Carcere, la giusta indignazione senza giuste riforme non basta di Glauco Giostra* Avvenire, 7 luglio 2021 I fatti accaduti a Santa Maria Capua Vetere non sono un caso isolato, la dimensione del fenomeno è rilevante. Mi sono illuso che il trascorrere dei giorni allontanasse dalla mia retina quelle sconvolgenti immagini di violenza dietro le sbarre. Non è stato così. Mi ha confortato la sdegnata condanna di tantissimi commentatori. Di coloro che invece, ostentando rincrescimento di circostanza per l’accaduto, si premurano di sminuirne il significato ovvero di giustificarlo con gli antefatti o con la ingestibilità di talune modalità organizzative della vita intramuraria, non mette conto neppure di parlare. A loro tutela, direi. Su due cose l’onestà intellettuale e il buon senso non dovrebbero ammettere discussioni. Quello del carcere di Santa Maria Capua Vetere non è un caso isolato: è l’ultimo di episodi analoghi accidentalmente sfuggiti all’omertà e all’insabbiamento. La dimensione reale del fenomeno è ben più rilevante, come chi ha onesta conoscenza del mondo penitenziario sa bene. Del resto, deve essere questa anche l’inconfessata convinzione di quanti si sono opposti all’introduzione (e si oppongono alla permanenza) del reato di tortura; e di quanti hanno sempre ringhiosamente avversato l’adozione del numero identificativo per la riconoscibilità degli agenti della polizia penitenziaria: se davvero avessimo a che fare con isolatissime ‘mele marce’ non vi sarebbe ragione per una così strenua, preoccupata resistenza rispetto a strumenti che permetterebbero di individuare e punire soltanto i pochissimi che si lasciano andare a queste vili aggressioni di persone inermi a loro affidate. L’altra incontestabile verità è che sarebbe ingiusta ogni generalizzazione. Il Corpo della Polizia penitenziaria è prevalentemente formato da persone che assolvono il loro difficile e ingrato compito con abnegazione e senso della legalità. Anzi, costoro sono ancor più meritevoli in un contesto così difficile, in cui il rispetto della dignità dei reclusi viene da alcuni deriso come imbelle ‘buonismo’, quando non come riprovevole connivenza. Ci saremmo aspettati dai rappresentanti dei tanti onesti agenti una severa e incondizionata condanna degli ignobili fatti che hanno disonorato quella stessa divisa da questi indossata con decoro, sacrificio e senso di umanità. Ma la condanna morale, oggi, e quella giudiziaria, domani, non bastano. Quando i riflettori dei media (accesi per primo dal quotidiano Domani) si spegneranno su questa inquietante vicenda, il mondo del carcere tornerà in quella extraterritorialità civile in cui la nostra cultura l’ha relegato; un mondo lontano dallo sguardo e dall’interesse pubblico; un mondo in cui, non vogliamo sapere con quali mezzi, uomini pagati poco e considerati ancor meno debbono custodire corpi a loro affidati per tenerli lontani più possibile dalla società sana: quanto basta perché alcune menti deboli cerchino un riscatto alla propria frustrazione professionale nella prevaricazione e nel sopru- so nei confronti dei reprobi che coabitano la medesima, oscura realtà carceraria, riducendoli a ‘cose’ nelle loro mani. Se non cambiano davvero il valore e la funzione sociale del carcere, avremo altri episodi di violenza umiliatrice. Violenza che, oltretutto, non potrà non indurre in coloro che l’avranno subìta un aggressivo rancore sociale di cui la collettività pagherà le conseguenze. Sul finire della precedente legislatura, con l’inedita iniziativa degli Stati generali per l’esecuzione penale, si era imboccato un tornante culturale che aveva prodotto una miniera di riflessioni e di suggerimenti, molti dei quali recepiti in un progetto di riforma penitenziaria. La maggioranza che aveva meritoriamente promosso questo conato di profondo cambiamento non ne difese i risultati per miopi calcoli elettoralistici; quella che le subentrò si impegnò ad asportarne, per una sub-cultura punitivista, le parti qualificanti, con una perizia chirurgica degna di miglior causa. Se avesse trovato realizzazione l’idea che il carcere non possa essere mai mero stabulario dei corpi di coloro che hanno gravemente ferito la società, ma sempre luogo in cui costoro - giustamente privati della libertà per le colpe commesse - possano vedere rispettata la loro dignità e avvalersi di effettive e impegnative opportunità di riabilitazione sociale, anche la percezione collettiva - e, di conseguenza, l’auto-percezione professionale - della Polizia penitenziaria sarebbe mutata radicalmente. Sarebbe stata abbandonata l’infondata, ma diffusa convinzione che ci sono forze dell’ordine di serie A che individuano, cercano, catturano le persone che delinquono e forze dell’ordine di serie B, che hanno il ben più agevole compito di tenerle soltanto segregate in uno stato di minorità. Si sarebbe finalmente capito quale delicatissima funzione sia chiamata a svolgere la Polizia penitenziaria, i cui uomini devono assolvere compiti non meno difficili e fondamentali per la società di quelli svolti dagli appartenenti alle altre forze di sicurezza; devono affrontare sacrifici quotidiani più gravosi in un contesto doloroso e mortificante; devono essere garanti della sicurezza degli operatori e dei detenuti, usando nei confronti di questi metodi rispettosi, ma non imbelli; devono, primi osservatori di prossimità, saper capire le personalità e le potenzialità dei soggetti a loro affidati; devono svolgere una così difficile attività all’ombra di fatiscenti strutture, mai rischiarata dai riflettori e dalle gratificazioni dei media: non si tengono conferenze stampa per celebrare un anno di ordinata e costruttiva convivenza nel penitenziario o la riconsegna alla società di soggetti totalmente recuperati. Se le altre forze dell’ordine hanno l’arduo compito di assicurare delinquenti alla giustizia, loro hanno il non meno impegnativo compito, garantita la sicurezza di questi soggetti e da questi soggetti, di collaborare con gli altri operatori del trattamento per cercare di riconsegnarli migliori alla società. Devono saper essere agenti di custodia e di recupero. Non a caso dai lavori degli Stati generali era emersa la necessità di assicurare loro una specifica formazione multidisciplinare per metterli in grado di assolvere un così insostituibile compito. Ma se, passato il tempo del sacrosanto sdegno, nulla cambierà; se il carcere continuerà a essere il luogo, che non vogliamo vedere, in cui recludere - non vogliamo sapere come - le nostre paure, saremo destinati a guardarlo di nuovo quando ci esibirà, per imprudenza degli artefici o per meritorie denunce, la prossima ignominia. Non basterà più allora mostrarci indignati per sentirci a posto con la coscienza. *Giurista, Università di Roma La Sapienza e già coordinatore del Comitato tecnico degli Stati Generali sull’esecuzione penale Le possibili alternative al carcere di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 7 luglio 2021 Considerando anche l’inefficacia della persecuzione vendicativa, si dovrebbe concepire la pena detentiva come “extrema ratio” organizzando misure praticabili che rispondano al bisogno di sicurezza. Le terribili immagini del pestaggio disumano organizzato ai danni dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere portano a riflettere, sia pure nel peggiore dei modi, sulla realtà del pianeta carcere. La psicologia di chi sta fuori si esprime con ruvide formule del tipo: “Buttiamo la chiave!”. E se si accenna ai diritti dei detenuti la risposta più frequente è: “Ma cosa pretendono? Dovevano pensarci prima!”. Queste parole riflettono brutalmente la richiesta di sicurezza della collettività. Spesso strumentalizzata da chi va a caccia di facili consensi, ma guai a ridurla a mera emotività qualunquistica. Essa infatti esprime esigenze reali dell’uomo della strada, l’italiano onesto che si sente poco protetto anche in casa sua ed è privo dei mezzi economici per potersi “bunkerizzare”. E però va detto chiaramente che la filosofia del “marciscano in galera” è la peggior nemica della sicurezza che sta a cuore della collettività. Infatti, se la pena scivola nelle spirali della persecuzione vendicativa, finisce per essere inefficace. Perché inevitabilmente genera altra violenza e nuovi errori, innescando un corto circuito che crea sempre maggiore insicurezza. Proprio l’opposto di ciò che chiedono i cittadini. È evidente, infatti, che ogni detenuto recuperato è un recidivo in meno e quindi un motivo in meno di preoccupazione per la collettività. Quindi il dettato costituzionale (le pene devono tendere alla rieducazione del condannato) non è solo una norma di civiltà ma anche un principio di logica e buon senso, in linea con quel che più ci conviene. Ma come spesso accade, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, che in questo caso è la grande complessità delle problematiche del carcere: Primo. Per i problemi causati dal disagio psichico e dalle droghe, dalla disoccupazione e dalla povertà, il carcere diventa un ghetto in cui scaricare i diseredati della società, i portatori di istanze che non si vogliono o non si riescono a vedere o non si sanno risolvere, anche per indifferenza ed egoismo sociale. Secondo. I detenuti non sono tutti eguali, specie sotto il profilo della pericolosità e della disponibilità al reinserimento. Per di più negli ultimi anni sono aumentati in misura massiccia i problemi di multiculturalità, con una pluralità di valori di riferimento a volte inconciliabili; e con difficoltà crescenti per chi opera quotidianamente dentro le mura del carcere. Terzo. C’è infine la tremenda complicazione del sovraffollamento, con la conseguente drastica riduzione degli spazi fisici - aule e aree di socializzazione - necessari per le attività di trattamento rieducativo. Un problema da sempre irrisolto, nonostante vari interventi imposti dall’Europa per tamponare le emergenze, che la pandemia di Covid-19 ha ulteriormente aggravato. E tuttavia, le problematiche del carcere impongono, per quanto difficili, risposte adeguate alla necessità di preservare l’umanità del trattamento, vero e proprio baluardo di civiltà. Nell’ambito della pena, il carcere rappresenta a tutt’oggi la pietra angolare dell’intero edificio. Difficile immaginare un “sostituto” in grado di rimpiazzarlo totalmente, salvo cullarsi in utopie o indulgere a fughe in avanti. Si tratta piuttosto di concepire la pena detentiva davvero come extrema ratio. Organizzando le misure alternative al carcere secondo modalità effettivamente praticabili che rispondano al bisogno concreto di sicurezza. Con la prospettiva che alla fine maturino tempi e condizioni perché il carcere possa non rappresentare più il luogo centrale del sistema sanzionatorio. Infine, a fronte delle falle dell’universo carcerario, va riconosciuto (ho potuto misurarlo come direttore del Dap, una volta conclusa la mia esperienza di procuratore capo a Palermo dopo le stragi del 1992) che c’è stata anche una grande crescita professionale e culturale del personale addetto, compresa la polizia penitenziaria. Ed è per questo che l’intollerabile vergogna di quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere, e non solo, colpisce (anzi affonda!) pure tutti quegli operatori che tengono un comportamento rigoroso ma corretto, pagando spesso prezzi molto alti in termini di fatica e sacrificio. “Ora misure alternative”. Società civile in pressing di Antonio Averaimo Avvenire, 7 luglio 2021 Al carcere di Santa Maria Capua Vetere sono arrivati gli ispettori ministeriali. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, li ha incaricati di far luce sulle responsabilità nella catena di comando del penitenziario casertano il 6 aprile 2020, giorno della perquisizione straordinaria degenerata in violenza di massa ai danni detenuti del reparto Nilo, per cui sono indagati 120 tra agenti della polizia penitenziaria e funzionari. La direttrice del carcere, Elisabetta Palmieri, quel giorno era assente per malattia. Al suo posto c’era la reggente, Maria Parenti. Secondo la procura di Santa Maria Capua Vetere, fu il provveditore alle carceri della Campania, Antonio Fullone, a dare l’ordine agli agenti che si sarebbero poi macchiati del pestaggio testimoniato dalle immagini dell’impianto di videosorveglianza del carcere. Gli ispettori ascolteranno le testimonianze dei funzionari in servizio presso il penitenziario. Cartabia ha chiesto “una verifica a più ampio raggio, in sinergia con il capo del Dap, con il Garante nazionale dei detenuti e con tutte le articolazioni istituzionali, specie dopo quest’ultimo difficilissimo anno, vissuto negli istituti penitenziari con un altissimo livello di tensione”. Ieri intanto si è registrata la prima scarcerazione concessa dal gip Sergio Enea che ha accolto l’istanza presentata dall’avvocato Rossana Ferraro, legale dell’agente Angelo Bruno, 55 anni, per il quale lo scorso 28 giugno era stato disposto il carcere. Il giudice ha attenuato la misura cautelare e emesso un obbligo di dimora dopo l’analisi della documentazione che ne ha attestato problemi di salute, che hanno spinto l’amministrazione penitenziaria a riformare il poliziotto nel marzo scorso; per questo motivo è venuta meno l’esigenza cautelare di reiterazione del reato che aveva spinto il Gip a disporre la carcerazione preventiva per l’agente. Il Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello - dalla cui denuncia è partita l’inchiesta sulle violenze subite dai detenuti del carcere di Santa Maria -, chiede intanto “indulto e amnistia per porre un argine al caos che regna nelle carceri italiane. Il carcere italiano è ufficialmente fallito. Tra l’altro, i fatti di Santa Maria non sono isolati. Ci sono almeno altre sei inchieste portate avanti da altre procure. C’è una situazione ingovernabile che va sanata con provvedimenti straordinari. A livello strutturale, va poi ripensata la pena. Bisogna ampliare l’accesso alle misure alternative al carcere, che abbassano le percentuali di recidiva a livelli minimi e consentono tra l’altro allo Stato di risparmiare anche dei soldi”. Ciambriello ricorda “l’impegno profetico della Chiesa campana, che in tempi non sospetti ha dato vita a diverse esperienze del genere nell’ambito di una pastorale carceraria estremamente efficace. La strada da percorrere è questa, respingendo le lusinghe dei forcaioli e superando l’immobilismo della politica su questi temi”. Ieri, il sindacato di polizia penitenziaria S.PP. ha chiesto al presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, la revoca dell’incarico di Garante regionale dei detenuti allo stesso Ciambriello. Per il segretario del S.PP., Aldo Di Giacomo, “le affermazioni di Ciambriello, per il quale sui fatti di Santa Maria Capua Vetere ci sarebbero “immagini più raccapriccianti” (Di Giacomo fa riferimento a quanto dichiarato dal Garante l’altro giorno nel corso di una conferenza stampa, ndr) sono di una gravità assoluta e alimentano il clima d’odio nei confronti del personale di polizia penitenziaria e di destabilizzazione del Corpo. Ci vediamo pertanto costretti a chiedere al presidente De Luca la revoca e la sostituzione del Garante”. A testimonianza di un livello di tensione ancora alto, è apparso all’esterno del carcere femminile di Pozzuoli, nel Napoletano, l’ennesimo striscione contro la polizia penitenziaria. Le detenute definiscono il carcere “tortura” e ne chiedono l’abolizione. Si tratta del quarto caso in pochi giorni, dopo quello di Roma e i due di Cagliari. Episodi che hanno spinto il provveditore reggente alle carceri della Campania, Carmelo Cantone, a consigliare agli agenti di recarsi in servizio in abiti civili. Serve più coraggio sulle carceri di Tito Boeri e Roberto Perotti La Repubblica, 7 luglio 2021 Bisogna affrontare il problema di fondo del nostro sistema: il sovraffollamento. Per rendere le condizioni dei detenuti più umane servono più posti in prigione. Le immagini agghiaccianti che continuano ad arrivare da Santa Maria Capua Vetere hanno suscitato una sacrosanta indignazione. Colpisce il senso di impunità con cui sono stati compiuti atti efferati davanti alle telecamere. Mentre la giustizia farà il suo corso dobbiamo pensare concretamente a come rendere più umane le nostre carceri. Bisogna finalmente affrontare i problemi di fondo del nostro sistema carcerario. La bomba a orologeria costituita dal sovraffollamento cronico delle nostre carceri non poteva che deflagrare in tempi di distanziamento sociale. Eppure in questi giorni di sovraffollamento si parla molto poco. L’Italia soffre di una tripla anomalia. Manda a processo una frazione doppia dei suoi residenti rispetto alla media Ue, ma condanna la metà delle persone in rapporto ai residenti. Di conseguenza, ha uno dei più bassi rapporti fra detenuti e popolazione: 89 per 100.000 abitanti contro una media di 105 nella Ue. Nonostante questo, ha uno tra i più alti tassi di affollamento delle carceri: il 106 per cento dei posti disponibili, ben sopra il 93 per cento della media Ue. E se non fosse per gli effetti dei numerosi provvedimenti svuota carceri, il tasso di affollamento sarebbe molto maggiore: nel 2010 era tra il 130 e il 150 per cento, a seconda delle fonti, di gran lunga il più alto in tutta Europa. È quindi evidente che c’è un sottodimensionamento cronico del sistema carcerario. E non è una questione di mancanza di personale: in Italia lavorano nelle carceri 65 persone ogni 100 detenuti, contro una media Ue di 40. Ci sono due soluzioni a questo problema (oltre al lamentarsi e non fare niente): costruire più carceri, o svuotare le carceri. La prima soluzione va diretta al cuore del problema, e dovrebbe soddisfare coloro (quasi tutti in Italia ai tempi del Pnrr) che vedono nelle opere pubbliche lo strumento più efficace per creare lavoro. Eppure il Pnrr (o meglio, il decreto n. 59 sul fondo complementare, perché nella versione definitiva del Pnrr è scomparso ogni accenno alle carceri) si parla genericamente di una spesa di 133 milioni da qui al 2026. Secondo il sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, serviranno ad aumentare la capacità delle nostre carceri al massimo di 960 posti, circa l’1,5 per cento della capacità attuale. Ma parlare di costruire nuove carceri in Italia è un tabu, perché nessuno vuole passare per forcaiolo; e ai politici piace tagliare i nastri di uno stadio o di un Expo, non quelli di un nuovo carcere. Ad andarci di mezzo, intanto, sono i detenuti. La seconda soluzione è popolare lungo tutto l’arco parlamentare: c’è sempre chi propone indulti, amnistie, e depenalizzazioni. È la soluzione più facile, ma è nascondersi dietro un dito. L’indulto del 2006 ridusse la popolazione carceraria per meno di due anni, e al prezzo di un inevitabile aumento dei reati. La leggenda, propagata anche dal ministro della Giustizia di allora Mastella, che il tasso di recidiva fosse addirittura sceso dopo l’amnistia è una imperdonabile sciocchezza, se non disinformazione pura e semplice. Vero, dopo sei mesi solo il 22% degli indultati era tornato in carcere, la metà del tasso di recidività medio. Ma si stava comparando il tasso di recidività a sei mesi contro quello sull’intera vita! Infatti a due anni dall’indulto la popolazione carceraria tornò a livelli pre-indulto, e migliaia di reati furono commessi da detenuti indultati. Anche una ulteriore depenalizzazione è una foglia di fico. In alcuni casi è giustificata dall’evoluzione dei tempi, ma in passato è stata spesso attuata per due motivi diversi: eliminare il già limitato rischio di carcere per politici e colletti bianchi, e appunto svuotare le carceri. La gente non capisce, e ne ha tutte le ragioni. Si