Costruire nuove carceri: altro che tabù, è la solita risposta fallimentare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 luglio 2021 Gli economisti Boeri e Perotti su “Repubblica” si avventurano in analisi e propongono soluzioni anacronistiche sul sistema carcerario. “Le misure alternative sono inutili, le depenalizzazioni sono una foglia di fico, bisogna costruire più carceri”. Chi ha preso queste posizioni? Salvini o la Meloni? Forse Marco Travaglio? No, non è una presa di posizione dei soliti reazionari. Ma di Tito Boeri e Roberto Perotti sulle pagine de La Repubblica. Due economisti di area progressista. Parliamo dello stesso giornale che si è accorto dei pestaggi a Santa Maria Capua Vetere dopo oltre un anno di ritardo e che ora pubblica nuovi video dei pestaggi avvenuti nel carcere sammaritano, alimentando quel fenomeno voyeuristico che crea indignazioni e morbosità soltanto con le immagini. Senza di esse, tutto ritorna nella normalità. L’analisi di Boeri e Perotti e gli sprechi per le soluzioni edilizie - Si passa ad altro, oppure si ritorna ai propri passi: quello di creare polemiche appena un governo, timidamente, apporta qualche riforma che ha come obiettivo la decarcerizzazione. “Di sovraffollamento se ne parla poco”, dicono i due economisti. No, in realtà se ne parla da anni e la soluzione prospettata da diversi governi che vi sono succeduti è stata sempre quella: costruire più carceri. Altro che tabù come dicono Boeri e Perotti. Ma essendo economisti, gli farà sicuramente piacere venire a conoscenza di quanto denaro pubblico è stato sperperato per la soluzione edilizia. Nel 2018 abbiamo avuto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che, dopo aver fatto naufragare la riforma dell’ordinamento penitenziario, ha optato per l’ennesimo piano carceri. I nuovi istituti costruiti si sovraffollano o si lasciano inattivi - Altro che tabù. Scenari già visti: si costruisce un nuovo contenitore, nel giro di poco si sovraffolla o si lascia inattivo per mancanza di fondi. È successo negli anni 80, si è ripetuto nel 2008, poi nel 2010 fino ad arrivare ai giorni nostri. Di fronte all’emergenza, la politica vecchia e nuova risponde con la costruzione di nuove carceri che puntualmente non bastano mai perché il sovraffollamento aumenta di pari passi con l’aumento della capienza degli istituti. Gli economisti Boeri e Perotti, per loro stessa ammissione, ne sanno poco visto che non è il loro campo. Dal 1947 al 1970 c’è stata una significativa decarcerizzazione - L’analisi del trend di presenze negli Istituti penitenziari non può prescindere da una lettura che tenga conto dei fattori sociali, legislativi economici e giudiziari degli ultimi decenni di storia del nostro Paese, con particolare riferimento al periodo successivo alla promulgazione della Costituzione. Non a caso, dal 1947 al 1970, assistiamo ad una significativa decarcerizzazione della popolazione detenuta, che passa da circa 65.000 a 21.000 unità nell’arco di venti anni. In seguito, dal 1971 al 1990, si registra un aumento di un terzo della popolazione carceraria, che da 21mila passa a circa 30 mila detenuti. E questo aumento combacia con la costruzione di nuove carceri del 1980: in quel contesto nacque lo scandalo delle “carceri d’oro”, quando i costi dei materiali lievitarono moltissimo. La Cedu ha accertato la violazione dell’articolo 3 della convenzione per eccessivo sovraffollamento - Dai vecchi dati del Dap, ad esempio, si registra che nel 1974 c’erano 28.286 detenuti. Eppure, sono numeri ridicoli a fronte di 50.779 detenuti odierni. E tutto ciò, nonostante - dati Istat alla mano - i reati sono diminuiti rispetto a quegli anni. E le carceri? Sono aumentate di diverse unità rispetto agli anni 70. Molto prima della sentenza pilota Torreggiani della Cedu, c’è stata la sentenza Sulejmanovic, dove per la prima volta la Corte europea accerta la violazione dell’articolo 3 della convenzione per eccessivo sovraffollamento carcerario. Il paragone con gli altri Stati Europei e l’informazione parziale - Correva l’anno 2009. La soluzione? Costruire nuove carceri. Eppure, nell’anno precedente, era stato già avviato un programma straordinario per la realizzazione di nuove carceri e ci riuscirono pure: dal suo avvio al 2011, il Programma di edilizia penitenziaria ha portato alla realizzazione di nuovi istituti. Ma non è servito a nulla. Subito si sono riempiti, fino a straripare. Gli economisti, sempre sulle pagine de La Repubblica, fanno un paragone con gli altri Stati Europei. Dicono che l’Italia, rispetto alla media europea, ha uno dei più bassi rapporti fra detenuti e popolazione. E aggiungono: “Nonostante questo, ha uno tra i più alti tassi di affollamento nelle carceri”. I conti, però, non si fanno così. Se non si spiega per bene questa “anomalia”, si dà una informazione parziale del problema. I dati del rapporto dell’associazione Antigone - Ci viene in aiuto il rapporto dell’associazione Antigone. Il tasso di sovraffollamento risulta più alto, perché noi adottiamo un criterio diverso per quanto riguarda la misurazione della capienza regolamentare. Da noi il sovraffollamento è cronico, ma il paragone con gli altri Paesi va fatto con altri parametri. Una volta elencati, si comprende che il nostro problema non è una questione relativa alla presunta penuria di istituti penitenziari. Pensiamo alla durata delle pene: i dati mostrano una lunghezza maggiore della media. Solo il 4,4% dei detenuti italiani a inizio 2019 aveva un residuo pena inferiore all’anno. In Francia erano il 18,5%, in Spagna il 10,3, in Danimarca il 27,1 e in Svezia il 19,4. Nei Paesi Bassi erano addirittura il 40,8%, a fronte di una media europea dell’8,5. In Italia il 33% dei detenuti è in attesa di giudizio - Numeri che però vanno letti assieme a quelli che riguardano i detenuti in attesa di giudizio, la cui pena non è ancora nota e che dunque non vengono conteggiati. Su questo l’Italia si distingue da sempre, con il suo 33%, dieci punti sopra la media europea (del 23). In Germania erano il 22, in Spagna il 16, in Francia il 29 e in Olanda il 42. Altro dato. Il 22% dei detenuti italiani con pena definitiva doveva trascorrere in carcere tra i 3 e i 5 anni (la media europea era del 17,5); il 27% tra i 5 e i 10 anni (il doppio della Francia, mentre la media europea era del 20,5); il 17% tra i 10 e i 20 anni (media europea del 12) e il 6% più di 20 anni (contro una media europea del 2,5%). Gli ergastolani erano (e sono) in Italia più della media: il 4,4% del totale, a fronte di una media del 3. Non basta? Un altro dato ci viene in aiuto. Da noi sono minori le uscite dal carcere: 83,5 ogni 100.000 abitanti, a fronte di una media europea di 118. Ciò a conferma del fatto che da noi, in carcere, si resta più tempo. Senza contare, altro dato interessante, il problema delle leggi repressive e carcerocentriche. In Italia sono moltissimi i detenuti per violazione della normativa sulle droghe: il 32%, a fronte di una media europea del 18%. Quindi la conclusione è inevitabile: per rendere le condizioni dei detenuti più umane, è riformare radicalmente il sistema penitenziario e giudiziario. Ne consegue la chiusura di diverse carceri. Questo è quello che è avvenuto nei Paesi civili come la Svezia. Carceri, i modelli positivi ci sono di Don Gino Rigoldi* Corriere della Sera, 8 luglio 2021 Per capire davvero quello che è successo a Santa Maria Capua Vetere occorre conoscere le strutture, sapere ciò che c’è e ciò che manca. Le scene del pestaggio dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere (945 detenuti per una capienza di 809, dati del ministero al 31 maggio 2021) ha suscitato indignazione e tristezza in molti italiani, ma c’è molta sofferenza anche tra le persone che lavorano nelle carceri, sia come poliziotti che come educatori, psicologi, assistenti sociali, cappellani. Posso immaginare che dopo il ripetuto spettacolo del pestaggio molti cittadini si siano domandati se ci sono, e quanti sono, gli istituti penali dove la violenza prevale sul dialogo e, in generale, sulla impresa della riabilitazione come richiesto dalla Costituzione. Circola tra i detenuti e gli ex detenuti, ma anche tra operatori, la classificazione di alcuni carceri come punitivi, legati mediamente al trattamento particolarmente duro, vero o presunto, all’interno di quegli istituti. In Lombardia tra i più citati come punitivi sono Monza (614 detenuti per una capienza di 403), Vigevano (328/242), Pavia (593/518), Busto Arsizio (362/240) e, per alcuni, anche Opera (1.151/918). Solo che non esiste o, meglio, non dovrebbe esistere per legge nessun carcere punitivo. In Lombardia vive anche il paradosso di una recidiva vicina al 20% per chi è stato detenuto nel carcere di Bollate (dove il numero di detenuti non supera la capienza), invece che di oltre il 50% di recidiva, e quindi di ritorno in carcere, per i detenuti di quasi tutti gli altri istituti di pena. La percentuale delle recidive esprime quanto riusciamo - o non riusciamo - a promuovere la sicurezza attraverso la reale riabilitazione dei detenuti, misura il buon impiego o lo sperpero di grandi cifre di danaro pubblico, sottolinea l’impegno morale, civile e politico. La percentuale di recidiva è, consentitemi “la domanda del secolo” o, meglio diciamo, “l’impegno prioritario” per chi ha responsabilità. Per capire meglio quello che è successo a Santa Maria Capua Vetere occorre conoscere l’organizzazione e le strutture che regolano e gestiscono il carcere: quello che c’è e quello che manca. Ogni evento ha dietro una storia, anche quello di cui parliamo e di molti altri simili non conosciuti ma ugualmente, concretamente presenti. Andando per ordine, direi che ogni istituto penale deve avere un direttore, un direttore e non un facente funzione o un reggente, perché queste figure, per la loro precarietà, spesso hanno poca motivazione a fare una programmazione di lungo respiro nella formazione professionale, nel lavoro, nella scuola, nel rapporto con la società civile esterna. Se poi un direttore, che ha già la responsabilità di un grande istituto, deve essere anche reggente di uno o più altri istituti, è ovvio che, fatte certamente le dovute eccezioni, provvederà al proprio istituto e andrà a firmare, o comunque sarà una presenza saltuaria, nell’uno o più istituti che gli vengono aggiunti. Ovvio che comanda chi c’è. Lo stesso dicasi per il comandante degli agenti di polizia. Esiste, ma dovrebbe esistere in numero maggiore e con maggiori competenze, la figura dell’educatore carcerario. I dati forniti dal sindacato Sappe parlano di una media di un educatore ogni 80 detenuti (a Bollate uno ogni 67, a Taranto uno ogni 167 detenuti). Qualcuno la ritiene una presenza secondaria, ma in realtà è una necessità assoluta per il benessere tanto dei detenuti quanto degli agenti di polizia. L’educatore ha la funzione di costruire e promuovere il rapporto tra il detenuto, la direzione, il suo avvocato, la sua famiglia e di pensare un minimo di progetto per il futuro, soprattutto per l’uscita del detenuto. È necessario un educatore ogni 30-50 detenuti o detenute, con l’aggiunta di alcuni educatori che, in collaborazione con la direzione, possano tessere rapporti con il mondo produttivo e i servizi del territorio. Se manca l’educatore i detenuti più poveri - meno capaci di parlare, di farsi vedere e di rappresentare i loro bisogni - sono abbandonati alla disperazione. Chi ha poca conoscenza della lingua, basse capacità di espressione o di pensiero spesso ricorre al digiuno, alle ferite auto-inferte, a forme di proteste che avranno come interlocutori prevalenti gli agenti di polizia. Occorre tenere presente che le persone che stanno più tempo e sono a più stretto e continuativo rapporto con i detenuti sono gli agenti di polizia penitenziaria. Se ci sono violenze e difficoltà i primi a dover intervenire sono loro. Le violenze vanno sempre condannate, da qualsiasi parte provengono. Ma ogni violenza, ogni reato, nasce da una storia e in un contesto. Ridurle a forme di sadismo o di rappresaglia ha il solo effetto di nascondere il vero problema: le condizioni di vita e di lavoro nelle nostre carceri. Esistono in Italia istituti penitenziari - penso a Bollate, a Padova, a Rebibbia, a Volterra - dove le condizioni di vita di tutti, detenuti e personale, sono positive. Lì non capiterebbero mai gli episodi come quello di Santa Maria Capua Vetere. La richiesta minima che possiamo rivolgere al ministero della Giustizia è di seguire i modelli positivi che già esistono. Se esistono, vuol dire che siamo stati capaci di realizzarli. *Cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano Cara Cartabia, leviamo i bambini dalle carceri di Luigi Manconi Il Riformista, 8 luglio 2021 Perché aprire un nido nel carcere di Bologna quando l’ordinamento tende a scoraggiare la detenzione dei piccoli con le loro madri? fondi stanziati per le case famiglia protette non sono ancora stati ripartiti tra le Regioni. La legge per impedire l’ingresso dei bimbi in galera sembra bloccata. Un intervento della guardasigilli e del governo ora è indispensabile. Gentile Ministra Marta Cartabia, si è appreso da articoli di stampa che verrà inaugurato, nel carcere bolognese della Dozza, un asilo nido destinato ad accogliere bambine e bambini detenuti (attualmente. all’interno del sistema penitenziario italiano, sono 294. Dal momento che - come viene precisato - quella struttura non ospita e non ospiterà prossimamente alcun minore, c’è da chiedersi quale mai fosse la necessità e l’urgenza di realizzarla. In generale, la scelta di aprire un asilo nido in carcere desta ancora maggiore preoccupazione, considerato che una simile iniziativa è in aperta contraddizione con le più recenti tendenze dell’ordinamento, che vanno, tutte, in direzione esattamente opposta. Ovvero, nel senso di scoraggiare la detenzione di bambine e bambini in carcere insieme alle madri, privilegiando invece la loro assegnazione a istituti di custodia attenuata o, ancora meglio e preferibilmente, a case-famiglia protette. In questa direzione va il recente stanziamento di 4,5 milioni di euro disposto dall’articolo 1, comma 322 della legge 30 dicembre 2020, n.178, al fine di contribuire all’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case-famiglia protette e in case-alloggio per l’accoglienza residenziale dei nuclei mamma-bambino. Il successivo comma 323 prevede, peraltro, che il riparto di detta dotazione tra le Regioni sia effettuato con decreto del Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, sentita la Conferenza Unificata, da adottarsi entro due mesi dalla data di entrata in vigore della medesima legge. A oggi, tuttavia, non risulta ancora determinato il suddetto riparto. Tutto è fermo. Mi permetto dunque di rivolgermi a lei per richiamare la sua attenzione sull’assoluta urgenza di provvedere al riguardo, al fine di consentire l’apertura - su tutto il territorio nazionale - di case-famiglia protette. Si tratta infatti, insieme all’intervento sulle previsioni del codice di procedura penale che, ancora, limitano le possibilità di ricorso a tale forma di detenzione alternativa, di una misura assolutamente necessaria per realizzare l’obiettivo - a tutte e tutti molto caro, credo, spero - di evitare che anche un solo bambino varchi la soglia della galera. Alla Camera dei Deputati è iniziata la discussione su una legge di riforma che possa perseguire quella finalità, ma ora tutto sembra bloccato: ed è forte il rischio di un rinvio a tempi non prevedibili. Di conseguenza diventa indispensabile un intervento suo e del Governo, anche valutando l’opportunità di un provvedimento normativo d’urgenza che possa agevolare, con solido indirizzo, l’attività parlamentare in corso. Ciò confermerebbe che tale questione - modesta per dimensioni, ma eccezionale per il suo significato etico- simbolico - è ritenuta una priorità politica e, ancora prima, umanitaria. Confidando nella sua intelligenza e sensibilità, la saluto cordialmente. Carceri, Cartabia incontra i sindacati “per una riforma del sistema” di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 luglio 2021 La ministra: “Non perdiamo l’occasione”. Il 15 convocati i provveditorati. Coinvolto anche Draghi. “Non intendo lasciar cadere le riflessioni che stanno emergendo sul carcere in questi giorni, ne ho parlato anche con il presidente del Consiglio, Mario Draghi. Non bisogna perdere l’occasione per il rinnovamento di un comparto così cruciale a vari livelli. Alcuni sull’immediato, altri richiedono riflessioni più ampie, a più lungo periodo”. La ministra Cartabia ha spiegato così perché ha voluto convocare ieri le 24 organizzazioni sindacali dell’amministrazione penitenziaria (non solo quelle della sicurezza), per un incontro via web. In via Arenula, insieme a lei c’erano il capo del Dap Petralia, i due sottosegretari Sisto e Macina, il Garante dei detenuti Palma e il capo di Gabinetto Piccirillo. La settimana prossima, il 15 luglio, Cartabia convocherà tutti i provveditorati d’Italia. Al primo punto dell’odg di ieri gli “episodi” di Santa Maria Capua Vetere. Ma naturalmente sul piatto c’è il nodo irrisolto della riforma del sistema penitenziario italiano, tentata dal ministro Orlando che aveva preparato per due anni gli Stati generali dell’esecuzione penale chiamando al lavoro decine di esperti riuniti su tavoli tematici. Una riforma alla quale si sono sempre opposti i sindacati di polizia penitenziaria e le destre, e infine affossata anche dallo stesso Pd. Durante la riunione è stata espressa, riferiscono fonti di via Arenula, “unanime condanna” alla “mattanza” del carcere campano (il Sappe però, interpellato dal manifesto, chiede anche di “rispettare la presunzione di innocenza”), e contemporaneamente, il “rinnovo di fiducia al corpo di polizia penitenziaria” affinché “non si identifichi il corpo con quelle immagini”. In molti hanno chiesto che l’avvio di questo percorso non sia solo “un atto simbolico”. E i sindacati degli agenti, anche quelli meno felici di una convocazione così allargata, hanno avanzato vecchie e nuove richieste: l’organico, prima di tutto, ritenuto insufficiente; la formazione “superata dai tempi”; più attenzione alle aggressioni subite dagli agenti. Si è parlato anche di Rems e di salute mentale in carcere (quella dei detenuti, perché di quella degli agenti ancora non si parla abbastanza). L’Fp Cgil ha insistito sul “principio dell’organizzazione per filiere omogenee di attività, ciascuna con una propria distinta linea di comando: Polizia Penitenziaria, area Educativa Penitenziaria ed Esecuzione Penale Esterna”. Perché, spiega il sindacato, occorre “una revisione organizzativa dell’amministrazione nel complesso e la piena civilizzazione, proseguendo sulla strada della legge 395 del 1990 di riforma del Corpo di Polizia Penitenziaria, realizzando finalmente quel processo di democratizzazione capace di dare voce e rappresentanza a quanti vogliono uscire dalla condizione di arretratezza per approdare alla dimensione della dignità del lavoro, che condanna ogni sopruso e qualsiasi forma di abuso di potere”. Pestaggi in carcere, Cartabia: via i violenti ma tuteliamo gli agenti per bene di Liana Milella La Repubblica, 8 luglio 2021 Shock in via Arenula per le immagini delle violenze degli agenti contro i detenuti di Santa Maria Capua Vetere. Immagini definite “devastanti” dai vertici del Dap. Condanna ferma nei confronti di chi ha esercitato le violenze, ma fiducia negli agenti sani che rappresentano lo Stato. Agenti che vanno messi al riparo da possibili reazioni esterne che via via si stanno manifestando. È questa la reazione della Guardasigilli Marta Cartabia di fronte alle immagini che arrivano dal carcere di Santa Maria Capua Vetere che rappresentano un’altra grave ferita alla legalità. Un vulnus alla sua concezione della pena come punizione certo, ma come percorso di recupero alla società di chi ha sbagliato. Percorso che diventa difficile, se non addirittura impossibile, se il carcere diventa scuola di violenza e soprattutto a essere violento è lo Stato con la sua divisa. Dai vertici del Dap si coglie una reazione altrettanto forte, perché - dicono i responsabili - “sono immagini devastanti, che feriscono e turbano profondamente e che tradiscono lo spirito e la funzione nobile di un intero corpo di polizia fatto di persone perbene e di grande valore”. E per Marta Cartabia le violenze, sotto qualsiasi forma, sono inammissibili. Per giunta del tutto gratuite, come emerge con assoluta nettezza dai video pubblicati da Repubblica. E che la procura di Santa Maria ha inviato anche alla Direzione delle carceri per dar modo di individuare uno per uno tutti gli agenti responsabili. È questo che si sta facendo a largo Luigi Daga, dove c’è la sede centrale delle prigioni italiane. Individuare le mele marce - Ai suoi, al capo del Dap Dino Petralia e al suo vice Roberto Tartaglia, la ministra della Giustizia ha detto subito la sua impressione, la condanna ferma per quanto è accaduto, ma la fiducia che lei ha negli agenti sani che ogni giorno entrano nelle carceri per rappresentare il volto giusto dello Stato. Ai vertici del Dap l’indicazione è netta, la stessa che ha impartito subito, quando ha visto le prime immagini, che ha definito “una ferita alla Costituzione”. L’indicazione è quella individuare il più in fretta possibile chi ha commesso le violenze, ma tutelando il corpo della polizia penitenziaria che, come la stessa ministra ha ripetuto più volte da quando è scoppiato lo scandalo, “è fatto di persone sane”. L’azione è duplice, riconoscere e isolare le mele marce, ma salvaguardare l’incolumità di tutti gli altri agenti. Che ormai da giorni sono divenuti oggetto di insistenti minacce. Come dimostrano le scritte comparse