia e Basilicata (PRAP) e le Università pugliesi. Firmatari: il Provveditore Regionale Giuseppe Martone, il Rettore dell’Università del Salento Fabio Pollice, il Rettore del Politecnico di Bari, Francesco Cupertino; il Rettore dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, Stefano Bronzini, il Rettore dell’Università LUM “Giuseppe De Gennaro”, Antonello Garzoni e, per il Rettore dell’Università di Foggia Pierpaolo Limone, la delegata professoressa, Anna Maria Campanale. Con la firma della convenzione, gli Atenei pugliesi aderiscono alla CNUPP - Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari, istituita dalla CRUI - Conferenza dei Rettori delle Università Italiane e rappresentata nel corso dell’incontro dal Presidente nazionale Franco Prina. Presenti inoltre i delegati dei Rettori per i Poli Universitari pugliesi per studenti detenuti Ignazio Grattagliano (Università di Bari) e Marta Vignola (Università del Salento). Obiettivo principale della convenzione è la collaborazione tra le istituzioni firmatarie, che si impegnano a individuare aree di intervento mirate a favorire lo sviluppo culturale e la formazione universitaria: per sostenere i detenuti negli istituti penitenziari della Puglia con l’obiettivo primario del reinserimento; per favorire la formazione universitaria del personale operante nel territorio di competenza del Provveditorato della Puglia; per giungere alla costituzione di un “Polo didattico universitario penitenziario Appulo-Lucano” quale sistema integrato di coordinamento delle attività volte a consentire ai detenuti e agli internati negli istituti penitenziari interessati il conseguimento di titoli di studio di livello universitario, secondo le modalità che saranno disciplinate negli atti regolamentari e le procedure e le condizioni vigenti presso ciascun Ateneo. La realtà dei Poli Universitari Penitenziari italiani, iniziata più di venti anni fa a Torino e replicata, pur con differenze locali, in numerose altre sedi universitarie, coinvolge attualmente circa 40 Atenei che operano in oltre 80 istituti penitenziari. Nell’anno accademico in corso sono 1.034 gli studenti detenuti iscritti, dei quali 109 (10,5%) si trovano in regime di esecuzione penale esterna, 549 (53,1%) scontano una pena in carcere in circuiti di media sicurezza, 355 (34,3%) in alta sicurezza e 21 (2,1%) in regime 41bis. Le studentesse sono 64, quindi il 6,2% del totale degli studenti. Nel primo triennio di vita della CNUPP - Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari, gli Atenei aderenti con studenti attivi sono passati da 27 nel 2018/19 a 32 nel 2020/21 (con un incremento del 18,5%); gli Istituti Penitenziari in cui operano i Poli Universitari Penitenziari da 70 a 82 (con un incremento del 17,1%); il numero di studenti iscritti da 796 a 1034 (con un incremento del 29,9%). Tra questi dati spicca il notevole incremento della componente femminile, che passa da appena 28 studentesse nel 2018-19 a 64 nel 2020-21, quindi con un incremento del 128,6%. La costituzione della CNUPP ha permesso agli Atenei impegnati a garantire il diritto agli studi universitari per le persone private della libertà personale di agire in maniera coordinata e interloquire a una voce sia con il sistema universitario sia con quello penitenziario. Le interazioni avviate con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, in particolare con la Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento del DAP, competente per le attività formative, ha permesso di siglare nel settembre del 2019 un protocollo d’intesa che definisce le modalità per il confronto permanente tra CNUPP e DAP. A breve saranno emanate delle linee guida condivise per regolamentare le attività di studio universitario all’interno degli istituti penitenziari italiani. La costituzione della CNUPP permette inoltre ai referenti delle singole università di confrontarsi continuamente su varie problematiche, scambiarsi buone pratiche, rivolgere istanze al DAP su singole situazioni e affrontare problematiche complesse come, per esempio, i disagi dovuti ai trasferimenti dei detenuti studenti universitari da un istituto penitenziario a un altro. In questi casi la CNUPP funge da network interconnesso, in cui docenti e uffici amministrativi collaborano tra loro e con l’Amministrazione Penitenziaria per facilitare il trasferimento degli studenti da un ateneo a un altro. La CNUPP è quindi un esempio di rete istituzionale e inter-istituzionale promossa da Università che ritengono doveroso onorare il proprio ruolo garantendo l’accesso e lo svolgimento degli studi universitari anche a persone private della libertà, che in questo modo esercitano un loro diritto costituzionale. Non solo gli Atenei, ma anche singoli docenti, amministrativi e tutor svolgono la loro attività nell’ambito dei rispettivi ruoli istituzionali e della missione inclusiva che è propria delle Università. Impegni sono inoltre previsti sul fronte della formazione del personale dell’Amministrazione Penitenziaria (polizia penitenziaria e operatori dell’area trattamentale), nonché sullo sviluppo di attività di ricerca sulle problematiche carcerarie. Come sottolineato nel corso dell’incontro, percorsi in sinergia con l’Amministrazione Penitenziaria possono consentire di trasformare la detenzione da un tempo “sospeso” a un periodo fecondo, in cui il cittadino condannato possa intraprendere percorsi formativi anche di alto livello, che gli consentano di investire sul proprio capitale umano - strumento indispensabile per ridurre i rischi