Le prigioni del Covid di Adriano Sofri Il Foglio, 5 luglio 2021 Il virus è la scintilla: come stare chiusi a doppia mandata durante un terremoto devastante e però lunghissimo. Forse la prossima ribellione avrà per protagonisti gli agenti penitenziari. E non contro i detenuti. Fra l’8 e l’11 marzo 2020 furono decine di carceri a ribellarsi. Il 2020 si apre per le carceri nel segno della più scialba normalità, confermata dai titoli di giornali in cui la parola più ricorrente è: emergenza. La stessa cosa vale per la giustizia, dove la parola più ricorrente è: Bonafede. L’Italia è il paese in cui l’ordine giudiziario è rappresentato da un magistrato che sostiene la presunzione di colpevolezza. L’inaugurazione dell’anno giudiziario è illustrata a Milano dalla presenza di Piercamillo Davigo a nome del Csm: un centinaio di avvocati, dopo aver esposto cartelli con gli articoli pertinenti della Costituzione, escono platealmente quando prende la parola. Fra i suoi aforismi celebri, anche perché ripetuti all’infinito, “rivoltare l’Italia come un calzino”, “non esistono innocenti, solo colpevoli che l’hanno fatta franca”, gli avvocati, uomini e specialmente donne, non hanno apprezzato quello: “Per separarsi dalla moglie conviene più ammazzarla che avviare le pratiche di divorzio”. Quanto a Bonafede, in quei giorni protagonista non negoziabile dell’abolizione della prescrizione, si guadagna il suo quarto d’ora con la dichiarazione: “In Italia non esistono innocenti in carcere”. Più tardi spiegherà che avrebbe voluto dire che non esistono “assolti” in carcere. L’appuntato Travaglio scrive che “non c’è nulla di scandaloso se un presunto innocente finisce in carcere”, e Gaia Tortora osserva: “Finora ho sopportato e sono stata una signora. Ora basta, Travaglio. Mavaffanculo”. Lei è una prestigiosa conduttrice televisiva, figlia di Enzo. Tra il 1992 e il 2018, 27 mila persone sono state risarcite dallo stato per essere state detenute ingiustamente. Si vede Wuhan in televisione, la Cina è lontanissima. “Sono pazzi questi cinesi”. Davigo, Bonafede, Travaglio, il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) sono dediti alla dimostrazione che nelle carceri italiane non esiste alcun sovraffollamento, e che si tratta solo di un malinteso circa il modo di calcolare i metri quadrati. Gennaio 2020. Rita Bernardini, che del sovraffollamento carcerario ha fatto una ragione di vita, cita il rapporto fresco del Comitato per la Prevenzione della Tortura: “Dal 2016, la popolazione carceraria italiana ha continuato ad aumentare”. “Dal 2016 ad oggi si registrano novemila detenuti in più, e ciò è avvenuto dopo il forte calo seguito ai provvedimenti ‘tampone’ varati subito dopo l’umiliante condanna dell’Italia per sistematici trattamenti inumani e degradanti. Il CPT ha invitato le autorità italiane a ‘garantire che ogni detenuto disponga di almeno 4 metri quadrati di spazio vitale nelle celle collettive’ e ‘a promuovere il ricorso a misure alternative alla detenzione’. Il ministro della Giustizia ha omesso di comunicare al Parlamento che attualmente quasi 61.000 detenuti sono costretti a vivere in 47.000 posti e che ci sono carceri dove il sovraffollamento supera il 200 per cento. Che senso ha tenere in galera le 16.828 persone che devono scontare una pena residua inferiore ai due anni? Non sarebbe più utile una misura meno criminogena dello stare in una squallida cella senza costrutto, ai fini dell’imminente ritorno nella società?”. Quel Davigo, comicamente detto sottile, assicura anche che in Italia non si va in carcere per condanne inferiori ai quattro anni. “Al 13 gennaio risultano 23.024 detenuti che stanno scontando una pena inferiore ai tre anni. Sono ben 1.572 le persone detenute condannate a una pena inferiore a un anno. Sono 3.206 le persone detenute che hanno una pena da uno a due anni”. (Dati del Collegio del Garante nazionale). Arriviamo così a febbraio, e quest’anno è bisestile. Il 3 febbraio la Procura di Viterbo chiede il rinvio a giudizio di 10 agenti per pestaggio e falsa testimonianza, “dopo attente indagini tramite la visione dei filmati registrati dalle telecamere”. È una piccola, impercettibile anticipazione. La Regione Toscana trasmette al parlamento la sua proposta di legge sul “diritto all’affettività e alla sessualità per i detenuti”. Dopotutto, la Toscana è stata la patria di Alessandro Margara. Margara lo chiamava “il carcere dopo Cristo: non dopo la nascita, dopo la scomparsa”. Alcuni parlamentari, dopo aver visitato carceri e detenuti, propongono di ampliare l’accesso alle comunicazioni telefoniche. “Una telefonata al giorno non accorcia la pena, ma può migliorare la vita”. Vengono opposte difficoltà tecniche e rischi per la sicurezza: ridicolo. Nel giro di giorni bisognerà autorizzare video-telefonate via Skype e altri espedienti semplicemente ovvii. Dimostrati tali dal coronavirus. Alle personalità sopra nominate, innamorate del carcere altrui, aggiunge la sua voce pubblica il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, cui deve andare la solidarietà per le minacce cui è esposto. Il direttore del Foglio, Cerasa, scrive che “Il pm vuole i lavori forzati per i detenuti. Roba da film western, non da Costituzione”. Vengono diffusi (14 febbraio) dati sulla salute in carcere. Tra i 25 mila e i 35 mila detenuti sono malati di epatite C. Sono endemiche epatite B, Hiv, tubercolosi. Malattie mentali. Medici e sindacati di polizia penitenziaria chiedono “un piano straordinario di prevenzione delle malattie infettive”. Non immaginano quanto sia urgente. 16 febbraio. Marta Cartabia è presidente della Corte Costituzionale. Dice: “Il carcere rispecchi il volto costituzionale della pena e dia al detenuto una seconda chance. Partendo dal luogo più remoto della società qual è appunto il carcere, la Corte sta portando la Costituzione ovunque”. Anche lei non immagina che cosa aspetta l’Italia e le sue carceri, e che cosa aspetta lei. 22 febbraio: il coronavirus. La Cina è vicina. Anche Codogno. Il coronavirus arriva all’orecchio della galera, incollato al cancello blindato, il 22 febbraio. Esonero dal servizio “per tutti gli operatori penitenziari residenti o comunque dimoranti nei Comuni di Codogno, Castiglione d’Adda, Casalpusterlengo, Fombio, Maleo, Somaglia, Bertonico, Terranova dei Passerini, Castelgerundo e San Fiorano”. E per “gli insegnanti, i volontari e i familiari di detenuti che provengano dai suddetti comuni”. Sospese “le traduzioni dei detenuti verso e dagli istituti penitenziari rientranti nella competenza dei Provveditorati di Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze”. Le carceri sono un sistema chiuso nel quale certe notizie non entrano, altre misteriosamente volano. Così queste, nel modo accorto e quasi clandestino in cui corrono le notizie in carcere - come l’aria, che si infila tra le grate, le sbarre, le blindate, e diventa un vento. Fino a ieri la Cina era lontana, ora si può sperare che siano lontani Codogno e Castelgerundo, ma occorre un forte ottimismo. I detenuti non sono ottimisti, per regolamento. Non hanno niente di degno da fare, dunque molto tempo per pensare e fantasticare. Si chiedono se si ammaleranno e moriranno. Prima, si chiedono se i loro cari si ammaleranno e moriranno. Si chiedono se li rivedranno, e quando. Se qualcuno darà loro delle mascherine: manca la carta igienica, in galera, i sacchetti della spazzatura, il sapone - tutto. L’acqua, spesso. E che distanza “sociale” si potrà tenere nella loro discarica, dove le distanze si misurano in centimetri. Saremo soli, si dicono. Senza famiglia, senza operatori, senza volontari - senza. Sono pensieri vicini al panico. Salve eccezioni di buona volontà, nessuno sa dare loro informazioni attendibili. Pensano alla fine dei topi. E’ brutto stare in galera, ma è orribile morirci. E’ come aver risparmiato per anni e anni, a costo dei più penosi sacrifici, e tutto d’un tratto è stato per niente. La galera è per niente: fondo perduto. Una volta ero nella mia cella e ci fu un terremoto piuttosto forte. Buona esperienza. Non si ripara all’aperto quando arriva un terremoto in galera. L’aria in galera è razionata, si chiama così, “l’ora d’aria”. Le altre ore sono irrespirabili. Ora in galera si fa l’esperienza nuova del contagio del virus, al chiuso. Somiglianza col fuori. Il 25 febbraio sospesi permessi, lavoro esterno e semilibertà in tutta la Lombardia. Ancora pochi giorni, ed è tutta l’Italia. Il lockdown. Nel carcere si tratta di questo: chiudere un luogo chiuso. Piovere sul bagnato. E le donne? Su 100 detenuti, 4 sono donne, 96 uomini. Non c’è altra condizione in cui la sproporzione sia così enorme. Per attenuarla ci sono solo due modi: che gli uomini delinquano meno, o che le donne delinquano di più. Quando lo dico, pensano che scherzi. Così succede che si sappia, fuori, molto poco della solitudine delle donne detenute. Le loro ribellioni, che pure ci sono, non fanno rumore. (Lo scorso giugno le detenute di Santa Maria CV rifiutarono di rientrare in cella...). Alcune hanno con sé i propri piccoli: 55 bambini, al 1° aprile. Le vaghe e reticenti notizie di ieri dicevano di alcuni dei detenuti morti per aver ingerito farmaci, oppioidi, benzodiazepine, sottratti alle infermerie interne: tale dunque è questa popolazione del carcere, pronta alla morte, se non per la libertà, per una sopraddose. A Pavia, poco fa la giudice Valentina Nevoso ha rifiutato l’archiviazione dell’indagine sulle violenze contro i detenuti dopo le proteste del marzo 2020. “A Foggia, dopo la rivolta, centinaia di detenuti vennero trasferiti di notte, in pigiama, e successivamente pestati nel carcere di destinazione. Quelli dei penitenziari emiliani furono mandati a Tolmezzo, e portarono lì il Covid”. I trasferimenti di detenuti durante la pandemia sono stati, pare, 6 mila. Furono decine di carceri a ribellarsi nei quattro giorni fra l’8 e l’11 marzo 2020: centinaia di feriti fra detenuti e agenti. Tredici morti, tutti tra i detenuti. Tre a Rieti, uno a Bologna, cinque a Modena, altri quattro trasferiti da Modena e morti ad Alessandria, Parma, Verona e Ascoli. Tre di loro non erano ancora stati processati: 3 innocenti. Uno usciva in semilibertà da tre anni tenendo un comportamento lodevole. Quando, dopo mesi di silenzio, Bonafede riferì in Parlamento, si dimenticò di fare i nomi dei morti. (Li avrebbe fatti per primo, 11 giorni dopo, un bravo giornalista del Corriere, Luigi Ferrarella). Nessuno glielo fece notare. Io notai che aveva detto, riguardo alle cause, che erano morti “per lo più” per overdose di metadone. Erano italiani, magrebini (tunisini, marocchini, un algerino), un moldavo, un ecuadoriano, un croato. Una lapide potrebbe unire i loro nomi, luogo e data di nascita, luogo e data di morte, e tre sole parole, maiuscole: PER LO PIU’. Si chiamavano Marco Boattini, 40 anni, Ante Culic, 41 anni, Carlos Samir Perez Alvarez, 28 anni (i tre di Rieti). C’è una lettera di detenuti in mano alla Procura di Rieti: “Hanno avuto un primo soccorso e sono stati riportati a morire in cella soli e in preda ai dolori, abbandonati come la spazzatura. Per noi, nei giorni a seguire non è stato facile: sono entrati cella per cella, ci hanno spogliato e ci hanno fatto uscire con la forza, messi divisi in delle stanze e uno alla volta passavamo per un corridoio di sbirri che ci prendevano a calci, schiaffi e manganellate; per i più sfortunati tutto ciò è durato quasi una settimana tra perquisizioni, botte, parolacce, ci dicevano ‘merde, testa bassa!’, ‘vermi’ e quando l’alzavi per dispetto venivi colpito ancora più forte”. Gli altri nomi: Haitem Kedri, 29 anni, morto a Bologna. Non aveva nemmeno preso parte alla rivolta. E quelli del Sant’Anna di Modena. Hafedh Chouchane, 37 anni (è quello che sarebbe uscito due settimane dopo), Erial Ahmadi, 36 anni, Slim Agrebi, 40 anni, Ali Bakili, 52 anni, Lofti Ben Mesmia, 40 anni, Abdellah Rouan, 34 anni, Artur Iuzu, 42 anni, Ghazi Hadidi, 36 anni. E Salvatore Sasà Cuono Piscitelli, 40 anni, trasferito e morto ad Ascoli: l’unico per il quale l’indagine non è chiusa. Tutti dichiarati morti di metadone e altri farmaci rubati. Tutti, anche qualcuno che non aveva avuto a che fare con la tossicodipendenza. Modena, durante e dopo, quando avvennero i trasferimenti di persone ferite e di nuovo bastonate, fingendo che fosse venuta la doverosa autorizzazione sanitaria al viaggio, con le morti avvenute in cammino e certificate a destinazione, è stata una macchia tragica, incomparabile con Santa Maria CV. E’ stata decretata l’archiviazione dal Gip, e fa paura. Due pagine e mezza. L’accaduto “ha trovato compiuta ricostruzione, nella sua genesi e nel conseguente sviluppo in termini spaziali e temporali, nelle relazioni redatte dalla Polizia penitenziaria e dalla Squadra Mobile della Questura modenese”. Disse ancora Bonafede: “le rivolte in carcere sono atti criminali di minoranza, lo Stato non indietreggia”. Mi ricordò il Piave. 11 marzo 2020. Osservatore romano. “Carceri in rivolta, è anche colpa del giustizialismo”. “Bene, numerose associazioni denunciano da anni queste e altre analoghe situazioni, i cappellani hanno più volte fatto sentire la loro voce, anche l’Europa è intervenuta. Ma questo è il tempo di un brutale giustizialismo, diffuso tanto nelle istituzioni che nella maggioranza dei cittadini. Però il giustizialismo è la negazione stessa della giustizia. Qualcuno ne vorrà prendere atto?”. La clausura di dentro e quella di fuori - 11 marzo 2020. Il carcere, l’altro mondo separato da quello dei liberi come si separa la malattia dalla sanità, per ammonire i sani del contagio che li minaccia, in realtà è legato indissolubilmente al mondo della luce e del piede libero: è la sua ombra. Lazzaretto di sepolti vivi, il mondo in luce li vede improvvisamente sollevarsi e rivendicare d’esser vivi e annunciare nel proprio destino quello degli altri, che se ne credono immuni. In due giorni sono morti tredici detenuti. Va annotata la distrazione e l’anonimato in cui è passata la notizia. In questa distrazione ed essenziale indifferenza si legge un sintomo d’avanguardia, per così dire, della condizione larga che incombe sulla morte al tempo del colera nuovo: l’espropriazione della singolarità e della titolarità della morte. Il mucchio calcinato. La fossa comune. I camion militari verso i forni. All’ingrosso. 13 marzo 2020. Nel minuzioso elenco di locali che devono restare chiusi per far fronte al contagio non ci sono le prigioni: naturalmente, le prigioni sono chiuse per definizione. Dentro, 61 mila persone aspettano l’ingresso del contagio, ammesso che non sia già avvenuto. Come stare sotto una diga colossale su cui si guardino precipitare le frane e spalancarsi le crepe. Come una Longarone avvisata della rovina, e impedita di evacuare la valle. Se succederà - temo che succeda, è logico prevedere che possa succedere, sarebbe una fortuna se non succedesse - le autorità competenti dovranno risponderne. Sarà difficile imputare qualche carcerato di tentata evasione. Parole troppo forti? Spero che sia così. In questi giorni mi sono ricordato - il mio corpo se n’è ricordato - di una sensazione peculiare di chi sta in galera: la consapevolezza che chiunque sappia con certezza dove lui, o lei, si trova in ogni momento della sua giornata. In che città, in che strada, in che carcere, in che cella. E’ uno dei modi più singolari e inquietanti di avvertire la privazione della libertà. Il cui primo significato è la libertà di movimento. Ed ecco che ora pressoché tutti, costretti a una reclusione domestica che è peraltro, per chi abbia casa e conviventi amati, un meraviglioso privilegio, pressoché tutti possono provare quella sensazione. Tutti sanno dove stanno tutti, stanno reclusi a casa loro: il panopticon universale. La tracciabilità cui già ci stavamo assuefacendo, pedinati da noi stessi, dai nostri telefoni intelligenti, è improvvisamente universale. Come se - provvisoriamente, si assicura, e per una causa di forza maggiore - tutti facessero esperienza della carcerazione. Ma i liberi che restano a casa lo fanno per difendersi dal contagio; i detenuti delle carceri non hanno un angolo in cui rifugiarsi per sventare il contagio che incombe. Qualcuno dei liberi ne ricaverà una ulteriore soddisfazione per la differenza fra lui e “i delinquenti”. Qualcun altro forse, al contrario, riuscirà a sentire un’affinità, l’insinuazione di una solidarietà da animali in trappola. 14 marzo 2020. Le carceri italiane hanno messo in allarme il resto del mondo. In Francia hanno formato un “Comitato di anticipazione” della crisi... La misura più suggestiva e rivelatrice è la proibizione del gel disinfettante “idroalcoolico”, per impedire che i detenuti ne facciano un uso alcolico: lo bevano insomma, invece di lavarsene le mani. Altrettante conferme della natura di cronicari delle prigioni d’oggi. A Modena si è appreso che “gli ospiti” erano 548 per una capienza di 369: per il 65 per cento stranieri, per il 35 per cento tossicodipendenti, e per il 55 per cento persone con problemi psichici! “In galera non c’è un posto in cui ripararsi. Se si ammala uno, si ammalano tutti”, dice un responsabile carcerario californiano. “Quello che è successo in Italia può succedere qui”. Si fa un confronto col 1995, quando, dopo un’esplosione di rivolte, tutti i detenuti furono reclusi nelle loro celle per un lungo periodo senza poterne mai uscire - senza l’ora d’aria proverbiale: una polveriera, se l’altra volta veniva dopo le rivolte, questa volta le scatenerebbe. L’associazione fra carcere e coronavirus, dicono medici ed esperti, è in tutto il mondo l’annuncio della tempesta perfetta. 17 marzo 2020: primo annuncio ufficiale sui detenuti positivi al coronavirus - dieci - cui si sommano gli agenti penitenziari. In ritardo sulla società a piede libero: saprà recuperare. Un decreto governativo prevede che i magistrati di sorveglianza - buona parte dei quali lo chiedevano da tempo - possano concedere con procedure più rapide il passaggio a pene alternative, la detenzione a domicilio (per chi ce l’ha) o il braccialetto (che non c’è), dei detenuti con un residuo di pena basso. Quasi 25 mila detenuti sono infatti in carcere con una pena residua inferiore ai tre anni, più di 16 mila con meno di due anni. Il ministero, e con lui il governo, hanno tirato al ribasso fino a indicare una pena residua tale che a usufruirne potranno essere solo 3.700, in pratica molti meno. Una misura irrisoria e derisoria. Sufficiente, certo, agli ululati di Lega e Fratelli d’Italia e fogli affini, quelli del marcire in galera. 