parla molto anche di un maggiore ricorso a pene alternative alla detenzione, un tema delicato che non ci compete. Facciamo tuttavia notare che l’impatto sul sovraffollamento sarebbe limitato, perché i detenuti passano comunque parte del tempo in carcere e le attività di recupero all’interno del carcere sono difficili da svolgere in condizioni di sovraffollamento. Nel carcere modello di Bollate si passa solo la notte all’interno della cella (anziché l’80% del tempo come altrove) perché Bollate non ha assorbito, al contrario di quanto previsto, i detenuti del carcere di Opera. C’è un’altra possibilità. L’Italia ha uno dei più alti rapporti tra il tasso di incarcerazione dei detenuti in attesa di giudizio (30% contro una media Ue del 23%). Ridurre i tempi della giustizia potrebbe quindi anche ridurre il sovraffollamento delle carceri. Vedremo che impatto avrà la riforma nel Pnrr sulla durata dei processi. Bene comunque non illudersi: anche se dovessimo finalmente riportare il tasso di carcerazione preventiva ai livelli della media Ue il tasso di occupazione delle carceri scenderebbe solo di pochi punti percentuali. La conclusione è inevitabile: per rendere le condizioni dei detenuti più umane, l’Italia ha bisogno di più posti in carcere. Non esistono due giustizie. Sui pestaggi nelle carceri di Alessandro Bergonzoni La Repubblica, 7 luglio 2021 Voglio chiedere scusa, come artista, cittadino e uomo a tutti i carcerati picchiati e offesi nella dignità di esseri umani. Voglio chiedere perdono per quello che è stato perpetrato in quei giorni e chissà quante altre volte in altri istituti di pena senza che nessuno venisse a saperlo; e così sarà tristemente ancora fino a quando lo Stato userà certe mani armate per gestire i luoghi di pena senza fare nulla per fermare queste spedizioni punitive accettate e spesso decise proprio da chi le dovrebbe evitare e stroncare sul nascere, per non far morire. Voglio chiedere scusa a tutti quei corpi vilipesi e umiliati da chi li dovrebbe difendere e proteggere in ogni condizione e in ogni momento, ancor più proprio perché costretti ad una vita difficile e crudele già nella loro natura di reclusi, in condizioni di disagio, di solitudine e ristrettezze d’ogni genere, dove anche per motivi di salute è giusto protestare per avere più garanzie durante una epidemia. Voglio chiedere scusa a tutti i più deboli e malati che facevano parte di quella sezione dove si è scatenato un odio ancestrale che non ha pari né senso alcuno usando illegalità per riportare la cosiddetta “legalità” dopo una “rivolta”. Ci sono due legalità? Due verità? Due giustizie? Decidetevi. Mi vergogno di fare parte di questo Stato che accetta da tantissimo tempo che esista una vita parallela dentro alle galere creata di chi decide come far vivere un detenuto a seconda del proprio arbitrio e dei propri istinti prevaricatori e violenti, pensando che quello sia un luogo fuori dalla città, da ogni comunità e civiltà, un mondo a se. Vi sbagliate. Mi costituisco arte lesa per come la sacralità di un essere sia stata calpestata e uccisa anche senza aver ammazzato nessuno(?): è stata uccisa la Costituzione, la verità, la legge, la vita di ognuno di loro ma anche di ognuno di noi. Ogni cittadino onesto e libero ha ricevuto quei colpi, ha sentito sulla propria pelle la violazione dei diritti e ne porterà i segni per sempre. Per questo chiedo giustizia con estrema e totale intransigenza riguardo alla catena di comando politica ed esecutiva. Nessun corporativismo e omertà può permettere questo scempio e a quanto pare non bastano nemmeno le telecamere per convincere certe parti politiche che il rispetto per le forze dell’ordine e le guardie carcerarie purtroppo non tiene più come prima, non regge, non poggia su basi solide ormai, come si è sempre creduto. Come hanno detto in molti non sono solo mele marce e io aggiungo che qui si tratta anche dei rami dove crescono, della terra dove cadono, di chi l’ha coltivata, di chi ha seminato e semina quell’humus che è inquinato e intriso di pregiudizio, impunità, vendetta e assolute. Urge un cambio di dimensione, un rinnovamento della formazione nell’educazione alla sorveglianza, alla custodia, alla preservazione dell’essere che è e sarà sempre il detenuto in qualsiasi condizione di pena si trovi. Per questo chiedo scusa e lo faccio per chi non sarà mai capace di farlo ne sarà mai capace di ammettere che la prevaricazione in gruppo sul più debole è ancor più vile. Finché non si parlerà di amore, di rispetto, di sacro e di inviolabile nessuna Arma si renderà conto della colpa nei confronti di chi una colpa la sta già scontando, eccome. È sì una questione di istituzioni, Costituzione, democrazia, politica e amministrazione ma finché non si comprende che c’entra l’animo “umano” di certi torturatori, che si deve andare all’origine del problema anche spirituale di quelle persone ridotte a crudeltà, poco si potrà fare solo con denunce, arresti e sospensioni dal lavoro. Va cambiata una mentalità altra che spesso è tristemente atavica ed insita in chi, ripeto, purtroppo porta una divisa, un manganello e un casco che non nasconde solo un volto ma asfissia ogni sentimento, azzera un cuore, seppellisce il bene. I fatti di Santa Maria Capua Vetere rivelano un problema di fondo sulle violenze in carcere di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2021 Davanti alle immagini vergognose e drammatiche delle violenze da parte della polizia penitenziaria nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è stato giustamente detto da più parti che, sotteso ai temi della prevenzione e della repressione degli abusi nelle carceri, vi è un problema culturale di fondo che l’Italia si porta dietro da decenni. Fino a quando le istituzioni non daranno in maniera univoca, senza divisioni interne e senza tentennamenti, un messaggio chiaro contro ogni uso illecito della forza da parte di funzionari dello Stato; fino a quando i sindacati di polizia sentiranno di avere potere contrattuale anche mettendo sul piatto quello spirito di corpo che porta all’omertà e al depistaggio; fino a quando il singolo poliziotto si sentirà coperto da un’autorità superiore nell’usare la violenza, allora non si potrà parlare di mele marce ma di un problema sistemico che potrà riservarci ancora troppi deplorevoli episodi come quelli che abbiamo oggi sotto gli occhi. Porto un esempio tratto dalla mia diretta esperienza che ben mostra questo problema culturale di fondo che ho menzionato. Nel 2010 pubblicai un mio libro, scritto insieme al presidente di Antigone Patrizio Gonnella, dal titolo eloquente Il carcere spiegato ai ragazzi. Nel 2020 ne è uscita una riedizione aggiornata con gli ultimi dieci anni di storia. Il libro si rivolgeva a ragazzi adolescenti, cercando di raccontare con un linguaggio semplice e diretto ma senza semplificazioni e scorciatoie la realtà delle carceri italiane e la distanza che a volte presentano dalle norme codificate. Lo scopo era quello di avvicinare anche le giovani generazioni a un tema difficile e spesso considerato scomodo, del quale è invece importante che l’opinione pubblica abbia consapevolezza, anche al fine di mettere in atto quel controllo sociale che concorre nel prevenire gli abusi. Anni dopo, un brano tratto da quel libro venne inserito nelle prove nazionali Invalsi previste dalla legge italiana per gli studenti. Nel brano si diceva che le carceri non sono tutte uguali, che molte cose possono cambiare da istituto a istituto. In particolare si scriveva: “Il più rilevante elemento di differenziazione tra un carcere e l’altro resta tuttavia un elemento illecito, non previsto da qualsivoglia regolamento. Si tratta dell’uso della violenza da parte dei poliziotti penitenziari, che purtroppo in alcuni istituti viene riscontrata”. Se ne accorse un sindacato autonomo di polizia penitenziaria e si arrabbiò moltissimo. Era il marzo del 2018. Antigone aveva vinto processi per violenze e maltrattamenti in carcere, aveva ottenuto sentenze da corti nazionali e sovranazionali, raccoglieva da anni segnalazioni di abusi dagli stessi diretti interessati. Quel che scrivevamo era la realtà dei fatti. Naturalmente non ci saremmo mai permessi di dire che la polizia penitenziaria in generale è violenta. Abbiamo sempre sottolineato come, a fronte di una piccola parte di poliziotti che usano male la propria divisa, ce ne sono moltissimi che sono profondamente onesti, che mostrano grande rispetto per il proprio lavoro, che non calpesterebbero mai la legge né la dignità delle persone. Abbiamo sempre spiegato come, anche e proprio per tutelare questi ultimi, sia importante isolare i primi. Il sindacato di polizia, dicevamo, si arrabbiò moltissimo. E fino a qui poteva anche essere immaginabile. Ciò che ci sorprese al tempo fu un comunicato stampa che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia emanò in data 29 marzo 2018. Il capo delle carceri italiane scriveva che il nostro libro forniva “una sintetica rappresentazione della realtà penitenziaria non basata su dati oggettivi, ma frutto di una interpretazione generica” e che le nostre affermazioni erano “profondamente offensive dell’onorabilità del Corpo di polizia penitenziaria”. Ecco: questo è il problema culturale di cui parlavo all’inizio. Un libro rivolto alle scuole, che non dice una parola che non sia vera, viene stigmatizzato dall’istituzione. Una sintetica rappresentazione? È un volume nel quale attraversiamo la storia, la normativa, la realtà delle carceri italiane in tutti i loro aspetti. Non basata su dati oggettivi? Antigone è uno dei più rilevanti centri di ricerca italiani sulla pena e siamo autorizzati dal 1998 a visitare tutte le carceri del Paese, cosa che facciamo in continuazione per scrivere i nostri rapporti annuali che sono consultati da studiosi, politici, funzionari. Profondamente offensive dell’onorabilità del Corpo? Il punto è proprio questo. Fino a quando le autorità pubbliche continueranno a credere che l’onorabilità del Corpo non si conquista con l’integrità morale ma con i silenzi, allora Santa Maria Capua Vetere resterà sempre possibile. *Coordinatrice associazione Antigone Carceri, l’esempio di Giuseppe Salvia di Isaia Sales La Repubblica, 7 luglio 2021 In questi giorni abbiamo davanti le immagini vergognose delle sevizie subite dai detenuti all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. E in Campania abbiamo conosciuto per anni anche il contrario: l’asservimento a un capo-camorra (Raffaele Cutolo) dei funzionari e delle guardie penitenziarie addette al suo controllo. Come se non fosse possibile coniugare rigore e umanità nel trattamento dei detenuti: o l’eterogenesi dei fini (i criminali che comandano nelle carceri) o la violenza e l’umiliazione nel tenere l’ordine all’interno. Un bel libro di Antonio Mattone (“La vendetta del boss. L’omicidio di Giuseppe Salvia”, Guida editori) uscito a 40 anni dall’assassinio del vice direttore del carcere di Poggioreale, ci racconta del tentativo di un funzionario dello Stato di coniugare il rispetto della legge con il rispetto dei diritti dei detenuti. Ci sono voluti cinque anni di intenso lavoro tra atti processuali, carte del ministero e testimonianze inedite per ricostruire il delitto e le circostanze in cui maturò. Antonio Mattone va ad intervistare lo stesso Cutolo nel carcere di Belluno poco tempo prima della sua morte, e il boss di Ottaviano ammette di essere stato il mandante del delitto Salvia dopo che in tutti i processi precedenti si era sempre dichiarato innocente. Quella del vice direttore di Poggioreale è una “storia semplice” nella sua tragicità: Salvia non accettava che il capo di una banda criminale dettasse le regole nel carcere dove era rinchiuso e che i funzionari addetti alla sorveglianza si adeguassero, a partire dai vari direttori che si erano succeduti negli anni e di tante guardie penitenziarie. Non accettava che un capo-camorra venisse nei fatti riconosciuto come comandante del carcere. Volle perquisire Cutolo al ritorno da un’udienza. Non era compito suo, ma le guardie si rifiutarono di farlo e lui non permise che l’avesse vinta. Cutolo gli diede due schiaffi, ma non gli bastò. A Mattone confessa che fu un “atto necessario” farlo ammazzare. Cutolo a Poggioreale aveva la sua cella singola anche nei momenti di massimo superaffollamento del carcere, ed era sempre aperta e lui in vestaglia poteva girare tra i padiglioni e ricevere visite dagli altri detenuti; nella sua cella teneva nascosta una pistola, riusciva a fare entrare numerose armi (in una perquisizione furono trovate 20 pistole, una mitraglietta, numerosi coltelli e diversi candelotti di esplosivo); altri detenuti gli facevano il caffè e gli riassettavano la stanza; diversi agenti di custodia andavano a raccomandarsi da lui per problemi personali. Insomma ciò che cantava De André nella canzone Don Rafaè era tutto vero: Cutolo veniva trattato come il signore di Poggioreale. Lo sfacelo delle carceri italiane negli anni di Cutolo non fu problema limitato nel tempo o responsabilità di una sola persona. Concorsero più fattori, più circostanze e più persone: la qualità degli agenti di custodia, l’insipienza e la vigliaccheria di molti direttori, la clientela nel reclutamento del personale, la diffusa corruzione, le degenerazioni degli uffici centrali del ministero della Giustizia e le complicità politiche con alcuni capi mafia e capi camorra. Questa parte del libro è molto esplicita ed efficace. Certo ci furono agenti di custodia che cercarono di contrastare questo andazzo: ben 8 di loro furono uccisi mentre lavoravano a Poggioreale. E la cosa più inaccettabile che hanno fatto i dirigenti del ministero è di avere autorizzato l’ingresso nel carcere di Ascoli Piceno di agenti dei servizi segreti per trattare con colui che era il mandante dell’uccisione di Salvia (cioè Cutolo) per salvare la vita a Ciro Cirillo, assessore della Campania rapito dalle Brigate rosse. Guardate le date: il 14 aprile 1981 viene ammazzato Salvia, il 18 i giudici indicano in Cutolo il mandante, il 27 viene rapito dalle Brigate rosse Ciro Cirillo e il 28 agenti dei servizi segreti vengono autorizzati dal ministero (di cui Salvia era dirigente) a trattare con il mandante del suo assassinio! Inchinarsi di fronte al mandante del delitto di un tuo collega, è quanto di peggio si è visto nell’Italia di quegli anni. Dice uno degli intervistati da Mattone: “Se all’epoca i camorristi prevalsero, fu perché i nostri furono omertosi”. Chi fossero “i nostri” e chi “i loro” in quell’epoca era davvero difficile stabilirlo. Negli ultimi anni molto si è fatto per chiudere con l’epoca di Cutolo a Poggioreale e negli altri carceri. Ma appena dopo l’intervento del presidente della repubblica Pertini, che lo fece trasferire all’Asinara, si passò dalla vigliaccheria alla disumanità, come ben documenta Mattone e come i fatti di Santa Maria Capua Vetere testimoniano ancora oggi. Si costruì addirittura una cella speciale in cui venivano compiute vere e proprie torture. Come se fosse impossibile essere rigorosi e umani. Salvia lo era, era un mite come quasi sempre lo sono i coraggiosi, era rigoroso come quasi sempre lo sono i generosi. Non somigliava allo Stato per cui lavorava. Solo l’amnistia può cancellare la vergogna di S.M. Capua Vetere di Piero Sansonetti Il Riformista, 7 luglio 2021 Samuele Ciambriello, sapete chi è? Probabilmente molti di voi non lo conoscono. In questi giorni avete letto tutto quel che si può leggere su vari personaggi. Tipo Conte, Grillo, Di Maio, Fico, persino un certo Vito Crimi. E su Bonafede. Cosa hanno fatto in questi anni tutti costoro? Niente. Sì, giusto Bonafede ha fatto qualcosa: disastri su disastri sulla giustizia, ottenendo dai suoi deputati e da quelli della Lega e da quelli del Pd provvedimenti assurdi che hanno sfregiato lo stato di diritto in modo grave. Spazza-corrotti, leggi inutili a favore della delazione, abolizione della prescrizione, moltiplicazione dei trojan, blocco della riforma carceraria. Manco i fascisti nel ‘22 erano riusciti in così poco tempo ad abbattere le principali garanzie democratiche. Avete letto pochissimo invece - dicevamo - di Samuele Ciambriello. Bene: Ciambriello è una persona che ha fatto molto. È lui che con cocciutaggine e sapienza ha denunciato dal primo momento la vergogna del carcere di Santa Maria Capua Vetere, è lui che non ha mollato la presa in questi mesi, è lui che ora torna a denunciare quel che ancora sta succedendo nel carcere casertano, e cosa succede in altre carceri, è lui che ieri ha polemizzato con Salvini e ha chiesto al Parlamento una misura semplice, liberale, ragionevole, umanitaria: amnistia e indulto. Ciambriello è il garante dei detenuti della Campania, fa un lavoro duro, oscuro e indispensabile: l’ultima barriera tra la prigione e l’inferno. L’ultimo piccolo bastione che tenta di impedire che la sopraffazione e la prepotenza annientino la vita dei detenuti. Lo abbiamo scritto tante volte nei giorni scorsi. E prima ancora. La colpa del massacro di Santa Maria Capua Vetere, certo, è di chi lo ha guidato e realizzato. Ma solo in piccola parte. La colpa fondamentale è del sistema carcerario. L’idea carcere è una stoltezza e una malvagità. Fuori dal tempo e fuori della civiltà. È un angolo di medioevo, di ferocia e di cupezza. Che non può che produrre violenza e sopraffazione perché è fondata, persino teoricamente, sulla violenza e sulla sopraffazione di stato. Giustificate, nelle nostre coscienze, dalla presunzione che la vittima di questo abominio ha violato la legge. E dunque abbia perso tutti i diritti umani. È la stessa idea, a grandi linee, che giustifica ed esalta la pena di morte. Il linciaggio. La lapidazione. Ciambriello ha chiesto amnistia e indulto. È l’unica soluzione immediata. Il modo giusto per liberare 10 o 20 mila detenuti non pericolosi e per ridare all’amministrazione penitenziaria la possibilità di governare le carceri. Sì, andrebbero abolite: intanto umanizziamole. In parlamento ci sono le forze per approvare l’amnistia? La Lega, promotrice dei referendum, è pronta a compiere questo passo? I 5 Stelle hanno quel minimo di coscienza che possa spingere a riparare almeno in parte i danni che hanno fatto in questi anni? Il Pd è capace di restare ai suoi principi liberandosi della paura della solitudine e del terrore della propria ombra? Amnistia e indulto, subito. Per tornare, almeno un po’, un paese civile. I pestaggi e l’ombra delle Procure sulle carceri di Alberto Cisterna Il Riformista, 7 luglio 2021 La vicenda dell’orribile pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ha ricevuto molti commenti e molta indignazione. Il ministro Cartabia ha parlato di un “tradimento della Costituzione”, parole che non sono solo il segno di uno sbigottimento e di un profondo rammarico perché provengono dall’ex presidente della Consulta che sa bene che la Costituzione contempla esattamente il tradimento come il più grave dei crimini che si possano imputare a un’istituzione dello Stato, tant’è che riguarda addirittura il presidente della Repubblica (articolo 90). I giudizi sono stati in gran parte netti, ma la comprensione di quanto accaduto è cosa complessa e che pretenderebbe un certo coefficiente di onestà. Il massiccio e sistematico ricorso alla violenza, il numero enorme di detenuti e di personale della polizia penitenziaria che è rimasto coinvolto nella “Straf Spedition”, nella spedizione punitiva accertata dalla Procura di quella città, impongono un’analisi sincera della condizione carceraria nel nostro paese e non solo. Le parole più autorevoli in questa direzione sono quelle che ha reso in un’ottima intervista