La moralità che serve allo Stato di Sabino Cassese Corriere della Sera, 6 luglio 2021 Carceri, bisogna sapere subito quanto siano estese le violazioni del diritto e della giustizia. La polizia penitenziaria nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (e in molti altri luoghi di pena), i carabinieri in caserme di Roma e di Piacenza, gli stessi magistrati (osservatori autorevoli come Luciano Violante e Guido Neppi Modona hanno lamentato il preoccupante aumento di magistrati coinvolti in indagini penali): che fare se i custodi della virtù si macchiano essi stessi di gravi colpe, spesso nei luoghi dove dovrebbe essere difesa la giustizia, abusando della propria autorità? Il grande sociologo Max Weber ha scritto che lo Stato ha il monopolio dell’uso della forza, in vista dell’attuazione dell’ordinamento, aggiungendo, però, che tale uso deve essere legittimo. I manganelli adoperati a Santa Maria Capua Vetere erano gli stessi di quelli della polizia di Scelba: ma quest’ultima li adoperava (non sempre) per impedire illegittimità o reprimerle, nel carcere campano sono stati adoperati per arrogarsi un illecito potere di punire. Carabinieri e magistrati hanno in qualche caso commesso il tipo di reati che dovevano perseguire, dalla truffa allo spaccio di droga. I vertici della polizia penitenziaria, dichiarando la propria incolpevolezza perché ignoravano l’accaduto, hanno implicitamente rivelato la loro incapacità. È ora bene che la giustizia venga restaurata e i colpevoli puniti, sollecitamente, ma senza venire incontro a sentimenti popolari. Inoltre, non dovrebbero farsi condizionare dalla rivolta dell’opinione pubblica, rifuggendo da quella “giustizia da cadì” che Max Weber criticava. Ma, indipendentemente dal corso della giustizia, che cosa farà lo Stato per ristabilire la sua moralità in futuro, per evitare il ripetersi di questi fenomeni? Ecco un piccolo elenco delle azioni necessarie in uno Stato ben ordinato. Innanzitutto, quello che è accaduto dentro e fuori di caserme e carceri, i reati commessi da coloro che amministrano la giustizia, dall’ultimo secondino al più alto magistrato, sono casi isolati o mali diffusi? Bisogna sapere subito quanto estese sono le violazioni del diritto e della giustizia commesse dagli uomini e dalle donne che dovrebbero assicurarne il rispetto. Una inchiesta amministrativa comprensiva e accurata è necessaria. In secondo luogo, siamo sicuri che alla macchina siano preposte le persone giuste? I magistrati sono selezionati e poi formati per esercitare le funzioni giudicanti. Si può ragionevolmente dubitare che siano in grado anche di guidare il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Altrimenti, avrebbero scelto meglio i loro collaboratori, avrebbero avuto linee di comando più funzionali, avrebbero saputo quel che accadeva nei penitenziari. E sarebbero stati informati del tentativo di occultare le responsabilità. Gli eventi recenti hanno mostrato un deficit di professionalità al quale va posto rimedio. Il ministero della Giustizia è un pezzo dell’apparato esecutivo; non può esser gestito da coloro che sono stati selezionati per sedere nelle aule di giustizia. Le dichiarazioni dei capi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sono l’indizio che questa esondazione dell’ordine giudiziario è all’origine di molte altre illegittimità e inefficienze. Terzo: c’è un deficit formativo. Chi, nelle caserme e nelle carceri, è in contatto con accusati e condannati dovrebbe conoscere quel che la Costituzione dispone sulla dignità di uomini e donne e quello che Bettiol, Leone, Moro intendevano quando, alla Costituente, scrissero che la pena non deve esser contraria al “senso di umanità” e deve “tendere alla rieducazione del condannato”. Quarto: in questo ripristino della moralità dello Stato occorre che si impegnino anche i molti capaci e meritevoli addetti ai lavori, le stesse forze dell’ordine e gli stessi magistrati. È innanzitutto a loro che spetta l’onere di cercare i modi per autocorreggersi. Sono loro che vivono a contatto quotidiano con il malfunzionamento di quello che una volta si chiamava apparato repressivo dello Stato. Magistrati e forze dell’ordine hanno il compito di difendere i cittadini. Ora si ha l’impressione che in qualche caso le parti siano invertite: i cittadini debbono difendersi da magistrati e forze dell’ordine. Bisogna correre ai ripari, ristabilire la moralità dello Stato, restaurare l’immagine del potere pubblico. Quei 12 morti in carcere “perlopiù” farodiroma.it, 6 luglio 2021 Per 15 mesi nessuno ha cercato la verità sui decessi dei detenuti durante le rivolte dell’anno scorso. “Dodici i morti tra i detenuti per cause che, dai primi rilievi, sembrano perlopiù riconducibili ad abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini”. Fu questa la laconica risposta dell’allora ministro Bonafede alle interrogazioni parlamentari sui decessi durante le rivolte carcerarie dell’anno scorso legate all’emergenza Covid. “Tutto qui - avevamo scritto l’11 marzo 2020 su questo giornale online - nemmeno un chiarimento su quella che è stata una strage che non ha precedenti. Certo erano ragazzi poveri, sembra fossero tutti tunisini, forse pusher… Ma un paese civile non può accontentarsi di un ‘perlopiù’ come spiegazioni di un fatto gravissimo e senza precedenti come la morte di 12 ragazzi in carcere. È inaccettabile”. Ed ora veniamo ad apprendere che c’è un’inchiesta ministeriale su quei decessi, smossa anch’essa dalle immagini delle vessazioni di Santa Maria Capua Vetere. Tra il 7 e il 10 marzo ci furono 13 morti: tre a Rieti, uno a Bologna e nove nella Casa Circondariale Sant’Anna di Modena, direttamente nell’istituto penitenziario o mentre i detenuti, in condizioni d’emergenza senza che però nessuno li ritenesse in pericolo di vita, venivano trasportati verso altri istituti. Su ciò che accadde in quelle circa 60 ore sono state svolte indagini contro ignoti, con le ipotesi di reato di omicidio colposo e morte come conseguenza di altro delitto. Il gip Andrea Romito, il 17 giugno, ha deciso l’archiviazione del caso su richiesta degli stessi pubblici ministeri. Secondo il gip “la causa unica ed esclusiva del decesso dei carcerati fu “l’asportazione violenta e l’assunzione di estesi quantitativi di medicinali correttamente custoditi all’interno del locale a ciò preposto. In pratica, riassumendo: i detenuti hanno fatto tutto da soli”. Ma gli avvocati delle famiglie dei detenuti morti, e altri esperti che hanno seguito la vicenda, ritengono che le cose che ancora non sappiamo di quanto successe in quei giorni siano molte, e che servirebbero altre indagini per chiarire come siano morte almeno alcune di quelle persone. Intanto cinque agenti penitenziari sono stati rinviati a giudizio, a vario titolo, per i reati lesioni aggravate, falso, calunnia, violenza privata, abuso d’ufficio e omessa denuncia a danno di U.M. un uomo detenuto, all’epoca dei fatti, nel carcere di Monza. “Il caso fu portato a conoscenza di Antigone - ricorda Simona Filippi, avvocato che segue questi casi per conto dell’Associazione - nell’agosto del 2019, quando venimmo contattati dal fratello dell’uomo che raccontò di una violenta aggressione fisica ad opera di diversi agenti di polizia penitenziaria. I fatti sarebbero avvenuti nel corridoio della sezione dove il detenuto sarebbe stato preso a calci e pugni. II 25 settembre presentammo un esposto alla Procura che avviò le indagini. Antigone si è costituita anche parte civile nel procedimento”. “Nei giorni in cui è esploso il caso delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, quello che arriva da Monza è un altro segnale importante di come non ci debba essere spazio per l’impunità davanti ad episodi di questo tipo - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Ora attendiamo l’inizio del processo penale che, anche in questo caso, dovrà stabilire cosa accadde nell’istituto di Monza. Come sempre, ci auguriamo che anche in questo caso il governo si costituisca parte civile per dare un segnale forte a tutti gli operatori penitenziari, soprattutto a coloro che ogni giorno svolgono il proprio lavoro nel rispetto della Costituzione e quindi della dignità dei detenuti. Segnale - sottolinea Gonnella - arrivato dall’Amministrazione Penitenziaria che, nel caso specifico, ha collaborato affinché si accertassero i fatti”. Ma il presidente di Antigone allarga il discorso, giustamente, ad una critica del sistema carcerario che produce e non soltanto tollera queste ingiustificabili violenze. Le immagini interne al carcere di Santa Maria Capua Vetere parlano chiaro. Tutti abbiamo potuto vedere le violenze gratuite e brutali commesse da agenti di Polizia Penitenziaria su qualunque detenuto gli passasse sotto mano, finanche se su sedia a rotelle. È’ stata una rappresaglia indiscriminata, illegale, disumana che non ammette alcuna giustificazione. Non c’è attenuante che regga: lo stress, le proteste dei giorni precedenti, il virus. Quella che abbiamo visto è una pratica pianificata di violenza machista di massa che coinvolge decine e decine di poliziotti. È qualcosa che ci porta dentro l’antropologia della pena e della tortura. Ogni difesa acritica del loro comportamento è inammissibile in uno Stato costituzionale di diritto. Ogni sottovalutazione o tentativo di circoscriverne la portata non aiuta a riportare il sistema penitenziario nell’arco della legalità. In quel video non abbiamo visto mele marce al lavoro. Erano troppo numerosi i responsabili delle violenze e non si intravedevano mele sane che provavano a riportare i colleghi alla ragionevolezza. Questo non significa che le mele sane non vi siano. Sono fortunatamente tante, lavorano in silenzio, non vomitano odio sui social, non si fanno condizionare da chi inneggia alle forze di polizia russe o brasiliane, non fanno carriera quanto meriterebbero. La quantità di poliziotti coinvolti ci porta però dentro valutazioni di tipo sistemico. Dunque, in attesa del processo penale, proviamo a definire alcune vie di uscita da questo meccanismo di auto-esaltazione. In primo luogo vorremmo che le più alte cariche dello Stato dicano un no secco e senza eccezioni alla tortura e alla violenza istituzionale, preannunciando non solo un’indagine rapida amministrativa interna che porti a sanzioni disciplinari ma anche la volontà di costituirsi parte civile nel futuro procedimento penale. I provvedimenti del Dap di sospensione degli agenti coinvolti vanno in questa direzione. Così come le parole inequivoche della ministra della Giustizia Marta Cartabia che ha parlato di “tradimento della Costituzione, nonché di oltraggio alla dignità della persona dei detenuti”. Detenuti morti a Modena, verso ricorso alla Cedu: “Vari aspetti da chiarire” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 6 luglio 2021 Nove decessi per overdose nel 2020, il gip ha archiviato. All’Huffpost il legale di una vittima: “Soccorso tempestivo poteva salvarlo”. Il caso è stato liquidato con un’ordinanza di archiviazione di neanche tre pagine, datata 17 giugno: nessuno si può considerare responsabile, nessuno merita il giudizio per la morte di otto dei nove deceduti nel carcere di Modena dopo le rivolte di marzo 2020. Il gip Andrea Romito ha detto sì alla chiusura delle indagini, come chiesto dalla procura. I punti oscuri su quello che successe l?8 marzo 2020, mentre il Paese si chiudeva per la prima ondata di Covid e in varie carceri italiane esplodevano le rivolte, però restano. I detenuti, è la ricostruzione degli inquirenti, sono morti dopo aver assunto notevoli dosi di metadone di cui erano riusciti ad appropriarsi durante la ribellione. Per la procura hanno raggiunto la sostanza recuperando la chiave da una cassetta di sicurezza, che è stata forzata. Alcuni reclusi, dopo l’assunzione del metadone, hanno perso la vita all’interno del carcere di Modena. Altri sono morti mentre, nonostante non stessero bene, venivano trasferiti in altri istituti. Tutto è successo in 60 ore, minuto più minuto meno. Per la magistratura su questa storia può essere scritta la parola fine. Non è così per gli avvocati che hanno seguito il caso. Il legale di Antigone Simona Filippi, quello del garante dei detenuti, Gianpaolo Ronsisvalle e per l’avvocato Luca Sebastiani, che rappresenta la famiglia di uno dei detenuti deceduti, Hafedh Chouchane, il primo di cui fu riscontrata la morte. I legali avevano fatto opposizione alla richiesta di archiviazione. Sebastiani spiega all’Huffpost: “Abbiamo evidenziato che negli atti di indagine emergevano tre versioni differenti in relazione ai soccorsi ad Hafedh, sia con riguardo al posto dove lo stesso veniva consegnato agli agenti della penitenziaria, sia all’orario in cui questo è avvenuto. E stiamo parlando di differenze macroscopiche, che non sono state chiarite”. Ad ogni modo, continua il legale, “ci sono molte perplessità anche prendendo in considerazione la ricostruzione avallata dalla Procura, ovvero che Hafedh sia stato consegnato alla penitenziaria alle 19.30 nei pressi del passo carraio interno del carcere ed è poi arrivato all’attenzione del medico alle 20.20 quando non aveva segni di vita. Parliamo di 50 minuti per effettuare poche decine di metri, nei quali, se soccorso tempestivamente, poteva essere salvato. Questo aspetto, di notevole importanza per la nostra posizione, doveva essere adeguatamente chiarito”. L’opposizione non ha trovato accoglimento, ma gli avvocati non hanno intenzione di fermarsi: “Siamo già a lavoro per predisporre il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Abbiamo la fortuna di collaborare con alcuni tra i più illustri professori accademici ed avvocati, che come me credono in questa battaglia e che daranno il loro contributo al fine di consegnare innanzi alla Corte di Strasburgo un atto di assoluto rilievo”, spiega ancora l’avvocato Sebastiani. “Tanti sono i punti da chiarire - ha detto pochi giorni fa ad Huffpost l’avvocato di Antigone, Simona Filippi, parlando dei fatti di Modena - Se una persona detenuta è in overdose, l’unica cosa da fare è ricoverarla. Questi detenuti, invece, sono stati caricati su un mezzo e trasferiti. Ciò è terribile”. E e le zone d’ombra su quanto accadde nel penitenziario seguono almeno due filoni. Il primo riguarda la situazione del carcere nelle ore in cui i detenuti hanno assunto il metadone: sovraffollamento, pochi agenti all’interno della struttura e tanto, troppo, metadone. Inspiegabilmente facile da raggiungere. Per gli inquirenti non c’è nulla da eccepire, nessuno ha sbagliato, perché era in corso una rivolta e quindi la situazione era eccezionale. Per i legali, però, questa spiegazione non è sufficiente. E bisognerebbe capire se c’è la cosiddetta responsabilità omissiva di qualcuno. Il secondo filone riguarda il ritardo nei soccorsi. Chi ha seguito il caso da vicino spiega ad Huffpost che alcuni detenuti hanno iniziato a stare male, per l’assunzione del metadone, nel primo pomeriggio. Era stato attivato il protocollo per le maxi emergenze del 118 e le forze dell’ordine - si può riscontrare facilmente anche dalle immagini di quei giorni - erano state mandate davanti alla struttura. Eppure i soccorsi, almeno per le persone che poi sono decedute, si sono resi operativi alcune ore dopo: il decesso di Chouchane è stato dichiarato nella prima serata, gli altri a seguire. La domanda è: se i soccorsi si fossero attivati per tempo per tutti i detenuti che erano in difficoltà Chouchane e gli altri sette avrebbero potuto essere salvati? Per la magistratura italiana questo interrogativo non è degno di risposta. Per la corte di Strasburgo potrebbe essere diverso. Ed è per questo che i legali sono a lavoro per approntare il ricorso: l’unico mezzo di cui dispongono affinché non venga messa una pietra sulla vicenda. In quei giorni di marzo solo in seguito alla rivolta di Modena morivano 9 persone, mentre erano nella custodia dello Stato. In tutta Italia i detenuti morti, nel giro di pochi giorni, erano in tutto 13. Mentre il Paese si chiudeva per il Covid, le carceri erano ancora più lontane del solito per l’opinione pubblica che si dimenticava di Modena, delle rivolte, dei focolai nelle carceri. E degli episodi di violenza che nelle settimane e mesi successivi sarebbero state denunciate. Con la svolta nelle indagini sul pestaggio Santa Maria Capua Vetere è stato acceso un riflettore sui penitenziari italiani e così la luce potrebbe tornare anche su vicende dimenticate, e archiviate. Se l’inchiesta di Modena è stata chiusa e non resta che il ricorso alla Cedu, c’è un altro procedimento che nasce da quei fatti e che è rimasto in piedi. Se ne stanno occupando i magistrati di Ascoli e riguarda la morte del del nono detenuto, Salvatore Piscitelli, che fu trasferito dalla città emiliana nel penitenziario marchigiano. Agli atti di quel procedimento ci sono due lettere di persone che con Piscitelli avevano viaggiato durante il trasferimento da un carcere all’altro. “A me dispiace molto per quello che è successo - è scritto in una delle due lettere, riportate dall’Agi - Io non c’entravo niente. Ho avuto paura. Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Ammazzavano la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a un’altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dell’ordine, quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta”. Parole che riportano alla mente le terribili immagini della mattanza di Santa Maria Capua Vetere. E che potrebbero essere determinanti per il seguito di questo procedimento. Beccaria è morto a Santa Maria di Luigi Labruna La Repubblica, 6 luglio 2021 C’è poco da girarci attorno. Le immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza documentano che un anno fa, a séguito di proteste non violente dei detenuti causate dal Covid, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sono state perpetrate nei confronti dei detenuti, da decine di guardie carcerarie e da loro dirigenti, crudeltà vergognose. Sadismi scomposti. Abusi. Minacce di morte. Violenze, delle quali incoscientemente si vantavano in deliranti sms gli stessi torturatori ora indagati, in oltre settanta sospesi dal servizio e, a decine sottoposti a misure cautelari per una serie impressionante di reati. Delinquenti ai quali - infangando l’onore dei tanti agenti che con quelle sozzure nulla hanno da spartire - è andata la solidarietà di loro rappresentanti sindacali, secondo cui quella che per i magistrati è stata “una mattanza” collettiva (le cui responsabilità individuali saranno, ovviamente, accertate con giusto processo) sarebbe stata un doveroso uso della forza. Necessaria per ricondurre all’ordine quei poveri cristi (sia pure non tutti stinchi di santo) che avevano protestato per un sistema carcerario che - a dire del garante dei detenuti del Comune di Napoli, Ioia - “fa schifo e non è rieducativo”. Ed è questo il vero problema. Che disonora le nostre istituzioni e viola principi di civiltà affermatisi da secoli, a partire dalle riflessioni di Beccaria, e che sono sanciti nella nostra Costituzione. La quale - dopo aver affermato che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” (art 13) - prescrive che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27, 3° comma). O meglio, come sostiene ora Luigi Lombardi Vallauri, Crudeltà - vol. 11 della raffinata collana “La parola alle parole” di Ugo Leone (Doppiavoce ed.) - dovrebbe tendere “a promuovere il pieno sviluppo della persona del carcerato”, in attuazione del “principio supremo” per il quale è compito della Repubblica rimuovere “gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (art. 3, 2° comma). Ma queste sono utopie, non solo normative. Svanite. Morte. Assieme a Beccaria, a Santa Maria. I magistrati di sorveglianza: più misure alternative e meno ricorso al carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 luglio 2021 Il Conams, il coordinamento dei magistrati di sorveglianza, in una nota sottolinea l’urgenza di una riforma organica del sistema penale e penitenziario e riconosce l’impegno quotidiano della grande maggioranza della Polizia penitenziaria. Scende in campo anche il coordinamento dei magistrati di sorveglianza (Conams), stigmatizzando da una parte la violenza ai danni di detenuti verificatisi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, mentre dall’altra preme per la riforma organica del sistema penale e penitenziario. I magistrati di sorveglianza, con un comunicato, affermano che la riforma debba passare “lungo le direttrici di un nuovo catalogo di pene alternative, attraverso la rimodulazione del processo penale in funzione del trattamento sanzionatorio, e della riqualificazione e dello sviluppo delle misure alternative alla detenzione, attraverso seri percorsi rieducativi, risocializzativi e riparativi con il reclutamento di nuovi assistenti sociali”. Rilancio della centralità della figura del Direttore dell’istituto penitenziario - Inoltre, i magistrati di sorveglianza sottolineano il “rilancio della centralità della figura del Direttore d’istituto penitenziario quale punto di mediazione e sintesi delle diverse