a Roma e in Sardegna. Manifestini che inneggiano alla violenza. Al punto che il provveditore della Campania Carmelo Cantone è stato costretto a far diramare dai capi degli istituti un ordine agli agenti invitandoli ad evitare di mettere la divisa nel percorso tra la propria abitazione e il posto di lavoro. L’intreccio tra carceri e riforma della giustizia - Le nuove immagini delle violenze a Santa Maria cadono in una giornata difficile. Perché la Guardasigilli Cartabia non solo ha in programma un incontro con i sindacati della polizia penitenziaria, programmato già dalla scorsa settimana, fissato per le 15 e trenta. Ma oggi c’è in agenda anche la cabina di regia a palazzo Chigi con Mario Draghi e i capi delegazione dei partiti della maggioranza per affrontare le nuove norme sul processo penale. Mentre si prepara ad entrambi gli appuntamenti Cartabia ragiona su quanto è avvenuto nel corso dell’ultimo anno, proprio sul carcere e sui fatti di Santa Maria. Una scansione di fatti e interventi che dimostrano come via Arenula e il Dap non siano stati a guardare. Gli interventi su Santa Maria - È l’11 giugno dell’anno scorso quando i carabinieri arrivano nel carcere di Santa Maria e notificano gli avvisi di garanzia. Il giorno dopo la Direzione generale del personale chiede di acquisire gli atti dalla procura con l’indicazione del personale coinvolto. Il 13 giugno il capo del Dap Petralia e il suo vice Tartaglia si recano a Santa Maria per verificare di persona la situazione. Il 18 giugno viene disposta la sostituzione del comandante di Santa Maria. Lascia Manganelli e arriva Pio Mancini, comandante titolare ad Ascoli, che assume la reggenza. Ancora il 30 giugno non giungono risposte dalla procura sulla richiesta di atti e carte. Il 3 luglio giunge l’elenco di chi ha ricevuto l’avviso di garanzia, senza tuttavia né copia degli atti giudiziari, né l’indicazione dei reati per cui si indaga. L’8 luglio da Roma insistono ancora con la richiesta degli atti. E siamo al 28 settembre quando la direzione generale del Dap scrive direttamente alla procura di Santa Maria evidenziando che gli atti giudiziari sono necessari per poter adottare i provvedimenti amministrativi. Nuova richiesta il 20 ottobre motivata dalla necessità non più procrastinabile di “adottare iniziative amministrative”. Ma, come fanno notare dal Dap, tutte le richieste sono rimaste inevase. Solo dopo la notifica delle ordinanze cautelari la procura ha trasmesso la copia del provvedimento e il Dap ha potuto sospendere in due tranche prima 52 e poi altri 25 poliziotti penitenziari, mentre la ministra Cartabia ha sostituito il provveditore della Campania Fullone con la reggenza di Carmelo Cantone che ricopre la stessa carica nel Lazio. È stata disposta ed è appena cominciata l’ispezione straordinaria a Santa Maria eccezionalmente seguita dal direttore generale dei detenuti e del trattamento Gianfranco de Gesu. Pestaggi in carcere, i nuovi video: un solo agente cerca di fermare i colpi di Fulvio Bufi Corriere della Sera, 8 luglio 2021 Un detenuto sviene, un altro si ribella. Aperta un’inchiesta sulla diffusione dei filmati. Come in un film dove la scena paurosa deve arrivare all’improvviso, pure le immagini registrate dall’impianto di videosorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere sembrano avere una trama e un crescendo preparato meticolosamente come si prepara una sceneggiatura. I video della perquisizione del 6 aprile 2020 nel reparto Nilo dell’istituto di pena casertano, all’inizio raccontano un clima tranquillo. I detenuti sono fermi all’esterno delle celle, parlano tra loro, qualcuno scherza anche. I poliziotti vanno e vengono. Il controllo delle stanze è accurato, da una viene tirato fuori il letto. Il detenuto che occupa la cella collabora, smonta la rete, separa i piedi dal resto della struttura e a un pezzo alla volta porta tutto fuori. Dove rimonta ogni cosa. Lo si vede bene mentre si guarda intorno e non sa nemmeno lui che cosa deve fare con quel letto in mezzo al corridoio. E pure nella sala della socialità, quella dove ci sono il biliardino e il tavolo da ping pong e dove poi succederanno cose orrende, il clima all’inizio è tranquillo. I detenuti stanno seduti sulle sedie accostate al muro, hanno l’aria di chi sta aspettando, sembra che stiano lì in attesa che la perquisizione finisca. Poi si apre la porta in fondo, entrano un paio di agenti di Santa Maria e quattro o cinque di quelli del gruppo di rinforzo, quelli in tenuta antisommossa, con i caschi, gli scudi e i manganelli. I detenuti capiscono subito quello che sta per succedere: si alzano e cercano riparo arretrando fino al lato opposto della stanza. Non serve a niente. Anzi, in quell’angolo dove si sono infilati restano imprigionati. Gli agenti li raggiungono, e quelli con i manganelli cominciano a picchiare. Un recluso prova a ribellarsi, non a reagire: solo a ribellarsi. E la paga amaramente. È un accanimento al quale soltanto un poliziotto del carcere sembra opporsi. Più volte si frappone tra i colleghi e i detenuti, più volte ferma il braccio di chi sta abbattendo l’ennesimo colpo. Altro video, ancora la sala della socialità. Tre detenuti fermi al centro, con le mani alzate. Per uscire devono passare in mezzo a un gruppo di agenti fermi davanti alla porta. Provano, ma prima di arrivare nel corridoio, ognuno non può evitare pugni, schiaffi e calci. Stavolta il più violento è un agente interno al carcere. Violento ma anche ridicolo. È bassino, non ha il manganello, picchia a mani nude. Le telecamere lo riprendono mentre si scatena sul primo dei tre reclusi che gli capita davanti, un omone alto e grosso con il quale difficilmente quell’agente si sarebbe misurato in strada o in qualunque altro posto fuori dal carcere. Qui invece lo colpisce più volte, ma fatica ad arrivare al volto e deve accontentarsi di dare schiaffi al tronco, soprattutto fianchi e schiena. Cambio inquadratura: un detenuto sviene, passano due agenti e tirano dritto, ne sopraggiunge un altro e gli sferra un calcio. Poi arrivano due sanitari, lo aiutano a riprendersi, lo fanno mettere su una sedia. Tornano gli agenti, ma non lo picchiano più. Ma è un caso isolato, perché i video, ormai è chiaro, riportano quasi solo pestaggi. Nella sala della socialità, nei corridoi, sulle scale. La Procura di Santa Maria Capua Vetere ha aperto un fascicolo di indagine per i primi filmati pubblicati in Rete, che secondo gli inquirenti sarebbero dovuti rimanere riservati. I riconoscimenti degli agenti indagati sono avvenuti tutti o quasi attraverso le immagini registrate. Ma uno dei poliziotti finiti agli arresti quelle immagini certamente le ha benedette, perché proprio grazie ai video è riuscito a convincere il giudice delle indagini preliminari di non essere lui quello ripreso dalle telecamere. E questo gli è valsa la scarcerazione. Gli altri sperano nel riesame, che inizierà domani e proseguirà fino alla prossima settimana. Le posizioni da esaminare sono molte perché hanno fatto ricorso anche i poliziotti sospesi. I loro sindacati, intanto, hanno incontrato ieri il ministro della Giustizia Cartabia per parlare di come riorganizzare il lavoro degli agenti penitenziari. Francesco Basentini: “Il funzionario mi disse che qualcuno doveva aver esagerato” di Vincenzo Iurillo e Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2021 L’ex capo del Dap sentito come testimone: “Lessi la relazione del provveditore Fullone il 27 aprile 2020: non aveva scritto nulla delle violenze”. C’è un momento in cui l’allora capo del Dap sembra esser informato che nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere qualcuno “doveva aver esagerato durante le operazioni di perquisizione del 6 aprile 20”. Gli “rappresentò, adombrò” “la sua convinzione” il provveditore campano alle carceri Antonio Fullone “in tempi che non riesco a contestualizzare, durante una telefonata, non so sulla base di quali fonti. Ciò avvenne durante una conversazione relativa a un altro argomento, le problematiche dell’emergenza Covid. Io, comunque, attesi la relazione di Fullone del 22 aprile 2020”. Che, conferma l’ex capo del Dap, non riportava una riga sulle aggressioni ai detenuti. È uno dei pass aggi chiave del verbale reso da Francesco Basentini davanti ai pm di Santa Maria Capua Vetere che indagano sui furiosi pestaggi compiuti dalla polizia penitenziaria nel carcere sammaritano. Sentito il 30 ottobre 2020 come persona informata dei fatti, ricostruisce il clima di quei giorni: le azioni messe in campo per contenere la diffusione del contagio negli istituti penitenziari, la conseguente sospensione dei colloqui tra detenuti e familiari, le rivolte. Che ci furono anche a Santa Maria Capua Vetere. E poi quella “perquisizione straordinaria” ordinata oralmente da Fullone e degenerata nelle violenze ormai note attraverso la diffusione di numerosi video. Fullone è stato sospeso dal giudice e poi sollevato dall’incarico. La Procuralo accusa, tra l’altro, di aver disposto una perquisizione “arbitraria e abusiva perché operata al di fuori dei casi consentiti dalla legge”. Sul punto, Basentini dice ai pm: “Durante la mia esperienza non ricordo alcuna situazione in cui il provveditore regionale abbia disposto una perquisizione straordinaria orale, non ho idea se ciò sia mai accaduto”. Aggiungendo che durante i suoi 2 anni alla guida del Dap “non sono stato mai informato delle modalità formali, scritte o meno, attraverso cui era stata disposta una perquisizione straordinaria od ordinaria, non rientrando ciò nelle funzioni del capo del Dap”. Basentini ai pm racconta anche di una telefonata durante la quale “Fullone - è scritto a verbale - mi rappresentò e adombrò, durante una telefonata - non so sulla base di quali fonti - la sua convinzione del fatto che qualcuno doveva aver esagerato durante le operazioni di perquisizione del 6 aprile”. Abbiamo chiesto a Basentini chiarimenti su questo passaggio. Già in quei giorni vi era il sospetto di violenze? E cosa fu fatto dopo? “Sicuramente neanche Fullone aveva alcuna convinzione o certezza, poteva aver maturato l’idea che era successo qualcosa... ma bisogna contestualizzare, a Santa Maria Capua Vetere c’era stato un mese prima un atto di sommossa e stava per essercene un altro. Ma mai in quei giorni immaginammo quelle violenze”. Al Dap poi il 27 aprile arriva la relazione di Fullone: “Diedi subito disposizione al direttore generale di svolgere valutazioni di tipo disciplinare”, spiega Basentini al Fatto. Ma torniamo all’interrogatorio davanti ai pm. Basentini parla anche di una denuncia dell’associazione Antigone. In un passaggio del verbale l’ex pm dice che l’esposto riguardava il carcere di Opera, in un altro - stando al verbale riassuntivo - però spiega che invece parlava di Santa Maria Capua Vetere. “Quando ad un esposto proveniente da Antigone ho proceduto ad inoltrarla alla procura di Santa Maria Capua Vetere. (...) Non ho preso alcuna iniziativa a seguito di tale esposto, limitandomi a trasmetterlo, senza procedere a iniziative ispettive, come normalmente accade nei casi di indagine preliminare in corso”. “Io ricordo un esposto che riguardava il carcere di Opera (Milano), non nego ciò che ho detto ai pm ma ricordo una cosa diversa ora”, spiega Basentini al Fatto. Ma perché non mandare un’ispezione? “Le ispezioni straordinarie non possono essere disposte finché non c’è un nulla osta dell’attività giudiziaria”. E aggiunge: “Anche se avesse voluto disporre l’ispezione straordinaria il 17 aprile non sarebbe stato possibile: non entrava nessuno in carcere, tutto sospeso per il Covid”. Al pm Basentini ha consegnato anche le sue chat con Fullone. Il 15 aprile ad esempio i due tornano a messaggiarsi. Fullone lo informa che “sembrerebbe che stasera Chi l’ha visto? dedicherà spazio al presunto caso Santa Maria... io penso che stiano montando una vera e propria regia”. Fullone quindi gli invia le foto di taglierini, pentole e oggetti contundenti rinvenuti nelle celle. “Un piccolo assaggio di quello che abbiamo trovato”, dice. Carmelo Cantone: “Le violenze di Santa Maria Capua Vetere offendono lo Stato e il Paese” di Raffaele Sardo La Repubblica, 8 luglio 2021 “Sì, ho visto i video delle violenze. Non c’è nulla da commentare. Le cose sono di tutta evidenza. Ora ci dobbiamo riprendere l’onore”. Parla Carmelo Cantone, 64 anni, provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise e da una settimana incaricato “ad interim” quale provveditore della Campania. Cantone, da una settimana, sostituisce Antonio Fullone, indagato nell’ambito dell’indagine sulle violenze subite dai detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile del 2020. Provveditore Cantone, naturalmente tutti ci auguriamo che non sia una pratica usuale nelle carceri quella di picchiare i detenuti... “Secondo me no, non lo è. E lo dico anche per la mia storia professionale. So quanta gente valida c’è in giro in tutti i ruoli professionali. Un conto è dire che questo è un problema, un rischio. Un altro è dire che in giro per gli istituti ci sono le squadrette pronte a picchiare i detenuti. Questo no. Non appartiene all’amministrazione penitenziaria italiana, assolutamente”. Parole rassicuranti le sue, ma quello che è successo a Santa Maria Capua Vetere non lo è per niente. “Quello che è accaduto è una cosa che offende non solo l’amministrazione penitenziaria, ma offende lo Stato, offende un intero Paese, perché è chiaro che noi non siamo questo. Però il lavoro che si fa tutti i giorni in un istituto penitenziario è tutta un’altra cosa”. Andrà subito a Santa Maria? “Certo. Andrò appena possibile e andrò anche in altri istituti”. Ci sono anche problemi di personale in questo momento... “Stiamo lavorando per risolverli. Ci sono delle assegnazioni di personale che si stanno facendo in questi giorni da parte del dipartimento. Si tratta di personale che era nelle graduatorie per il trasferimento in Campania. Noi invece stiamo mandando personale in missione per un periodo di 15 giorni, a rotazione, provenienti dagli altri istituti della Campania. La fase è estremamente delicata ci sono le ferie estive in atto, bisogna mantenere i servizi”. Ma come è stato possibile che detenuti picchiati e agenti coinvolti siano rimasti nello stesso istituto carcerario per tanto tempo insieme? “Guardi, questo non glielo so dire, perché bisogna avere una lettura di quelle questioni e oggettivamente io non ce l’ho ancora e non pretendo di mettermi a fare congetture su situazioni che non ho vissuto e non ho conosciuto”. Però i trasferimenti di detenuti ci sono stati pochi giorni fa... “C’è stato uno sfollamento del carcere che non c’entra niente con tutto questo. Era un provvedimento del dipartimento di una serie di persone, circa quaranta persone”. Ma il Garante dei detenuti si è lamentato di questo trasferimento improvviso... “Capisco che possono essere sollevate alcune sensibilità su questo, ma non c’entra proprio niente. È un provvedimento del dipartimento, perché sono categorie di detenuti che sono gestite direttamente da loro. E sono detenuti che in buona parte appartenevano ad altre sezioni, non al reparto Nilo”. Gli ispettori inviati dal Dap dovranno verificare chi ha dato l’autorizzazione per la perquisizione e se c’erano le condizioni per effettuarla... “Ha detto niente... è quello uno dei temi di estrema rilevanza penale. Poi devono accertare come ha funzionato la catena di comando”. Ma a chi spetta il compito di stabilire una perquisizione in un carcere? “Direttore e provveditore, con l’amministrazione penitenziaria centrale. Normalmente di concerto. Passo passo si capirà come ha funzionato la catena di comando”. In tanti parlano di “mele marce”. “Ora dobbiamo ripensare alla formazione del corpo di polizia penitenziaria. Ma molto vale anche l’esperienza sul campo. Si impara col tempo e anche sbagliando. Perciò è bene avere anche nuovi maestri. Che i giovani arrivino e trovino anche anziani bravi, vale tanto”. Glauco Giostra: “Condannare non basta. E limitarci allo sdegno non basterà ad assolverci” www.redattoresociale.it, 8 luglio 2021 L’autore della riforma che nel 2016 ridisegnava il volto dell’esecuzione penale interviene sui fatti di Santa Maria Capua Vetere: “Quello che è accaduto non è un caso isolato”. E “quando i riflettori dei media si spegneranno su questa inquietante vicenda, il mondo del carcere tornerà nel buio di quella rimozione sociale in cui la nostra cultura l’ha relegato”. “Quello di Santa Maria Capua Vetere non è un caso isolato: è l’ultimo di episodi analoghi, alcuni dei quali soltanto accidentalmente sfuggiti all’omertà o all’insabbiamento”. Glauco Giostra va dritto al punto. La realtà del carcere la conosce a fondo e non solo come ordinario di procedura penale alla Sapienza. Sa bene come funzionano certi meccanismi, lui che al sistema carcere aveva provato a mettere le mani seriamente ‘guidando’ una riforma che abbracciava tutta ‘l’istituzione totale’ con il fine primario di restituire dignità a detenuti e operatori, quella stessa dignità che ancora una volta è stata calpestata. Aveva infatti presieduto la Commissione di riforma, istituita nel 2016 dal ministro Orlando, il cui prodotto venne abbandonato in un cassetto, dopo due anni intensi di lavoro e di ricerca, da un governo che non ebbe la volontà, e probabilmente anche il coraggio, di calendarizzare l’ultimo step. Ora il professore assiste sconcertato a immagini “che offendono la retina del diritto e dell’umanità. Si tratta di un fenomeno la cui dimensione è ben più rilevante - sottolinea Giostra - come sa bene chiunque abbia una non prevenuta conoscenza del mondo penitenziario. Ed è proprio questa consapevolezza, verosimilmente, che ha indotto alcune forze politiche a opporsi all’introduzione del reato di tortura prima e ora all’adozione del numero identificativo per la riconoscibilità degli agenti della polizia penitenziaria”. Dall’altra parte, professore, ci sono tanti agenti e ufficiali di Polizia penitenziaria che indossano la divisa con onore e dedicano la vita a un lavoro tra i più usuranti.. “Di sicuro sarebbe ingiusta ogni generalizzazione. Il corpo della Polizia penitenziaria è prevalentemente formato da persone che assolvono il loro difficile e ingrato compito con abnegazione e senso della legalità. Comportamento anzi ancor più meritevole in un contesto in cui il rispetto della dignità delle persone recluse viene da alcuni deriso come imbelle buonismo, quando non come riprovevole connivenza”. Una mentalità diffusa anche all’esterno delle carceri, con parte dell’opinione pubblica convinta che la durezza della repressione sia un prezzo da pagare per la sicurezza collettiva.. “Sì, mentre credo che sia vero proprio il contrario: chi, oltre alla legittima privazione della libertà, ha subìto gratuite sopraffazioni, fisiche e psicologiche, dolorose e umilianti, ne ricaverà solo una sorta di legittimazione a far ancora del male, una volta tornato in libertà. Se persino coloro che dovrebbero rappresentare lo Stato e il diritto ricorrono a ogni forma di angheria per far valere le loro distorte ragioni, quale remora etica dovrebbe trattenere dal ricorrere alla violenza per raggiungere i propri obbiettivi colui che su questa strada si era già incamminato, incontrando lungo la stessa addirittura i tutori della legalità?”