8 aprile 2020. C’è un’ironia nella storia, anche quando si incanaglisce. Prendete Travaglio. Ora è angosciato dall’eventualità che la pandemia infierisca nelle galere, e speranzoso che risparmi i detenuti. Non è magnifico? Aveva deciso di sfidare la sorte sostenendo che non c’è luogo più sicuro dal contagio delle prigioni. La logica è dalla sua (la sua logica): non c’è luogo più isolato, più recluso, del carcere, dunque stiano là e si godano il loro privilegio di perenne quarantena. E’ perfino oltraggioso replicare: il carcere, che accatasta i suoi inquilini fissi gli uni sugli altri, accoglie quotidianamente un buon numero di persone il cui piede libero le porta dentro e fuori: agenti, funzionari e impiegati, medici e infermieri, educatrici ed educatori, cappellani e suore, avvocati, a volte (troppo raramente!) magistrati, eccetera. Anche quando, come adesso, sono vietate le visite dei famigliari dei detenuti e gli ingressi dei preziosi volontari, il virus, svelto com’è, ha dunque una quantità di passaggi da cui sgattaiolare dentro. Questa l’ovvia constatazione. Avendola capovolta, Travaglio deve pregare che i capricci del destino o del virus (coincidono, del resto) non lo sconfessino, dimostrandolo un’ennesima volta rosicchiato dalla malevolenza: dunque eccolo che deve augurarsi la salute dei detenuti, le sue bestie nere. Un’analoga ironica considerazione può farsi per i più esposti consoci di Travaglio. Alfonso Bonafede, che gli scherzi kafkiani della post-politica hanno fatto svegliare una mattina nel suo letto mutato in ministro della Giustizia, e sulla scia il capo dell’Amministrazione penitenziaria, il Procuste secondo il quale il sovraffollamento andava superato riducendo i centimetri per detenuto. Le galere sono, in una pandemia, il luogo più somigliante alle case di riposo, le RSA. Resta un altro argomento ai “duri”. La ribellione dei detenuti, i due giorni che incendiarono le carceri e lasciarono morti e feriti, viene ora denunciata come la cospirazione della malavita organizzata - “la ndrangheta prima di tutto, ma anche la camorra, Cosa Nostra e la mafia foggiana in Puglia” (così un giornalista del Fatto, 4 aprile). Nicola Gratteri, che sposa questo scenario, dice che “alle 10 di mattina” la rivolta è scoppiata a Modena e a Foggia. Non è vero, naturalmente, e fa sorridere, la rivolta delle 10 di mattina, regolate gli orologi. Fra i carcerati di Foggia, legati soprattutto alla piccola e grande criminalità locale, e quelli di Modena, soprattutto stranieri e disgraziati, non c’era nessuna affinità. Per confermare la regia simultanea Gratteri sostiene che le carceri sono piene di telefonini. Davvero? A volte, di rado, si scoprono telefonini introdotti clandestinamente: le perquisizioni sono continue in carcere, almeno quanto le soffiate. Nel febbraio del 2019 successe addirittura che un detenuto argentino, cinquantenne, rientrasse da un permesso nel carcere di Trapani e fosse scoperto da una radiografia con quattro telefonini cinesi ingoiati: impresa notevole, che infatti fece notizia. Dire che le prigioni pullulino di telefonini è surreale. Ma l’idea che le rivolte in carcere, l’evento più contagioso che si possa immaginare fra gli animali umani, siano il frutto di una “regia occulta”, vuol dire non saper immaginare che cos’è il carcere. Quello che si chiamò “radiocarcere” è la comunicazione caratteristica dei luoghi chiusi ed estremi, di nocche battute e orecchi posati sui muri, di canzoni adattate, di saluti fra finestroni blindati e parenti, e ormai di vere radio e televisori. E la prossimità temporale, l’incendio che divampa in due o tre giorni, è il frutto di un’accumulazione combustibile sulla quale cade finalmente una scintilla: e la scintilla qui era, sul sovraffollamento, sulla malattia, sulla miseria igienica, l’avvento del panico dell’epidemia, per sé e per i propri cari di fuori, la sensazione di finire come topi, la sospensione dei carissimi colloqui e degli altri tramiti con il mondo. C’era bisogno di una regia? I protagonisti delle rivolte sono stati detenuti di basso rango, di corte pene, a volte ancora senza condanna. Quando in carcere si scatenano disperazione ed esasperazione tanti detenuti smettono di colpo di comportarsi come individui, perdono insieme indipendenza personale ed egoismo, e si lasciano travolgere in una furia che saranno i primi a pagare, i morti e i superstiti, sui quali si accanirà la vendetta. Saranno esclusi da ogni possibile “beneficio” legale, e anzi saranno puniti: per aver dato vita a una ribellione che veniva annunciata come inevitabile e imminente da chiunque seguisse lo stato delle carceri, gli agenti per primi. La ministra e la grazia - A Tolmezzo, a novembre 2020, scoppiò un focolaio di Covid: i contagiati furono 170 detenuti su 185. Due ne morirono. Circa 60 agenti penitenziari risultarono a loro volta positivi. Nel giugno appena trascorso, i detenuti di Tolmezzo hanno indirizzato una lettera al presidente Mattarella e alla ministra Cartabia, auspicando misure di dialogo e di clemenza. La lettera si conclude con un omaggio ginnasiale alla libertà, “rappresentata dagli antichi nella grazia delle sembianze femminili, e oggi, non a caso incarnata dalla ministra di Grazia e Giustizia”. La grazia uscì dalla denominazione del ministero già nel 1999: i detenuti di Tolmezzo non lo sanno, e comunque ce l’hanno fatta rientrare, incarnata. (Siccome poi il mondo gira alla rovescia, nel carcere di Viterbo un detenuto al 41 bis si è visto rifiutare dall’autorità giudiziaria l’acquisto di un libro, perché avrebbe rischiato di accrescere il suo carisma criminale presso gli altri detenuti. Il libro rifiutato, “Un’altra storia inizia qui”, è un dialogo con le idee del cardinale Martini; gli autori sono Adolfo Ceretti criminologo, e Marta Cartabia). A febbraio di quest’anno, quando è entrata la variante inglese, il carcere di Reggio Emilia è arrivato a contare 217 positivi su 330 detenuti. In 17 sono stati ricoverati in ospedale, due in terapia intensiva. Gli altri sono stati curati all’interno. A giugno, a Taranto sono almeno 40 i detenuti positivi al Covid. A Monza 20. A maggio erano 69 nel carcere di Foggia. In aprile, nel carcere di Catanzaro 3 detenuti sono morti nel giro di 2 giorni e il numero dei contagiati è salito a 77. Una volta, la prima volta, più di cinquant’anni fa, partecipai fervidamente di una rivolta alle Nuove di Torino - oggi è un museo. Mi liberarono, assolto per non aver commesso il pretesto col quale ero stato imprigionato, nel pieno della rivolta. Uscii (a malincuore, voltandomi indietro) passando attraverso il corridoio, lunghissimo, di due file di agenti armati e frementi di scatenarsi. Lo fecero appena fui passato. Me ne ricordo quando penso alla scuola Diaz, alla casa circondariale di Santa Maria CV. Di Santa Maria Capua Vetere sapevamo tutt’al più che era stata la Capua dei gladiatori e di Spartaco, poi che ci era nato Errico Malatesta, gran libertario, gran carcerato. Ora abbiamo imparato che la sua casa circondariale si chiama Francesco Uccella. Generale e comandante della scuola di formazione degli agenti penitenziari di Portici, era il direttore del carcere dal 1991 fino a quando morì, nel gennaio 2001. Al suo funerale, dice la cronaca locale, “tra i tanti fiori inviati da parenti, amici, autorità, anche quelli dei detenuti”. Santa Maria Capua Vetere, dunque. E’ vicina la Pasqua. Un detenuto è risultato positivo al Covid e viene ricoverato al Cotugno, a Napoli. (Secondo il racconto di altri detenuti, i contagiati sono tre). Mancano mascherine, disinfettanti, acqua potabile, biancheria. La tensione cresce. Il reparto “Nilo” viene occupato dai detenuti che non rientrano in cella, e cominciano la battitura. La sera la protesta è già finita. “Una rivolta senza episodi di violenza”, dirà il magistrato di sorveglianza. Lunedì mattina i magistrati di sorveglianza incontrano i detenuti. Nel pomeriggio si compie la spedizione punitiva, impiega centinaia di agenti, dura ore. “Li abbattiamo come vitelli”, “domate il bestiame”, si erano detti nelle chat. Sono stati loro a dare il titolo all’indagine, firmata dal Gip Sergio Enea, “orribile mattanza”. Genova 2001 insegnava: “macelleria messicana”, la chiamò allora il vicequestore Michelangelo Fournier, dopo aver gridato “Basta” nella Diaz. (Chissà quale tic freudiano ha spinto poi Salvini, in visita solidale al carcere, a dire: “Non sono macellai” - la lingua sul dente che duole). I detenuti inginocchiati con la fronte al muro e le mani sulla testa, che abbiamo visto a Santa Maria, erano la riproduzione della caserma di Bolzaneto, dove l’ordine era affidato alla polizia penitenziaria, che là diede la più ignobile prova di sé, uomini e donne, e personale medico. Allora si sono ribellati - Domenica 8 marzo 2020. La domenica è sempre il giorno più triste in galera. Niente colloqui, niente attività sociali. C’è la messa, quando va bene, credenti e no, cristiani e musulmani, pur di vedersi, scambiarsi un segno di pace. Per il resto, mera giacenza. Domenica ci sono state ribellioni in decine di carceri. “Ci sono stati sette morti”, è la prima versione. Così, come in un sotto-bollettino clinico. Sette morti collaterali di coronavirus, e 18 detenuti ricoverati in ospedale. Una volta entrato nelle prigioni, il Covid-19 dilagherebbe: il contagio della ribellione prova, ad armi impari, a tenergli testa. E’ dilagata nel giorno in cui ministri annunciavano il carcere per i cittadini a piede libero che trasgredissero alle restrizioni sui movimenti. Vogliono scherzare. Un posto in galera oggi è raro quasi quanto un posto in terapia intensiva. In Lombardia ci sono 8 mila detenuti su 6 mila posti (teorici). Dice il segretario della Uil-Pa, De Fazio: “Il grave stato emergenziale che attanaglia le carceri, i detenuti e chi vi opera, c’è da troppo tempo e solo l’improvvisazione di chi ha il dovere di gestirle politicamente, per conto dei cittadini, poteva non prevedere quello che sta accadendo in queste ore”. E’ la Caporetto dell’amministrazione penitenziaria, dice Franco Corleone. Il virus è la scintilla: come stare chiusi a doppia mandata durante un terremoto devastante e però lunghissimo. La sospensione dei rapporti col mondo. Qualcuno è evaso, ieri, per essere subito ripreso - riacciuffato, come dice il tic lessicale dei telegiornali - qualcun altro ci ha provato: non era il punto. Piuttosto, lo è la risalita sui tetti, a sventolare lenzuoli e alzare pugni, con facce giovani coperte da un fazzoletto come per una mascherata simbolica, non per celarsi ma per farsi vedere. Abitatori del sottosuolo che si arrampicano al cielo, e si fanno per un’ora monumenti alla libertà. Alla memoria. La cima dei tetti di San Vittore è il ripudio e l’apoteosi dell’evasione. Da tanti anni la resistenza del carcere a condizioni invivibili e così certificate da tutti, aveva preso solo due forme: la nonviolenza, cui l’avevano lungamente educata Marco Pannella e i suoi e tanti altri di buona volontà, ostacolati e intimiditi metodicamente; o la disperazione solitaria, l’autolesionismo, i suicidi tentati e riusciti, le aggressioni cieche. Se no, l’inerzia ottusa di una condizione in cui guadagnarsi un metro e 80 centimetri di distanza l’uno dall’altro, un metro di distanza dal lavandino al water, è una bella utopia. Si vedrà, quando sarà possibile sapere, che alla “sommossa” non partecipano tanto, né la animano, “quelli che non hanno niente da perdere”, i detenuti con le pene più pesanti e l’adattamento più forte alla reclusione, ma quelli, la gran maggioranza, che sono giovani e hanno tutto da perdere, cui spesso restano pene brevi. Uno dei morti sarebbe uscito fra due settimane. Anche chi sia prossimo a uscire, infatti, può esser trascinato a fare come i suoi compagni, cui l’umiliazione quotidiana lo affratella. Hanno poco di cui disporre. I pagliericci incendiati, le bombolette di gas dove non sono state vietate, il fumo che li intossica, il clangore dei ferri battuti, inversione del rito inutile che più volte al giorno si recita alle sbarre delle loro finestre, i lenzuoli, appunto, adibiti a striscioni piuttosto che a cappi da impiccati: gli ingredienti di ogni ammutinamento quando la disciplina di bordo sia diventata insopportabile e lo scorbuto infierisca. C’è uno che grida: Basta! mentre gli altri infieriscono. Ecco: bisogna che ci siano tanti che gridano Basta! così che nessuno possa infierire. Fra i 15 detenuti segregati in isolamento - celle lisce - alla fine della spedizione punitiva, uno si chiama Hakimi Lamine, ha il naso rotto, lo zigomo nero, vomita sangue. Per lui c’è una certificazione di schizofrenia, ma viene lasciato senza farmaci. Nemmeno un mese dopo, il 4 maggio, muore. La procuratrice Maria Antonietta Troncone, in dissenso col Gip, dice: “Noi contestiamo la circostanza aggravante della morte di Hakimi Lamine seguita all’attività di tortura e di maltrattamento. Riteniamo che ci sia un nesso causale con l’essere stato sottoposto alle ore di violenza e isolato in condizioni di abbandono e prostrazione”. La notizia del pestaggio si diffonde presto, soprattutto attraverso i famigliari. E’ tempestivo l’intervento del garante per la Campania, e quello dei magistrati e dei carabinieri, che riescono a sequestrare parte dei video prima che siano cancellati. Giornali locali ne scrivono presto e dettagliatamente. Così l’11 aprile, su “Napolimonitor”, l’avvocato Luigi Romano di Antigone, che, nella temperie pasquale, non esita a citare la Passione secondo Marco: “Gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui. Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti...”. Fra i giornali nazionali si distinguono cronache e fotografie del Dubbio, grazie a Damiano Aliprandi. Il detenuto in sedia a rotelle, Vincenzo Cacace, liberato pochi giorni dopo la mattanza, dà la sua testimonianza ai carabinieri e ai giornalisti di Fanpage.it. Poi arriveranno anche le testimonianze degli altri. Bisognava avere coraggio davvero, dal momento che gli agenti picchiatori erano stati lasciati in servizio nel carcere, a custodire i picchiati. Il Domani, per la penna di Nello Trocchia, dedicherà al fatto un gran risalto a settembre, e poi pubblicherà i video che cambieranno la storia della mattanza e dell’intera vicenda carceraria della pandemia. E moltiplicheranno interrogativi amarissimi. Si “scopre”, a ridosso di Santa Maria CV, una sequela di denunce di pestaggi e mortificazioni in galere attraverso l’Italia intera, messe a tacere perché mancano le registrazioni video... Del resto, la cosa ha due facce. Il telefonino di Darnella Frazier ha cambiato la storia, anche se ha fatto pensare amaramente a tutti i delitti senza video. Avete notato però quante immagini di persone schiacciate a terra dal ginocchio dell’agente che gli preme sul collo, da allora? La lezione di Santa Maria CV è duplice: riguarda il reclutamento e la formazione della polizia, la sua “cultura”, ma intanto, subito, il distintivo di riconoscimento sull’uniforme di ogni agente, la bodycam, e le telecamere funzionanti e non cancellate in ogni sottoscala, in ogni segreta... La body-cam è programmata, in teoria, dal 2018, e autorizzata dal garante della privacy, ma non ne è stato niente. Non è inerzia, è opposizione. Di chi? Di quelli che vanno pazzi per il taser. Matteo Salvini era già davanti al carcere di Santa Maria CV nel giugno del 2020, dopo che la Procura aveva ordinato la perquisizione di agenti e sequestrato i telefonini. Aveva detto: “Non si possono trattare come delinquenti i servitori dello stato, indegnamente indagati. Visto che le rivolte non le tranquillizzi con le margherite, pistole elettriche e videosorveglianza prima arrivano e meglio è. Oggi è una giornata di lutto”. Gli agenti penitenziari erano saliti loro sui tetti, per l’occasione. Il rapporto di Antigone, “Oltre il virus”, elenca le molte situazioni in cui si sono testimoniati e denunciati pestaggi vessazioni e angherie dopo le rivolte di marzo. Io ho da tantissimo tempo, e molto prima che mi riguardasse così da vicino, un’obiezione di coscienza radicale alla galera, salvo quando la reclusione sia il solo modo per impedire a qualcuno di fare ancora del male. Un’abitudine pigra, ma niente è più ostinato dell’abitudine, continua a identificare il risarcimento dovuto alla vittima e alla comunità con la cella. Io provo solo disgusto e vergogna per la cella, con tanta forza che non mi succede mai, nemmeno fra me e me, di augurarmi che le persone che detesto e considero nemiche (ce ne sono, infatti, com’è umano) finiscano loro in galera. Perché la galera, chi la conosca da carcerato o da carceriere, e resti umano, nobilita il prigioniero e contagia di ignobiltà chi la augura. Il carcere è il luogo più disadatto al vero pentimento. Il carcere è così cattivo e assurdo da attenuare fino a cancellare la stessa differenza fra innocenza e colpevolezza, da insinuare nel detenuto una sensazione di umiliazione e di offesa che prevale sulla ragione che ce l’ha portato. In carcere ci si può ‘pentire’ solo maledicendo l’accidente che vi ci ha portati: una lezione a delinquere meglio, la volta che ne sarete usciti. Chi attraversi una conversione vera dei propri desideri e della propria vita lo fa non grazie alla galera, ma nonostante la galera. La quale, che lo si voglia oppure si pensi e si proclami di non volerlo, è una vendetta. Riccardo Noury: “La legge sulla tortura, arrivata solo nel 2018, non è perfetta: è ridondante e infarcita di locuzioni e aggettivi inutili come se il legislatore, dopo 28 anni e mezzo di continui ostacoli all’approvazione di un testo, si fosse arreso a votarne uno sperando che la sua ampollosità ne avrebbe reso problematica l’applicazione. Ma da allora la legge contro la tortura è stata applicata. Due processi, relativi a episodi avvenuti nelle carceri di Ferrara e San Gimignano, si sono chiusi con condanne per tortura”. Come mai non si suicidano? A maggio di quest’anno, il carcere di Poggioreale ha una capienza regolamentare di 1.465 posti ma nelle celle si contano 2.125 detenuti, “con un sovraffollamento del 145 per cento”. Nella primavera del 2020 anche Salerno e Poggioreale furono teatro di rivolte, ben diversamente dure che la protesta di Santa Maria CV. Furono sedate meno esemplarmente. Poggioreale è famigerata per molti pregi, in particolare per l’abitudine ai pestaggi interni. E per i suicidi. Nel 2020 i suicidi in carcere sono stati 62 (quelli riconosciuti). Perché tanti suicidi in carcere? Se lo chiedono i medici penitenziari, i pochi educatori, i pochi sacerdoti. Suggerisco che la domanda sia infruttuosa. Non solo perché ogni domanda sulle ragioni di un suicidio deve accettare di arrestarsi alle soglie di una spiegazione esplicita, che resta inattingibile all’autore stesso del suicidio, come avvertiva Primo Levi. Levi era soprattutto tormentato dalla morte volontaria di quelli che sono scampati e ritornati: la morte che lui scelse per sé. Non voglio istituire similitudini fra lager e carcere, non bestemmio: al contrario, voglio tirar lezione dalla differenza. La vera domanda è: perché tutti “gli altri” sopravvivono? Né il ministero, né alcun altro ente, hanno mai pensato di raccogliere dati sui suicidi di ex detenuti tornati in libertà. Sospetto che questi dati mostrerebbero che di carcere si muore fuori ancora più di quanto non si muoia dentro. Ma il punto che più mi sta a cuore è questo: che la morte volontaria in carcere solo impropriamente può essere annoverata fra i suicidi. Sarei tentato di dire che sta tra il suicidio e l’omicidio, almeno l’omicidio colposo. La prigionia corporale, e il modo in cui si applica ora dopo ora, notte dopo notte, anno dopo anno, sono una violenza che mira, al di là di ogni proclamazione retorica o benintenzionata, a rendere la vita impossibile. La galera restituisce il suo senso originario a questa frase: rende la vita impossibile. Ecco dunque che cosa potrebbe tentare un’amministrazione penitenziaria che volesse fare un passo avanti, concettuale, almeno. Smettere di chiedersi perché tanti detenuti si suicidino, e interrogarsi su perché tutti “gli altri” non si suicidano. E’ questo il mistero, è qui la verità da far riaffiorare dalla stupidità in cui è sprofondata, e da far luccicare in favore degli esseri umani e della loro tenace resistenza. Quali risorse, quale pazienza, quale sopportazione del dolore, quale aspettazione consentono di tirare avanti nonostante e contro la galera. Chiusi in gabbia, destinati a essere braccati e ricatturati sempre come animali di zoo, umiliati nella dignità, oltraggiati nell’intelligenza, castrati e mutilati nel corpo: che cosa conserva in costoro un attaccamento alla vita più forte dell’induzione metodica alla morte che respirano con ogni boccata della loro aria? Ogni anno alcune decine di prigionieri, corrispondendo a ciò per cui la galera è ordinata, si uccidono. Ogni anno, in modo incomprensibile, alcune decine di migliaia sopravvivono. Mi diano retta le autorità, e non scambino la mia lucidità per un paradosso: indaghino sulle ragioni dei suicidi mancati. Se seguiranno questo filo, arriveranno lontano. Interpellate, le persone libere dicono se condannerebbero o no a morte qualcuno. Non viene loro in mente l’eventualità di essere loro dal lato dei condannati. Giudici di professione, interpellati, giudicano anche i suicidi dei loro imputati. Senza neanche immaginare l’eventualità del proprio suicidio. Alcune persone sono compassionevoli, altre feroci: ma stanno tutte dall’altra parte. Il tirocinio - Sono usciti saggi e libri meritevoli nella pandemia carceraria. Riccardo De Vito, magistrato di sorveglianza di Sassari e presidente di Magistratura Democratica, “Il vecchio carcere ai tempi del nuovo colera”, in Questione Giustizia, marzo 2020. L’emergenza sanitaria ha scoperchiato una pentola in ebollizione, spandendo attorno una condizione carceraria ormai al collasso. E’ magistrato di sorveglianza, a Firenze (dove il ricordo di uomini come Margara e Mario Gozzini è vivo) Marcello Bortolato, che con il giornalista Edoardo Vigna ha pubblicato da Laterza “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia”. Dice Bortolato che ogni magistrato tirocinante dovrebbe trascorrere qualche giorno (qualche notte, dico io) in carcere. “Quando presidente della Scuola superiore della Magistratura era Valerio Onida, i giovani magistrati erano tenuti a frequentare degli stage penitenziari addirittura per 15 giorni. Poi, per alcune ingiustificate polemiche che sono sorte anche all’interno della magistratura, non se ne è fatto più nulla, perdendo un’occasione unica di crescita professionale ed esperienza umana /.../ L’impressione che ho tratto dopo più di 30 anni di carriera è che molti magistrati del penale, ben più di quelli che si possa immaginare, non hanno mai fatto ingresso in un carcere se non nella piccola saletta ove si svolgono gli interrogatori con i detenuti. I cancelli raramente sono stati oltrepassati, anche solo per curiosità”. Rileggete: “anche solo per curiosità”. La stessa convinzione esprime Nicola Graziano, magistrato a Napoli e autore di “Matricola zero zero uno”, scritto dopo un soggiorno di 72 ore da detenuto nell’ex ospedale psichiatrico di Aversa, nel 2014. Era stato autorizzato, solo il direttore e il comandante ne erano al corrente. Il 2 luglio, sul Riformista, alla domanda: “Come cancellare la vergogna di Santa Maria Capua Vetere?” rispondeva: “Con amnistia, indulto e riforme”. Per non citare solo magistrati, rimedio con Zero Calcare, il cui “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore” parla delle carceri italiane durante la prima ondata della pandemia, da Rebibbia a Santa Maria Capua Vetere. E’ stato pubblicato su Scoop!, il numero di Internazionale Extra uscito nel dicembre 2020, e ripubblicato ora. Un bel racconto della pandemia carceraria uscì, sempre nel dicembre 2020, su Internazionale: “Un altro anno da dimenticare per il carcere”, di Giuseppe Rizzo. Prendeva le mosse da un saggio di Sarah Stillman sul New Yorker del maggio 2020, che si chiedeva se il coronavirus avrebbe messo in discussione l’incarcerazione di massa in America. Citerò la voce “Luglio”, anche perché ci risiamo, caldo e tutto. “Luglio. ‘In questi giorni di caldo tanti istituti hanno le sezioni per i detenuti chiuse venti ore al giorno. In questo senso è famosa la cella 55 del carcere di Poggioreale dove ci sono 14 detenuti in una stanza con una finestra’, dice Samuele Ciambriello, garante dei detenuti in Campania. A fine luglio in tutta Italia ci sono 53.619 detenuti. In 24 istituti il sovraffollamento supera il 140 per cento. A Latina è del 197,4 per cento”. Marzo 2020. Tullio Padovani, illustre professore di diritto penale, avvocato, radicale: “Come previsto dalla normativa europea, un maiale adulto deve disporre di almeno 6 metri quadrati di superficie libera. Noi al posto del porco mettiamo il detenuto. Il detenuto per il nostro legislatore è un porco. Nelle nostre carceri più di 30.000 detenuti non entrano. Se io ho 30.000 posti mi devo rassegnare a questo numero. E se ne ho da mettere in più scelgo: metto fuori uno che sta alla fine della pena, o uno che ha un reato meno grave e faccio entrare l’altro”. Giugno 2021. Guido Neppi Modona auspica un lavoro di revisione della legge penale da parte del potere legislativo “che potrebbe essere l’occasione per riservare la pena carceraria a una ristretta categoria di reati di particolare gravità e di condannati socialmente molto pericolosi, prevedendo una vasta gamma di sanzioni alternative alla pena detentiva. Nello stesso tempo si conseguirebbe l’obiettivo, che i cultori di diritto penale invano predicano da decenni, di un carcere popolato da non più di 10-15.000 detenuti, destinatari di programmi e percorsi di effettivo recupero e risocializzazione”. Sono contrario all’ergastolo ostativo, volete che non abbia fiducia nel riscatto degli agenti picchiatori? Gli ergastolani sono 1.779 di cui ostativi 1.259; la liberazione condizionale di cui molto si dibatte è stata data a un ergastolano (ovviamente non ostativo) nel 2019, a quattro nel 2020, a nessuno nel 2021. Per intenderci. Ho una postilla, quasi buffa, l’ho suggerita altre volte. La durata media della vita si è allungata prodigiosamente, benché la pandemia lavori ora a rosicchiarne i guadagni. A metà dell’Ottocento si arrivava sì e no ai 40 anni. Un ventenne all’ergastolo aveva la prospettiva di un’altra ventina d’anni di galera. Oggi l’ergastolo di un ventenne equivale a una condanna a sessant’anni. Quasi buffo, no? I pullulanti giustizieri dovrebbero proporre l’aumento proporzionale delle pene, come una scala mobile che le indicizzi automaticamente alla longevità. Nel recente processo per l’uccisione del carabiniere Cerciello Rega, un avvocato della difesa ha detto che “l’ergastolo per quei due giovani è peggio della pena di morte”. Ogni (quasi) argomento è lecito a un avvocato difensore. Ma niente è peggio della pena di morte. E un ergastolo immaginato implacabile non è il compenso al ripudio della pena di morte, ma la sua contraddizione. L’abolizione dell’ergastolo è il passo moralmente e ragionevolmente successivo al ripudio della pena di morte. “Complessivamente il sistema penitenziario ha retto all’impatto del contagio - dice il Garante Mauro Palma - rispetto al rischio potenziale di un ambiente chiuso. Va comunque tenuto presente che in un giorno della seconda ondata si è raggiunto il picco di 849 contagi rispetto a una popolazione di 53.608 il che significa che proporzionato agli oltre 59 milioni di italiani corrisponderebbe ad avere avuto in una giornata 938 mila contagiati. Dal febbraio 2020 le persone detenute che si sono ammalate sono state migliaia. Nel dicembre 2020 in media ogni diecimila detenuti c’erano 179 positivi, mentre fuori i positivi erano 110 ogni diecimila persone; nel febbraio 2021 c’erano 91 positivi ogni diecimila detenuti, mentre fuori il rapporto era di 68 positivi ogni diecimila persone”. Orizzonti ristretti - Ornella Favero, fondatrice e direttrice di “Ristretti Orizzonti”, presidente della Conferenza nazionale volontariato Giustizia: “Anni fa il volontariato, per contrastare l’inerzia delle Istituzioni di fronte al sovraffollamento e alle condizioni inumane e degradanti della detenzione, si domandava cosa sarebbe successo se si fosse deciso di proclamare uno sciopero delle attività gestite dai volontari e dal privato sociale: oggi ce l’abbiamo davanti, questo quadro desolante, in cui ovviamente i volontari sono diventati il soggetto più facilmente sacrificabile sull’altare della sicurezza sanitaria. Speriamo solo che la cosa duri poco, e soprattutto che serva a far capire quanto dannoso, pericoloso, insicuro è un carcere chiuso alla società civile”. “E’ di questo che abbiamo parlato con la ministra, della necessità che da questo periodo di ‘desertificazione’ delle carceri con la pandemia si esca per ricostruire qualcosa di radicalmente diverso da quello che erano le carceri ‘prima’. Alla ministra avevamo chiesto di incontrarci per parlarle del volontariato negli Istituti di pena e nell’area penale esterna, e del nostro sforzo per superare la logica del coltivare ognuno il proprio orticello perfetto, e di finire così per contare tutti pochissimo... La ministra ha manifestato incredulità rispetto a questa ‘alterità’, come l’ha definita lei, del volontariato così poco riconosciuta, ma è un dato di fatto, evidenziato dalla pandemia, che spesso i volontari sono considerati ‘ospiti’, ‘ruote di scorta’... E chiediamo che, quando si uscirà da questa emergenza, non vengano tagliate le uniche cose buone che la pandemia ha portato, il rafforzamento di tutte le forme di contatto della persona detenuta con la famiglia e l’uso delle tecnologie per sviluppare più relazioni possibile tra il carcere e la comunità esterna. E senza tentazioni di sostituire i colloqui visivi con i colloqui via Skype, nessuna tecnologia vale quanto un abbraccio”. Nessuno può chiedere agli agenti di subire prepotenze e tanto meno violenze. Ma nemmeno che le infliggano, senza necessità, e al costo dell’altrui pena e della propria degradazione. Impressionante non è la solidarietà delle associazioni degli agenti, ma la loro sentita stupefazione per un’iniziativa giudiziaria di cui si capisce che non era nel loro conto. Che nel loro conto era l’impunità, per antica abitudine, rinnovata dagli umori recenti dei media e della gente: cosicché ora se ne sentono traditi. L’odio e il disprezzo reciproci fra guardie e ladri sono la condizione perché la barbarie delle galere non sia scalfita. È una verità più difficile da dire, ma ancora più vera, nel momento in cui qualche guardia è ruzzolata dall’altra parte delle sbarre. Forse la prossima ribellione avrà per protagonisti gli agenti penitenziari. E non contro i detenuti. I morti del carcere rimossi dallo Stato e dalla coscienza di Enrico Deaglio Il Domani, 5 luglio 2021 Nel marzo 2020 sono morti 13 detenuti del penitenziario di Modena, il più grave fatto mai avvenuto nelle carceri d’Europa. Non importava a nessuno. Il paese era disorientato e Bonafede ha liquidato il caso: sono morti “per lo più di overdose”. Furono vietate le visite dei famigliari, sospesi i permessi per i volontari, annullata la normale attività quotidiana di sostegno. Risultato? Il 9 marzo 2020 scoppiano proteste in 27 istituti penitenziari italiani. Nei giorni seguenti, nelle più diverse carceri italiane, distanti anche centinaia di chilometri, spuntarono i morti. Cause naturali, overdose da farmaci o chissà cos’altro. Ora il pestaggio di Santa Maria Capua Vetere impone di cercare la verità anche per tutte le altre ingiustizie dietro le sbarre. Innanzitutto i nomi. Per non dimenticare, certo. Si dice così; ma sapendo in cuor nostro che saranno dimenticati. Che non avranno tombe degne. Che non ci sarà in loro ricordo un monumento per loro, neanche piccolo; e sicuramente non sarà all’ingresso della Casa Circondariale di Modena S. Anna. Si chiamavano Marco Boattini, Salvatore Cuono Piscitelli, Slim Agrebi, Artur Iuzu, Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi, Ante Culic, Carlo Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri, Ghazi Hadidi, Abdellah Ouarrad, morti in stato di detenzione a seguito dei disordini nelle carceri del marzo 2020. E come fu possibile? Vivevamo allora “in tempi eccezionali” che portarono, anche, alla morte i 13 detenuti, ma segnarono la vita di tutti noi. Incertezza - Siamo nella prima decade di marzo 2020, la “pandemia” si chiama ufficialmente così, la crescita del contagio da virus è esponenziale; gli strumenti per combatterla sono pochi e incerti; mentre si affollano le voci più diverse: è “una banale influenza” o è la nuova peste che distruggerà il mondo? È un regalo della Cina? Di Big Pharma? Chi sono gli “untori”? È vero che moriranno solo i vecchi? Che cosa sta succedendo a Bergamo? In questo marasma, il governo italiano, presieduto da Giuseppe Conte, un avvocato considerato dai politologi una sorta di “re travicello”, prende una decisione storica. L’Italia è il primo paese al mondo a “chiudere tutto”, per decreto. E la stragrande maggioranza del popolo, razionalmente o inconsciamente, capisce che è la cosa giusta da fare. C’è però un grosso buco nel decreto Conte: le carceri. Dove vivono 60mila detenuti, lavorano 200mila agenti di custodia e amministratori, un mondo che coinvolge almeno un milione di italiani. Nessuno aveva previsto l’impatto che può avere il virus in questo mondo chiuso, povero, sovraffollato. Si fanno tamponi? No. Misure di isolamento, distanza sociale? No, impossibile. Profilassi, sanificazione? No. Ma si vietano visite dei famigliari, sospesi i permessi per i volontari, annullata la normale attività quotidiana di sostegno che permette a questo mondo, sempre sul punto di esplodere o di implodere, di tirare avanti ancora un po’. Risultato? Il 9 marzo 2020 scoppiano proteste in 27 istituti penitenziari italiani. I detenuti salgono sui tetti, si rifiutano di tornare nelle celle, battono sulle sbarre, danno fuoco a materassi e coperte. La televisione trasmette scene decisamente incredibili: a Rebibbia i detenuti sono usciti dal carcere (nessuno li ha fermati) e fanno sentire ai giornalisti e ai famigliari accorsi, che hanno bloccato la via Tiburtina, le loro ragioni. Potrebbero addirittura filarsela, non c’è nessun controllo. A Foggia invece avviene un tentativo di evasione di massa, che la polizia non riesce a contrastare. (I fuggitivi saranno catturati in pochi giorni). Voci arrivano da dentro: chiedono che i vecchi - nelle sovraffollate carceri italiane vegetano quasi mille ultrasettantenni) siano scarcerati, che i detenuti in scadenza di pena vengano rimessi in libertà in anticipo, che ci sia l’isolamento dei positivi, che vengano ripristinati i colloqui, che ci sia un indulto o un’amnistia data la straordinarietà della situazione. La versione di Bonafede - Il governo è frastornato. Il ministro di Giustizia, Alfonso Bonafede, noto per essere un fautore della “linea dura”, della carcerazione, della progressiva militarizzazione delle carceri, non si fa sentire. Il capo del Dap, Francesco Basentini, da cui dipende tutta l’amministrazione carceraria, chiaramente non controlla la situazione. Modena arriva in quei giorni, in quelle ore. Notizie e immagini confuse. Dal carcere S. Anna si alzano colonne di fumo, voci frammentarie dicono che c’è stata una rivolta e che i detenuti hanno preso possesso di un braccio del carcere; però poi gli agenti sono andati alla riscossa e hanno ripreso il controllo della situazione. Dicono che ci siano dei feriti, anzi che ci sia un morto. Anzi, che ce ne siano due, anzi tre. Ho ancora negli occhi spezzoni di immagini trasmesse da una televisione locale: il trasferimento di tutti i detenuti del S. Anna verso “altre destinazioni”. È una scena spettrale. Si vedono tre feretri fatti uscire tra due spaventate e minacciose file di poliziotti in tenuta antisommossa più mascherina. (Non si sa chi ci sia dentro. Mi ha ricordato la scena dell’esplosione della miniera di Marcinelle in cui morirono 262 minatori italiani, ma li portavano su travestiti da sacchi di carbone, per non pagare l’assicurazione). Si vede un gruppo, verosimilmente di famigliari, arrivato a chiedere notizie. L’aria è tesa, fa freddo. Lo schieramento militare è troppo. C’è un battibecco tra un agente in borghese e un maturo signore, si sente questo frammento, in pesante accento emiliano: “Allora aveva ragione Hitler che li mandava tutti nelle camere a gas…”. Ma tutta l’operazione ha funzionato, il carcere S. Anna (548 detenuti, in una struttura fabbricata per contenerne 369) è stato completamente svuotato, pacificato, sterilizzato. L’ordine regna al S. Anna. Radiocarcere si incaricherà nei giorni seguenti di raccontare storie - o leggende? - della diaspora di quella schiuma della terra che aveva scampato Modena ed era arrivata nelle carceri di mezz’Italia con i segni dei pestaggi. Ma questo era solo il primo tempo del film dell’orrore, perché nei giorni seguenti, nelle più diverse carceri italiane, distanti anche centinaia di chilometri, spuntarono altri morti. Cause naturali, overdose da farmaci o chissà cos’altro. Erano stati appena trasferiti dal carcere di Modena, alcuni erano arrivati in cattive condizioni, altri addirittura già morti. Nessuno era arrivato in ambulanza; piuttosto sui cellulari della polizia. Il conto finale? Tredici detenuti morti. Tredici: il più grave “fatto” avvenuto nelle carceri italiane nella loro peraltro poco edificante storia. Il più grave fatto mai avvenuto nelle carceri della civile Europa, di cui l’Italia fa parte. Non si vuole la verità - Cosa si sa, ora di che cosa era successo? A distanza di quindici mesi non esiste alcuna verità, ed anzi non c’è nessuna volontà di cercarla. Di quegli avvenimenti resta solo un “quadro generale”. Il 9 marzo un folto gruppo di detenuti del carcere di Modena (qui non c’è la grande criminalità, ma piuttosto uno spaccato della popolazione carceraria italiana, giovani per reati legati alla droga, molti immigrati, molti sofferenti per dipendenza da farmaci stupefacenti) prende possesso dell’infermeria dell’istituto, dove sono custodite - in cassaforte - le bottiglie di metadone, succedaneo dell’eroina, usato sia a scopo terapeutico, sia per combattere crisi di astinenza. Le guardie sono prese alla sprovvista e soccombono davanti alla violenza dei rivoltosi. I detenuti, non si sa come, riescono ad aprire la cassaforte e si “attaccano alle bottiglie” di metadone. Quanti? Non si sa. Quanto ne hanno bevuto? Non si sa. Perché? Non si sa, si ipotizza uno stato generale di ebbrezza, di euforia, di trasgressione. O forse una volontà di suicidio? Ma presto gli effetti di quelle sorsate si manifestano. Svenimenti, perdita di coscienza, convulsioni, collassi. Dopodiché gli agenti riescono a prendere il controllo della situazione e provvedono al trasferimento di tutti i detenuti. I morti sono una tragica fatalità. Ci sono dei problemi, anche per le persone più miti ed obbedienti alle verità ufficiali, ad accettare questa versione dei fatti. Provo ad elencarne alcuni: L’intossicazione da metadone, o altre crisi analoghe, è pane quotidiano delle carceri italiane dove una larga fetta di detenuti è tossicodipendente. Come ogni direttore di penitenziario sa, e come sa il personale medico, l’intossicazione acuta da metadone ha un antidoto veloce ed efficace. Si chiama Narcan, da decenni usato per combattere le ovderdose. Il paziente che riceve una fiala di Narcan si risveglia dal suo sonno comatoso in pochi minuti. Nessuna persona, con coscienza e professionalità, potrebbe ordinare il trasferimento di persone sofferenti senza visita medica, senza un’ambulanza attrezzata per affrontare un viaggio lungo senza assistenza di personale specializzato; i detenuti invece viaggiarono ammanettati? Furono curati alla loro destinazione finale? Quanti vi arrivarono già morti? Certo che dovevano essere ben paurose le strade italiane in quelle notti di marzo, con i camion dei monatti con le insegne dell’esercito italiano che trasportavano salme di sconosciuti delle valli bergamasche e cellulari di polizia che scaricano detenuti, alcuni dei quali moribondi, ai cancelli delle carceri. Dopo che la rivolta del carcere di Modena fu domata, ci furono violenze sui detenuti che vi avevano partecipato? Tutto questo, all’epoca non si sapeva, o non si voleva sapere. I morti di Modena non fecero notizia. Per giorni non si seppero neppure i loro nomi, che vennero rivelati, con atto di coraggio, dal giornalista del Corriere della Sera Luigi Ferrarella, 11 giorni dopo; il ministro Bonafede, rispondendo in parlamento, non solo aveva minimizzato gli episodi, ma aveva elogiato le forze dell’ordine che avevano tenuto testa ad una rivolta che metteva