componenti di cui preservare la specifica professionalità, del recupero della funzione incentivante e responsabilizzante della premialità penitenziaria, dell’investimento di risorse, professionalità e progettualità nel processo di formazione di tutti gli operatori penitenziari e nella valorizzazione del ruolo della società esterna e del volontariato”. Per questo motivo, il Conams, auspica che una nuova stagione riformatrice trovi “fondamento e ispirazione nell’idea luminosa, riecheggiata nelle recenti parole della ministra della Giustizia, del Carcere come Comunità responsabile e rieducativa secondo la volontà e il disegno dei Padri costituenti, nella piena consapevolezza che dall’umanità e legalità degli istituti di pena si misura la civiltà di un Popolo”. Il Conams: “l’unica reazione degna di uno Stato civile risiede nell’uso legittimo della forza” - Per quanto riguarda i pestaggi, i magistrati di sorveglianza hanno riaffermato l’altissimo valore non negoziabile “della dignità di ogni persona umana e dell’inviolabilità dei corpi dei detenuti consacrata negli istituti millenari posti a fondamento dello Stato di diritto e della civiltà umana e giuridica”. Il Conams, inoltre, rappresenta che nei difficilissimi contesti penitenziari segnati dal dramma dell’emergenza pandemica e, in alcuni istituti, dall’insorgere delle rivolte, “l’unica reazione degna di uno Stato civile risiede nell’uso legittimo della forza e nell’esercizio del potere disciplinare con la necessaria efficacia e misura e non nella ritorsione brutale e nelle spedizioni punitive programmate a freddo con la presunzione dell’impunità”. Riconosciuta la coscienza professionale e l’impegno quotidiano della grande maggioranza della Polizia penitenziaria - Nel contempo, il coordinamento dei magistrati di sorveglianza riconosce la coscienza professionale e l’impegno quotidiano della grande maggioranza della Polizia penitenziaria che con dedizione e sacrificio, in condizioni di lavoro spesso proibitive, “onora la divisa che indossa e con la divisa porta la speranza iscritta nel motto di un Corpo votato alla sicurezza degli Istituti e dei cittadini insieme alla custodia e alla rieducazione dei condannati”, affinché “contribuisca in modo decisivo alla crescita di un fronte comune che sia stabile presidio della legalità e vivibilità delle carceri”. Il Conams interpella anche tutta la magistratura giudicante e requirente “nella profonda esigenza di una comune concezione delle finalità costituzionali del processo e della pena” e nella “condivisione sinergica di intenti e interventi che tali finalità realizzino nella concreta pratica giudiziaria”. Carceri tra slogan e vie da seguire: la figura dei funzionari giuridici pedagogici di Fiammetta Modena* Il Dubbio, 6 luglio 2021 La situazione delle nostre carceri, le tensioni che quotidianamente si vivono all’interno, le violenze oggi all’attenzione mediatica, sono figlie di un “pendolo” che oscilla sull’onda delle emozioni, non sorrette da una consapevolezza razionale e dalla conoscenza quotidiana della vita negli istituti di pena. Seguiamolo questo pendolo: punta, all’inizio della legislatura, verso la “certezza della pena”. Traduce la percezione diffusa nella collettività che i delinquenti, in un modo o in un altro, con permessi o sotterfugi, riuscirebbero a scontare pochi anni e comunque ad uscire dal carcere magari per delinquere di nuovo. Diventa un mantra collettivo e alcune forze politiche ne fanno una bandiera a cui si aggiunge anche la ferma volontà di vedere “in galera” i colletti bianchi, quelli che pagano gli avvocati che permettono loro di scontare neanche un giorno di carcere. In questo clima il “pendolo” difende solo a parole l’operato della polizia penitenziaria che di fatto, nonostante tante visite nelle carceri, raccoglie solidarietà verbale ma sicuramente non fattuale. I dati del sovraffollamento degli istituti di pena parlano da soli… La certezza della pena diventa quindi solo uno slogan, che suona bene all’orecchio del cittadino comune e in realtà non risolve e non affronta nessun problema Le carceri, poi, diventano uno terreno di scontro di natura politica e il “pendolo” si sposta sulle polemiche per le scarcerazioni ai mafiosi in barba naturalmente a tutto quello che potevano essere le valutazioni relative allo stato di condizione di salute delle singole persone. Il “pendolo” oscilla ancora quando ci sono le rivolte nelle carceri: nessuno si pone il problema delle condizioni dei carcerati ma si preferisce anche in quel caso utilizzare una narrazione più facile, legata semplicemente a rivolte orchestrate dall’esterno. Vengono così messe nel cassetto dalle maggioranze del Conte 1 e del Conte 2 tutte le norme che riguardavano il lavoro dei detenuti, la loro scolarizzazione, in un in una parola quello che è veramente la rieducazione. Il “pendolo”, infine, oscilla di nuovo e punta sulle telecamere rimaste accese: ci si accorge che all’interno del mondo complesso e difficile dei detenuti e delle forze di polizia può succedere di tutto. C’è molta ipocrisia in chi oggi urla allo scandalo o peggio ancora cavalca l’onda mediatica: l’ipocrisia di chi ha perso la memoria di tutto quello che è accaduto grazie al mantra “della certezza della pena”. Sbandierare la certezza della pena in realtà non ha garantito nulla ai cittadini comuni, non li hai rassicurati, ha solamente ignorato il problema utilizzando delle parole gradite ai social e al sentimento emozionale. Ci voleva il ministro Cartabia a ricordarci i principi fondamentali della nostra Carta costituzionale che ci distinguono nella sostanza da tutto quello che è sopruso e violento. Si può dare un contributo razionale? Riteniamo di sì. Da un lato esistono le relazioni che annualmente il Garante delle persone private della libertà personale presenta al parlamento, hanno dei numeri che si commentano da soli. Dall’altro il faro va puntato su altri attori nelle carceri, attori fondamentali ed importanti per il percorso rieducativo dei detenuti. Sono i funzionari giuridici pedagogici. Sono le persone che ascoltano i detenuti, che fanno le relazioni, sono le persone che seguono il percorso di riabilitazione. Costituiscono il collegamento tra detenuto e realtà, un ausilio importantissimo per capire effettivamente che cosa avviene e come si può migliorare. I funzionari giuridici pedagogici hanno chiesto dei riconoscimenti di inquadramento, che incontrano difficoltà dal punto di vista dei costi. Ciò non toglie che la loro funzione e la loro attività deve essere considerata al centro della vita del carcere. Come la polizia penitenziaria, anche loro fanno un lavoro difficile e sono soprattutto gli occhi del giudice all’interno degli istituti detentivi. Forse molti neanche sanno esattamente chi siano queste figure. Sono conosciuti dagli addetti ai lavori, non dal grande pubblico. Siamo certi che il ministro, reduce dalle visite nelle carceri in qualità di Giudice Costituzionale, saprà cogliere l’importanza dei Funzionari giuridici pedagogici e valorizzarli. È tempo di mettere da parte le parole, gli slogan e anche le ipocrisie per capire quali sono invece gli strumenti che abbiamo e sui quali possiamo far leva per il rispetto effettivo dei principi della nostra Costituzione. Carcere, “detenuti e agenti vittime di un sistema che fa acqua” difesapopolo.it, 6 luglio 2021 La riflessione del vice presidente della Comunità di Capodarco di Fermo, Riccardo Sollini, dopo le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. “Il sistema è strutturato per fare il contrario di quello per cui è stato costruito. Le volte che sono entrato in carcere ho sempre avuto la sensazione che detenuti e ‘secondini’ cercavano di riuscire a tirarsi fuori a vicenda da una dignità umana calpestata”. “Una vicenda che va affrontata a monte, partendo dalla dignità di chi deve espiare la pena e ancora di più di chi in quei posti lavora. Entrambi sono vittime di un sistema carcerario italiano che fa acqua da tutte le parti, strutturato per fare esattamente il contrario di quello per cui è stato costruito”. Questa la riflessione del vice presidente della Comunità di Capodarco di Fermo, Riccardo Sollini, dopo le violenze ai danni di alcuni detenuti avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e sulle quali, secondo Sollini, “sono stati espressi molti punti di vista che, a parte quello impronunciabile di Salvini, sono tutti condivisibili pur se vanno in diverse direzioni”. “Questo perché il mondo del carcere è complesso, fatto troppo spesso di regole non scritte e lasciato per la maggior parte dei casi in una stasi di auto mantenimento - prosegue l’analisi del vice presidente della Comunità di Capodarco. “l pestaggio è di fatto ingiustificabile, una macelleria cilena che fa male al cuore e mi ha provocato un senso di nausea. Proviamo a ricostruire la storia: durante il periodo della prima pandemia, quando tutta Italia si è trovata imprigionata da un virus sconosciuto, abbiamo introdotto tutte le indicazioni possibili, che cambiavano quotidianamente, a volte contradittorie. Con bollettini del Premier che sembravano dispacci di periodo di guerra. Tutti che provavano a capire cosa fare, ma soprattutto non fare. Nelle realtà istituzionali sono stati messi in campo protocolli, obblighi, restrizioni. In parte hanno funzionato, in parte no. Chi non rispettava le regole si è trovato travolto, pensiamo a tutti i morti nelle Rsa, e anche chi le ha sempre rispettate si è visto sfuggire la situazione di mano. Il carcere - spiega ancora Sollini - è un luogo istituzionale, un luogo di stato, ma di fatto se non ci fossero state le proteste nessuno ne avrebbe parlato. Questo per un motivo semplice: sono ‘non luoghi’, fatti di spersonalizzazione, come buchi neri in cui alla fine vale tutto. Come fai a mettere procedure di distanziamento o di altro tipo quando si è costretti a vivere in 8 persone in 10 metri quadrati, quando si dorme per terra di fianco alla tazza del water. Quando l’ora d’aria viene fatta in un cortile di cemento in cui tutti si è ammucchiati, dove la stanza per i colloqui si trasforma in stanza di incontro dei familiari e allo stesso tempo è spazio di attività alternative. Il tempo si ferma e non scorre, vivi buttato sul letto in cella, sperando che qualcuno ti passi degli psicofarmaci”. I fatti di Santa Maria Capua Vetere hanno dimostrato che non si può più glissare sulla questione carcere, secondo Sollini un “non luogo” per gli stessi agenti, costretti a turni massacranti in ambienti che hanno le stesse caratteristiche e lo stesso livello di desolazione degli spazi destinati ai detenuti. “In sotto numero, a rischio aggressione quotidiana, a contatto con storie di vita pesanti - spiega il vice presidente di Capodarco -. A volte provi compassione, a volte ti fanno schifo, con turni strazianti. I numeri di suicidi tra agenti penitenziari è altissimo, senza parlare delle continue minacce e insulti. Tutto crea una situazione esplosiva in cui, di fatto, nell’opinione pubblica si può fare tutto e il contrario di tutto. L’immaginario collettivo del carcere come luogo dalle regole non scritte, come se lo stato di diritto si spegne. Tutto falso, in realtà le volte che sono entrato in carcere ho sempre avuto la sensazione che detenuti e ‘secondini’ cercavano di riuscire a tirarsi fuori a vicenda da una dignità umana calpestata quotidianamente, in quei luoghi brutti, vecchi, freddi o eccessivamente caldi. Un giorno sono andato a prendere un ragazzo che doveva entrare in comunità, si era fatto 3 anni di carcere. Mi ha guardato, bianco, cotto di farmaci e con lo sguardo fisso mi ha detto: ‘il carcere è brutto’. Qualche anno dopo ho incontrato una guardia penitenziaria, abbiamo parlato e anche lui mi ha detto ‘il carcere è un posto brutto’”. “Ecco forse in tutto questo - conclude Sollini - si trova la bassezza umana di quelle immagini e le parole che mi hanno penetrato il cuore sono state due testimonianze di chi era presente. L’agente della Polizia penitenziaria che piangeva chiedendo ai colleghi di smetterla e il detenuto picchiato che a distanza di tempo dice: ‘quello che hanno fatto sporca la divisa della maggioranza di loro che fanno onestamente il loro lavoro’”. Carceri, l’Europa striglia l’Italia: “Ogni cittadino merita sicurezza” di Grazia Longo La Stampa, 6 luglio 2021 Da un lato, il richiamo dell’Unione europea affinché le nostre autorità nazionali “facciano il possibile per proteggere tutti i cittadini dalla violenza”. Dall’altro, i racconti di aggressioni e umiliazioni subite dai detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, come quelle di un uomo che ricorda: “Sono stato urinato addosso dalle guardie, ero in una pozza di sangue e mi hanno urinato addosso, sono stato sputato in bocca e in faccia dalle guardie più volte, sono stato massacrato. Davanti ai miei occhi hanno preso un ragazzo, lo hanno messo a 90 gradi e lo hanno penetrato. Un altro ragazzo stava molto male, volevo farlo bere, le guardie mi hanno fatto prendere l’acqua dallo sciacquone del wc nonostante avessi il lavabo vicino”. Non finisce mai l’orrore descritto nelle oltre duemila pagina dell’ordinanza che ha disposto 52 misure cautelari nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte violenze ai danni dei prigionieri durante la perquisizione straordinaria del 6 aprile 2020, dopo la rivolta del giorno precedente. Tanto che il gip Sergio Enea rimarca “l’assoluta naturalezza e la mancanza di ogni forma di titubanza” con cui gli agenti avrebbero, per l’accusa, pestato i detenuti. Secondo il gip, se si fosse trattato di un episodio isolato sarebbe stato lecito attendersi esitazione nel colpire i detenuti. E invece l’atteggiamento appariva “naturale”. Sono otto i video, per un totale di circa 18 ore di registrazione, che inchiodano gli indagati alle pesanti accuse di tortura. Tanto che il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, sottolinea che le immagini più cruente delle presunte aggressioni non sarebbero quelle diffuse dalla stampa: “Abbiamo chiesto un incontro al capo del Dap Bernardo Petralia, al suo vice Roberto Tartaglia e a Gianfranco De Gesu, responsabile nazionale Detenuti e designato dal ministero per la commissione interna per verificare i fatti di Santa Maria Capua Vetere”. Ciambriello, inoltre, precisa che in quel carcere “durante il 2020 si è registrata la più alta percentuale, di tutte le prigioni campane, di atti di autolesionismo da parte dei detenuti. Per l’esattezza 196 episodi”. Intanto Christian Wiegand, portavoce dell’esecutivo comunitario per la Giustizia, ribadisce che “in Europa non c’è posto per la violenza. La gestione delle carceri è di competenza nazionale e la Commissione si aspetta un’indagine indipendente e approfondita da parte delle autorità italiane competenti”. E la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese osserva: “Immagini che nessuno di noi avrebbe mai voluto vedere. Su questo la magistratura farà gli interventi del caso, ma non possiamo, sulla base di quanto fatto da alcune persone, criminalizzare un intero copro che fa un lavoro complicato e difficile. Serve fare chiarezza”. Oggi e domani verranno conclusi gli interrogatori di garanzia. Santa Maria Capua Vetere, nel carcere delle violenze una stanza per le punizioni di Fulvio Bufi Corriere della Sera, 6 luglio 2021 Bruxelles: ci aspettiamo indagini approfondite e indipendenti sulle violenze nel carcere. I racconti. Un detenuto: “Ho visto violentare un ragazzo. E a me hanno sputato in bocca”. Secondo il garante campano delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello, nelle mani degli inquirenti che indagano sui pestaggi dei detenuti avvenuti il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ci sarebbero video “ancora più raccapriccianti” di quelli già pubblicati in Rete. Una convinzione che non nasce dalla conoscenza di atti riservati, ma da quanto Ciambriello ha appreso dai detenuti incontrati in carcere, da quei racconti che lo spinsero poi a presentare l’esposto dal quale è nata l’inchiesta della Procura che ha portato all’arresto di ventisei tra funzionari e agenti di polizia penitenziaria e ad altrettante interdizioni, compresa quella del provveditore regionale del Dap Antonio Fullone, che proprio ieri nell’interrogatorio di garanzia si è avvalso della facoltà di non rispondere. Le umiliazioni a Santa Maria Capua Vetere - Nelle testimonianze dei detenuti che hanno subito i pestaggi, in effetti, non si parla soltanto delle botte prese nei corridoi del reparto Nilo, lungo le scale e nella sala dedicata alla socialità. Si riferisce anche di atti degradanti come ispezioni intime, obbligo di spogliarsi nudi e fare flessioni e sputi sulla faccia e in qualche circostanza anche in bocca. E sarebbe avvenuto di peggio. Abusi di cui le vittime non sono riuscite a parlare con le due pm che conducono l’inchiesta e che hanno trovato il coraggio di riferire soltanto allo psichiatra. “Sono stato urinato addosso dalle guardie, ero in una pozza di sangue e mi hanno urinato addosso, sono stato sputato in bocca e in faccia più volte”, racconta un detenuto. E aggiunge: “Davanti ai miei occhi hanno preso un ragazzo e lo hanno violentato. Un altro ragazzo stava molto male, volevo farlo bere, le guardie mi diedero una bottiglietta d’acqua ma era vuota e, quando lo feci presente, loro deridendomi mi portarono in bagno e, tirato lo sciacquone del water, mi dissero di riempirla lì”. Testimonianze attendibili - Queste scene, che sarebbero avvenute per lo più nell’ufficio matricola, nei video circolati finora non ci sono. Ma agli atti dell’inchiesta ci sono quasi venti ore di registrazioni, e che ci siano o meno le immagini relative a questi episodi, Procura e gip ritengono le testimonianze attendibili, anche sulla base degli accertamenti psicodiagnostici ai quali sono stati sottoposti i detenuti vittime dei soprusi. Anzi, da tutto quello che i detenuti hanno messo a verbale, sembrerebbe che non si possa circoscrivere la violenza di alcuni agenti penitenziari soltanto a ciò che accadde il 6 aprile dell’anno scorso. Un recluso riferisce un episodio del passato, avvenuto in occasione di una lite tra un italiano e uno straniero: “Sono intervenuti circa 50 agenti, che hanno soppresso la lite, picchiando i partecipanti e sputandogli addosso”. Al reparto Nilo “vi è una squadretta di cui fanno parte tale “il marcianisano”, “il palestrato” e “Pasquale il drogato”, che a mio avviso sono quelli esaltati”. Un altro recluso parla della “squadretta”, ma non fa nomi, e della “stanza zero”: “La squadretta è composta sempre dalle stesse persone e la stanza zero è una cella al piano terra del reparto Nilo usata dalla squadretta per punire i detenuti”. I suicidi - E alla luce di tutto questo il carcere di Santa Maria, dove solo nel 2020 ci sono stati due suicidi, trenta tentativi di suicidio e 196 atti di autolesionismo, diventa un caso anche in Europa, con il portavoce dell’esecutivo comunitario per la Giustizia, Christian Wiegand, che dice: “È dovere delle autorità nazionali proteggere tutti i cittadini dalla violenza e tenerli al sicuro in ogni circostanza”. E fa sapere che la Commissione non commenta l’inchiesta giudiziaria ma “si aspetta un’indagine indipendente e approfondita da parte delle autorità italiane competenti”. Violenze in carcere, il Garante dei detenuti: i pm hanno filmati anche più raccapriccianti di Fabrizio Geremicca Corriere del Mezzogiorno, 6 luglio 2021 I video diffusi mostrerebbero solo una parte delle violenze. Il ministro Lamorgese: “Non si possono guardare”. Ciambriello e i colleghi denunciano il trasferimento dei detenuti picchiati a centinaia di km di distanza. Il provveditore sospeso non risponde al Gip. Dal penitenziario di Santa Maria Capua Vetere all’Ucciardone di Palermo. Lontano dalla famiglia, che vive a Boscotrecase, e dal lavoro in carcere che portava avanti da nove anni. E’ la storia di uno dei trentadue reclusi che in questi giorni sono stati smistati fuori regione. Persone che hanno subito il pestaggio il 6 aprile 2020 documentato dalle immagini delle telecamere di sorveglianza ed al centro della inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere. “Vogliamo capire - ha detto stamane Samuele Ciambriello, il garante dei detenuti della Campania - come e perché sia nata questa scelta. Insieme ai garanti provinciali ho interpellato il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il Dap, e la risposta è stata che il trasferimento avviene su richiesta della Procura. Il punto, però, è capire perché poi il Dap abbia deciso di spostare queste persone non in altri penitenziari campani, ma a centinaia e centinaia di chilometri di distanza, dove le visite dei familiari sono complicate e costose”. Sta per partire una lettera, dunque, nella quale Ciambriello e gli altri garanti (Emanuela Belcuore per la provincia di Caserta, Pietro Ioia per Napoli, Carlo Mele per Avellino) chiederanno al Dap di limitare i trasferimenti dei detenuti nell’ambito dei penitenziari regionali. “I trentadue oggetto dei provvedimenti - ha spiegato Ciambriello - non sono tra quelli che