. L’emersione degli episodi di violenza ha suscitato un coro univoco di condanna da più ambienti. Non si rischia però, come già accaduto, che tutto torni alla ‘normalità’ se oltre a condannare non si agisce per intervenire sulle cause? “Quando i riflettori dei media si spegneranno su questa inquietante vicenda, il mondo del carcere tornerà nel buio di quella rimozione sociale in cui la nostra cultura l’ha relegato. Un mondo lontano dall’occhio e dall’interesse pubblico, un mondo in cui, non vogliamo sapere con quali mezzi, uomini pagati poco e poco considerati hanno il compito di segregare soggetti che si sono resi responsabili di gravi reati per tenerli lontani il più possibile dalla società onesta. Il carcere come infetto angiporto del consesso civile è il contesto ideale perché alcune menti deboli cerchino un riscatto alla propria frustrazione professionale nella prevaricazione e nel sopruso. Se non cambiano davvero il valore e la funzione sociale del carcere, avremo altri episodi di violenza umiliatrice”. Più volte, non ultimo con il tentativo di riforma del 2016, lei ha indicato una rotta che però non è stata seguita fino alla fine. Che cosa prevedeva la riforma in merito al corpo della Polizia penitenziaria? “Gli Stati Generali avevano prodotto una “miniera” culturale di riflessioni e di suggerimenti, in gran parte recepiti nel progetto di riforma penitenziaria. Ma il governo che aveva promosso questo tentativo di profondo cambiamento non ne difese i risultati. Chi arrivò dopo, fece il resto, asportando le parti più importanti. Se fosse stata sposata e realizzata l’idea che il carcere dovrebbe essere il luogo in cui le persone che hanno ferito la società, giustamente private della libertà, sono rispettate e possono godere della possibilità, da meritare con un impegno duraturo e inequivoco, di ricostruire la propria esistenza nel solco della giustizia e della legalità, anche la considerazione collettiva, e, quindi, l’auto-percezione professionale della Polizia penitenziaria sarebbe mutata completamente. Sarebbe stata abbandonata la diffusa, quanto infondata, convinzione che la Polizia penitenziaria sia una forza dell’ordine di grado inferiore. Si sarebbe invece acquisita la consapevolezza del compito delicatissimo che è chiamata a svolgere. Gli appartenenti alla polizia penitenziaria sono donne e uomini impegnati quotidianamente nella custodia delle persone detenute e nella difesa della sicurezza degli operatori e degli stessi ristretti. Donne e uomini lontani dalle gratificazioni mediatiche che spesso accompagnano le operazioni di successo della Polizia giudiziaria. Donne e uomini che affrontano sacrifici quotidiani in un ambiente doloroso e mortificante, che devono essere in grado di cogliere i primi indizi di rischio e i primi segnali di speranza, che devono riuscire a comprendere culture e storie individuali spesso lontane dalla propria mentalità e dal proprio vissuto. Non a caso dai lavori degli Stati Generali era emersa la necessità di assicurare al corpo di Polizia penitenziaria una specifica formazione multidisciplinare, per mettere questi operatori in grado di assolvere una così delicata e insostituibile funzione”. E ora? “Ora, se trascorso il momento della sacrosanta condanna non interverranno cambiamenti sostanziali, se gli istituti di pena continueranno a essere, salvo, come oggi, lodevolissime eccezioni, contenitori in cui rinchiudere soggetti socialmente infetti, l’agghiacciante attualità che stiamo commentando sarà anche l’attualità di domani. E limitarci ancora allo sdegno non basterà ad assolverci”. Don Mimmo Battaglia: “Basta violenza dietro le sbarre, va trovata alternativa alle pene” di Viviana Lanza Il Riformista, 8 luglio 2021 “La risposta non può e non deve essere solo il carcere. Bisogna cominciare a dirle queste cose, anche a gridarle”. Per Don Mimmo Battaglia è il momento di puntare sulla giustizia riparativa. “Ho avuto la figlia di Aldo Moro e la Faranda, è stato un momento molto bello e molto importante e spero che su queste tematiche si possa riflettere sempre di più”, aggiunge l’arcivescovo di Napoli partecipando all’incontro, presso il Centro della diocesi di pastorale carceraria, con i volontari delle carceri di Poggioreale e Secondigliano e del centro di accoglienza per detenuti Liberi di volare. “Dopo quello che si è verificato a Santa Maria Capua Vetere - commenta - non si può pensare che ormai il fatto è successo per poi riparlarne quando si verificherà un altro fatto simile. Bisogna tenere sempre la luce accesa su questi temi ed è importante non parlare più di pene alternative ma cominciare a parlare di alternative alle pene”. “È possibile”, afferma don Mimmo sottolineando il valore del volontariato e l’importanza di percorsi di recupero e di responsabilizzazione che non passino necessariamente per il carcere: comunità, case famiglia, strutture, progetti. “Aiutano - sottolinea Battaglia - a cogliere il senso del riscatto di una persona che ha sbagliato e vuole darsi un’altra possibilità”. Il tema centrale è quello della giustizia riparativa che sarà anche al centro dei futuri progetti della diocesi di Napoli, annuncia l’arcivescovo Mimmo Battaglia. Anche don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale e direttore della pastorale carceraria della Curia di Napoli, parla di giustizia riparativa anticipando un progetto a cui si lavorerà a breve: “Prepareremo un documento. Stiamo pensando di realizzare un centro di giustizia ripartiva nella nostra diocesi. Più che come alternativa al carcere, la giustizia ripartiva deve essere vista come un nuovo modo di vivere la giustizia, una giustizia dove vittima e colpevole hanno la possibilità di incontrarsi e il danno può essere guarito da questo incontro”. Quindi, un riferimento all’inferno che si vive in molte carceri: “Chi esce dal carcere lo fa peggio di come è entrato -sostiene don Franco - Si entra colpevoli di un reato commesso e si esce vittime di un reato subito”. Quando alle notizie sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il sacerdote sottolinea che “parlare di mele marce è l’alibi della cassetta: se una mela diventa marcia non è perché è nata marcia ma perché è stata posta in una cassetta (istituzione carcere) che è marcia. Il dramma non è quello che accade nel carcere, il problema è il carcere. Fino a quando si continuerà a pensare che il carcere sia l’unica risposta, da parte dello Stato, alla delinquenza e alla giusta domanda di sicurezza della società, io non mi meraviglio che accadono cose che non dovrebbero mai accadere”. L’inchiesta sui fatti di Santa Maria, intanto, prosegue. Ieri nel carcere casertano sono arrivati gli ispettori del Ministero della Giustizia con un preciso obiettivo: verificare i malfunzionamenti della catena di comando del 6 aprile 2020, giorno di quella che il gip ha definito “orribile mattanza”. Nel frattempo, il sindacato di polizia penitenziaria se la prende con il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, dalla cui denuncia sono partite le indagini sui pestaggi, e ne chiede la revoca e la sostituzione al governatore Vincenzo De Luca. Il sindacato critica Ciambriello per i toni “allarmistici” della conferenza stampa dell’altro giorno: “Le affermazioni del garante, per il quale ci sarebbero “immagini più raccapriccianti”, sono di una gravità assoluta e alimentano il clima d’odio nei confronti della polizia penitenziaria”, si legge in una nota del segretario generale Aldo Di Giacomo diffusa poche ore prima che Repubblica diffondesse altri video dei pestaggi. Secca la replica di Ciambriello: “Sono amareggiato per le dichiarazioni rese da chi punta soltanto a ottenere qualche iscritto in più al sindacato. Ho detto la verità e attendo scuse pubbliche da Di Giacomo”. L’Osapp ha invece invitato gli agenti penitenziari ad astenersi dalla funzione della mensa ordinaria di servizio in segno di solidarietà nei confronti dei colleghi del penitenziario di Santa Maria. “Basta mortificazioni”, dicono chiedendo che il corpo sia equiparato a quello della polizia di Stato e delle altre forze dell’ordine, presidi di sicurezza per contrastare le aggressioni, protocolli operativi per fronteggiare le criticità in carcere, dotazione di bodycam e una formazione adeguata. Marco Bechis: “A Santa Maria violenza di stato e impunità. Un film già visto” di Francesca De Benedetti Il Domani, 8 luglio 2021 Marco Bechis, regista, nel 1977 è stato un desaparecido. Ha elaborato il sequestro e le torture con film come Garage Olimpo e con un libro appena uscito. “C’è qualcosa che unisce la mia storia, il G8 e i pestaggi in carcere a Santa Maria Capua Vetere”, dice. È la violenza di stato, la burocratizzazione del male e “quella forma di violenza sociale che è l’impunità” e che si nutre del nostro disimpegno civile e politico. Non bastano le immagini per raccontare quella violenza. Bechis, da regista, riflette sul fatto che non basta mostrare per trasmettere un’esperienza. Le parole sono importanti. Il 19 aprile 1977 Marco Bechis ha vent’anni. Riconosce la paura dall’odore. È l’”odore acre di sudore” dei militari argentini che lo sequestrano a Buenos Aires. Più di vent’anni dopo, per raccontare le torture subite usa le immagini. Garage Olimpo del 1999 è tra le sue opere più note. Una pellicola ancora attuale, che con Figli/Hijos viene riproposta domani al parco della Cervelletta di Roma, nella rassegna organizzata dai ragazzi del Cinema America. Per fare i conti con quel giorno del 1977, però, il regista ha bisogno delle parole. Gli serve un libro, La solitudine del sovversivo, edito da Guanda quest’anno. “Mai più violenza di stato” era il titolo della nostra prima pagina dello scorso primo luglio. Il riferimento è ai fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Lei è stato vittima di violenza di stato, anche se in altri luoghi e tempi: fu torturato in Argentina, durante la dittatura militare, nel 1977. Cosa le evocano i fatti di oggi? Ho riflettuto su questo. L’Italia non è diventata come l’Argentina o il Cile degli anni Settanta, e fare paragoni impropri significa sminuire ciò che è avvenuto in quei paesi. Ma qualcosa unisce la mia storia, i fatti di Genova e i massacri della scuola Diaz e di Bolzaneto vent’anni fa, Santa Maria oggi. È il meccanismo burocratico e militare della violenza, che va oltre la malvagità individuale ma si fa sistema. Ho visto i video pubblicati da Domani. Ho visto violenza gratuita, colpi sferrati come fossero adempimenti. Stavolta, come ai tempi di Genova, ci si è permessi di fare tutto questo perché c’era un’indicazione dall’alto. Non significa che gli agenti vadano discolpati perché obbedivano, tutt’altro. Ma bisogna ricostruire tutta la catena delle responsabilità. Capire il perché di un tale senso di impunità. Domani ha raccontato i fatti per molti mesi, ma la politica ha fatto finta di non vedere. Solo la pubblicazione dei video ha costretto a porre attenzione. Lei ha sentito l’esigenza di mettere in scena l’esperienza argentina, il campo di concentramento, nel film Garage Olimpo. È necessario vedere perché si prenda atto? La parola e l’immagine suscitano effetti diversi: l’immagine si presenta come autoevidente, vera di per sé, mentre le parole suggeriscono la necessità di una verifica. In realtà non è così: anche una immagine è parziale, è una inquadratura, è frutto di una scelta di cosa mostrare. Le parole possono essere portatrici di verità mentre le fake news possono alimentarsi di immagini. Io in Garage Olimpo non mostro la violenza. Il mio non è un film alla Tarantino, che amo, ma che lavora all’interno di un codice, per cui sai che la violenza è finta. Faccio esattamente l’opposto: racconto la violenza vera lavorando per sottrazione. Lo spettatore che si trova di fronte a una porta chiusa con una radio a tutto volume deve immaginare, senza alcun indizio esplicito, cosa sta accadendo. Cioè, la tortura. Quando la sceneggiatura di Garage Olimpo è arrivata ai produttori, uno di loro ha dato parere negativo dicendo: “La tortura l’abbiamo già vista”. Non solo nella fiction, anche sui media esiste una pornografia del dolore. Qual è il confine tra immagine necessaria ed esibizione? Non è necessario esibire le immagini del corpo martoriato di Giulio Regeni per esigere giustizia. Una immagine violenta provoca emozione, appaga perché finisce lì, mentre la comprensione arriva attraverso il ragionamento. Per me mostrare la tortura in un film o in un documentario è inutile se non controproducente, per almeno due motivi. Il primo è che esibendo la violenza le si sottrae potere. Il secondo è che si alimenta una illusione: ci si illude che aver visto significhi aver esperito, e che mostrare il dolore basti a trasmettere un’esperienza. Eppure lei, sequestrato per ragioni politiche, desaparecido, ha fatto ricorso alle immagini per trasmettere il suo vissuto... L’ho fatto attraverso immagini indirette. Quando leggiamo un libro, questo ci evoca immagini, anche se è fatto di parole. Sarebbe sbagliato pensare che un film, che è fatto di immagini, non abbia il potere di evocarne a sua volta. L’immagine più potente di un film non è quella che si vede, ma l’immagine interiore che viene suggerita. Cercando una chiave per raccontare fino in fondo il disagio, ho trovato che il modo migliore fosse quello di obbligare lo spettatore a immaginare ciò che sta succedendo; io mostro per vie indirette. Un gioco di inferenze. Come quando lei stesso intuisce le torture subite dagli altri imprigionati attraverso i suoni. Nel suo memoir c’è “l’urlo disumano con cui ognuno di noi prigionieri fa il conto”. C’è “il ronzio implacabile della picana”, lo strumento di tortura, sordo alle implorazioni del prigioniero: “Per favore, smettete!”. Del resto io per primo, non ho potuto vedere. Ero bendato. Ho dovuto costruirmi le immagini, ricostruire, perché sul momento non sapevo neppure dove fosse localizzato il campo di concentramento. Perché occultare la vista? Se fossi sopravvissuto, non avrei riconosciuto i miei aguzzini. E poi, il mio sguardo su di loro sarebbe stato d’intralcio. Quando guardi in faccia un torturatore, fai appello alla sua umanità; gli rendi più faticoso farti del male. Lei vede chi la ha torturata molti anni dopo. Che emozione le rimane di quel giorno in tribunale? Nel 2010 il tribunale di Buenos Aires mi ha invitato a testimoniare sul mio sequestro. Più di trent’anni dopo, mi sarei ritrovato di fronte loro, quei militari ormai invecchiati come me, chi mi aveva torturato, picchiato, incatenato e chi ha deciso che sarei sopravvissuto. I parenti dei militari e quelli delle vittime venivano tenuti separati. Io ho voluto con me i miei amici, e questo mi ha dato sicurezza. Ha convissuto con il senso di colpa di essersi salvato. Suo padre, all’epoca manager Fiat, riuscì a ottenere la sua liberazione. Le è servito un lungo percorso per riconoscersi come vittima... Il senso di colpa è dovuto al fatto di sapersi vivi mentre altri sono morti. Non è semplice imparare a convivere con questo. Si può fare qualcosa, però, di tutto questo. È quello che ho provato a fare con le mie opere. La parola desaparecido sembra lontana. Non lo è, se non altro perché gli strascichi giudiziari di quel che è successo in America Latina arrivano fino a oggi... Si può dire che questa parola in Italia abbia contribuito a portarla io, negli anni Ottanta. Il meccanismo - la scomparsa, la repressione dello stato contro i propri cittadini - è attualissimo. È successo in Bosnia, succede in Libia. L’unico modo per lenire le ferite è la giustizia. Non tutti la ottengono. Esiste una violenza sociale chiamata impunità. Fino a poche settimane fa mi trovavo in Uruguay, dove i processi rispetto all’Argentina sono stati molti meno. Ho presentato Garage Olimpo nella città di Mercedes, davanti a un pubblico di sopravvissuti alla dittatura uruguayana. Questi anziani signori si muovono tuttora come se fossero in pericolo. Il motivo me lo la ha spiegato Angel, uno di loro. Fu appeso e gli fu messo il fuoco sotto i piedi, cammina tuttora male. “Ogni tanto quando faccio la fila in farmacia incrocio quello che mi ha bruciato i piedi, è libero, mi saluta pure”. Nel libro scrive che “umano e politico si intrecciano”. Cosa resta di umano nelle violenze di stato? È proprio questo il punto. La spersonalizzazione della violenza, la sua burocratizzazione, fanno sì che lo stato stesso possa trasformarsi in una Bolzaneto. Può succedere ovunque, finché c’è qualcuno che dice: “Ci penserà qualcun altro al posto mio”. Una società disimpegnata è una società a rischio. Una ragazza di un liceo di Roma, dopo aver assistito alla proiezione di Garage Olimpo, si è alzata e mi ha urlato: “Adesso lei ci deve dire che cosa dobbiamo fare”. Bisogna fare politica, impegnarsi per la cosa pubblica. Ecco cosa possiamo fare. “L’orribile mattanza” di Riccardo Arena ilpost.it, 8 luglio 2021 L’ipocrisia. Ora, e solo dopo aver visto quel video dei pestaggi nel carcere di S.M. Capua Vetere, molti nel mondo della politica si scandalizzano e parlano di “ferita allo Stato” o di “tradimento della Costituzione”. Ora, e solo ora. Bene, meglio tardi che mai! Ma domando: questi parlamentari non sapevano del degrado e dell’abbandono che da anni governa le carceri italiane? Chi tra i parlamentari oggi si scandalizza, non sapeva che, se pur con diverse proporzioni, violenze come quelle avvenute a S.M. Capua Vetere, sono avvenute e avvengono in tante altre carceri italiane? Non sapevano delle inchieste in corso o delle condanne che già sono state inflitte? Ed ancora. I parlamentari non sapevano, delle migliaia di persone detenute che sono costrette a vivere in piccole celle sovraffollate e che non possono fare nulla per tutto il giorno? Non sanno che anche questo è “un tradimento della Costituzione”, “una ferita allo Stato? È, con tutta evidenza, l’ipocrita logica dell’apparenza. Ciò che appare è importante, ciò che non appare non conta nulla. Il Sistema. È miope, oltre che sciocco, guardare alle violenze avvenute nel carcere di S.M. Capua Vetere, senza riflettere sull’inefficienza della catena di comando e sull’incapacità di chi amministra gli istituti di pena. Anzi! Ciò che è avvenuto nel carcere di S.M. Capua Vetere è una brutale sintesi di quell’inefficienza e dimostra il fallimento del sistema carcere per come è amministrato. Tradotto: dietro quegli schiaffoni, dietro quelle manganellate gratuite, non solo c’è la responsabile indifferenza di gran parte della politica, ma soprattutto c’è l’incapacità, l’inefficienza di chi ha responsabilità di comando e di amministrazione. Ed infatti, dopo le denunce per quelle violenze e dopo l’inizio dell’inchiesta da parte della Procura di S.M. Capua Vetere, nessuno nel Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha fatto nulla. Nessun procedimento disciplinare, nessun trasferimento. Da quel 6 aprile 2020 tutti tra agenti, comandanti, provveditore, sono rimasti al loro posto come se nulla fosse accaduto. Ma diranno: “Si doveva aspettare l’esito dell’indagine penale”! Tipica bugia da burocrate. Il procedimento amministrativo, prescinde dal processo penale e ha anche tempi più rapidi. E così, sta di fatto, che poco o nulla ha fatto l’ex Ministro Bonafede, che riferendo in Parlamento su quelle violenze ha parlato di “ripristino dell’ordine” e che sembra si sia limitato solamente ad avviare un’indagine interna di cui però, e stranamente, non si conosce l’esito. Nulla ha fatto l’ex capo del Dap Basentini, che ora, e solo ora, dice di non aver saputo nulla di quelle violenze, quando invece sapeva delle numerose persone che denunciavano quelle violenze, ma ha omesso di assumere, in tempi brevi, provvedimenti disciplinari. Dunque, figure di vertice che avevano il dovere di controllare e di intervenire tempestivamente e che invece sono rimaste pressoché inermi. La conseguenza? Nessun provvedimento amministrativo è stato preso nei confronti del Provveditore della Campania, che pare avesse dato l’ordine per quella che doveva essere una perquisizione, e nessun provvedimento è stato adottato per i Comandanti o per quegli agenti della polizia penitenziaria che, pur essendo stati denunciati dai detenuti del carcere di S.M. Capua Vetere, sono rimasti in servizio nello stesso penitenziario. Ma non finisce qui. Infatti una volta che si è dimesso il Capo del Dap Basentini, subentra il nuovo capo del Dap Dino Petralia. Dottor Petralia che, come è facile desumere, sapesse di ciò che era accaduto nel carcere di S.M. Capua Vetere. E lo voglio sperare perché altrimenti sarebbe meglio che cambiasse lavoro. Bene. Anche con il nuovo Capo del Dap, nessun provvedimento amministrativo viene adottato, come se non fosse successo nulla. Strano, no? Ed ancora. A febbraio del 2021, dopo ben 9 mesi da quel pestaggio, cambia Governo, cambia Ministro della Giustizia, ma i gravi fatti accaduti nel carcere di S.M. Capua Vetere sembrano essere dimenticati finché non scattano le misure cautelari e finché non viene pubblicato quel video da il Domani. E dunque domando: il Dottor Petralia, prima della pubblicazione di quel video, ha informato in modo tempestivo e completo la Ministra Cartabia sulla reale portata dei fatti avvenuti nel carcere S.M. Capua Vetere oppure la Ministra non è stata compiutamente informata? Morale: quando si vedono le immagini di quella “orribile mattanza”, ci si dovrebbe ricordare che la merda cade sempre dall’alto e questo vale anche per le carceri. La prospettiva. Ecco se si vuole davvero evitare che accadano di nuovo violenze come quelle avvenute nel carcere di S.M. Capua Vetere, si dovrebbe capire che per ricoprire i vertici dell’amministrazione penitenziaria (il Dap) servono specifiche capacità che un bravissimo magistrato, abituato a fare il Giudice o il Pm, non ha. Servono, insomma, persone con profonde conoscenze del mondo carcerario e che abbiano anche capacità organizzative per gestire il difficile e complesso mondo penitenziario, che costa quasi 3 miliari di euro all’anno. Serve un netto cambio di passo nella scelta delle persone ai vertici del Dap. Ma non domani. Subito! Diversamente, violenze come quelle che abbiamo visto saranno destinate a ripetersi e lo Stato, in quelle celle sovraffollate, non solo continuerà a violare le sue stesse regole, ma continuerà a violare i diritti delle persone detenute buttando al vento tanti, troppi soldi pubblici che oggi vengono spesi per produrre abbandono e criminalità. La violenza nelle carceri, rileggendo Martini di Franco Monaco chiesadimilano.it, 8 luglio 2021 I gravi episodi di Santa Maria Capua Vetere riaccendono l’attenzione su una realtà spesso rimossa dal sentire comune, come già denunciava il Cardinale che invece ne faceva un tema centrale del suo pensiero, tra Scrittura e Legge. Un mondo ben documentato dalla mostra fotografica di Margherita Lazzati aperta alla Società Umanitaria. Sono agghiaccianti le immagini dei soprusi e della violenza gratuita perpetrati nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere. Ma, oltre le immagini, tre elementi attestano che non si può derubricare il caso a un episodio isolato ascrivibile a “mele marce”: la circostanza del coinvolgimento di decine di soggetti comprensivi di un segmento della catena di comando; la singolare circostanza che sia trascorso oltre un anno prima che la notizia filtrasse (a conferma di una inquietante dose di omertà); la sensazione che, se non vi fossero state le immagini registrate, forse mai ne saremmo venuti a conoscenza. Il che autorizza a chiedersi se altri casi, si spera non così estremi, semplicemente non siano filtrati. Lo sdegno è sacrosanto. Ma non possiamo fermarci lì. Ho un amico dirigente della polizia penitenziaria. Persona degnissima, di grande umanità e professionalità. Da lui ho ascoltato il giudizio più severo, da operatore della giustizia ferito nell’intimo. Preoccupato del discredito che potrebbe investire un corpo di polizia spesso trascurato che fa un lavoro tanto prezioso e difficile. Sono andato a rileggere le riflessioni del cardinale Martini, che ebbe una attenzione e una sensibilità specialissime per i detenuti, la condizione carceraria, il senso della pena detentiva. Sin dal suo ingresso a Milano. Cito: “Per me vescovo quella del carcere e dei carcerati è un’esperienza fondamentale… Il carcere è il luogo in cui avverto più che mai il mio servizio di vescovo”. Dovremmo esserne partecipi anche noi cristiani comuni (e cittadini responsabili). Si comprende il perché: la colpa, l’espiazione, la responsabilità, la conversione, il ravvedimento, la riconciliazione, il perdono sono temi che incrociano la Rivelazione cristiana. Sui quali essa e la Chiesa che ne è custode hanno una parola originale, ma non priva di una proiezione sul piano civile e penale. Con una premessa: “Il problema del carcere viene ancora oggi rimosso dalla vita della comunità per paura o senso di colpa; pur essendo gestito dallo Stato, in realtà è privatizzato”, volentieri delegato agli addetti ai lavori. Facile, troppo facile limitarsi allo sdegno occasionale. Se non fossimo così insensibili e persino ipocriti, dovremmo osservare con schietto realismo, come fece Martini, che gli ineccepibili principi costituzionali circa la funzione rieducativa (meglio: riabilitativa) della pena non trovano effettivo riscontro nella concreta realtà carceraria (“le cose vanno diversamente”). Non per concludere semplicisticamente che il carcere possa essere abolito: in una società imperfetta “abbiamo bisogno di strutture di deterrenza e di contenimento”, ma, questo sì, per porsi anche, con coraggio, domande scomode del tipo: “È umano ciò che i detenuti stanno vivendo, è efficace per un’adeguata tutela della giustizia, serve alla riabilitazione e al recupero?”