in discussione le fondamenta dello stato. Riguardo alle cause dei decessi, Bonafede disse solo che erano morti “per lo più per overdose”. Per lo più, avete capito bene. Qualcuno, chi più chi meno, uno vale l’altro, tanto sono spazzatura. E di questa spazzatura, per lo più morta lì, su un pavimento, non assistita, forse rantolante ammanettata su qualche cellulare della polizia, sappiamo comunque qualcosa di più. Erano italiani, magrebini (tunisini, marocchini, un algerino), un moldavo, un ecuadoriano, un croato. Come scrisse all’epoca Adriano Sofri, “una lapide potrebbe unire i loro nomi, luogo e data di nascita, luogo e data di morte, e tre sole parole, maiuscole: PER LO PIÙ”. Come spazzatura - E dunque, ecco Marco Boattini, 40 anni, Ante Culic, 41 anni, Carlos Samir Perez Alvarez, 28 anni (sono i tre morti nel carcere di Rieti). Scrive oggi Sofri, in un lungo e profondo resoconto sul passato, presente e futuro delle carceri italiane che appare sul Foglio: “C’è una lettera di detenuti in mano alla Procura di Rieti: “Hanno avuto un primo soccorso e sono stati riportati a morire in cella soli e in preda ai dolori, abbandonati come la spazzatura. Per noi, nei giorni a seguire non è stato facile: sono entrati cella per cella, ci hanno spogliato e ci hanno fatto uscire con la forza, messi divisi in delle stanze e uno alla volta passavamo per un corridoio di sbirri che ci prendevano a calci, schiaffi e manganellate; per i più sfortunati tutto ciò è durato quasi una settimana tra perquisizioni, botte, parolacce, ci dicevano “merde, testa bassa!”, “vermi” e quando l’alzavi per dispetto venivi colpito ancora più forte”. Gli altri nomi: Haitem Kedri, 29 anni, morto a Bologna. Non aveva nemmeno preso parte alla rivolta. E quelli del S. Anna di Modena. Hafedh Chouchane, 37 anni (è quello che sarebbe uscito due settimane dopo), Erial Ahmadi, 36 anni, Slim Agrebi, 40 anni, Ali Bakili, 52 anni, Lofti Ben Mesmia, 40 anni, Abdellah Rouan, 34 anni, Artur Iuzu, 42 anni, Ghazi Hadidi, 36 anni. E Salvatore Sasà Cuono Piscitelli, 40 anni, trasferito e morto ad Ascoli: l’unico per il quale l’indagine non è chiusa. E poi aggiungiamo, rivelato dall’inchiesta di Domani sulle sevizie nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il 27enne algerino Lamine Hakimi, prima picchiato a sangue e poi lasciato morire in isolamento. Perché non ce ne occupammo, quindici mesi fa? Perché non capimmo la gravità di quanto era successo? Certo, giustificazioni non mancarono (c’era la pandemia, non ce la siamo dimenticata). Il governo, nelle persone del ministro Bonafede (ma non solo) inquadrò gli avvenimenti sotto tutt’altra luce. Le rivolte nelle carceri erano state organizzate e fomentate dalla criminalità organizzata, che era stata talmente potente da poter far partire un ordine di mobilitazione in tutte le carceri italiane. L’obiettivo era di sfruttare la situazione per ottenere indulto o amnistia, o comunque condizioni di maggior favore per i loro associati nel circuito del 41 bis. I giornali pubblicarono con titoloni articoli scandalizzati per il fatto che una dozzina di ottantenni, in genere malati oncologici, erano stati mandati a casa. Il ministro licenziò il capo del Dap Basentini, non perché responsabile delle morti in carcere, ma perché aveva “abbassato la guardia” nei confronti dei boss. Un momento di rara assenza di decoro si ebbe quando il magistrato Nino Di Matteo intervenne in una trasmissione di trash tv per lamentarsi di non essere stato nominato lui, a quel posto. E accusando il ministro di aver ceduto anche lui ai boss. (I quali boss, che si sappia, peraltro non ebbero nessun ruolo nelle rivolte delle carceri del marzo 2020). Una lite da lavandaie che giungeva nel momento in cui la magistratura tutta, e la sua credibilità, si stava distruggendo tra scandali e vendette interne. Il potere del Dap - Ma almeno quella vicenda è servita per capire quanto potere abbia in Italia chi “controlla le carceri” e perché il ruolo di capo del Dap sia il meglio pagato di tutta l’amministrazione dello stato italiano. Dal carcere passa tutto: c’è il 41 bis con i suoi segreti (un’istituzione centrale per gli equilibri della nostra civiltà giuridica e politica!), ci sono i “colloqui investigativi” con i loro segreti, ci sono i patti segreti tra servizi e mafie, c’è il potere dei sindacati della polizia penitenziaria, ci sono le campagne di opinione pubblica che decidono poi le vittorie elettorali. È troppo importante, il carcere, per essere disturbato. E così infatti avvenne. I “tredici di Modena” vennero dimenticati e le loro storie insabbiate. Autopsie sommarie, inchieste debolissime e svogliate, poca e nulla la pressione dei grandi partiti politici, dell’opinione pubblica o della chiesa, molto limitata addirittura l’indignazione e la raccolta di firme; lodevoli, generosi e coraggiosi naturalmente, i soliti noti: i radicali, le associazioni che si occupano dei detenuti, i volontari, qualche giudice di sorveglianza. Nel mese scorso la procura di Modena ha archiviato tutto in tre paginette, in cui si dice che non c’è alcun motivo di dubitare della versione dei fatti data dalla polizia e dai responsabili del carcere. Non sembra dunque ci siano molte altre vie per ottenere verità e giustizia, nome che si è dato un “comitato” nato l’anno scorso presso la camera penale di Modena e che ci tiene informati. (info@dirittiglobali.it) La vicenda di Santa Maria - Ma perché allora parliamo di questa storia? Perché, grazie al video pubblicato da Domani quello che successe nelle carceri italiane al tempo del primo lockdown, è letteralmente esploso. E la nuova ministra della Giustizia Marta Cartabia, non si è nascosta dietro l’enormità di quanto successo. La vicenda di Santa Maria Capua Vetere sta a dimostrare che la stampa libera ancora conta, che nel nostro modo di vivere una registrazione di una telecamera di sorveglianza può cambiare il mondo, come il video di una ragazzina di diciassette anni ha cambiato l’America. E quindi chissà…anche l’Italia e le sue carceri potrebbero cambiare. La nostra storia però non gioca a nostro favore. Di morti “in custodia” dello stato ce ne sono stati moltitudini. Il mondo del carcere e delle questure non conosce l’habeas corpus; e sa difendersi molto bene, come dimostra la storia, lunga 52 anni, dell’anarchico Pino Pinelli, anche lui in custodia dello stato. Dissero che era morto per un malore attivo. Divenne la verità, la legge. Se abbiamo creduto a quello, perché non credere che i 13 di Modena sono morti, per lo più, per aver ingerito metadone? Pestaggi in carcere: impedire che il “tradimento” si ripeta di Valerio Onida Corriere della Sera, 5 luglio 2021 Dopo gli episodi di Santa Maria Capua Vetere, denunciati più di un anno dopo e a vent’anni dalle ingiustificate violenze al G8 di Genova. Il reato di tortura esiste solo dal 2017. Gli episodi, emersi e denunciati più di un anno dopo, di violenze nelle carceri perpetrate da personale della polizia penitenziaria a carico di detenuti, non possono non suscitare reazioni adeguate da parte degli organi dello Stato, oltre che indignazione nei cittadini. Ma dobbiamo chiedere e dare con insistenza risposte chiare alle domande ineludibili che questi episodi pongono. Sono passati vent’anni da quando, in occasione del G8 di Genova, fatti ripetuti di ingiustificata violenza ad opera delle forze dell’ordine a carico di persone indifese o in stato di custodia, e dunque affidati ufficialmente allo Stato, avvennero nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. La magistratura intervenne, anche se alla fine la risposta giudiziaria risultò limitata dall’assenza di norme adeguate (la legge sulla tortura, varata solo nel 2017) e dal passare del tempo che favorì il verificarsi di prescrizioni. Intervenne anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che accertò con più sentenze, nel 2015 e ancora nel 2017, i “crimini di Stato” commessi e con le sue pronunce denunciò fra l’altro la mancanza in Italia, fino allora, di una legge che punisse la tortura. Le domande sono sempre le stesse. Come possono più persone appartenenti a forze dell’ordine, personale dello Stato, abbandonarsi collettivamente a violenze gratuite a carico di persone detenute, senza che loro stessi avvertano la gravità e la inammissibilità della cosa, senza che i responsabili delle amministrazioni di appartenenza intervengano per impedire e per reprimere? È possibile che della polizia penitenziaria continuino a far parte agenti - a cui la vicenda del G8 avrebbe dovuto insegnare qualcosa - che vent’anni dopo mettano in atto violenze dello stesso genere? Che cosa hanno fatto in tutti questi anni i responsabili politici e amministrativi del corpo della polizia penitenziaria - capi dell’amministrazione penitenziaria, ufficiali del corpo, persino magistrati di sorveglianza, che dovrebbero essere gli occhi sempre aperti della giustizia sulle realtà carcerarie - per impedire che episodi del genere si ripetessero? E ancora: come è possibile che, come nel caso di S. Maria Capua Vetere, i responsabili sembrino non sapere per un anno ciò che è accaduto in una struttura cui sono preposti, non intervengano tempestivamente, non denuncino, non adottino provvedimenti rigorosi e preventivi, così che per un anno tutto rimanga coperto e nascosto, fino a quando qualcuno fortunosamente pubblica dei video eloquenti? E quanto può accadere o accade che episodi magari minori di questo stesso tipo si ripetano nel silenzio e nell’ombra? A Roma c’è la Scuola di formazione della polizia penitenziaria. È possibile che in questa Scuola il tema delle violenze di Stato non divenga oggetto si può dire quotidiano di riflessione e di testimonianza, direi di “formazione di base”, così da fare in modo che nessuno degli agenti, nuovi e vecchi, possa indulgere a comportamenti criminali di questo tipo senza avvertirne l’inammissibilità e senza adeguati provvedimenti di prevenzione e di risposta? Non è questione di sole “mele marce” quando le “mele” non sono isolate e nessuno, né i colleghi di lavoro, né i capi hanno il coraggio o la forza di intervenire a contrastare e a denunciare fatti così gravi. Non è nemmeno questione di scarsità di risorse o di personale, quando accade che il personale in servizio si dedica a violenze non per difendersi nell’immediato da violenze altrui, ma per far luogo a risposte organizzate tese volutamente a infliggere ai detenuti “trattamenti inumani e degradanti” (art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo). Il carcere, che dovrebbe per i detenuti essere scuola di “rieducazione” e luogo che insegna e garantisce in ogni caso trattamenti rispettosi del senso di umanità, rischia così di divenire scuola di delinquenza, per i detenuti e per chi lavora con loro. Giustamente la Ministra della Giustizia Cartabia, di fronte all’emergere di questi episodi, ha parlato di “tradimento della Costituzione”. Spetta a tutti i responsabili (e a tutti noi) fare - subito - tutto quanto necessario e possibile perché, tra un mese o tra vent’anni, il tradimento non si ripeta e non dobbiamo venire a sapere di nuovi scandalosi episodi dello stesso genere nelle carceri italiane. Quelle realtà esistono anche senza i video di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 5 luglio 2021 Dai pestaggi di massa nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere, agli spari sui migranti in mare ad opera della Guardia costiera libica finanziata dall’Italia, ormai sembra che la realtà “esista” solo quando ad attestarla c’è la prova-tv. No video, no party. Ma non necessariamente è un sintomo di buona salute dell’informazione e, quindi, della democrazia. Dai pestaggi di massa nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere, agli spari sui migranti in mare ad opera della Guardia costiera libica finanziata dall’Italia, ormai sembra che la realtà “esista”, cioè sia ammessa ad essere convenzionalmente presa in considerazione dalla collettività, soltanto quando ad attestarla spunti la prova-tv. Se no, senza “Var”, si fa tutti tranquillamente finta - società e politica - di non saperne niente. Anche se magari già quasi tutto sulla spedizione punitiva in carcere era stato scritto addirittura nove mesi fa (proprio da Nello Trocchia su Il Domani) senza che quasi nessuno facesse una piega. E anche se magari l’ipocrita velo sul vero impiego delle vedette italiane donate alla Libia era stato strappato già tante altre volte, dai testimoni raccolti su Avvenire da Nello Scavo o dai tracciati radar marittimi studiati a Radio Radicale da Sergio Scandura, sempre senza che nessuno si stracciasse le vesti. Ora, in entrambi i casi, a infrangere “l’invisibilità” arrivano i video. Dietro e prima dei quali, però, tocca per converso scorgere l’incrinarsi dell’alleanza fiduciosa tra la collettività e i suoi mezzi di informazione; e constatare l’inaridirsi degli strumenti di controllo parlamentari, ridotti a stanco rito di interpellanze insoddisfatte dà risposte evasivamente burocratiche, “tassa” di routine sbrigata dal ministro o sottosegretario di turno. Sarà pur vero che, come ama motteggiare il ministro della Giustizia francese Eric Dupond-Moretti con calambour mutuato invero dal regista Michel Audiard, “la giustizia è come la Santa Vergine: se non appare per troppo tempo, il dubbio serpeggia”. Ma, in fondo, nel Vangelo vero sta pure scritto “stendi la tua mano nel mio costato e non essere più incredulo ma credente!”: sommesso invito alla fede nel giornalismo, che forse non sono immeritevoli di rinnovare all’opinione pubblica l’apprezzamento per quanti si sforzano ancora di raccontare realtà impopolari, e di farlo anche e soprattutto quando non esiste la “Var” a segnalare il fuorigioco di chi vorrebbe occultarle. Dopo la condanna delle violenze di S.M. Capua Vetere tornare subito agli Stati Generali di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 5 luglio 2021 Sulla gravità inaudita delle violenze perpetrate da pubblici ufficiali in danno di detenuti affidati alla loro sorveglianza e protezione, si è detto e ribadito tutto ciò che si poteva e si doveva, almeno da parte di chi ha davvero a cuore i valori fondativi del nostro patto sociale. Picchiare ed umiliare gli inermi è già perciò stesso una infamia; ma che a farlo siano coloro che rappresentano lo Stato e dunque la sua cruciale funzione di sorveglianza, protezione e rieducazione delle persone detenute nelle proprie carceri, supera ogni limite dell’umanamente tollerabile. Benissimo la invocazione della “Costituzione tradita”, opportunamente espressa dalla Ministra Cartabia. Ora però alle parole di ferma condanna occorre far seguire una risposta seria ed efficace, ciò che necessariamente presuppone la comprensione, lucida e coraggiosa, di cosa esattamente sia accaduto, e perché. Vedo infatti che la narrazione politica e mediatica della vicenda si va pericolosamente orientando, con poche eccezioni virtuose, verso l’odioso diversivo delle “mele marce”. Ci troveremmo di fronte, insomma, ad un gruppo di agenti penitenziari i quali, affratellati da una comune indole sadica e violenta, assumono spontaneamente una iniziativa punitiva quale reazione alle rivolte dei detenuti esplose, come tutti ricordiamo, in varie carceri contro le restrizioni connesse alla improvvisa esplosione della pandemia e per la tutela del diritto alla salute. Si tratta di una idea irresponsabilmente lontana dalla realtà. A seguito di quelle rivolte -che ovviamente vanno sempre doverosamente governate e punite, sia ben chiaro- giunsero da molte carceri italiane, attraverso familiari ed avvocati dei detenuti, denunce inequivoche di violenti pestaggi. D’altronde, vi furono addirittura una decina di morti tra i detenuti, sorprendentemente tutte giustificate -tutte!- come dovute ad abuso di metadone sottratto dai rivoltosi alle infermerie delle carceri. E sarà bene ricordare le esplicite responsabilità che il Governo Conte ed il Ministro di Giustizia Bonafede si assunsero nel rifiutare sostanzialmente ogni plausibile e rigorosa istruttoria su quanto accaduto. D’altronde, basta leggere sia le cronache di allora, sia quelle di questi giorni (Bologna, Melfi), per comprendere che una sola cosa ha fatto la differenza con Santa Maria Capua Vetere: le telecamere di servizio dimenticate accese nel carcere campano durante la mattanza. Le carceri italiane operano oltre ogni limite di civile decenza, un inferno sia per i detenuti, sia per il personale amministrativo e gli agenti di custodia, costituendo perciò stesso il naturale terreno di coltura di violenze pronte ad esplodere al primo innesco. Il disinteresse totale dello Stato per la finalità rieducativa della pena e per la riqualificazione professionale e strutturale dell’Amministrazione penitenziaria, nasce da anni di incuria, ma con i due Governi del giurista Conte - il famoso “punto di riferimento dei progressisti italiani” - è stato addirittura rivendicato da M5S e Lega, e pavidamente quanto irresponsabilmente tollerato innanzitutto dal Partito Democratico. Non dimentichiamo d’altro canto che alla fine della scorsa legislatura il Ministro della Giustizia Orlando e tutta la maggioranza di governo uscente, dopo avere acquisito il grande merito di avere scritto -all’esito di tre formidabili anni di Stati Generali della esecuzione penale- il più importante e condiviso progetto di riforma delle carceri e della pena degli ultimi 30 anni- si assunse la responsabilità, per mediocre calcolo elettorale, di non approvarlo come avrebbe potuto e dovuto, terrorizzato dall’onda populista e giustizialista che montava. Quel grande progetto di riforma fu subito affossato dal primo governo a guida del prof. Conte, nel nome di una idea barbara ed analfabeta di “certezza della pena”, e mai più rivendicato dai nuovi partner del secondo Governo guidato dal leader progressista di Volturara Appula, i quali anzi accettarono supinamente l’inaudito insabbiamento ispettivo di quanto accaduto in quei drammatici giorni. C’è un solo modo per uscire da questa vergogna: rivendicare con orgoglio il lavoro di quei tre anni di Stati Generali, e finalmente pretenderne la riesumazione. Nessuno si illuda di poter liquidare questa drammatica vicenda con il solito espediente delle “mele marce”, e certamente, per quanto nelle nostre forze, i penalisti italiani saranno impegnati a non consentirlo. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Inchieste per pestaggi e torture in 10 carceri. Solo mele marce? di Piero Sansonetti Il Riformista, 5 luglio 2021 Il ministro Bonafede si è lamentato con i giornali che lo hanno tirato in ballo per lo scandalo del carcere di Santa Maria Capua Vetere. I giornali avevano realizzato un semplice sillogismo: se c’è stato un episodio di tortura di massa in carcere, e se le carceri non dipendono dal ministro dei Beni culturali ma da quello della Giustizia, la responsabilità non ricade sul ministro dei Beni culturali ma su quello della Giustizia. Che, nei giorni della azione squadristica nel carcere casertano, era proprio Bonafede. Però ci sentiamo ora in dovere di informare il ministro anche di un’altra cosa. Probabilmente il pestaggio furioso a S. M. Capua Vetere non è stato un episodio isolato. Le inchieste che sono state aperte su episodi di pestaggi o di torture in carcere, sempre nel periodo del ministero-Bonafede, non sono pochi: dieci. Inutile continuare a parlare di mele marce. L’uso della violenza e della sopraffazione maramalda nelle prigioni italiane è una abitudine. Volete i nomi della carceri sulle quali sono state aperte inchieste per pestaggi e torture tra il 2019 e il 2020? Eccoli qui: Viterbo, Monza, Siena, Torino, Palermo, Milano Opera, Melfi, Pavia e Ascoli. Con S. M. Capua Vetere fanno giusto dieci. Comunque Bonafede qualche ragione ce l’ha, nel suo ostinato respingere le proprie responsabilità. Nel senso che le responsabilità non sono certo solo sue. Probabilmente si è anche trovato, negli anni a via Arenula, a dover gestire una partita molto complicata, pressato dall’enorme forza di “suasion” del partito dei Pm e dalla smania manettara dei 5 Stelle. E poi c’è un secondo elemento a suo discarico (e noi lo abbiamo scritto dal primo giorno). La violenza in carcere non è l’esito della follia di qualche gruppetto di guardie. La violenza è il carcere. Il carcere la crea: sempre. Il carcere è un’istituzione folle, che al più presto va abolita o comunque ridotta ai minimi termini. Toh che scandalo, le nostre carceri somigliano troppo a quelle dei regimi alla Pol Pot di Alessandro Barbano huffingtonpost.it, 5 luglio 2021 Dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione ecco l’indignazione per S.M. Capua Vetere. Come non fossero già noti alcuni angoli oscuri della nostra democrazia. E dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, quando tutto il Paese, e cioè la politica e la società, e in mezzo i media, accolsero l’invito di Matteo Salvini a gettare le chiavi, chiavi di ferro con cui chiudere a doppia mandata le porte delle carceri durante la pandemia, e lasciare che in dodici si sfidasse il contagio nello spazio di tre metri per quattro, con i letti a castello impilati fino al quarto piano, cosicché l’ultimo detenuto, quello che dormiva più in alto, non potesse alzare la testa senza sbatterla contro il soffitto, e chiavi simboliche, con le quali confinare dietro quelle sbarre tutto il male del mondo, per non vederlo più; dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, in cui pure moralisti patentati s’indignarono quando, per le rivolte e le proteste dei detenuti, e per gli appelli sgolati dei pochi capaci di vedere l’orrore, qualche cardiopatico, e qualche malato devastato dal cancro tornarono a casa ai domiciliari, seguiti da un coro di scandalo, innalzato dalle migliori penne del giustizialismo patrio, che addirittura costrinsero il direttore centrale del Dipartimento penitenziario a dimettersi; dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, in cui la direttrice del carcere di Reggio Calabria fu posta agli arresti con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, per aver riconosciuto ai detenuti trattamenti umanitari giudicati inopportuni dal gip, e le cronache indugiarono con accattivante simbologia sulle prelibatezze e sui favori garantiti ai boss, che altro non erano che una cioccolata fondente e un colloquio con i familiari; dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, in cui passava inosservata la condanna a sei mesi per atti osceni di un detenuto per un rapporto orale con la compagna nel parlatorio del carcere di Cremona, celato dietro alla borsa di lei ma ripreso dalle telecamere, perché nessuno sapeva che in Francia, Olanda, Svizzera, Finlandia, Norvegia, Austria, Germania, Svezia, Spagna, ma anche in Russia, Croazia e Albania, i detenuti sono autorizzati a incontrare per ore, e talvolta per intere giornate, la famiglia in miniappartamenti senza alcun controllo, mentre in Italia il diritto all’affettività in carcere, previsto dalla riforma dell’ordinamento penitenziario annunciata più volte dall’ex guardasigilli Andrea Orlando e mai portata a compimento, è stato definitivamente archiviato dal governo muscolare di Conte-uno, Salvini e Di Maio; dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, in cui magistrati blasonati, in servizio effettivo ma anche in pensione, eroi dell’antimafia e giornalisti senza macchia e senza paura, anche perché da decenni abituati a girare con la scorta tra un talk televisivo e un altro, innalzarono una diga di parole a difesa dell’ergastolo ostativo, cioè una pena senza fine e senza possibilità di accedere a qualsiasi misura alternativa al carcere e a ogni beneficio penitenziario, a meno che il condannato non decida di pentirsi e offrire al pm nomi e accuse utili e sufficienti a pagare il diritto a quel briciolo di umanità che si dovrebbe anche al peggiore dei criminali; dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, in cui sessantuno uomini a cui è stata sottratta dallo Stato la libertà si sono suicidati nel 2020 in carcere, per lo più impiccandosi, senza che nessun secondino sia riuscito a impedirlo e senza alcun clamore, stupore, attenzione, perché il detenuto, indagato nell’intimità, negli affetti, negli umori e perfino nei bisogni fisiologici, deve tuttavia restare invisibile alla comunità dei cittadini liberi, affinché si esorcizzi - come scrivono Luigi Manconi e Federica Graziani nel libro “Per il tuo bene ti mozzerò la testa” - la minaccia di un attentato alla propria sicurezza che il carcere, come incubatore del crimine, evoca, e la minaccia che da noi, dal nostro inconscio si proietta sul carcere, per rimuoverlo e scacciare con esso i nostri incubi; dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, in cui i centosessanta agenti penitenziari autori della mattanza a Santa Maria Capua Vetere sono rimasti al loro posto, a contatto con gli stessi detenuti che avevano massacrato di botte e umiliato nel corpo e nello spirito, perché nessun provvedimento di sospensione o di trasferimento è stato adottato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nonostante si conoscessero i loro nomi e nonostante le denunce del garante dei detenuti avessero ampiamente svelato che qualcosa di orrendo era accaduto, e nessuna indagine interna è stata aperta, con la scusa che la magistratura penale stava indagando, come se l’inchiesta penale impedisse al guardasigilli Alfonso Bonafede di fare chiarezza; dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, trascorsi dalla radicale Rita Bernardini, e da pochi altri, davanti al ministero della Giustizia in una maratona radiofonica a ricordare che il carcere è il buco nero della nostra democrazia, e dalla politica tutta, da Salvini e Meloni a Di Maio, passando per Zingaretti e Letta, a discutere su come inasprire le pene e su come aggiungere nuovi reati, come se non bastassero quelli già previsti dal codice penale e da una miriade di leggi mal scritte e spesso inapplicate; dopo i lunghi mesi dell’amnesia e della rimozione, ecco arrivato il momento in cui l’amnesia e la rimozione si voltano in scandalo e indignazione, e si scopre che nelle carceri di una grande democrazia europea è avvenuta una mattanza che neanche Pol Pot avrebbe pensato, che il teorema delle mele marce nell’albero sano è una favoletta che non funziona più, che i pestaggi e le torture sono il modo di regolazione dei conflitti in molte carceri italiane, che un filo rosso lega i massacri del G7 a Cucchi, ad Aldrovandi, a Marrazzo, ai carabinieri deviati di Piacenza e a Santa Maria Capua Vetere, che la cultura delle forze dell’ordine in questo Paese è infiltrata, anche nelle posizioni di vertice, da retaggi securitari e illiberali, che transitano tra le generazioni, non diversamente da quanto accade in America, che alcuni angoli oscuri della nostra democrazia somigliano troppo a quelli dei regimi, che non basta denunciare e che indignarsi è il modo più comodo per rinunciare a cambiare, che è ora di rifondare i corpi della sicurezza, estirpando le pulsioni autoritarie con una formazione capillare, che si deve riattivare un penetrante controllo parlamentare, ma soprattutto che bisogna smetterla di usare gli allarmi e la paura per tornare a parlare di ordine pubblico e di giustizia con parole di verità, di scienza e di pietà. Botte, minacce e sputi in bocca: 15 reclusi nella sezione Danubio torturati dagli agenti di Nello Trocchia Il Domani, 5 luglio 2021 Nella spedizione punitiva in carcere gli agenti si sono accaniti in modo brutale contro un gruppo accusato di avere opposto resistenza. Un’accusa falsa alla quale però ha creduto anche il ministero della Giustizia. I video della mattanza in carcere non mostrano i pestaggi più crudeli, riservati a 15 detenuti nella sezione Danubio, al riparo dalle telecamere. Gli agenti sono entrati nelle celle con le loro foto in mano. Una caccia all’uomo. Sono stati presi uno a uno, perquisiti, presi a calci, pugni, sputi e manganellate nei corridoi del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Dopo aver subito ogni sorta di angheria, sono stati messi in isolamento, senza acqua, senza coperte, né la possibilità di cure per le ferite riportate. È la storia dei 15 detenuti del reparto Nilo, dove vengono ospitate prevalentemente persone con problemi psichici o di tossicodipendenza, considerati i responsabili della protesta pacifica del 5 aprile 2020 in carcere, preludio all’orribile mattanza compiuta il giorno successivo dagli agenti. Tra i 15 c’era anche Lamine Hakimi, il giovane algerino affetto da schizofrenia, morto in una cella di isolamento e in stato di abbandono un mese dopo il pestaggio subito dai poliziotti penitenziari. Accanimento premeditato - Le testimonianze di questi 15 detenuti, raccolte dai magistrati della procura sammaritana, raccontano l’accanimento della polizia penitenziaria: per loro il pestaggio del 6 aprile non è stato abbastanza. “Nei giorni successivi al 6 aprile, anche nel reparto Danubio, i detenuti vivevano costantemente in un clima di sopraffazione. Basti considerare che i predetti erano continuamente minacciati dagli agenti di far intervenire la cd. “squadretta”“, scrivono gli inquirenti. Il racconto della sorte dei 15 è corredato dalle foto dei loro corpi, scattate dieci giorni più tardi, in cui i lividi su volti, schiene, gambe e glutei raccontano meglio delle parole la brutalità delle violenze subite. Sono state scattate con un ritardo di molti giorni rispetto ai fatti dai consulenti della procura perché prima le visite dei medici ora indagati erano esami sommari, fatti tenendosi a distanza dai pazienti e senza approfondire la natura dei traumi. Senza acqua e medicine - “Calci, pugni, manganellate in testa. Ricordo che perdevo sangue dalla bocca e dal naso”. Inizia così il racconto ai magistrati di uno dei 15 detenuti portati in isolamento. Erano andati a prenderlo nella sua cella, perquisito e poi portato in una stanza. “In quell’area alcuni agenti ci gridavano: “Napoletano di merda, vi dobbiamo rompere il culo, ora non state nemmeno tranquilli quando dormite, vi veniamo a prendere di notte”“. Intimidazioni e minacce, prima di essere portati al Danubio, il reparto dell’isolamento. “Non avevamo coperte, ci coprivamo con la federa del materasso. Per cinque giorni ho vissuto in queste condizioni”, racconta. L’isolamento, suo e degli altri 14, è considerato illegittimo dalla pubblica accusa. Nessuna cura, solo botte e minacce. Anche un altro detenuto racconta l’orribile odissea. “Per le manganellate che mi hanno dato sulla pancia e sul culo quando andavo in bagno usciva sempre sangue”, dice. Ricorda che non ci sono state solo le botte: “Mi hanno sputato in faccia, “uomo di merda, sei una latrina”, dicevano, lo facevano con tutti”. Nelle celle dell’isolamento non c’era riscaldamento: “Nemmeno le coperte ci hanno dato, io e il mio compagno di cella siamo stati costretti a dormire abbracciati. Ci hanno dato qualcosa solo dopo l’incontro con il magistrato di sorveglianza. Non avevamo cambio di vestiti, spazzolini, dentifricio, non ci hanno dato nemmeno da mangiare la sera del 6 aprile”, dice. Sputi in bocca - “Dopo che sono stato preso dalla mia stanza, sono stato sottoposto ad una minuziosa perquisizione, anche anale. Gli agenti si sono serviti di uno sfollagente per ispezionare le mie parti intime. Non hanno introdotto il manganello nel mio ano, ma ho comunque sentito un forte fastidio e dolore”, ricorda ancora scosso ai magistrati un terzo detenuto. Lui è stato riempito di colpi in testa e in serata ha subito una crisi epilettica: anche lui è stato visitato da un medico che si teneva a distanza. I sanitari passavano, ma i detenuti non potevano dire nulla. “La guardia dietro il medico mi faceva segno di non dire niente quando ci chiedeva come stai… Ma siamo tutti pieni di sangue, come stiamo tutto a posto?!”. Gli agenti, anche prima della visita del magistrato di sorveglianza il 9 aprile, minacciavano i 15: “Mi lanciano una bottiglia in faccia, poi mi dice: “Mi raccomando di’ che sei caduto dalle scale!”, dice ai magistrati un altro detenuto. Il clima di intimidazione è totale. “Ogni oretta le guardie venivano per intimorirti: “Ringraziate la Madonna che state in piedi, io andrei a prendere la pistola e ti sparerei in testa”, ricorda un altro dei 15. Quella sera, in isolamento, chiedevano di bere: “Loro mi diedero una bottiglietta d’acqua vuota, poi deridendomi mi portarono in bagno, tirarono lo sciacquone, dissero di bere l’acqua del cesso”. Prima il massacro poi il dileggio. “Mi ha sputato in faccia tre volte, dicendo che ero l’antistato, un uomo di merda, mi umiliava proprio assai”, è la testimonianza di un altro dei 15 detenuti. Sputi e insulti erano all’ordine del giorno al Danubio. “Mi hanno sputato pure in bocca proprio, infatti mi uscì subito l’herpes, dopo un’ora già ce l’avevo”, ricorda un altro. “Un mio compagno sanguinava dalla bocca, era in ginocchio, gli dicevano: “Ti dobbiamo mettere il cazzo in bocca”, racconta sempre uno dei 15. Li hanno massacrati, poi umiliati e, infine, denunciati. Il ministero della Giustizia, guidato allora da Alfonso Bonafede, ha creduto alla storia dei resistenti messi in isolamento. Era una storia falsa: i 15 erano solo le vittime sacrificali. Pestaggi a Santa Maria Capua Vetere, l’agente che si oppose: “Presero a manganellate anche me” di Elena Del Mastro Il Riformista, 5 luglio 2021 Nella storia orribile dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sbuca la storia di chi invece quella mattanza cercò di arginarla. È uno dei 52 agenti indagati per quella mattanza, sottoposto anche lui a misura restrittiva, all’obbligo di dimora. Dalle prime ricostruzioni e da quanto testimoniato dai detenuti sembrerebbe che ci sia stato un solo agente che provò senza successo ad arginare quella follia. L’ispettore, scrive il gip Sergio Enea, “è stato pressoché l’unico ad essersi fattivamente attivato per contenere l’escandescenza dei suoi sottoposti, intervenendo più volte energicamente”, come riporta Repubblica. Azioni che sono state riscontrate anche dalle dichiarazioni di alcuni detenuti e dai video delle telecamere di videosorveglianza. Un detenuto “lo riconosce come colui che lo ha protetto”, un altro sottolinea che “è stato l’unico che non lo ha picchiato”, un altro ancora che ha fermato il pestaggio su un altro detenuto. “Anche quando intima ai reclusi di volgere la faccia verso il muro, dai filmati si evince che è l’unico che prova a fermare i suoi colleghi che pestano”. Ed è anche “l’unico - scrive sempre il gip - tra gli ispettori di quel Reparto”, a non realizzare carte false ex post per coprire le spalle ai colleghi. Cioè: “A non sottoscrivere quella nota del 6 aprile in cui è stato falsamente rappresentato che i detenuti avevano opposto resistenza”. Dunque l’Ispettore avrebbe cercato in tutti i modi di fermare la mattanza ma i colleghi non ne avrebbero voluto sapere nulla. “Non so come nacque quella ‘perquisizione’, so che ci trovammo in istituto i colleghi del Gruppo speciale di supporto che venivano da fuori. Era impossibile arginare ciò che stava avvenendo”, ha raccontato a Repubblica l’ispettore tramite il suo avvocato. “Ci ho provato, in più occasioni ho tentato di evitare dei colpi ai detenuti. Alcuni dei carcerati possono raccontarlo - continua il racconto - E dai filmati si vede che cerco di sottrarne alcuni alle percosse. Ma a un certo punto, quando nella concitazione di quei momenti, alcuni colpi hanno preso anche me, ho dovuto fermarmi. Sono cardiopatico, ho subito un’operazione a cuore aperto anni fa. Ho prodotto al giudice tutta la mia documentazione sanitaria”. “Ero molto provato - dice - perché questa vicenda non appartiene alla mia storia e al mio legame con la divisa, e perché, da cardiopatico, non riuscivo a reggere. In più occasioni, come gli atti dimostrano, ho cercato di evitare che i detenuti prendessero colpi”. Alla giornalista che gli chiede se saprebbe riconoscere i colleghi che fecero quelle violenze, risponde che erano coperti da caschi integrali quindi non li avrebbe visti in volto. Da quanto riportato da Repubblica, quando l’ispettore provava a fermare quella mattanza, i colleghi gli dissero “fatti i fatti tuoi”. Santa Maria Capua Vetere, trasferiti 30 detenuti vittime delle violenze di Raffaele Sardo La Repubblica, 5 luglio 2021 Ma la Garante dei detenuti di Caserta non ci sta: “Ora non ha più senso, si danneggiano solo i familiari dei carcerati”. Sono stati tra le vittime delle violenze in carcere da parte della polizia penitenziaria, a Santa Maria Capua Vetere nell’aprile del 2020. Ora trenta detenuti del Reparto Nilo del carcere, dove il 6 aprile 2020 avvennero violenti pestaggi di reclusi, sono stati trasferiti in altre carceri campane come Carinola (Caserta) e Ariano Irpino (Avellino) e in istituti di altre regioni, come quelli di Modena, Civitavecchia, Perugia. La decisione è stata presa dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria d’intesa con la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere e viene dopo quella di sospendere 25 agenti che non erano stati oggetto della misura cautelare, pur essendo indagati, e che sono rimasti a lavoro nel carcere casertano a contatto con detenuti vittime dei pestaggi dell’aprile 2020. Ma la decisione non piace alla garante dei detenuti di Caserta. Tra l’altro si tratta di detenuti vittime delle violenze ma non tutti hanno però denunciato. “Per un anno denuncianti e denunciati sono stati faccia a faccia - dice la garante dei detenuti di Caserta Emanuela Belcuore - e ora si prende questa decisione nel momento in cui gli agenti coinvolti nei pestaggi stanno quasi tutti al carcere, ai domiciliari o sono stati sospesi. Ora non ha più senso, anzi avrebbe avuto senso spostare gli agenti. Ho capito che questa cosa è stata fatta per tutelare i detenuti, ma è un danno oggettivo per i loro familiari, che non possono più incontrare i propri congiunti in carcere e devono sobbarcarsi spese enormi e lunghi viaggi”. “Peraltro gli agenti del carcere di Santa Maria Capua Vetere sono sotto organico per cui i familiari hanno difficoltà a prenotare i colloqui” conclude Belcuore. Come ha spiegato il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello grazie ai social e alle segnalazioni ricevute dai familiari dei detenuti già l’otto aprile 2020, due giorno dopo le violenze, fu inviata la prima denuncia alla Procura di Santa Maria Capua Vetere. Pestaggi a Santa Maria Capua Vetere. Comunicato di Sinistra Italiana Ristretti Orizzonti, 5 luglio 2021 La giustizia è uno snodo centrale nel paese, se essa è partecipazione alle istituzioni, loro trasparenza e giustizia sociale. L’ordinamento degli stati moderni, post rivoluzione industriale, hanno risentito delle battaglie illuministe e sociali (Parini, Beccaria, Foucault) per cui le prigioni non devono essere discariche sociali e il livello di civiltà di un paese si misura dallo stato delle sue carceri (Voltaire). D’altra parte hanno attraversato le galere molti patrioti, antifascisti e antirazzisti, alcuni di essi, come Antonio Gramsci, morendoci. In questi giorni molti italiani appaiono inorriditi alla visione delle immagini del pestaggio dei detenuti del Carcere di Santa Maria Capua Vetere, avvenuto durante la prima emergenza Covid, come furono inorriditi 20 anni fa dai pestaggi dei manifestanti No Global prelevati nottetempo e portati alla caserma della Polizia di Bolzaneto-Genova, durante il G8. I politici stupiti dovrebbero interrogarsi su cosa non è cambiato nell’amministrazione della Giustizia e dell’Ordine