hanno denunciato il pestaggio, ma sono tutte persone che hanno subito le violenze degli agenti penitenziari ed è paradossale che oggi siano in qualche modo ulteriormente danneggiate da provvedimenti che li mandano in carceri fuori regione”. L’inchiesta sulla mattanza operata da un gruppo di agenti penitenziari, intanto, va avanti e, secondo quanto ha detto il garante dei detenuti campani, le immagini pubblicate dal quotidiano Il Domani, le quali hanno mostrato a milioni di persone le violenze, i pestaggi e le umiliazioni inferte ai reclusi a Santa Maria Capua Vetere ad aprile 2020 non sarebbero neppure le peggiori. “Ce ne sono - ha rivelato - di più raccapriccianti e sono in possesso esclusivo della Procura. Sono relative a quanto avvenuto anche in altri settori del reparto Nilo”. Ciambriello e Belcuore hanno stigmatizzato anche il silenzio su quanto accaduto protrattosi per molti mesi da parte degli esponenti della politica. “C’è un clima forcaiolo - ha denunciato il garante - e nei giorni successivi al pestaggio, quando la notizia della mia denuncia fu riportata da qualche giornale e sito, l’unico rappresentante della politica a parlare fu Salvini. Cosa disse, lo ricorderete tutti”. Santa Maria Capua Vetere, hanno sottolineato Belcuore, Ioia e Ciambriello, non rappresenta, peraltro, un caso isolato. “In questo momento - hanno ricordato - in Italia sei Procure indagano su episodi di presunte violenze nelle carceri. Ci sono stati inoltre - non dimentichiamolo - 15 morti durante le proteste e le rivolte della primavera 2020”. Ufficialmente sono deceduti tutti per overdose. Belcuore ha invitato, ancora, ad accendere i riflettori su situazioni segnalatele dalle famiglie di detenuti campani reclusi nell’ex opg di Barcellona Pozzo Di Gotto, in Sicilia. “Parlano - ha detto ai cronisti - di maltrattamenti, violenze, diritti negati e mortificati. Ho segnalato il caso al garante dei detenuti siciliano il quale, mi auguro, approfondirà la vicenda per verificare cosa sta accadendo in quel penitenziario”. Lamorgese: “Scene che non avrei voluto vedere” - Quelle immagini dal carcere di Santa Maria Capua Vetere “non avrei mai voluto vederle”. Così il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese intervenuta a Trentola Ducenta per l’inaugurazione della mostra fotografica “Diego Armando Maradona, il riscatto sociale attraverso lo sport” in un bene confiscato ai clan casalesi. “Su questa vicenda - aggiunge il ministro - le indagini della magistratura faranno il proprio corso, però bisogna anche dire che non possiamo criminalizzare un intero corpo della Polizia Penitenziaria”. Il gip: “Violenze non sono episodio isolato” - Un rapporto tra agenti e carcerati, fatto di violenza, è “inaccettabile” in uno Stato di Diritto, evidenzia il gip sammaritano Sergio Enea, rimasto particolarmente colpito dalla “assoluta naturalezza e mancanza di ogni forma di titubanza con cui gli indagati hanno sistematicamente malmenato le vittime”. La si evincerebbe dai video acquisiti durante l’indagine, che si è pure tentato di alterare nell’ambito dell’azione di depistaggio scattata per nascondere quella che sarebbe dovuta essere “una perquisizione straordinaria”. Enea ritiene che se si fosse trattato di un episodio del tutto isolato sarebbe stato “lecito attendersi che gli agenti mostrassero quantomeno una qualche esitazione”. “Ma ciò - scrive, lapidario, il giudice del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere - non traspare nel modo più assoluto”, “...nei loro gesti non c’è mai quella esitazione che inevitabilmente avrebbe manifestato anche visivamente colui che non è affatto aduso al compimento di atti di estrema violenza”. E che la violenza sia percepita dagli agenti “come un presidio di sicurezza essenziale” lo si deduce pure, sottolinea Enea, dall’analisi dei messaggi in chat trovati sui cellulari sequestrati agli indagati. In uno, inviato la notte tra il 5 e il 6 aprile, quella seguente alla protesta dei carcerati innescata dalle preoccupazioni per i contagi Covid, un caso peraltro scoperto attraverso i media, c’è tutta la delusione degli agenti della Penitenziaria, manifestata dal comandante al provveditore: “Il personale di S.M.C.V. è molto deluso” e ancora “si sono raccolti per contestare l’operato del comandante”. Insoddisfazione alla quale fanno da contraltare le esclamazioni di giubilo, sempre in chat, sia immediatamente prima, sia dopo la perquisizione straordinaria giudicata come “un completo successo”. “Allora apposto domani chiave e piccone in mano”, “ok domate il bestiame” e “abbiamo ristabilito l’ordine e la disciplina”. E ciò “che agli occhi del cittadino comune appare una orribile mattanza”, per la Polizia Penitenziaria diviene “una operazione eseguita in modo brillante ed efficace” e “coloro che l’hanno diretta sul campo si sono ampiamente vantati con i loro interlocutori”. Il giudice, infatti, stigmatizza il comportamento dei vertici dell’amministrazione penitenziaria regionale “da cui era lecito aspettarsi quantomeno la volontà di fare luce in ordine ai gravi episodi denunciati dai detenuti” e invece “si sono, fin da subito, adoperati per salvaguardare in ogni modo la posizione” di coloro che sono “implicati nelle violenze, rendendosi disponibili... al confezionamento di atti falsificati da inoltrare all’Autorità Giudiziaria”. Gli interrogatori, il provveditore fa scena muta - Si è avvalso della facoltà di non rispondere il provveditore delle carceri campane sospeso dal servizio Antonio Fullone, che questa mattina si è presentato al gip del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere Sergio Enea per l’interrogatorio di garanzia. Fullone è stato raggiunto dalla misura interdittiva della sospensione dell’attività di lavoro emessa dallo stesso Gip nell’ambito dell’indagine della Procura e ha poi ricevuto la sospensione amministrativa anche dal ministero della Giustizia (al suo posto c’è ora il reggente Cantone). Fullone, indagato per depistaggio e favoreggiamento (è difeso da Sabina Coppola), non ha risposto alle domande del Gip, così come quasi tutti gli agenti della Penitenziaria raggiunti dalle misure restrittive e interdittive sentiti nei giorni scorsi, limitandosi a rendere una dichiarazione spontanea in cui ha respinto le contestazioni, e ha spiegato di voler rispondere solo dopo aver letto e studiato tutti gli atti. Per la Procura, Fullone avrebbe autorizzato la “perquisizione straordinaria” del 6 aprile 2020 al reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere, ritenuta “arbitraria” dal gip, e realizzata, a detta degli inquirenti, per punizione e rappresaglia dopo quanto accaduto il giorno prima, quando i detenuti del Nilo si barricarono nel reparto dopo aver avuto notizia della positività al Covid di un detenuto. Fullone è anche accusato di depistaggio, di aver ostacolato le indagini. Nella giornata di oggi sono stati sentiti anche altri agenti della Penitenziaria indagati finiti agli arresti, che pure si sono avvalsi della facoltà di non rispondere rendendo dichiarazioni spontanee in cui hanno respinto le accuse senza entrare nel merito. L’ispezione e i sindacati - La commissione che si occuperà dell’ispezione straordinaria nell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere sarà presieduta da Gianfranco De Gesu, direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dap. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che ha già parlato di “tradimento” del dettato costituzionale, oggi dice: “Mi chiedo come sia possibile che siano accaduti fatti così gravi e di grande turbamento per tutti”, ma rinnova anche “la vicinanza a tutto il personale delle carceri italiane, il loro lavoro è tanto prezioso quanto difficile”. Prima dei provveditori Cartabia incontrerà a breve i sindacati che oggi, col segretario generale del S.Pp. (Polizia Penitenziaria) Aldo Di Giacomo, parlano di “clima di autentica caccia alle streghe”. Di Giacomo ripete l’appello “a spezzare la campagna di opinione che vorrebbe far credere agli italiani che gli uomini e delle donne del Corpo siano tutti crudeli e disumani”. I Garanti campani: “Preoccupati per i trasferimenti da Santa Maria Capua Vetere” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 luglio 2021 Conferenza stampa dei Garanti della Campania sui fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile del 2020. “Le foto e le immagini viste sono solo una parte, quelle più raccapriccianti e le ha solo la Procura”. A dirlo è il garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, intervenuto in conferenza stampa sui fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile del 2020. Emanuela Belcuore, garante di Caserta, ha parlato invece di un blackout “che non ha consentito ai detenuti di vedere i tg, né sono stati distribuiti i giornali. Sono balzata dalla sedia - ha riferito - qualche detenuto mi ha anche detto che i giornali volevano pure distribuirli ma senza le foto degli agenti”. 32 detenuti trasferiti senza alcuna spiegazione - Dalla conferenza emerge che nessuna spiegazione è stata fornita ai 32 detenuti del reparto “Nilo” nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per spiegare il trasferimento in altri penitenziari italiani. “Alcuni sono stati trasferiti a Palermo, Palmi, Civitavecchia, Pesaro, Rieti e anche Modena. È un clima che non ci piace e speriamo che vengano fatti tornare al più presto in Campania”, ha evidenziato la garante dei detenuti della provincia di Caserta, Emanuela Belcuore, denunciando la preoccupazione delle famiglie “per un anno costrette a fare videochiamate per parlare con i parenti detenuti e ora, quando si aprono le porte delle carceri, si prendono i detenuti e si spostano a 600 km di distanza”. L’allarme per la situazione nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto - Emerge anche un altro fatto grave riguardante un altro carcere, questa volta siciliano, dove sono stati trasferiti alcuni detenuti del carcere sammaritano. “Le istituzioni e la magistratura intervengano per fare luce su quanto avviene nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto”, ha chiesto la garante locale dei detenuti Emanuela Belcuore. “Ci sono molti familiari di detenuti campani e del Napoletano ristretti a Barcellona Pozzo di Gotto - ha spiegato Belcuore - e lì succedono cose inaudite. Chiediamo che si faccia luce sul carcere di Barcellona Pozzo di Gotto affinché non ci sia una “Santa Maria Capua Vetere due”. Quello che è successo a Santa Maria è stato qualcosa di eclatante, ma non è accaduto solo lì”. Chiesto dai garanti un incontro con i vertici del Dap - I garanti chiedono un incontro sia con il capo del Dap Bernardo Petralia e il vice Roberto Tartaglia, che con Gianfranco De Gesu, responsabile nazionale Detenuti e trattamento e designato dal ministero per la commissione interna per appurare i fatti di Santa Maria Capua Vetere. Ciambriello fa sapere inoltre che chiederà un incontro anche al nuovo provveditore campano Carmelo Cantone, in sostituzione di Antonio Fullone, tra i destinatari delle misure cautelari eseguite una settimana fa nei confronti di 52 appartenenti al corpo di Polizia penitenziaria. La ministra della Giustizia Cartabia segue con attenzione le vicende - Nel frattempo la ministra della Giustizia Marta Cartabia fa sapere che sta seguendo con grande attenzione le vicende e che meriteranno un approfondimento. “Mi chiedo - ha aggiunto - come sia possibile che siano accaduti fatti così gravi e di grande turbamento per tutti. Desidero rinnovare la mia vicinanza a tutto il personale delle carceri italiane. Il loro lavoro è tanto prezioso quanto difficile e sottovalutato, e questo clima sociale lo rende più difficile. Molto spesso non guardiamo oltre le mura del carcere, ma dentro ci sono persone che svolgono un servizio essenziale per tutta la società e devono andare fieri sempre e portare con fierezza la divisa. Per questo la condanna deve essere ferma”. Da fonti di Via Arenula, si apprende che la ministra ha avuto una telefonata con il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, dopo la pubblicazione, su testate locali, di dati personali degli indagati per i fatti di Santa Maria Capua Vetere. I vertici del Dap hanno preannunciato un esposto al Garante della privacy e hanno già manifestato la propria preoccupazione per questi eccessi mediatici in una telefonata con i Prefetti di Napoli e Caserta. Santa Maria Capua Vetere, detenuti allontanati dalla Campania dopo le denunce di Adriana Pollice Il Manifesto, 6 luglio 2021 La protesta dei Garanti della Regione: “Li portano via di notte eppure, dopo “la mattanza”, guardie e reclusi sono rimasti nello stesso penitenziario per oltre un anno”. Si è avvalso della facoltà di non rispondere il provveditore delle carceri campane (sospeso dal servizio) Antonio Fullone, durante l’interrogatorio di garanzia ieri con il gip Sergio Enea. L’indagine è quella sulla “orribile mattanza” ai danni dei detenuti del reparto Nilo il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Fullone è indagato per depistaggio e favoreggiamento. Per la procura avrebbe autorizzato la “perquisizione straordinaria”, ritenuta però arbitraria dai pm e dal gip, realizzata per rappresaglia dopo le proteste del 5, quando al Nilo si barricarono dopo aver avuto notizia della positività al Covid di un detenuto. “Le immagini viste sono solo una parte, quelle più raccapriccianti le ha solo la procura” hanno spiegato ieri i garanti dei detenuti provinciali e regionale, durante una conferenza stampa congiunta. “Il carcere sammaritano - racconta Emanuela Belcuore, garante dell’area di Caserta - è stato costruito senza rete idrica, sono 25 anni che non c’è l’allaccio. L’acqua viene portata con le autobotti o bisogna ricorrere a quella in bottiglia. Esce dai rubinetti giallo marrone, con il Covid i detenuti si sono dovuti lavare con acqua che porta dermatiti e irritazioni. A pochi chilometri c’è una discarica a cielo aperto, d’estate si formano zanzare enormi. I reparti maschile e femminile di alta sicurezza sono sovraffollati e a regime chiuso. Con il Covid c’è stato il blocco dei volontari, pochissime le attività ricreative”. Quando lunedì scorso è esplosa l’inchiesta nel carcere c’è stato un black out elettrico, i detenuti sono rimasti senza tv ma, denuncia Belcuore, non sono stati distribuiti neppure i quotidiani, che i detenuti pagano. “Mi hanno detto che alcuni agenti hanno imposto di strappare le pagine dei quotidiani con le foto degli indagati”. Dopo le sospensioni degli indagati sono arrivati nuovi agenti: “Per oltre un anno maltrattati e maltrattanti sono stati nello stesso carcere - commenta Belcuore -. Quando gli agenti sono stati sospesi hanno iniziato a spostare i detenuti del Nilo, 32 finora, che avevano denunciato le percosse verso altri istituti, in Calabria, Sicilia, Umbria. Li prendono di notte e li portano via. Le famiglie non possono raggiungerli per i colloqui. I detenuti che hanno chiesto l’avvicinamento a casa sono ancora lì”. A mettere in moto le indagini è stata anche la denuncia del garante campano, Samuele Ciambriello: “Uno dei detenuti del Nilo va ai domiciliari, posta sui social le foto delle percosse. Queste e le registrazioni delle chiamate con i familiari, dove altri raccontano cos’era successo, sono la base del mio esposto dell’8 aprile 2020. Per dieci giorni mi hanno raccontato fatti raccapriccianti. Nella seconda lettera che mando in procura c’è l’elenco di 16 detenuti, nome, cognome e data di nascita, disponibili a essere ascoltati dai magistrati. Alcuni mi dicevano di pressioni subite per ritirare la denuncia. Non è solo Salvini che fa propaganda, a novembre il ministero ancora ripeteva “abbiamo ristabilito l’ordine”“. Un impulso importante all’indagine si deve al magistrato di sorveglianza Marco Puglia. Il 5 aprile le proteste pacifiche, il 6 Puglia arriva all’istituto per tranquillizzare i detenuti. Il comandante della penitenziaria, Gaetano Manganelli, non vorrebbe farlo parlare con quelli del Nilo perché “era prevista una perquisizione”. Riesce a incontrarli e agli atti fa mettere: “I detenuti si comportarono in modo rispettoso e tennero a ribadirmi che la loro protesta era contenuta e pacifica”. L’8 il post sui social, che racconta: “Non appena il dottor Puglia si è allontanato era stata eseguita la perquisizione durante la quale molti detenuti erano stati picchiati”. Il magistrato lo stesso giorno chiede di parlare con i reclusi del Nilo, nel frattempo spostati in punizione al Danubio, ma non ci riesce perché “mancava il personale che potesse accompagnarli in sala per la videoconferenza”. Puglia al gip spiega: “Mi insospettii e il 9 disposi che mi portassero a colloquio con Teams proprio quei detenuti che non mi avevano portato il giorno prima. Emanuele Irollo mi raccontò che era stato picchiato. Mostrava tramite webcam le ecchimosi sulle spalle. Agenti sui lati dei corridoi gli avevano procurato le lesioni e avevano sputato su di lui”. La sera stessa Puglia va a ispezionare il Danubio senza avvertire nessuno. Visita alti 7 detenuti, avevano ecchimosi, ematomi agli occhi, “nessuno era stato visitato in infermeria ma, al più, sottoposto a una rapita valutazione del medico di turno”. Erano senza lenzuola, senza biancheria né sapone, “mi riferivano che era stato loro impedito di contattare i familiari”. Qual era il clima lo racconta ancora Puglia: “Tutti si sorpresero della mia presenza alle 21.30 al Danubio. Rimasero basiti. In ogni mio spostamento fui seguito, come un’ombra, da 3 unità di polizia penitenziaria. Chiesi più volte carta e penna in modo che potessi annotare quello che vedevo. Quando finalmente riuscii ad averli costoro lo trattenevano in mano, decisi di annotare i particolari sul mio smartphone”. L’11 arriva il sequestro delle telecamere di videosorveglianza. L’aguzzino con i guanti arancioni e gli agenti impuniti della mattanza di Nello Trocchia Il Domani, 6 luglio 2021 La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha sospeso dal servizio 77 agenti del corpo della polizia penitenziaria, 52 dei quali già raggiunti da misure cautelari per l’”orrenda mattanza” del 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Per gli altri indagati, in tutto sono 117, sono stati chiesti atti per valutare le singole posizioni. Al momento sono ancora in servizio, in attesa degli approfondimenti del ministero e del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ma confrontando le migliaia di pagine giudiziarie con i frammenti dei video emerge un altro capitolo inquietante di quel massacro: gli impuniti. Gli inquirenti continuano a tentare di identificare i massacratori senza volto. Ci sono decine di agenti che non sono stati riconosciuti e lavorano ancora a contatto con i detenuti. Intanto, una trentina di detenuti vittime dei pestaggi sono stati trasferiti in altri istituti di pena, soluzione caldeggiata dai familiari che, però, bocciano le destinazioni. Alcuni detenuti sono finiti in Sicilia o in Calabria, rendendo complicate le visite per i congiunti. La questione degli impuniti resta irrisolta. Guardando i video emerge su tutti un agente che indossa guanti arancioni. Alto un metro e settanta, occhiali e mascherina bianca. Dalle immagini si nota la sua particolare ferocia. L’agente indossa quasi sempre guanti arancioni “da bricolage”, scrivono gli inquirenti. Uno spezzone di quattro minuti disponibile sul sito di Domani sintetizza alcune delle azioni che lo vedono protagonista, a volte munito di manganello, altre volte di un bastone. È uno dei protagonisti assoluti della mattanza. È lui che si accanisce brutalmente su un detenuto riverso a terra che ha già subito ogni genere di violenza. L’uomo dai guanti arancioni viene fermato dai colleghi: non vogliono che ci scappi il morto. Chi è questo agente? Dove lavora? I picchiatori senza nome - Per capirlo gli inquirenti hanno interrogato i suoi superiori. Nel novembre scorso la commissaria capo responsabile del reparto Nilo, Anna Rita Costanzo - ai domiciliari e sospesa - ha fornito agli inquirenti un contributo per individuare Antonio De Domenico, finito nel carcere militare insieme ad altri sette agenti. Le immagini mostrano il suo fanatico accanimento su corpi inermi, e il video è stato mostrato anche a Costanzo. Insomma, tutti sapevano dell’esistenza dei video, anche gli stessi indagati. Costanzo collabora per individuare i sottoposti, ma “la sua ricostruzione dell’accaduto appare lacunosa, laddove non ha ben specificato la dinamica degli accadimenti, con particolare riguardo alle modalità concordate mediante le quali avrebbe dovuto svolgersi la perquisizione, che di fatto non possono non esserle note, avendola lei diretta per l’intero svolgimento, come evincibile dai filmati del circuito di videosorveglianza”, scrive il giudice. Dopo l’individuazione del soggetto gli inquirenti ricostruiscono tutte le azioni violente. Una carrellata di soprusi. “L’agente viene ripreso mentre sferra un calcio al detenuto”, “dopo aver indossato dei guanti colore arancione fluorescenti, picchia alla testa un detenuto”, “rincorre un detenuto (non identificato) e lo