. Interrogando da un lato la Scrittura e dall’altro l’evoluzione del diritto penale, Martini approda a quattro conclusioni. La prima: il carcere va concepito e praticato come extrema ratio, come soluzione ultima e temporanea. Dando priorità alle pene alternative. La seconda: se, non a parole, il loro fine è quello riabilitativo, le pene, pur nel quadro di regole generali, dovrebbero essere, per quanto possibile, personalizzate, utili cioè anche a incoraggiare il percorso di un soggettivo ravvedimento del reo. La terza: l’asimmetria tra il reo e lo Stato, il quale dovrebbe dare mostra, in concreto, di non ripagare il male con il male. Come potrebbe altrimenti propiziare il ravvedimento? Qui sta il vulnus più grave di episodi come quelli di cui sopra. Quarto, ai cristiani sono richiesti due ulteriori atteggiamenti: quello di confidare nella circostanza che non vi siano persona o situazione, anche le più apparentemente compromesse, che precludano il riscatto e la rigenerazione; e quella della comune quota di responsabilità nella radice del male e del peccato. Da non fraintendere come cancellazione delle responsabilità individuali o come facile perdonismo. Non cioè in omaggio a una corriva sociologia deresponsabilizzante. Ma nella consapevolezza (teologica) che nessuno è immune dal male che abita il mondo, a motivo della nativa ferita rappresentata dal peccato d’origine del quale c’è traccia in ciascuno di noi. A vincere la facile, abituale rimozione, ci dà l’occasione la bella mostra fotografica che dobbiamo, ancora una volta, a Margherita Lazzati dal titolo “Il carcere: quartiere della città”, allestita ai primi di luglio presso la Società Umanitaria. Scatti di interni di San Vittore accompagnati da cinquanta storie di vita di persone che vi risiedono o lo frequentano. Nel titolo sta la provocazione: San Vittore sta nel cuore urbanistico di Milano. Forse meno nel cuore o almeno nella conoscenza dei milanesi. S.M. Capua Vetere è il ritratto della nostra umanità perduta di Francesco Petrelli Il Riformista, 8 luglio 2021 L’inumano lascia le sue tracce visibili, a volte nei corpi delle vittime, a volte nel corpo dell’aguzzino. Sono tracce appena percettibili che si celano nei dettagli, in uno sguardo, in una forma o in una postura. Del corpicino spiaggiato del bambino migrante colpiva la postura, le piccole braccia abbandonate all’indietro come fossero il segno dell’abbandono di ogni speranza nell’uomo, il segno dell’atrocità impietosa che gli affondava il viso nella sabbia senza più protezione. Allo stesso modo l’inumano traligna a volte dai corpi o dai gesti dei carnefici. Come quello della signora che durante lo sgombero di un campo rom di Ponticelli sputa a una donna con la figlia di pochi mesi in braccio “ma sbaglia bersaglio e colpisce la faccia della bambina”. Così come l’inumano si rende manifesto nelle schiene ricurve dei carnefici ritratti da Caravaggio. Uomini di spalle, senza volto o con il volto in penombra ai quali l’inumano ha tolto l’identità, la possibilità di uno sguardo. Così come balugina sulla schiena luminosa di muscoli del carnefice curvo sul corpo già abbattuto di San Giovanni Battista, che schiacciando la testa della vittima con la mano sinistra torce il braccio destro all’indietro, per portare la mano al coltello appeso alla cintola, per il gesto finale della decollazione. O come anche nello sguardo vuoto del soldato dal collare di aculei di ferro che compare nella Incoronazione di spine di Hieronymus Bosch, di cui parla Marco Revelli, traendone l’insegnamento di quel terribile “odio secco”, un odio “scevro da passioni come da motivi dichiarabili … non l’odio della vittima per l’aggressore … ma l’odio senza soggetto (senza interiorità da parte di chi lo prova) l’odio come ‘cosa’”, senza dolore e senza rancore, senza ragione alcuna che davvero lo muova contro la vittima delle sue inumane sevizie. Abbiamo rivisto quel lampeggiare d’inumanità nella schiena larga e possente di un agente coi capelli bianchi, senza volto e senza identità, col manganello in mano mentre ficca il ginocchio nello stomaco di un detenuto piegato in due dalle percosse. L’abbiamo visto nel luccichio del casco nero di un altro dello squadrone, in tenuta antisommossa, che prende a manganellate un detenuto caduto in terra. Era il luccichio dell’elmo del soldato che in un altro capolavoro di Bosch, il Cristo portacroce, sorride bolso e inebetito anticipando l’orribile corteo con lo sguardo perso nel vuoto. Ecco, quel Cristo annichilito ed umiliato dagli sgherri inconsapevoli, proprio nello svelare l’atrocità del suo destino, testimoniava della possibile futura umanità dell’uomo. Ma noi abbiamo disimparato ad avere cura del futuro e fiducia nell’uomo. Abbiamo dissipato tutto quello che restava del nostro patrimonio di umanità. I fatti di Santa Maria Capua Vetere stanno lì a testimoniare questa dissipazione e questa perdita di senso dell’essere uomini e della necessità inderogabile e improcrastinabile di proteggerci dal precipitare nell’inumanità. Quei fatti ci pongono davanti, non al deragliamento dalla normalità, ad una caduta imprevista ed imprevedibile nella brutalità di un gruppo. Quegli squadroni hanno visto, hanno capito, hanno annusato l’aria ed hanno lasciato che il disarmo messo in atto dalla collettività intera e dalla politica che la governa e che la esprime giungesse ai suoi esiti finali e inevitabili. La strumentalità con la quale ogni disegno di riforma del carcere è stato abbandonato, l’indifferenza con la quale si sono disinvestiti tutti i propositi di ristrutturazione della pena e di smantellamento dell’opera di assidua reificazione del condannato, obnubilando salute fisica e mentale ed affettività, hanno riprecipitato l’istituzione carceraria in una disperata condizione di arretratezza fisica e morale. Hanno inevitabilmente prodotto quel rapporto di feroce contrapposizione fra collettività sana e carcere come discarica del male, fra detenuto e sorvegliante del detenuto in quel cieco vincolo di violenza nel quale vince chi è più feroce. Ma quelle mani, quei volti coperti dalle mascherine e dai caschi lucidi degli agenti, e il consenso che li circonda nella società civile, li abbiamo inoculati, incubati, nutriti e svezzati nel tempo, privando l’accusato e il condannato di ogni diritto al rispetto, di ogni difesa della dignità, di ogni residuo di umanità, riponendo nella penalità e nel carcere una ridicola fiducia di sicurezza e di redenzione. Gli agenti indagati vanno processati in aula non in piazza di Riccardo Polidoro Il Riformista, 8 luglio 2021 Finalmente i media si occupano di carcere! Ci sono volute immagini tremende e messaggi raccapriccianti per sollevare lo sdegno dell’informazione e quello dell’opinione pubblica. Anche i sostenitori storici del “buttare la chiave” hanno dovuto ammettere che la crudeltà di quanto visto e letto non lascia spazio a interpretazioni. Uno squarcio di luce intrisa di sangue sta attraversando il carcere, lasciato solo e abbandonato a se stesso da tempo immemorabile. Ora è necessario tenere alta l’attenzione per evitare che le tenebre tornino ad avvolgere quel mondo sconosciuto o, comunque, dimenticato. Quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere ha confermato l’importanza della figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e quella di una Magistratura di Sorveglianza attiva, oltre che in ufficio, anche negli istituti di pena. Dal loro tempestivo intervento, infatti, hanno preso vita le indagini che sono state coordinate e svolte nei necessari tempi rapidi. Dai messaggi scambiati tra gli indagati, emerge l’esistenza di un “sistema Poggioreale”, in relazione alle violenze da far subire ai detenuti. Il riferimento è alla famigerata “cella zero” del carcere napoletano, oggi oggetto di un processo, ancora in corso, nei confronti di alcuni agenti di quell’istituto. La violenza della “mattanza” di Santa Maria Capua Vetere ci fa comprendere come gli autori fossero convinti della loro impunità. Detto ciò, credo che vadano fatte almeno due riflessioni di natura politica. La prima è relativa alle dichiarazioni di coloro che hanno affermato che si sarebbe trattato di “poche mele marce” e che il resto della polizia penitenziaria è sano, come lo è la dirigenza dell’amministrazione. Ciò è del tutto fuorviante. A essere “marcio” da tempo è il sistema penitenziario. In questo malessere sono costretti - e sottolineo costretti - a vivere detenuti e agenti. I primi trattati come animali, privati di un progetto di responsabilizzazione e rieducazione, stipati in spazi angusti e antigienici; i secondi messi a guardia di persone abbrutite e private anche della dignità e, pertanto, da educare senza rispetto e, quando serve, a mazzate. Non a caso le numerose condanne inflitte all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo fanno riferimento alla necessità di un intervento di sistema che non c’è mai stato, per colpa di una politica cieca che non guarda al di là di uno strumentale interesse elettorale. La stagione degli Stati generali dell’esecuzione penale, iniziata dopo l’ennesima condanna inflitta dalla Cedu e culminata con il lavoro di ben tre Commissioni ministeriali per la riforma dell’ordinamento penitenziario, si è chiusa con un nulla di fatto e le modalità di approccio della politica al pianeta carcere non sono mutate. Occorre riprendere quei lavori, frutto di un serio e serrato confronto tra persone esperte e provenienti dai diversi settori del mondo della giustizia. Per la seconda è bene chiarire preliminarmente che chi scrive si occupa da anni della tutela dei diritti dei detenuti e oggi è co-responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane. Non è, pertanto, sospettabile di alcun pensiero avverso la popolazione detenuta né di favorire l’amministrazione penitenziaria. Fermo restando l’importanza - e l’abbiamo già detto - di tutto quello che è derivato dalla pubblicazione di messaggi e video (in merito ai quali il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello ha anticipato che ce ne sarebbero altri ancora più violenti), occorre evidenziare, ancora una volta, che la spettacolarizzazione della giustizia e i processi di piazza non giovano al Paese. Si tratta di giustizia sommaria, che - pur per episodi gravissimi - travolge vite umane e con esse i loro familiari, dinanzi a quella che è la verità parziale di un’ipotesi accusatoria. Mentre dovrebbe essere il processo, con tutte le sue garanzie, ad accertare la verità. Si obietterà: ma come, vi sono i messaggi, i video, la colpevolezza è certa! No, signori, la giustizia non funziona così. Altrimenti continueremo ad alimentare un istinto brutale di linciaggio popolare che, senza alcun intervento di un giudice, vuole la condanna del colpevole. Non possiamo accettare questa deriva che lentamente ci sta portando all’abbrutimento della nostra civiltà giuridica. Comprendo le ragioni che hanno indotto la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere a diffondere il comunicato stampa di ben 13 pagine, in cui venivano testualmente riportati i messaggi degli indagati, e comprendo pure le ragioni della pubblicazione del video delle torture, ma non le condivido. Sono il frutto di una politica che è rimasta indifferente dinanzi alle notizie apprese nel corso delle indagini, lasciando convivere per un anno intero vittime e carnefici. Una politica che, dinanzi alle denunce delle torture dell’aprile scorso, ha dichiarato che la legalità nel carcere di Santa Maria Capua Vetere era stata ripristinata. Oggi il Ministero della Giustizia ha una guida nuova, certamente orientata verso i principi costituzionali. Basterà? La giustizia che verrà. Cartabia e Draghi trovano la sintesi sulla prescrizione di Valerio Valentini Il Foglio, 8 luglio 2021 Alla fine il vertice è saltato davvero. E del resto fare una sintesi politica tra i vari partiti, senza che prima il partito di maggioranza relativa l’abbia fatta al suo interno, sarebbe complesso. E infatti i ministri del M5s per tutto il giorno hanno tenuto il doppio filo di comunicazione: e se da un lato provavano a evitare le crisi di nervi nei gruppi parlamentari in perenne subbuglio, dall’altro spiegavano a Palazzo Chigi che no, “adesso proprio non è il caso”. Per cui forse della riforma del processo penale se ne parlerà nel Cdm di oggi; e sennò si rimanderà ancora. Del resto a Via Arenula evitano drammi, e anzi mostrano la serenità di chi sa che il pacchetto di emendamenti su prescrizione e dintorni è già definito, e si attende semmai solo di ricamarci intorno un’intesa politica. Solo che nell’imminenza della capitolazione, il M5s va nel panico. “Eppure sono mesi che gli diciamo che la legge Bonafede non poteva essere mantenuta, che dovevano trovare un compromesso accettabile”, sbuffano dal Nazareno. E invece, ancora pochi giorni fa, il redivivo Rocco Casalino provava a fomentare i big di Camera e Senato: “Dobbiamo difendere le nostre conquiste, dobbiamo ribadire che noi abbiamo vinto le elezioni e che non possono pensare di scardinare la Spazzo-corrotti o il reddito di cittadinanza”. E quelli forse devono averci creduto fin troppo. Se ieri, nelle riunioni di prammatica, hanno perfino paventato ammutinamenti di massa (“Noi la soppressione della Bonafede non la voteremo mai”) e scissioni su scissioni, col ministro Federico D’Incà, volto dialogante del grillismo in frantumi, che spiegava perché l’ipotesi di un’insubordinazione dei ministri di fronte a Mario Draghi non era pensabile. Anna Macina, sottosegretaria alla Giustizia che stando vicino a Marta Cartabia s’è rassegnata da tempo all’arte del realismo, ha provato a lodare il senso della proposta di Via Arenula ai parlamentari delle commissioni competenti. Spiegando che “non si tratta di un’abrogazione della Bonafede, ma semmai di una sua integrazione”, nel senso che il calcolo della prescrizione resterà sospeso fino al primo grado, benché poi la sospensione s’interromperà nel caso in cui venissero superati i limiti imposti per l’Appello (due anni) e la Cassazione (tre anni), col tempo trascorso che a quel punto tornerebbe a essere computato. Insomma, non il massimo che si potesse desiderare, ma il massimo ottenibile nelle condizioni date. Il che d’altronde, nell’ottica della ministra, consente comunque di evitare il rischio reale dell’irragionevole durata dei processi. Ad ascoltare c’era pure lui, Alfonso Bonafede: rassegnato a dover annuire di fronte all’osservazione che sì, un pezzo almeno dell’impianto della sua riforma sopravviverà comunque. E, come in uno strano scambio delle parti in commedie, stavolta erano i deputati, e non i senatori, quelli più intransigenti, con Vittorio Ferraresi e Giulia Sarti a recitare il ruolo degli oltranzisti (“Così è un’umiliazione”). Il tutto, ovviamente, davanti agli occhi del capo delegazione Stefano Patuanelli. Il quale s’è preso la briga di tentare un’ulteriore mediazione: ottenere, cioè, l’indicazione di alcuni reati gravi per i quali resterebbe pienamente in vigore il blocco della prescrizione. Una concessione, però, su cui i tecnici di Via Arenula si dicono abbastanza scettici. Quello su cui invece i consiglieri della Cartabia hanno lavorato nei giorni passati è una postilla che preveda una proroga dei termini della prescrizione (i due anni per l’Appello e l’anno per la Cassazione) in caso di particolari complessità nel processo che porterebbero a una dilazione dei tempi. Altro successo che il M5s potrà comunque rivendicare, poi, sta nell’aver ammorbidito parecchio, rispetto alle iniziali proposte formulate dalla commissione dei tecnici ministeriali guidati dal prof. Lattanzi, sia la norma sull’inappellabilità delle sentenze di primo grado sia l’indicazione da parte del Parlamento rispetto ai reati da perseguire. Stando alle ultime bozze, su quest’ultimo punto si prevede che le Camere forniscano solo un quadro d’indirizzo generale, lasciando però una sostanziale libertà d’azione alle procure. Questo, insomma, è il piatto che il M5s dovrà accettare di mangiare. Ed è su questo accordo che domani, salvo inciampi dell’ultim’ora, i ministri forniranno un consenso informale, così da fare in modo che gli emendamenti governativi al disegno di legge sul processo penale arrivino alla commissione Giustizia di Montecitorio col crisma della piena condivisione. E a quel punto l’iter del provvedimento, rimasto a lungo sospeso in attesa di un’intesa politica, dovrebbe diventare assai agevole. Anche perché la riforma va approvata, stando al Pnrr, entro il 2021. Il che, stando a chi maneggia il calendario parlamentare, vuol dire prima di ottobre, quando cioè Camera e Senato saranno impantanate nella sessione di bilancio. Il piano di Cartabia: stop alla prescrizione dopo il primo grado, poi tempi stretti di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 luglio 2021 La ministra della Giustizia e la proposta di riforma della giustizia penale oggi al Consiglio dei ministri. Mediare e trovare sintesi che mettano tutti d’accordo significa trattare fino all’ultimo momento disponibile, ed evitare - per quanto possibile - occasioni di rottura. O ridurle al minimo indispensabile. Anche per questo (oltre che per il contemporaneo appuntamento con i sindacati della polizia penitenziaria, che non poteva far slittare in un momento tanto delicato) Marta Cartabia ha rinunciato senza problemi alla riunione della cosiddetta “cabina di regia” sulla riforma della giustizia convocata per ieri. Meglio affrontare un solo passaggio a rischio, il consiglio dei ministri previsto per oggi, e arrivarci con una soluzione più affinata possibile. Si tratta infatti di uno dei tornanti più complicati nel cammino del governo, affrontando la materia più scivolosa per la maggioranza che sostiene Draghi, tanto larga quanto divisa sulle modifiche al processo penale necessarie per ottenere il via libera dell’Europa al finanziamento del Piano di ripresa e resilienza. E in quest’ottica, anche un rinvio di poche ore può tornare utile ad aggiustare un codicillo, rifinire una norma o cancellare una parola che potrebbe urtare la suscettibilità di un partito o dell’altro. Del resto la ministra della Giustizia poteva presentare direttamente gli emendamenti al testo già in discussione alla Camera senza l’avallo formale dell’esecutivo riunito intorno al premier, ma Cartabia e Draghi hanno deciso di inserire questa tappa intermedia per impegnare il governo nel suo insieme, e quindi i partiti che lo appoggiano. Sperando così di evitare le insidie e i tranelli parlamentari che metterebbero in forse la tenuta della maggioranza e - soprattutto - i miliardi del Recovery plan. Il principale nodo da sciogliere resta quello della prescrizione cancellata dopo la sentenza di primo grado. Non tanto per il peso effettivo che quella norma chiamata “riforma Bonafede”, introdotta al tempo del governo Conte 1, ha attualmente sul sistema giustizia, quanto perché è diventata una bandiera grillina che il Movimento non ha intenzione di veder ammainare. Come invece vogliono fare tutti gli altri partiti della coalizione: dal Pd alla Lega passando per Leu, Italia viva, Azione e Forza Italia. Ancora ieri i tecnici del ministero della Giustizia erano al lavoro per limare gli ultimi dettagli della proposta di emendamento che Cartabia porterà nella riunione di oggi e che - salvo modifiche o ulteriori aggiustamenti dell’ultim’ora - prevederà questo: resta lo stop alla prescrizione dopo il verdetto di primo grado per tutti gli imputati, senza distinzione tra assolti e condannati; ma se nei gradi successivi verrà superato il tempo limite di due anni per l’appello e un anno per la Cassazione (con eventuale proroga rispettivamente di un anno e di sei mesi per i reati più gravi e per procedimenti particolarmente complessi), allora verrà dichiarata l’improcedibilità. Che è cosa diversa dalla prescrizione che estingue il reato; qui il reato resta ma si blocca il processo, sia pure in maniera definitiva. Con questa soluzione, illustrata da Cartabia a tutti i rappresentanti dei partiti incontrati fino all’altro ieri, i Cinque stelle potranno rivendicare la permanenza del principio dello stop definitivo dopo la prima sentenza che accerta fatti e responsabilità, mentre tutti gli altri potranno dire di aver debellato il virus del processo