all’Avvenire Sebastiano Ardita che, per anni, ha ricoperto un ruolo di grande rilievo nel Dipartimento penitenziario del ministero della Giustizia. Ha detto il dottor Ardita che le ragioni di tutta quella violenza “vanno cercate nel microclima interno alle carceri, caratterizzato da una situazione di scontro tra detenuti e personale penitenziario; una situazione anomala, che non dovrebbe mai determinarsi, forse frutto di un modello organizzativo da rivedere e rispetto alla quale andrebbe fatta un’analisi serena, per correggerla senza ulteriori traumi”. Sono parole che dovrebbero porsi al centro di una riflessione seria e risolutiva sul pianeta carcerario in Italia. Le raffiche di giustizialismo e di manettarismo che ammorbano la discussione sul punto hanno, tra molti torti, anche quello di ignorare volutamente che il sovraffollamento carcerario che auspicano e alimentano con leggi liberticide e richieste di punizioni esemplari non hanno fatto altro che scaricare definitivamente sulla polizia penitenziaria un compito immane. La gestione dei detenuti è un lavoro complesso, difficile, anche pericoloso in alcuni casi. All’interno degli istituti si creano equilibri precari e instabili in cui è sempre complicato mettere insieme il controllo di un numero esorbitante di detenuti, le loro difficili condizioni esistenziali, la compressione di ogni intimità e riservatezza con l’avvio di percorsi che ne agevolino il recupero. Sarebbe complesso spiegarlo ora, ma persino la questione - affrontata dalla Corte costituzionale di recente - dell’ergastolo ostativo a ogni beneficio senza la collaborazione di giustizia rientra in una visione della detenzione carceraria irrimediabilmente distante dal modello costituzionale e terribilmente pericolosa alla luce di quanto accaduto nello stabilimento di Santa Maria Capua Vetere. Se il carcere, nella sua massima severità punitiva, viene brutalmente percepito come il luogo in cui occorre piegare la volontà dei detenuti per fletterla verso il pentimento e la delazione, è chiaro che il modello di comportamento che viene irradiato verso la polizia penitenziaria è quello securitario. Sospinte da 30 anni di emergenza, le celle non sono mai diventate veramente il luogo dell’espiazione e della rieducazione, ma hanno teso piuttosto a trasformarsi in un campo di aspra battaglia in cui si confrontano la volontà degli asseriti irriducibili e quella dei carcerieri che percepiscono la pacificazione e il controllo come gli strumenti indispensabili per conseguire la mission politica che gli è stata affidata o di cui, comunque, percepiscono l’importanza. Troppe volte il trasferimento di detenuti in carceri a elevata sicurezza, in reparti duri, finanche in istituti posti in zone impervie e remote è stato richiesto all’autorità penitenziaria dagli inquirenti come il mezzo per piegare la volontà dei renitenti, per indurre alla collaborazione soggetti ritenuti portatori di verità rilevanti da confessare. In questo scenario le pregresse responsabilità ministeriali non sono marginali poiché attengono, anche, alla gestione dei detenuti nelle varie carceri e alla somministrazione del regime ex articolo 41-bis che ormai viene attivato praticamente su mero input delle procure della Repubblica desiderose, non solo e non tanto di contenere la pericolosità del ristretto, ma di agire sui soggetti marginali, sui ritenuti fragili che possono cedere alla pressione carceraria. Ecco, per seguire le giuste osservazioni del dottor Ardita, si tratta in primo luogo di restituire al ministero della Giustizia e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria la sua piena autonomia rispetto alla magistratura inquirente e alle sue pur comprensibili istanze che non possono, però, tradursi in un complessivo appesantimento delle condizioni carcerarie in cui migliaia di detenuti percepiscono che per sfuggire alla durezza della prigionia l’unica via d’uscita è il pentimento. Troppe iniziative, tuttavia, si sono realizzate negli anni in direzione opposta, con la creazione persino di cellule investigative della polizia penitenziaria che monitorano i detenuti, ne invogliano le collaborazioni, ne percepiscono le confidenze da barattare con qualche alleggerimento della restrizione. In questo modo il carcere è diventata un’estensione del campo di battaglia che è situato fuori dalle mura in cui si fronteggiano inquirenti e mascalzoni, laddove avrebbe dovuto essere il luogo della tregua e dell’habeas corpus. Un posto in cui ciascuno - con la tranquillità possibile - ha modo di riflettere sugli errori commessi e su come emendare la propria esistenza. Se i detenuti sono percepiti come prede da accaparrarsi e da piegare ai desiderata degli inquirenti e se la polizia penitenziaria viene consegnata, anche solo in parte, a questo ingiusto compito, ecco che la battaglia per la supremazia e per il potere diviene durissima e gli abusi si moltiplicano, spesso nel più assoluto silenzio, tra troppe violenze e troppi suicidi. Il detenuto svenuto e le bastonate, sbattuti contro il muro e colpiti: i nuovi video di Elena Del Mastro Il Riformista, 7 luglio 2021 Sono scene raccapriccianti quelle che arrivano dal carcere di Santa Maria Capua Vetere di quel 6 aprile in cui i detenuti furono sottoposti a quella che i giudici hanno definito “un ignobile mattanza”. Repubblica e il Mattino pubblicano quei video pieni di violenza e dolore, taciuta per oltre un anno. E quelle immagini, depositate agli atti, cristallizzano tutto il male perpetrato in carcere per “punire” i detenuti che avevano protestato contro il covid in quella che la penitenziaria ha definito “una situazione sfuggita di mano”. Nelle immagini si vedono decine di operatori della Penitenziaria che accerchiano uno o due detenuti per volta: chi assesta un colpo alla testa, chi li prende a calci, chi li picchia sulla schiena o sulla nuca. Nei video pubblicati da Repubblica c’ accanimento di tanti contro singoli detenuti che cadono sotto il peso delle botte e dei manganelli. Chinano la testa temono il colpo alle spalle da un momento all’altro. Poi il colpo arriva saldo e forte. Si muovono a passi lenti, piegati dalla paura, le mani in testa nel tentativo di parare i colpi. L’inchiesta ha già portato a 52 misure cautelari, a carico di funzionari, comandanti e agenti dell’amministrazione penitenziaria. “Operazione pulizia, non si è salvato nessuno”, scrivevano nelle chat, poco dopo il fatto i protagonisti delle violenze come riportato da Repubblica. E ancora Repubblica mostra un’altra drammatica scena cristallizzata dalle telecamere di videosorveglianza. All’improvviso un detenuto sviene, forse provato dalle botte. Gli agenti lo guardano, qualcuno lo smuove con un piede, nessuno sembra allarmarsi o chiamare prontamente i soccorsi. Uno degli agenti lo prende a calci. Poi arriva un medico con il camice e subito dopo una donna in camice. Lo rianimano. E ancora un detenuto viene buttato per terra sulle scale, rialzato a forza e colpito. Si vede anche un recluso trascinato per terra mentre in un altro frame i detenuti sono in ginocchio con la faccia rivolta al muro mentre partono i colpi con i manganelli. Fermi, inermi, e intanto la penitenziaria continua a colpirti e a spintonarli. Il Mattino pubblica un’altra drammatica scena. Lì nella sala della “socialità”, accanto al biliardino i detenuti vengono colti alla sprovvista. I pestaggi avvengono con i manganelli. Poi, gli agenti cercano di rimettere ordine nella stanza. In un altro video si vedono i poliziotti penitenziari battere i manganelli sugli scudi, quasi a ‘festeggiare’ l’azione appena portata a termine. Far luce sulla catena di comando in relazione alla perquisizione straordinaria ordinata per il 6 aprile 2020. Per questo motivo oggi sono arrivati nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) ispettori del ministero della Giustizia. Un’ispezione amministrativa per analizzare quanto accaduto il 5 aprile, durante la rivolta dei detenuti, e il giorno successivo, quando per gli inquirenti sarebbero avvenute le presunte violenze ai danni dei prigionieri. L’obiettivo è cercare di capire eventuali intoppi e cosa non ha funzionato nella catena di comando in quei giorni, quando la direttrice Elisabetta Palmieri era assente per motivi di salute. Nei giorni successivi alle 52 misure cautelari, la ministra della Giustizia Cartabia, con il capo del Dap, chiesero una verifica approfondita sull’intera catena di informazioni e responsabilità. “Ben venga la visita ispettiva del ministero, anche se è un po’ tardiva. Tutto questo caos doveva essere gestito all’inizio, non dopo 14 mesi. Questo ha aumentato i dubbi, le perplessità. Come ad esempio la sospensione delle persone indagate, presenti quel giorno ma che per gli inquirenti non sono coinvolti in modo attivo nei fatti. Intervenendo all’epoca, già si sarebbero potuti sgombrare dubbi che danno spazio a ricostruzioni fantasiose. Se fossero state disposte verifiche già lo scorso anno, oggi avremmo già delle risposte”. Ha commentato così a LaPresse Emilio Fattorello, segretario nazionale del Sappe e responsabile della Campania, l’arrivo degli ispettori nel carcere sammaritano. E, sempre per quanto riguarda i sindacati, oggi il Spp senza mezzi termini ha chiesto le dimissioni del garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello: “Alla nostra richiesta di abbassare i toni per consentire alla magistratura di lavorare in serenità, si risponde con una conferenza stampa dai toni allarmistici che non rispondono alla verità dei fatti accaduti. Ciambriello dovrebbe spiegare come fa a dire certe cose, come se avesse avuto accesso ai filmati, un’eventualità impossibile”, ha dichiarato il segretario generale del Spp Aldo Di Giacomo in una nota, criticando le dichiarazioni in merito alla presenza di presunti video dei pestaggi ancora più raccapriccianti in possesso della procura. Dal canto suo il garante ha spiegato a LaPresse di non aver visto nessun nuovo video: “Nell’ordinanza vengono elencati particolari raccapriccianti - spiega - dettagli e luoghi che nei filmati diffusi non compaiono. È tutto scritto, è ovvio quindi che gli inquirenti devono essere in possesso di altro materiale”. Carcere di S.M. Capua Vetere, non solo torture: è boom di atti di autolesionismo di Viviana Lanza Il Riformista, 7 luglio 2021 Suicidi e atti di autolesionismo sono in aumento all’interno delle carceri. Il dato è anche campano ed evidenzia che una percentuale alta arriva proprio dal carcere di Santa Maria Capua Vetere, l’istituto attualmente sotto i riflettori per i pestaggi del 6 aprile 2020. Come mai sempre più detenuti cedono alla disperazione fino quasi a preferire la morte? Quale inferno si vive nel chiuso delle celle? Di certo l’ultimo anno e mezzo è stato profondamente segnato dalla pandemia, dai lockdown, dalle misure anti-Covid che per i reclusi si sono tradotte in un aumento delle restrizioni, colloqui con i familiari per mesi sostituiti da videochiamate, sospensione di moltissime attività trattamentali. Nel carcere sammaritano il 2020 è stato anche l’anno del violento pestaggio nei confronti di 292 detenuti del reparto Nilo ora al centro di un’inchiesta della Procura. In questi mesi di tensioni e timori legati al Covid gli atti di autolesionismo sono aumentati in maniera allarmante. In tutte le 15 carceri della Campania si sono contati 1.232 eventi critici (erano stati 1.175 nel 2019), 196 di questi casi risultano avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. L’istituto di pena casertano è dunque al secondo posto per numero di casi dopo Poggioreale (dove nell’ultimo anno si sono contati 323 atti di autolesionismo). Tuttavia, se si considera che a Poggioreale ci sono circa 2mila reclusi e a Santa Maria 889, è evidente la dimensione del fenomeno. Quello sammaritano è anche il carcere dove non c’è acqua potabile, perché i lavori per la realizzazione di una rete idrica sono stati avviati da alcuni mesi, dopo un’attesa lunghissima: il carcere è stato costruito nel 1996. Ebbene, in questa struttura, secondo il garante regionale Samuele Ciambriello, il numero di atti di disperazione fra i detenuti è in aumento. Nel 2020 si sono contati, oltre a 196 atti di autolesionismo, 30 tentativi di suicidio sventati dal tempestivo intervento di agenti della penitenziaria o compagni di cella dei reclusi (tre in meno rispetto a Poggioreale che però è il carcere più grande e affollato di Italia), due suicidi (su un totale di 9 casi registrati nel 2020, numero quasi doppio rispetto al bilancio 2019 nel quale si erano contati cinque suicidi in tutte le carceri della Campania). E inoltre due decessi per morte naturale, 112 scioperi della fame, tre evasioni sventate, una evasione, 64 casi di isolamento sanitario correlati ad altre patologie, 198 provvedimenti di isolamento disciplinare, un isolamento giudiziario. Le ragioni di tanta disperazione e di tanto disagio sono da ricercare nella storia personale di ciascun detenuto, ma anche nel contesto in cui simili tragici gesti sono maturati. Sempre prendendo come riferimento il carcere di Santa Maria, dal report del garante regionale emerge che, a fronte di una capienza regolamentare di 809 posti, c’è una popolazione carceraria di 889 detenuti (187 dei quali stranieri), mentre gli agenti della penitenziaria sono 463 a fronte di una pianta organica di 470 unità. La carenza maggiore, dunque, non è sul piano del controllo ma su quello della rieducazione, che poi è la funzione principale della pena secondo la Costituzione. Per quasi 900 detenuti ci sono sei funzionari giuridico-pedagogici, quattro psicologi, 60 volontari e nessun mediatore culturale stabile ma solo a chiamata. Il sindacato di Polizia penitenziaria contro il Garante dei detenuti: “Alimenta clima d’odio” di Carmine Di Niro Il Riformista, 7 luglio 2021 Oltre il danno la beffa per Samuele Ciambriello. Il Garante campano dei detenuti, che con le sue denunce nell’aprile scorso ha aperto il ‘vaso di Pandora’ delle violenze avvenute all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere, con le misure cautelari disposte la scorsa settimana nei confronti di 52 tra dirigenti e agenti di polizia penitenziaria, finisce nel mirino del SPP, il Sindacato Polizia Penitenziaria. Contro Ciambriello si è espresso infatti Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato, che ha chiesto al presidente della Campania Vincenzo De Luca “la revoca e sostituzione del Garante”. Una mossa, quella del sindacato, che segue le dichiarazioni rese lunedì in conferenza stampa dal garante campano dei detenuti, che aveva rivelato la presenza di “altri video raccapriccianti in possesso della Procura, quelli che abbiamo visto sono solo una parte delle violenze”. Secondo Di Giacomo queste parole sono “di una gravità assoluta e alimentano il clima d’odio nei confronti del personale di Polizia Penitenziaria e di destabilizzazione del Corpo”. Altro punto criticato dal segretario del SPP, ritenuto “inopportuno”, è “sostenere ‘oltre il danno la beffa’ in relazione al trasferimento dei detenuti di Santa Maria”. Per il segretario del Sindacato Polizia Penitenziaria Ciambriello “alla nostra richiesta di abbassare i toni, consentendo alla magistratura di svolgere il proprio lavoro con serenità, risponde con conferenze stampa dai toni allarmistici che non rispondono alla verità dei fatti accaduti”. Ciambriello “dovrebbe spiegare come fa a dire certe cose, come se avesse avuto accesso ai filmati, un’eventualità impossibile”, aggiunge ancora Di Giacomo, che se la prende anche con la garante dei detenuti di Caserta, Emanuela Belcuore. Evocando amnistia e indulto, secondo il segretario del SPP la Belcuore rivela “espressamente qual è l’obiettivo che si intende perseguire con questa campagna che ha già duramente colpito e provato oltre 37 mila uomini e donne al servizio dello Stato”. Sulla mattanza era intervenuta lunedì anche la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese: “Le immagini sul carcere di Santa Maria Capua Vetere non avrei mai voluto vederle” ma “bisogna anche dire che non possiamo criminalizzare un intero corpo della Polizia Penitenziaria sulla base di alcune persone”. Intanto mercoledì 7 luglio la ministra della Giustizia Marta Cartabia incontrerà i sindacati della polizia penitenziaria e nei giorni successivi i provveditori degli istituti. “Le condizioni del carcere - ha detto la ministra - stanno suscitando in me grande apprensione. Sto seguendo personalmente l’evoluzione delle vicende che sono emerse negli ultimi giorni: vicende che debbono avere approfondimenti e ho convocato a giorni delle riunioni. Voglio approfondire con i rappresentanti della polizia penitenziaria, che incontrerò nei prossimi giorni, e con i provveditori con cui avrò uno scambio di informazioni e vedute nei giorni successivi. Uno scambio di informazioni per capire come sia stato possibile che succedessero fatti così gravi”. La difesa dei comandanti. Ma spuntano video inediti dei pestaggi di Raffaele Sardo La Repubblica, 7 luglio 2021 Manganelli, Colucci e Costanzo negano di aver ordinato le violenze. È stato il giorno degli interrogatori dei “dirigenti” della polizia penitenziaria. I comandanti. Nell’aula 5 al primo piano si sono presentati davanti al Gip Sergio Enea, Pasquale Colucci comandante degli agenti di Secondigliano che guidava il “Gruppo di supporto agli interventi”, istituito proprio da Antonio Fullone, il provveditore all’amministrazione penitenziaria della Campania, nei giorni dell’emergenza carceri durante il lockdown. Interrogato anche Gaetano Manganelli (difeso dall’avvocato Giuseppe Stellato), il comandante della penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere e Anna Rita Costanzo, commissario capo responsabile del Reparto Nilo. Secondo quanto è trapelato dagli interrogatori, Colucci ha presentato una memoria scritta che è una lunga dichiarazione spontanea in cui, sostanzialmente, dice che non ha capito niente di ciò che stava accadendo, anche perché non era presente dall’inizio, ma sarebbe arrivato solo alle 17, mentre la perquisizione e le relative violenze da parte degli agenti penitenziari, sono cominciate molto prima, e cioè alle 15.30. Questa invece, in sostanza, la linea difensiva di Gaetano Manganelli: “Io non c’ero. Hanno fatto tutto i miei sottoposti. La perquisizione non l’ho ordinata io”. Dunque sembra essere tutto uno scaricabarile, dove ognuno dei capi tenta di allontanare da sé qualsiasi responsabilità. Ma quello che hanno mostrato i video di quella giornata, e i nuovi filmati allegati agli atti e pubblicati sul sito di Repubblica, riporta ad una delle pagine più nere della nostra storia, una pagina dove tutta la catena di comando sembra coinvolta. Nel corso dell’interrogatorio davanti al Gip Sergio Enea, Anna Rita Costanzo, il commissario capo della Polizia Penitenziaria responsabile del Reparto Nilo, si è riportata a quanto aveva già dichiarato nel corso dell’interrogatorio reso nel gennaio scorso. Costanzo è finita ai domiciliari lunedì 28 giugno su ordine del gip Sergio Enea, sempre nell’ambito dell’indagine della Procura sulle violenze ai danni di detenuti avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020. Costanzo (difesa da Vittorio Giaquinto) si presentò spontaneamente alla Procura di Santa Maria Capua Vetere per chiarire la sua posizione. Come scrive il Gip nell’ordinanza riferendosi all’interrogatorio reso dalla funzionaria a gennaio, “prezioso aiuto è stato fornito dalla collaborazione della Commissaria Costanzo, che nel suo interrogatorio ha riconosciuto altri agenti e ufficiali di Polizia Penitenziaria, che non erano stati compiutamente individuati dai detenuti”. Allora