percuote violentemente con degli schiaffi alla nuca”, “viene ripreso mentre percuote con schiaffi e calci, rincorrendolo per un tratto del corridoio, un detenuto di colore con la maglia del Barcellona”, “rincorre un detenuto (non identificato, con maglione bianco e pantalone nero) picchiandolo violentemente alla testa con degli schiaffi”, “per le percosse subite si riversa al suolo, nonostante sia a terra il De Domenico non cessa la sua opera violenta, scagliando violente manganellate all’indirizzo del detenuto, le percosse vengono interrotte”. Per gli inquirenti si distingue “per la peculiare pervicacia e l’incomprensibile violenza manifestata nell’accanirsi gratuitamente mediante schiaffi in testa e calci al fondoschiena contro gli inermi detenuti”. Nel caso dell’agente De Domenico si è arrivati al riconoscimento, ma in altri casi no. Alcuni sono suoi complici. “Un agente non identificato munito di casco e guanti blu in lattice si avvicina a De Domenico e dopo averne interloquito con quest’ultimo, gli consegna un manganello in gomma di color nero, il De Domenico lascia a terra il bastone marrone e prende quello in gomma”, scrivono gli inquirenti. Chi sia l’agente che gli passa il manganello non è noto. Così come altre decine di agenti, muniti di casco, provenienti prevalentemente da altri istituti. Aggravare le misure cautelari - Parti consistenti dell’inchiesta che fanno riferimento ad agenti non identificati. “L’agente della penitenziaria - allo stato non identificato - che ivi lo aveva condotto, lo colpiva violentemente con colpi di manganello sferrati alla testa, alla schiena, al bacino, alle costole e sul viso”, “un altro agente lo afferrava per la barba stracciandogliela, gli sputava addosso e lo percuoteva con pugni al volto (…) e circa quindici agenti, allo stato non identificati, lo accerchiavano, gli sputavano addosso, lo insultavano e lo minacciavano con espressioni del tipo “… ai romani e ai napoletani oggi abbiamo rotto il culo”“. L’inchiesta non si ferma e punta a individuare gli altri responsabili, intanto la procura ha presentato ricorso contro l’ordinanza, firmata dal giudice Sergio Enea, chiedendo al Tribunale del riesame l’aggravamento delle misure cautelari per alcuni indagati. “Violenze in carcere anche a Foggia e Melfi” di Marisa Ingrosso Gazzetta del Mezzogiorno, 6 luglio 2021 La denuncia in un esposto dei familiari dei detenuti. Il provveditore: “Lungi da noi l’uso della forza”. Non solo Santa Maria Capua Vetere. Dalle viscere di due istituti detentivi apulo-lucani giungono altre denunce di violenze. I protagonisti sono i medesimi: i presunti carnefici sono agenti della Polizia penitenziaria e le vittime sarebbero i detenuti nelle carceri di Foggia e di Melfi. Le loro testimonianze, raccolte dai familiari, si sono trasformate anche in atti formali, al vaglio della magistratura. “Mi risulta che i detenuti che stavano in Puglia e i cui familiari hanno fatto l’esposto che abbiamo presentato, siano stati tutti e sette ascoltati dalla Procura di Foggia” dice Sandra Berardi, presidente di Yaraiha Onlus, associazione cosentina che si occupa di “tutela dei diritti umani, in particolare di quelli delle persone private della libertà personale”. È stata Yaraiha a raccogliere le testimonianze dei familiari dei detenuti foggiani. Due madri, due mogli, due sorelle e un padre hanno formalizzato ciò che avevano appreso dai loro congiunti in un esposto che Berardi ha presentato alla Procura di Foggia, il 27 marzo del 2020. Stando alla presidente, però, il primo detenuto è stato ascoltato dal magistrato solo 10 mesi dopo, a ottobre. Nell’esposto, che La Gazzetta del Mezzogiorno ha avuto modo di visionare, testimonianze che stillano terrore. Frasi come: “Massacrati di botte, trasferiti solo con ciabatte e pigiama e tenuti in isolamento per i successivi 6/7 giorni”; “Le guardie esterne sono entrate in cella e hanno pestato i detenuti”; “Manganellate su tutto il corpo, specialmente sulle gambe e portato al carcere di Catanzaro senza avere la possibilità di prendere il vestiario o il minimo indispensabile”. Le dichiarazioni si riferiscono al 9 marzo 2020 e ai giorni immediatamente seguenti. Il 9 marzo 2020, il Covid19 uccide 463 italiani in 24 ore. Quella sera il presidente Giuseppe Conte firma un DPCM con cui chiude l’Italia e “sospende i colloqui visivi con i detenuti”. La popolazione carceraria italiana, evidentemente, è ben informata su ciò che accadrà a Palazzo Chigi, è stata avvisata della sospensione dei colloqui. Così, il 7 di marzo, scoppia la ribellione a Salerno. Il 9 mattina tocca a Foggia. Lì, dietro le sbarre, ci sono oltre 600 persone, a fronte dei 365 posti regolamentari. Ed è l’inferno. Il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Puglia e Basilicata, Giuseppe Martone, era sul posto e oggi sintetizza così: “Il giorno della rivolta a Foggia io ero presente, ho parlamentato con tutti i detenuti, alcuni erano riversi verso l’esterno del carcere”. Quel giorno i reclusi staccano il cancello, la membrana che separa il “dentro” e il “fuori”. Riusciranno ad evadere in 72. Imputati e condannati per ogni orribile reato, inclusi mafiosi e assassini di donne inermi. Semineranno il panico, rapineranno auto. Il travaso all’esterno di chi stava “dentro” il carcere spinge la gente a chiedere le “maniere forti”, l’intervento dell’Esercito. L’istituto foggiano è ridotto in macerie. “Era stata distrutta la matricola - ricostruisce Martone - era in panne la cucina con cui confezioniamo i pasti con i detenuti lavoranti”. Ma il suo sforzo “diplomatico”, “andato avanti fino a sera”, porta a due risultati concreti e non scontati: non ci sono morti e la rivolta rientra, i detenuti rientrano, in cella. A quel punto, spiegano fonti qualificate, la situazione era questa: nel perimetro del carcere c’erano oltre 500 persone potenzialmente pericolose e potenzialmente armate. “Se la cucina era stata devastata - conferma Martone - potevano avere lame, coltelli. Hanno rotto tavolini, dunque potevano avere bastoni”. Per ripristinare una cornice di sicurezza - dicono fonti della Gazzetta - bisognava passare al setaccio ogni detenuto e ogni angolo della struttura. Ma il Provveditore delle carceri di Puglia e Basilicata esclude che a Foggia vi sia stata una “perquisizione straordinaria” come quella avvenuta a Santa Maria Capua Vetere: non l’abbiamo organizzata nell’immediato - spiega - anche perché i detenuti erano praticamente liberi, eccezion fatta per i 72 evasi, che poi sono stati riarrestati. “All’interno non c’erano le condizioni - dice - ci volevano mille uomini per affrontare 500 detenuti liberi con le barriere divelte”. Di fatto, l’ordine viene ristabilito e si decide di diminuire la popolazione carceraria presente. “Bisognava far decrescere il numero dei detenuti - spiega il provveditore - anche per consentire la messa in sicurezza e il ripristino di tutto per la gestione. Per cui è stato dato luogo a un trasferimento di un centinaio di detenuti”. “Così come - aggiunge - sono stati trasferiti coloro che, evasi, venivano riarrestati”. Il 12 marzo 2020 scattano i trasferimenti dei detenuti di Foggia. È il sito Poliziapenitenziaria.it, organo di stampa ufficiale del sindacato degli agenti Sappe a dare la notizia: “All’uscita dall’istituto (di Foggia; ndr) con a bordo di alcuni dei mezzi i detenuti da trasferire altrove, i Colleghi della Polizia Penitenziaria sono stati salutati dai Colleghi delle altre Forze di Polizia a sirene spiegate e con il saluto militare”. “Come” avvennero quei trasferimenti, non tocca a noi stabilirlo. Nell’esposto si riferisce di agenti di Polizia penitenziaria che piombano nelle celle armati di manganelli. Colgono i detenuti in pigiama, mentre dormono. Botte. Botte. A ancora botte. Presi di peso e gettati in una camionetta. Trasferiti a centinaia di chilometri di distanza, all’arrivo nel nuovo carcere ancora botte. Botte e isolamento. Impossibilitati ad avvisare avvocato e familiari per giorni, senza soldi, con addosso solo quello stesso pigiama. Tra le presunte vittime anche una persona invalida al 100% la cui moglie denuncia il “massacro di Foggia”. Meno di un mese dopo, il 6 aprile 2020, nella casa circondariale “Uccella” di Santa Maria Capua Vetere i video cristallizzano la “orribile mattanza” (così l’ha definita il Gip Sergio Enea). Ovvero la “perquisizione straordinaria” che, stando a quanto ricostruito da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, avrebbe fatto seguito a una protesta dei detenuti innescata, pare, proprio da persone trasferite di fresco dal carcere di Foggia. Stando alle denunce, una dinamica sovrapponibile a quella foggiana, si sarebbe registrata nel carcere di Melfi. Qui, ricordiamolo, durante la rivolta del 9 marzo furono anche prese in ostaggio nove persone (agenti di custodia e personale sanitario), poi rilasciate. Il blitz per il trasferimento di 60 detenuti, invece, sarebbe scattato la notte tra il 16 e il 17 marzo. All’operazione partecipano circa 260 uomini della Polizia penitenziaria. Il segretario generale del Sindacato di Polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo, disse che si trattava dei detenuti “più turbolenti” e che quella operazione era “una prova di forza dello Stato necessaria”. Dopo quel “trasferimento”, una lettera (firmata) del figlio di un anziano lì detenuto, denunciava abusi e violenze. Sono entrambi sanseveresi e la lettera diviene tecnicamente una “notizia di reato” una volta pubblicata da La Gazzetta di San Severo (www.lagazzettadisansevero.it) il 21 marzo 2020. Il figlio denuncia “di uomini che sono stati massacrati, presi a sprangate nella casa circondariale di Melfi”. Suo padre e altri non avrebbero preso parte alla ribellione “eppure lui, insieme ad altri 71 uomini, sono stati presi a sprangate e portati via con pigiama e ciabatte senza neanche avere la possibilità di portare i propri vestiti. Attualmente sono stati trasferiti presso altre strutture”. “I detenuti non sono tutti dei mostri - scrive il giovane - mio padre è in attesa di processo, se ha delle colpe pagherà, ma tutto quello che ho letto riguardo i disordini so che non gli appartiene. Ma perché, mi chiedo, perché ancora una volta non si fa più distinzione, i detenuti hanno delle colpe ma sono esseri umani, qui fuori ci sono delle famiglie che soffrono”. Il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Puglia e Basilicata afferma di non essere a conoscenza delle circostanze qui evidenziate e relative a Melfi e Foggia (“A me gli esposti non sono mai arrivati”). Preparato, fermo ma garbato, una lunga esperienza alle spalle, Giuseppe Martone è molto stimato dalle fonti che abbiamo consultato e afferma: “Non ero presente durante i trasferimenti, ma lungi da noi pensare di usare la forza”. Condanna i fatti di Santa Maria Capua Vetere, per come stanno emergendo. Condanna “ogni forma di violenza”. Conferma la “piena fiducia nella Magistratura”. Assicura: “Lavoro da 40 anni e non mi sono mai permesso di ordinare l’uso della forza salvo casi eccezionali, per difendere le persone o per evitare evasioni”. “Le vittime venivano da me con i denti saltati”. Parla la Garante del carcere di Barbara Polidori Vita, 6 luglio 2021 Emanuela Belcuore, la Garante dei diritti delle persone private di libertà personale dell’area di Caserta, si è insediata a giugno 2020, due mesi dopo i fatti. “Mi sono trovata a gestire la ricostruzione morale del rapporto di fiducia tra detenuti e istituzioni che una vicenda così rade al suolo, come un terremoto”, racconta. Il libero arbitrio è tra i principi che differenziano l’uomo dagli animali. Per legge i detenuti della Casa circondariale “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere, alle porte di Caserta, non sono liberi, eppure questo non li rende meno umani. Non ci sono dubbi anche sul fatto che quella avvenuta il 6 aprile 2020 ai danni di 292 detenuti della sezione Nilo sia una “mattanza”, un vuoto umanitario con l’intenzione di trattarli proprio come animali. “Domate il bestiame”, “Li abbattiamo come vitelli”: sono alcune delle considerazioni che 52 agenti di polizia penitenziaria, oggi in misura cautelare, hanno condiviso sui detenuti prima di picchiarli brutalmente entro le mura del carcere. A guidarli non la giustizia bendata, principio cardine delle Forze dell’Ordine, ma una morale distorta che li ha resi ciechi, immemori dei diritti delle persone, qualsiasi sia il loro grado di giudizio. A sconvolgere di questa vicenda però, non è tanto che gli agenti coinvolti esaltino “il sistema Poggioreale”, come si apprende dalle carte della Procura, ma la visione miope che tutt’oggi si ha in Italia della macchina processuale, per cui chi si macchia di un reato è destinato a essere socialmente nient’altro che un “carcerato di merda”, un limbo in cui i diritti primari spesso sono negati a tal punto da non aver nemmeno qualcuno a rappresentarli tra le sbarre. Ed è in questo inferno di ingiustizie che il ruolo del Garante dei diritti delle persone private di libertà personale diventa essenziale. Come ricostruire la fiducia nelle istituzioni - I fatti si inseriscono in un quadro complesso. Già da marzo 2020 la tensione nelle carceri italiane cresce a causa delle discutibili condizioni igieniche e del sovraffollamento degli edifici: secondo l’associazione Antigone, in quel periodo circa 61.000 persone erano recluse a fronte di 50.000 posti regolamentari, con un tasso di affollamento ufficiale superiore al 120%. Solo nel mese di marzo, sono 27 i penitenziari italiani in cui si verificano proteste dei detenuti. Tra questi anche il carcere di Santa Maria Capua Vetere, una struttura pressoché recente, di soli 25 anni, dove oggi opera Emanuela Belcuore, Garante dei diritti delle persone private di libertà personale dell’area di Caserta. A turbare i detenuti c’è stata di base una preoccupazione generale sulle condizioni igienico-sanitarie in cui vivevano e il timore dei contagi da Covid19. Ma quali erano, al momento dei fatti, le reali condizioni della struttura? Molto critiche: il carcere fu costruito da principio senza rete idrica, l’acqua veniva portata con le autobotti. Sono solo alcune delle difficoltà a cui sono sottoposti ogni giorno i detenuti di Santa Maria Capua Vetere. Solo pochi giorni fa, per esempio, c’è stato un blackout elettrico che ha impedito loro di informarsi tramite notiziari, in più non ci sono stati recapitati nemmeno i quotidiani a cui siamo regolarmente abbonati. Alla detenzione, al distanziamento fisico, si aggiunge così un drammatico isolamento sociale. Quanto si è aggravato a causa del Covid19? Aggravato? Le persone hanno perso ogni tipo di contatto: sono stati imposti il blocco dei colloqui coi Garanti, il blocco degli ingressi dei volontari e gli incontri coi familiari. In più, i minuti di conversazione e videochiamata a disposizione dei detenuti sono stati scalati. Lei capisce che due minuti in più in una conversazione possono fare la differenza soprattutto in un periodo drammatico come quello della pandemia? Quali erano le motivazioni? A quanto pare la rete telefonica non supporterebbe il traffico dati… Com’è stata gestita invece la campagna vaccinale a Santa Maria Capua Vetere? La sanità ha una gestione distaccata da quella del carcere ma i detenuti hanno aderito tutti positivamente. Sono stati fatti tamponi e vaccinazioni a tappeto, e questi risultati si devono soprattutto alla tempestività di intervento della direttrice del carcere. Alcuni detenuti lamentano però i costi spropositati sui beni di prima necessità venduti nel carcere: un tubetto di disinfettante per esempio verrebbe all’incirca 6 euro. Gran parte di loro ha alle spalle difficoltà economiche e contesti indigenti. Almeno in pandemia non sarebbe il caso di rendere prevenzione e salute accessibili a tutti? Sono completamente d’accordo con lei, sa quante battaglie stiamo affrontando a riguardo? Lei si è insediata a giugno 2020, due mesi dopo i fatti e a seguire un’interrogazione parlamentare dell’ex ministro della giustizia Bonafede. Qual era l’aria che si respirava in quei mesi? Le vittime venivano da me con i denti saltati e una paura immensa di parlare. Immagini cosa voglia dire denunciare un agente e incontrarlo poche ore dopo che ti ha picchiato… Molte di loro, oltre ai danni fisici, stanno ancora combattendo con traumi psicologici che li perseguiteranno per anni. Ma prima di Lei qualcuno aveva raccolto mai le testimonianze di queste persone? Le dirò: prima di giugno 2020 c’era soltanto il Garante regionale, Salvatore Ciambriello, a rappresentare i detenuti di Santa Maria Capua Vetere. I detenuti non avevano nessuno a tutelarli per la zona di Caserta prima che mi insediassi io. In un contesto già di per sé difficile in cui intervenire, questa vicenda quanto ha oberato il suo ruolo? Mi sono trovata a gestire la ricostruzione morale del rapporto di fiducia tra detenuti e istituzioni che una vicenda così rade al suolo, come un terremoto. Bisognerebbe tenere in conto quali responsabilità abbiamo noi Garanti e ricordarlo ai politici che puntano il dito contro il nostro lavoro. Si riferisce alle ultime dichiarazioni del Leader della Lega, Matteo Salvini? Quello che ha affermato è vergognoso. Voglio rispondergli però ricordando quando disse “vorrei vedere i garanti con l’olio bollente addosso”: venga qui, in carcere, e ci chieda scusa. Massima solidarietà alla polizia penitenziaria ma le mele marce ci sono e vanno allontanate dal cesto, non si può fare di tutta l’erba un fascio. Alcune delle affermazioni espresse dagli agenti della polizia penitenziaria nella chat di WahtsApp, agli atti della Procura, pare riguardassero anche il vostro lavoro, come ha sostenuto lo stesso Ciambriello. Tra queste: “È un Garante di merda, perché non torna a fare il prete?”. Perché il vostro lavoro è denigrato persino da chi dovrebbe difenderlo? La figura del Garante può risultare fastidiosa, la verità è che in un paese civile il garante non dovrebbe nemmeno esistere, perché i diritti delle persone dovrebbero essere imprescindibili. Sa quante volte invece ho messo piede in carcere in un anno? Ottantadue, pensi quanto c’è bisogno invece del nostro lavoro. Perché è questo il nostro ruolo: agire lì dove lo Stato è manchevole. Tra chi usa la linea morbida della retorica e chi, come la Ministra della Giustizia Marta Cartabia, parla severamente di oltraggio alla divisa e tradimento della Costituzione, ciò che emerge oggi è una dicotomia morale nel dibattito pubblico che associa indiscriminatamente i detenuti al male e il poliziotto al bene. Uno stereotipo che sottrae alla giustizia, allo Stato, i suoi spazi di intervento e che minaccia anche il lavoro dei Garanti dei detenuti. Sarà la giustizia, ora, a dover giudicare i 52 agenti indagati, rispondendo alla profezia di uno di loro, proprio dalla chat WhatsApp agli atti della Procura: “Siamo ai piedi di pilato”. Il pestaggio nel carcere, sintomo di un sistema disumano di Stefano Magni radiomaria.it, 6 luglio 2021 Il pestaggio sistematico dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, a Caserta, avvenuto nell’aprile del 2020 ed emerso solo in queste settimane, ha scioccato il Paese. Le immagini sono esplicite, secondini che picchiano carcerati ormai indifesi, anche una persona disabile in carrozzina, come rappresaglia per una rivolta dovuta al panico da Covid-19, che iniziava a diffondersi. È il sintomo di un problema più grave e diffuso, il sovraffollamento delle carceri e la disumanizzazione dei detenuti che dovrebbero invece essere reinseriti sulla buona strada. Ne parliamo con Francesco Cavallo, avvocato, del Centro Studi Livatino. Il pestaggio sistematico dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, a Caserta, ha scioccato il Paese. Le immagini sono esplicite, secondini che picchiano carcerati ormai indifesi, anche una persona disabile in carrozzina, come rappresaglia per una rivolta. Era l’aprile del 2020, a un mese e mezzo dall’inizio dell’emergenza Covid-19 e il primo caso di contagio aveva provocato la ribellione dei carcerati. La risposta della polizia penitenziaria è stata violentissima ed ora, a poco più di un anno di distanza, dopo tanta omertà, è sotto gli occhi di tutti. Le indagini sono appena all’inizio e molti aspetti sono ancora oscuri: chi sapeva, chi ha dato l’ordine, cosa sapeva l’allora ministro Alfonso Bonafede. Il caso, scoppiato fra le mani del governo Draghi, risale infatti all’anno del governo Conte 2 (Pd, Leu e M5S). ma si possono già analizzare degli aspetti che sono già evidenti. Perché quello del carcere campano non è un caso unico, purtroppo. La Nuova Bussola Quotidiana ne ha parlato con l’avvocato Francesco Cavallo, del Centro Studi Livatino. Il quale ci ribadisce: “La situazione carceraria italiana è un tema che dovrebbe essere posto, da anni, all’attenzione della politica. Come Centro Studi Livatino lo abbiamo denunciato immediatamente, non appena è scoppiata l’emergenza Covid-19. La gestione delle carceri, come era evidente sin dal febbraio del 2020, sarebbe stata problematica, con rischi enormi. Rischi che poi sono culminati, non solo