potenzialmente infinito introdotto proprio con la riforma Bonafede. Ancora ieri, c’era chi dubitava che i grillini possano accontentarsi della soluzione Cartabia. Il capodelegazione nel governo, Stefano Patuanelli, il 20 giugno aveva detto in un’intervista al Corriere che sulla prescrizione “l’intesa raggiunta nel precedente governo (diversa da quella suggerita ora da Cartabia, ndr) è l’unico punto di caduta possibile”. Che dirà oggi davanti a Draghi? Difficile immaginare uno strappo che sarebbe complicato ricucire. Anche perché la mediazione ministeriale sulla riforma complessiva comprende altri due punti che recepiscono almeno in parte critiche e allarmi arrivati da quella stessa parte politica, e potrebbero ammorbidire resistenze e malumori a cinque stelle: è stata abbandonata l’ipotesi dell’inappellabilità delle sentenze di primo grado da parte dei pubblici ministeri, e viene a cadere l’indicazione, da parte del Parlamento, dei “criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi”. Su questo secondo fronte, la riforma dovrebbe codificare attraverso una legge quanto già avviene con le circolari stilate nelle Procure, laddove le priorità rispetto alla mole dei procedimenti da trattare vengono definite dagli stessi titolari dell’azione penale secondo indicazioni che devono essere approvate dal Consigli superiore della magistratura. Giustizia, il M5S contro la riforma: “Non la votiamo” di Annalisa Cuzzocrea e Liana Milella La Repubblica, 8 luglio 2021 Ai grillini non piace che la prescrizione torni a correre dopo il primo grado. Cartabia non si ferma: oggi il nuovo processo penale arriva in Cdm. Sulla riforma della giustizia Mario Draghi e Marta Cartabia puntano i piedi. Nessun rinvio del Consiglio dei ministri che si terrà comunque oggi. Anche se il Movimento 5 stelle - dove come sempre volano falchi e colombe - vorrebbe ancora tempo per convincere la ministra della Giustizia che la formula della prescrizione ancora non va bene. Certo non è più quella dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, anche se, come sottolineano in via Arenula, salva un pezzo “prezioso” di quella riforma. Perché comunque la prescrizione si ferma dopo il primo grado. Dopo però, in Appello e in Cassazione, torna a scattare. Parte da qui la reazione negativa dei 5 stelle. Che si manifesta subito, quando la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina spiega ai suoi qual è il compromesso raggiunto. Nella riunione che alla Camera vede presente anche Bonafede viene fuori il dissenso, “così è un pannicello caldo”, esclama un deputato. Certo, è vero che proprio la prescrizione firmata M5S resta confermata per tutto il primo grado, senza la distinzione tra condannati e assolti che invece era entrata nel lodo Conte bis. Una prescrizione che, fanno notare in via Arenula, avrebbe salvato il processo per le vittime di Viareggio, il caso citato mille volte proprio da Bonafede. Ma nella riunione si manifestano tutte le perplessità sugli altri due gradi di giudizio, quei due anni concessi all’Appello e i 12 mesi per la Cassazione che rappresentano una vera e propria “tagliola”. Né basta la lista dei reati considerati “imprescrittibili”, quelli che i codici considerano gravi e gravissimi, e che hanno diritto a più tempo. L’omicidio, la strage, il terrorismo, la mafia. Perché resta fuori la corruzione. E questo, per chi ha fatto proprio di questo reato, con la legge Spazzacorrotti, un vessillo, è per il Movimento insopportabile. I suoi ministri chiedono quindi che venga inserita nella lista dei reati che hanno diritto a una salvaguardia speciale. Se così non sarà, minacciano di non votare la riforma. Chiedono a Draghi di fermarsi. Di aspettare, concedendo almeno una settimana per lavorare sul testo. Ma il premier e Cartabia si parlano e decidono che no, questa volta non si può più attendere. La riforma deve avere il sigillo della maggioranza e poi gli emendamenti al testo base del processo penale dell’ex ministro Bonafede devono “volare” alla Camera, in commissione Giustizia, visto che in aula la discussione è prevista per il 23 luglio. Di mezzo ci sono i fondi del Pnrr. L’obiettivo da tenere a mente è quello che l’Italia ha promesso all’Europa in cambio dei prestiti che arriveranno per fare investimenti finalizzati alla ripresa: tempi della giustizia più celeri. Per questo, Draghi e Cartabia hanno detto no anche alle pressioni arrivate da Italia viva, che martedì ha mandato a parlare con la Guardasigilli Maria Elena Boschi e Lucia Annibali. Il partito di Matteo Renzi, visto da Palazzo Chigi, è un po’ agitato. E ha tirato fuori una vecchia battaglia che vorrebbe fosse inserita nella riforma: una stretta sulle intercettazioni. Si tratta di un tema che non ha nulla a che fare con quello su cui si sta lavorando in queste ore. “Se si apre alle richieste ideologiche dei diversi partiti - dice chi lavora al dossier - si rischia di non uscirne”. Anche perché comincia a farsi sentire anche la Lega, che chiede alla ministra della Giustizia di ridimensionare il ricorso al patteggiamento o alla messa alla prova per reati puniti fino a 10 anni, tra cui la corruzione. E quindi oggi in Consiglio dei ministri Cartabia illustrerà i suoi emendamenti, e il presidente del Consiglio vorrebbe che ad appoggiarli fossero tutti i partiti di governo. Il Movimento 5 stelle dovrà scegliere cosa fare, se dare il via libera a un testo che comunque salva un pezzo della sua prescrizione. O se sfilarsi perché non ha ottenuto di più. Una decisione difficile, da prendere per di più senza una guida: i 7 saggi stanno ancora lavorando a un’intesa sullo statuto che possa far andare d’accordo Giuseppe Conte e Beppe Grillo. E la mediazione, sebbene a buon punto, è tutt’altro che chiusa. Ddl penale, oggi decide il Consiglio dei ministri. Prescrizione in bilico di Valentina Stella Il Dubbio, 8 luglio 2021 Oggi in Consiglio dei ministri gli emendamenti di Cartabia alla riforma: sulla prescrizione, un’opera di ingegneria tecnico normativa, per rimediare all’assurdo della legge Bonafede senza traumatizzare i 5 stelle. La soluzione c’è e si regge su un filo sottilissimo, intessuto con accorgimenti tecnici e con una particolare cura nel modello di comunicazione. Oggi finalmente arriva in Consiglio dei Ministri il restyling della riforma del processo penale con gli emendamenti elaborati dalla commissione Lattanzi e definiti da Marta Cartabia. Nessun passaggio dunque ieri per la cabina di regia governativa: si è continuato a trattare informalmente con i partiti per sciogliere gli ultimi nodi. L’equilibrio si regge sull’opera di ingegneria normativa messa in atto dai professori soprattutto in tema di prescrizione, per raggiungere un risultato che da un lato riporti nell’alveo costituzionale la durata del processo, ma che, allo stesso tempo, possa permettere alle forze di maggioranza di rivendicare una parte dell’obiettivo riformatore. Da qui anche la scelta della ministra di preferire il termine ‘improcedibilità’ a quello di ‘prescrizione’, che poi rappresenta l’ipotesi B della commissione su cui si sarebbe raggiunta la sintesi. In pratica la prescrizione si blocca dopo il primo grado, come da riforma Bonafede, ma poi subentra l’improcedibilità dell’azione penale. Si avranno due anni di tempo per il processo di appello, un anno per quello in Cassazione. Se i giudici non rispetteranno questi termini il processo stesso decadrà, ovviamente per l’assolto in primo grado ma anche per il condannato. Ed è questa la novità, che potrebbe essere difficile da far digerire al Movimento 5 Stelle ma su cui punterebbe la guardasigilli per non andare in conflitto con i principi di uguaglianza e di presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva. Tuttavia su questo si continuerà a trattare, fanno sapere da Leu, per trovare una formula di maggiore gradualità nel caso della sentenza di condanna. Dunque questa sintesi accontenterebbe un po’ tutti: l’ex ministro Bonafede il cui totem in parte resta, il Pd che pure aveva proposto la prescrizione processuale un po’ semplificata, Leu che si era mosso più o meno allo stesso modo già dal 2019, Forza Italia che si era opposta all’ipotesi dello sconto di pena come sostituto dell’improcedibilità, la Lega favorevole alla necessità di ridurre drasticamente i tempi del processo penale ma non le garanzie - come aveva detto Giulia Bongiorno dopo aver incontrato la Cartabia -, Italia viva che si era opposta alla discriminazione tra assolti e condannati dopo il primo grado. Soddisfatto anche l’onorevole di Azione Enrico Costa: “Gli emendamenti del governo alla riforma del processo, ne siamo certi, andranno nella direzione da noi auspicata del rispetto dei principi costituzionali, della presunzione di innocenza, del diritto alla difesa, della ragionevole durata del processo e della certezza della pena”. Secondo il sottosegretario Francesco Paolo Sisto “la commissione Lattanzi ha lavorato bene in stretta aderenza ai principi costituzionali. Poi spetterà al Parlamento dire la sua”. Dietro le parole del sottosegretario probabilmente si cela il detto “non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”: infatti a poche ore dal Cdm c’è comunque chi teme che la pattuglia pentastellata faccia saltare il banco, considerate le indiscrezioni che hanno fatto circolare - “i tempi non sono maturi, una posizione non c’è ancora, si sta accelerando troppo”. E i nodi da sciogliere non sono pochi: sicuramente quello dell’appello che aveva messo in allarme sia l’accusa che la difesa, considerato che nella proposta originaria della commissione Lattanzi si voleva impedire al pubblico ministero di appellare le sentenze di assoluzione e si voleva trasformare il secondo grado in un giudizio a critica vincolata, svuotandolo della valutazione di merito. Adesso sembrerebbe invece che il pm potrà continuare a presentare appello, anche se con dei paletti, e altrettanto potrà fare il difensore per conto del proprio assistito. Una scelta di buon senso per evitare il fuoco incrociato di magistratura e avvocatura. Un’altra questione che aveva agitato il dibattito era stata quella del temperamento dell’obbligatorietà dell’azione penale. Inizialmente era previsto che fosse il Parlamento a determinare periodicamente, anche sulla base di una relazione presentata dal Consiglio Superiore della Magistratura, i criteri generali dell’esercizio dell’azione penale. Adesso si va verso un Parlamento che darà solo un’indicazione di massima, dei criteri indicativi molto generici, ma poi saranno le procure a fissare le vere priorità dell’esercizio dell’azione penale, in base alle esigenze del singolo territorio. Su questo aveva presentato delle perplessità proprio al nostro giornale il costituzionalista Cesare Mirabelli: “Non ci può essere neanche una diversità di criteri per i diversi territori. Di fatto alcuni reati verrebbero perseguiti o meno a seconda del luogo dove sono stati commessi e sarebbe leso il principio di eguaglianza”. Flick: “È un’ottima riforma ma non funzionerà, i pm abbandonino lo spirito missionario” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 8 luglio 2021 L’ex ministro: “In gran parte le modifiche contengono cose che provammo a fare 23 anni fa io e Giorgio Lattanzi. All’epoca io guidavo il ministero e lui era direttore generale, ma purtroppo allora fallimmo per indifferenza politica e ostilità delle toghe”. “Se i superlativi in Italia non fossero abusati, direi che l’impianto della riforma penale mi pare molto positivo - dice Giovanni Maria Flick, docente e avvocato penalista, ex ministro della Giustizia e presidente emerito della Corte costituzionale -. L’unico rammarico è che in gran parte contiene cose che provammo a fare 23 anni fa - io ministro e Giorgio Lattanzi all’epoca direttore generale del ministero, lui che oggi ha contribuito a scriverla come collaboratore di Marta Cartabia. Allora fallimmo per indifferenza politica e ostilità della magistratura, speriamo che ora ce la facciano”. È ottimista? “Demoralizzato e ragionevolmente perplesso dallo spettacolo, a volte sconcertante, in cui si muovono gli attori: politica, magistratura, avvocatura, mass media. Ma non dispero, anche perché mi pare che la ministra si stia muovendo molto bene sul piano della diplomazia”. Quali sono i punti che motivano il suo giudizio positivo? “Mi piace molto, fra l’altro, il rafforzamento del ruolo del giudice nel controllo del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari. Il rapporto tra queste due figure resta irrisolto: si pensi a quanto accaduto nell’inchiesta sul disastro della funivia del Mottarone. Evidentemente non si è ancora capito che è il giudice, e non il pubblico ministero, a emettere i provvedimenti sulla libertà personale”. La convince il tentativo di aumentare il filtro processuale nell’udienza preliminare? “Finalmente si capovolge il criterio di valutazione del materiale raccolto nelle indagini: non si rinvia a giudizio per cercare le prove, ma solo quando di per sé sarebbero sufficienti per una condanna, se confermate in dibattimento”. Funzionerà? “Solo se i magistrati non lo vanificheranno, perpetuando una tendenza perversa a considerare indagine e dibattimento un tutt’uno, senza soluzione di continuità”. I magistrati possono vanificare la riforma? “Mi pare evidente, senza bisogno di citare Giolitti, per cui le leggi s’interpretano per gli amici e si applicano per i nemici. Ogni principio è interpretabile, dunque nessuna legge, nemmeno la migliore avrà efficacia senza un profondo cambiamento culturale. Della politica, dell’avvocatura, ma soprattutto della magistratura”. Quale? “Bisogna uscire dalla stagione del panpenalismo, la dottrina per cui tutte le emergenze sociali vanno soddisfatte con nuovi reati, e del pancarcerismo, per cui il tema della sanzione penale si risolve nel carcere. E liberarsi dalla concezione della giustizia come missione”. In che senso? “Ma non ci si rende conto che i due frutti che dovrebbe generare l’albero della giustizia, la ragionevole durata del processo e la ragionevole prevedibilità dell’esito, sono rinsecchiti? Che il terzo frutto, la pena e la sua esecuzione, è marcito come ci siamo finalmente accorti a Santa Maria Capua vetere (e non solo lì)? Non si può continuare a stiracchiare i principi per arrivare a esprimere posizioni di potere. In uno slogan: più umiltà e meno autoreferenzialità”. Della riforma della prescrizione che cosa pensa? “Mi rifiuto di entrare in un ginepraio di tecnicismi elaborati solo per nascondere o attenuare contrasti politici di fondo. La politica usa la prescrizione come strumento di lotta. Ostenta un’infastidita indifferenza ai problemi della giustizia, salvo quando può strumentalizzarla a fini di parte”. La riforma del Csm è indietro perché più difficile? “A parità di metodo, a differenza della commissione Lattanzi, da quella sull’ordinamento non è venuto fuori granché. Resto convinto che l’apertura dei consigli giudiziari agli avvocati sia sacrosanta, purché abbiano diritto di voto, e che gli illeciti disciplinari dei magistrati non debbano essere valutati da altri magistrati, ma da un’alta corte esterna al Csm”. È realistico l’obiettivo di ridurre i tempi dei processi del 25%? “Vent’anni fa, quando provammo ad abbattere l’arretrato, verificammo che in pochi mesi si ricreava come prima. Quindi se non si cambia cultura incidendo prima di tutto sugli spigoli autoreferenziali, tutto è inutile”. È una delle condizioni per accedere ai fondi europei. “Giusta esigenza, ma non vorrei che si dimenticasse che la giustizia non è solo questo. Pensiamo molto all’economia, meno all’umanità. Restituire i soldi europei sarebbe doloroso, ma possibile. Ma come si restituisce la dignità ai detenuti di Santa Maria Capua Vetere?”. Giustizia. Per un processo 1.300 giorni. La tartaruga Italia bocciata dall’Europa di Claudio Tito La Repubblica, 8 luglio 2021 “Il buon funzionamento e la piena indipendenza del sistema giudiziario può aver un impatto positivo sugli investimenti e contribuire alla produttività e alla concorrenza”. Questa frase è contenuta nell’introduzione al Rapporto annuale della Commissione europea sulla Giustizia. Certo, si tratta ancora di una bozza. Il documento definitivo verrà presentato stamattina. Ma fa capire quanto attenzione l’Unione europea stia dedicando all’efficacia dei sistemi giudiziari. Questo studio, che si ripete da nove anni, è in sintesi una enorme “pagella” con tanto di voti che l’Europa assegna a tutti gli Stati membri nell’amministrazione dei processi civili. E, come spesso accade, i giudizi assegnati all’Italia non sono purtroppo tra i migliori. Lentezza nelle procedure, tempi mostruosi per dirimere le liti civili, numero di magistrati decisamente sotto la media dell’Unione e ritardo nella digitalizzazione. I parametri di riferimento utilizzati per esprimere la valutazione - si legge ancora nella bozza - sono tre: “Efficienza, qualità e indipendenza”. E soprattutto sul primo punto, il nostro Paese è tra i fanalini di coda. Prova finale della necessità delle riforme e del vincolo reclamato dall’Ue rispetto ai finanziamenti del Recovery Fund. “Il Covid - si osserva infatti - ha creato nuove sfide e ha messo in luce l’importanza di accelerare le riforme”. La maggior parte delle statistiche, in realtà, fa riferimento al 2019. E allora, tanto per cominciare, si evince che il numero di cause civili, commerciali e amministrative intentate negli ultimi otto anni è rimasto stabile. Circa quattro milioni l’anno. Quasi nella media continentale. I problemi, giganteschi, nascono sui tempi di evasione delle liti. Basta allora prendere i giorni che si impiegano per ottenere la sentenza di primo grado. E subito si passa nella classifica dei “cattivi”: siamo al quintultimo posto con 13 mesi di attesa. Ma se si depura il dato dal contenzioso amministrativo, ecco precipitiamo ancora più a fondo: penultimi con oltre 500 giorni di processo per ascoltare la prima sentenza. Se poi si prende il dato relativo alla decisione definitiva, quella in terzo grado, allora l’Italia finisce davvero dietro la lavagna. Siamo i peggiori di tutti: oltre 1300 giorni ad aspettare. Quasi quattro anni. Tanto per capire: il Paese al penultimo posto è Malta ed impiega la metà del tempo. Anche per le cause amministrative: quasi 900 giorni solo per il primo appello. Va un po’ meglio per quanto riguarda gli arretrati. Ogni anno il sistema riesce a smaltirne una piccola percentuale anche se da questo punto di vista il 2012 - l’anno di pubblicazione del primo “Scoreboard” sulla giustizia europea - era stato più efficace del 2019. I tribunali amministrativi, però, hanno una performance migliore: quasi il 25 per cento degli arretrati è stato licenziato. Di nuovo fanalino di coda per le cause civili e commerciali pendenti. Quasi 4 ogni cento abitanti. Una montagna alta tre milioni. Ultimi in graduatoria anche in un settore processuale specifico, quello relativo alla violazione della proprietà intellettuale: almeno 800 giorni solo per affrontare il primo grado di giudizio. Oltre 400, invece, per le cause a tutela dei consumatori. Dato tra i più sensibili nell’Unione. Un capitolo a parte riguarda le procedure che disciplinano uno specifico reato penale: il riciclaggio di denaro. Fenomeno che incide in maniera particolare sul corretto ed equo funzionamento dell’economia. L’Italia, in questo caso, non raggiunge i record delle cause civili, si piazza verso la metà classifica: ma servono comunque con 600 giorni di udienze per concludere il primo grado. Sostanzialmente nella media europea la spesa pubblica per la giustizia. Poco più dello 0,3 per cento del Pil. Eppure non è nella media il numero di magistrati. Una dozzina ogni 100 mila abitanti. Un paragone: la Germania ne ha il doppio. E al contrario sono tantissimi gli avvocati: quasi 400 sempre ogni 100 mila abitanti. Non benissimo neppure nella parità di genere nei ruoli apicali: solo il 37 per cento dei componenti le Supreme corti è donna. Ultimo aspetto: il nostro Paese segnala un ritardo anche nell’uso della tecnologia digitale nei processi. Quasi nella media nelle cause civili e commerciali, al di sotto per i processi penali. Quasi inesistenti nei Tar. Soprattutto negli ultimi due anni, in questo caso la ricerca contempla anche il 2020 e il 2021, emerge poi un sensibile problema reputazionale per i magistrati. Solo un terzo degli italiani li considera indipendenti. Il 40 per cento di cittadini ritiene che siano sottoposti alle pressioni e alle interferenze dei politici o dei gruppi economici. Giudizio severo anche delle aziende. Meno del 30 per cento considera le toghe del tutto indipendenti. Un quadro, insomma, che indurrà i vertici di Bruxelles a seguire con ancora più attenzione gli impegni del governo sulle riforme della Giustizia e l’applicazione del Recovery Fund. Giustizia, come sarà la magistratura italiana dopo la riforma di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2021 La commissione Luciani ha un arduo compito: restituire prestigio ai magistrati, dopo tanti scandali. La crisi della giustizia in Italia è insieme crisi di efficienza, di garanzie effettive dei diritti e di credibilità di chi la amministra. Così, la ministra Marta Cartabia ha affidato a due commissioni di studio, presiedute da Giorgio Lattanzi e Francesco Paolo Luiso, il difficile compito di elaborare proposte di riforma in materia di processo penale e civile, per superarne mali endemici e con ciò garantirne la ragionevole durata e una maggiore efficacia. La riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm - A una terza commissione, presieduta da Massimo Luciani, è stata attribuita una missione altrettanto ardua: individuare misure di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della Magistratura che