Costanzo spiegò di non essere tra gli organizzatori della perquisizione. “Io - riferì a gennaio - arrivai dopo che i comandanti si erano riuniti per distribuire i ruoli e i compiti nella stanza di Manganelli, ove l’operazione era stata pianificata; non so dire come fosse stata pianificata ed organizzata l’operazione, né lo compresi dopo. Io arrivai in istituto prima che iniziasse la perquisizione e a cose già pianificate”. Nelle immagini interne del carcere determinanti per ricostruire i pestaggi avvenuti il 6 aprile 2020, Costanzo aveva il manganello in mano. Dalla ricostruzione dei fatti che emerge dagli atti giudiziari dell’inchiesta depositati emerge che la poliziotta penitenziaria ha impartito ordini precisi ai propri uomini, come quelli relativo ad un detenuto: “Le deve avere”. A un detenuto che le chiedeva, implorandola, “perché ci state facendo picchiare, aiutatemi sto subendo troppo, mi stanno uccidendo”, Costanzo rispose: “Per colpa vostra sto facendo le nove di sera”. Ieri sono stati sentiti anche altri agenti colpiti da misura cautelare, tra cui Raffaele Piccolo di 48 anni (omonimo di un altro agente finito ai domiciliari, che però ha 56 anni); Piccolo, difeso da Mariano Omarto, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Quei poliziotti di serie B abbandonati al loro destino di Piero Cruciatti Il Domani, 7 luglio 2021 Un agente che entra in penitenziaria deve seguire un corso di sei mesi in una scuola di formazione. Al termine di questo corso avviene l’assegnazione negli istituti, passando per un concorso nazionale. Sarebbero poi previsti corsi di aggiornamento, almeno una volta all’anno. Tuttavia, non si fanno quasi più. Il comparto della polizia penitenziaria è quello che registra, ogni anno, il maggior numero di suicidi rispetto agli altri. Nel 2020 sette agenti si sono tolti la vita, nel 2019 erano stati 11, secondo l’Osservatorio suicidi in divisa (Osd). “Finché gli agenti penitenziari avranno una formazione militare, le carceri continueranno a fare schifo”. L’agente 361 lavora da 25 anni nel carcere di Bologna. Nonostante l’obbligo di portarlo sulla divisa sia ancora lontano da diventare legge, si identifica con il suo numero perché “siamo solo un numero”, dice con amarezza. Si chiama Nicola D’Amore ed è un esponente del Sindacato nazionale autonomo polizia penitenziaria (Sinappe). Un impegno nato con l’obiettivo di portare all’attenzione dell’opinione pubblica, fuori dalle celle, quanto accade dentro. Soprattutto le pessime condizioni di vita sia dei detenuti sia del personale di polizia. Negli ultimi giorni l’attenzione attorno a ciò che accade nelle carceri italiane è stata altissima. Le immagini dei pestaggi avvenuti il 6 aprile 2020 nell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, hanno diviso il mondo della politica. Matteo Salvini e Giorgia Meloni, pur condannando la violenza, hanno solidarizzato con gli agenti. Eppure si tratta più che altro di parole visto che, stando ai fatti, gli ultimi governi, anche quelli considerati più “vicini”, si sono occupati ben poco delle condizioni degli agenti della penitenziaria. Nel 2018, quando Salvini era ministro dell’Interno, la legge di Bilancio prevedeva 50 nuove assunzioni per il comparto penitenziario entro la fine dell’anno, e un totale di 861 entro il 2022. Tuttavia proprio nell’ultimo biennio, il numero degli agenti effettivi è diminuito in modo costante. Anche per quanto concerne i fondi stanziati, erano stati previsti, fino al 2022, oltre 35 milioni di euro solo per la polizia penitenziaria. Soldi che, se fossero davvero stati investiti, avrebbero potuto migliorare le condizioni di lavoro, integrare l’aggiornamento in formazione e avviare un miglioramento dello stato degradante in cui si trovano le nostre carceri. Nello stesso Pnrr si parla della riforma del processo, ma di investire sull’ammodernamento degli istituti non si parla affatto. Addirittura partiti come la Lega propongono la costruzione di nuovi padiglioni, mentre sono quelli che esistono da decenni a necessitare di interventi di miglioramento. “La polizia penitenziaria viene spesso vista come la polizia di serie B e in realtà assolve a compiti molto importanti: noi dobbiamo produrre sicurezza, non produrre carcerati”, spiega ancora D’Amore. Sono troppo pochi, sanno di dover gestire situazioni spesso al limite, come vengono formati per affrontarle? Come si forma un agente - Un agente che entra in penitenziaria deve seguire un corso di sei mesi, in una scuola di formazione, dove lo studio in aula si alterna con periodi di pratica sul campo. Per accedere basta avere la terza media. Le materie che si studiano sono prevalentemente giuridiche. Da pochi anni sono stati introdotti nuovi corsi che riguardano lo stress correlato al lavoro, il benessere organizzativo, materie di cui gli agenti di venti, trent’anni anni fa non avevano mai sentito parlare. Dopo i primi tre mesi si viene affiancati a operatori che già lavorano in carcere e che istruiscono gli aspiranti agenti su come funzionano i vari compiti, da quelli all’interno delle sezioni, ai lavori di ufficio. Il carcere è una piccola città, ci sono tanti ruoli operativi, ma il più delle volte l’organico è insufficiente. Secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia, a maggio 2021, gli agenti effettivi erano 36.939, su un organico previsto di 37.181 unità. Tuttavia, in base ai dati pubblicati dall’associazione Antigone nel 17° Rapporto sulle condizioni dei detenuti, a oggi sono 32.545 agenti di polizia penitenziaria realmente operativi. Al termine della formazione si viene assegnati, attraverso un concorso nazionale, ai penitenziari. In realtà, il percorso formativo non si conclude qui. Sarebbero previsti corsi di aggiornamento, almeno una volta all’anno. Ma non si fanno quasi più, a parte rare volte in cui i neoassunti vengono mandati a fare corsi sulle tecniche operative di tiro. “Il carcere dovrebbe assolvere i compiti della rieducazione e della risocializzazione, ma non può farlo perché la formazione non c’è, a parte quella prettamente militare”, afferma D’Amore. “Ho sostenuto il primo corso di aggiornamento della formazione dopo 25 anni dalla mia assunzione”, racconta, spiegando che è rimasto sorpreso dalla materia studiata: “La gestione degli eventi critici, ma in modo nuovo. Non più attraverso l’uso della forza, ma attraverso un’opera di mediazione. Dialogare, capire il problema, rimuoverlo”. Il primo investimento che manca, quindi, è quello in formazione. Ma se anche fosse possibile intervenire su questo aspetto, nessuno degli agenti in servizio potrebbe abbandonare il posto di lavoro per partecipare ai corsi, perché non ci sono colleghi a sostituirlo. “Negli ultimi 20 anni il carcere ha cambiato pelle, così come l’ha cambiata la società. Anche l’immigrazione ha inciso, quindi ci troviamo a gestire un’utenza di cui non sappiamo niente”, dice il sindacalista. “I corsi di formazione non hanno mai tenuto conto di questi cambiamenti, quindi ci sono colleghi più grandi che non hanno mai studiato queste materie, organizzazione del lavoro, lavorare in sinergia, l’antropologia, e non tutti si mettono a studiare per curiosità personale”. Quello che hanno mostrato le telecamere di sicurezza del carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere non è il risultato di un’emergenza che inizia con l’esplosione della pandemia da Covid-19, ma è ben più vecchia. Un’emergenza storica - “Si fanno 40-60 ore di straordinario al mese, fatte tutte in un carcere e in sezioni dove ci sono 100-150 detenuti per un solo agente”, spiega Massimiliano Prestini sindacalista della Fp Cgil, che si occupa degli agenti della penitenziaria. “La tensione era già forte prima del Covid-19, poi è solo peggiorata”. I dati pubblicati dall’associazione Antigone mostrano come la carenza di personale incida molto sulla gestione dei detenuti. L’Italia ha attualmente un rapporto di circa un agente ogni 1,4 detenuti. Una media nettamente migliore rispetto a quella degli altri paesi europei, pari a 3,1 (dato dicembre 2020). Nonostante il dato confortante, Antigone precisa che i numeri variano molto da regione a regione e da carcere a carcere. Ci sono infatti istituti ingestibili a causa del sovraffollamento. Secondo i dati del ministero della Giustizia, aggiornati al 31 maggio 2021, su 189 carceri sparsi sul territorio nazionale, 116 sono sovraffollati: il 61 per cento. A livello complessivo i presenti sono in media 53.660, il 6 per cento in più della capienza massima, pari a 50.780 posti. A questo, come spiega Prestini, si aggiunge che “difficilmente si trova un carcere in cui le condizioni igienico-ambientali siano decenti. Sono tutte strutture vecchie con la muffa sui muri, accessori e sanitari vecchi, spesso c’è difficoltà ad avere l’acqua. Si creano tensioni perché si vive male, vive male sia chi lavora che chi vi è recluso, e queste cose con l’andare del tempo sono difficili da risolvere”. Il comparto con più suicidi - Il comparto della polizia penitenziaria è quello che registra, ogni anno, il maggior numero di suicidi rispetto agli altri ordini di polizia. Secondo l’Osservatorio suicidi in divisa (Osd) nel 2020 sette agenti si sono tolti la vita, nel 2019 erano stati 11. Per Prestini la media annua si aggira intorno ai 7-8 casi, e sempre più spesso gli agenti si suicidano negli istituti stessi in cui prestano servizio. Prestini, che vive quotidianamente nell’ambiente carcerario in quanto agente, ricorda delle prime riunioni in cui denunciava il problema dello stress sul lavoro: “Mi hanno risposto che per un poliziotto che vive un certo tipo di situazioni è normale soffrire di determinate patologie. Quindi non è che le amministrazioni se ne devono occupare più di tanto”. L’affiancamento psicologico degli agenti, dunque, è inesistente. Da anni la Cgil prova a fare dei percorsi di sostegno, ma a eccezione di pochissimi istituti che hanno preso accordi con le Asl locali, nessun agente ha questa possibilità. “E se lo stress è così alto, immaginiamo accumularlo per 40 anni di fila, senza mai poterlo elaborare”, sottolinea Prestini. Ora che la condizione carceraria è tornata al centro dell’attenzione, “purtroppo o per fortuna, per quanto accaduto a Santa Maria”, prosegue, “dobbiamo intervenire e far che sì che si decida di investire in questo sistema che è stato progettato male fino a oggi. Finora sono state fatte solo dichiarazioni”. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, oggi alle 15 e 30 incontrerà anche i sindacati per discutere delle varie problematiche all’interno del comparto. “Se da qui partirà un grande confronto con tutti, forse si può iniziare un cambiamento concreto”, dice Prestini. Risocializzare il detenuto - Gestire migliaia di detenuti, non è facile. Secondo il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione gli istituti penitenziari dovrebbero assolvere al compito di rieducare i detenuti. Accanto agli agenti, dunque, ci sono anche gli operatori giudiziari, meglio conosciuti come educatori. “L’agente partecipa al processo rieducativo, ma l’educatore ha un suo ruolo specifico, poi all’interno si collabora e se ne parla, si fanno anche delle riunioni d’equipe in cui i vari casi vengono analizzati tutti insieme, poi fuori ci sono gli assistenti sociali, che li seguono nel reinserimento sociale”, spiega Prestini. Tuttavia, anche in questo caso, c’è un problema di organico. Prestini racconta che nel carcere in cui presta servizio, sono soltanto tre educatori per mille detenuti. “Come fanno ad avere in mente ogni storia e lavorare sul processo di reinserimento della singola persona? Come fanno a svolgere tutti gli adempimenti del caso? È un settore che non dà reddito, quindi è messo da parte e trascurato dalla politica”. Cambia la prescrizione di Bonafede di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 7 luglio 2021 Draghi e Cartabia stringono sulla riforma del processo penale. Gli emendamenti del governo verso il Consiglio dei ministri, ma non c’è ancora l’ok grillino. E arriva tempestiva la bocciatura della Corte costituzionale di un provvedimento proprio sul tema dell’ex Guardasigilli M5S. È durata due mesi la trattativa tra la ministra della giustizia e la sua maggioranza sulla riforma del processo penale. Quasi tutti spesi a convincere il Movimento 5 Stelle che lo stop alla prescrizione così come realizzato nel Conte uno e difeso nel Conte due andrà modificato. Perché il rischio che conduca a processi senza fine c’è ancora e l’obiettivo della riforma - un pilastro del Pnrr - è opposto: ridurre i tempi della giustizia penale del 25% in tre anni. Ieri un contributo alle tesi di Cartabia lo ha dato indirettamente la Corte costituzionale, che ha bocciato un provvedimento di Bonafede proprio sulla prescrizione. E domani il pacchetto di emendamenti governativi al processo penale può arrivare in Consiglio dei ministri. Passaggio insolito ma giudicato necessario per mettere in sicurezza l’iter della riforma. Che è ancora lungo. Oggi in una sorta di pre-consiglio ai massimi livelli, dovrebbe essere Draghi a stringere con i ministri 5 Stelle. Lo stallo è durato a lungo, tanto da mettere in dubbio che il provvedimento - che avrebbe dovuto essere votato dall’aula della camera per i primi di agosto - possa per quella data venir fuori dalla commissione. Il punto di caduta, da verificare tra oggi è domani, è ancora quello indicato negli emendamenti di Pd e Leu: un innesto della prescrizione processuale sull’impianto del lodo giallorosso Conte bis. Una sorta di clausola di sicurezza per chiudere comunque il processo quando sfora un termine massimo in appello o Cassazione. Intanto ieri la Corte costituzionale ha cancellato una delle misure emergenziali alle quali era ricorso l’ex ministro della giustizia Bonafede durante la prima ondata del Covid. La censura riguarda proprio la sospensione della prescrizione. La Corte ha bocciato la norma in base alla quale fino al 30 giugno del 2020 è bastato lo stop prudenziale delle udienze deciso dal capo dell’ufficio giudiziario per provocare anche la sospensione dei termini della prescrizione. In concreto questo ha voluto dire che alcuni imputati non si sono visti riconoscere il non luogo a procedere, da qui i ricorsi e la decisione della Consulta. La norma censurata, contenuta nel decreto legge n° 18 del marzo 2020, è in realtà il risultato di un’incredibile successione di decreti, almeno cinque. Alcuni dei quali hanno assorbito e fatto decadere decreti ancora in fase di conversione, la nota tecnica dei “decreti minotauro” che ha contribuito alla confusione normativa durante la gestione dell’emergenza da parte del governo giallorosso. Il termine di sospensione dei processi con il corollario della sospensione anche della prescrizione (che nel nostro ordinamento è una norma penale, dunque non suscettibile di applicazione retroattiva) è via via slittato dal 22 marzo fino al 30 giugno. E mentre nei primi provvedimenti la sospensione era prevista per norma di legge, negli ultimi questa decisione che ha ricadute pesanti sul destino degli imputati è stata affidata discrezionalmente ai capi degli uffici. Da qui la sentenza della Corte costituzionale, che ha ritenuto “non sufficientemente determinata” la “fattispecie estintiva” della prescrizione e dunque non conoscibile e valutabile in astratto dall’imputato. La sentenza della Consulta nella sostanza censura un atteggiamento troppo disinvolto nei riguardi dell’istituto della prescrizione, che è poi lo stesso che ha portato il governo Conte 1 (con Bonafede) a cancellare del tutto la prescrizione dopo la sentenza di primo grado e il governo Conte 2 (ancora con Bonafede) ad attenuare ma anche a confermare questa impostazione. Che è poi quella con la quale si è dovuta confrontare negli ultimi due mesi la ministra Cartabia. Schiarita sul ddl penale: domani Cartabia porta gli emendamenti in Cdm di Valentina Stella Il Dubbio, 7 luglio 2021 Coi 5 Stelle fuori dalla fase più nera della loro crisi, la ministra può chiedere l’ok anche alla modifica sulla prescrizione. Oggi cabina di regia con Draghi. Si sblocca l’impasse sulla riforma del processo penale: oggi cabina di regia del governo tra il premier Mario Draghi, la guardasigilli Cartabia e i capi delegazione delle forze di maggioranza, sull’intera riforma della giustizia, domani gli emendamenti al penale dovrebbero approdare in Consiglio dei ministri. Dietro la fine dello stallo, probabilmente anche la timida schiarita all’interno dei 5 Stelle, che restituisce al Movimento un minimo di serenità per potersi sedere al tavolo. Dunque doppio sigillo politico-governativo in arrivo sul ddl che rappresenta un obiettivo primario per Cartabia, la quale proprio due giorni fa a Catania aveva ammonito: “Per la democrazia non si può fare a meno di garantire i diritti dei cittadini, ma anche la vita economica”, e per fare questo “bisogna anche intervenire sui tempi della giustizia” perché “una giustizia lenta e in affanno, incapace di risposte veloci, rappresenta un fardello per il rilancio anche economico del nostro Paese”. La ministra della Giustizia in queste settimane ha incontrato le forze di maggioranza per arrivare a una sintesi tra le varie posizioni dei partiti che sostengono l’esecutivo. Il metodo, come sempre, è quello del dialogo, ma il nodo prescrizione resta sul tavolo, con il Movimento 5 stelle che, seppur ferito, continua a combattere per difendere il testo Bonafede. Eutanasia, approvato il testo base - Intanto ieri, dopo settimane dalla sua presentazione, il testo base sul fine vita e l’eutanasia è stato approvato dalle commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera. Il provvedimento fa proprie le indicazioni della Consulta fornite nella sentenza del 2019. Contrari FdI, Lega e FI. Secondo Filomena Gallo e Marco Cappato, segretario e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, impegnati proprio con il referendum per introdurre l’eutanasia attiva in Italia, “il Parlamento italiano finalmente batte un colpo sul tema dell’aiuto alla morte volontaria: è il primo segnale”, dicono, “a quasi tre anni dal primo richiamo della Consulta, ribadito poi con la sentenza Cappato-Dj Fabo”. Sempre a proposito di riforme, slitta di una settimana in commissione Giustizia al Senato l’esame di quella del processo civile, su cui l’avvocatura ha espresso diverse perplessità. Ieri Palazzo Madama ha infatti deciso di riaprire il termine per presentare i subemendamenti alle modifiche depositate da Cartabia, fissato a giovedì prossimo alle 12. L’esame del complesso di emendamenti e subemendamenti slitterà quindi a martedì della prossima settimana, 13 luglio. Su questa riforma si è espresso ieri anche il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel corso del suo intervento all’assemblea annuale dell’Abi: “La gestione dei crediti deteriorati, inclusa la scelta se cederli sul mercato o mantenerli in bilancio, sarà anche influenzata dalle riforme della giustizia civile”. Continua a tenere banco anche il tema dei referendum sulla giustizia promossi da Lega e Partito radicale. Dopo le obiezioni avanzate, sul Fatto quotidiano, dell’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, ieri è arrivata la bocciatura anche da parte di Alfonso Sabella, giudice del Tribunale del Riesame di Napoli ed ex assessore al Comune di Roma, che a Radio Cusano ha partecipato la sua “perplessità” sul merito dei referendum con i quali addirittura “si rischia di fare danni anziché risolvere i problemi”. In particolare Sabella si è soffermato sul quesito che introdurrebbe, per avvocati e professori, il diritto di voto sulle valutazioni di professionalità relative ai