nell’episodio di Santa Maria Capua Vetere, che ora è sotto gli occhi di tutti, ma anche degli eventi che lo hanno preceduto. Sono violenze, rivolte, morti su cui ancora non si è fatta piena luce”. Quali sono stati i segni precursori delle violenze a Santa Maria Capua Vetere? Noi abbiamo assistito ad episodi molto gravi, con violenze e ribellioni in diverse carceri italiane. Penso alla rivolta del carcere Sant’Anna di Modena, l’8 marzo 2020, nove detenuti morti. O anche a Rieti, altre tre vittime fra i carcerati. E poi le rivolte di Melfi (con cattura di ostaggi), di Siracusa e di Foggia. Perché tutto ciò poteva essere previsto e prevenuto? Perché è nota la condizione di sovraffollamento delle carceri. Una condizione che ci ha già portato a ricevere censure in sede comunitaria e internazionale e che ci pone al di fuori dell’ordinamento costituzionale. Il panico da epidemia, alimentato da un clima di incertezza e, allora, anche di ignoranza scientifica, con morti e reparti ospedalieri che si stavano riempiendo in fretta, ha determinato disagio, paura e violenza, in comunità chiuse e sovraffollate, ove era impossibile garantire gli spazi necessari per quel distanziamento fisico che gli esperti predicavano come indispensabile. Quale giudizio politico possiamo esprimere sull’azione del governo Conte? I provvedimenti dell’allora governo Conte, ministro di Grazia e Giustizia era Bonafede, sono stati certamente lacunosi. Enormemente lacunosi. Da una parte ha scaricato sulla magistratura di sorveglianza l’onere della scelta su chi rimandare a casa, con rischi di alimentare ulteriore nervosismo nelle carceri, per una diffusa percezione di disparità di trattamento. Dall’altra ha imposto una forte limitazione dei contatti con il mondo esterno. Per cui si è determinata un’immediata reazione nella popolazione carceraria, già provata dal sovraffollamento e poi colpita da queste prime misure in un momento di paura per una pandemia ancora ignota. E fra le cose che sono accadute c’è anche l’episodio di violenza a Santa Maria Capua Vetere, ora al vaglio della magistratura, perché ad essere esasperato era anche il personale della polizia penitenziaria. I pestaggi nel carcere campano sono stati sistematici ed hanno coinvolto gran parte del personale, non solo agenti, ma anche personale medico... Sono atti di violenza su cui si deve fare chiarezza. Sarebbe troppo facile prendersela con “gli ultimi”, con alcuni agenti della polizia penitenziaria. Occorrerebbe capire chi, nella catena di comando, era al corrente dei fatti e come sia stato possibile trasformare una perquisizione in una vera e propria spedizione punitiva. Anche con pestaggi a freddo di detenuti disabili. È un caso più unico che raro, oppure è frequente ma non lo veniamo a sapere? Con riferimento alle vicende di Santa Maria Capua Vetere, a differenza di qualche corrente della magistratura associata che si ricorda dei diritti degli indagati a giorni alterni, in base agli accusati, noi riteniamo che i diritti degli indagati valgano sempre. anche se si tratta di accusati di atti violenti documentati con immagini molto crude. Preferiamo attendere che le indagini si concludano, che vi siano le pronunce del riesame e della Cassazione sugli aspetti cautelari, che si svolgano i processi. Non possiamo fare processi mediatici. La diffusione delle immagini e le pagine dei quotidiani con le foto e i nomi degli agenti coinvolti non sono una bella pagina dell’informazione. Al netto di questo, è pacifico che la condizione di stress del sistema carcerario sia abbastanza diffusa; ciò non implica che episodi come quelli di Santa Maria Capua Vetere siano “all’ordine del giorno” ma purtroppo (come sanno bene gli avvocati in contatto con detenuti e lo testimoniano diversi procedimenti in corso in tutta Italia) non è infrequente che le situazioni di stress in comunità chiuse sfocino in violenze, pestaggi e non si riesca più a gestire la situazione. Possibile che il ministro Bonafede, in un anno, non abbia saputo nulla? Occorrerà accertare se la catena di comando, fino ai vertici, ne fosse all’oscuro, considerando che su questo episodio era stata fatta anche un’interrogazione parlamentare, lo scorso autunno, e pare fosse noto. Le indagini ed i processi ci diranno l’eventuale livello di responsabilità penale. In ogni caso, che la gestione Bonafede fosse deficitaria lo rivela il fatto che la condizione di sovraffollamento e stress nelle carceri era arcinota ben prima dell’emergenza Covid. Era ampiamente prevedibile che allo scoppio della pandemia ci sarebbero stati enormi problemi ed è evidente, al di là delle responsabilità penali, che, dal punto di vista politico, il governo ha sbagliato. E, devo dire, anche la stampa e la Tv si sono concentrate sul caso limite del boss ammalato mandato a scontare un periodo ai domiciliari, imbastendoci intere trasmissioni, ma hanno perso di vista il quadro di insieme. Non hanno denunciato la mancanza di provvedimenti che avrebbero consentito l’alleggerimento della tensione, sin da subito. Cosa si sarebbe dovuto fare, invece, per prevenire la situazione? Il Centro Studi Livatino lo chiese già a fine febbraio 2020: la prima misura che si sarebbe dovuta prendere, allo scoppio dell’emergenza doveva consistere in un atto di clemenza, quantomeno in un indulto per coloro che stavano per concludere la loro pena in carcere: un anno di remissione di pena detentiva per ogni condannato in via definitiva, senza restrizioni in ordine al tipo di reato per cui fosse stata pronunciata condanna. Questa proposta non venne presa in considerazione ovviamente per ragioni demagogiche, avrebbe provocato crepe all’immagine di securitarismo del Ministro della Giustizia e di parecchie forze politiche, di maggioranza e di opposizione. Ciò avrebbe consentito di sfoltire la popolazione carceraria senza disparità di trattamenti, non avrebbe rimesso alla magistratura di sorveglianza la discrezionalità su chi rimandare a casa e chi tenere in carcere. Una discrezionalità che ci è costata anche la rimessa in libertà di qualcuno che forse, invece, sarebbe potuto restare in carcere. Tuttavia, il clima in cui siamo immersi da trent’anni ormai, impedisce anche solo di parlare di atti di clemenza, come se fossero “un colpo di spugna”. Quando invece atti come questi ristabilirebbero l’iniziativa del potere legislativo, perché sarebbe il Parlamento a decidere, non il potere giudiziario (con tutti i limiti della discrezionalità e della “distrazione” che ne affligge una parte balzata negli ultimi anni e mesi agli onori della cronaca). Darebbe anche un senso alla pena: la clemenza è anche ciò che legittima e giustifica la pena, e in certe circostanze eccezionali, come lo scoppio di una pandemia, è (e sarebbe stato) un gesto di grande responsabilità. Non sarebbe il caso di usare carceri già costruiti per redistribuire i carcerati e ridurre così il sovraffollamento? L’Italia, messa a confronto con i soli Paesi membri dell’Unione europea risulta avere le carceri più sovraffollate: 120,3 detenuti per ogni 100 posti, con una media di 1,9 persone per cella. Non solo, messa a confronto con tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, risulta ai primi posti con il più alto numero di detenuti in attesa di giudizio. Sarebbe possibile un trasferimento, certo, ma sarebbe auspicabile ripensare interamente l’esecuzione penale, oltre che la custodia cautelare (e la reale autonomia e indipendenza dall’accusa dei magistrati che esercitano le funzioni di GIP, Riesame, ecc.). L’esecuzione penale però, è più di ogni altro tema ostaggio di opposte partigianerie. Da un lato ci sono i giustizialisti manettari, dall’altro ci sono gli utopisti che vorrebbero abolire qualunque forma di pena. E invece, nello scontro fra opposte partigianerie, sfugge il buon senso. Perché buon senso vorrebbe che l’intera esecuzione penale fosse ricondotta ai principi costituzionali di dignità, senso di umanità e finalità rieducativa. Principi che non sono rispettati in carceri sovraffollate, con la tensione alle stelle fra detenuti e personale carcerario. Prima della Costituzione italiana della Cedu, è l’ordine naturale e cristiano ad esigere che, se qualcuno sconta una pena e paga il prezzo dei propri errori, non va umiliato, annichilito, privato di dignità e speranza, condannato alla “morte per pena”. Cartabia: “Sono disposta a cambiare tutto, ma non possiamo difendere lo status quo” di Davide Varì Il Dubbio, 6 luglio 2021 “C’è una grande attesa di trasformazione del volto della giustizia e non possiamo lasciare che siano deluse queste aspettative”, dice la guardasigilli a Catania. Confermati i concorsi per la magistratura. “Quest’aula porta il nome di ‘aula delle adunanze che fin dal nome sintetizza lo spirito di questo mio viaggio nei distretti delle Corti d’appello: adunare, ad unum, chiamare a raccolta per portare ad unità, per convocare ad un compito comune, ciascuno nei rispettivi ruoli, nel momento in cui per la giustizia si prospetta una grande occasione di rinnovamento. Stiamo attraversando una stagione di grandi cambiamenti per la vita sociale italiana, in ripresa dopo la grande ferita della pandemia; una stagione di grande rinnovamento e anche per la giustizia”. A dirlo è il ministro della Giustizia Marta Cartabia durante il suo incontro al Palazzo di Giustizia di Catania, seconda tappa nelle corti d’appello dopo quella a Milano. “C’è una grande attesa di trasformazione del volto della giustizia e non possiamo lasciare che siano deluse queste aspettative. Non possiamo lasciare questo momento di fiducia rinnovata lasciando che le cose restino come sono”. Per il ministro il “cambiamento sarà possibile se impareremo ad adunarci, se sapremo avvicinarci di più, superando rivalità e distanze, in vista di uno scopo comune”. “Avvicinarci - ha spiegato - tra tutti i diversi operatori del mondo della giustizia; avvicinarci tra generazioni; avvicinarci tra istituzioni: la giustizia funziona bene soprattutto nei luoghi dove tribunali e corti hanno tessuto forme di sinergia con gli ordini professionali, con le università, con il carcere, con le istituzioni locali, con le imprese e la società civile. I palazzi di giustizia sono inseriti in un territorio e funzionano bene quando chi lo guida sa tessere relazioni con il territorio”. Per Cartabia “il lavoro del giudice” deve essere “supportato da una squadra, un pò come il chirurgo in una sala operatoria, che ha attorno tanto altro personale che gli permette di concentrarsi sul suo compito, sollevandolo da tante attività fondamentali, ma di contorno”. “Il chirurgo è e resta insostituibile - ha sottolineato - ma non può fare tutto da solo. La buona riuscita di una operazione dipende dall’intera equipe medica. A questo scopo - ha ribadito - saranno assunti - sia pur a tempo, secondo le condizioni poste dall’Europa, 16.500 giovani giuristi, in due tranche di 8.250 per quasi 3 anni, che dovranno contribuire a rispettare gli impegni che l’Italia ha assunto per ottenere i fondi del Recovery Plan: l’abbattimento dei tempi di definizione dei procedimenti, di ben il 40% per il civile; del 25% del penale”. “Per la democrazia non si può fare a meno di garantire i diritti dei cittadini, ma anche la vita economica e per fare questo bisogna anche intervenire sui tempi della giustizia perché una giustizia lenta e in affanno, incapace di risposte veloci, rappresenta un fardello per il rilancio anche economico del nostro Paese”, ha spiegato la guardasigilli. “Mi è ben chiaro - ha aggiunto - che da anni tutti gli uffici giudiziari soffrono di carenze di organico di ogni tipo, di magistrati, di cancellieri e personale amministrativo. Le assunzioni ordinarie dovranno proseguire, ed essere rinforzate, parallelamente allo sviluppo dell’Ufficio del processo. Le assunzioni a tempo del Pnrr non possono sopperire alle carenze di organico strutturali. Tra pochi giorni si terrà il concorso della magistratura per 310 nuovi posti e a ottobre ne verrà bandito un altro per 360 posti, che dovrà svolgersi nei mesi successivi”. “Da quando si è insediato il Governo, da quattro mesi in via Arenula abbiamo dovuto riattivare il motore di una macchina complessa, molto complessa, che per un anno è stata ferma o estremamente rallentata, per via della crisi pandemica”. “Sono disposta a cambiare tutto e cercare di ottenere maggiori fondi, ma non possiamo difendere lo status quo”, ha sottolineato. “Dobbiamo modificare il nostro modo di lavorare - ha aggiunto - altrimenti l’obiettivo resterà un’utopia che scaricheremo sui giovani perché dovremo restituire i soldi all’Europa. Non voglio fare terrorismo, ma la responsabilità è davvero alta”. Ma ora il referendum fa “concorrenza” alle leggi di Cartabia di Giacomo Puletti Il Dubbio, 6 luglio 2021 Boom di firme per Lega e Radicali, ora appoggiati pure da FdI: così gli altri partiti cercheranno “rivincite” su penale e Csm. Il sostegno di Fratelli d’Italia a quattro dei sei referendum sulla giustizia promossi da Lega e radicali aggiunge una pedina importante nello scacchiere politico- giudiziario che coinvolge governo, Parlamento e partiti. La presidente di Fd’I, Giorgia Meloni, ha dato il proprio avallo ai quesiti su Csm, separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati e voto degli avvocati nei Consigli giudiziari, mentre si è detta contraria a quelli su custodia cautelare e abrogazione della legge Severino, ritenuti “figli più della legittima cultura radicale che della destra nazionale”. In particolare, secondo Meloni “la proposta referendaria sulla carcerazione preventiva, al di là delle condivisibili motivazioni, impedirebbe di arrestare spacciatori e delinquenti comuni che vivono dei proventi dei loro crimini”. Il sostegno a quattro dei sei quesiti dà in ogni caso una spinta importante alla campagna referendaria, che sarà dunque propagandata dalla destra con tanto di gazebo. “È necessario iniziare un processo di riforma radicale della magistratura dopo le inquietanti vicende del caso Palamara - ha aggiunto la presidente di Fd’I - Bisogna riformare la magistratura per scardinare il sistema delle correnti che ne ha fatalmente compromesso l’immagine”. Di impulso alla campagna, a guardare i numeri del primo fine settimana di raccolta firme, in realtà non sembra esserci neppure troppo bisogno. In base ai dati diffusi dalla Lega sono stati centomila i cittadini che hanno scritto il proprio nome a sostegno dei referendum, una cifra che ha sorpreso positivamente lo stesso leader del Carroccio, Matteo Salvini. “C’è stata una risposta popolare incredibile - ha detto l’ex ministro dell’Interno - Da oggi (ieri, ndr) è possibile firmare con calma e al fresco in tutti i comuni italiani, e quindi l’obiettivo del milione di firme sarà ampiamente superato, anche perché è un referendum non di partito ma di giustizia”. Per dare il via all’iter referendario di firme ne basterebbero 500mila, ma il numero uno leghista alza l’asticella e punta all’intera posta in palio. “Per trent’anni la politica e il Parlamento hanno promesso riforme della giustizia e per trent’anni non è cambiato nulla - ha spiegato - Anche un giudice se sbaglia sulla pelle di un cittadino deve pagare come tutti gli altri lavoratori”. Di certo il boom della due giorni di raccolta firme ha messo vento in poppa sia del Partito radicale, per quanto riguarda la campagna referendaria, sia della Lega, che intestandosi da subito la battaglia potrà andare all’incasso in caso di successo. È anche per questo che Meloni ha deciso di cambiare rotta rispetto alla freddezza espressa solo pochi giorni fa dal responsabile giustizia di Fratelli d’Italia, Andrea Delmastro Delle Vedove, che aveva detto di non essere entusiasmato neppure dai quesiti sulla magistratura e di preferire a questi ultimi la strada degli emendamenti al ddl sul Csm. E può essere contenta anche Forza Italia, come ha sottolineato la capogruppo azzurra in Senato, Anna Maria Bernini: “Più di centomila firme per i referendum sulla giustizia in un solo fine settimane sono un risultato straordinario - ha scritto su twitter - una risposta popolare al populismo giudiziario”. Ma il successo di questo inizio di campagna potrebbe complicare le cose per le riforme in Parlamento, soprattutto riguardo al ddl penale e a quello sul Csm, rispetto ai quali altri partiti si sentiranno più sollecitati a piantare le loro bandierine. In particolare il Movimento 5 Stelle, che non mollerà facilmente sulla propria riforma della prescrizione, e anche il Pd, che delle riforme sulla giustizia ha fatto il proprio cavallo di battaglia al principio della neonata segreteria di Enrico Letta. E così ci ha pensato Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia, a ribadire l’importanza del percorso riformatore: “Oggi non c’è nulla di più importante delle riforme: senza riforme non arrivano i fondi del Recovery. Per questo, dare a qualsiasi altro provvedimento, portato avanti a qualsivoglia titolo, anche il più nobile, una importanza prioritaria ed epocale, creando divisioni e rischi di compromissione della tenuta della maggioranza, è in questo momento sbagliato - ha detto Sisto - Il ministero della Giustizia è al lavoro per portare quanto prima in Aula il pacchetto delle riforme del civile e del penale in modo da dare al Paese un’ulteriore spinta alla crescita, con una forte connessione ai principi costituzionali”. Su questo è tornata a parlare anche la ministra della Giustizia Marta Cartabia, intervenuta a Catania nella seconda tappa delle sue visite nelle Corti d’Appello, dopo quella di Milano. “Come sapete stiamo lavorando a numerose riforme - ha detto la guardasigilli - quelle del rito civile sono già in Parlamento, quelle del processo penale arriveranno a giorni e subito dopo porteremo a termine anche quella dell’ordinamento giudiziario”. Ma la ministra è sembrata anche dare una risposta alle obiezioni avanzate pochi giorni fa dall’avvocatura sul ddl civile. “Sono disposta a cambiare tutto e cercare di ottenere maggiori fondi, ma non possiamo difendere lo status quo - ha concluso - Dobbiamo modificare il nostro modo di lavorare, altrimenti l’obiettivo resterà un’utopia che scaricheremo sui giovani perché dovremo restituire i soldi all’Europa. Non voglio fare terrorismo, ma la responsabilità è davvero alta”. Pandemia evento eccezionale per amnistia e indulto? di Domenico Turano La Discussione, 6 luglio 2021 Amnistia e indulto sono sempre il sogno dei condannati - detenuti e non - nonché dei loro familiari, per poter iniziare un nuovo percorso di vita all’insegna della legalità. Non sono molte le persone che hanno effettiva cognizione del mondo carcerario - del quale tutti dovremmo, invece, conoscere bene l’esistenza - fatta eccezione per gli addetti ai lavori, di cui i primi - a stretto contatto - sono proprio gli agenti della polizia penitenziaria, i loro familiari ed il personale di supporto per la rieducazione e reinserimento sociale del detenuto, poiché le pene, non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, come prevede l’articolo 27 della Costituzione. Amnistia e indulto diventano sempre più necessari per una serie di motivazioni, non esclusa la vita non esattamente in linea con le norme nazionali ed europee (sovraffollamento carcerario e lungaggine dei processi). L’ultima amnistia risale al 1990, concessa col d.p.r. del 12 aprile n. 75, per i reati commessi fino al 24 ottobre 1989 (data di entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, divenuto, in parte, nuovamente vecchio). L’Amnistia è provvedimento di clemenza che estingue il reato commesso per il quale lo `Stato rinuncia alla pretesa punitiva, a differenza dell’indulto che estingue la pena inflitta, in tutto od in parte o viene trasformata in altra di minore entità. Fino al 1992 amnistia e indulto erano prerogative del Presidente della Repubblica; da tale data, in forza della modifica apportata all’art. 79 della Costituzione, tali provvedimenti di clemenza devono essere votati in Parlamento con la maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. Nel 2000 fu il papa Wojtyla a farne appello, sollecitando un gesto di clemenza nel documento per il Giubileo nelle carceri, rinnovato il 14 novembre del 2002, ospite in Parlamento, platealmente accolto con uno scrosciante applauso da tutta l’Assemblea in seduta comune. Normalmente le concessioni di amnistia e indulto sono scelte eccezionalissime collegate ad eventi pubblici anch’essi di portata eccezionale. L’indulto è stato concesso nel 2006 ai detenuti e ai condannati in via provvisoria non carcerati con sconto di pena di tre anni per determinati reati. Forse la pandemia da Covid-19, con le sue tragedie umane e strascichi di tipo economico e sociale potrebbe essere considerato “evento eccezionale”, visto che da essa ne sono scaturiti, doverosamente, provvedimenti economici e fiscali senza precedenti da parte del Governo e del Parlamento. Occorre investire molto sulla prevenzione dei reati in tutti gli aggregati sociali, ad iniziare dalla cellula più piccola che è la famiglia, attualmente sofferente e bistrattata su più fronti, garantendo servizi