di recidiva - con benefici sia per il singolo che per la società. La presenza delle Università nei luoghi di detenzione ha, in questo senso, una profonda valenza culturale per il Paese e per la più ampia discussione sul significato che possono avere la pena e l’esecuzione penale. Torino. Morte al Cpr, l’inchiesta si allarga: indagini sull’assistenza a 200 ospiti di Giuseppe Legato La Stampa, 9 luglio 2021 La procura: verifiche sul trattamento sanitario e psichico dei “trattenuti” da giugno 2020. Si allarga l’inchiesta sulla morte di Musa Balde, il giovane originario della Guinea morto suicida al Cpr (centro di permanenza per il rimpatrio) di Torino il 23 maggio. I magistrati Vincenzo Pacileo e Rossella Salvati, titolari del fascicolo per omicidio colposo che vede già indagati il direttore della struttura e un medico interno, hanno affidato ai consulenti accertamenti su centinaia (si parla di circa 200), persone che sono transitate negli ultimi 12 mesi dalla struttura di corso Brunelleschi. Obiettivo: verificare il tipo di assistenza che hanno ricevuto. Sia dal punto di vista sanitario che da quello psichico. Nelle scorse settimane i carabinieri del Nas hanno acquisito centinaia di cartelle cliniche e l’analisi accurata dei documenti è stata demandata dai pm ai professionisti. Tutti coloro che sono transitati dal Cpr da giugno 2020 allo stesso mese del 2021 finiscono dunque sotto la lente dei magistrati nella declinazione del trattamento ricevuto. Non solo dunque coloro che sono stati ospitati in uno specifico reparto del centro destinato a chi ha fragilità psichiatriche, ma tutti i “trattenuti”. L’ampliamento degli accertamenti fa il paio con il passo avanti investigativo di alcuni giorni fa quando nel fascicolo di inchiesta sono rientrati altri cinque casi raccontati nel “Libro nero del Cpr” pubblicato dall’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Il testo era stato diffuso nel corso della manifestazione tenutasi in piazza Castello alcune settimane fa organizzata da decine di associazioni per denunciare le condizioni “inaccettabili” in cui gli ospiti del centro sono costretti a vivere. Persone ritrovate nello stesso reparto in cui Musa si è tolto la vita, nel corso delle visite dei legali, in condizioni fisiche e psichiche molto gravi. Si è allora parlato di “celle pollaio”. Quel rapporto su casi limite comunque legati a sopravvissuti è diventato un esposto. Inglobato negli accertamenti in corso. Non a caso una delle prime denunce emerse sulla storia del giovane suicida è legata ai dubbi sulla qualità degli accertamenti psichiatrici che sarebbero stati garantiti. Musa era arrivato al Cpr di Torino due settimane dopo aver subito una gravissima (e ingiustificata) aggressione da parte di tre italiani armati di bastone. Era accaduto a Ventimiglia. Un fatto che - e si sta cercando di accertarlo - avrebbe meritato, per alcuni, un livello di assistenza più elevato. Sul reparto speciale in cui Musa era stato destinato si erano espressi in questi termini gli avvocati della Camera Penale di Piemonte e Valle d’Aosta: “Quella a cui è stato destinato, senza un accertamento sanitario e psicologico (anche in considerazione del fatto di cui è stato vittima in Ventimiglia), non è prevista dalla norma amministrativa che regola l’esistenza dei centri stessi e si tratta di una sezione totalmente isolata in cui i soggetti detenuti - perché di detenzione si tratta - sono isolati dalle altre persone, anche con privazione del telefono cellulare (inspiegabile) e lasciati a se stessi in un luogo di permanenza che fa apparire le fatiscenti e sovraffollate strutture carcerarie come delle strutture ricettive di lusso”. Novara. Il Garante: “Qui nessuna violenza, ma i detenuti sono senza lavoro e abbandonati” di Barbara Cottavoz La Stampa, 9 luglio 2021 Va in carcere ogni settimana e incontra i detenuti che gli chiedono un colloquio, spesso solo per parlare con qualcuno. Don Dino Campiotti è il garante dei reclusi di via Sforzesca dal 2017, quando fu nominato all’unanimità dal Consiglio comunale di Novara, ultima delle dodici città piemontesi con una prigione sul suo territorio a indicare un referente per i carcerati. All’indomani delle notizie sulle violenze nelle celle di Santa Maria Capua Vetere e delle inchieste aperte in altre realtà, da Opera a Palermo, da Torino a Melfi, don Campiotti commenta: “Mi risulta che qui la situazione sia tranquilla e ci sia rispetto da parte delle guardie nei confronti dei detenuti, anche se le difficoltà non mancano”. Il carcere di Novara ospita un centinaio di reclusi nella sezione giudiziaria in celle con 5-6 persone e altri 70 al reparto del cosiddetto 41/bis, il regime “duro” applicato agli autori di reati di stampo mafioso. Gli educatori in servizio sono due sui tre previsti in organico e questa è una delle situazioni critiche: “Molti detenuti si sentono abbandonati - commenta don Campiotti. A volte mi capita di incontrare persone che mi hanno invitato a un colloquio senza una vera motivazione o richiesta concreta ma solo per parlare con qualcuno, per sfogarsi e raccontare le proprie difficoltà. Gli operatori sono pochi rispetto ai reclusi che tra l’altro sono più di quanti dovrebbero essere, con un sovraffollamento delle celle che non è altissimo ma comunque c’è”. Il problema pressante, dentro le mura di via Sforzesca come fuori, è il lavoro, o meglio la sua assenza. I detenuti svolgono attività retribuite in cucina e nella pulizia del carcere ma le richieste sono tante: “La turnazione che un tempo era di sei mesi è