Pubblico in Italia, invece di riaffermare piena fiducia nei corpi di Polizia, oppure di parlare di “mele marce”, anche in presenza del ritorno delle squadracce dei padroni contro gli scioperanti. La ministra Cartabia ha dichiarato che ogni frammento di quei filmati è un oltraggio alla Costituzione e ha convocato i Provveditori Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria a Roma per metà mese di luglio. Sinistra Italiana Marche, nel sostenere il Garante Nazionale dei Detenuti Mauro Palma e l’Associazione Antigone, strenui difensori del garantismo, apprezza le intenzioni finora manifestate dalla Guardasigilli, nella discontinuità dalle politiche del suo predecessore Bonafede, inclini a semplificazioni burocratiche e non politiche delle tematiche carcerarie, quando non giustizialiste. Nella chiave di lettura che viene dal Guardasigilli torna la piena applicazione dell’art.27 della Costituzione, volta al pieno recupero dei condannati. Nello stesso spirito si muove la legge regionale n.28 del 2008, “Sistema di disposizioni rivolte alle persone private di libertà”. SI Marche si rivolge perciò al governo regionale e al Garante dei detenuti perché agiscano nel modo migliore con i fondi statali e regionali per agevolare l’estensione dei sistemi educativi già presenti nei nostri istituti, agevolino l’operato degli agenti di Polizia Penitenziaria, ed esprime apprezzamento per la proposta di legge nazionale Mirabelli, volta a responsabilizzare ulteriormente l’attività educativa in carcere ed il contatto con il resto del Paese, contro l’isolamento delle “discariche sociali”. La paura del Dap: “Sta per arrivare una stagione nera” di Francesco Grignetti e Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 5 luglio 2021 La “preoccupazione” è palpabile, ai piani alti del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Troppi segnali convergenti fanno temere una stagione nera in avvicinamento. Nel giro di pochi giorni, si segnalano: volantini anarchici in Sardegna contro “i secondini”, uno striscione anarchico a Roma, un’improvvisa manifestazione di anarchici fuori dal carcere di Santa Maria Capua Vetere. E per di più un blocco doloso dei telefoni di quel penitenziario, causa attentato a una centrale telefonica. “Il pericolo è una saldatura tra il movimento antagonista e certa criminalità organizzata”, si dice al Dap. E quindi le antenne di polizia e intelligence si sono drizzate. Che l’aria si sia fatta pesante, lo denunciano anche i sindacati della polizia penitenziaria. Donato Capece, leader del sindacato autonomo Sappe, ribadisce che occorre invertire la rotta di una criminalizzazione generalizzata, “perché ingiusta e pericolosa”. Il Sappe sta lavorando a una manifestazione nazionale, quella che dovrà “simbolicamente” restituire le chiavi dei penitenziari. Si accoda anche la Uil-penitenziaria: “Dopo i raccapriccianti fatti di Santa Maria Capua Vetere si susseguono gli striscioni e i comunicati diffusi anche da frange eversive e inneggianti all’odio verso il Corpo di polizia penitenziaria e suoi singoli appartenenti. Il clima è sempre più pesante e pericoloso. Per questo ci rivolgiamo alla parte buona della società, alla politica e al governo chiedendo di creare un cordone di solidarietà e protezione”, dice il segretario generale Gennarino De Fazio. La paura è che dopo la rappresaglia dei 52 agenti contro i detenuti di Santa Maria Capua Vetere, qualcuno possa organizzare una contro-rappresaglia. Dice esplicitamente De Fazio: “La storia del nostro Paese insegna che quando si è isolati, si è fortemente esposti agli attacchi della criminalità, che non di rado colpisce mortalmente”. Ecco perché al Dap, in vista della riunione convocata dalla ministra Marta Cartabia domani, con tutte le numerose sigle sindacali del comparto, si osserva con particolare attenzione a tutto quel che si muove fuori, ma anche dentro le carceri. Non ci si nasconde che aleggi tra i 37 mila agenti della Polizia penitenziaria una certa “demotivazione crescente”. Si teme che subentri una “demoralizzazione” che non potrebbe non avere effetti sulla buona gestione delle carceri. Una prima mossa del Dap, diretta soprattutto a calmare gli animi degli agenti, è un esposto annunciato presso il Garante della Privacy. Il Dap stesso, infatti, è contrariato dalla “gogna mediatica” che si è scatenata contro gli indagati. Ma al sindacato Sappe questo esposto pare poco e di scarso effetto. Dice Capece: “Domani mattina (oggi per chi legge, ndr) abbiamo convocato il nostro team legale per esaminare la stampa locale, chi ha sbattuto il mostro in prima pagina, mettendo foto nomi e grado dei 52 colleghi raggiunti da misura cautelare, e vedere se ci sono gli estremi per una causa”. A sua volta, la ministra Cartabia ha fatto sapere di aver telefonato al presidente dell’Ordine dei giornalisti affinché si valutassero eventuali violazioni deontologiche. Anche qui, il tentativo di trovare un equilibrio tra l’indignazione del Paese e il sentimento di ingiusta criminalizzazione nei 37 mila della penitenziaria. Per dare un altro segnale di equilibrio, il direttore Dino Petralia e il suo vice Roberto Tartaglia hanno deciso di procedere con attenzione alle misure amministrative conseguenti quelle penali: se è stata scontata la sospensione dal servizio per i 52 ai quali il Gip ha imposto misure cautelari, nulla è ancora deciso per altri 80 individuati dalla Procura, ma nei cui confronti il Gip non ha ritenuto di imporre misure cautelari. Violenze in carcere, nuove minacce agli agenti. Il provveditore: “Non mettete divisa in strada” di Federico De Martino Corriere del Mezzogiorno, 5 luglio 2021 Dopo lo striscione degli anarchici a Roma un manifesto a Cagliari. E sui social minacciati gli agenti. Effetti dell’inchiesta anche sui detenuti: 30 trasferimenti. Spunta un altro striscione di minacce, dopo quello ritrovato a Roma a firma di un gruppo anarchico (“52 mele marce. Abbattere l’albero”), diretto agli agenti di polizia penitenziaria che si sono resi protagonisti delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il nuovo manifesto è stato affisso a Cagliari, su una delle colonne del porticato di via Roma. E fa esplicito riferimento alle sevizie nel penitenziario casertano. “Non lasciamo soli i detenuti...isoliamo le guardie” ed è firmato con una frase che sembra sarda: “kontra is presonis mishunu est solu”. “Potere di reprimere” - “Le guardie carcerarie, chiamate anche “secondini” - è il testo del manifesto - sono uomini e donne comuni che abitano in mezzo a noi. Ciò che li contraddistingue è la scelta che hanno fatto nella vita: la scelta di chiudere a chiave altre persone per uno stipendio mensile. Ogni tanto viene fuori la notizia che queste guardie pestano e torturano i detenuti. Il caso di Santa Maria Capua Vetere è solo uno dei pochi... parlano di mele marce... ad essere marcio è il sistema carcerario...la divisa che indossano gli conferisce il potere di reprimere... per strada, nel palazzo di casa al bar... isoliamo le guardie”. Sullo striscione, invece, trovato nel quartiere San Michele, si legge: “Da S. Maria Capua Vetere a Uta. Non esistono mele marce. Il carcere è una tortura”. La circolare - E proprio sulla scorta di queste minacce che si stanno registrando anche sui social, il provveditore reggente delle carceri della Campania Carmelo Cantone, inviato dal Dap per sostituire il provveditore Antonio Fullone, destinatario di una interdizione dai pubblici uffici nell’ambito delle indagini sui “pestaggi” nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ha emanato una circolare con la quale consiglia agli agenti di recarsi a lavoro in abiti civili e non con la divisa. Una decisione presa per tutelare i componenti del Corpo finiti al centro dell’inchiesta della Procura. I sindacati - “Sono moltissimi i messaggi deliranti contro gli agenti della polizia penitenziaria apparsi sui social, messaggi che non sembrano minacce trascurabili e che stanno sollecitando l’allertamento anche per il personale impegnato nelle scorte a testimonianza - scrivono, in una nota congiunta, il presidente del sindacato di Polizia Penitenziaria Uspp, Giuseppe Moretti e il segretario regionale della Campania, Ciro Auricchio - in questo contesto sarebbe anche opportuno che il vertice dipartimentale si recasse in visita nel carcere non solo per le ispezioni di rito, ma anche per dare solidarietà alla polizia penitenziaria oggi ancora di più in un stato di sbandamento per le condizioni in cui deve operare. Un gesto di compattezza che dovrebbe essere scontato e che pure non sembra sia avvenuto”. Detenuti trasferiti in altri istituti - Intanto gli effetti dell’indagine si ripercuotono anche sui detenuti del Reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove avvennero i pestaggi; una trentina di reclusi vittime dei pestaggi è stata infatti trasferita in altre carceri campane come Carinola (Caserta) e Ariano Irpino (Avellino) e la maggior parte di altre regioni, come Modena, Civitavecchia, Perugia. La decisione è stata presa dal Dap d’intesa con la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, per tutelare i detenuti. “È una scelta senza senso - dice la garante dei detenuti della provincia di Caserta Emanuela Belcuore - in quanto per un anno denuncianti e denunciati sono stati faccia a faccia; è una scelta che danneggia solo i detenuti”. “Basta toghe ai vertici Dap”. Agenti penitenziari in rivolta di Gian Micalessin Il Giornale, 5 luglio 2021 Sotto la Polizia Penitenziaria, in mezzo i Direttori delle carceri e, ai vertici, un Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) guidato da un magistrato nominato dal ministro di Giustizia, ma scelto dopo i consueti patteggiamenti tra le correnti “padrone” del Consiglio Superiore della Magistratura. Insomma il solito caos di una giustizia manovrata dalle correnti di sinistra che finisce, inevitabilmente, con il riverberarsi sul malfunzionamento degli istituti carcerari. Un caos di cui, alla fine, fanno le spese gli anelli più deboli ovvero detenuti e agenti di Polizia Penitenziaria. “I fatti di Santa Maria Capua Vetere sono l’esatta replica di quanto verificatosi nel 2000 a Sassari, ma se nulla è cambiato il problema è l’inadempienza di un Dap che in vent’anni non ha saputo nemmeno darci dei protocolli operativi”, spiega al Giornale Daniela Caputo, segretario di DirPolPen, il sindacato dei funzionari di Polizia Penitenziaria. Ma il pesce puzza sempre dalla testa. E la testa del Dap, ovvero il suo capo, è sempre un magistrato nominato ufficialmente dal Guardasigilli di turno, ma “indicato” in verità dopo i consueti patteggiamenti tra le correnti che dominano il Csm. “E allora nessuno faccia la madamina, qui dal 1993 ad oggi - s’indigna una fonte del Giornale ai vertici dello stesso Dap - sono passati una dozzina di personaggi nominati dai vari ministri, ma scelti sempre con le stesse logiche. Ovvero senza badare alla loro effettiva preparazione e, soprattutto, alla loro capacità di gestire un situazione carceraria sempre più complessa. Anche perché nessuno rimane mai in carica per più di tre anni e non ha quindi il tempo di comprendere i problemi del mondo carcerario”. Dall’inadeguatezza dei vertici al malfunzionamento del sistema il passo - fa capire Daniela Caputo - è assai breve. “Stiamo assistendo ad un processo mediatico alla polizia penitenziaria, ma il Dap non ha ma fatto nulla per farla crescere e trasformarla in un corpo di polizia capace ed efficiente. A vent’anni dalla vicenda di Sassari non si è avviata una riflessione seria su cosa si pretende dalla polizia Penitenziaria. Gran parte del personale non ha seguito corsi di ordine pubblico o di gestione degli eventi critici. E poi manca la catena di comando. I nostri comandanti di reparto hanno un potere decisionale puramente teorico perché in realtà alla fine decide sempre il loro superiore gerarchico ovvero il direttore del carcere. Quindi i nostri funzionari hanno un’autonomia decisionale limitata, ma poi quando succede il fattaccio pagano anche per le scelte di chi gli sta sopra dal direttore d’Istituto fino ai vertici del Dap”. Anomalie e mancanze ammesse anche dalla fonte del Giornale all’interno del Dap. “È vero i continui cambi di guida ai vertici hanno impedito di creare un corpo di Polizia Penitenziaria veramente professionale. Per contro la moltiplicazione degli stranieri e dei tossicodipendenti nelle carceri ha generato un aumento esponenziale nelle aggressioni. Ormai non passa giorno senza che un agente venga aggredito o colpito. Questo crea rabbia e frustrazione che in assenza di educazione e professionalità generano risentimento e vendetta. Ma il problema stenta a venir capito. Anche perché chi ci comanda spesso è solo di passaggio”. Patrizio Gonnella: “Usiamo i soldi Ue per le assunzioni” di Francesco Grignetti La Stampa, 5 luglio 2021 Se è esploso lo scandalo di Santa Maria Capua Vetere, lo si deve a un esposto dell’associazione “Antigone”. “Abbiamo denunciato quanto accaduto durante la pandemia”, dice Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione. Gonnella, che cosa accade nelle nostre carceri? “Dispiace dirlo, ma è in atto una regressione. Occorre fare un passo indietro: nel 2014, dopo che il nostro Paese fu condannato per comportamenti inumani dal tribunale europeo dei diritti dell’uomo, seguì una breve stagione di riforme. Ricordo l’istituzione del Garante per i diritti dei detenuti. Già nel 2018, però, con il governo giallo-verde, iniziava la stagione del “chiudiamoli in cella e gettiamo la chiave”. Così ricominciò l’affollamento carcerario. La pandemia, poi, è piombata sul carcere come un meteorite. Se non capivamo nulla noi che stavamo a casa, perennemente attaccati alla tv oppure a Internet, che potevano capire in carcere, dove l’informazione non arriva? Nessuno, peraltro, spiegò niente. Ne viene una miscela infernale. Cominciarono le proteste. Poi le rivolte. Seguirono le rappresaglie, durissime e senza pietà”. Il Garante per i diritti dei detenuti, Mauro Palma, avverte che sta montando una cultura della sopraffazione… “Guardi, è indispensabile tornare a un carcere aperto, dove possano entrare i volontari. Con le dovute cautele, chiaro. Invece c’è la tentazione di non aprire più i portoni”. E ora? “Siamo molto confidenti nella ministra Marta Cartabia. Speriamo che possa rivedere il Regolamento carcerario, che è del 2000, pensato in epoca pre-digitale, ormai superato. Faccio l’esempio delle telefonate: il nostro regolamento è forse il più severo d’Europa, appena 10 minuti di telefonata a settimana. Se potessi dare un suggerimento, direi: con il Recovery assumete tanti giovani laureati, 200 o 300 in un colpo, e mandateli come staff dei direttori, i quali sono disperatamente soli e pochi. Ci sono almeno 30 carceri dove addirittura il direttore è vacante. E poi servono interpreti, mediatori culturali, psicologi, educatori per affiancare la polizia penitenziaria e risolvere sul nascere i conflitti”. Violenza in carcere, Marcello Bortolato: “Costituzione tradita” di Elisa Chiari Famiglia Cristiana, 5 luglio 2021 L’analisi del Presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze: “Episodi come quello di Santa Maria Capua Vetere sono patologici e sono gravissimi in sé e perché fanno perdere credibilità allo Stato, ma servirebbe una riforma complessiva per un sistema della pena più utile a chi la sconta e alla società”. Le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza del carcere di Santa Maria Capua Vetere, oggi al centro di un’inchiesta, sono un pugno nello stomaco e sono inequivocabili: uomini in divisa della Polizia Penitenziaria picchiano: calci, schiaffi, manganellate. Uomini detenuti si coprono la testa con le mani, senza riuscire a difendersi. Si nota la sproporzione. Quando ci si fronteggia per sedare una sommossa funziona in un altro modo. Sono immagini che feriscono non solo le persone, ma la coscienza, l’immagine dello Stato diritto e una divisa, quotidianamente vestita da tanti altri, spesso in condizioni difficili, nel rispetto delle regole. Abbiamo chiesto a Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, autore con Edoardo Vigna, caporedattore del settimanale “7”, di Vendetta pubblica, il carcere in Italia, uscito da poco per Laterza, in tema di esecuzione della pena, di aiutarci a decifrare quello che sta emergendo dall’indagine e dalle immagini. Vogliamo credere che questa sia la patologia, non la normalità, ma ne resta, innegabile, la gravità. Dottor Bortolato, qual è dal suo punto di vista l’effetto più grave di episodi come quelli che quei video, inequivocabili, denunciano, in cui rappresentanti dello Stato perdono la misura dei propri comportamenti? “Mi ritrovo perfettamente nelle parole della Ministra della Giustizia: la Costituzione è stata tradita. La Carta impone alla pena di essere rieducativa e non disumana: qui, invece, si è parlato addirittura di rappresaglia, che non è la legittima reazione ad una rivolta in corso, in cui si può arrivare ad autorizzare l’uso della forza, ma una cosa pensata a freddo per dare, come si dice, ‘una lezione’, una vera e propria ritorsione per riaffermare chi comanda veramente. In questi giorni, in cui sono rimasto profondamente scosso anche come uomo delle istituzioni, mi è tornata in mente una frase di Sandro Margara, che è stato presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, una persona alla quale mi sono sempre ispirato: diceva che l’amministrazione penitenziaria è l’unica istituzione dello Stato che pretende dagli altri un cambiamento ma non è in grado di cambiare se stessa. Tenere le persone recluse per poi reinserirle sembra già un controsenso, ma almeno pretendere che cambino e non tornino a commettere reati è possibile. Mi domando come sia possibile sperare in questo cambiamento dopo che lo Stato stesso tradisce la sua funzione violando la Costituzione. Sappiamo che la stragrande maggioranza degli agenti penitenziari non ha mai fatto e non farà mai nulla di simile a quanto visto in quei video, ma se gli episodi di violenza si ripetono da un po’di tempo (nel mio distretto vi è un’indagine sul carcere di Sollicciano e una condanna in primo grado per tortura che riguarda il carcere di San Gimignano) dobbiamo interrogarci sulla loro origine che è tutta nella grande tensione che c’è dentro ogni galera e in una cultura della pena dura a morire”. Che idea s’è fatto delle motivazioni profonde? “Il carcere è un’istituzione totale in cui si pretende l’obbedienza. C’è un soggetto che sta sopra un altro: uno dei due, ha il privilegio della forza legale. Il carcere di per sé non è alieno alla violenza perché per sua natura limita molte facoltà umane, il problema è la sua misura perché si sa che, dato il contesto, la relazione di potere che si instaura tra chi custodisce e chi è custodito può trascendere. Da un lato il Covid-19 ha scoperchiato una pentola già in ebollizione da anni, dall’altro l’Italia nel 2013 ha ricevuto una condanna dalla Corte di Strasburgo per sovraffollamento carcerario, lì abbiamo toccato il picco, che poi s’è ridotto, ma la situazione è ancora critica: su questo problema che già c’era s’è innestata la pandemia, con un rischio sanitario ovvio nella promiscuità e nel sovraffollamento, che però è stato sottovalutato all’inizio. A questo s’è aggiunto il fatto che per precauzione sono stati interrotti i colloqui con i familiari, e ciò ha provocato tensioni che si sono concretizzate in vere e proprie rivolte nelle carceri. Dall’altro lato il carcere fa i conti con un personale penitenziario scarso e sempre più provato, alle prese con uno dei mestieri più difficili del mondo. Ci sono fenomeni studiati in criminologia: l’esempio più noto è l’esperimento di Stanford. Philip George Zimbardo, psicologo statunitense, formatosi presso la