magistrati espresse dai Consigli giudiziari: “Sull’equa valutazione dei magistrati - ha spiegato - sono d’accordo sul fatto che il sistema vada cambiato, perché attualmente non c’è una valutazione equa dei magistrati, che vengono valutati sempre positivamente, quando invece non sempre sono tutti belli e bravi. Nel referendum però si propone di dare diritto di voto ai professori universitari e agli avvocati: dovremmo impedire l’effetto opposto, cioè che l’avvocato voti contro il magistrato che gli è andato contro”. Ma alla fine Sabella ammette: “Noi magistrati ce lo siamo cercati questo referendum, perché abbiamo gestito malissimo il potere”. Intanto si registra l’adesione di Guido Crosetto, che si affranca da Giorgia Meloni e si schiera con Matteo Salvini, appoggiando tutti e sei i quesiti, invece che solo quattro come deciso dalla leader di Fratelli d’Italia. La posizione del cofondatore di Fd’I, differente rispetto a quella ufficiale del partito, non sarebbe isolata: altri dirigenti condividerebbero tutto il pacchetto ma farebbero fatica a uscire allo scoperto. Chissà se questo sì al referendum da parte di Crosetto, che qualche giorno fa aveva dato vita insieme a deputati bipartisan - Giachetti (IV), Bartolozzi (FI), Pittella (Pd) - al sito presuntoinnocente.com, non spinga lo stesso deputato di Azione Enrico Costa, promotore dell’iniziativa, a sostenere le sei proposte referendarie. Carriere separate per le toghe: una svolta che bisogna evitare di Giuseppe Pignatone La Stampa, 7 luglio 2021 Il rischio per il futuro è avere pm “superpoliziotti” e giudici sempre più deboli. Davvero “separare le carriere di giudici e pubblici ministeri” è la condizione essenziale per la soluzione di tutti mali della giustizia italiana? Ne sembrano convinti alcuni schieramenti politici e soprattutto le Camere Penali ed è allora opportuno esaminare le ragioni che imporrebbero un simile sconvolgimento degli equilibri fissati in Costituzione. In primo luogo viene prospettata l’impossibilità per chi ha svolto le funzioni di accusa di trasformarsi nel garante imparziale dell’imputato. È un’affermazione del tutto apodittica, smentita dalla storia di questi ultimi trent’anni; si pone, semmai, un problema di professionalità, ed in tal senso sono previsti specifici corsi di formazione. Peraltro, la separazione delle funzioni si è già realizzata in concreto. Infatti, il fenomeno del passaggio da una funzione all’altra, scoraggiato anche dal fatto che può avere luogo solo dopo cinque anni e comporta il trasferimento in un’altra regione, ha dimensioni assolutamente esigue, come ha evidenziato Armando Spataro su questo giornale (“Carriere dei giudici da non separare”, 4 giugno 2021): appena 80 passaggi da requirente a giudicante e solo 41 in direzione opposta nell’arco di un triennio, con percentuali minime rispetto al numero dei magistrati in servizio (rispettivamente 1,17% e 0,20%). Questi numeri si ridurranno ancora di più se, come proposto dalla Commissione Luciani per le riforme in materia di ordinamento giudiziario, in futuro saranno consentiti solo due passaggi di funzione nell’intero arco della vita professionale del magistrato. Non è più convincente la tesi che fa derivare la necessità della separazione delle carriere dai principi del giusto processo sancito dall’articolo 111 della Costituzione, sostenendo che la parità delle parti davanti a un giudice terzo non sarebbe possibile se accusatore e giudice appartengono entrambi allo stesso ordine giudiziario. Infatti la parità in questione è quella garantita dalla legge nel processo e non quella ordinamentale; né si può nascondere la realtà della diversa natura di parte pubblica del Pm, riconosciuta ancora di recente dalla Commissione Lattanzi per la riforma del codice di procedura proprio per giustificare, paradossalmente, il trattamento deteriore del Pm che dovrebbe perdere il diritto di proporre appello avverso le sentenze di primo grado. L’argomento sostanziale a favore della separazione rimane allora, come è stato detto, l’asserita incapacità dei giudici di esercitare la funzione di controllo per la loro predisposizione a prestare ascolto alle tesi dell’accusa perché prospettate da appartenenti alla stessa carriere (tanto che si giunge a parlare di “appiattimento” dei giudici sul Pm). Anche qui dai numeri emerge una precisa smentita: secondo i dati elaborati dalla Procura Generale della Cassazione nel 2020, già in primo grado si ha una percentuale di assoluzioni nel merito del 26%, che raggiunge il 40% nei giudizi monocratici. Più difficile è stabilire il numero delle richieste di misure cautelari rigettate dal Gip, di cui non si ha quasi mai notizia all’esterno del procedimento. Uno dei pochi dati disponibili registrava comunque per il tribunale di Milano, nel 2013, il 25% di provvedimenti di rigetto. È poi appena il caso di ricordare i molti processi di grande importanza e/o rilievo mediatico che si sono conclusi con sentenze di assoluzione, magari dopo un alternarsi di decisioni tra loro contrastanti. In sostanza, i giudici esercitano già la loro funzione di controllo, al cui rafforzamento tendono inoltre alcune delle proposte di riforma attualmente all’esame della ministra della Giustizia. Sempre a sostegno della (inesistente) sudditanza psicologica dei giudici viene dedotta anche una pretesa influenza dominante dei Pm sul Consiglio Superiore della Magistratura o, meglio, sulle correnti all’interno di essa. Anche in questo caso i dati concreti sono di segno contrario. I rappresentanti dei giudici sono il triplo di quelli dei Pm (12 e 4) e la stessa proporzione è prevista nella proposta di riforma della legge elettorale elaborata dalla Commissione Luciani. Se poi si esaminano le ultime consiliature si può facilmente verificare che anche le funzioni, peraltro di importanza relativa, di capogruppo non sono state svolte in prevalenza, per le singole correnti, da consiglieri provenienti dagli uffici di Procura. L’argomento principale a sostegno della separazione rimane dunque un semplice sospetto che non trova riscontro nei dati oggettivi e che si alimenta invece delle polemiche che alimentano quotidianamente il dibattito sulla giustizia e che sono inevitabilmente espressione di punti di vista soggettivi. Non viene invece preso adeguatamente in considerazione, a mio avviso, il serio rischio che la separazione delle carriere porti a rendere normale quella che oggi rimane un’eccezione e cioè un Pm superpoliziotto, inevitabilmente soggetto, molto più di quanto avvenga attualmente, alle pressioni dell’opinione pubblica, alle sue tendenze colpevoliste e alle sue richieste di un risultato immediato, specie dopo i fatti più gravi ed eclatanti. Questo risultato sarebbe inevitabile. Infatti, il Pm sganciato dalla giurisdizione e che avrebbe come unico riferimento un Csm distinto da quello dei giudici vedrebbe sempre più la propria ragion d’essere istituzionale nella funzione di accusa centrata sulla fase delle indagini preliminari, con molto minore interesse - anche in termini di progressione di carriera - all’esito giudiziario della sua azione. Parallelamente, il giudice sarebbe più solo e, quindi, più debole. Ma il problema più grave posto dalla separazione delle carriere è la prospettiva della dipendenza del Pm dall’esecutivo. So benissimo che (quasi) nessuno dei fautori di quella tesi lo chiede e, anzi, in tutte le proposte finora formulate essa non è prevista. Tuttavia la forza delle cose non potrebbe che spingere in questa direzione, come del resto avviene in molti Paesi europei. Non sarebbe infatti accettabile, in un sistema democratico, l’esistenza di un organo che, anche grazie al controllo della polizia giudiziaria, sia così potente e contemporaneamente del tutto irresponsabile nel momento in cui venisse meno l’attuale inserimento - peraltro in termini minoritari, come si è visto - nell’ambito più vasto della giurisdizione. Del resto, l’impossibilità di un esito diverso è confermata proprio dalla recentissima proposta della Commissione Lattanzi che siano le Camere a determinare i criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti “in piena coerenza - si precisa - con un’architettura costituzionale nella quale le valutazioni di politica criminale non possono che essere affidate al Parlamento”. Se questo vale per i criteri di priorità, è facile pensare che nel resto della sua attività, certo molto più incisiva, il Pm non possa restare una monade isolata dal punto di vista ordinamentale e istituzionale. Una riforma dunque da evitare, mentre quelle proposte dalle Commissioni Lattanzi e Luciani delineano un quadro largamente condivisibile. Per superare i problemi che certamente esistono serve però soprattutto un profondo rinnovamento culturale, del quale devono essere partecipi la politica, l’avvocatura, i mezzi di informazione, l’opinione pubblica e, in primo luogo, la magistratura tutta che deve recuperare, come ha detto ancora pochi giorni fa la ministra Cartabia, la sua credibilità e, con essa, la fiducia dei cittadini. “Non si può bloccare la prescrizione a tempo indeterminato”. Parola di Consulta di Simona Musco Il Dubbio, 7 luglio 2021 Incostituzionale la norma del Cura Italia che sospende la prescrizione: è necessario predeterminare per legge “il termine entro il quale sarà possibile l’accertamento nel processo, con carattere di definitività, della responsabilità penale”. Che fine farà la norma Bonafede? Dalla Consulta arriva una vera e propria picconata alla norma Bonafede sulla prescrizione. Con una sentenza che, stabilendo l’incostituzionalità della sospensione prevista dal comma 9 dell’articolo 83 del decreto “Cura Italia”, ribadisce due principi fondamentali, fortemente messi in discussione dalla legge voluta dall’ex guardasigilli: la necessità di predeterminare per legge “il termine entro il quale sarà possibile l’accertamento nel processo, con carattere di definitività, della responsabilità penale” e l’obbligo di calcolare il tempo della prescrizione in termini di ragionevolezza e proporzionalità. Due principi che nella legge 3/2019 vengono fondamentalmente meno: la sospensione della prescrizione, infatti, non è predeterminata, ma dipende dalla durata dei processi. Cosa impossibile da calcolare in anticipo. La sentenza dello scorso 25 maggio, le cui motivazioni sono state depositate ieri, stabilisce che l’articolo 83 del decreto “Cura Italia” è in contrasto con il principio di legalità, vista la “libertà” con la quale il capo dell’ufficio giudiziario può adottare un provvedimento di rinvio dell’udienza penale per contrastare l’emergenza Covid. La Corte costituzionale ha quindi censurato la norma, accogliendo la questione sollevata dal Tribunale di Roma e confermando l’insufficiente determinatezza della fattispecie legale dalla quale consegue la sospensione dei termini di prescrizione dal 12 maggio al 30 giugno 2020. Secondo quanto evidenziato dalla sentenza, una persona accusata di un reato deve poter conoscere, sin dalla commissione del fatto, quale sia la fattispecie contestata, la pena ad essa collegata e le modalità della sua espiazione, nonché la durata della prescrizione. Per la quale la garanzia della sua natura sostanziale “si estende anche alle possibili ricadute che sulla sua durata possono avere norme processuali”. È necessario perciò predeterminare per legge “il termine entro il quale sarà possibile l’accertamento nel processo, con carattere di definitività, della responsabilità penale”. Sulla base del principio di legalità, la norma che comporta un prolungamento del termine di prescrizione come conseguenza dell’applicazione di una regola processuale deve essere “sufficientemente determinata”, così come stabilito da una precedente sentenza della Consulta, anch’essa in riferimento all’articolo 83 del decreto Cura Italia, ma relativamente al comma 4. A novembre scorso, infatti, la Corte aveva respinto la censura mossa dai Tribunali di Siena, Spoleto e Roma sulla base del rinvio d’ufficio di tutti i procedimenti a data successiva all’11 maggio 2020 e la sospensione del decorso di tutti i termini per il compimento di qualsiasi atto. Una stasi processuale generalizzata e fissata entro certi limiti di tempo, dunque determinata, per la quale la Consulta non aveva ravvisato una violazione del principio di non retroattività, in quanto la sospensione rientrava in una “causa generale” imposta da una particolare disposizione di legge, così come previsto dal primo comma dell’articolo 159 del codice penale. Nel caso specifico, invece, il profilo della sufficiente determinazione risulta violato, in quanto il comma 9 della norma, pur fissando un limite al 30 giugno 2020, richiama le facoltà del capo dell’ufficio di adottare linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze e, su tale base, anche di rinviare le udienze a data successiva, salvo i casi urgenti. Una facoltà “che solo genericamente è delimitata dalla legge quanto ai suoi presupposti e alle finalità da perseguire”. Basta, dunque, apporre motivazioni derivanti dal contrasto alla pandemia per poter rinviare la trattazione dei processi, con conseguenze non prevedibili sui tempi della prescrizione. “In tale quadro, questa normativa speciale e temporanea introduce sì una fattispecie di rilievo processuale, in quanto essa può comportare il rinvio delle udienze penali per alcuni processi e non per altri, secondo quanto prescritto nelle linee guida del capo dell’ufficio”, continua la sentenza, ma manca una “adeguata specificazione circa le condizioni e i limiti legittimanti l’adozione del provvedimento di rinvio, cui appunto consegue tale effetto sfavorevole sul piano della punibilità del reato in ragione dell’allungamento del termine di prescrizione”. In questo modo, “è solo al momento dell’adozione del provvedimento di rinvio del processo che si completa e si integra, caso per caso, la fattispecie legittimante il rinvio stesso: in tal modo la regola speciale finisce per avere un’imprevedibile variabilità”. Per i giudici, dunque, si tratta di “un radicale deficit di determinatezza”, con conseguente “lesione del principio di legalità limitatamente alla ricaduta di tale regola sul decorso della prescrizione”. Secondo Oliviero Mazza, ordinario di Procedura penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, la questione tocca da vicino la norma Bonafede sulla prescrizione, in quanto la stessa “fa dipendere la sospensione - che è in realtà è un blocco - dalla durata dei giudizi di impugnazione, quindi da scelte discrezionali del giudice - spiega al Dubbio -. La norma è già illegittima per due ragioni: la sentenza di novembre aveva stabilito che le sospensioni previste dalla legge devono comunque rispondere ad un criterio di ragionevolezza. Una sospensione sine die e non predeterminata nella sua durata è per ciò stesso irragionevole. La sentenza di oggi non fa altro che ribadire il concetto sotto un altro aspetto: non più l’irragionevole durata della sospensione, ma quello della sospensione non prevista dalla legge, facendo dipendere la durata da una scelta del giudice e non predeterminandola per legge”. Per Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto processuale penale presso l’Università di Roma “La Sapienza”, la norma Bonafede viene toccata soltanto da un passaggio contenuto nelle premesse della sentenza: “Il tempo della prescrizione deve essere calcolato in termini di ragionevolezza e proporzionalità - spiega al Dubbio -. La norma cui fa riferimento la sentenza è incostituzionale perché viola il criterio di tassatività, di legalità e di precisione, perché i modelli organizzativi possono essere diversi e non c’è una regola generale. La prescrizione può essere sospesa, ma non sine die, cioè senza un criterio di proporzionalità e ragionevolezza. Serve la certezza di un termine finale ed è proprio nei criteri di ragionevolezza e proporzionalità che la sentenza individua i rilievi al legislatore”. Sotto questo profilo, dunque, ci si può chiedere quanto ci sia di costituzionale nella legge dell’ex ministro. La Consulta non decide sulle Rems. Torna l’ombra del manicomio di Katia Poneti Il Manifesto, 7 luglio 2021 Lo scorso 26 maggio la Corte Costituzionale ha esaminato la disciplina, introdotta dalle leggi 9/2012 e 81/2014, in materia di REMS (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) destinate, insieme ai servizi sanitari territoriali, ad accogliere le persone con patologia psichiatrica autrici di reato. In particolare, le REMS sono destinate ai casi più gravi, in base al principio di extrema ratio della misura detentiva. La questione di costituzionalità è stata sollevata dal Tribunale di Tivoli e parte dalla costatazione del problema delle liste d’attesa per l’ingresso in REMS, liste ogni anno più lunghe. Tuttavia, propone di risolvere il problema affossando la riforma che, è bene ricordarlo, ha istituito le REMS come risultato del processo di superamento degli OPG (ospedali psichiatrici giudiziari), con la messa al centro del diritto alla salute delle persone, di tutte le persone, anche di quelle che hanno commesso reati e sono considerate socialmente pericolose. Secondo l’ordinanza di Tivoli dovrebbe infatti essere attribuito al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria il ruolo di decidere sull’inserimento, con lo scopo di superare il limite del numero chiuso previsto per le REMS. Si poteva ipotizzare che la Corte avrebbe dichiarata inammissibile la questione oppure auspicare che si pronunciasse nel merito ribadendo, anche nel caso delle REMS, la sua importante giurisprudenza in materia di salute. Così non è stato e l’ordinanza n. 131, depositata il 24 giugno, ha adottato un diverso approccio: la Corte ha rinviato la decisione di 90 giorni disponendo un’apposita istruttoria (in base all’art. 12 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte) per avere maggiori informazioni sul funzionamento concreto del sistema delle REMS. I quesiti possono essere raggruppati per tipologia. Un primo gruppo riguarda la richiesta di dati quantitativi e qualitativi sul fenomeno dell’internamento in REMS: punti da a) a f). Un secondo gruppo concerne la ricognizione di specifiche modalità e difficoltà di funzionamento del sistema delle REMS e i ruoli rispettivamente svolti dal Ministero della Giustizia, dal Ministero della Salute e dalle Regioni: punti da g) a m). Un ultimo punto (lett. n) riguarda l’esistenza di proposte di riforma del sistema. Stupisce che debba essere la Corte Costituzionale a chiedere tali dati poiché si tratta di conoscenze che dovrebbero essere raccolte in modo ordinario per valutare l’impatto di una riforma di grande rilievo. Non sono mancati alcuni studi, come quelli condotti dall’ex-Commissario per il superamento degli OPG Franco Corleone, le Relazioni del Garante nazionale delle persone private della libertà personale, la ricerca recentemente pubblicata dall’Università di Torino, i contributi del Coordinamento Stop Opg. Ma il dato ufficiale lo si sta andando a ricostruire solo adesso. Ed è un passo importante perché va a colmare un vuoto di conoscenza, ma offre anche un’opportunità di azione. Su tre aspetti si richiama l’attenzione. Che l’impulso dato dalla Corte sia accolto non solo come risposta all’emergenza, ma come occasione per la costruzione di un meccanismo permanente di monitoraggio del sistema delle REMS e di investimenti pubblici strutturali per l’assistenza psichiatrica. Che il dato numerico sia letto alla luce delle dinamiche del sistema, per esempio comparando le situazioni delle diverse regioni privilegiando le buone prassi e affrontando il problema delle misure provvisorie: secondo il Garante nazionale, Relazione