stata ridotta a tre, per dare modo a più persone di lavorare - sottolinea il garante. A molti mancano anche i pochi euro per le sigarette o gli abiti”. Il momento più critico è l’uscita: tanti temono di ritrovarsi fuori dalla cella senza un soldo e la direzione, per quanto può, cerca di occupare soprattutto chi sta per essere liberato. All’interno del carcere è attiva una tipografia gestita dalla cooperativa “La terra promessa” che lavora con commesse esterne, ad esempio le “Agende della salute” distribuite dalla Regione Piemonte alle famiglie quando nasce un bambino. Altri detenuti sono impegnati nei cantieri di lavoro dell’Assa soprattutto per la sistemazione e pulizia dei parchi della città. Qualcuno studia nelle aule attrezzate all’interno della casa circondariale di via Sforzesca. Un’altra questione aperta riguarda la socializzazione. Di recente si è tenuto un concerto nel tendone allestito all’interno delle mura: “Si potrebbe fare di più e sarebbe utile per alleggerire la tensione e migliorare la vita in carcere - dice don Campiotti. È una prigione piccola e questo contribuisce a mantenere la situazione tranquilla, grazie anche alla sua struttura divisa in due: da una parte il regime ordinario e dall’altro quello speciale del 41 bis, con detenuti isolati e guardie che cambiano con una turnazione a livello nazionale. Mi sembra che il rapporto tra reclusi e agenti sia corretto e rispettoso, il comandante è una persona con grande senso di responsabilità e la direzione è presente. Sicuramente, manca personale sia tra gli agenti che tra gli educatori”. Genova. Protesta dei detenuti per il “taglio” a colloqui e telefonate di Stefano Origone La Repubblica, 9 luglio 2021 Lunga protesta nel carcere di Marassi, dove i detenuti la scorsa mezzanotte hanno comunicato il loro disagio e insofferenza battendo sulle sbarre delle celle e delle finestre stoviglie e pentolame, mettendo in allerta la polizia penitenziaria, dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere. “Il clima è sempre più pesante e pericoloso - spiega Fabio Pagani, segretario regionale della Uil Pa Penitenziari - ma da quanto appreso dal personale di Polizia Penitenziaria in servizio durante il turno di notte, sembra che i detenuti del carcere di Marassi, abbiano protestato contro l’attuale Direzione dell’istituto per via della decisione di ridurre le telefonate e i colloqui. La cosa che preoccupa è che nella protesta c’erano anche i detenuti della sesta sezione alta sicurezza”. Nei mesi della pandemia anche a Genova i detenuti avevano protestato in alcune occasioni sempre con battiture e con l’incendio di lenzuola per attirare l’attenzione della popolazione sulla condizione all’interno del carcere di Marassi che vive un cronico sovraffollamento con condizioni sempre più precarie per i detenuti e non solo. “In questi giorni si parla molto di carcere - sottolinea Pagani - ma ancora una volta temiamo che lo si faccia in modo sbagliato, più per una contesa politica e mirando, magari, a modificare gli equilibri interni alla maggioranza di governo e alla prossima campagna elettorale, piuttosto che all’organica risoluzione dei problemi che attanagliano l’esecuzione penale del nostro Paese. A Santa Maria Capua Vetere sono stati commessi errori gravissimi, che vanno indagati sino in fondo e perseguiti. Chi ha sbagliato deve assumersene ogni responsabilità, pure per i rischi a cui sta esponendo le 37mila donne e uomini della Polizia Penitenziaria”. Padova. Due anni di raccolta differenziata al Due Palazzi: i risultati padovaoggi.it, 9 luglio 2021 I risultati in questi due anni sono andati oltre ogni aspettativa. Nel 2018 Il Comune di Padova, la Casa di Reclusione “Due Palazzi” e AcegasApsAmga, hanno sottoscritto un protocollo di intesa denominato “I due Palazzi fanno la differenza”, con l’obiettivo di individuare, pianificare e realizzare iniziative per l’ottimizzazione della gestione integrata dei rifiuti urbani e assimilati nell’ambito delle strutture della Casa di Reclusione di Padova, con particolare attenzione alla raccolta differenziata e al successivo avvio a riciclo dei materiali raccolti e con particolare riferimento ai rifiuti di imballaggio. Differenziata - Con questo protocollo la Casa di Reclusione “Due Palazzi” si è impegnata a realizzare la raccolta differenziata nelle varie sezioni tramite l’utilizzo di personale detenuto, con l’obiettivo di raggiungere elevati standard di qualità. Il Comune di Padova si è impegnato invece a fornire tutto il supporto tecnico necessario alla realizzazione di un’opportuna raccolta differenziata in collaborazione con AcegasApsAmga, a promuoverla, a garantire modalità per l’esecuzione del servizio di “porta a porta” in coerenza con le particolari necessità organizzative e di sicurezza della Casa di Reclusione e a incentivarla attraverso l’erogazione di “premialità” a favore dei detenuti meritevoli: nello specifico percorsi lavorativi esterni alla Casa di Reclusione e la fornitura di 5 schermi tv. Risultati - I risultati in questi due anni sono andati oltre ogni aspettativa e finalmente oggi si sono potuti celebrare alla presenza dell’assessora all’ambiente Chiara Gallani, del direttore del carcere Claudio Mazzeo, del responsabile servizi ambientali di AcegasApsAmga Giovanni Piccoli, e del responsabile qualità del servizio di AcegasApsAmga Giovanni Cussigh, oltre che dei detenuti maggiormente coinvolti nel progetto. I dati raccolti grazie ai costanti monitoraggi sono infatti eccezionali. Si è partiti con il progetto nella primavera del 