favoriscano il recupero del prestigio della magistratura, indebolito da troppi scandali. La riforma della magistratura è, invero, un grande classico della politica e del dibattito pubblico in Italia. Sinora, ogni serio tentativo in questo senso si è arenato nella contrapposizione tra chi vedeva in ogni proposta innovatrice un attentato all’autonomia dell’ordine giudiziario e chi voleva una capitolazione, una normalizzazione di una magistratura che in tanti casi si è mostrata capace di accertare fatti e responsabilità anche quando le condotte erano attribuibili a uomini del potere, politico ed economico. Con questi precedenti, ogni pronostico sull’esito dell’iter legislativo è quanto mai difficile. E certo non aiuta la scelta, anche da parte di un partito di maggioranza, di affidare al corpo elettorale tramite referendum la decisione su alcuni aspetti centrali della riforma, quali la normativa per l’elezione del Csm, la valutazione della professionalità dei magistrati nei Consigli giudiziari o il passaggio tra le funzioni giudicanti e quelle requirenti. Il lavoro sui particolari - Tuttavia, qualche possibilità di successo potrebbe discendere dall’evidente urgenza di intervenire, almeno in alcuni ambiti che di recente non hanno certo ben funzionato. Inoltre, appare saggia l’opzione a favore non di una riforma palingenetica ma di un metodo chirurgico, che cesella sui particolari per migliorare lo stato di salute del paziente. Infine, potrebbe aiutare l’equilibrio delle soluzioni proposte, ben lontane da quello spirito di revanche, di umiliazione di un avversario finalmente indebolito, che si scorge in commenti politici ed editoriali e, sia concesso, anche in qualche dichiarazione degli organi di vertice dell’avvocatura. Nel merito, il primo dato che emerge è la chiara scelta della commissione Luciani di mantenere la coerenza con l’impianto costituzionale, che disegna un ordine giudiziario unico, indipendente e autonomo, ma non separato e totalmente auto-referenziale, imparziale e al contempo protetto nei confronti di ogni interferenza governativa. Così, si respinge in modo netto la suggestione di ricorrere al sorteggio per la nomina dei componenti “togati” del Csm in evidente contrasto non solo con la lettera della Costituzione, che li vuole eletti, ma anche con il principio dell’autogoverno della magistratura. Il secondo aspetto da sottolineare discende dal mandato affidato alla commissione. L’incarico era quello di proporre modifiche al disegno di legge “Bonafede” sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, già all’esame della Camera, non di riscrivere un testo da capo. Di qui la scelta di intervenire con la legislazione ordinaria, senza proporre modifiche costituzionali se non marginali e di non occuparsi di temi pure urgenti, quali la riforma delle magistrature speciali. In questo quadro, chi giudica questo testo inutile, gattopardesco se non addirittura “reazionario” appare quanto meno ingeneroso. Ci sono proposte innovative su temi che magari non appassionano le tifoserie ma che sono centrali nelle dinamiche del potere giudiziario, dal rafforzamento delle valutazioni di professionalità alla responsabilizzazione dei dirigenti degli uffici nel controllo dell’attività giudiziaria, dagli obblighi di trasparenza ai criteri per gli incarichi direttivi. Si pone qualche freno a quel carrierismo piuttosto diffuso che spinge a mettersi sempre alla ricerca di un nuovo e più prestigioso incarico e si limitano i magistrati “fuori ruolo”, impegnati ad esempio nei ministeri. Si suggerisce - ma qui ci vuole la riforma costituzionale - che il vicepresidente del Csm sia nominato dal Presidente della Repubblica e non più dal Consiglio stesso. E poi vi sono i temi al centro del dibattito, come l’elezione del Csm e l’accesso dei magistrati alle cariche politiche. Un sistema elettorale per il Csm - Quanto al primo, scartato il sorteggio e abbandonata, forse a malincuore, l’idea di rinnovare ogni due anni una parte del Consiglio, il centro della proposta della commissione è l’adozione di un sistema elettorale, il voto singolo trasferibile, che assegna la possibilità di indicare più candidati in ordine di preferenza. Ciò dovrebbe valorizzare il potere di scelta dell’elettore e soprattutto evitare che si ripetano quegli episodi, assai frequenti in anni recenti, ove il numero dei candidati era uguale a quello degli eletti e le correnti decidevano a tavolino chi dovesse andare a palazzo dei Marescialli. Magistrati in politica - Quanto ai magistrati in politica, le proposte sono solo a prima vista timide. Il testo non blinda del tutto le porte tra magistratura e cariche elettive ma pone regole così disincentivanti da far ritenere che il numero, già oggi assai esiguo, di magistrati in politica finirebbe quasi con l’azzerarsi. Quale magistrato, ad esempio, si candiderà mai a un consiglio comunale, quando gli si richiede di rinunciare allo stipendio per tutto il mandato e a incarichi direttivi al rientro in servizio? Certo, si tratta di suggerimenti tutti opinabili. Ad esempio, affidare al Capo dello Stato la nomina del vicepresidente del Csm rischia di attribuire al Presidente una sorta di responsabilità politica per l’operato di questi. Sul sistema elettorale, l’ipotesi del collegio uninominale avrebbe forse valorizzato maggiormente il candidato autorevole e apprezzato nel territorio, al di là delle appartenenze. Infine, il sacrificio al diritto costituzionale dei magistrati di candidarsi e di conservare il posto di lavoro potrebbe sembrare eccessivo, anche alla luce del piccolo numero di magistrati che, con una espressione tanto brutta quanto abusata, scendono in campo. Tuttavia, per una volta, nel leggere la proposta si comprende subito che sia stata formulata da chi conosce il terreno di gioco, per proseguire nella frusta metafora e possiamo quindi per una volta smentire il buon vecchio Vasco Rossi quando così stigmatizzava un indubbio difetto nazionale: “Dell’Italia non sopporto la mancanza di professionalità, il mito dell’improvvisazione e la generale poca serietà nel fare le cose”. G8 Genova, 20 anni dopo. Le torture degli agenti meno gravi delle vetrine distrutte di Giulia Merlo Il Domani, 8 luglio 2021 Per i danneggiamenti al G8 del 2001 dieci manifestanti sono stati condannati dai 6 ai 13 anni di carcere. Pene prescritte o fino a 3 anni per gli uomini delle forze dell’ordine protagonisti dei pestaggi alla Diaz e Bolzaneto. A vent’anni di distanza dal G8 di Genova, la storia processuale racconta che i reati contro i beni materiali - negozi, vetrine e bancomat distrutti - sono stati puniti con pene dai 6 ai 13 anni, i reati contro le persone perpetrati alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto, invece, sono finiti quasi prescritti e con una pena massima di tre anni. Per la morte di Carlo Giuliani il processo si è concluso con il proscioglimento del carabiniere Mario Placanica per legittima difesa. Anche per questo ciò che è accaduto nel 2001 è stato per la giustizia italiana uno spartiacque per le modalità di indagine, l’utilizzo delle misure cautelari e la scelta dei titoli di reato applicabili. Le pene più pesanti sono state inflitte ai manifestanti in quello che è stato ribattezzato dai media come il “processo ai 25”, che poi sono diventati dieci manifestanti, a cui i giudici hanno inflitto pene complessive per quasi 100 anni di carcere. Per loro il reato principale è quello di devastazione e saccheggio, previsto dall’articolo 419 del codice penale. Il reato risale al codice Rocco del 1930 ed è inserito nei delitti contro l’ordine pubblico risalenti al regime fascista, con pena prevista dagli otto ai 15 anni di carcere. “Il reato di devastazione e saccheggio, che ha una pena minima molto alta, è tornato a Genova dopo essere caduto in desuetudine. L’ultima volta che era stato utilizzato risaliva al secondo dopoguerra, nei casi in cui briganti facevano razzie nei paesi abbandonati. Noi come difesa ne abbiamo contestato l’uso, perché ci sembrava che i fatti del G8 non integrassero quella fattispecie, che prevedeva appunto il sovvertimento di una intera area”, spiega Ezio Menzione, avvocato che era presente a Genova e ha difeso alcuni manifestanti in tutti e tre i procedimenti penali che sono seguiti ai fatti del G8. “Secondo noi quel reato non era applicabile a fatti avvenuti durante le manifestazioni, ma la nostra linea non è stata accolta dai giudici. E, come sempre accade, l’esempio di Genova è stato ripreso da altre procure”. Colpevoli e colpevoli - Le ragioni di questa scelta di titolo di reato, confermata in tre gradi di giudizio, è chiarita dalla Cassazione nella sentenza definitiva. Secondo i giudici, non poteva essere accolta la richiesta dei difensori di derubricare il reato a quello di danneggiamento perché i manifestanti avevano “la consapevolezza di partecipare a un’azione delittuosa comune e di porre in essere fatti il cui esito supera la gravità ordinaria del delitto di danneggiamenti”. Infatti secondo i giudici, “nel momento in cui si rompe una vetrina e si lancia una molotov nel negozio, si è consapevoli che tale gesto è più grave del fatto in sé, del danneggiamento provocato dall’azione. Tutto è stato concertato”. I membri delle forze dell’ordine che avevano condotto quella che da uno di loro verrà definita la “macelleria messicana” della scuola Diaz e la mattanza della caserma di Bolzaneto, invece, sono stati condannati principalmente per reati di calunnia e falso per le omissioni e i depistaggi nelle indagini. Quanto alle violenze il reato ipotizzato è stato solo quello di lesioni, che prevede una pena dai sei mesi ai tre anni e che per alcuni di loro si è prescritta. Per nessuno è stato ipotizzato il reato di tentato omicidio e fino al 2017 l’ordinamento giuridico italiano non prevedeva il reato di tortura, oggi punito fino a 12 anni. Per condannare l’Italia al risarcimento e riconoscere che nella notte del 22 giugno si è verificato quello che per l’ordinamento internazionale è configurabile come tortura è servito il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo di Arnaldo Cestaro, sessantaduenne vittima del pestaggio alla Diaz dove gli hanno rotto un braccio, una gamba e dieci costole. Chi è stato? - Il risultato dei processi paralleli a manifestanti e forze dell’ordine è emblematico. Per i manifestanti che hanno commesso atti di violenza contro le cose le pene sono state esemplari e alcuni di loro stanno ancora terminando di scontarle. Per i poliziotti che hanno commesso reati contro le persone, picchiando i manifestanti alla Diaz e torturandoli, secondo la definizione della Corte europea dei diritti dell’uomo, a Bolzaneto, le pene sono state nettamente più basse o inesistenti. “Per identificare i manifestanti, la procura di Genova aveva istituito un team e si è impegnata fino in fondo per le identificazioni, procedendo contro chi veniva individuato e scegliendo di ipotizzare non il reato di danneggiamenti, ma quello molto più grave di devastazione e saccheggio”, spiega un consulente tecnico per le difese e attivista di SupportoLegale, progetto nato nel 2004 per sostenere la difesa di tutti gli imputati dei processi ai manifestanti e per aiutare la segreteria legale del Genoa legal forum. Al contrario di quanto è successo per i poliziotti della Diaz e di Bolzaneto: agivano coi volti coperti dai caschi, il processo non è servito a chiarire chi era presente durante i pestaggi. Ancora oggi, a vent’anni di distanza, non è stato possibile identificare nemmeno tutte le firme dei dirigenti sui verbali di polizia: risultano non leggibili e nessuno all’interno delle forze dell’ordine ne ha permesso l’identificazione. Proprio questo limite è stato messo in evidenza dalle motivazioni della sentenza di primo grado contro i poliziotti: “Per difficoltà oggettive (non ultima delle quali, come ha evidenziato la pubblica accusa, la scarsa collaborazione delle forze di polizia, originata, forse, da un malinteso “spirito di corpo”) la maggior parte di coloro che si sono resi direttamente responsabili delle vessazioni risultate provate in dibattimento è rimasta ignota”. Ancora in carcere - Nel 2012 la Cassazione ha confermato le condanne a dieci manifestanti con pene dai sei anni e mezzo a Ines Morasca fino ai 13 anni e tre mesi a Vincenzo Vecchi. Ancora oggi per quattro di loro il G8 di Genova non è un passato che si può dimenticare. Francesco Puglisi, condannato a 14 anni, si trova in affidamento esterno mentre Marina Cugnaschi sta scontando la pena di 11 anni e nove mesi e ora si trova in regime di sorveglianza. I due casi noti alle cronache recenti, infine, sono quelli di Luca Finotti e Vincenzo Vecchi. Finotti, condannato a 8 anni, oggi ne ha quarantadue: fuggito in Svizzera per evitare la pena, è stato arrestato nel paese elvetico e lì ha scontato tre anni, poi è stato estradato per finire di scontare la pena in Italia. Era stato affidato a una comunità, ma il 9 giugno scorso il permesso gli è stato revocato ed è rientrato nel carcere di Cremona dove rimarrà fino a fine 2022: ha violato le regole della comunità, perché si è fatto portare da un visitatore un pacchetto di tabacco non dichiarato. È invece in corso la pratica per l’estradizione dalla Francia di Vecchi, quarantasette anni. Arrestato nel 2019 dopo otto anni di latitanza, la Cassazione francese ha negato l’estradizione e a inizio 2021 ha chiesto che il caso sia oggetto di parere della Corte di giustizia europea. Milano. Morto in carcere il boss Giovanni Tegano: era al 41bis dal 2010 tg24.sky.it, 8 luglio 2021 È morto la scorsa notte nel carcere milanese di Opera il boss della ‘ndrangheta Giovanni Tegano, 82 anni, di Reggio Calabria. Era detenuto al 41bis perché ritenuto il vertice della cosca del quartiere Archi. Era stato arrestato nel 2010 dopo quasi 17 anni di latitanza. Detto “Russedrru”, Tegano con i suoi fratelli è stato protagonista della seconda guerra di mafia che ha insanguinato la città dello Stretto dal 1985 al 1991. Assieme a Giuseppe, Pasquale, Bruno, Paolo e al defunto Domenico, il boss ha da sempre orbitato nella sfera di influenza mafiosa della cosca De Stefano, come testimoniano le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e numerose vicende giudiziarie. Sono stati anni in cui, secondo gli inquirenti, Tegano avrebbe ordinato numerosi omicidi strategici nel contesto della guerra di mafia e per i quali è stato condannato all’ergastolo nei vari stralci del processo “Olimpia”. È stato coinvolto anche in altre inchieste antimafia come “De Stefano + 34”, “D-Day” con la cosca Iamonte e “Valanidi”. Più recentemente è stato coinvolto nel processo “Meta”, ma la sua posizione è tornata indietro dalla Cassazione e la Dda lo scorso ottobre gli aveva notificato un nuovo avviso di conclusione indagini. Per gli inquirenti, “già a trent’anni Giovanni Tegano aveva raggiunto un’autorevolezza tale nella malavita organizzata da essere ammesso a un vero e proprio conclave di capimafia”. Per comprendere la figura del boss di Archi è necessario rileggere i vecchi fascicoli: Tegano era un pezzo da novanta della ‘ndrangheta reggina già nel 1969, “allorquando - scrivevano i magistrati nella richiesta di rinvio a giudizio del procedimento contro la cosca De Stefano-Tegano’ - diede inconfutabile prova della sua appartenenza alla mafia, partecipando alla famosa riunione di Montalto”, un vertice avvenuto il 23 ottobre 1969 in contrada Serro Juncari, a Montalto in provincia di Reggio Calabria. La vita di Tegano è stata sempre caratterizzata da periodi di latitanza che interrompeva solo quando era consapevole che sarebbe stato scarcerato nel giro di pochi mesi o addirittura di pochi giorni. Nel 1993 aveva fatto perdere le sue tracce ed è rimasto alla macchia fino all’aprile 2010 quando la squadra mobile lo scovò nella zona di Terreti. Da allora è stato sottoposto al carcere duro. Parma. Non è cosciente ma resta al 41bis, aiutate Vincenzino Iannazzo di Associazione Yairaiha Onlus Il Riformista, 8 luglio 2021 Vincenzino è uno dei tre “boss” al centro del finto scandalo scarcerazioni che spinse Bonafede a fare retromarcia con un decreto. In isolamento a Parma, soffre di demenza conclamata, non riconosce i familiari. Perché torturarlo? Cartabia intervenga. Egregio Direttore, le scriviamo per sottoporre alla sua cortese attenzione e dei suoi lettori un caso di cui ci stiamo occupando da diverso tempo e di cui non si intravede alcuna soluzione, ovvero quello del detenuto Iannazzo Vincenzino. Sabato scorso abbiamo inviato la sesta sollecitazione alle autorità competenti affinché venga messo nelle condizioni di poter essere curato adeguatamente. In un paese “normale” questa sarebbe la prassi, in Italia, invece, non bastano né le condizioni oggettive di un uomo che non è più in grado di badare a sé stesso, né le perizie dei medici penitenziari, né tanto meno i numerosi appelli alle istituzioni. Vincenzino lannazzo è uno dei tre “boss” al centro del famoso “scandalo scarcerazioni” che tanto clamore suscitò nell’opinione pubblica, e che spinse l’ex ministro della Giustizia a varare in tutta fretta un decreto che agevolasse il loro ritorno in carcere. Il Sig. Iannazzo soffre di una serie di patologie fra le quali spicca senza dubbio, per gravità e manifestazioni che comporta, la demenza a corpi di Lewy. Tale malattia, diagnosticata con assoluta certezza dal reparto di medicina protetta dell’Ospedale di Belcolle di Viterbo dove il Sig. Iannazzo è stato ricoverato ininterrottamente da giugno a novembre 2020, comporta per il detenuto gravi deficit di tutte le funzioni cognitive (memoria, attenzione, ragionamento, linguaggio), allucinazioni visive con conseguenti stati di agitazione e difficoltà a svolgere in maniera autonoma le attività del vivere giornaliero. Nonostante questo quadro di assoluta gravità descritto dai sanitari che lo hanno avuto in cura, il Sig. Iannazzo è attualmente detenuto presso il Sai del carcere di Parma in regime di 41 bis, con tutte le restrizioni che esso comporta. In particolare, lo stato di isolamento h24 sta contribuendo, come peraltro già segnalato dai medici, a peggiorare inesorabilmente le condizioni di salute del detenuto, che si presenta ai colloqui con i familiari disorientato, confuso, spesso non riconoscendoli e con evidenti difficoltà comunicative con loro. Basti pensare che i familiari sono costretti a portare nuovi indumenti a ogni colloquio senza mai ricevere indietro quelli sporchi. Stesso discorso per quanto riguarda i soldi che puntualmente accreditano sul conto del proprio congiunto: nessuno ne ha contezza né, tanto meno, riescono a sapere se vengono utilizzati. Lo stesso Istituto penitenziario ha segnalato l’impossibilità di fornire assistenza continuativa e cure adeguate al detenuto, che tuttavia continua ad essere ristretto in tali assurde condizioni. Ci siamo sempre chiesti, fin dall’inizio della trattazione di tale caso, e abbiamo rivolto, e rivolgiamo con maggior forza oggi, una serie di interrogativi alle istituzioni competenti: qual è il senso del regime detentivo, oltretutto particolarmente restrittivo, imposto per un soggetto che versa in tali condizioni psico-fisiche? Quale rieducazione può realizzare la pena se lo stesso detenuto non è in grado di comprenderne il senso? Qual è la pericolosità sociale di una persona ormai demente e la minaccia che corre la società italiana da un suo cittadino, ormai completamente inerme e in balia degli eventi di cui ha poca contezza, tanto da dovergli applicare il regime del 41bis? Si potrebbe obiettare, magari, che il Sig. Iannazzo non abbia collaborato con la giustizia ma, pur volendolo oggi fare, allo stato attuale ne è impossibilitato a causa della malattia, o di rivolgersi all’autorità giudiziaria, cosa che è stata fatta, ma l’udienza del tribunale di sorveglianza di Roma (competente per le istanze avverso al rinnovo di tale regime) fissata dopo oltre un anno dal decreto di rinnovo (datato giugno 2020), è stata rinviata al mese di novembre. Nel frattempo, per il Sig. Iannazzo continua a essere perpetrata una detenzione, che in tali condizioni equivale a una tortura e per la quale ci pare vi siano tutti i presupposti per essere considerata un trattamento disumano e degradante, in palese contrasto non solo con l’articolo 27 della nostra Costituzione e 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ma anche con il supremo principio, più volte richiamato in tale periodo di pandemia e tale da spingere il Governo a varare misure emergenziali per la sua tutela, del diritto alla salute, che troppo spesso viene calpestato per chi si trova all’interno delle mura carcerarie. Inoltre, stridono profondamente le urla che si sono levate durante la fase dello pseudo scandalo scarcerazioni e la tempestività con cui si è provveduto a emanare il decreto affinché il Sig. Iannazzo, e tanti altri, venissero ricondotti in carcere con il silenzio assordante delle istituzioni e il lassismo con cui gli organi competenti stanno affrontando un caso urgente come questo. Ci auguriamo che presto le autorità possano ripristinare e far rispettare la legalità costituzionale affinché quei principi, su cui si fonda la nostra Repubblica e il nostro vivere civile, siano effettivi e non lettera morta. Milano. Dopo 25 anni di lavori il bunker del carcere di Opera non è ancora finito di Manuela D’Alessandro agi.it, 8 luglio 2021 Sulla vicenda indaga la Corte dei Conti che a sei anni dall’esposto è però ancora nella fase preliminare degli accertamenti. C’è un nuovo finanziamento da un milione e mezzo di euro per l’aula bunker del carcere di Opera, l’edificio eretto a fianco del penitenziario di massima sicurezza progettato nel 1996, iniziato a costruire tre anni dopo e mai terminato. Era il secolo scorso: i vertici del