e protezione ai piccoli sin dai primi passi prima che non siano dominati e lusingati dalla devianza. Anticorruzione, il M5S chiama Draghi: “Sblocchiamo lo stallo politico” di Simona Musco Il Dubbio, 6 luglio 2021 La norma potrebbe far “digerire” le modifiche sulla prescrizione, ma tutto è fermo. L’appello di Giuseppe Brescia, presidente della Commissione Affari Costituzionali alla Camera. Secondo il Piano nazionale di ripresa e resilienza, il disegno di legge delega che prevede l’abrogazione e la revisione “di norme che alimentano la corruzione” sarebbe dovuto approdare in Parlamento entro giugno scorso, con un termine di nove mesi dall’approvazione per l’adozione dei decreti delegati. Ma del ddl, al momento, non c’è nessuna traccia, nonostante lo stesso potrebbe aiutare a far “digerire” al M5S la partita della prescrizione, uno dei nodi principali della riforma della giustizia, tenuta in sospeso anche dalla crisi pentastellata. La materia, infatti, è da sempre tra le priorità del Movimento, che ne ha fatto una propria bandiera sfociata anche nella legge Spazzacorrotti, vessillo dell’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. E ad evidenziare il ritardo è proprio un grillino, ovvero il presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera Giuseppe Brescia, che ha lanciato un appello al presidente del Consiglio Mario Draghi per riprendere in mano l’iter. Ciò anche a seguito delle 44mila firme consegnategli dal comitato “The Good Lobby”, che il 30 giugno ha organizzato un flash mob davanti a Montecitorio per chiedere alle Camere di discutere e approvare al più presto una legge sul conflitto d’interessi e sul lobbying, che sarebbe dovuta entrare in vigore il primo luglio. Il testo base di tale norma è stato adottato a ottobre 2020 dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera e si attende, ora, la presentazione degli emendamenti. A dire sì erano stati Pd, M5s e Leu, nonché i deputati del gruppo misto. Contrari, invece, Lega e Italia Viva, che contestava il presupposto secondo cui “chi si candida a ricoprire una carica pubblica provenendo da una libera professione o comunque da un lavoro autonomo, lo faccia per tutelare qualche specifico interesse”, aveva evidenziato il capogruppo Marco Di Maio. Ma ora tutto è rimasto fermo. E Brescia prova a smuovere le acque: “Faccio un appello al presidente Draghi, sia da presidente di commissione che da relatore. Lavoriamo insieme, sblocchiamo col dialogo lo stallo politico già presente ai tempi del governo Conte 2 e il governo dia un contributo e un impulso alla legge sul conflitto d’interessi e sul lobbying - ha commentato intervenendo all’iniziativa davanti a Montecitorio -. La lotta alla corruzione e per la trasparenza non merita divisioni e rallentamenti. Sappiamo che questi due temi sono cari alla ministra Cartabia e anche la Commissione Europea e il rapporto Greco sottolineano che su conflitto d’interessi e lobbying l’Italia ha norme troppo frammentarie e deboli. Rafforziamo Antitrust e Anac, semplifichiamo quello che c’è da semplificare, ma uniamo le forze e non deludiamo le energie e le aspettative della società civile”. Farlo in tempi brevi, continua il grillino, è essenziale: “Grazie al Pnrr arriveranno ingenti risorse per il nostro Paese e nessun euro dovrà essere speso male o sprecato - spiega al Dubbio -. Per questo non bisogna arretrare nella lotta alla corruzione. Lo stiamo già facendo con diversi emendamenti al dl semplificazioni in commissione alla Camera, ma bisogna recuperare ritardi cronici nella prevenzione dei conflitti d’interessi e nell’attività di rappresentanza degli interessi. C’è un pacchetto di misure che va approvato entro fine legislatura anche grazie all’aiuto del governo”. È stata proprio la ministra Cartabia ad evidenziare che per riorganizzare la “macchina giudiziaria e amministrativa” attraverso la lotta alla corruzione, una delle priorità del Pnrr, è necessario incidere sia sui ritardi negli accertamenti giudiziali, sia garantendo la semplificazione e la trasparenza delle procedure dei contratti pubblici, risolvendo inoltre le carenze sui conflitti di interesse e sui fenomeni di lobbying. Concetti che la ministra ha evidenziato il 15 marzo, giorno in cui ha esposto le linee programmatiche del suo incarico, a partire dalle opportunità offerte dai fondi del Recovery. Secondo il Pnrr, “la corruzione può trovare alimento nell’eccesso e nella complicazione delle leggi. La semplificazione normativa, dunque, è in via generale un rimedio efficace per evitare la moltiplicazione di fenomeni corruttivi”, si legge nel documento. L’obiettivo è individuare le norme che possono favorire la corruzione e procedere così ad una loro revisione o totale cancellazione. E tra le norme da rivedere ce n’è una in particolare, tornata al centro dell’attenzione anche perché inserita tra i quesiti referendari presentati dal Partito Radicale e dalla Lega in piena “concorrenza” con le riforme: la 190/2012, ovvero la legge Severino. “Vanno riviste e razionalizzate le norme sui controlli pubblici di attività private, come le ispezioni, che da antidoti alla corruzione sono divenute spesso occasione di corruzione. È necessario eliminare le duplicazioni e le interferenze tra le diverse tipologie di ispezioni - si legge nel piano -. Occorre semplificare le norme della legge n. 190/2012 sulla prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione; e le disposizioni del decreto legislativo n. 39/2013, sull’inconferibilità e l’incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e gli enti privati in controllo pubblico”. Tale norma, secondo quanto riferito al Dubbio da Brescia nelle scorse settimane, rappresenta “un irrinunciabile passo di civiltà nella lotta alla corruzione, un traguardo minimo su cui non si deve arretrare”. Da questo punto di vista, dunque, la norma potrebbe entrare in conflitto con le aspettative del Movimento. Ma solo da questo punto di vista. Dramma in carcere, la mamma non può vedere il bimbo autistico. La Cassazione: “Liberatela” di Andrea Ossino La Repubblica, 6 luglio 2021 Clizia Forte è stata accusata di aver istigato il suo ex compagno a rapinare un portavalori. Dovrà uscire di prigione il 5 febbraio del 2049. Suo figlio, Gianluca, non può essere accudito in carcere: Rebibbia non è attrezzata per affrontare una patologia così importante. La legale: “Diritti negati”. “L’unica mia richiesta è di stare vicino a mio figlio affetto da grave patologia”. La battaglia tra Clizia Forte e la giustizia non è solo una vicenda complessa dove il diritto ad assistere un figlio disabile si scontra con la pericolosità di una detenuta, già condannata a 30 anni di carcere per concorso morale in omicidio. E non riguarda esclusivamente i celebri tempi biblici della giustizia italiana. Questa infatti è la storia di Gianluca, un bambino di tre anni e mezzo che non ha chiesto di venire al mondo mentre la madre attendeva una sentenza che poteva costringerla a restare tutta la vita dietro le sbarre. È la vita di un bimbo che adesso non comprende come mai non può stare con la sua mamma. In realtà neanche i giudici della Cassazione sono riusciti a capirlo. E hanno bacchettato il tribunale di Sorveglianza, che aveva negato alla detenuta la scarcerazione. La Cassazione ha emesso una sentenza severa che tuttavia non ha messo premura ai giudici romani: rinvio dopo rinvio Clizia Forte, di fatto, è ancora lontano da suo figlio, affetto da una grave disabilità. Il fatto: un omicidio di cui un bambino non ha colpe - La donna nel 2012 è stata accusata di aver istigato il suo ex compagno a rapinare un portavalori. L’epilogo è stato drammatico: la guardia giurata Manlio Sodani, all’epoca 39 anni, ha ucciso il collega Salvatore Proietti. Poi è stato arrestato. Anche Clizia Forte è stata coinvolta nel processo. E mentre primo e secondo grado di giudizio facevano il loro corso l’imputata si allontanava dall’Italia e puntualmente ritornava. Ha anche interrotto la relazione con il compagno è ha iniziato a frequentare un altro uomo, un’altra guardia giurata. Insieme hanno avuto un figlio, Gianluca, a cui sia il dipartimento di Salute mentale che i medici dell’ospedale Bambino Gesù hanno diagnosticato una grave forma di autismo. Nel frattempo arriva la Cassazione: Clizia Forte è condannata. Dovrà uscire di prigione il 5 febbraio del 2049. A complicare le cose interviene anche l’allontanamento da casa del padre del bambino. Il piccolo va a vivere con i nonni materni - Gianluca viene affidato ai nonni, genitori di Clizia Forte. Due persone che non si risparmiano ma l’età avanza, hanno superato i 75 anni e si occupano anche degli altri due figli della detenuta, due bimbi avuti dalla precedente relazione con il vigilantes che ha messo a segno la rapina finita nel sangue tra le vie della Pisana. Il tribunale: la detenuta è una manipolatrice - Occorre una soluzione per assicurare l’attenzione che Gianluca merita. E a questo punto che interviene l’avvocato Itana Crialesi. Il legale chiede, per conto della detenuta, di permettere che il bambino venga accudito in carcere. Ma sia il penitenziario di Rebibbia che altri istituti comunicano di non essere attrezzati per affrontare una patologia così importante. Da qui la richiesta al tribunale di Sorveglianza. Le condizioni del piccolo continuano a peggiorare e viene chiesta alla corte la detenzione domiciliare con braccialetto elettronico. In altre parole: se il bimbo non può essere accudito in carcere, forse la madre può occuparsi di lui senza uscire di casa. La decisione da prendere è complessa - Occorre valutare diversi elementi. L’amministrazione penitenziaria e gli psicologi scrivono che la Forte è “una donna molto aperta e disponibile al dialogo, con buonissime competenze personali, linguistiche e cognitive”. Gli atti sottolineano la “capacità della detenuta di instaurare ottime relazioni interne divenendo anche un punto di riferimento per le detenute, con un’ottima capacità di adattamento alle regole e alle modalità di vita e di relazione interne al carcere”. È una donna “precisa e affidabile”, ma è stata giudicata colpevole di un crimine orribile. Circa 10 anni fa, secondo l’accusa, è riuscita a manipolare una persona a tal punto da convincerla a compiere un delitto. Così il tribunale di Sorveglianza ritiene che il comportamento lodevole della detenuta in carcere fa parte di un “disegno lucido e freddo”, orchestrato da una persona che non si è mai ravveduta, visto che non ha mai smesso di professarsi innocente. Per i giudici “la sua modalità di relazione e interazione (...) è strumentale e manipolativa, del tutto incompatibile con la affidabilità minima necessaria per la concessione della detenzione domiciliare”. Nulla da fare: nel luglio del 2020 il giudice Marco Patarnello decide che Clizia Forte deve restare in carcere. La Cassazione: pensare alle esigenze del bambino - L’avvocato Crialesi ricorre allora in Cassazione, mentre Gianluca viene rimproverato dai secondini per quel fracasso a cui è possibile assistere ogni volta che il piccolo entra in carcere. I mesi passano, arriva il Covid, le visite parentali diminuiscono e il bambino può vedere la madre solo da dietro un vetro. Poi il responso della Cassazione. I giudici spiegano che occorre “contemperare ragionevolmente tutti i beni in gioco, le esigenze di cura del disabile, così come quelle parimenti imprescindibili della difesa sociale e di contrasto alla criminalità”. Quindi occorre una “verifica comparativa complessa”. E invece, secondo la Cassazione, il tribunale di Sorveglianza, “pur dando per dimostrata la sussistenza di un quadro di handicap grave in capo al figlio minore della detenuta richiedente il beneficio” non ha concesso alla madre i domiciliari, formulando un giudizio che “non si sottrae alle denunziate censure di illogicità”. La Cassazione ricorda infatti che i colleghi del tribunale di Sorveglianza, pur illustrando “l’esito, definito molto positivo” della condotta in carcere della donna, affermano che la detenuta non si è ravveduta, visto che continua a proclamare la sua innocenza. Le critiche ai colleghi della sorveglianza continuano affermando che la pericolosità sociale di Crizia Forte è basata su ipotesi astratte e su presupposti che risalgono a 10 anni fa. Cosi arriva la decisione che accoglie in toto tutte le motivazioni dell’avvocato Crialesi: “Il provvedimento va annullato con rinvio al tribunale di Sorveglianza di Roma perché proceda a nuovo giudizio, attenendosi si richiamati principi di diritto e sanando i vizi motivazionali”. È il 9 dicembre 2020. E da allora nulla è cambiato. Giustizia lumaca: il piccolo è ancora lontano dalla madre - “L’unica mia richiesta è di stare vicino a mio figlio affetto da grave patologia”, scrive la Forte ai giudici. La nuova udienza del tribunale di Sorveglianza viene fissata solo il 4 maggio 2021. Il procuratore generale da parere favorevole alla scarcerazione, i giudici si riservano e spiegano che occorrono altri documenti: servono altri certificati medici, bisogna valutare dove vive Gianluca. Quindi viene fissata un’altra udienza: 1° luglio 2021. Gli atti richiesti sono arrivati, la corte si complimenta con i carabinieri per la celerità, tutto è pronto per la decisione, ma la decisione non arriva: due esperti relatori, due figure tecniche che compongono la Corte, non sono compatibili per motivi procedurali. Il destino di Gianluca viene rinviato al 17 ottobre 2012. Il legale: “Un diritto negato” - “Sono sconcertata. Dopo una pronuncia cosi chiara della corte di Cassazione che il piccolo Gianluca non ha ancora la possibilità di alleviare le sue quotidiane sofferenze con le cure della madre - commenta l’avvocato Crialesi - Temo un reale peggioramento delle condizioni del bambino. Viene lanciato un messaggio errato: non tutti i bambini sono uguali, specialmente i figli dei genitori detenuti. Gianluca ha un handicap grave e ha diritto ad essere curato dalla madre, un diritto negato almeno fino al prossimo ottobre, nella speranza che non verranno richiesti nuovi e più recenti atti per aggiornare la situazione. C’è tanta amarezza”, conclude il legale. Sì alla consegna diretta di regali e dolciumi dal detenuto al 41bis al familiare infradodicenne quotidianogiuridico.it, 6 luglio 2021 Cassazione penale, sez. I, sentenza 24 giugno 2021, n. 24691. Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza aveva confermato la decisione con cui il Magistrato di sorveglianza aveva accolto il reclamo presentato da un detenuto ristretto in regime di “carcere duro” ex art. 41-bis Ord. pen., autorizzandolo a consegnare direttamente ai propri familiari minori di dodici anni con i quali era ammesso a svolgere il colloquio senza vetro divisorio, piccoli giocattoli o dolciumi, acquistati al sopravvitto, la Corte di Cassazione - nel disattendere la tesi dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui è lo stesso art. 41 bis a stabilire limitazioni in ordine ai colloqui da svolgere in tale ambito, rese necessarie dalla tutela dei valori concorrenti dell’ordine e della sicurezza pubblica, con espressa preclusione della possibilità di scambio diretto di beni - ha invece affermato che il rischio di comunicazioni fraudolente, astrattamente insito nelle modalità di consegna diretta dal detenuto al minore di giocattoli e dolciumi, è in concreto scongiurato alla luce delle modalità che nell’istituto penitenziario presidiano l’acquisto dei beni e lo svolgimento del successivo colloquio visivo. In particolare, la consegna diretta è da ritenersi ammessa laddove il donativo sia acquistato per il tramite dell’impresa di mantenimento, venga custodito in magazzino e da qui sia prelevato dal personale addetto solo in funzione della sua cessione al destinatario, e nell’imminenza di essa, senza che si realizzi alcun antecedente contatto fisico tra la res e l’acquirente, a condizione che il colloquio venga osservato, ascoltato in contemporanea e videoregistrato. Marche. Stato delle carceri e diritti: il report del Garante anconatoday.it, 6 luglio 2021 A quattro mesi dalla sua nomina e dopo un periodo di assenza dovuto al coronavirus, il Garante Giancarlo Giulianelli fa il punto sull’attività svolta, ma soprattutto pone in primo piano quelli che saranno i progetti e le linee d’intervento per il futuro. L’apertura della conferenza stampa ospitata a Palazzo delle Marche ha come incipit la questione del metodo, “conoscere le realtà, approfondire le tematiche, valutare l’esistente prima di passare all’azione diretta”. Portando il saluto dell’Assemblea legislativa, il Presidente del Consiglio regionale, Dino Latini, ha espresso apprezzamento per il lavoro che si sta concretizzando soprattutto in una situazione come quella attuale, “che richiede massima attenzione per quanto riguarda servizi, strutture e sostegni economici che riescano a soddisfare le esigenze della comunità”. Venendo alla panoramica complessiva, sul fronte carceri, mentre prosegue la consueta azione di monitoraggio, il Garante si sofferma in particolare sulla situazione sanitaria, che rappresenta una delle criticità più significative anche per carenza di personale specifico a fronte delle patologie rappresentate. “Di questo stato di cose - evidenzia Giulianelli - abbiamo già informato i rappresentanti dell’autorità penitenziaria ai diversi livelli ed i responsabili sanitari regionali di settore. Un’interlocuzione che intendiamo portare avanti per trovare soluzioni concrete, invitando le istituzioni a fornire il necessario supporto. Pensiamo anche di attivare nuove collaborazioni per un’unità sanitaria mobile. Teniamo conto che, al di là dei problemi determinati dal Coronavirus, uno degli aspetti da approfondire è quello legato all’aumento delle patologie psichiatriche, che rischiano di diventare il problema dei problemi”. Altra nota dolente gli organici della polizia penitenziaria in rapporto alle mansioni che gli agenti sono chiamati ad assolvere. Il punto della situazione è stato fornito in un recente confronto del Garante con i rappresentanti sindacali, anche alla luce di episodi che si sono verificati in alcuni istituti penitenziari. Passando alle attività trattamentali Giulianelli rinnova la collaborazione per iniziative già in essere e ne aggiunge altre che andranno ad interessare i penitenziari marchigiani. Accanto ai laboratori con gli scrittori contemporanei, l’implementazione degli interventi per quanto riguarda alcune coltivazioni e corsi di fotografia che saranno attivati nei prossimi mesi. Rinnovo del protocollo d’intesa con Prap e Università di Urbino per il Polo universitario presso la casa di reclusione di Fossombrone, che ha già prodotto significativi risultati con tre detenuti laureati alla triennale ed uno che discuterà entro breve la tesi magistrale. In fase di realizzazione anche eventuali sportelli informativi per i detenuti. Giulianelli non manca di far presente la necessità di rendere ancor più stretta la collaborazione con il mondo del volontariato. Di recente ha avuto modo di avviare un confronto diretto con Silvano Schembri, Presidente della Conferenza Regionale Volontariato Giustizia delle Marche, relativamente ai percorsi di reinserimento nella società per i detenuti che si avviano alla fine della pena detentiva, alle possibilità occupazionali ed alla ricerca di abitazioni. “Siamo convinti - dice il Garante - che questi siano strade importanti da seguire per dare un futuro dignitoso a chi esce dal carcere, evitando che possa ricadere negli errori commessi in precedenza”. Infine, i problemi strutturali degli istituti aumentati con il passare del tempo e con le modifiche intercorse anche dal punto di vista della destinazione per le diverse pene detentive. Non poteva mancare un riferimento anche alla chiusura della casa circondariale di Camerino, a causa dei danni riportati dopo il terremoto. Dove realizzarne una nuova? Rispondendo alla domanda specifica, Giulianelli evidenzia che “per il bene dei detenuti un carcere dovrebbe essere vicino il più possibile al tribunale che li giudica. Occuparsi della collocazione di una struttura, significa salvaguardare i diritti dei detenuti e di tutti gli operatori chiamati ad intervenire”. Per quanto riguarda infanzia e adolescenza nei progetti del Garante ha un posto significativo la tutela dei minori nel percorso dell’affido, soprattutto per quanto riguarda il supporto formativo da fornire ai tutori che al momento sono in numero esiguo e che per legge devono essere volontari. “Ci muoveremo per portare avanti azioni - sottolinea Giulianelli - che diano la possibilità di intervenire adeguatamente nella parte iniziale della tutela e della presa in carico. Abbiamo intenzione di avviare una ricognizione sul territorio regionale per redigere un elenco aggiornato degli aspiranti tutori e curatori e per recepire bisogni e criticità”. In cantiere anche diversi progetti dedicati al mondo della scuola, che troveranno concretizzazione nei prossimi mesi attraverso l’attivazione di collaborazioni con enti diversi e che riguarderanno nella prima fase tematiche riferite all’abuso tecnologico ed al