2018 con una percentuale di raccolta differenziata inferiore al 20% per arrivare a un valore di RD (raccolta differenziata) pari al 49% ad ottobre 2019, pari al 65% a dicembre 2019, pari al 66,56% a gennaio 2020, fino a raggiungere l’incredibile 84,78% di giugno 2021, per un totale di 3350 kg. “Un risultato - ha dichiarato l’assessora Chiara Gallani - davvero eccezionale, di cui siamo estremamente fieri, che dimostra come, con costanza e impegno, si possono raggiungere percentuali altissime di raccolta differenziata, elevandone non solo la quantità, ma anche la qualità. Avremmo dovuto celebrare il risultato nella primavera del 2020, quando già era stato ottenuto l’obiettivo previsto, ma purtroppo la pandemia ha limitato estremamente le occasioni di incontro e soprattutto l’ingresso alla Casa circondariale. Ci siamo tenuti in contatto, in uno scambio epistolare tra Comune e carcere ma ci sembrava importante riuscire a “celebrare” con tutti i protagonisti questo risultato e renderne conto esternamente, in modo da rendere noti i risultati del progetto. Voglio ringraziare l’azienda per il supporto e il direttore Mazzeo, per aver creduto in questo progetto e averlo portato avanti con noi. È importante non solo per la tutela ambientale della città intera, ma anche perché attraverso azioni orientate al bene comune e del territorio e attraverso la conoscenza di un sistema complesso come quello della raccolta rifiuti si costruisce comunità, un ponte tra il mondo dei detenuti e la città di cui sono e devono sentirsi parte. È una sinergia tra istituzioni, aziende e territorio virtuosa”. Fossano (Cn). Conserve, marmellate e confetture made in carcere di Luigina Ambrogio lafedelta.it, 9 luglio 2021 Un laboratorio di trasformazione frutta e ortaggi all’interno del Santa Caterina. Vengono trasformati i prodotti coltivati a Cascina Pensolato; vi lavorano tre detenuti. Antipasto alla piemontese, zucchine marinate, pesche e albicocche sciroppate, preparato per il minestrone, verdure pronte da saltare in padella… tutto questo e molto altro si sta preparando nel nuovo laboratorio (Ap-Pena-lavorata) allestito nel carcere Santa Caterina in collaborazione con Cascina Pensolato. Il laboratorio, nuovo di zecca, è stato allestito nei locali della vecchia falegnameria - in disuso da circa vent’anni - e costituisce uno sviluppo del progetto di Cascina Pensolato, nata per dare un’opportunità di lavoro ai detenuti e ad altre persone in situazione di difficoltà. Il progetto è stato realizzato in tempi molto rapidi. “I lavori sono stati eseguiti in gran parte dai detenuti. Tutto è stato realizzato in meno di un anno - dice il comandante della Casa di reclusione Lorenzo Vanacore”. “Nel frattempo abbiamo provveduto a selezionare e formare i detenuti destinati a lavorare nel laboratorio” - spiega Antonella Aragno, responsabile dell’Area educativa. La gestione del laboratorio è in capo a Cascina Pensolato a cui i locali sono stati assegnati in comodato d’uso. I detenuti selezionati dalla Casa di reclusione lavorano alle dipendenze di Cascina Pensolato tramite borsa lavoro. Il progetto del laboratorio di trasformazione è stato ampiamente sostenuto dalla direttrice della casa di reclusione, Assuntina Di Rienzo (vicedirettore anche presso il carcere di Torino) che ora punta alla realizzazione di un secondo laboratorio nei locali rimasti liberi della vecchia falegnameria; un obiettivo a cui si sta lavorando. Il Consorzio La Granda e la certificazione simbiotica - Nel progetto è stato coinvolto il Consorzio La Granda. “Abbiamo accolto volentieri la proposta di collaborare perché apprezziamo molto l’idea di inclusione che ne è alla base - dice Sergio Capaldo, presidente del Consorzio -; il laboratorio all’interno del carcere è un’ottima opportunità in vista della rieducazione. Da parte nostra possiamo dare un contributo per quanto riguarda la qualità dei prodotti. Abbiamo condiviso con la coop. Pensolato la nostra filosofia di coltivazione, l’agricoltura simbiotica. “Siamo orientati a ottenere la certificazione simbiotica dell’azienda” - conferma Dario Armando. “Il nostro contributo per ora è esclusivamente di natura tecnica - prosegue Capaldo - un domani si potranno aprire altre opportunità. Stiamo lavorando per creare, nell’hinterland di Fossano un’area caratterizzata dall’agricoltura simbiotica e una filiera certificata. I prodotti di questo laboratorio, insieme ai prodotti realizzati in altre carceri d’Italia, potrebbero avere un marchio che li distingua ulteriormente all’interno di questa nostra filiera”. Nino Mana: “Si migliora attraverso le cose belle che sperimentano” - Il direttore della Caritas sottolinea il valore di questo nuovo progetto in collaborazione con il carcere. “Con Cascina Pensolato ci siamo posti l’obiettivo di aiutare, attraverso il lavoro, persone in condizione di disagio. In questo caso si tratta di detenuti che nella vita hanno magari commesso degli errori ma che ora, attraverso il lavoro, possono trovare un’alternativa. Chi entra in questo processo si deve sentire ‘migliorare dentro’; attraverso le cose belle e positive che sperimenta deve poter migliorare sé stesso”. Beppe Beccaria, presidente della Fondazione Noi Altri, sottolinea la necessità di rendere partecipe la città di queste realtà” Ricette particolari, con un occhio alla tradizione e alla cucina locale ma anche innovative - Grazia Oggero, responsabile del laboratorio (con anni di esperienza nel settore) ci presenta i primi vasetti di giardiniera, zucchini e marmellate di frutta realizzate