Tribunale di Milano, sull’onda lunga di Tangentopoli e delle inchieste di mafia, pensavano in grande, a una struttura che potesse ospitare i maxi processi con tanto di alloggi per i magistrati nel caso di lunghe camere di consiglio. Dopo decine di appalti più volte modificati e almeno 12 milioni di euro messi a disposizione del Provveditorato regionale alle Opere Pubbliche dal Ministero della Giustizia, quel ‘sogno’ si è trasformato in uno sgraziato edificio di calcestruzzo in eterna attesa di un taglio del nastro tra i larghi campi di grano e le rogge sottili che scorrono attorno all’abitato di Opera. Le fonti giudiziarie da cui l’AGI ha appreso dell’arrivo di denaro fresco non esplicitano a cosa servano questi soldi. Intanto, interpellata sullo stato dell’inchiesta per ‘danno erariale da opera incompiuta’ aperta sei anni fa, la Corte dei Conti attraverso il suo presidente Luigi Cirillo fa sapere che “siamo in fase istruttoria”, cioè nella parte iniziale degli accertamenti. A presentare l’esposto erano state due magistrate della Procura Generale e della Corte d’Appello di Milano che, dopo un sopralluogo da cui era emerso lo stato di degrado del cantiere, avevano investito della questione anche la Procura, la quale non risulta abbia mai compiuto atti d’indagine. Nel progetto elaborato dal Provveditorato l’anno in cui Micheal Johnson batteva record di velocità all’Olimpiade di Atlanta e Antonio Di Pietro decideva di entrare in politica, era prevista una struttura con un interrato riservato alle celle per i detenuti e due piani in grado di ospitare un’aula bunker, due camere di consiglio con annesse otto stanze per i magistrati nel caso di notti a meditare sulle sentenze e un archivio. Era in anche in programma una strada lunga circa 300 metri per consentire a toghe, avvocati e pubblico di accedere al bunker da ricavare dopo l’espropriazione dei terreni. Mai avvenuta. Tra i vari intoppi nei due decenni, anche l’allagamento della struttura e una serie di perizie necessarie perché nel progetto originario non si era tenuto in debito conto della permeabilità del terreno dove scorrono le rogge. “Non abbiamo la bacchetta magica” - L’AGI ha visitato nei giorni scorsi una parte dell’interno del prefabbricato, l’altra non è stato possibile perché i responsabili del cantiere non lo hanno consentito. La situazione non sembra essere cambiata di molto rispetto a quando, nel marzo del 2015, l’allora Provveditore Pietro Baratono aveva garantito che entro il luglio di quell’anno i lavori sarebbero stati conclusi spiegando di essere arrivato nel 2012 e di essersi reso conto che “l’appalto è nato male, senza una visione unitaria” e che a creare difficoltà “sono state anche le diverse esigenze dell’usuario nel corso del tempo”. Oggi come allora sono rimaste le gabbie metalliche da riservare ai detenuti durante le udienze che, nel frattempo, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ritenuto lesive della dignità dei reclusi condannando il nostro Paese. Nel cantiere era presente tra gli altri un funzionario del Provveditorato. Alla domanda su quando sia previsto il termine dei lavori, ha risposto: “Non lo so, non abbiamo la bacchetta magica. Chi è il responsabile dei lavori? Non lo so”. I maxi processi sono diventati una rarità, qualcuno nei corridoi della giustizia milanese sostiene che sarebbe meglio abbattere il frutto dell’infinito cantiere perché non è più utile e i costi di mantenimento sarebbero esorbitanti considerando che i soldi per la giustizia, oggi, sono assai meno che nel secolo scorso. Spoleto. “Fatto in casa ma non alla buona”, il concerto dei musicisti detenuti di Aurora Provantini Il Messaggero, 8 luglio 2021 “Fatto in casa ma non alla buona”. Con queste semplici parole Chiara Pellegrini, direttore reggente della Casa di reclusione di Spoleto, ha presentato il concerto che si è tenuto questa mattina, 7 luglio, presso il campo sportivo dell’Istituto, organizzato nell’ambito della Festa della musica, promossa dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo. L’occasione per ripartire, per tornare alla normalità, seppure con il terrore di un’impennata dell’andamento dei contagi. “Ancora siamo in emergenza epidemiologica e guardiamo con timore alla possibilità di una quarta fase, come la chiamano gli esperti. Ma grazie alla campagna vaccinale che si è svolta anche dentro il carcere è possibile avviarci, pur timidamente, su un percorso di recupero della normalità con la ripresa dei colloqui. Chi più di una persona detenuta può comprendere il valore della normalità, di quelle cose che diamo per scontate quando le abbiamo ma che ci appaiono in tutto il loro valore quando le abbiamo perdute?” Per questo il concerto di ieri ha assunto un valore speciale. Il pubblico era “interno”: non c’erano i familiari (non potevano esserci ospiti esterni a causa dell’emergenza sanitaria ancora in corso) ma c’era la musica. Vera protagonista di un evento che ha consentito a quattro detenuti, diplomati in violino, in contrabbasso o semplicemente dotati di talento, di esibirsi regalando un assaggio di gioiosa normalità a tutti gli altri. “L’essere umano ha bisogno di piccole cose e di grandi cose: la musica è tutte e due” - ha sottolineato con estrema naturalezza Chiara Pellegrini. Con questa filosofia la Casa di reclusione di Spoleto ha aderito alla Festa della musica. “Ringrazio i musicisti e con loro ringrazio il tecnico del suono, il presentatore e il curatore della grafica. Ringrazio il Capo area educativa Pietro Carraresi, l’educatrice Sabrina Galanti, il Comandante di Reparto Marco Piersigilli, il Vice Comandante Luca Speranza, il personale del settore scuole, l’elettricista e il tanto personale che ha lavorato mettendosi a disposizione in vario modo e con generosità per rendere possibile la realizzazione e la riuscita di questo evento. Concludo dicendo che ci piace scrivere storie - dichiara la direttrice - questo concerto si iscrive dentro la storia del laboratorio musicale di questa Casa di reclusione, fortemente voluto dalla dottoressa Grazia Manganaro. È un laboratorio che ha mosso i suoi primi passi proprio alla vigilia dell’emergenza epidemiologica, la stessa che ne ha rallentato inevitabilmente la crescita, ma che al contempo all’emergenza ha saputo resistere con tenacia e che sicuramente farà ancora tanta strada”. La ripresa sulla pelle dei lavoratori di Alfonso Gianni Il Manifesto, 8 luglio 2021 Altro che boom. Le migliori previsioni si fondano sull’efficacia dell’intervento pubblico e non tanto sulla sbandierata capacità imprenditoriale privata. Le dichiarazioni fatte ieri mattina da Bruxelles dal commissario all’economia dell’Unione europea Paolo Gentiloni sono state assunte come un manifesto dell’ottimismo sulla ripresa economica del nostro paese. In realtà la sua valutazione su un “rimbalzo” del Pil del 5% a fine anno non sono diverse da quelle già fornite da Istat e Bankitalia. Si tratta di previsioni superiori a quelle della media europea, ove si prevede una crescita del 4,8% a fine anno, mentre sono uguali per il 2022 e peggiori per l’anno successivo. La stima di Bankitalia per il triennio 2021-23 è fortemente legata al successo del Pnrr, i cui effetti dovrebbero garantire almeno 2 punti percentuali, ovvero la metà della crescita prevista. Ma tutto ciò - si avverte prudentemente da palazzo Koch - se non ci saranno ritardi nell’implementazione dei progetti del Pnrr e degli investimenti pubblici. E già qui l’ottimismo corre su un terreno assai più sdrucciolevole viste le nostre debolezze strutturali. Nello stesso tempo è bene sottolineare come le migliori previsioni si fondano sull’efficacia dell’intervento pubblico e non tanto sulla sbandierata capacità imprenditoriale privata, contraddetta dal calo degli investimenti in particolare tra il 2008 e il 2019. Ma sempre nella giornata di ieri l’Ocse rendeva nota una fotografia sull’occupazione nel nostro paese dai colori assai più bigi. Se il tasso di disoccupazione è aumentato dal 9,5% della fine del 2019 al 10,5% nel maggio del 2021, quello giovanile è balzato dal 28,7% al 33,8% rilevato nel gennaio di quest’anno ed è rimasto su questi valori fino alla primavera. Mentre a livello Ocse il tasso di disoccupazione giovanile si è attestato nell’aprile 2021 al 15%. Il differenziale è enorme. Contemporaneamente è cresciuto nel nostro paese il telelavoro, dal 5% al 40% degli occupati. L’Ocse afferma che ciò ha permesso in parte di contrastare gli effetti negativi della pandemia, ma “ha anche generato tensioni sul fronte dell’equilibrio fra vita privata e lavorativa” ed ha aumentato “disparità tra i lavoratori” a detrimento delle qualifiche più basse. E se le cose non sono andate peggio, aggiunge l’Ocse, è dovuto all’intervento della Cassa integrazione, che in futuro andrà usata in modo ancora più estensivo, specialmente “con la progressiva riduzione del blocco dei licenziamenti a partire dal mese di luglio 2021”. In ogni caso i livelli occupazionali pre-pandemia non saranno raggiunti neppure alla fine del 2022. Se mettiamo a confronto l’ottimismo sulla ripresa e il realismo sui livelli occupazionali emerge un quadro temuto, anche se prevedibile date le premesse, quello di una ripresa (o rimbalzo) jobless, nel quale la riduzione consistente dell’occupazione viene data per scontata. A questa si aggiunge un quadro retributivo miserabile. Se ci confrontiamo con altri paesi europei - ce lo dice lo stesso studio Ambrosetti, quelli di Cernobbio per intenderci - i salari medi in Germania sono cresciuti del 18,4% tra il 2000 e il 2019, in Francia del 21,4%, in Italia non si sono quasi mossi (+3,1%). Non stupisce la crescita delle famiglie in povertà assoluta anche di chi lavora. Del resto, rispondendo a una domanda di un giornalista, ieri Gentiloni ha affermato di non avere ancora quantificato nelle previsioni economiche gli effetti dell’avviso sui licenziamenti, che comunque considera non come la continuazione di un blocco ma come “parte delle politiche che incoraggiamo a livello europeo di un ritiro selettivo graduale delle misure di sostegno”. Più o meno il contrario di quanto sempre ieri ha raccomandato Mathias Cormann, segretario generale Ocse, per il quale “un ritiro prematuro degli aiuti metterebbe in pericolo la ripresa economica”. Da questo quadro emerge che le classi dirigenti europee - fra cui la nostra a pieno titolo, vista anche la presenza di Draghi sulla plancia di comando - si apprestano a sfruttare la crisi e l’utilizzo delle innovazioni tecnologiche promosse attraverso il flusso dei finanziamenti europei per una ristrutturazione organica del sistema produttivo a scapito della componente lavoro. Più che difficile appare quindi impossibile rilanciare i fasti della concertazione, che lo stesso Pierre Carniti, che ne era stato propugnatore, sottopose poi a dura critica visti gli effetti. Ma il nuovo segretario della Cisl, Luigi Sbarra, in un’intervista al Sole 24 Ore si spinge ben oltre, sostenendo che “capitale e lavoro devono marciare insieme”; l’avviso sui licenziamenti sarebbe la premessa di un fronte comune con Confindustria; vanno rimosse le rigidità della legge sulle causali per le proroghe dei contratti a termine e in somministrazione perché la contrattazione, particolarmente se decentrata, garantirebbe meglio le richieste di flessibilità delle aziende, essendo più adattiva “rispetto a qualunque norma di legge”. Va da sé: con finanziamenti pubblici. Come risolvere il (falso) dilemma della sinistra tra diritti civili e diritti sociali di Gianfranco Pasquino Il Domani, 8 luglio 2021 In occasione di battaglie civili e culturali combattute dai progressisti, da coloro che si situano a sinistra nello schieramento politico-partitico, riemerge periodicamente un interrogativo molto complesso. ? opportuno e giusto che quei partiti, i loro dirigenti e militanti impegnino tempo e energie che forse potrebbero/dovrebbero piuttosto dedicare alla protezione e promozione dei diritti sociali? La lotta contro la perdita di posti di lavoro non dovrebbe essere considerata più importante, se non addirittura prioritaria, rispetto a qualsiasi alternativa che riguardi i diritti di alcune minoranze, omosessuali, transgender, lgbt? Cercare di costruire un sistema scolastico qualitativamente migliore che contribuisca all’effettivo funzionamento dell’ascensore sociale consentendo a tutti, ma soprattutto, ai figli dei settori disagiati della società di migliorare le loro condizioni, non dovrebbe avere la precedenza sull’impegno a mettere al bando l’odio e le campagne condotte in suo nome? Fare funzionare al meglio e espandere il sistema sanitario non dovrebbe essere preferibile rispetto alla formulazione di leggi, come lo ius soli e/o lo ius culturae, che facilitino l’integrazione dei migranti e dei loro figli e figlie nella società italiana? Sinistra e progressisti non sanno più interpretare e rappresentare le esigenze reali, più profonde dei loro concittadini e si intestardiscono su battaglie (quasi esclusivamente) simboliche a scapito di quello che è fondamentale: le opportunità e le condizioni di vita e di lavoro? Soltanto a coloro che, in un certo senso, sono privilegiati, benestanti, istruiti, che hanno un lavoro appagante e ben pagato, la gauche caviar direbbero i francesi, è possibile impegnare il loro tempo e le loro energie per conseguire obiettivi che riguardano minoranze a scapito del miglioramento economico complessivo della società. Insomma, secondo questa concezione, sinistra e progressisti dovrebbero ripensare le loro priorità ponendo e mantenendo decisamente al primo posto tutta la batteria dei diritti sociali: lavoro, istruzione, salute e perseguire gli altri diritti, che sintetizzerò come civili e culturali, sapendo subordinarli ogniqualvolta entrino in contrasto con i primi. Mi pare che questo ragionamento abbia due punti deboli. Il primo è che mette in conflitto diritti sociali e diritti civili accettando una visione di destra che da sempre pone l’accento sulla soddisfazione dei bisogni elementari della cittadinanza e quasi nulla più. Il secondo punto debole è che ritiene scontato che i due insiemi di diritti non possano essere perseguiti e tanto meno conseguiti contemporaneamente, che, insomma, debba esserci un trade-off. Chi vuole più diritti civili e culturali deve pagarseli con una protezione inferiore dei diritti sociali, con la quasi impossibilità di una loro promozione. Questo troppo diffuso ragionamento si fonda sulla convinzione che gli uomini e le donne separino nettamente nella loro percezione e nella loro valutazione i diritti sociali e economici da quelli civili e culturali. Non vorrei mai che a un omosessuale disoccupato si ponesse l’alternativa tra esporsi all’odio dei colleghi pur di mantenere il lavoro oppure essere costretto a starsene a casa. Infine, credo sbagliato pensare che sinistra e partiti progressisti siano obbligati a scegliere drasticamente fra diritti civili e diritti sociali. Quello che importa è la loro capacità di spiegare come non esista nessuna contraddizione verticale e incomponibile e che entrambi gli insiemi di diritti sono essenziali per coloro che vogliono costruire una società migliore, più vivibile, giusta. Ddl Zan, conta sul filo. Decisivi la tenuta di Iv e il soccorso forzista di Giovanna Vitale La Repubblica, 8 luglio 2021 Il voto al Senato del 13 luglio, franchi tiratori in entrambi gli schieramenti. Il Pd potrebbe perdere 3 o 4 senatori. Renzi: dimostrerò che voto a favore. Restano possibilisti i gruppi parlamentari che spingono per correggere la legge Zan: un compromesso si può ancora raggiungere prima del suo approdo in aula, martedì prossimo. Al contrario di M5s e Pd, granitici nel difendere il testo approvato in prima lettura alla Camera. E perciò decisi ad andare alla conta. Sulla quale, in realtà, tutti i partiti si stanno già esercitando: per misurare le rispettive forze in campo, convincere gli incerti, individuare eventuali franchi tiratori. D’accordo, favorevoli e contrari, su una cosa soltanto: “Con lo scrutinio segreto sarà un terno al lotto”. Nessuno sa però di preciso quando inizierà. Per prima cosa la presidente Casellati dovrà aprire i termini per depositare gli emendamenti, che a giudicare dalle premesse saranno migliaia, in gran parte targati centrodestra. Ma ci saranno pure quelli di Italia viva, illustrati l’altro ieri al tavolo della mediazione fallita. “Noi formalizzeremo le nostre tre proposte di modifica per arrivare a un testo che ricalca il ddl Scalfarotto presentato nel 2018 a Montecitorio”, annuncia Davide Faraone, “per noi l’unico in grado di passare con una maggioranza ampia. E non chiederemo il voto segreto”. Ben sapendo che c’è già chi è pronto a farlo. La Lega, innanzitutto, ma non solo. Per ottenerlo bastano 20 senatori. E lì comincerà la roulette russa. “Tanto lo sanno tutti che il grosso del dissenso si annida nel Pd e fra i 5S, sono loro che al riparo dell’urna affosseranno la legge”, prevede il capogruppo renziano. Sulla carta, l’ex coalizione giallorossa parte in vantaggio sul centrodestra unito. Pure il gruppo dell’Autonomia, che conta 6 eletti (più due senatori a vita) e pareva in dubbio, ora si è schierato: “Se non si arriva a un’intesa, quattro voteranno per la Zan, due si asterranno”, garantisce Julia Unteberger. La vera incognita è rappresentata dal Misto, dove siedono 46 senatori di estrazione assai diversa. Oltre ai 6 di Leu, che insieme a Bonino e Richetti seguiranno il Pd, ci sono i 7 ex forzisti di Cambiamo (tra cui però Maria Rosaria Rossi, che potrebbe dissentire) e i 4 ex grillini di L’Alternativa c’è orientati all’opposto. Spiega uno di loro, Mattia Crucioli: “Per noi il testo va migliorato, il “prendere o lasciare” non ci piace”. A questi vanno poi aggiunti una ventina di “cani sciolti”, da distribuire equamente tra i due fronti. C’è chi, come Lello Ciampolillo e Paola Nugnes, si sono detti pronti ad approvare il ddl nella sua formulazione originaria; e chi, invece, è già dato per perso: Giarrusso, Paragone e Causin su tutti. “Stiamo facendo i calcoli, ma credo che i favorevoli a respingere gli emendamenti saranno almeno una ventina, mentre qualcuno potrebbe astenersi”, fa di conto la capogruppo De Petris. Con il Misto che si compensa al suo interno, a fare la differenza potrebbero essere gli “obiettori” di Forza Italia, almeno tre. E i 17 di Iv. L’altro giorno Renzi ha dichiarato a Repubblica che, nel caso di mancata intesa, avrebbe votato a favore del testo licenziato a Montecitorio. Intenzione ribadita in vari conversari a palazzo Madama: “Io dirò sì e potrò anche provarlo, ma su un paio dei miei non ci metto la mano sul fuoco”. Per poi tornare ad attaccare il Pd sulla sua e-news: “Una legge contro l’omotransfobia è necessaria”, esordisce il leader di Rignano. “Per farla si possono scegliere due strade: andare al muro contro muro, ma facendo così rischia di saltare; trovare un compromesso e utilizzare i diritti come occasione di incontro, anziché come bandierine ideologiche per singoli partiti in crisi d’identità”. E siccome “la Lega ha fatto una proposta che la fa uscire dall’ostruzionismo” è questo “il punto di partenza” su cui lavorare per “un accordo”. L’ennesima provocazione, per il Nazareno. Identica ai veleni sparsi sulle possibili defezioni nel gruppo dem. Che si prevede ci saranno, ma non più di 3 o 4: Taricco, Collina, Margiotta, forse la Messina e Marcucci. Avendo tutti gli altri malpancisti (Fedeli, Valente, Ferrazzi, D’Arienzo, Comincini) confermato la loro lealtà. E mentre Salvini si spinge a scomodare il Papa - “Letta ascolti il Santo Padre, se non vuole ascoltare noi” - ci pensa il ministro Orlando a replicare a brutto muso ai due Matteo: “La fase dei giochetti è finita. Se si vogliono dare tutele più forti contro l’omofobia c’è bisogno di norme come ce ne sono in tutta Europa. Se qualcuno non le vuole, lo dica con chiarezza”. Annibali: “Alla fine noi renziani voteremo la legge Zan. Anche senza modifiche” di Andrea Carugati Il Manifesto, 8 luglio 2021 La deputata di Italia Viva: “Il testo uscito dalla Camera è migliorabile, ma se la mediazione salta lo sosterremo”. Lucia Annibali, avvocata, eletta col Pd nel 2018, poi passata in Italia Viva, è stata una delle protagoniste della scrittura della legge Zan alla Camera. Ora quel testo non va più bene a Renzi. Perché? Abbiamo fatto un lavoro molto complesso e difficile. Le ormai famose definizioni dell’articolo 1 sono emerse durante il lavoro parlamentare, è stata una richiesta delle commissioni. Quell’articolo rappresenta il punto di caduta che abbiamo trovato. Lei è la prima firmataria dell’emendamento che contiene le definizioni, compresa l’”identità di genere”. Cosa c’è che non funziona? Trattandosi di una legge penale, abbiamo fatto uno sforzo per declinare queste definizioni. Ma ora quel lavoro si può approfondire, migliorare, per rendere più efficace l’applicazione della legge. Io ero consapevole che si potesse lavorare ancora su quel testo, sul tema delle scuole, sulla libertà di espressione. A Montecitorio abbiamo raggiunto un compromesso alto, ma non il migliore possibile. Si sente sconfessata dal suo segretario? Ma no. Al Senato i numeri sono diversi, se si ritiene di cercare un consenso più ampio per salvare la legge non ci vedo nulla di male. Il Pd ritiene che togliendo l’identità di genere si lascino scoperte le persone transessuali... Nella proposta di mediazione di Scalfarotto questo rischio non c’è. La legge non verrebbe amputata, e del resto il testo Scalfarotto era stato firmato anche da Zan. Non sono affatto convinta che l’atteggiamento intransigente del Pd e del M5S sia più utile per portare a casa la legge. Serve il dialogo. Secondo lei Salvini vuole una legge del genere? Lavorare anche con loro può servire