Yale University, ha confutato negli anni ‘70 del ‘900 la credenza assai diffusa secondo cui i comportamenti degradati e violenti osservabili all’interno di un’istituzione come il carcere sono soprattutto dovuti a disfunzioni della personalità, innate o apprese, dei carcerati e delle guardie, dimostrando piuttosto come tali condotte dipendano dalle specifiche caratteristiche del contesto. Si sa che se metti insieme due gruppi di persone, affidando a uno dei due il monopolio della forza, accade che si verifichino dinamiche per le quali dopo un certo tempo possano aversi episodi di sopraffazione violenta. Le responsabilità sono certamente sempre individuali, sarebbe un grave errore criminalizzare un intero Corpo di polizia che ha spesso dato grande prova di sé, però è anche vero che il carcere di per sé è un luogo violento dove dinamiche di questo tipo ineriscono alla sua intrinseca brutalità”. Può spiegare questo concetto a chi non ha mai visto un carcere da vicino? “C’è la violenza in carcere, che non è soltanto quella ora sotto i riflettori ma anche la violenza di detenuti contro altri detenuti e contro gli agenti, infermieri, educatori; c’è la violenza dei detenuti contro loro stessi che si manifesta in atti di autolesionismo e suicidi, ma c’è anche una violenza intrinseca che inerisce alla sua naturale ed ineliminabile ferocia e che deriva dall’essere un ambiente in cui si formano gerarchie, obbedienze facili a degenerare in sopraffazioni e violenze. Il momento dei mesi di marzo-aprile 2020, in cui questi episodi si sono verificati, è stato drammatico, c’è stata forse da parte dell’amministrazione la sensazione che le rivolte potessero scappare di mano. Detto questo, eventi come quelli di Santa Maria Capua Vetere, paragonabili a quelli della scuola Diaz di Genova, sono inaccettabili, espongono il Paese ad un umiliante discredito internazionale, perché è impensabile che uno stato democratico come il nostro, uno dei pochi al mondo ad assegnare alla pena un compito rieducativo in Costituzione, poi possa in concreto attuarne i principi con queste modalità. Il fatto è gravissimo, anche per il numero delle persone coinvolte: si parla di 52 agenti a tutti i livelli coinvolti e dei loro vertici, ferma restando la presunzione di innocenza che deve valere anche per loro - si dovrà capire chi c’era e chi non c’era - ma le immagini sono inequivocabili: come può un’istituzione essere credibile nel momento in cui pretende dai suoi custoditi un ripensamento sui reati commessi e un cambiamento reale, se poi anche un solo rappresentante di essa si comporta in quel modo? Un danno enorme per le istituzioni, per il carcere, per lo stesso corpo della Polizia penitenziaria”. Nel vostro libro Vendetta pubblica si ragiona dei problemi del carcere. La Costituzione chiede che la pena tenda alla “rieducazione”. Quanto il carcere italiano nella sua realtà quotidiana è in grado di rispondere a questa richiesta della Costituzione? “Non mancano esempi positivi, ci sono istituti in cui si applicano i principi dell’ordinamento penitenziario, in cui si danno gli strumenti: lavoro, studio, rapporti con la famiglia, un carcere ‘aperto’, tutto quello che dovrebbe fare in modo che la pena sia “utile” al reinserimento sociale, che non è solo un interesse del detenuto ma anche della società. Purtroppo però bisogna prendere atto che in Italia molti detenuti non hanno possibilità di lavorare, non possono accedere per varie ragioni alle misure alternative e, soprattutto, vi è una risposta al reato ancora carcero-centrica: in Italia ogni tre condannati, uno è in misura alternativa, due sono in carcere. In Francia il rapporto è rovesciato”. Può spiegare al lettore comune che cosa si intende con misura alternativa? “La possibilità di espiare la pena in una modalità diversa dal carcere e ‘nella comunità’: l’affidamento in prova, gli arresti domiciliari. Dopo gli episodi di Santa Maria Capua Vetere tutto questo rischia però di diventare un mero esercizio retorico perché l’emergenza ora sembrerebbe quella di rendere il carcere qualcosa di conforme a Costituzione nel senso del rispetto almeno dei diritti fondamentali dell’uomo. Quello che abbiamo visto ne è la negazione, non possiamo accettare che si ripeta. Ciò non toglie che si debba affrontare globalmente la situazione carceraria come aveva provato a fare il ministro Orlando nel 2015 con gli Stati generali, incentivando le misure alternative, una riforma di cui non è rimasto nulla. Il nostro Vendetta pubblica è un titolo provocatorio, ma serve a dire che se la pena è solo vendetta non serve a nessuno, neppure alla vittima. Men che meno alla società. Non aiuta le persone detenute a reinserirsi e facilmente, in mancanza di alternative, quando la pena termina esse tornano a delinquere.”. C’è spesso una discrepanza tra buone intenzioni e realtà, sappiamo che lo Stato, per esempio, riesce a recuperare solo una parte minima dei crediti delle sanzioni pecuniarie. Tutto questo favorisce la prospettiva carcero-centrica? “Sì, è un problema che esiste. Spesso le misure alternative non si riescono ad applicare per problemi di marginalità sociale: banalmente chi non ha una casa dove andare non può essere mandato ai domiciliari. Circa un terzo della popolazione carceraria si trova lì per reati attinenti alla droga. Ma il carcere non è adatto a rispondere a problemi che hanno natura sociale, come dipendenze, integrazione di stranieri, perché lì dentro le marginalità e i problemi si aggravano. Tutto parte dall’articolo 27 della Costituzione, se si rispettasse alla lettera il carcere diventerebbe un’altra cosa, non si verificherebbero tante distorsioni, ma nessun politico vuole occuparsi della riforma carceraria, perché non porta consensi”. Nel libro parlate del carcere come un luogo di “contagio criminale” anche questo è difficile far capire? “Sì, eppure è una piaga terribile. Il carcere è la più grande scuola di criminalità. Capita che uno entri per un primo reato non dei più gravi, magari perché non ha un posto dove andare ai domiciliari e lì rischia di incontrare detenuti non di primo pelo alla ricerca di future complicità che lo assoldano per compiere reati più gravi, così quando esce avranno un alleato in più. Bisogna assolutamente togliere da quell’ ambiente il piccolo criminale perché rischia di uscirne molto meno piccolo. Bisognerebbe differenziare gli istituti, crearne molti a ‘custodia attenuata’ per chi entra per la prima volta per reati magari bagatellari. Non dobbiamo dimenticare che il carcere è gerarchia non solo perché i detenuti devono obbedire all’ istituzione, ma perché vi si crea una ‘scala’ criminale, chi ha un ascendente e un alto profilo criminale lo fa pesare, diventa capo. Nella criminalità organizzata sono maestri, in questo, infatti c’ è una logica nel fatto che stiano il più possibile separati dal resto”. “C’è un filo che lega retorica giustizialista e violenze” di Errico Novi Il Dubbio, 5 luglio 2021 L’avvocato Gaetano Sassanelli trova una linea di congiunzione tra violenze sui detenuti, indifferenza al diritto di difesa e propaganda giustizialista. C’è un nesso sottile, un filo che lega alcuni segni inquietanti. Gaetano Sassanelli, avvocato protagonista da anni della vita istituzionale e associativa forense, trova una linea di congiunzione tra violenze sui detenuti, indifferenza al diritto di difesa e propaganda giustizialista. “Si raccoglie ciò che si è seminato per anni”, dice il professionista che rappresenta l’avvocatura nel Consiglio giudiziario di Bari e che nel capoluogo pugliese è stato anche presidente della Camera penale, oggi guidata da Guglielmo Starace. Sassanelli ne parla anche a partire da casi recenti che lo hanno personalmente coinvolto sul piano professionale, in particolare nelle interlocuzioni con l’istituto penitenziario di Agrigento. Prima ancora delle violenze, i detenuti subiscono spesso l’indifferenza. Certe disattenzioni possono essere ascrivibili a un più generale decadimento, nell’amministrazione penitenziaria e nell’apparto pubblico in generale, del senso delle garanzie? Può esserci una pur indiretta “connessione genetica” fra le violenze sui reclusi e quelle disattenzioni? Come sempre, si raccoglie quel che si è seminato e purtroppo ultimamente si è seminato molto ma molto male, innescando una degenerazione del metus publicae potestatis che, come evidenziato anche dal professor Manes, ha coinvolto finanche il lessico giuridico, introducendo termini come “spazza-corrotti” che vorrebbe intendere lo sterminio civile di determinate classi d’autore, o “certezza della pena” che vorrebbe significare certezza del carcere. Ed è ovvio che, se la massima espressione del potere esecutivo nel settore giustizia si rende portatore di questi messaggi, non possono che conseguirne comportamenti come quello delle forche caudine verificatosi a Santa Maria Capua Vetere. Del resto non è un caso che il ministro della Giustizia dell’epoca, che si deve presumere parli sempre a ragion veduta, in risposta ad una interrogazione parlamentare sui fatti accaduti all’interno del reparto “Nilo”, abbia risposto affermando che si è trattato di una “doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto”. Nel sistema carcerario le violenze sui reclusi non rappresentano il solo aspetto preoccupante. Basti pensare alle difficoltà nell’esercizio del diritto di difesa da parte dei reclusi, e dei loro legali. Di recente lei ne ha avuto prova anche per alcune difficoltà di “comunicazione” col penitenziario di Agrigento... È naturale che il raccolto di quelle semine di cui dicevo non possa che essere il disprezzo per i diritti ed ancor più per le garanzie dei detenuti. Se le istituzioni ai massimi livelli proclamano che i cittadini assolti sono solo imputati che l’hanno fatta franca, cosa volete che un agente di polizia penitenziaria, privo, non per sua colpa, della minima cultura giurisdizionale, possa ricavarne? Ed è quindi conseguenziale che il disprezzo per il mondo dei reclusi, reputati figli di un Dio minore, si riverberi anche sul diritto di difesa. Proprio in questi giorni sto vivendo un’esperienza mortificante per il diritto di difesa, letteralmente neutralizzato per un imputato detenuto ad Agrigento. Trattandosi di un nuovo assistito, coinvolto in processi gravi e complicati, dal 13 giugno sto inondando quel carcere di richieste per un video- colloquio a distanza, tutte rimaste prive di qualsivoglia riscontro, nonostante ordinanze perentorie in tal senso della stessa Autorità giudiziaria. Si ha la sensazione di scontrarsi contro un muro di gomma, al quale puoi indirizzare mail ordinarie, pec, telefonate, tutti tentativi che rimbalzano senza alcuna risposta, o un cenno, pur se negativo, di considerazione. E tutto questo mentre le udienze dei processi continuano a svolgersi, senza però essermi potuto confrontare con il cliente. Situazione che, come è facile comprendere, non consente un compiuto esercizio del diritto di difesa e che sembra rientrare in una precisa strategia: collocare l’imputato a notevole distanza dal luogo di celebrazione dei processi, in maniera da imporre più giorni di viaggio per un colloquio difensivo e contemporaneamente ignorare le richieste di colloquio a distanza del difensore. Del resto non è l’unico caso che vede rimanere inevase anche ordinanze dei Giudici: di recente mi è capitato pure che una richiesta di documentazione sanitaria formulata dall’Autorità giudiziaria per un indagato, malato grave e detenuto a Milano, nonostante i ripetuti solleciti della cancelleria, abbia impiegato mesi per essere evasa, pur a fronte di un provvedimento del Giudice che disponeva la trasmissione entro 48 ore della documentazione già richiesta mesi prima. Su questa diminuita ai diritti dei detenuti può aver pesato anche la durissima campagna condotta da alcuni organi di informazione, e da alcuni magistrati, contro le cosiddette, e fantomatiche, “scarcerazioni di massa dei boss”? Quanto accaduto all’epoca, ha segnato una bruttissima pagina di cronaca giudiziaria per il nostro Paese, segnando il ritorno al medioevo del diritto penale. In quella circostanza, infatti, il legislatore è entrato nelle camere di consiglio dei Giudici per modificarne le decisioni adottate per l’emergenza sanitaria in atto, sull’onda emotiva delle polemiche giornalistiche create da professionisti del panico, lanciando un messaggio forte e chiaro, secondo il quale le carceri sono una discarica umana della nostra società, dove relegare soggetti legibus solutus all’inverso, ovvero “sciolto dalle leggi” perché privo di diritti, anche di quelli costituzionalmente tutelati, come il diritto alla salute. Ha fiducia in un’iniziativa dell’attuale ministra della Giustizia Cartabia in materia di diritti dei detenuti e miglioramento immediato delle condizioni di chi deve comunque espiare una pena? Crede cioè che sarà possibile portare a compimento quella parte della riforma Orlando rimasta in sospeso? Il profilo altissimo dell’attuale ministro della Giustizia è esattamente quel che ci voleva per riportare al centro il rispetto della dignità umana e il recupero del senso di umanità ormai smarrito dopo la gestione Bonafede. Certo, la Giustizia è sempre un tema politicamente scivoloso, ma se non si comprende che la crisi del processo in Italia è politica, ed è politica perché è culturale, ed ancora, è culturale perché è valoriale, non ne verremo mai più fuori. È quindi imprescindibile impegnarsi per recuperare i valori fondanti del nostro Paese. Se non ci riusciamo con un ministro già presidente della Corte costituzionale, allora forse dovremo dimenticarci una volta per tutte, di esser stati il Paese di Beccaria e che, come ci insegna Aharon Barak, in una democrazia la lotta al crimine deve procedere sempre con una mano legata dietro la schiena, anche di fronte alle emergenze criminali più allarmanti. “Per il pestaggio in carcere non ripetiamo gli errori del G8 di Genova” di Giuliano Foschini La Repubblica, 5 luglio 2021 Intervista al sindacalista degli agenti penitenziari e segretario generale Uil Gennarino De Fazio: “Quanto è accaduto è sconcertante ma le prigioni sono considerate luoghi in cui il diritto è sospeso”. Ho visto colleghi piangere. Anche io, credetemi, non riesco a pensare ad altro. Ma c’è da andare avanti. E per farlo, non serve soltanto non commettere errori. Ma anche dire le parole giuste. La verità è che quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere non è il frutto di poche mele marce: è il sistema carcerario italiano che non funziona”. Gennarino de Fazio è un ispettore capo della polizia penitenziaria. Ed è un sindacalista, segretario generale della Uil. In questi giorni di scandalo le sue sono state parole precise, in un certo senso coraggiose: non ha mai nascosto la testa sotto la sabbia. “Quello che è accaduto a Santa Maria è orribile. Per gli italiani e per chi porta con onore questa divisa. Siamo sconcertati, mortificati e colpiti nell’orgoglio di servitori dello Stato. La polizia penitenziaria non è nulla di quello che si vede nelle immagini. Che però ci sono. Noi abbiamo due possibilità per affrontare quello che è successo: la prima è ridimensionare, parlare di un caso isolato. E secondo me commetteremmo un gravissimo errore. Lo stesso, mi permetto di dire, che ha fatto una certa parte della Polizia dopo i fatti di Genova. Non c’è niente da negare. Niente di cui non vergognarsi. La seconda possibilità che abbiamo è metterci, veramente, nelle condizioni che fatti come quello di Santa Maria non accadano più. Ma non solo Santa Maria: io sono sicuro che quello sia stato un caso davvero straordinario, ma non possiamo negare che il nostro corpo è costantemente colpito da indagini e procedimenti penali per degenerazioni inaccettabili. Ecco: chiediamoci, perché accadono? Cosa è sbagliato?”. Provi a rispondere. Perché accadono? “C’è un altro dato che io ritengo molto interessante: ogni giorno due agenti di Polizia penitenziaria subiscono aggressioni gravi da parte dei detenuti. Immagini se fosse accaduto in qualsiasi altro posto di lavoro: ci sarebbero titoloni ovunque. Invece, da noi niente”. Sta dicendo che gli agenti si difendono soltanto? “No, assolutamente. Non ho detto questo. Sto dicendo che il carcere è considerato da tutti - dall’opinione pubblica ma anche, e questo penso sia assai più grave, da chi ha responsabilità di direzione diverse, dal ministero al Dipartimento - un luogo in cui il diritto è come sospeso. Un luogo dove tutto può succedere. E questo è inaccettabile perché, al contrario, le case circondariali dovrebbero essere il posto delle regole. Il nostro ruolo sarebbe quello di rappresentare lo Stato. E invece, spesso, lo Stato viene calpestato. I detenuti dovrebbero espiare una pena e soprattutto poter trovare un’altra strada nella società: e invece trovano rabbia, sistemi criminali, calpestano regole come se fossero fuori. Infine, lo Stato: in carcere non fa che calpestare norme. Non ci mette nelle condizioni di lavorare: chiedetevi che formazione facciamo noi? Zero. Che riposi abbiamo? Zero. Il carcere è un luogo dove si violano le regole. Ecco perché poi il sistema impazzisce”. Che serve? “Spazi più importanti per i detenuti. Formazione per noi agenti. Regole certe. Santa Maria è davanti ai nostri occhi perché un sistema di videosorveglianza funzionava e che, altrove, troppo spesso è cieco. Chiediamo da tempo la dotazione delle body-cam, con un protocollo che ne regolamenti impiego e possibilità di accesso. Noi non abbiamo intenzione di dimenticare. Ma lo Stato non può dimenticarsi il perché”. Per una giustizia efficiente di Alessandro De Nicola La Repubblica, 5 luglio 2021 La riforma del processo penale e civile. La legge è una gigantesca macchina per definire i prezzi, affermava con il suo solito stile icastico Milton Friedman. In altre parole, la legge fornisce incentivi a comportarsi in un modo o in un altro. Orbene, nel momento in cui, grazie a quanto ci richiede l’Unione Europea per avere accesso al Recovery Fund, il governo e il Parlamento si accingono a riformare le regole processuali civili e la ministra Cartabia è in tour per le Corti d’Appello italiane, è bene chiedersi se sia dal lato dell’offerta che della domanda si riesca ad ottenere un processo che sia il meno costoso e il più veloce ed efficiente possibile. I tempi attuali per ottenere una sentenza, l’ingolfamento dei palazzi di giustizia e l’incertezza e l’erraticità delle pronunce, ormai è noto, scoraggiano gli investimenti e allocano male le risorse economiche. Chi sono i “produttori di giustizia”? In primo luogo, i magistrati, poi gli altri operatori giudiziari e gli avvocati allorché assumono il ruolo di arbitri. Ebbene, mentre i professionisti hanno interesse a svolgere il lavoro nel modo più credibile ed efficiente possibile (sono in competizione con i tribunali pubblici e tra camere arbitrali), altrettanto non si può dire per le corti statali che non sono in concorrenza tra loro e, salvo il senso del dovere, non hanno incentivi ad essere efficaci. È quindi necessario introdurre elementi di concorrenza “interna”, favorendo il riconoscimento del merito dei giudici. Il primo passo è riformare il Csm, creandone due, uno per la magistratura inquirente e uno per la giudicante per evitare commistioni (il pm coinvolto in un procedimento disciplinare su un giudice o per l’assegnazione di un incarico direttivo solleva questioni di opportunità evidenti). I due Csm dovrebbero preservare l’indipendenza della magistratura ed essere composti per metà da magistrati, per un quarto da laici scelti dal Parlamento (meglio ridurre il peso della politica) e per un quarto da eletti dalle professioni e dall’accademia. Inoltre, oggi il giudizio di idoneità per i togati avviene quadriennalmente e i promossi superano il 