durante il corso di formazione. “Abbiamo fatto delle prove con una consulente esterna. Adesso, nel mettere in pratica le istruzioni, stiamo provando a realizzare nuove ricette sulla base delle indicazioni di un tecnico della Granda. Intendiamo tener conto dell’orientamento dei consumatori con un’attenzione particolare alla tradizione locale puntando anche a prodotti innovativi. Un punto di forza è la materia prima: i prodotti sono di sicura qualità”. In cucina si è creato un buon clima. Uno dei tre detenuti, non nuovo al lavoro tra i fornelli avendo la qualifica di aiuto cuoco, ci dice di aver trovato molto interessante il corso e queste prime settimane di sperimentazione. Il laboratorio a disposizione delle famiglie per marmellate e conserve - “Questo laboratorio - dice Dario Armando - trasformerà i prodotti di Cascina Pensolato ma potrà lavorare anche per altre aziende e per le famiglie che intendono fare la marmellata o la conserva ma non hanno lo spazio o il tempo per cuocerla in casa”. Per informazioni e prenotazioni ci si può rivolgere al punto vendita di Cascina Pensolato in via Sacco 7/B (3511818612). Sul “fine vita” parte il dibattito per colmare il vuoto normativo di Marika Ikonomu Il Domani, 9 luglio 2021 Il testo approvato in commissione con i voti del centrosinistra può essere affinato, dice il relatore, ma serve una legge dopo la sentenza della Consulta del 2019. Le commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera il 6 luglio scorso hanno approvato un testo base per regolare la pratica del fine vita. L’approvazione del testo “Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia” è un primo passo verso ciò che chiedeva la sentenza del 2019 della Corte costituzionale nel “caso Cappato-Dj Fabo”: che il parlamento intervenisse in materia. Hanno votato a favore il Partito democratico, il Movimento 5 stelle, Liberi e uguali, Italia viva, +Europa e Azione, contrari invece i partiti di centrodestra. Il testo prevede la facoltà della persona “di richiedere assistenza medica per porre fine volontariamente e autonomamente alla propria vita, alle condizioni, nei limiti e con i presupposti previsti”. Si consente dunque il suicidio assistito, cioè il decesso prodotto con atto autonomo con cui si pone fine alla propria vita “in modo volontario, dignitoso e consapevole”. Il documento approvato riprende la sentenza: può fare richiesta una “persona maggiore di età, capace di prendere decisioni libere e consapevoli e affetta da sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili”. Si aggiungono poi altre condizioni: avere una patologia irreversibile o a prognosi infausta, essere tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale ed essere assistito dalla rete di cure palliative o avere espressamente rifiutato tale percorso assistenziale. Il testo poi traccia il procedimento per accedere al diritto e prevede la costituzione di Comitati per l’etica. Il fine vita, in questa prima versione, viene dunque legittimato con l’esclusione di punibilità: tutte le persone che abbiano agevolato e/o portato a termine la procedura non sono punibili. Non vengono dunque applicati gli articoli 580 (istigazione o aiuto al suicidio) e 593 (omissione di soccorso) del codice penale. Il relatore della legge sull’eutanasia, Alfredo Bazoli, ha commentato il voto specificando che “il testo rappresenta un punto di partenza, e non pregiudica in alcun modo ulteriori interventi di modifica, miglioramento e affinamento del testo”. Il deputato sottolinea che “non è possibile rinviare ulteriormente il provvedimento, perché lasceremmo un inaccettabile ruolo di supplenza ai giudici, come sta accadendo, posto che i pazienti che ritengono di rientrare nelle condizioni individuate dalla Corte costituzionale si stanno rivolgendo ai tribunali per ottenere l’autorizzazione ad accedere al suicidio assistito”. Negli ultimi anni la giurisprudenza si è sostituita al legislatore. Nonostante le numerose sentenze e proposte di legge, non si è mai arrivati a un compromesso. Nel 2019 la Corte si è espressa sulla costituzionalità dell’art. 580 del codice penale nel caso di Fabiano Antoniani e ha stabilito che, se sussistono le condizioni riprese dal documento approvato il 6 luglio, non è punibile “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente”. Il referendum parallelo - “In astratto non ci sarebbe bisogno di questo progetto legislativo perché le sentenze hanno già valore di legge. Ma in concreto serve l’intervento del parlamento per individuare le procedure che rendano effettiva la decisione della Corte”, ha commentato Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni e promotore della campagna Eutanasia Legale. Cappato ricorda la vicenda di Mario, affetto da tetraplegia, che ha chiesto di poter accedere al diritto nelle Marche ma, “pur sussistendo tutte e quattro le condizioni previste dalla Corte, in 10 mesi l’Asl non ha mai risposto. L’approvazione del testo impedirebbe di fatto il sabotaggio della sentenza della Corte costituzionale in corso. In un anno e mezzo nessuno è riuscito a esercitare questo diritto”. L’associazione Luca Coscioni, di fronte all’inerzia del legislatore, sta raccogliendo le firme con decine di associazioni e movimenti per depenalizzare l’eutanasia con un referendum abrogativo. L’iniziativa corre in parallelo al testo approvato dalle commissioni perché “ha l’obiettivo di abrogare una parte dell’articolo 579 del codice penale”, spiega Cappato. Il testo in commissione, infatti, esclude due situazioni: non prevede che il medico possa