annuale 2021, risultano detenute in carcere in attesa di REMS, al 19.04.2021, 65 persone di cui 62 con misura provvisoria, e il problema è concentrato in 5 regioni. Che una proposta di legge, che disciplina in modo organico la tutela della salute mentale per gli autori di reato, superando la distinzione tra folli rei e rei folli, e che valorizza la libertà e la responsabilità della persona, è depositata alla Camera dei deputati (n.2939). Parma. Peggiora la salute di Iannazzo, rimandato al 41 bis dopo il decreto “antiscarcerazioni” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 luglio 2021 Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha Onlus, sollecita la risoluzione del caso del detenuto che ha gravi patologie sia fisiche che mentali. La decisione sul rinnovo del carcere duro rimandata a novembre. Lo stato di salute di Vincenzino Iannazzo, uno dei 41 bis fatti rientrare in carcere dopo la strumentalizzazione delle cosiddette “scarcerazioni”, si è ulteriormente aggravato. Mentre avvenivano i pestaggi, documentati su questo giornale, i mass media erano concentrati a cavalcare la polemica, tanto che l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede varò in fretta e furia un decreto che ha fatto rientrare tutti i detenuti incompatibili con il carcere. Alcuni di loro, al rientro sono anche morti. La denuncia dell’Associazione Yairaiha Onlus - A denunciare il caso di Iannazzo è Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha Onlus. Un caso che Il Dubbio ha seguito, partendo dalle mosse dei familiari con le continue istanze puntualmente rigettate, l’attivismo dell’associazione Yairaiha e la relazione del responsabile sanitario del carcere di Parma dove c’è scritto nero su bianco che non riescono ad assisterlo adeguatamente. Il carcere, soprattutto quello duro, è incompatibile. L’associazione Yairaiha, a seguito del mancato intervento per ovviare al gravoso problema che persiste, ha inviato l’ennesima missiva alle autorità competenti. Dal Dap, passando per la ministra Cartabia, fino al tribunale di sorveglianza e al direttore del carcere parmense. Le patologie del signor Iannazzo si sono aggravate in quest’ultimo anno - “Come ampiamente documentato nel corso di questo ultimo anno - scrive Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha, il signor Iannazzo soffre di una serie di pluripatologie fra le quali spicca senza dubbio, per gravità e manifestazioni che comporta, la demenza a corpi di Lewy”. Continua la presidente: “Tale malattia, diagnosticata con assoluta certezza dal reparto di medicina protetta dell’Ospedale di Belcolle di Viterbo dove il Sig. Iannazzo è stato ricoverato ininterrottamente da giugno a novembre 2020, comporta per il detenuto gravi deficit di tutte le funzioni cognitive (memoria, attenzione, ragionamento, linguaggio), allucinazioni visive con conseguenti stati di agitazione e difficoltà a svolgere in maniera autonoma le attività del vivere giornaliero”. Nonostante questo quadro di assoluta gravità descritto dai sanitari che lo hanno avuto in cura, Iannazzo è attualmente detenuto presso il centro clinico del carcere di Parma in regime di 41 bis, con tutte le restrizioni che esso comporta. “In particolare - denuncia sempre Sandra Berardi -, lo stato di isolamento h24 sta contribuendo, come peraltro già segnalato dai medici, a peggiorare inesorabilmente le condizioni di salute del detenuto, che si presenta ai colloqui con i familiari disorientato, confuso, spesso non riconoscendoli e con evidenti difficoltà comunicative con loro”. I familiari portano indumenti a ogni colloquio e non ricevono indietro quelli sporchi - L’associazione aggiunge il particolare che i familiari sono costretti a portare nuovi indumenti ad ogni colloquio senza mai ricevere indietro quelli sporchi. “Stesso discorso per quanto riguarda i soldi - sottolinea Berardi - che puntualmente accreditano sul conto del proprio congiunto: nessuno ne ha contezza né, tanto meno, riescono a sapere se vengono utilizzati”. Ribadiamo che il responsabile sanitario del carcere, ha segnalato l’impossibilità di fornire assistenza continuativa e cure adeguate al detenuto. Nonostante ciò, le sue condizioni da ristretto rimangono invariate. “Qual è il senso del regime detentivo - si legge nella missiva inviata alle autorità -, oltretutto particolarmente restrittivo, imposto per un soggetto che versa in tali condizioni psico-fisiche? Quale rieducazione può realizzare la pena se lo stesso detenuto non è in grado di comprenderne il senso? Qual è la pericolosità sociale di una persona ormai demente e la minaccia che corre la società italiana da un suo cittadino, ormai completamente inerme e in balia degli eventi di cui ha poca contezza, tanto da dovergli applicare il regime del 41-bis?”. La decisione sul rinnovo del 41 bis è slittata da giugno a novembre - A giugno del 2020 il tribunale di sorveglianza di Roma avrebbe dovuto decidere sul rinnovo del 41 bis. Ma la discussione è stata rimandata di un anno, a novembre prossimo. Nel frattempo Iannazzo continua a rimanere detenuto in una condizione che rasenta il trattamento inumano e degradante. Quindi in contrasto non solo con l’articolo 27 della nostra Costituzione italiana, ma anche con l’articolo 3 della convenzione europea. Ha senso una carcerazione dura? Il 41 bis è stato concepito per uno scopo bene preciso. Quello di evitare che un boss possa dare ordine all’esterno e al proprio gruppo criminale di appartenenza. Uno in queste condizioni psico fisiche che ha allucinazioni, può davvero essere un pericolo tanto da giustificare l regime duro? Basta un’altra pronuncia della Corte Europea e Il 41 bis rischia di essere smantellato. La colpa sarà da ricercare in questo ennesimo abuso e da chi reclama ancora più restrizioni. Parma. Carcere, gravi problemi sanitari nel centro clinico di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 luglio 2021 La vicenda di Vincenzo Iannazzo riportata su Il Dubbio ha aperto uno squarcio sulla situazione sanitaria del carcere di Parma. Esattamente il centro clinico interno dove si trova in regime di 41 bis, non è più in grado di dare assistenza ai detenuti che hanno gravi patologie fisiche. Lo aveva scritto nero su bianco la Asl locale tramite una segnalazione alle autorità, anche in risposta alla sollecitazione del Garante nazionale delle persone private della libertà. Per rispondere alla situazione del recluso Iannazzo, la Asl ha approfittato per segnalare un problema generale. “Si approfitta dell’occasione per segnalare che tali assegnazioni senza preavviso presso i nostri Istituti al fine di avvalersi del Sai per soggetti con patologie - si legge nella missiva - necessitanti in ogni caso assistenza sanitaria intensiva, sta mettendo in seria difficoltà lo standard assistenziale di questa Unità Operativa: ad oggi si contano in Istituto circa n. 220 persone malate e con età avanzata, per la maggior parte allocate presso le Sezioni Ordinarie comprensibilmente inadeguate per la loro assistenza”. La Asl dice chiaramente che al carcere di Parma non sono in grado di poter garantire un’assidua assistenza sanitaria. Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha, ha spiegato a Il Dubbio che la prevalenza delle loro segnalazioni sono relative a gravi, se non gravissime, problematiche di salute che all’interno delle strutture penitenziarie non riescono ad essere affrontate e ciò vanno a “configurare quel trattamento inumano e degradante che la nostra Costituzione, e prima ancora la nostra umanità, vietano espressamente”. Berardi denuncia con forza: “Mi chiedo che senso abbia la detenzione per una persona come Iannazzo e per tutti quelli si trovano in condizioni simili. Qual è la funzione che esercita su di loro? Questa è la rieducazione? È così che si realizza la sicurezza dell’Italia? Qual è il pericolo che corre la società da questa persona tanto da dovergli continuare ad applicare il regime di 41 bis?”. Foggia. Detenuti denunciarono “violenze di ogni genere” dopo la rivolta e la maxi evasione foggiatoday.it, 7 luglio 2021 Il Sappe: “Dovevano servire il caffè?”. Dopo i fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, nel mirino dei familiari dei detenuti protagonisti della rivolta del carcere di Foggia del 9 marzo 2021, i poliziotti penitenziari, che Pilagatti del Sappe difende dalle presunte accuse. Federico Pilagatti non accetta che i gravi episodi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, possano sminuire la gravità della rivolta dei detenuti del carcere di Foggia, dal quale evasero 73 reclusi, e, di conseguenza, il ruolo e il lavoro svolto in quei giorni dai poliziotti penitenziari, alle prese con un evento mai verificatosi prima, straordinario. Le denunce dei familiari dei detenuti - Ad accendere i riflettori sulla gestione dell’emergenza in quei giorni erano stati i familiari dei detenuti attraverso l’associazione Yairaiha, che difende i diritti dei carcerati. A più di un anno di distanza e dopo i fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, aumentano le preoccupazioni dei parenti dei reclusi. Le testimonianze pervenute all’epoca dei fatti all’associazione, sarebbero sette. Questa, invece, la lettera scritta qualche giorno dopo. “Siamo un gruppo numeroso di familiari di persone recluse, fino ad una settimana fa, nel carcere di Foggia. Quello che chiediamo è solo ascolto, proveremo ogni tentativo per dare voce alle nostre paure, alle nostre preoccupazioni ma soprattutto ai nostri diritti! Come ben sapete, il giorno 9 marzo c’è stata una rivolta all’interno del penitenziario di Foggia, cominciata già in maniera pacifica la sera precedente; la rivolta è degenerata con danni all’interno ed evasioni, e su questo potremmo soffermarci a lungo poiché le anomalie sono tante, non ci spieghiamo come sia stato possibile non riuscire a contenere una rivolta cominciata la sera prima arrivando a conseguenze di questo tipo. Premettiamo che chi sbaglia paga e non giustifichiamo quello che i nostri parenti detenuti abbiano fatto! Ora la cosa che più ci sta facendo soffrire, e di cui vogliamo fare chiarezza, è la questione dei trasferimenti fatto il giorno 12 marzo. A distanza di una settimana molti di noi non hanno notizie dei propri familiari, molti non hanno ricevuto gli indumenti e addirittura molti sono messi in isolamento senza la possibilità di comunicare con la propria famiglia. Ci stanno arrivando testimonianze da brividi, attraverso lettere, da parte dei nostri cari, si segnalano violenze di ogni genere, abbiamo tra l’altro saputo che la mattina dei trasferimenti sono stati trasportati con pigiami e scalzi senza l’opportunità di potersi mettere una tuta e un paio di scarpe Purtroppo arriviamo a denunciare perché le testimonianze sono molte e pian piano stanno arrivando lettere e telefonate alle famiglie che ci lasciano senza parole e con tanta sofferenza! Chi ha sbagliato doveva essere punito dalla legge non dalla violenza fisica! Quello che chiediamo è che venga fatta luce su questa storia, i detenuti sono esseri umani, con dei diritti! Non possiamo sopportare che siano stati trattati in questo modo! Ora in una situazione di emergenza a causa del Coronavirus che ci fa molta paura, sapere che i nostri mariti, figli, fratelli stanno subendo tutto ciò ci fa solo gridare aiuto! Dateci ascolto! Vi ringraziamo anticipatamente!” La replica di Pilagatti (Sappe) - Non si è fatta attendere la replica del Sappe: “Quello che è accaduto a Foggia è stato visto da tutto il mondo, un qualcosa che avviene solo nei film con 73 detenuti che evadono quasi facessero una scampagnata ed una parte consistente della popolazione detenuta (molti detenuti sono stati costretti e minacciati a partecipare) padrona del carcere, che ha distrutto e bruciato di tutto e di più. 36 ore di pura follia che sembra sia stata dimenticata da tutti quelli che ora cercano di scagliarsi su Foggia in cerca della preda da azzannare. Abbiamo letto di “poveri” detenuti impauriti per l’ingresso dei poliziotti con scudi e manganelli, ma per contrastare una rivolta con i detenuti armati di bastoni, coltelli e quant’altro, nei reparti distrutti, dovevano entrare con un fiore in mano? Come pure abbiamo letto di proteste per le partenze improvvise e nl cuore della notte di detenuti rivoltosi. Ci dispiace che a questi poveri rivoltosi non sia stato servito anche il caffè prima della partenza, che, secondo loro, sarebbe dovuta avvenire diciamo verso le otto. Siamo ormai al ridicolo, al paradosso per cui quei detenuti che hanno distrutto il carcere, divelto cancelli, bruciato computer e carte importanti, sequestrato poliziotti, dovevano rimanere a Foggia ossequiati e riveriti come nuovi padroni del carcere. Lo si vuole che capire che c’è stata guerriglia non certo scatenata dai poliziotti? Per questo il Sappe non consentirà su Foggia nessun processo mediatico da offrire, (in questa calura estiva) in pasto ai cittadini, lasciando alla magistratura il compito di verificare le denunce dei detenuti e di chi li difende come in un paese civile, anche se deve essere chiaro che le rivolte le hanno fatto i detenuti e non i poliziotti penitenziari”. Cagliari. Sdr: detenuto di Uta non vede i figli da 19 mesi cagliaripad.it, 7 luglio 2021 “Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria deve rispettare la Convenzione dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza e la Carta dei Diritti dei Figli di genitori detenuti sottoscritta dal Ministero della Giustizia nel 2018. I principi informatori, condivisi a livello europeo, non possono non essere applicati per ragioni che non siano determinati dal pericolo per l’integrità del minore. Ciò nonostante due bambini di 16 e 10 anni, residenti a Napoli, entrambi invalidi al 100%, non incontrano da 19 mesi il padre, ristretto nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta. L’uomo, che ha chiesto al DAP di essere trasferito nella Penisola in un carcere prossimo alla famiglia, non ottiene alcuna concreta risposta e rischia di non poter abbracciare i figli ancora per molto tempo. Una situazione assurda, scandalosa e immotivata giacché il padre non è privato della responsabilità genitoriale ed è padre di 7 figli”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris dell’associazione ‘socialismo Diritti Riforme’ sottolineando “la memoria corta di un Dipartimento che non rispetta un accordo di straordinaria valenza culturale e civile sottoscritto e rinnovato più volte”. “Appare singolare e induce a riflettere il fatto che il DAP - osserva ancora Caligaris - mentre invia nelle carceri sarde, senza alcuna remora e perfino durante la pandemia, detenuti problematici e con importanti livelli di criminalità, non interviene con altrettanta tempestività quando si tratta di trasferire un detenuto dalla Sardegna. Ancora più sorprendente che non tenga nella dovuta attenzione la condizione della famiglia e lo stato di salute di due bambini che non hanno commesso alcun reato e che hanno bisogno di poter incontrare il padre”. “Non si può dimenticare - ricorda l’attivista di SDR - che lo scopo della pena è quello di far pagare il debito con la società nel rispetto delle norme e della umanità della carcerazione. Nel caso specifico il detenuto R.N., 40 anni, di origine serba, ha scontato 16 mesi in regime di sorveglianza particolare (14bis) nel carcere “Badu ‘e Carros di Nuoro e dallo scorso mese di marzo si trova a Cagliari. La moglie effettua i colloqui in videoconferenza ma la situazione della famiglia è delicata”. “È arrivato il momento che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria consenta all’uomo di tornare nel territorio della Penisola anche perché ai bambini, per motivi di salute, sono interdetti i viaggi di lunghe distanze. Il rispetto delle norme, in particolare da parte delle Istituzioni, è un gesto di responsabilità che dimostra la capacità di gestire anche le situazioni più difficili - conclude Caligaris - con la forza della legge e il senso di umanità”. L’associazione informerà della vicenda l’Autorità Garante dei Diritti dei Minori e degli Adolescenti e il Garante dei Diritti dei Detenuti della Campania nonché l’Associazione Bambini senza Sbarre. Chieti. La deputata Torto (5 Stelle) in visita alle carceri chietitoday.it, 7 luglio 2021 La deputata del Movimento 5 stelle Daniela Torto ha visitato nella giornata di ieri le carceri di Chieti, Lanciano e Vasto. Una visita organizzata, ha spiegato, per “rispondere all’appello dei lavoratori della polizia penitenziaria, che da mesi lamentano le loro condizioni di lavoro assai difficoltose, soprattutto a causa del basso numero di agenti rispetto a quello dei detenuti e la maggior parte con una media di età anagrafica molto alta. Situazione aggravata in quest’ultimo anno e mezzo dall’ emergenza sanitaria e dal rischio contagio altissimo sia per i detenuti che per l’intero personale”. Nel corso delle visite alle tre case circondariali, la parlamentare ha incontrato, oltre agli agenti, i direttori e i comandanti. “Ho voluto mostrare la vicinanza della politica a queste realtà spesso dimenticate - racconta - soprattutto in questi giorni, dopo che a causa di alcune vicende sicuramente gravissime, si rischia però di penalizzare migliaia di lavoratori onesti e responsabili, servitori dello Stato che quotidianamente svolgono il proprio mestiere con serietà e rispetto delle regole, in condizioni molto stressanti”. “Ci si trova di fronte ad una carenza di organico - prosegue - che si aggira in generale intorno al 20% rispetto a quello previsto a regime. Ma i problemi non riguardano solo la questione numerica, anche l’età anagrafica; basti pensare che nell’istituto vastese l’età media dei lavoratori è di 51 anni con un’anzianità di servizio pari a 28 anni. Nell’istituto di Chieti, seppure più piccolo rispetto a quelli di Lanciano e Vasto, la mancanza di organico incide molto di più e bastano già solo le assenze per malattia a rendere impossibile al personale la garanzia dei servizi minimi di sicurezza”. “Ieri - prosegue - ho respirato davvero il senso di dedizione al proprio lavoro, lavoratori capaci di fare squadra per il bene del servizio prestato. Entrando in questi istituti è assolutamente palpabile la delicatezza del lavoro svolto dalla polizia penitenziaria, che tutela oltre tutto anche la sicurezza dell’intero personale di supporto che opera in queste realtà come i sanitari, gli assistenti sociali e tanti altri. Gli istituti penitenziari non sono solo detenzione, ma anche progetti di rieducazione e lavoro, come accade nell’istituto di Lanciano, dove ho trovato una linea di produzione della Dolciaria D’Orsogna, una vera eccellenza nel campo che con coraggio cerca un percorso anche di reintegrazione del detenuto nella società”. La deputata si è impegnata ad avviare “iniziative concrete sia sulla carenza di organico, sia su altri interventi. Sto pensando nell’immediato ad uno specifico servizio di supporto psicologico per tutta la polizia penitenziaria che ne merita sicuramente il sostegno”. Siena. La pandemia non ferma i detenuti-attori: successo per lo spettacolo al carcere La Nazione, 7 luglio 2021 L’estate culturale ha aperto nella sala teatro di Ranza. Con applausi e molto altro. Lasciando fuori del cancello tutto il resto. “Il teatro è vivo e la pandemia non ha fermato il percorso teatrale di ‘Empatheatre’, la compagnia di teatro sociale che opera insieme a Experia nelle carceri di San Gimignano, Lucca e Massa e che, da nove anni, sta portando avanti il cammino culturale dello spettacolo aperto come è oramai tradizione a inizio estate.In platea oltre ai detenuti, erano presenti il pubblico esterno e gli operatori impegnati