cyberbullismo, alla promozione della legalità. In programma anche una ricerca sugli esiti della pandemia in relazione alla salute psicofisica dei minori, da concretizzare con la collaborazione diretta dell’Università di Urbino e da ricondurre all’attività dell’Osservatorio sul disagio giovanile. Infine, la difesa civica che prosegue la sua attività, propria dell’autorità di garanzia, per garantire adeguate soluzioni alle esigenze poste dai cittadini. Milano. La start up nata dentro al carcere di Bollate milanotoday.it, 6 luglio 2021 Si occupa del controllo qualità e vede impiegati 90 detenuti. Una nuova iniziativa tra le mura del carcere di Bollate (Milano) ha portato alla nascita di una nuova impresa sociale nella quale lavoreranno 90 detenuti e che si occuperà di controllo qualità di un servizio clienti. La start up, ad oggi la prima per numero di impiegati tra quelle sorte all’interno della struttura detentiva, ha preso vita grazie alla collaborazione tra NeN, azienda EnerTech in Italia, e Bee4. IntegrazioNeN, questo il suo nome, ha un obiettivo tanto sociale quanto di business. Nell’azienda, infatti, da una parte vengono reinseriti lavorativamente alcuni detenuti di Bollate e dall’altra le attività serviranno ad aumentare la qualità del servizio clienti di NeN: alcune azioni di “controllo qualità” nel processo di sottoscrizione delle nuove forniture di energia saranno affidate proprio alle persone che stanno scontando una pena nel carcere del Milanese. Dopo un periodo di formazione, ai detenuti coinvolti nel progetto sono affidati compiti di data entry, validazione documentale, controllo e inserimento delle autoletture. In cambio delle mansioni svolte, viene corrisposto uno stipendio che quasi sempre viene trasferito alle famiglie fuori dal carcere (si chiama “mercede” e rispetta le retribuzioni minime previste dai contratti collettivi). Al di là dell’aspetto monetario, inoltre, grazie alla start up, è possibile avviare e seguire un percorso di rieducazione e reinserimento sia lavorativo sia nella società civile. “Bee4 agisce come ponte con il mondo esterno e favorisce l’interazione con la comunità territoriale in tutte le sue forme - si legge in una nota dell’iniziativa - la cooperativa impiega già oggi circa 120 persone, di cui 90 con problemi di giustizia, ma punta a raggiungere i 200 occupati entro il prossimo triennio”. Roma. Storia di Daniela, sopravvissuta grazie all’umanità delle compagne di cella La Ragione, 6 luglio 2021 In pochi giorni la cella numero 37 di Rebibbia - cinque metri quadri di vecchiume, sporcizia e cattivi odori - è diventata la mia casa. Ho due lauree, sono una commercialista di successo, conduco una vita agiata e appena arrivata qui il primo istinto era stato il rigetto: io Rebibbia non sapevo neanche in quale zona di Roma si trovasse. Contro di me le accuse di bancarotta fraudolenta, appropriazione indebita e riciclaggio; davanti a me chissà quanto tempo dietro le sbarre. Ho capito subito che per non impazzire avrei dovuto cercare di adattarmi. Così ho iniziato a vivere la nuova realtà in cui ero stata catapultata. In questo mi hanno aiutato le altre detenute, le mie concelline: in un primo momento mi guardavano con distacco, poi a poco a poco si sono aperte e mi hanno accolto nel loro mondo. Si è instaurato un rapporto di fiducia e di confidenza. Quelle che non sapevano né leggere né scrivere hanno approfittato del mio aiuto per mandare lettere a casa o preparare atti giudiziari. Il carcere è un luogo disumano che serve solo a rendere più tristi, cattive e brutte le persone. L’unica cosa che ti fa sentire ancora un individuo sono le altre detenute: cercano di farti stare meglio, forse perché capiscono che devono fare di tutto per evitare che ti suicidi. Com’è accaduto a una mia vicina di cella, Annalisa. Un giorno un agente penitenziario apre lo spioncino del blindo della cella e sibila: “Prendi la tua roba, sei in uscita”. Ero lì dentro da 135 giorni, mi aspettavano altri sette mesi e mezzo agli arresti domiciliaci. Stordita, ho raccolto le mie cose, salutato le mie amiche con le lacrime agli occhi e mi sono incamminata lungo i corridoi. “Non voltarti indietro - mi aveva raccomandato una concellina - perché se ti guardi alle spalle finirai per tornare qui dentro”. (Daniela Candeloro, assolta dopo sei anni e due mesi di processi. Tra i protagonisti di “Non voltarti indietro”, il primo docufilm sugli errori giudiziari in Italia, realizzato dall’Associazione Errorigiudiziari.com) Monza. “Il giardino delle ortiche”, scritti e poesie dei detenuti dal Cittadino in un volume ilcittadinomb.it, 6 luglio 2021 Presentato nella casa circondariale, curato dalla giornalista e poetessa monzese Antonetta Carrabs, contiene scritti che sono stati in gran parte ospitati nelle pagine del Cittadino nell’inserto “Beyond Borders”, senza confini, un esempio unico in Italia di giornale dei reclusi aperto all’esterno. Si intitola “Il giardino delle ortiche”. Un volume di quasi 500 pagine di emozioni, di voglia di libertà. Contiene articoli, scritti e poesie, realizzati dai detenuti della casa circondariale di Monza - ormai ribattezzati “i giornalisti del carcere” - nell’ambito di un progetto di riabilitazione e inclusione, numerosi dei quali ospitati nelle pagine del Cittadino nell’inserto “Beyond Borders”, senza confini, curato dalla redazione del bisettimanale, un esempio unico in Italia di giornale dei reclusi aperto all’esterno. Il volume, curato dalla giornalista e poetessa monzese Antonetta Carrabs, presidente della Casa della Poesia di Monza e dell’associazione “Oltre i Confini”, è stato presentato lunedì 5 luglio in mattinata nell’area verde attrezzata all’interno della casa circondariale alla presenza di sei componenti della redazione, della curatrice del volume, del direttore del Cittadino, Cristiano Puglisi e della direttrice della struttura carceraria Maria Pitaniello. Molto emozionante la lettura di alcuni testi del volume, come quello di Matteo, ex avvocato, che ricorda la moglie e i figli, Stella e Arcobaleno, i loro colori ora perduti nell’oscurità, dietro alle sbarre, di Luigi, che ha già pronti due romanzi, di Leder, che scrive del figlio di 10 anni mai conosciuto. “Alla nascita eravamo fiori/ora siamo ortiche pungenti/nessuno ci vuole vicino/costretti nel cemento senza terra, rinchiusi in un giardino di sole ortiche/destinati a pungere”, ma le ortiche - di qui il titolo del volume - possono tornare fiori, “le spine possono ti cadere/puoi trasformarti da ortica a fiore che non punge/bello da vedere/e desideroso di essere raccolto”. “In ognuno c’è molto di buono e prima di tutto siamo persone” dicono i detenuti-giornalisti “e la scrittura è la nostra voce, che tira fuori il meglio, i nostri sentimenti, per valicare queste mura e vincere i pregiudizi”. La storia riscritta in silenzio di Simonetta Fiori La Repubblica, 6 luglio 2021 Dai nomi delle vie alle delibere comunali, dai consigli regionali alle ordinanze dei sindaci: così il revisionismo che rivaluta il fascismo si diffonde sotto traccia dal nord al sud del Paese. Piccoli smottamenti, cadute non sempre appariscenti, più spesso sotterranee. Ma messi insieme producono una slavina invisibile che travolge i capisaldi della storia contemporanea. Il disegno di legge presentato da Fratelli d’Italia con l’equiparazione delle foibe all’Olocausto è solo la parte più scoperta di un fenomeno in rapida accelerazione che da Alessandria a Grosseto, da Dalmine a Vibo Valentia, da Monfalcone a Lecce, dilaga in tutta la penisola rimbalzando di municipio in municipio, di borgo in borgo, lungo un’unica traiettoria disegnata dal nuovo revisionismo della destra. La storia perde senso - Atti amministrativi comunali, risoluzioni di consigli regionali, delibere delle commissioni toponomastiche locali e il presenzialismo di sindaci e assessori a cerimonie per i martiri della Repubblica sociale. Alla periferia delle istituzioni pubbliche, là dove governano i partiti di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini, si riscrive la storia del Novecento. E le distinzioni tra fascismo e antifascismo, dittatura e libertà, ideologia violenta e tolleranza democratica rischiano di confondersi in una nuova memoria collettiva in cui “i morti non hanno colore politico” (copyright l’assessora veneta Elena Donazzan, Fratelli d’Italia), “i bimbi di Auschwitz e quelli delle foibe sono uguali” (copyright Salvini), e l’Almirante “fucilatore di partigiani” riacquista la sua verginità nell’immortale gesto di rendere omaggio a Berlinguer. La storia perde senso, per adattarsi a una nuova narrativa edulcorata in cui i conti con il passato si risolvono nel comune lutto per la perdita umana. Non valgono più le bussole della coscienza democratica, la differenza tra giusto e sbagliato, la consapevolezza che “dietro il più idealista dei militi delle Brigate nere c’erano le camere di tortura, i rastrellamenti e l’Olocausto” e dietro il partigiano più spietato “la lotta per una società più libera e pacifica”, come ci ricorda Italo Calvino in una pagina de I sentieri dei nidi di ragno. Il paradigma vittimario cancella le differenze. E dietro la bandiera della riconciliazione si nasconde spesso un revanscismo agguerrito che bilancia in un’equazione impossibile i martiri della Shoah e le vittime del comunismo: questi i morti tuoi, questi i morti miei, palla al centro e si riparte. Il nuovo vocabolario della destra - E’ un revisionismo meno gridato rispetto a quello degli anni Novanta, quando bisognava cambiare le fondamenta costituzionali della “prima Repubblica” in nome dell’”anti-antifascismo”. Ora di antifascismo non si parla più, sostituito nel nuovo vocabolario della destra dalla parola “antitotalitario”. E’ accaduto l’anno scorso a Vicenza, dove su proposta dell’assessore Giovine - lo stesso che produsse l’encomio sulle cose buone realizzate da Mussolini - è stata abolita la clausola dell’antifascismo per l’uso degli spazi pubblici, a favore di una pronuncia antitotalitaria: come a dire, il provvedimento vale per i nostalgici di Mussolini ma anche per voialtri che la menate con il partigianato, perché siete pur sempre eredi dei comunisti. Una mozione analoga è stata approvata a Dalmine, alle porte di Bergamo, municipio guidato da una maggioranza di centrodestra. Sono sempre più numerosi i comuni che ricorrono al paradigma memoriale antitotalitario approvato dall’Europa, con la sua contestata omologazione tra nazismo e comunismo. Il consiglio comunale di Asti è arrivato a revocare la cittadinanza onoraria concessa nel 1924 a Mussolini soltanto in cambio dell’adozione dell’intera risoluzione europea, “con la conseguente erogazione dei finanziamenti soltanto alle ricerche di ispirazione antitotalitaria”, dice Mario Renosio dell’Istituto storico della Resistenza. Cosa significa concretamente in un paese in cui non è mai esistito un regime comunista? Uno studio sulla Brigata Garibaldi, storica formazione del partigianato rosso, potrebbe essere considerato politically uncorrect? L’equivoco dell’antitotalitarismo - L’equivoco è chiarito bene da Filippo Focardi, direttore scientifico dell’Istituto nazionale Parri (con la rete di tutti gli istituti locali) e autore di un recente libro sui nuovi revisionismi (Nel cantiere della memoria. Fascismo Resistenza, Shoah, Foibe, Viella editore). “La risoluzione europea è stata molto incoraggiata dai paesi dell’Europa orientale vissuti per decenni sotto i regimi comunisti e che oggi non hanno torto a rivendicare una maggiore considerazione per il carico di oppressione subita. Ma è inaccettabile la riduzione della complessa vicenda del comunismo internazionale a un’unica dimensione criminale. Il comunismo italiano ha avuto una storia diversa, contribuendo alla costruzione e alla difesa della democrazia nel nostro paese. Berlinguer non può essere equiparato a un aguzzino della Stasi e neppure alla terribile nomenclatura dell’Est”. Inaccettabile dunque la riscrittura della storia italiana che mette sullo stesso piano i nipotini di Mussolini con quelli di Gramsci. “Se dovessimo dare retta ai tanti comuni retti dalla destra che adottano il paradigma europeo, un gesto come quello del presidente Sarkozy che all’atto di insediamento lesse le ultime parole scritte da un partigiano comunista risulterebbe eversivo o terribilmente inappropriato. E stiamo parlando del presidente della destra repubblicana francese!”. Dalla parte di Salò - Ma da noi una Droit repubblicana non c’è, o è ancora molto fragile. E se l’ondata neorevisionistica degli anni Novanta proponeva di abolire la festa del 25 aprile come anniversario troppo di parte, oggi la tendenza dell’attuale destra è celebrarlo: dalla parte dei camerati. E’ accaduto quest’anno in Veneto, dove l’assessora regionale Donazzan ha partecipato alla cerimonia in memoria dei militi del Corpo di Sicurezza Trentino, artefici di rastrellamenti, distruzioni e stragi al soldo dei nazisti. Criticata dal giornale dell’Anpi, Patria Indipendente, che vigila su questi smottamenti, l’esponente di Fratelli d’Italia ha replicato che tutti i morti meritano rispetto. Non contenta dell’omaggio nazifascista, ha poi ritenuto opportuno intonare ai microfoni della Zanzara le note di Faccetta nera, la canzone della colonizzazione fascista in Africa. L’assessora Donazzan guida in Veneto l’Istruzione. A Codevigo, nel padovano, tra aquile mussoliniane e stemmi littori è comparso il sindaco di Fratelli d’Italia, il quale poi si è giustificato: ho solo risposto sì a un invito. A Miane, nella provincia Treviso, il primo cittadino ha dovuto rinunciare all’ultimo istante a un’analoga cerimonia per i militi di Salò, fermato per tempo da una contromanifestazione dell’Anpi: un suo rappresentante era già pronto per la commemorazione in camicia nera. A Gorizia l’acme è stato raggiuto nel 2019 quando una delegazione di reduci della X Mas è stata ricevuta in municipio, in un tripudio di gagliardetti e saluti romani. Il Covid, fortunatamente, ha sospeso il lugubre rituale. La verità di Stato sulle foibe Nella mappa della revisione storiografica, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia sono le regioni più spumeggianti, con una crescente produzione di risoluzioni consiliari che si concentrano sulla questione delle foibe. L’obiettivo dichiarato sarebbe quello di condannare i negazionisti - ottimo proposito! - se non fosse che nella categoria vengono incluse le più alte autorità scientifiche in materia, a cominciare da Raoul Pupo, bacchettato per la sua guida realizzata insieme all’Istituto storico della Resistenza di Trieste. La strada è quella tracciata nel 2019 dal consiglio regionale friulano, seguito quest’anno da quello veneto. Il criterio delle due risoluzioni è il medesimo: esiste sulle foibe una verità ufficiale che definisce entità del fenomeno (sciaguratamente ingigantito) e sue caratteristiche (sotto la categoria di “pulizia etnica”). Chi si discosta dalla storia sancita per legge viene escluso dai finanziamenti. In realtà si è trattato di iniziative propagandistiche a cui non è seguita alcuna conseguenza pratica. In Friuli la distribuzione dei fondi è regolata da una legge voluta in articulo mortis dalla precedente giunta di centro-sinistra proprio per evitare le “schifezze di confine”, come le chiamano nella comunità scientifica. E, in Veneto, l’appello del consiglio regionale è rimasto finora inascoltato. Resta il valore simbolico di una campagna revanscista che utilizza le foibe in una chiave vittimistica per pareggiare i conti tra crimini del fascismo e crimini del comunismo. I no a Liliana Segre - In questa ossessione parificatrice si può arrivare a negare la cittadinanza a Liliana Segre perché testimone di Auschwitz e quindi espressione d’una memoria ritenuta assurdamente di parte, che deve essere bilanciata con la memoria di un crimine di segno politico opposto. Dopo Sesto San Giovanni, Piombino (poi pentita) e Gorizia, qualche settimana fa anche Arzignano nel Vicentino ha detto di no alla senatrice a vita: “La sua opera non è legata alla nostra comunità”, s’è giustificato il sindaco, rendendo ancora più grave il rifiuto. La variante del “no” consiste nell’accogliere l’omaggio a Segre, ma a condizione di bilanciarlo con l’omaggio a Giorgio Almirante. Ci ha provato lo scorso anno il comune di Verona: ma a far saltare l’improvvido gemellaggio è stata la stessa senatrice a vita che ha denunciato la sua incompatibilità con il segretario di redazione della Difesa della Razza. Allora la proposta di intestare una strada al leader missino fu opportunatamente messa via, salvo rinascere poche settimane a Zevio: a venti chilometri dal centro storico di Verona è sorta via Almirante. Basta aspettare. I nomi delle strade - Sbaglia chi liquida la guerra degli indirizzi come una battaglia da strapaese, sul genere dei romanzi di Guareschi. I nomi di strade e piazze rappresentano il nostro patrimonio civile, ciò che decidiamo di mantenere o di buttare via della nostra eredità culturale, come racconta Deirdre Mask nel suo bellissimo Le vie che orientano (Bollati Boringhieri). Willy Brandt, futuro cancelliere della Germania Ovest, ricordava il giorno in cui i nazisti avevano preso il potere nella sua città natale. “A Lubecca il 20 marzo del 1933 molte persone vennero messe in custodia cautelare. Di lì a poco cominciarono a cambiare i nomi delle strade”. I personaggi e gli eventi storici ricordati nelle segnaletiche rappresentano la storia in cui ci riconosciamo, o come direbbe Paul Ricoeur - evocato da Liza Candidi nell’introduzione - “un debito che significa nel presente”. Nei confronti di chi siamo debitori, secondo la destra postfscista e sovranista? Il primato dell’odonomastica appartiene ad Almirante, nel totale oblio delle sue responsabilità ne La difesa della razza e poi da capo di gabinetto nella Repubblica Sociale Italiana: fu proprio lui a redigere il famigerato manifesto della morte che decretava la fucilazione immediata dei partigiani. L’avrai, camerata Almirante la via che pretendi da noi italiani è il profetico titolo ispirato a Piero Calamandrei scelto da Carlo Ricchini per il volume che ricostruisce quelle vicende (4 Punte edizioni). Ma le schede celebrative - come quella del comune Nicotera, in provincia di Vibo Valenzia - preferiscono ricordarne l’eroismo militare in Libia, i viaggi in terza classe e quell’omaggio a Berlinguer che lo consegna all’Olimpo dei savi. Al comune di Terracina - ma non è il solo - è venuta l’idea di proporre l’accoppiata toponomastica tra i due leader antagonisti, mentre a Lecce è stata adottata la singolare formula: al segretario missino una delle strade centrali, Berlinguer e Pertini confinati in periferia. E a proposito del presidente partigiano: poco prima della festa della Liberazione, quest’anno, ha dovuto sloggiare da una strada di Torano, in provincia di Rieti, per cedere il posto a Nazario Sauro, irredentista. E a Genova - città medaglia d’oro della Resistenza - il partigiano “Attila” Firpo è stato scalzato da Quattrocchi, mito locale di italianità. La Resistenza sfrattata o commissariata - Gli istituti storici della Resistenza osservano il fenomeno con inquietudine, anche perché sono stati i primi a subire tagli finanziari da parte delle amministrazioni di destra (non solo da loro, in verità) e in qualche caso un vero sfratto (a Sesto San Giovanni, a Lodi e a Grosseto). In Umbria, la regione che ha patrocinato la festa del libro con Casa Pound, l’Isuc è stato commissariato. E il nuovo timoniere, di fede leghista, ha pensato bene di celebrare quest’anno il suo primo 25 aprile con una cerimonia di pacificazione tra partigiani e saloini: ricordare la vittoria dell’antifascismo deve essergli apparso scortese o troppo di parte. Sarà questa la nuova vulgata nazionale, in caso di vittoria politica delle destre? Occorrerà porsi il problema, prima che sia troppo tardi. I social network ci espropriano la democrazia e noi siamo distratti di Giorgio Meletti Il Domani, 6 luglio 2021 Il garante della privacy Pasquale Stanzione. nella sua relazione annuale, ha ricordato che con i social network è in gioco la democrazia. Manca tra i cittadini la consapevolezza della posta in gioco. I social network, come tutti servizi a rete, tendono al monopolio. Tutti stanno su Facebook perché sanno di trovarci tutti, quindi è un servizio pubblico essenziale, principale canale della libertà di espressione garantita dall’articolo 21 della Costituzione. Ma chiunque può trovarsi escluso dalla decisione non motivata di una società privata che ha il potere di negare a qualunque cittadino la libertà di partecipare alla vita pubblica. Abbiamo un problema con la democrazia e non se ne può parlare solo nei convegni tra gli “esperti di internet”. Venerdì scorso il garante della privacy Pasquale Stanzione. nella sua relazione annuale, ha ricordato che con i social network è in gioco la democrazia. “La sospensione degli account Facebook e Twitter di Donald Trump ha rappresentato plasticamente come le scelte di un soggetto privato, quale il gestore di un social network, possano decidere le sorti del dibattito