somministrare il farmaco, “producendo di fatto una discriminazione per le persone che non possono assumerlo autonomamente e non include le persone che hanno una malattia terminale ma che non sono tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale. Il referendum apre la strada alla vera e propria eutanasia attiva, sul modello di Spagna e Lussemburgo. È chiaro che con l’abrogazione di parte di quell’articolo cadrebbe anche il requisito dei “trattamenti di sostegno vitale”, garantendo così il diritto anche alle persone che hanno un cancro terminale. In Olanda due terzi dei pazienti che richiedono l’eutanasia sono malati terminali di cancro”. In Italia, è già possibile interrompere qualsiasi terapia, anche se provoca la morte. Dal 2017 è garantito il diritto di interrompere le cure anche qualora non si abbia più la capacità di intendere e di volere, potendo redigere il testamento biologico, ma mancano molti tasselli perché venga garantito a pieno il diritto. Contenzione meccanica: siamo vicini al superamento? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 luglio 2021 Il ministro della Salute Speranza ha dichiarato che il tavolo tecnico sulla salute mentale ha prodotto un documento e lo schema di accordo, inviati alla Stato-Regioni, per accantonare per sempre la “pratica”. “Se si permette che mani e piedi vengano legati, come prassi di ordinaria amministrazione nell’istituto, a discrezione dei sorveglianti, in breve si riscontrerà nel paziente un totale processo di regressione e si darà l’avvio a ogni genere di trascuratezza e tirannia”. Lo disse già nel 1850 lo psichiatra e direttore di manicomio inglese John Conolly. E fu lui, una sorta di Basaglia ante litteram, ad abolire nel suo istituto i tradizionali metodi di repressione fisica e psicologica. Parliamo, appunto, della contenzione meccanica e psichica. Ad inizio del ventesimo secolo in Italia, in occasione del primo congresso della Società freniatrica italiana, si ribadì la necessità di escludere tutti i mezzi di contenzione dalla pratica manicomiale: “Essi possono - e quindi devono - essere sostituiti dalla sorveglianza continuata di personale idoneo ed in numero sufficiente e dall’impiego di opportuni calmanti”. Anche Basaglia era contrario alla contenzione meccanica - Lo stesso Basaglia, alcuni decenni dopo, in occasione della sua prima visita al manicomio di Gorizia, affermò: “No, io non lo firmo il registro della contenzione”. Fu il suo primo no che poi portò alla legge 180 e all’abolizione dei manicomi. Ma siamo nel 2021 e la contenzione meccanica è ancora una pratica diffusa. Lo stesso garante nazione delle persone private della libertà ha posto numerose osservazioni sul problema. Nel corso delle sue visite effettuate presso alcuni Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC), ha ribadito che la contenzione non deve essere mai considerata come un atto medico trattamentale e deve essere utilizzata sempre come extrema ratio. Ora, forse, finalmente ci sarà una svolta. L’impegno del ministro della Salute Roberto Speranza - In occasione della seconda conferenza nazionale “Per una salute mentale di comunità”, a conclusione del suo intervento, il ministro della Salute Roberto Speranza ha affermato di aver raggiunto un importante risultato: il tavolo tecnico sulla salute mentale ha prodotto un documento e lo schema di Accordo per il superamento della contenzione meccanica nei luoghi di cura della salute mentale e tale bozza è stata poi inviata alla Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome. Il primo capitolo del documento approfondisce in che cosa consiste la contenzione meccanica. “È la pratica - si legge nella bozza - volta a limitare o impedire il movimento volontario di una persona in cura, allo scopo dichiarato di evitare che procuri danno a sé stessa o ad altri”. Il documento del tavolo tecnico sulla salute mentale - La contenzione meccanica, per l’immobilizzazione, totale o parziale, della persona utilizza “presidi meccanici quali cinghie, lacci, fasce, polsini, cinture, corpetti, bretelle, tavolini servitori, spondine”. C’è scritto nero su bianco che “si tratta di un atto di limitazione della libertà personale, lesivo della dignità e dei diritti della persona”. Quella meccanica non è l’unico metodo di contenzione. Nel documento si sottolinea che nei luoghi di cura sono anche praticate la contenzione fisica, che consiste nel blocco temporaneo della persona da parte dell’operatore con il proprio corpo; la contenzione ambientale, ovvero l’impedimento alla libera circolazione della persona attraverso interventi sull’ambiente (porte chiuse, recinzioni, cancelli, ecc.) e la contenzione farmacologica che utilizza alti dosaggi di farmaci sedativi per ridurre la capacità di vigilanza della persona e la capacità di movimento. La contenzione meccanica è quella che più interroga dal punto di vista etico e giuridico - “Le ricerche evidenziano che le diverse forme di contenzione di norma coesistono, giustificandosi a vicenda”, si legge sempre nella bozza elaborata dal ministero della salute. Ovviamente è la contenzione meccanica quella che più interroga dal punto di vista etico e giuridico, dal momento che si configura come una condizione di “soggezione totale” rappresentando “la più estrema privazione della libertà immaginabile”, nonché dal punto di vista sanitario, posto che “non ha né una finalità curativa né produce materialmente effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente”, ma al contrario può produrre gravi esiti psicofisici, fino alla