anche a stanare delle posizioni ideologiche. Io credo sia comunque utile, in particolare su temi divisivi come questi. Ora la maggioranza è cambiata, anche la Lega ne fa parte. Nel voto sul calendario del Senato si è visto che la maggioranza c’è, se Italia Viva non si smarca... Un conto è il calendario, altro sono i voti segreti. Italia Viva è disposta a votare il testo Zan se fallisse la mediazione? Ma certo che lo voteremo, abbiamo sempre detto in modo chiaro che non faremo mancare i nostri voti. Veramente in questi giorni si parla solo del cambio di linea di Renzi... Tentare una mediazione per assicurare alla legge un percorso più sereno non significa essere contrari. Davvero pensa che i senatori di Iv voterebbero la legge senza modifiche? So che è così. Anche nei voti segreti? Non ho alcun dubbio. È possibile però che votiate emendamenti condivisi con la Lega per eliminare l’identità di genere? Si possono votare emendamenti, anche di altri partiti, solo se non snaturano il senso complessivo della legge e se sono condivisi nel merito. Non potevate semplicemente votare il testo della Camera con Pd e M5S senza fare questa confusione? Non abbiamo condiviso il loro irrigidimento. Abbiamo fatto una scelta coraggiosa, quella di esporci per trovare soluzioni alternative al muro contro muro. E del resto anche alla Camera abbiamo dialogato col centrodestra. Non era disdicevole allora, e non lo è neppure oggi che è cambiata la maggioranza. Nel centrosinistra tutti o quasi ritengono che quel lavoro fosse più che sufficiente... Insisto, quel testo era il punto di caduta alla Camera e in quella fase politica. Se ci fossero modifiche in Senato, poi la Camera riuscirebbe ad approvare la legge? Sono convinta che ci si possa accordare su una terza lettura con tempi blindati. Migranti. Ultima chiamata al Parlamento per fermare gli aiuti ai criminali libici di Maso Notarianni Il Domani, 8 luglio 2021 Le cifre ufficiali delle Nazioni Unite ci dicono di 886 morti nel Mediterraneo centrale in questa prima metà di 2021. Nel mondo, i “morti per migrazione” sono 1.750. Anche quest’anno il Mediterraneo centrale si conferma la frontiera di gran lunga più letale. Ma le immagini dei cadaveri che ci giungono dalle spiagge libiche e i racconti dei pochi operatori umanitari che ancora riescono a solcare il mare a bordo delle navi della società civile ci dicono che quella cifra è estremamente sottostimata. Le istituzioni sottostimano, anche per loro stessa ammissione, i numeri dei morti in mare, ma il vero dramma è che di quello che sta accadendo ai i nostri confini pare non interessi più a nessuno. E quindi non interessa alla politica. È evidente che il principale partito del centrosinistra, il Pd, abbia barattato in nome della governabilità non solo ogni tipo di presa di posizione, ma anche ogni briciolo di umanità. Sarebbe indegno di un qualsiasi Paese civile spendere quattrini pubblici per finanziare dei killer prezzolati, eppure è quello che il Parlamento italiano si appresta a fare rifinanziando per l’ennesima volta il sostegno alla cosiddetta guardia costiera libica, proprio mentre viene pubblicato l’ennesimo filmato in cui è del tutto evidente che il ruolo assunto dai libici non è quello di salvare vite umane ma di seminare il terrore tra chi cerca di scappare dall’inferno. E spesso seminare il terrore a bordo di una carretta del mare o di un gommone stracarico di persone significa provocare un naufragio. Persone: stiamo parlando di uomini, di donne, di bambini con una vita, una storia - spesso terribile - delle speranze per il futuro, dei sogni. Persone che hanno tutto il diritto di cercare asilo, di chiedere rifugio, o di cercare una vita migliore o semplicemente possibile, come dicono le convenzioni internazionali e la nostra Costituzione che ci hanno strappato dalla barbarie nazifascista. Eppure a questa barbarie ci si sta avvicinando sempre più velocemente, nell’indifferenza generale. In queste ultime settimane non sono mancate notizie di naufragi, di nefandezze compiute dai carcerieri o dalla “guardia costiera” libica. Son arrivate delle fotografie terribili di bambini, donne e uomini trovati cadaveri sulle spiagge bagnate dal nostro stesso mare e drammatici filmati di salvataggi compiuti dalla nostra guardia costiera o dalla Ocean Viking, in questi giorni unica nave della società civile in grado di navigare, essendo tutte le altre bloccate dalla furbizia del ministero dell’Interno. Sappiamo bene che spesso le leggi e i regolamenti in Italia sono di libera interpretazione e perfino di libera applicazione. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, da buon prefetto, non urla ma si limita ad applicare quelle leggi e quei regolamenti - spesso assurdi e quasi mai imposti alle navi commerciali - per ottenere il risultato politico che le è stato affidato: quello di limitare gli sbarchi, a costo di renderci tutti, governanti e governati, corresponsabili di stragi, barbarie, torture, stupri. Quando i nostri nipoti ci chiederanno: “se avessi fatto anche tu il tuo dovere, se avessi cercato di far valere la tua volontà, sarebbe successo ciò che è successo?”, in pochissimi sapremo rispondere. Migranti. C’è chi dice no: le ragioni dei contrari al sostegno alle milizie libiche di Giansandro Merli Il Manifesto, 8 luglio 2021 In parlamento conferenza stampa del tavolo asilo. Il decreto missioni va alla Camera il 15 luglio. Non ancora calendarizzato al Senato. Nella sala Caduti di Nassirya del Senato sono risuonate ieri le voci di chi si oppone al rifinanziamento della Guardia costiera libica. Da un lato gli organizzatori, le 32 associazioni che compongono il tavolo asilo e immigrazione: un pezzo consistente del terzo settore che riunisce le principali realtà nazionali (come Arci, Asgi, Acli, Emergency, Sant’Egidio) e alcune tra le più grandi Ong del mondo (ad esempio Oxfam, Amnesty, Intersos, Msf, Save The Children). Dall’altro la pattuglia di onorevoli pronti a votare No alla misura. Ieri sono intervenuti: Loredana De Petris ed Erasmo Palazzotto (LeU), Emma Bonino e Riccardo Magi (+Europa), Doriana Sarli, Gregorio De Falco, Yana Chiara Ehm e Paola Nugnes (ex M5S, ora al misto), Francesco Verducci (Partito Democratico). Tra Camera e Senato alla fine dovrebbero essere una cinquantina quelli che rifiuteranno di “essere complici di un crimine”, come hanno ripetuto diversi interventi. Si tratta del 5,3% dei 945 parlamentari eletti. L’esito della vicenda sembra quindi già scritto. “Almeno dobbiamo perdere onorevolmente”, ha detto Filippo Miraglia, dirigente nazionale di Arci. Per questa situazione di debolezza Miraglia ha attaccato il Pd: “Non c’è una forza politica che faccia dei diritti umani una sua questione identitaria, mentre la destra costruisce consenso sulla loro negazione”. Il principale partito di centro-sinistra aveva votato a febbraio 2020 una mozione, all’unanimità, contro i finanziamenti alla sedicente “guardia costiera” libica. Ma Enrico Letta, che pure nel 2013 ha messo in mare l’operazione Mare Nostrum da primo ministro, non ha dimostrato particolare interesse a discostarsi dalla linea prevalente nel governo. Tutto lascia credere che darà il suo Sì insieme a Matteo Salvini e al resto della maggioranza. Secondo Paolo Pezzati, di Oxfam Italia, la vicenda del voto sul decreto missioni mostra che sono stati messi da parte i parametri che dovrebbero orientare le scelte politiche: “Si parla ormai solo di numeri senza considerare l’impatto che queste politiche producono sulla vita di migliaia di persone”. Omicidi, torture, stupri, naufragi, sevizie, detenzioni arbitrarie. Sono queste alcune delle conseguenze concrete del flusso di denaro che parte da Roma e raggiunge le milizie libiche con lo scopo di ostacolare i flussi migratori: i milioni di euro passeranno dai 10 del 2020 ai 10,5 nel 2021 (lo ha denunciato Oxfam nei giorni scorsi). Le associazioni hanno inviato una lettera al premier Draghi per chiedere di cambiare rotta. “L’Italia adotta una strategia politica per il contenimento di chi fugge dagli orrori libici. Pensate se si fosse deciso di “contenere” chi scappava dalla Germaniza nazista”, ha detto Palazzotto. Il deputato di LeU ha anche denunciato la strumentalizzazione dei corridoi umanitari: posto che bisognerebbe evacuare con urgenza tutti i centri libici, ha sostenuto, le poche centinaia di persone che al momento riescono ad arrivare legalmente sono utilizzate dalla politica per spostare l’attenzione da ciò che accade nei centri di prigionia a terra e con le intercettazioni illegali in mare. Sono state circa 60mila dal 2017, anno della firma del memorandum italo-libico. A chiamarle “respingimenti” è De Falco che punta il dito contro la nave della marina militare italiana di stanza al porto di Tripoli. “Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha detto che serve ad addestrare, riparare e sviluppare i mezzi a disposizione dei libici. Ma gli fornisce anche i sistemi di comunicazione per coordinare la cattura dei migranti. Sotto il profilo giuridico l’Italia è autrice di questi delitti, non complice. Stiamo facendo noi i respingimenti”, ha detto. Il voto sul decreto missioni è già calendarizzato alla camera, ma non ancora al senato. Andrà in aula il 15 luglio. Egitto. Sì della Camera a Zaki italiano di Francesca Paci La Stampa, 8 luglio 2021 Non cambierà la storia il fatto che il Parlamento italiano, nella sua interezza, abbia dato ieri via libera alla mozione per concedere la cittadinanza a Patrick George Zaki, lo studente dell’università di Bologna arrestato al Cairo il 7 febbraio 2020 con l’accusa pretestuosa di cospirare ai danni dello Stato e da allora in attesa di giudizio. Eppure pesa. Come pesa l’immagine di quei calciatori che, pur senza l’ambizione di sconfiggere il razzismo, si sono inginocchiati in solidarietà con il movimento Black Lives Matter attendendo il fischio d’inizio della partita ma soprattutto le polemiche a venire. La questione è cosa succede adesso che Senato e Camera hanno esplicitamente dato mandato a Palazzo Chigi di prendere l’iniziativa e sfidare il regime egiziano sul terreno di quei diritti di cui l’Europa si sente paladina. La risposta tragicamente più onesta è: niente. A meno di un per ora inverosimile cambio di prospettiva geopolitica nei confronti dei “dittatori necessari”, non succederà niente. Da mesi è chiaro ormai che il nostro governo, consapevole del rinnovato protagonismo mediterraneo dell’Egitto, ha ridimensionato i toni che pure a un certo punto aveva alzato di fronte ai depistaggi del Cairo su Giulio Regeni. E parliamo di un italiano arrestato, torturato e ammazzato dalla paranoia degli apparati di sicurezza di cui la magistratura ha messo nero su bianco responsabilità e omissioni. Figurarsi un giovane egiziano, la generazione perduta dei 1058 Giulio Regeni che secondo Commitee for Justice sono morti nelle carceri del presidente Abdelfattah al Sisi dal golpe popolare del 2013. Si è discusso di diritti nell’incontro di alcuni giorni fa tra il ministro del Turismo Garavaglia e l’ambasciatore egiziano?, chiede retoricamente il deputato di Più Europa Riccardo Magi. Non se n’è discusso nemmeno quando, a marzo, è stata confermata la vendita di due fregate al Cairo, il nostro principale acquirente di armi, inossidabile anche nei mesi più bui del caso Regeni. D’altra parte, obiettano i pragmatici, quelli che legittimamente ritengono controproducente il muro contro muro, sospendere le forniture belliche agli Emirati Arabi ci è valso lo sfratto dalla base militare di al Minhad. Touché. C’è un punto chiave però nella giornata di ieri, quella in cui i deputati italiani hanno chiesto coralmente la cittadinanza per Patrick Geoge Zaki con la sola eccezione di Fratelli d’Italia, che pure non ha votato contro. L’iniziativa popolare lanciata da una piccola associazione di Bologna su Change.org è cresciuta fino a coinvolgere centinaia di città e raccogliere le 270 mila firme che sono state appena consegnate al presidente del Parlamento europeo David Sassoli. Fare il passo più lungo della gamba non si può, ma neppure fare finta di niente. Lo sa il governo, lo sanno i diplomatici che solo un anno fa sono andati vicini alla crisi con la Francia nientedimeno che per lo spot della Pizza Coronavirus. E comunque, se ce ne fosse stato bisogno, l’ha ricordato a più riprese la senatrice a vita Liliana Segre, una che su questa storia ha messo la faccia sin dal primo giorno scandendo le parole “ricordo cosa si prova da innocente in prigione”. Fare finta di niente oggi è più difficile. Almeno questo. Anche perché Zaki ci ascolta, scruta l’avvocato e la sorella durante le rarissime visite concesse cercando un segno, Zaki è vivo e ci guarda. C’è ancora tempo. India. Stan Swamy, il gesuita morto nelle carceri di Modi. “Difendeva gli ultimi” di Carlo Pizzati La Repubblica, 8 luglio 2021 Malato di Parkinson, 84 anni, era noto per le sue battaglie a favore degli aborigeni e dei Dalit. Accusato senza vere prove di legami con i ribelli maoisti e di aver fomentato violenze inter-casta, grazie a una norma “anti-terrorismo”. Bisogna essere affetti da una grave forma di incurabile crudeltà per lasciar morire in carcere un prete gesuita di 84 anni, malato di Parkinson, che non era più in grado di mangiare, bere o lavarsi da solo. Ci vuole un certo livello di ostinata stupidità per maltrattare un malato, il più anziano indagato per terrorismo in India, che in prigione è stato contagiato dal Covid-19 ed è deceduto dopo otto mesi di prigionia, senza alcuna vera prova di colpevolezza. Padre Stan Swamy è stato eliminato, questa è la parola giusta, grazie a una legge antiterrorismo manipolata per soffocare il dissenso al governo, norma piegata a mero strumento per imbavagliare le critiche, pugno di ferro contro le minoranze. Quando a ottobre nel 2020 un’agguerrita task force antiterrorismo dell’Agenzia investigativa nazionale irrompe nella casa comune a Ranchi, capitale dello Stato di Jharkhand nell’India dell’est, dove abitava il paladino dei diritti delle popolazioni aborigene degli Adivasi e delle caste più basse dei Dalit, non trova nulla di incriminante, ma lo arresta lo stesso, assieme ad altri 15 avvocati, scrittori, poeti e militanti. L’accusa è d’aver fomentato violenze inter-casta nel 2018, nel caso “Bhima Koregaon”, e di avere dei collegamenti con i ribelli maoisti naxaliti nella pianificazione dell’assassinio del premier Narendra Modi. Di nuovo: parliamo di un prete gesuita di 84 anni con il Parkinson, il quale per mezzo secolo ha difeso gli ultimi contro gli interessi e gli abusi delle grandi società minerarie, aiutate da funzionari corrotti. Padre Stan era difatti noto per la militanza nel fornire assistenza legale gratuita agli Adivasi nella difesa dei loro diritti costituzionali a terreni, fiumi e sorgenti. Ciò ha sempre dato molto fastidio ai poteri forti. E non si è trovato di meglio che escogitare un pretesto per togliersi dai piedi il prete, come si è fatto con decine di professori universitari, autori e poeti in galera, grazie alla Legge per la prevenzione delle attività illecite con la semplice accusa d’aver guidato manifestazioni o aver postato messaggi di critica politica sui social. In una conferenza video che padre Swamy era riuscito a trasmettere poco dopo l’arresto, il gesuita aveva chiesto clemenza: “A causa dell’età ho delle complicazioni. Ho cercato di comunicarlo alle autorità e spero che prevalga un senso di umanità”. Non è stato così. In quel video si notava già il tremolio delle mani di questo figlio di contadini del Tamil Nadu divenuto novizio già da adolescente. Non riusciva più a mangiare e a lavarsi e aveva chiesto al tribunale di poter avere una tazza con cannuccia per nutrirsi da solo. Richiesta negata. Solo dopo una mobilitazione sui social, grazie alla quale centinaia di sostenitori hanno acquistato per lui tazze e cannucce inviandole al tribunale, e postando la ricevuta: solo dopo un mese le autorità hanno ceduto. Un inutile accanimento, considerando oltretutto che una squadra americana che un hacker ha usato un software per istallare 22 files incriminanti nel computer di uno degli accusati. Proprio in questi file posticci ci sarebbero le prove usate per arrestare Swamy. “Questa non è stata una semplice morte”, ha accusato la scrittrice Meena Kandasamy, “è stato un assassinio giudiziario e sono tutti complici”. “Non è morto, è stato ucciso”, le fa eco l’autrice Sonia Faleiro. Lo storico Ramachandra Guha parla anche lui di “omicidio giudiziario”. E un giudice a riposo della Corte suprema indiana, Madan Lokur, è affranto: “Da due anni osservo la disintegrazione totale dei diritti umani in India, una tragica discesa culminata con questa morte”. Ma padre Swamy lo sapeva. Nel suo ultimo messaggio video si era dichiarato pronto al martirio: “Questo è un processo che mette in questione i poteri forti. Sono pronto a pagarne il prezzo. Qualunque sia”. Afghanistan, il futuro perduto di Giordano Stabile La Stampa, 8 luglio 2021 Dopo il ritiro delle forze statunitensi i taleban arrivano alle porte di Kabul e gli jihadisti riconquistano terreno Iran e Russia temono profughi e islamisti. I curdi si vantano di avere come unici amici le montagne, gli afghani hanno le montagne, e il tempo. Vent’anni devono sembrare un battito di ciglia nel cuore di quell’Asia che ha visto passare una dozzina di imperi. Nessuno si è fermato. Gli americani ci hanno provato, in nome della guerra al terrorismo, dopo il massacro dell’11 settembre. Ma vent’anni, in un regime democratico, senza una chiara vittoria all’orizzonte, sono troppi. Donald Trump aveva promesso con enfasi la fine della “guerra infinita”. Joe Biden, senza troppa pubblicità, ha riportato a casa i suoi soldati, giusto in tempo per festeggiare il Quattro di luglio. I pessimisti ci vedono un “ritorno alla casella di partenza”, con i taleban già alle porte di Kabul. Il ritiro dalla più grande base afghana, a Bagram, ha assunto i colori di una fuga, un “effetto Saigon” che rischia di diffondere il panico, con l’incubo di un nuovo regno del terrore in stile Mullah Omar. Le forze afghane hanno assunto il controllo della gigantesca città militare, due piste di atterraggio, negozi, ristoranti. Con un pizzico di ingratitudine gli ufficiali hanno raccontato che gli americani “hanno staccato la luce e se ne sono andati via di notte”. Una mossa per evitare che qualche “talpa taleban” avvertisse i terroristi dei movimenti delle truppe. Ne hanno approfittato i saccheggiatori locali. Si sono presi palloni da pallacanestro, anfibi, persino chitarre elettriche lasciate lì dai Marines, e le hanno subito messe in vendita in banchetti improvvisati. Lord George Curzon sosteneva che l’Afghanistan “è facile da invadere, difficile da governare, pericoloso da lasciare”. Un secolo e mezzo dopo è ancora vero. Va detto che i taleban hanno finora mantenuto la parola e non hanno attaccato le forze della Nato dopo gli accordi di Doha del febbraio 2020. Hanno però avvertito che non tollereranno la presenza di militari stranieri dopo settembre, data del ritiro definitivo, neppure a Kabul. Gli analisti locali sono convinti che aspetteranno almeno “sei-otto mesi” prima di assaltare la capitale. Ma hanno predisposto un piano articolato. Questa volta hanno concentrato le loro forze nel Nord, il loro punto debole del 2001, quando in due mesi vennero spazzati via dai mujaheddin tagiki del comandante Ahmed Shah Massoud e dalle forze speciali Usa. Con la conquista della frontiera con il Tajikistan, hanno costretto un’intera divisione dell’esercito, 16 mila uomini, a rifugiarsi nel Paese vicino. Il Tajikistan ha richiamato i riservisti e chiesto aiuto alla Russia, che ha già 6 mila soldati vicino alla capitale Dushanbé. Gli Stati Uniti invece non hanno più una sola base nell’Asia centrale e neppure in Pakistan. Questo buco logistico ha indotto alcuni Paesi occidentali, come l’Australia, a chiudere i loro consolati. La stessa Washington ha ridotto il personale “non essenziale”. All’ambasciata di Kabul restano comunque 1.400 cittadini americani, e 4 mila impiegati locali. È una città nella città, circondata da mura anti-esplosione alte quattro metri, con gli edifici e le antenne che svettano sulla Zona verde, a sua volta blindata e vietata al traffico ordinario. L’unica strada collegata al compound è quella che porta all’aeroporto. I circa mille militari e contractors Usa rimasti sono concentrati lì. Il governo di Kabul continua a ribadire che resisterà, nonostante i jihadisti si siano presi un quarto dei 387 distretti del Paese. L’ultimo a cadere, ieri, è stato quello di Qala-e-Naw, nella provincia di Badghis. Il ministro della Difesa Bismillah Mohammadi ha ribattuto che “le forze nazionali useranno tutta la loro potenza per difendere la nostra patria”. Ma per le strade il presidente Ashraf Ghani comincia a essere paragonato a Mohammed Najibullah, il fantoccio di Mosca, rimosso nel 1992, tre anni dopo il ritiro sovietico, e impiccato dai taleban nel 1996. Per questo Vladimir Putin da una parte si gode una rivincita, dall’altra teme il contagio jihadista nelle regioni russe a maggioranza musulmana. L’altra potenza con uno sguardo ambivalente è l’Iran. Spera di liberarsi della presenza statunitense. Ma teme per la minoranza sciita Hazara, già massacrata da Al Qaeda nel 2001, e che poi ha fornito manovalanza da mandare sul fronte siriano. Per evitare un’ondata di milioni di profughi, Teheran ha deciso di trattare con gli studenti barbuti. Una loro delegazione è arrivata a Teheran. Ma intanto i Pasdaran armano nuove milizie sciite nelle province di Herat e Farah. Sanno che la resa dei conti alla fine arriverà. Come diceva il mullah Omar agli “invasori” occidentali: “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”.