nell’Istituto, grazie alla disponibilità del direttore Giuseppe Renna e degli agenti della penitenziaria con la collaborazione di Empatheatre e dell’area educativa guidata da Sabrina Iachini e Ivana Bruno. La compagnia di Ranza ha messo in scena due atti unici di Pirandello: ‘La Patente’ e ‘La Giara’. “Una scelta non causale - precisa la Iachini - ma è parte del percorso che Empatheatre con la direzione artistica di Alessandro J. Bianchi sta portando avanti da alcuni anni con al centro l’indagine dell’essere umano nella sua diversità che è unicità e singolarità. ‘La Patente’ ci fa riflettere sul fatto che quando non si ha la possibilità di vivere in pieno le proprie potenzialità, sensibilità, libertà, per causa propria o delle circostanze, si genera una perdita, non solo per il proprio percorso di vita, ma anche per la società stessa a cui manca quel singolare apporto”. “Sono temi - aggiunge l’educatrice - strettamente collegati alle domande di senso della persona, il nostro essere persone nella storia e nella società, e il linguaggio ironico e a tratti comico, ha permesso di conciliare la leggerezza e la profondità”. Il percorso teatrale a Ranza continua a settembre. I social network ci espropriano la democrazia e noi siamo distratti di Giorgio Meletti Il Domani, 7 luglio 2021 Venerdì scorso il garante della privacy Pasquale Stanzione. nella sua relazione annuale, ha ricordato che con i social network è in gioco la democrazia. “La sospensione degli account Facebook e Twitter di Donald Trump ha rappresentato plasticamente come le scelte di un soggetto privato, quale il gestore di un social network, possano decidere le sorti del dibattito pubblico, limitando a propria discrezione il perimetro delle esternazioni persino di un capo di stato”. Facebook e Twitter hanno espulso Trump, impedendogli di rivolgersi ai cittadini americani sui loro canali, mentre il controverso personaggio era ancora presidente in carica degli Stati Uniti, con tanto di valigetta atomica. Ne è nato un dibattito inquinato dalla simpatia o antipatia per il protagonista o riservato alla cerchia degli esperti. Manca tra i cittadini la consapevolezza della posta in gioco. Sentiamo ancora Stanzione: “Il Tribunale di Roma ha rilevato come il pur ordinario contratto privatistico di fornitura del servizio di social network soggiaccia a una peculiare forma di eteroregolazione dovuta alla sua incidenza su diritti fondamentali”. Detto in parole più semplici: un supermercato è un’azienda privata che tratta privatisticamente con i suoi clienti, però la legge gli vieta di decidere arbitrariamente chi può entrare e chi no a fare la spesa. Facebook e Twitter invece possono scegliersi gli utenti. Come se una concessionaria autostradale ammettesse alla sua rete solo gli automobilisti che, a suo insindacabile parere, guidano bene. Ci sono un fatto fondamentale e due problemi. Il fatto è che i social network per loro natura, come tutti servizi a rete, tendono al monopolio. Scelgo la carta di credito tra quelle accettate in più negozi, mentre i negozi si associano alle carte di credito più diffuse. Tutti stanno su Facebook perché sanno di trovarci tutti. I politici usano Facebook per la loro propaganda perché è il canale più efficiente. Questo fa dei social network un servizio pubblico essenziale, sia pure gestito da privati, come i telefoni. E dev’essere aperto a tutti, visto che, nella realtà storica concreta, è il principale canale della libertà di espressione garantita dall’articolo 21 della Costituzione. Primo problema: l’algoritmo di Facebook decide quali notizie farmi vedere, tra i milioni di post di ogni giorno. Stanzione parla di un “potere pervasivo di condizionamento (...) fondato su tecniche psicometriche, volto a potenziarne la capacità persuasiva adattando il messaggio alle preferenze e alle inclinazioni desunte dalla profilazione algoritmica”. Il secondo problema è ancora più evidente. Se scrivo in un post che il tale politico è un ladro commetto un reato e ne rispondo in tribunale. Se scrivo che “bisogna vietare ai barconi dei migranti di attraccare”, la cosa somiglia più a una odiosa idiozia che a un’opinione, ma non è vietata dalla legge. Però non so se è conforme ai fumosi “standard della community” e potrei trovarmi sospeso dalla piattaforma e, in caso di recidiva, espulso, sulla base di decisioni non motivate di una società privata. Essa si assume impropriamente, come rileva Stanzione, “un ruolo arbitrale rispetto alle libertà fondamentali e al loro bilanciamento, da riservare pur sempre all’autorità pubblica”. Insomma, una società privata ha il potere di negare a qualunque cittadino (o leader politico) la libertà di partecipare alla vita pubblica. Abbiamo un problema con la democrazia e non se ne può parlare solo nei convegni tra gli “esperti di internet”. Ddl Zan, nulla di fatto. Tutto rinviato al Vietnam parlamentare di Paolo Delgado Il Dubbio, 7 luglio 2021 Dopo ore di vertice e tentativi di mediazione ancora niente da fare. C’è una formula che impedisce ogni accordo: “Identità di genere”. Il testo di legge passerà direttamente all’esame dell’Aula il 13 luglio. Ore di vertice, qualche passo avanti riconosciuto anche dalla maggioranza, sia pur non ufficialmente, nella proposta di mediazione avanzata dal presidente della commissione Giustizia Ostellari, ma niente da fare. C’è una formula che impedisce ogni accordo: “Identità di genere”. La proposta Ostellari era indigesta a una parte sia della Lega, quella rappresentata dal celebre Pillon, sia di Fi, con Malan che ha messo in campo i diritti di alcune minoranze. Ma le parole magiche non c’erano e pertanto Pd, M5S e LeU, chi con maggiore e chi con minore convinzione, la hanno considerata irricevibile. Iv e la destra ha tentato di rinviare sia il voto di oggi sul calendario, di 24 ore, sia l’approdo in aula, non il 13 ma il 22 luglio. Opzioni entrambe rifiutate nonostante l’intervento della presidente Casellati a favore dello slittamento. Iv ha deciso di onorare l’accordo per cui, in cambio dell’apertura del tavolo, avrebbe approvato, pur non concordando, la calendarizzazione in aula il 13 luglio. Ma quello che si aprirà la settimana prossima non sarà un dibattito parlamentare. Sarà un’arena quasi senza regole, una battaglia che difficilmente resterà senza conseguenze. Nulla è chiaro, nulla è definito, nulla è certo. L’agenda del Senato, alla vigilia di una pausa estiva che stavolta potrebbe essere posticipata di parecchio, è fitta di impegni non prorogabili. Di fronte a un eventuale diluvio di emendamenti è impossibile dire quando la saga avrà termine. O meglio quando avrà termine questa puntata perché l’eventualità che la legge sia modificata a voto segreto e debba pertanto tornare in aula sono altissime. Era ed è invitabile? Certamente no. Tutti ammettono che il testo proposto da Ostellari segna il superamento dell’ostruzionismo e lo stesso testo è ulteriormente modificabile. Il solo scoglio è la richiesta di inserire la formula “identità di genere” che peraltro sarebbe comunque considerata ai fini dell’aggravante e che è già garantita dalle sentenze della Corte costituzionale, dunque la sua citazione nella legge è inessenziale. D’altra parte si sarebbe potuto trovare modo di nominare la formula catechistica senza incidere sulla sostanza della mediazione. A provocare lo scontro che sarà inevitabilmente incandescente, salvo possibile ma molto improbabile accordo in questa settimana, sarà la difesa di una bandiera e nulla di più, o almeno, da entrambe le parti, nulla di più sostanziale. Entrambe le fazioni ritengono che eliminare, o sul fronte opposto accettare, quella formuletta significherebbe per il proprio elettorato “perdere la faccia”, rinunciare a un elemento identitario.Sarebbe grave ma comune se la questione creasse un solco tra maggioranza e opposizione. In questo caso, invece, lo crea all’interno di una maggioranza che, pur se anomala, tale resta. Per questo la guerra del ddl Zan non promette nulla di buono. E’ infatti essenziale che la maggioranza, pur se combattendosi come è inevitabile dati i suoi caratteri, mantenga almeno un filo se non di vera solidarietà almeno di forzosa unità. Un clima da contrapposizione frontale e guerra guerreggiata, tanto più con la crisi dei 5S tutt’altro che superata e dagli esiti comunque imprevedibili, è una mina vagante ad alto potenziale esplosivo.Nel giro pochi mesi, inoltre, si arriverà all’appuntamento fatale con l’elezione del nuovo capo dello Stato e lì l’assenza di quel filo unitario di fondo nella maggioranza può innescare davvero una tritacarne dalle conseguenze imprevedibili. E’ possibile che la manovra Di Renzi miri proprio a un avvicinamento con la destra in vista di quell’appuntamento. Ma, intenzionale o no, questo sarà comunque il risultato del fronteggiamento sulla Zan e non faciliterà le cose quando si arriverà al momento di dover scegliere il successore di Sergio Mattarella. Sul fronte della destra, inoltre, la scelta bellica sulla Zan è una vittoria netta per la posizione intransigente di FdI, contraria in modo secco alla legge, e un indebolimento della liea molto più mediatrice non solo di Fi ma anche, almeno nell’ultima fase, della Lega. Nella sfida non solo per la leadership ma anche per la natura della destra la vicenda della legge Zan peserà più di quanto non si creda. A meno che, a questo punto quasi per miracolo, nei prossimi giorni le fazioni non decidano di rinunciare alle loro bandierine. La legge Zan va in aula ma Renzi è pronto a fermarla col voto segreto di Daniela Preziosi Il Domani, 7 luglio 2021 Dopo settimane di stallo, Pd e Cinque stelle rompono il blocco della Lega e dimostrano che, almeno col voto palese, una maggioranza in Senato c’è. Il 13 luglio si parte, ma ci sono ancora molte incognite. L’ora della verità dura per tutto il giorno ieri al Senato ma finisce come talvolta capita nella politica e cioè nel suo esatto contrario. Il leghista Andrea Ostellari, il presidente della commissione Giustizia del Senato che per sette mesi ha tenuto la legge Zan contro l’omofobia inchiodata al palo e ha disposto 170 audizioni, poi calate a 70 in presenza e 70 scritte - sono ancora in corso - accusa Pd e Cinque stelle di fare “una forzatura” e di “non voler discutere” per aver imposto, con la forza dei numeri, di calendarizzare la legge in aula, dove arriverà il 13 luglio. Le destre di governo e di opposizione, che fino a due mesi fa sostenevano che “non c’è bisogno di una legge”, adesso accusano Pd e Cinque stelle di voler affossare la legge. Ma c’è una ragione più eclatante del mondo alla rovescia. Da giorni Matteo Renzi e i senatori di Italia viva paventano, avvisano, profetizzano la modifica in aula della legge Zan sotto i colpi dei voti segreti, che verranno chiesti e concessi nel corso della discussione (in forza dell’art.113 del regolamento del Senato, su richiesta da 15 senatori o da presidenti di gruppi di pari consistenza su temi che “incidono sui rapporti civili ed etico-sociali”). Ieri però, a voto palese, la ex maggioranza giallorossa (M5s, Pd, Leu e Iv più un plotoncino del gruppo misto e delle autonomie), il calendario d’aula è stato approvato. “Quindi vuol dire che i voti ci sono”, twitta il segretario Pd Enrico Letta dopo una giornata di malumori per aver deciso la linea di mediazioni zero, “Allora, in trasparenza e assumendosi ognuno le sue responsabilità, andiamo avanti e approviamolo”. I voti ci sono, a voto palese però. Sospetti e dispetti incrociati - Il Pd sospetta Renzi di essere pronto a votare con le destre per fare un dispetto a Letta. Renzi “rivela” che nel Pd e nei Cinque stelle ci sono malpancisti. Il senatore Ettore Licheri, grillino, sostiene che sono “cinque o sei” i colleghi in preda a tormenti etici. Nel Pd sono due le senatrici che apertamente hanno espresso dissenso sulla legge, Valeria Valente e Valeria Fedeli, assicurando però che voteranno sì. Un senatore cattolico ha confidato ai suoi colleghi la sua difficoltà a votare sì, il suo nome viene protetto ma dovrebbe trattarsi del piemontese Mino Taricco. In realtà forse i voti non mancano. Abbondano però i veleni. Al Senato c’è qualche malumore off the record sul no alla “mediazione” proposta in extremis dalla Lega e da Italia viva. La campagna pro Zan “Dà voce al rispetto” dà voce anche al sospetto che “i componenti della corrente franceschiniana non voterebbero il ddl Zan” e come indizio viene utilizzato un “no comment” espresso dal ministro Dario Franceschini in mattinata sulla legge. Per il senatore Franco Mirabelli, che ha condotto la battaglia in commissione, “il Pd tiene e non credo che dal voto segreto avremo sorprese negative. Potremmo perderne qualcuno dalla maggioranza, ma acquisirne qualcuno dall’opposizione”. Del resto per il Pd e i Cinque stelle la mediazione proposta da Ostellari è “una schifezza inaccettabile”. Per rendere potabili per la Lega le proposte che ha fatto Italia viva, viene cancellata la definizione “identità di genere” (si offre tutela “contro ogni forma di discriminazione fondata sul sesso, genere e orientamento sessuale nonché contro ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità”) e si depennano le iniziative nelle scuole. Niente da fare. Dopo la riunione, una nuova riunione fra Pd, Cinque stelle, Leu con il Gruppo delle autonomie che spinge per accettare la proposta della Lega, altre 24 ore per mediare ancora. Verso il verdetto - Nel pomeriggio l’aula conferma il calendario d’aula. Il 13 luglio la legge inizia il suo iter. La votazione conferma che la maggioranza c’è, a voto palese e con Italia viva. Davide Faraone, capogruppo renziano, appoggia la richiesta di rimandare la discussione al 20 luglio, o al 22, che arriva dalle destre: “Il presidente Ostellari ci ha sottoposto una proposta che per noi è perfettibile, ma è una proposta che ha avvicinato tantissimo le posizioni presenti in questo Senato. La data certa veniva mantenuta, erano chieste 24 ore per votare il calendario mercoledì invece che martedì”. Ma poi si arrende e vota con i giallorossi. La forzista Anna Maria Bernini, che pure definisce la Legge Zan “un importante passo in avanti per la nostra civiltà” promette collaborazione vera in cambio di modifiche. Il leghista Massimiliano Romeo racconta di aver ricevuto le preghiere di Arcilesbica “per favore cambiate questa legge” e accusa Pd e Cinque stelle di “avvelenare il clima politico della maggioranza di governo”. Letta è consapevole dei pericoli che corre la legge. “Oggi abbiamo messo la parola fine a sette mesi di ostruzionismo e di giochi al ribasso sui diritti”, è il ragionamento che circola al Nazareno, “Da qui al passaggio in aula ci sono sette giorni. Che siano quelli della serietà e della coerenza. In ballo c’è una legge di civiltà e il Senato è la sede in cui tutti devono assumersi la responsabilità di fronte al paese”. Qual è davvero l’interesse nazionale nelle missioni militari di Mario Giro Il Domani, 7 luglio 2021 Lungo le coste dell’Africa orientale sta avvenendo un rivolgimento geopolitico di grandi dimensioni di cui è fondamentale conoscere l’ampiezza per prevenire le conseguenze. L’Italia è tra i paesi più interessati alla stabilità dell’intera macroregione: possiede interessi economici importanti (dal Golfo, all’Egitto, al Sudan, al Kenya, alla Tanzania e all’Etiopia); basi (Emirati - in chiusura - e Gibuti) e operazioni militari (Somalia tra le altre); ha una storica presenza in Mozambico e un’antica relazione con l’Eritrea. A conti fatti nella Ue l’Italia è il paese con più interazioni senza discontinuità in tutta l’area, mentre - dopo la Brexit- gli altri stati membri sono coinvolti in maniera meno estesa e più puntuale. Nei giorni in cui inizia in parlamento la discussione sul decreto missioni militari all’estero, tale consapevolezza è utile per le commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato. Nel mar Rosso e lungo tutta la costa africana bagnata dall’oceano indiano il nostro paese è esposto economicamente e ha interessi militari e politici. La nostra tradizionale linea per la pace e la stabilità è messa a rischio da una moltitudine di fatti strategici tra i quali: la competizione tra Egitto, Russia, Emirati e Turchia per il controllo dei porti e delle basi a uso duale (commerciale e militare) lungo tutta la costa; gli ostacoli alla libertà di commercio e la crisi debitoria di alcuni paesi, tra cui l’Etiopia, proprio nel momento in cui il nostro paese ha la presidenza del G20; l’intricata diatriba sulla base negli Emirati; la stabilità della giovane democrazia sudanese; il futuro della Somalia; gli importanti investimenti in Kenya e Tanzania; la difesa della posizione leader dell’Eni; l’intenzione della Cina di crearsi una base navale. A ciò si sono aggiunte due prove da far tremare i polsi: la crisi dell’Etiopia e quella jihadista del nord Mozambico. In entrambi i paesi l’Italia rappresenta un partner storico. Davanti a tale quadro occorre acuta coscienza delle minacce e chiarezza sul nostro interesse nazionale. In Etiopia la posta in gioco è enorme: se non si frena la guerra in Tigray la frattura sfascerebbe tutto il Corno causando lo scivolamento dell’Ogaden nelle sabbie mobili somale; l’acuirsi del contenzioso con l’Eritrea; la tentazione secessionista oromo e la fine di un paese millenario. Ci sarebbero conseguenze gravi in Somalia, così difficilmente tenuta a galla; a Gibuti, fino in Kenya e così via. Se ad Addis si tratta di mettere in campo forme di pressione politica, in Mozambico si può affrontare la crisi jihadista partecipando attivamente e da subito alla nascente operazione europea. L’Italia ha tutte le carte in regola per giocarvi un ruolo da protagonista e non da comprimaria. Solo per fare un esempio: la presenza della nostra marina militare potrebbe spezzare il flusso di aiuti che arriva ai jihadisti via oceano. Non si tratta di andare in funzione combat ma di sfruttare fino in fondo le capacità stabilizzatrici e pacificatrici dei nostri militari, ben apprezzate nel mondo. Siamo intervenuti e interveniamo con missioni in paesi terzi su invito dei nostri alleati. È ora di pensare a interventi soprattutto in base al nostro interesse nazionale. Turchia. Sulla crisi senza fine di Erdogan anche lo spettro dei bambini soldato di Vittorio Da Rold Il Domani, 7 luglio 2021 Mentre il presidente Recep Tayyip Erdo?an precipita nei sondaggi a causa di una crisi economica sempre più dura con un’inflazione al 17 per cento, la lira sempre più debole e la disoccupazione al 14 per cento, gli Stati Uniti hanno inserito la Turchia in un elenco di paesi accusati di essere implicati nell’uso di bambini soldato per le loro campagne militari, una mossa assolutamente inedita che rischia di complicare ulteriormente i già tesi rapporti tra Ankara e Washington dopo il clamoroso riconoscimento americano del “genocidio armeno” da parte dell’impero Ottomano nel 1915. Bimbi soldato - Ora arriva un nuovo motivo di tensione tra i due paesi: il Dipartimento di stato americano ha stabilito nel suo rapporto annuale sul traffico di esseri umani (Tip, Trafficking in persons) che la Turchia sta fornendo “sostegno tangibile” alla divisione “Sultan Murad” di stanza in Siria, un gruppo armato composto da combattenti turkmeni siriani che, secondo Washington, recluta e mette sul campo minorenni tra le fila dei suoi combattenti. Un alto funzionario del Dipartimento di stato, citato dalla stampa internazionale, ha parlato di un possibile utilizzo di bambini soldato anche in Libia, sottolineando la speranza (o meglio la richiesta) di Washington di aprire un dialogo reale con Ankara per affrontare e risolvere la delicatissima questione e l’inizio del