morte. Nei servizi del Dsm la contenzione è pratica diffusa - Il ministero della Salute ammette che la contenzione meccanica nei servizi del Dipartimento di Salute Mentale (Dsm) è un fenomeno poco conosciuto e poco monitorato. I dati disponibili sono parziali, non confrontabili e talvolta non riportati in cartella clinica. Nei servizi del Dsm la contenzione è pratica diffusa, a volte routinaria anche se sommersa, “non omogeneamente applicata nelle diverse regioni ma, soprattutto, con differenze notevoli tra un servizio e l’altro che non trovano giustificazioni di ordine epidemiologico”. I servizi del Dsm in cui prioritariamente si attua sono i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc), le strutture residenziali e le comunità terapeutiche, pubbliche e private accreditate. Elena morì nel letto con le cinghie: dopo due anni nessuna chiarezza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 luglio 2021 Il Garante ha rilevato gravi omissioni nel ricovero di Elena Casetto, la 19enne morta carbonizzata nell’ospedale “San Giovanni “a Bergamo. Tra poco più di un mese, esattamente il 13 agosto, ricorre il secondo anniversario della tragedia, evitabile, che ha coinvolto Elena Casetto, la giovane brasiliana morta carbonizzata a 19 anni in un letto del reparto di psichiatria dell’ospedale “Papa Giovanni” di Bergamo. Non poteva muoversi, perché era in contenzione meccanica. Aveva appena vent’anni Elena Casetto. H vissuto per sette anni da sola a Salvador de Bahia, studiava, era autonoma. Sognava di dedicarsi alla filosofia, a Londra o ad Amsterdam. Coltivava una vocazione poetica. Aveva anche vinto un premio con un componimento intitolato “Terra de bandidos” dove si evinceva la paura di restare in Brasile, il paese d’origine della madre. Forse era stato quel timore espresso nella poesia a persuadere Elena ad accettare l’invito della madre di raggiungerla in Italia, nell’appartamentino preso in affitto a Osio Sopra. L’ultimo periodo della vita di Elena è un rapido precipizio, fino a un epilogo che attende più di una risposta. L’ 8 agosto 2019 tenta il suicidio. Vorrebbe lanciarsi da un ponte, la bloccano i carabinieri. Viene ricoverata prima a Brescia e poi a Bergamo. L’11 agosto supplica la mamma perché la riporti a casa. Il messaggio è rimasto nel cellulare, sequestrato dopo la sua morte. La mattina del 13 agosto cerca nuovamente di togliersi la vita, stringendosi al collo un lenzuolo. La salvano due infermieri. Viene sedata e contenuta. L’allarme anti- incendio scatta attorno alle 10. I vigili del fuoco trovano Elena Casetto carbonizzata nel suo letto. C’è ancora chiarezza da fare sulla vicenda. Ricordiamo che il Garante nazionale, proprio nel caso della ragazza, ha rivelato alcuni disappunti. Dal registro aggiuntivo telematico “Psicheweb” delle contenzioni attuate presso l’ospedale il Garante ha rilevato che, nelle disposizioni sui controlli da effettuare sulla persona sottoposta a tale misura privativa della libertà, non si prevede, come dovrebbe, un periodo iniziale di osservazione del paziente immediatamente successivo alla contenzione stessa, nella misura di 15- 30 minuti consecutivi prima di attivare periodicamente i controlli delle funzioni vitali, registrandone appositamente gli esiti ogni quarto d’ora. Nel caso della ragazza, il Garante ha rivelato con particolare disappunto che “non è stata osservata la specifica raccomandazione rivolta al personale sanitario relativa al controllo dell’eventuale possesso di accendini o fiammiferi da parte del paziente, così come prevede il paragrafo 8 del Protocollo sulla procedura specifica “La contenzione fisica in psichiatria”. Ma a gennaio scorso c’è stata la chiusura delle indagini sulla morte di Elena. Sono indagati due addetti della ditta che aveva in appalto il servizio antincendio dell’ospedale. Gli interrogativi, quindi, rimangono. Ad esempio dovrebbe essere chiarito una volta per tutte, se esistessero i motivi dello stato di necessità per contenere e isolare la ragazza o se potessero essere adottate strategie alternative. Ddl Zan, le incognite al Senato: scambio di accuse Letta-Renzi di Alessandro Di Matteo La Stampa, 9 luglio 2021 Martedì il testo in Aula: nel centrosinistra non c’è accordo e la Lega prepara gli emendamenti. La metafora della roulette russa è sicuramente abusata, sul ddl Zan, ma è anche quella che meglio descrive il clima che si sta creando in Senato sulle norme anti-omofobia e sono soprattutto due i protagonisti che rischiano di rimanere seduti al tavolo con la pistola puntata sulla tempia. Basta leggere le dichiarazioni di ieri per capire che, alla fine, la faccenda sta diventando una questione tra Pd e Italia viva, tra Matteo Renzi ed Enrico Letta. Martedì, a palazzo Madama, inizierà un gioco che nessuno sarà in grado di controllare fino in fondo, la Lega già prepara un diluvio di emendamenti e la richiesta del voto segreto. In queste condizioni è difficile dire persino se si arriverà a un voto prima dell’estate o se tutto slitterà a settembre. Non a caso tra Pd e Iv è iniziato un rimpallo di responsabilità per cercare di scaricare sull’avversario la colpa dell’eventuale patatrac. “Se ognuno è coerente con quello che viene detto e fatto, il ddl Zan verrà approvato”, attacca Letta. Il richiamo alla coerenza ha un destinatario ben preciso, ovviamente Renzi che alla Camera ha fatto votare il provvedimento e che ora chiede di cambiarlo perché - sostiene - bisogna tenere conto dei numeri al Senato. Ma il leader Iv replica alla sua maniera, provocatorio: “Non