pubblico, limitando a propria discrezione il perimetro delle esternazioni persino di un capo di stato”. Facebook e Twitter hanno espulso Trump, impedendogli di rivolgersi ai cittadini americani sui loro canali, mentre il controverso personaggio era ancora presidente in carica degli Stati Uniti, con tanto di valigetta atomica. Ne è nato un dibattito inquinato dalla simpatia o antipatia per il protagonista o riservato alla cerchia degli esperti. Manca tra i cittadini la consapevolezza della posta in gioco. Sentiamo ancora Stanzione: “Il Tribunale di Roma ha rilevato come il pur ordinario contratto privatistico di fornitura del servizio di social network soggiaccia a una peculiare forma di eteroregolazione dovuta alla sua incidenza su diritti fondamentali”. Detto in parole più semplici: un supermercato è un’azienda privata che tratta privatisticamente con i suoi clienti, però la legge gli vieta di decidere arbitrariamente chi può entrare e chi no a fare la spesa. Facebook e Twitter invece possono scegliersi gli utenti. Come se una concessionaria autostradale ammettesse alla sua rete solo gli automobilisti che, a suo insindacabile parere, guidano bene. Ci sono un fatto fondamentale e due problemi. Il fatto è che i social network per loro natura, come tutti servizi a rete, tendono al monopolio. Scelgo la carta di credito tra quelle accettate in più negozi, mentre i negozi si associano alle carte di credito più diffuse. Tutti stanno su Facebook perché sanno di trovarci tutti. I politici usano Facebook per la loro propaganda perché è il canale più efficiente. Questo fa dei social network un servizio pubblico essenziale, sia pure gestito da privati, come i telefoni. E dev’essere aperto a tutti, visto che, nella realtà storica concreta, è il principale canale della libertà di espressione garantita dall’articolo 21 della Costituzione. Primo problema: l’algoritmo di Facebook decide quali notizie farmi vedere, tra i milioni di post di ogni giorno. Stanzione parla di un “potere pervasivo di condizionamento (...) fondato su tecniche psicometriche, volto a potenziarne la capacità persuasiva adattando il messaggio alle preferenze e alle inclinazioni desunte dalla profilazione algoritmica”. Il secondo problema è ancora più evidente. Se scrivo in un post che il tale politico è un ladro commetto un reato e ne rispondo in tribunale. Se scrivo che “bisogna vietare ai barconi dei migranti di attraccare”, la cosa somiglia più a una odiosa idiozia che a un’opinione, ma non è vietata dalla legge. Però non so se è conforme ai fumosi “standard della community” e potrei trovarmi sospeso dalla piattaforma e, in caso di recidiva, espulso, sulla base di decisioni non motivate di una società privata. Essa si assume impropriamente, come rileva Stanzione, “un ruolo arbitrale rispetto alle libertà fondamentali e al loro bilanciamento, da riservare pur sempre all’autorità pubblica”. Insomma, una società privata ha il potere di negare a qualunque cittadino (o leader politico) la libertà di partecipare alla vita pubblica. Abbiamo un problema con la democrazia e non se ne può parlare solo nei convegni tra gli “esperti di internet”. Il ddl Zan e le modifiche di Italia viva: i testi sull’omofobia a confronto di Valeria Sforzini Corriere della Sera, 6 luglio 2021 La proposta che si rifà al testo di Scalfarotto elimina ogni riferimento all’identità di genere e ribadisce l’autonomia scolastica per la giornata contro l’omotransfobia. Senza i voti dei 17 senatori di Italia Viva, il disegno di legge Zan contro l’omotransfobia non ha speranze di passare a Palazzo Madama. E su questi voti, al momento, pare non poterci contare. Il partito di Matteo Renzi ha infatti presentato una sua proposta di “mediazione”, che elimina i riferimenti all’identità di genere dal testo firmato dal deputato Pd Alessandro Zan e sottolinea l’autonomia delle scuole per la giornata nazionale contro l’omofobia, la bifobia, la transfobia. Il passo di Italia viva ha fatto infuriare Pd e 5 Stelle. Gli emendamenti di Italia viva, presentati il 2 luglio, vengono incontro alle richieste del centrodestra, da sempre contrario al ddl Zan. Matteo Salvini (Lega) e Licia Ronzulli (Forza Italia) hanno infatti presentato un loro disegno di legge il 6 maggio, alternativo a quello del parlamentare dem. Domani, prima che si voti in Aula la calendarizzazione del ddl Zan, i capigruppo si incontreranno per tentare l’ultima mediazione. Ecco i tre testi a confronto. Il disegno di legge Zan - Il testo che porta la firma del deputato del Pd Alessandro Zan è stato approvato alla Camera il 4 novembre 2020 durante il governo Conte II con 265 voti favorevoli di Pd, M5S, Leu, Italia viva e 5 deputati di Forza Italia. Il 5 novembre è approdato in Senato, dove è rimasto sospeso per mesi prima che venisse approvata la calendarizzazione. Il ddl Zan estende la legge Mancino - che oggi punisce le discriminazioni basate su razza, religione e nazionalità - all’omofobia e alla transfobia. In pratica, aggiunge ai passaggi del codice penale (articolo 604 bis) che già puniscono, con il carcere fino a un anno e sei mesi, le discriminazioni a sfondo razziale, etnico o religioso anche quelle basate sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità. L’articolo 1 introduce proprio questi concetti, inclusi il genere (“qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso”) e l’identità di genere (“l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso biologico, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”), oggetto di polemiche dal centrodestra. Prevede pene, fino a 4 anni, per chi istiga a commettere discriminazioni o violenze di stampo omofobo così come oggi è previsto per quelle di stampo razzista. E punisce anche chi organizza o partecipa ad associazioni che, per gli stessi motivi, istigano alla discriminazione e alla violenza. A differenza del razzismo, però, le norme sull’omofobia non si applicano al reato di propaganda, ma solo all’istigazione a commettere discriminazione o violenza: “Ai fini della presente legge - recita l’articolo 4 - sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”. La legge poi istituisce - articolo 7 - una giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, il 17 maggio, “al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere”. Possono essere organizzate iniziative pubbliche, anche nelle scuole, nel rispetto della loro autonomia. La proposta di Italia viva - Italia viva - accogliendo le rimostranze del centrodestra contro gli articolo 1 (identità di genere), 4 (libertà di espressione) e 7 (giornata nazionale contro l’omofobia) - ha avanzato un tentativo di mediazione che prende spunto dalla proposta Scalfarotto del 2018 che estendeva la legge Mancino alle discriminazioni basate sull’identità sessuale, sull’omofobia o sulla transfobia. Il testo di Italia viva, in pratica, elimina ogni riferimento all’identità di genere. Cancella del tutto l’articolo 1 del ddl Zan, quello che introduce i concetti di sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere. A essere punite sono le discriminazioni fondate sull’omofobia o sulla transfobia, oltre al tema della disabilità. Cancella anche l’articolo 4, sulla libertà di espressione. E modifica l’articolo 7, che istituisce la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia, la transfobia, sottolineando il rispetto “della piena autonomia scolastica”. Ddl Ronzulli - Il centrodestra, dall’inizio del dibattito, si è sempre espresso contro il disegno di legge Zan. La controproposta è arrivata il 6 maggio scorso, pochi giorni dopo l’intervento di Fedez al concertone del Primo maggio e le polemiche che ne son seguite. I primi firmatari del disegno di legge sono Licia Ronzulli e Matteo Salvini. Il testo del ddl alternativo è più snello (3 articoli invece dei 10 del ddl Zan) e si limita a modificare l’articolo 61 del Codice penale, introducendo fra le aggravanti comuni - applicabili a qualsiasi reato - quella di “aver agito in ragione dell’origine etnica, credo religioso, nazionalità, sesso, orientamento sessuale, disabilità, nonché nei confronti dei soggetti” in condizione di particolare vulnerabilità. Gli articoli 2 e 3 prevedono che l’aggravante annulli l’effetto delle attenuanti che comporterebbe uno sconto di pena. Questa proposta non estende la tutela contro i crimini d’odio già prevista dalla legge Mancino: non prevede pene specifiche per la discriminazione contro trans e omosessuali. Si limita a introdurre un’aggravante - quindi pene più severe - per i reati comuni se le vittime sono colpite “in ragione dell’origine etnica, credo religioso, nazionalità, sesso, orientamento sessuale, disabilità” o perché in condizione di elevata fragilità. La proposta Ronzulli è meno severa del ddl Zan: l’aggravante comune comporta un aumento della pena fino a un terzo, quella della legge Mancino (e Zan) un aumento fino alla metà. Nel testo infine non ci sono riferimenti all’identità di genere e alla sensibilizzazione al tema come la giornata nazionale contro l’omofobia del 17 maggio prevista nell’articolo 7 del ddl Zan. Ddl Zan, la controffensiva del Pd: “Renzi, basta giochi, questa legge si vota così com’è” di Giovanna Vitale La Repubblica, 6 luglio 2021 Letta: mi assumo la mia responsabilità, se si cambia la norma verrà affossata. Poi dice no allo scrutinio segreto. E richiama Italia viva alla coerenza. Si gioca ormai sul filo dei nervi la battaglia in Senato sul ddl Zan, attesa oggi a uno snodo cruciale. Alle 11 si riunirà il tavolo dei capigruppo di maggioranza presieduto dal leghista Andrea Ostellari per tentare un’ultima mediazione sugli emendamenti che le forze politiche decise a modificare il testo (Italia viva, Lega, Forza Italia) si sono scambiati informalmente nei giorni scorsi. Poi, nel pomeriggio, l’Aula sarà chiamata a votare il calendario di palazzo Madama, con l’inserimento della legge nei lavori del 13 luglio. Molto dipenderà dall’incontro del mattino, dove l’asse Renzi-Salvini-Tajani spingerà per arrivare a un compromesso sugli articoli 1, 4 e 7, espungendo i punti più controversi. Ovvero ogni riferimento all’identità di genere, ai reati di opinione, alle iniziative contro l’omotransfobia nelle scuole. Passaggio che alle orecchie di Pd, M5S e Leu suona però come “una trappola”, un modo per prendere altro tempo e accompagnare le norme contro i crimini d’odio su un binario morto. E perciò determinati ad andare dritti alla conta in Aula, la prossima settimana, “dove ognuno dovrà assumersi le sue responsabilità”. Soprattutto Italia viva, che dopo aver detto sì a Montecitorio, ha pensato bene di smarcarsi, sollecitando correzioni in linea con quelle del centrodestra. L’unica via, sostengono al Nazareno, per scoprire le carte di chi “il ddl vuol solo farlo naufragare”. Convinti che se Renzi non farà scherzi, l’ex coalizione giallorossa avrà i numeri per approvare in via definitiva “questa legge di civiltà”. A sera Enrico Letta lo dice chiaramente in tv: “Non capisco la posizione di Iv che ha fatto un lavoro di merito importantissimo alla Camera e improvvisamente ha cambiato idea”. Siccome però “Lega e Fdi non la vogliono, la maggioranza che l’ha approvata alla Camera deve farsi carico di approvarla al Senato”, esorta il segretario a In Onda. “Se sono seri, ce la si fa”. Mentre “sfilarsi, nascondendosi dietro il voto segreto” come fa Renzi, non lo è. Perciò il Pd non lo chiederà. Una scommessa dall’esito incerto, in realtà, infuocata dal reciproco scambio di accuse fra ex alleati. La scelta di Iv di sfilarsi ha riaperto i giochi. E ridato fiato a Salvini, ora sicuro di poterla spuntare: o annacquando una proposta sempre osteggiata o addirittura abbattendola, magari al riparo dell’urna. Bastava ascoltare ieri Salvini, il suo alzare ancora la posta: “Sediamoci subito intorno a un tavolo, togliamo quelli che anche secondo il Santo Padre sono passaggi critici - le scuole, i bimbi la cui educazione spetta a mamma e papà, i reati di opinione - e concentriamoci invece sulle punizioni di chi abusa o aggredisce due ragazzi o due ragazze che hanno tutto il diritto di amarsi. Spero che Letta e il Pd non insistano sulla loro strada solitaria perché rischiano di affossare definitivamente la legge”. L’identico rischio avvistato da Renzi (soddisfatto per l’endorsement ricevuto da Sergio Staino): se lui ha preso l’iniziativa è perché “altrimenti il ddl Zan non sarebbe passato, la maggioranza che lo sostiene ha 10-15 voti di differenza”, con loscrutinio segreto, “una parte dei senatori si prepara ad affossarlo”, ma non quelli di Iv, “nel Pd e nel M5S ci sono divisioni profonde, lo sanno tutti”. Chiaro il messaggio dei due Matteo: se la Zan verrà affondata in Aula sarà colpa loro. Ma Letta non ci sta: “Salvini è sempre stato contrario. Lo dice il fatto che il suo alleato principale è Orbán e l’Ungheria è l’unico Paese a fare un passo indietro sui diritti Lgbqt, tant’è che l’Europa la sta sanzionando. Poi cerca di scaricare su altri. Io preferisco la coerenza ai giochetti”. Tocca al deputato Zan che dà il nome al ddl tentare un ultimo appello: “Salvini utilizza il finto tentativo di volere una mediazione per cercare di svuotare e decapitare la legge, perciò dico agli amici di Italia viva: attenzione, non prestatevi a questa trappola”. Migranti. Le stragi taciute: 866 morti nel 2021. E l’Onu smentisce il comando navale Ue di Nello Scavo Avvenire, 6 luglio 2021 Il vertice dell’operazione Ue Irini: “Tra il 2017 e il 2020 effettivo miglioramento nel trattamento dei migranti in Libia”. Oim: “Abbiamo segnalato sparatorie e violenze da parte dei guardacoste”. Non c’è scampo nei giorni della mattanza: 49 corpi recuperati in Tunisia da domenica, altri 14 in Libia. Sono le maree a raccontare quello che le autorità non dicono. Specialmente a Tripoli dove vengono taciute le notizie sui naufragi, ma i corpi sulle spiagge raccontano quei lutti senza nome. Da gennaio le morti annotate dall’Onu nel Mediterraneo sono 886, ma si tratta di stime prudenziali. La Ocean Viking ha evitato altre stragi e ora a bordo della nave di Sos Meditarrenée ci sono 572 persone e nessun porto di destinazione. Silenzio da Roma, telefono muti a Bruxelles. La Commissione Ue al momento non intende occuparsi del coordinamento per ridistribuire i naufraghi raccolti dalla nave umanitaria che ha compiuto sei salvataggi in cinque giorni. Un barchino con 24 tunisini è stato intercettato e bloccato nelle acque antistanti la costa di Lampedusa dopo che il giorno prima si erano registrati 9 sbarchi per un totale di 207 persone e sabato altri 12 barchini con 342 migranti. Con quelli dei giorni scorsi gli arrivi in Italia nel 2021 hanno superato quota 21mila, il triplo di quelli registrati nel primo semestre dello scorso anno. “Gli sbarchi a Lampedusa durante questo periodo dell’anno ci sono sempre stati, ma certamente una preoccupazione c’è, e su questo stiamo operando”, ha commentato il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Ma un portavoce della Commissione europea ha avvertito che “dall’inizio della pandemia i ricollocamenti” dei migranti “sono stati più difficili e negli ultimi mesi abbiamo visto una diminuzione della partecipazione degli Stati membri”. Non è l’unica polemica delle ultime ore. Anche i vertici militari della missione navale europea Irini hanno suscitato con le loro dichiarazioni una certa irritazione delle agenzie umanitarie dell’Onu. Nel corso di una intervista all’agenzia “Nova”, l’ammiraglio Fabio Agostini, ha riconosciuto che la Guardia costiera libica non è più sotto il controllo dell’Europa e dell’Italia, tuttavia sostenendo che dal 2016 al 2019, quando i guardacoste erano stabilmente sotto il controllo e l’addestramento italiano, si era registrato “un sostanziale cambio di passo riguardo della gestione degli eventi Sar e al trattamento dei migranti soccorsi”. Per questa ragione, ha aggiunto il comandante dell’operazione europea nel Mediterraneo, l’Europa è pronta a riprendere in mano l’addestramento della Marina libica. Secondo Agostini in passato, quando i guardacoste libici e le motovedette non erano ancora sotto il controllo turco, era stato registrato “l’effettivo miglioramento nel trattamento dei migranti” come “confermato da esponenti di Oim e Unhcr in Libia, i quali non hanno registrato alcuna denuncia di maltrattamento da parte dei migranti durante le operazioni di soccorso della Guardia costiera libica, a partire dal 2017 fino al 2020”. Parole a cui da Ginevra risponde proprio l’Oim. In una dichiarazione ad Avvenire, la portavoce dell’Organizzazione Internazionale dei migranti precisa che quella riportata nell’intervista all’ammiraglio “non è la posizione dell’Oim. Negli ultimi anni - ribadisce Safa Mehli - abbiamo segnalato sparatorie e altri incidenti nei punti di sbarco. I migranti hanno anche riferito al nostro staff, in diverse occasioni, di aver subito violenze quando sono stati intercettati in mare da entità libiche”. Intanto prosegue l’inchiesta della procura di Agrigento che per la prima volta ha aperto un fascicolo sulla cosiddetta guardia costiera libica. L’accuse, al momento, è quella di aver tentato il naufragio di un barcone con 50 migranti poi sbarcati a Lampedusa. In queste ore gli investigatori, coordinati dal procuratore Luigi Patronaggio, ascolteranno i superstiti e saranno analizzate le immagini di Sea Watch, che grazie all’aereo da ricognizione Seabird aveva filmato l’aggressione della motovedetta libica e poi depositato un esposto. Migranti. Con le Ong in mare nessun aumento di sbarchi in Italia di Letizia Tortello La Stampa, 6 luglio 2021 Il report dell’Ispi fotografa la realtà nel Mediterraneo: solo il 15% dei profughi recuperato dal pattugliamento. Il sistema di accoglienza italiano dei migranti non è sotto pressione. Le Ong non sono taxi del mare: pattugliando il Mediterraneo non spingono un maggior numero di rifugiati a partire. Il Covid è il principale responsabile dell’aumento degli sbarchi sulle nostre coste. Il sistema di Dublino? In verità favorisce l’Italia, in qualche modo. Non è retorica politica, lo dicono i numeri. Se c’è un tema su cui gli Stati hanno lottato ferocemente negli ultimi anni, spaccando l’Europa, questo tema è l’accoglienza. Un report dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), costruito per verificare l’attendibilità di molte delle convinzioni dei partiti e dell’opinione pubblica, fotografa una realtà diversa da quella che immaginiamo. E smonta così molti pregiudizi. Il fact-checking smentisce, ad esempio, la convinzione che l’attività delle organizzazioni no-profit in mare incida sul numero di arrivi. “Dal 2014 ad oggi si vede chiaramente che questo non è vero”, dice Matteo Villa, autore del dossier. Facciamo parlare le cifre: sette anni fa, quando partivano alla volta dell’Italia 150mila persone, i soccorsi in mare erano l’1%, due anni dopo il 40%, ma i profughi che si sono imbarcati dall’Africa sono stati sempre 150mila. Nel 2019, periodo di minori arrivi (11mila in un anno) le Ong hanno intercettato e salvato dalle acque pericolose del Mediterraneo il 15% dei migranti. Stessa cifra (15%) negli ultimi dodici mesi, ma i migranti arrivati sono stati quasi 50mila, cinque volte in più. Per dirla più chiaramente: con Salvini al Viminale, l’88% degli sbarchi è stato autonomo, solo nel 12% dei casi è intervenuta una Ong; con Lamorgese al Viminale, l’86% degli sbarchi è stato autonomo, solo nel 14% dei casi è intervenuta un’Ong. Le cifre rivelano anche che politiche diverse incidono drammaticamente sulla sicurezza di chi viaggia sui barconi: “La scelta dei porti chiusi ha fatto salire al 7% (tre persone e mezzo ogni 50) il rischio di morire in mare - spiega Villa -, quando fino al 2018 era al 2% (una persona ogni 50). Con Lamorgese il pericolo è tornato al 2%, nel 2021 è lievemente salito, ma facciamo fatica a capire perché”. Attualmente (aprile 2021), nelle strutture di accoglienza italiane ci sono 76mila profughi. A ottobre 2017 erano quasi 200mila. “Quando si parla di emergenza bisogna capire cosa si intende. Spesso questa narrazione ha più a che fare con la capacità di gestire i flussi dei migranti in arrivo. Mille persone che sbarcano a Lampedusa, in grado di tenerne 200, sono un problema. Mille arrivi in Italia di per sé no”. I decreti sicurezza hanno cambiato le condizioni di accoglienza, eliminando il sistema diffuso degli Sprar: oggi, circa due migranti su tre sono ospitati nei Cas, grandi centri che non favoriscono integrazione e riqualificazione di chi cerca un futuro migliore. Nel frattempo, invece, si è deteriorata ancora, se possibile, la situazione di chi staziona in Libia, in attesa del sogno europeo, tra abusi di ogni tipo e privazione di ogni diritto. “L’Italia deve pensare di dover far da sola ancora a lungo - dice il ricercatore -, l’Europa non sarà solidale”. Ma, paradossalmente, gli accordi di Dublino che tutti i governi italiani hanno sempre voluto cambiare, sembrano produrre una situazione non così sfavorevole per il nostro Paese: “Su 350mila richieste di riprenderci migranti sbarcati qui e fuggiti altrove, ne abbiamo evase di fatto una su 10”.