ritiro dei mercenari turchi dalla Tripolitania. È infatti la prima volta che un paese membro della Nato viene inserito in questo tipo di lista. E non è certo un bel viatico visto che Ankara è anche l’unico paese Nato ad aver acquistato missili S-400 dalla Russia, il “nemico” dell’alleanza atlantica, invece dei patriot americani. La Turchia ha effettuato nel recente passato alcune operazioni transfrontaliere in Siria contro i miliziani dello Stato islamico (Is) e contro le milizie curde sostenute dagli Stati Uniti (Ypg), spesso cooptando tra le sue fila gruppi di combattenti siriani arruolati tra i ribelli anti-governativi. Alcuni di questi gruppi sono stati accusati da associazioni per i diritti umani e dalle Nazioni Unite di attaccare indiscriminatamente civili e compiere rapimenti e saccheggi, accuse che Ankara ha definito “infondate”. La Turchia ha anche svolto un ruolo molto assertivo e di fornitura di aiuti militari in Libia con l’invio sul terreno di mercenari siriani e droni armati, a sostegno di quello che era il Governo di accordo nazionale (Gna), guidato dal premier Fayyez Al Sarraj e in opposizione al generale Haftar, quest’ultimo sostenuto dai russi. Lasciare l’Afghanistan - I governi inseriti nella lista relativa ai bambini soldato sono soggetti a restrizioni su alcuni servizi di sicurezza e per quello che riguarda licenze commerciali per attrezzature militari, almeno in assenza di un’apposita deroga presidenziale di Biden, una possibilità per ora molto remota. Il portavoce del Dipartimento di stato Usa, Ned Price, ha assicurato che l’inserimento della Turchia nella lista non è da ritenersi collegato ai negoziati in corso sulla potenziale gestione dell’aeroporto di Kabul, in Afghanistan, paese dal quale le forze statunitensi completeranno il ritiro entro l’11 settembre prossimo dopo venti anni di permanenza. I presidenti Recep Tayyip Erdo?an e Joe Biden, hanno raggiunto un accordo verbale all’inizio di questo mese durante gli incontri nella sede Nato di Bruxelles che vedrebbe la Turchia assumere il controllo della sicurezza dell’aeroporto internazionale di Kabul dopo il ritiro della stragrande maggioranza delle forze Nato dall’Afghanistan. La reazione turca - Il ministero degli Esteri turco non si è fatto attendere e ha definito “infondate” e “inaccettabili” le accuse americane sulla presenza di bambini soldato nelle milizie sostenute da Ankara in Siria e Libia. “Gli Stati Uniti sperano di lavorare con la Turchia per incoraggiare tutte le parti coinvolte nei conflitti in Siria e Libia a non utilizzare bambini soldato”, aveva dichiarato un funzionario del dipartimento di stato. La nota del ministero turco ha replicato negando le accuse e accusando gli Usa di non aver preso in considerazione l’utilizzo di bambini soldato nelle milizie curde in Siria e Iraq. In questo quadro sempre più destabilizzante la Turchia ha fatto sapere che continuerà le sue controverse esplorazioni in cerca di idrocarburi nel Mediterraneo orientale e al largo di Cipro. Lo ha ribadito Erdo?an domenica 4 luglio. “Dovunque ci sono nostri diritti, in un modo o nell’altro ce li prenderemo”, ha affermato il leader di Ankara in modo assertivo e per niente incline alla mediazione, sottolineando che il 20 luglio intende recarsi a Cipro Nord per l’anniversario dell’intervento militare turco del 1974, (compiuto in risposta a un tentativo di golpe che voleva unire l’isola alla Grecia), nonostante le dure critiche Ue alla visita. La zona di Cipro Nord occupata da 40mila soldati turchi non è riconosciuta da nessuno stato salvo appunto la Turchia. “Siamo in Libia, siamo in Azerbaigian, siamo in Siria, siamo nel Mediterraneo orientale, e ci resteremo”, ha aggiunto Erdo?an nei consueti toni belligeranti a caccia disperata di un consenso che è sempre più evanescente di fronte a politiche avventuriste in politica estera e sempre meno convincenti in economia e per gli investitori internazionali chiamati a colmare il disavanzo delle partite correnti. Il rapporto della Bers - Secondo l’ultimo report di previsioni della Bers, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo sulla Turchia, le riserve lorde del paese della mezzaluna sul Bosforo arrivano a 88 miliardi di dollari, mentre le riserve nette, esclusi gli swap, sono ritenute essere negative, a meno 45 miliardi di dollari. I dati devono essere considerati nel contesto di passività esterne (tra cui prestiti in scadenza in valuta forte, ndr), dovute nei prossimi dodici mesi, per circa 220 miliardi di dollari, incluso un deficit delle partite correnti pari a circa 36 miliardi di dollari. L’inflazione resta “ostinatamente alta”, quasi al 17 per cento nel maggio 2021, in parte a causa del deprezzamento della lira registrato nel 2020. Il cambiamento del team economico nel novembre 2020, inclusa la nomina di un nuovo governatore della Banca centrale (Naci Agbal), prosegue il rapporto della Bers con sede a Londra, ha determinato il varo di una politica monetaria più restrittiva, con un aumento complessivo di 875 punti base dei tassi. La stretta creditizia ha provocato una significativa riduzione del premio per il rischio, la stabilizzazione della lira e un ritorno dei flussi di investimenti, ma il sentimento positivo associato alla “svolta ortodossa” è stato ribaltato con la sostituzione del governatore della Banca centrale - attualmente Sahap Kavcioglu - nel marzo 2021 da Erdo?an da sempre sensibile alle richieste di denaro a basso costo degli immobiliaristi e costruttori turchi. Per ora le preoccupazioni degli investitori di un ritorno a politiche non ortodosse non si sono ancora avverate, sottolinea il rapporto della Bers: i tassi sono invariati e il governatore ha promesso di restare cauto. Tuttavia, con l’alternarsi di quattro governatori in due anni la credibilità delle politiche monetarie è bassa, rileva la Bers, e la Turchia è vulnerabile ai cambiamenti del sentimento degli investitori internazionali. In termini di Pil il forte momento di crescita registrato nella seconda metà del 2020 è proseguito nel primo trimestre 2021, con una crescita su base annua del 7 per cento; altri indicatori suggeriscono tuttavia che la ripresa abbia cominciato a perdere forza nel secondo trimestre. Durante quest’anno e l’anno prossimo, la crescita sarà guidata dall’export, vista la debolezza della domanda interna dovuta alla situazione finanziaria delle famiglie e l’impatto delle misure contro il Covid. Tra i rischi che gravano sulle previsioni, conclude il rapporto, ci sono la possibilità di un ritorno ma rallentato del turismo, potenziali interruzioni del piano di vaccinazioni, l’aumento dell’inflazione nelle “economie avanzate” con aumento dei tassi e “sviluppi geopolitici avversi”. Un quadro più che allarmante per Erdo?an. Bielorussia. Condanna senz’appello per Viktor Babariko, il rivale di Lukashenko di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 7 luglio 2021 È una condanna farsa che mette fine a un processo farsa in cui l’imputato non potrà ricorrere in appello. Viktor Babariko, ex amministratore delegato della banca Belgazprombank, appena 11 mesi fa sfidava il padre-padrone della Bielorussia Alexandr Lukashenko (al potere da oltre 26 anni) come candidato principale dell’opposizione. Oggi è un politico e un uomo finito: dovrà infatti scontare 14 anni di reclusione in una colonia penale di massima sicurezza e pagare una multa di 18 milioni di dollari. Così ha deciso la Corte suprema che lo ha riconosciuto colpevole di corruzione (avrebbe intascato delle tangenti) e cospirazione: per i verdetti della più alta istituzione giuridica del Paese è previsto c un unico grado di giudizio inappellabile. Altre otto persone sono state condannate nello stesso processo. Tranne Babariko, tutti hanno patteggiato la pena. La sua più vicina consigliera, Maria Kolesnikova, è stata una delle tre figure femminili che hanno guidato la protesta dell’opposizione dopo il suo arresto con decine di migliaia di persono che sono scese in piazza scontrandosi contro il muro di repressione del regime. Lei stessa è stata incarcerata dopo aver rifiutato di andare in esilio ed è stata perseguita per “cospirazione politica per prendere il potere”. Il procedimento penale contro gli ex alti dirigenti della Belgazprombank è iniziato a Minsk lo scorso febbraio. Secondo la procura di Minsk una banda legata al crimine organizzato sfruttava le attività della banca, sotto la guida di Babariko, prelevando denaro all’estero. Il nucleo del gruppo criminale si sarebbe formato entro nel 2008, e sino al 2020 l’ex banchiere avrebbe coordinato le azioni dei suoi membri, stabilendo l’incarico di ognuno e assegnando loro remunerazioni illecite. L’avvocato Dzmitry Layeusk parla di “sentenza politica vergognosa” e poiché in Bielorussia non esistono tribunali superiori a cui appellarsi annuncia un ricorso al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Babariko, 57 anni, si era dimesso nel maggio dello scorso anno dalla banca di proprietà della Gazprom PJSC statale russa per correre contro Lukashenko alle elezioni presidenziali. In poche settimane, le autorità lo hanno arrestato dopo aver aperto un’indagine criminale nella banca. Babariko è stato tenuto in prigione per più di un anno dal servizio di sicurezza dell’ex repubblica sovietica, che ancora oggi è chiamato KGB. Da quando ha rivendicato la vittoria con l’80% delle elezioni di agosto denunciate come fraudolente dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, Lukashenko ha condotto un’incessante campagna di repressione contro gli oppositori. Mentre l’Occidente ha risposto con sanzioni, il presidente russo Vladimir Putin ha sostenuto il suo alleato e rafforzato i legami con la Bielorussia oggi come mai protetta dal Cremlino. Centinaia di attivisti sono tuttora in carcere o sono fuggiti all’estero dopo la violenta repressione della polizia durante le manifestazioni di protesta, con diffuse accuse di tortura in custodia raccolte dalle organizzazioni umanitarie e da osservatori indipendenti. Sul caso Barbariko è intervenuta l’Unione europea, denunciando un processo fuori dal perimetro dello Stato di diritto e chiedendo l’immediata liberazione dell’oppositore. In una nota ufficiale il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) afferma che Babariko è detenuto “per il solo motivo di aver cercato di esercitare il suo diritto politico di candidarsi alle elezioni presidenziali dell’agosto 2020”. Per il Seae, “questa sentenza è uno degli almeno 125 recenti verdetti ingiusti e arbitrari dei tribunali bielorussi in processi politicamente motivati, spesso tenuti a porte chiuse e senza un giusto processo legale”. Birmania. Denuncia i soldati che l’hanno violentata e riesce a farli condannare di Raimondo Bultrini La Repubblica, 7 luglio 2021 Il coraggio di Thein Nu. Il tribunale militare infligge una pena di 20 anni di lavori forzati ai tre responsabili dello stupro. “Se fossi stata zitta non so quante altre donne avrebbero subito abusi in silenzio”. È un giorno qualunque del giugno scorso durante una delle tante guerre dimenticate nell’Arakan birmano. Quando Thein Nu, 36 anni, sente le armi da fuoco sparare a poca distanza da lei prende uno dei suoi 4 figli e corre assieme ad altri familiari e donne del villaggio a casa della suocera. Ma attorno a mezzanotte i soldati dell’esercito del Myanmar le scoprono dopo aver sentito il pianto di un bambino. Illuminata da una torcia in faccia, scelgono di violentare lei, la più giovane del gruppo, certi dell’impunità goduta da tutti i loro commilitoni birmani spediti a domare la ribellione armata nello Stato dei separatisti dell’Arakan Army. Sono in quattro, uno solo assiste per coprirgli le spalle. Ma gli stupratori in uniforme sottovalutano la personalità della donna: grazie alla sua denuncia nei giorni scorsi tre di loro sono stati condannati dal “loro” tribunale militare a 20 anni di lavori forzati. È un prezzo mai pagato finora da nessuno dei tadmadaw, i soldati della etnia di maggioranza bamar, o buddhisti birmani come la leader e Nobel della Pace Aung San Suu Kyi. Thein Nu - anche lei buddhista - è il nome che le ha dato l’agenzia France Presse alla quale la donna ha raccontato la sua storia di riscatto inusuale in queste regioni dove regnano terrore, fame e ignoranza. Rivela risvolti familiari tristi e ulteriormente significativi della difficoltà per una donna meno determinata di lei a denunciare i suoi aguzzini. Suo marito, da anni emigrato in Thailandia per sfuggire a guerra e fame mantenendo la famiglia, l’ha ripudiata appena saputo cosa era successo e ha smesso di mandarle i soldi mensili che le permettevano di sopravvivere assieme ai numerosi figli. “Molte donne come me hanno già sopportato la stessa cosa”, ha detto Thein Nu all’Afp. “Se fossi stata zitta non so quante altre sarebbero ancora abusate in silenzio. È un invito alle altre di fare come me”. Lo stigma sociale non è stato però il maggiore ostacolo incontrato da Nu nella sua ricerca di giustizia. I militari da lei accusati e riconosciuti, hanno detto che si era inventata tutto, ma i giudici con le stesse uniformi non li hanno creduti. Hanno capito che il volto di Nu, mentre raccontava che cosa le era successo, non era quello di un’attrice ma quello di tante donne come lei, che avrebbero voluto denunciare le sevizie subite e hanno preferito di no perché è quasi sempre stato inutile e dannoso farlo. “Sono sia felice che triste”, ha spiegato Nu all’agenzia di stampa dicendosi ancora incredula della decisione del tribunale. “Non credo certo che questo verdetto fermerà gli stupri e gli abusi contro le donne nelle aree di conflitto perché loro (i militari) sono persone inaffidabili con due facce”. In ogni caso la punizione dei tre tadmadaw è stata pubblicizzata ampiamente da fonti militari e media governativi per dimostrare la trasparenza delle indagini effettuate nel Paese sulle denunce di abusi umanitari. Forse il Myanmar ha deciso di recuperare almeno in parte l’immagine inquietante trasmessa al mondo con il massacro e l’esodo dei musulmani Rohingya che vivevano a loro volta in Arakan lungo i confini col Bangladesh. I suoi generali e ufficiali sono per questo sotto istruttoria processuale all’Aia per crimini contro l’umanità, e le denunce di stupro delle donne Rohingya costituiscono migliaia di pagine del dossier delle stesse Nazioni Unite, che i generali considerano “manipolato” e “falso”. Seppure soddisfatti dal precedente importante stabilito da Thein Nu, molti attivisti spiegano che è troppo presto per giudicare se d’ora in poi ci sarà davvero una svolta nel comportamento etico delle forze armate. Phil Robertson di Human Rights Watch ne dubita, ricordando il passato di negazioni e perfino controdenunce per diffamazione contro le vittime. Thein Nu dal canto suo vuole vedere davanti alla gustizia anche il quarto ufficiale anziano e la Corte ha già annunciato che sarà interrogato e indagato. Nel frattempo, da quando sono state emesse le condanne, sono aumentate le denunce di altre vittime di stupro. Lo ha rivelato Nyo Aye, presidente dell’Arakan Women Network che ha fornito a Nu e figli assistenza legale, consulenza e rifugio. “Per ora manteniamo viva la speranza - ha aggiunto - che accadrà lo stesso per casi simili accaduti in altre aree etniche del Paese”. La coraggiosa Nu ora aspetta con trepidazione un altro verdetto non legale che - spera - arriverà col tempo, se suo marito deciderà di riprenderla con sé assieme ai bambini. “Soffro silenziosamente per questo dolore, posso solo sperare che gradualmente mi capirà “, ha detto all’Afp. Libano vicino al crac: benzinai presi d’assalto, niente cibo né medicine di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 7 luglio 2021 A 11 mesi dall’esplosione al porto di Beirut, la Banca Mondiale ha definito la crisi “tra le tre più gravi sul nostro Pianeta dalla metà dell’Ottocento”. La crisi è talmente catastrofica che gli esperti della Banca Mondiale non esitano a definirla “tra le tre più gravi sul nostro Pianeta dalla metà dell’Ottocento”. Lo testimoniano le code di intere giornate ai distributori, i tagli continui alla rete elettrica nazionale, la mancanza di beni essenziali come le medicine, i supermercati chiusi, il crollo dei salari, il quasi azzeramento del valore della moneta nazionale e le banche serrate. Immaginate cosa significhi per un’intera popolazione scoprire che i risparmi sono congelati, non solo non c’è accesso al credito, ma soprattutto si deve vivere alla giornata, occorre arrangiarsi tra mercato nero, corruzione imperante e assenza di aiuti pubblici. Parliamo del Libano. Poco meno di un anno fa i suoi circa 6 milioni di abitanti (inclusi oltre un milione di profughi siriani arrivati dal 2011) credevano genuinamente di avere toccato il fondo. La terribile esplosione del 4 agosto che aveva devastato il cuore di Beirut (almeno 200 morti, circa 6.000 feriti e danni per miliardi di euro) era stata letta allo stesso tempo come l’ennesima prova dell’inefficienza cronica di una classe politica e amministrativa corrotta sino al midollo, ma anche quale occasione di riforme e riscatto nazionale. Le circa 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio giacevano da oltre 7 anni in un hangar semi-abbandonato nella zona commerciale del porto. Emerse presto che non c’era traccia di attentato, seppure diversi politici e commentatori avessero puntato il dito contro “nemici esterni” e non meglio chiariti “complotti” locali funzionali alla loro causa. Si era piuttosto trattato di un incidente. Avevano provocato la deflagrazione un banalissimo cortocircuito, unito al calore dell’estate e al particolare assurdo per cui accanto al nitrato estremamente esplosivo erano accatastate scatole di fuochi d’artificio. Ma la cosa era in realtà ancora più grave. Sbatteva in faccia a tutti ciò che ogni libanese ben conosce nell’intimo: la Stato è fallito, i partiti tradizionali a parole si fanno la guerra, ma nei fatti cooperano sottobanco per restare a spartirsi la gestione del Paese. Il riscatto sperato nel 2020 non è mai avvenuto: al contrario, oggi prevale la stagnazione. L’Orient le Jour, il quotidiano in lingua francese vicino alla componente anti-siriana della comunità cristiana locale, sottolinea che la mancanza di carburante è alimentata dai contrabbandieri collusi con i partiti e le forze di sicurezza che ne permettono la vendita illegale al regime di Bashar Assad. Il motivo è presto detto: in Libano il carburante è fortemente sussidiato dalle casse pubbliche, venderlo invece in Siria a prezzi molto più alti garantisce enormi incassi in nero, che vengono poi spartiti tra le autorità coinvolte. A complicare la crisi sta anche il fatto che il collasso dell’economia siriana ha praticamente azzerato gli scambi commerciali col Libano, una volta valevano miliardi. Non è strano che ieri Hassan Diab, il premier dimissionario da circa 10 mesi ma costretto a dirigere il governo di transizione, abbia lanciato una drammatica richiesta di aiuto alla comunità internazionale paventando “l’imminenza di una grave e violenta esplosione sociale”. In pochi mesi il prodotto interno lordo si è ridotto del 40 per cento. Due anni fa il dollaro valeva meno di 1.000 lire libanesi, oggi più di 18.000 al mercato nero (il cambio ufficiale, che nessuno usa, è fermo a 1.500). Per far fronte alle difficoltà la popolazione si adatta: niente ascensori, in famiglia si fanno i turni per stare in fila ai distributori, comunque si va a piedi, cresce il mercato dei pannelli solari. Soprattutto, chi può emigra e ciò impoverisce privando il Paese dei professionisti migliori. Tra i più colpiti, le vittime del Covid che non trovano cure.