capisco la testardaggine con cui si dice “non si discute”. Non mi ricordo di grandi previsioni di Letta che poi si sono realizzate negli ultimi anni… Il mio amico Enrico non è propriamente attendibile”. Salvini si gode lo scontro, scrive una lettera aperta ai parlamentari - “Concentriamoci su quello che ci unisce” - e assicura che lui è d’accordo a prevedere pene severe per “chi discrimina, offende o aggredisce due ragazzi o due ragazze che si amano”. Poi conclude dicendo che “la responsabilità dell’eventuale bocciatura della legge è tutta della sinistra”. Stessa linea di Licia Ronzulli, Fi: se tutto salta, “chi ha insistito per una prova muscolare rifiutando ogni mediazione dovrà assumersi la responsabilità”. Anche Renzi usa lo stesso argomento: “Martedì 13 io vado in Aula, chiedo la parola e dico che il Parlamento non è fatto per sputarsi addosso. Chi fa saltare la legge ha una responsabilità storica”. Peccato che il Pd non creda affatto alla buona fede di Salvini. “Lega e FdI hanno votato contro la risoluzione che condanna la legge ungherese anti-Lgbtq. Davvero qualcuno crede che vogliano approvare una legge contro i crimini d’odio?”, dice la capogruppo Simona Malpezzi. L’obiettivo, è la convinzione di Letta, è modificare il ddl Zan per poi affossarlo alla Camera. Renzi assicura che non chiederà il voto segreto e che, comunque, i suoi voteranno a favore della legge. Ma lui stesso sa che i voti segreti ci saranno perché “basta la richiesta di 20 senatori”. Impossibile, a quel punto, prevedere se davvero ci saranno i franchi tiratori dentro M5s e Pd, come dice Renzi, o se quelli di Iv affosseranno il provvedimento nel segreto dell’urna come temono i democratici. Una roulette russa, appunto. La battaglia sulla legge Zan oscura le scelte del Parlamento sulla guardia costiera libica di Gianni Cuperlo Il Domani, 9 luglio 2021 Le due date coincidono, o quasi. Martedì 13 luglio vedrà l’approdo nell’Aula del Senato della legge Zan. Su questo giornale Daniela Preziosi ha riassunto scena e retroscena, compresi numeri, insidie e future ritorsioni se, come parecchi temono e qualcuno spera, uno o più voti segreti dovessero impantanare il testo. Due giorni più tardi, giovedì 15 luglio, sarà la volta della Camera dove arriverà il decreto governativo che rifinanzia le missioni internazionali, testo comprensivo dei rinnovati accordi tra l’Italia e la Guardia Costiera libica. Coincidenza? Può darsi, anche se i calendari del Parlamento non sono mai sino in fondo casuali. Talvolta dal loro incastro possono derivare effetti destinati a qualche incidenza sul clima d’opinione. Nel caso specifico conviene attenersi ai fatti, seppure in parte di là da compiersi. Sono tra quanti spera che la legge contro discriminazioni e violenze per motivi fondati “sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità” venga approvata nella formulazione attuale. I motivi sono noti. Si tratta di una mediazione giunta dopo un lungo lavoro che ha tenuto in conto rilievi di varia natura e provenienza, ma al netto di questo (poiché ogni cosa è perfettibile) sembra spericolato affidarsi a una mediazione con chi da sempre si è dichiarato ostile a quel provvedimento. Per altro, si tratta di forze che hanno sottoscritto una Carta dei valori dell’Europa assieme a una compagnia che su gay e transessuali la pensa come Orban. Anche per questo modificare la legge per rimandarla alla Camera in una staffetta senza garanzie di tagliare il traguardo atteso da moltissimi pare poco più che un impegno scritto sulla sabbia. Come si è visto i numeri ci sono e se ciascuno dovesse fare la propria parte, cominciando da chi si dice a favore della norma, l’Italia a giorni quella legge potrebbe vedere licenziata. Detto ciò, perché la coincidenza con l’altro dibattito alla Camera dovrebbe spingere a un allarme? Mettiamola così: perché è probabile che i riflettori puntati sul passaggio di verità del Senato distrarranno da un tema altrettanto serio: il rinnovo dell’accordo con quella Guardia Costiera libica che nel corso dei mesi ha proseguito un’azione complice nell’infinita strage che si consuma nel Mediterraneo centrale. Le tragedie silenziate - Nelle scorse settimane dati e statistiche hanno confermato come l’avere impedito, con la sola eccezione della Ocean Viking, di agire in quello specchio di mare per il salvataggio di naufraghi e persone in difficoltà abbia determinato un incremento degli incidenti e delle vittime. Esistono testimonianze tragiche sul ruolo svolto da coloro che dovremmo assistere e formare nel riportare donne, uomini, bambini, in fuga da torture e violenze dentro l’incubo peggiore. Parliamo di centri di detenzione dove in tante e tanti vengono ricondotti dopo l’intercettazione in mare con i mezzi della Guardia Costiera libica a operare nella zona di competenza SAR senza i requisiti previsti dalle convenzioni internazionali a cominciare dall’esistenza di un porto sicuro dove sbarcare quanti vengono soccorsi. Vi saranno deputate e deputati di gruppi diversi che leveranno la voce per segnalare questa e altre storture chiedendo che la proroga della missione di assistenza italiana alle istituzioni di quel paese non venga autorizzata. L’esito di quella battaglia, almeno sulla carta, pare a oggi scontato, ma tanto più sarebbe importante che sulla pagina non calasse il silenzio. Perché i diritti non hanno gerarchia e calpestando quelli umani si incrina tutta intera la loro impalcatura, al Senato come alla Camera. A conferma che almeno in questo, purtroppo, il bicameralismo funziona benissimo.