98%, il che fa riflettere su come criteri vaghi e autoreferenzialità minino la credibilità del meccanismo. A tal scopo bisogna introdurre parametri precisi, quantitativi (quanto lavori?) e qualitativi (come lavori?), con avanzamenti di carriera più rapidi per i meritevoli. Stesso dicasi per gli altri operatori di giustizia: i tribunali (salvo che per funzioni meramente giurisdizionali) devono essere interamente gestiti da dirigenti che vengano premiati pure in base ai risultati raggiunti. Passiamo al lato della domanda. Nel processo civile esiste una grande asimmetria informativa tra avvocati e clienti. Sono i primi in grado di valutare le probabilità di vittoria nel processo, consigliare l’assistito e moltiplicare il numero delle cause o farle durare a lungo (dum pendet, rendet, dicevano i saggi Romani). La lentezza è un buon incentivo a resistere per comprare tempo da parte dei convenuti. Perciò, la riforma Cartabia che introduce paletti molto rigidi per le cause, con preclusioni sia sulla produzione di documenti che di testi, contribuisce a costringere gli avvocati entro termini ben precisi. L’incoraggiamento alla mediazione e ai tentativi del giudice di arrivare ad un compromesso serve altresì a diminuire tale asimmetria informativa tra cliente e avvocato: grazie alle indicazioni preliminari di mediatori e giudici il primo può avere un’idea più realistica delle chance di successo e decidere consapevolmente di evitare i costi del processo. Questo non basta però: è necessario scoraggiare chi inizia cause inutili rafforzando l’utilizzo delle sanzioni pecuniarie per lite temeraria, incrementare i costi per la parte soccombente (in modo che si resista o si inizi un processo solo quando veramente si pensa di aver ragione) e rafforzare i cosiddetti filtri in Corte d’Appello e in Cassazione, bloccando i ricorsi pretestuosi. Si tratta di proposte contenute nel programma preparato da un Comitato presieduto da Carlo Cottarelli (rinvenibili in www.adamsmith.it) e naturalmente non sono le sole. L’importante è rendersi conto che, come per tutte le attività umane, persino l’amministrazione della giustizia è soggetta alle implacabili leggi del costo-opportunità e i suoi attori rispondono agli incentivi che ricevono. Affidarsi ai soli grandi princìpi del diritto porterebbe ad un’altra situazione che gli Antichi Romani avevano ben individuato: summum ius, summa iniuria. Anche mafiosi e terroristi hanno diritto all’assistenza: lo stabilisce la Corte Costituzionale di Piero Sansonetti Il Riformista, 5 luglio 2021 La Consulta ha dichiarato incostituzionale una legge del 2012 (governo Monti, maggioranza larghissima) la quale prevedeva che i condannati in via definitiva per mafia e terrorismo che godono del diritto alle misure alternative al carcere non possano ricevere trattamenti assistenziali, tipo la pensione sociale, o l’assegno di disoccupazione, o (dopo il 2018) il reddito di cittadinanza. La legge era una delle tante varate in questi anni per dare un po’ di soddisfazione al fronte sempre molto ampio dei giustizialisti. Senza stare tanto a guardare ai principi della civiltà e allo Stato di diritto. E sulla base di questa legge, recentemente, si erano aperte varie polemiche perché si era scoperto che alcuni ex esponenti della lotta armata ricevevano il reddito di cittadinanza. Diversi giornalisti, e poi politici, e poi intellettuali vari, tutti molto attenti ai problemi della morale di Stato, avevano protestato e in alcuni casi avevano ottenuto la sospensione dell’assistenza. Il principio al quale si ispiravano era semplice: “Tu hai commesso un delitto e quindi non hai diritto a niente. L’assistenza è la tua unica fonte di sostentamento? Chissenefrega, muori di fame. Potevi pensarci prima…” Se ci pensate bene, in effetti, è stato proprio sull’espandersi di questo tipo di ideologia (che ha sostituito le vecchie e bolse ideologie comuniste, o socialiste, o repubblicane, o cristiane, o liberali, o persino fasciste…) che è nato e si è radicato così fortemente il movimento Cinque Stelle. Pochi dirigenti di spessore, pochi programmi, poca cultura ma un’idea ben radicata: noi siamo i giusti e puniremo gli ingiusti. La legge n. 92 del 2012 che condannava alla “pena accessoria” della fame un certo numero di ex detenuti, comunque, è precedente all’exploit elettorale dei 5 Stelle, che è dell’anno dopo. Chi approvò questa legge, a grande e baldanzosa maggioranza, probabilmente non aveva letto la Costituzione, oppure quel giorno del voto se l’era un momento fatta passare di mente. E così è successo che qualche giudice serio (sì: esistono, sono anche parecchi…) ha rinviato la questione alla Consulta, la quale ha affidato il problema alla sapienza di un vecchio leader politico e professore e governante: Giuliano Amato. Il quale non ha avuto molti dubbi. Ha spiegato - trovando il consenso della maggioranza degli altri membri della Corte - che la legge 92 è in aperto contrasto con gli articoli 3 e 38 della Costituzione. Andiamo a controllare. Dice l’articolo 3 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Chiaro? Tutti uguali. La Costituzione non prevede la distinzione tra Giusti e Ingiusti, tra Perbene e Reprobi. E precisa: senza distinzione di condizioni personali e sociali. Ammettiamo pure che i parlamentari che approvarono quella legge avessero qualche difficoltà a capire il senso e la lettera dell’articolo 3. La Consulta propone loro anche l’articolo 38. Eccolo: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”. In effetti credo che questo sia uno degli articoli meno conosciuti della nostra Carta. Vabbé. Non tutti possono stare lì a ripassare tutti i giorni la Carta, ovvio. Per fortuna c’è il dottor Sottile -Amato lo chiamavano così - che ogni tanto offre una rinfrescata. E ristabilisce dei principi fondamentali della civiltà. C’è scritto nella sentenza: il fatto che alcuni cittadini abbiano rotto il patto di convivenza civile, commettendo dei delitti, non autorizza lo Stato a rompere a sua volta il patto con una ritorsione. Vedete: alle volte, leggendo queste sentenze, ci sembra quasi quasi di vivere in un paese civile. E invece… e invece magari è solo un’illusione. Boss mafioso al 41bis, no a video-colloqui con moglie e figlia all’estero tusciaweb.eu, 5 luglio 2021 La cassazione ha bocciato il ricorso di un boss siciliano detenuto in regime di carcere duro a Mammagialla contro la decisione del tribunale di sorveglianza che a sua volta ha confermato il no dell’amministrazione penitenziaria. L’imputato - un 35enne di Partinico, in provincia di Palermo, detenuto al 41bis a Viterbo - ha chiesto di poter effettuare video-colloqui con la moglie e la figlia di 11 anni, entrambe residenti a Colonia, in Germania. Una richiesta fondata sulla difficoltà oggettiva di organizzare il viaggio di trasferimento e sui costi connessi alla trasferta che gravavano esclusivamente sulla moglie. Ciò posto ha chiesto di sostituire il colloquio visivo in presenza, con quello a distanza, tramite un video-collegamento che si sarebbe realizzato autorizzando l’accesso della donna e della figlia presso il consolato italiano a Colonia. La sentenza della cassazione risale allo scorso 13 gennaio, mentre sono state pubblicate in data 17 giugno 2021 le motivazioni dei magistrati della prima sezione penale presieduta dal giudice Giacomo Rocchi. La suprema corte ricorda come “l’evoluzione tecnologica abbia reso possibili nuove forme di comunicazione a distanza” e come i colloqui visivi siano “un fondamentale diritto del detenuto che favorisce lo svolgimento della vita familiare e il mantenimento di relazioni con i più stretti congiunti”. Un’esigenza che il decreto legge 10 maggio 2020, n. 29, dettato per la gestione dell’emergenza Covid-19, ha inteso parimenti perseguire attraverso la previsione della possibilità di svolgere “a distanza” i colloqui con i congiunti. “Ma nel caso di specie - si legge nella motivazione - il contatto si sarebbe dovuto realizzare attraverso un programma software che avrebbe all’evidenza messo in comunicazione e reciproca visione la sede penitenziaria e il territorio straniero ove è allocato, appunto, il consolato. Trattandosi di video-colloquio da realizzare in parte all’estero, ciò avrebbe imposto un’organizzazione preliminare e preventiva del collegamento stesso che non poteva competere di fatto alla magistratura di sorveglianza”. “Sarebbe stata necessaria una preliminare attività di organizzazione e di controllo del sito e dei soggetti che prendevano parte al contatto; facendo affidamento sulla collaborazione del personale dislocato all’estero, senza che vi fosse una reale e specifica normativa di regolamentazione. D’altro canto gli operatori chiamati a intervenire sarebbero dovuti essere destinatari di una attività di formazione e istruzione di cui allo stato non disponevano. Solo così si sarebbero garantite le formalità e gli adempimenti necessari e preliminari all’apertura del colloquio stesso”. “Anche l’azione di vigilanza durante l’espletamento e quella di registrazione avrebbe dovuto permettere una integrale ripresa e visibilità dei soggetti ammessi all’interlocuzione, evitando che essi potessero uscire dal cono di ripresa del sistema video, così ponendo in essere forme gestuali di comunicazione”. “Deve, dunque, escludersi che si possa autorizzare un video collegamento da eseguire in parte all’estero, senza aver assicurato in via preventiva ogni esigenza connessa al contenimento di pericolosità sociale del ristretto in regime di cui all’art. 41-bis L. 26 luglio 1975, n. 354. Né vale il richiamo alla già intervenuta attività di autorizzazione a effettuare dal consolato a Colonia le telefonate con il detenuto”. “È di tutta evidenza, invero, che il colloquio telefonico e quello visivo abbiano natura diversa e siano strutturalmente modalità d’incontro che richiedono differenti tutele e forme di controllo, in funzione del tipo di comunicazione che si attua attraverso gli stessi e nella logica di una salvaguardia del regime di cui all’art. 41-bis Ord. pen.”. Carceri, disagio psichico, disumanità. Ecco lo sguardo più difficile. E vero di Don Daniele Simonazzi Avvenire, 5 luglio 2021 Gentile direttore, le scrivo in merito agli articoli apparsi su “Avvenire” prima che prendesse spazio il caso del carcere di S. Maria Capua Vetere, che ha scosso tanti, quasi tutti. “Avvenire” è un giornale che sentiamo nostro e forse è l’unico - mi permetta - “da galera”. E quindi grazie! Sono cappellano in carcere da oltre trent’anni; prima lo sono stato in quello che era l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario e ora proseguo, con il mio confratello don Matteo, il ministero oltre che nelle sezioni dell’Articolazione della salute mentale (Asm) anche, di fatto, in altre due sezioni. Scrivo perché vorrei condividere con lei e con la ministra Marta Cartabia alcune considerazioni. A) Vengo da una giornata nella quale ho visto i muri di una cella “affrescati” dal sangue di M. sgorgato dai tagli che si è fatto. Già le sezioni Asm sono complicate, ma quando avviene qualche episodio dovuto a un qualche scompenso, questi fratelli (perché per noi sono tali) vengono ulteriormente isolati in condizioni sub-umane. B) Il problema non sono le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ndr) che conosciamo e di cui attestiamo la bontà, ma gentile ministra, le carceri. È il carcere che scompensa e genera o rende evidente, un disagio mentale che è latente in tantissimi. La ricerca sulla recidiva è cosa buona, ma a diversi ministri - penso a tutti quelli che sono passati in trent’anni - erano stati fatti presenti i dati positivi legati alle misure alternative. Va posto mano a dinamiche che sono proprie e interne agli istituti stessi. Tra l’altro basta poco per rendersi conto che l’uso e l’abuso (al bisogno?) di psicofarmaci, l’utilizzo di sostanze stupefacenti e che in alcuni casi scompensano, il ricorso sempre più frequente a psichiatri e psicologi sono sintomi di tutto questo. C’è l’impressione che il passo del ministro e del ministero (era così anche con il ministro Bonafede) sia diverso da quello dell’amministrazione penitenziaria. C) L’altro aspetto è quello della formazione degli agenti di Polizia Penitenziaria. Le nostre sezioni si reggono su agenti che erano in servizio quando ancora c’erano gli Opg e sono quelli che, di fatto e con buon senso, reggono le situazioni particolarmente acute. E di grazia che ci sono! Qualcuno di loro è stato messo da parte, perdendo così esperienze preziose. Poi ci sono i giovani. E come chiedere loro di zappare un terreno senza dotarli di zappe. Non vengono dati strumenti idonei a fronteggiare chi soffre di disagio mentale. In questo anche le Asl non brillano come presa in carico dei più fragili e poveri. D) Partendo da una citazione di Luigi Settembrini, sono convinto che non si può escludere da un cammino di giustizia riparativa nemmeno coloro che sono stati riconosciuti incapaci di intendere e di volere e per i quali permane una pericolosità sociale. Questi ultimi presentano infatti sensibilità non comuni, basta saperle cogliere. Se non si percorre questa strada, il carcere continuerà a rendere vittime coloro che hanno fatto... vittime. E) Da ultimo mi rivolgo direttamente alla gentile ministra: la prego di trovare forme giuridiche per far partecipare ai vostri “tavoli istituzionali” anche i detenuti. Nel prossimo convegno nazionale dei cappellani è una cosa che ci prefiggiamo, ci aiuti in questo! Da quando è chiuso l’Opg, a Messa “scendono” insieme - Covid permettendo - sia fratelli dell’Asm, sia fratelli della reclusione ordinaria. L’attenzione, la delicatezza, l’ascolto nei confronti dei primi da parte di questi ultimi non ha nulla da invidiare a certe pagine degli Atti degli Apostoli. Le risorse delle carceri sono i detenuti. Domenica scorsa ci si è dimenticati di dare da mangiare a un disabile grave, N. Così il “piantone” (meglio l’angelo custode) - G. - ha rinunciato al suo giorno di riposo per supplire a questo “disguido”, noti che N. è povero, uno tra i più poveri. Ecco, gentile direttore, queste sono le cose che grazie al suo “giornale da galera” volevo condividere con lei, con la stimata Marta Cartabia e, se ritiene, con tutti i lettori. Preghi per noi. Nel Signore *Co-cappellano del Carcere di Reggio Emilia Risponde Marco Tarquinio, direttore di Avvenire Caro e gentile don Daniele, in questa prima domenica di luglio, mentre sulla scena pubblica del nostro Paese in diverso modo si dice e si progetta “giustizia”, ho deciso di dedicare alle sue “considerazioni” praticamente tutto questo spazio di dialogo. Spero, anzi so, che la ministra della Giustizia Marta Cartabia leggerà e rifletterà sulle sue parole e sulla sua esperienza, sul suo servizio a Dio e all’uomo, sulla sua pubblica testimonianza che dà corpo e voce ai corpi reclusi e alle voci impercettibili di coloro che hanno commesso errori o crimini e che si sono persi o sono stati perduti, ma sono e restano uomini e donne e non sono irrecuperabili “scarti” e anime definitivamente spezzate. E spero che anche molti altri e altre, eletti in Parlamento e con rilevanti responsabilità politiche, leggano e riflettano, e magari frenino parole e gesti senza misura e senza pietà. Penso che se lo faranno, troveranno tempo e modo per dare risposte serie alle questione serissime che lei pone con delicatezza e forza. Voglio anche dirle, che sono onorato e grato per la sua definizione di “Avvenire” come “giornale da galera”- È vero, lo siamo. Lo siamo, perché entriamo ogni giorno con migliaia di copie nelle carceri, luogo destinato a coloro che hanno fatto persino in modo tremendo la cosa sbagliata. Lo siamo, perché pure tra quelle mura e dietro quelle sbarre, portiamo le nostre cronache che raccontano deliberatamente molto, moltissimo, delle persone che fanno (o tornano a fare) la cosa giusta per sé e per gli altri. Lo siamo, perché teniamo cara la volontà dei padri costituenti che ci hanno dato il mandato di costruire “prigioni” che siano strumenti di difesa della comunità e al tempo stesso di ricostruzione d’umanità. Lo siamo, perché non ci rassegniamo a una giustizia ingiusta o perfettamente algida. Lo siamo, perché, non sopportiamo violenze e prepotenze persino su chi è stato violento e prepotente e crediamo che fermezza e forza - come i suoi amici agenti dimostrano - non cancellano ascolto, comprensione e misericordia. Sì, gentile don Daniele, siamo “giornale da galera” perché proviamo a ricordarci (e a ricordare a tutti) che le carceri sono un pezzo della nostra società e nessuno dovrebbe considerarle (e farle considerare) un non-luogo dove confinare non-persone. Anche e soprattutto se i reclusi sono esseri umani straziati dal disagio psichico. Grazie, dunque. Che Dio la benedica per la sua vita di prete e per il suo coraggio di cittadino. E che Dio ci aiuti a vedere, come ci è stato insegnato, anche nei carcerati il volto del Figlio. È forse il più difficile sguardo che ci è chiesto. E lei, don Daniele, ce lo consegna: senza, non c’è carità vera e non c’è vera giustizia. Campania. Troppi detenuti e pochi agenti: così le carceri diventano una polveriera di Francesca Sabella Il Riformista, 5 luglio 2021 Da una parte, un numero di detenuti di gran lunga superiore alla capienza regolamentare dei singoli istituti penitenziari; dall’altra, un numero di agenti di polizia penitenziaria non adeguato alla gestione di una realtà complessa come quella carceraria. Ecco perché le prigioni campane sono spesso una polveriera e, al loro interno, si scatenano sempre più spesso atti di violenza o di autolesionismo. Basta analizzare gli ultimi dati diffusi dal Ministero della Giustizia: al 16 giugno in Campania vivevano dietro le sbarre 6.554 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 6.084, con un tasso di affollamento compreso tra il 119 e il 120%. Si tratta di statistiche addirittura peggiori rispetto a quelle nazionali dalle quali emerge un tasso di affollamento pari al circa il 106%. Non meraviglia, dunque, il fatto che in strutture come quella di Poggioreale, dove si contano attualmente 2.053 ospiti a fronte di 1.571 posti disponibili, fino a pochi mesi fa siano stati stipati fino a 14 detenuti in una sola cella. Passiamo ora ad analizzare la situazione della polizia penitenziaria. Secondo il sindacato Uilpa, in Campania mancano all’appello circa 1.300 agenti rispetto a quelli previsti dalle varie piante organiche delle carceri; la carenza più grave riguarda Poggioreale e Secondigliano, dove mancano all’appello circa 500 uomini in divisa. Complessivamente, nelle prigioni italiane sarebbero indispensabili 17mila poliziotti in più per gestire gli oltre 53mila detenuti. Le conseguenze di questa situazione sono gravissime: nel solo carcere di Fuorni, teatro di proteste all’indomani dello scoppio della pandemia, nel 2020 si sono contati 122 atti di autolesionismo, un suicidio e 93 casi di sciopero della fame. A Santa Maria Capua Vetere, invece, sono stati registrati tre suicidi, 59 tentativi e poi gli episodi di violenza che hanno portato all’emissione di misure cautelari per 52 tra agenti e funzionari sotto inchiesta. Nel 2020 le persone che si sono tolte la vita nelle carceri campane sono state otto, di cui due a Poggioreale e una a Secondigliano, mentre i detenuti che hanno tentato di togliersi la vita sono stati 47, delle quali 33 a Poggioreale. A tutto contribuisce la sproporzione evidente tra agenti della polizia penitenziaria e detenuti, spesso all’origine di tensioni che qualcuno vorrebbe gestire solo ed esclusivamente col pugno di ferro. E poco importa se le carceri finiscono col perdere la loro funzione rieducativa e di trasformarsi in un inferno. “Bisogna adeguare le dotazioni organiche ed effettuare assunzioni straordinarie di agenti - afferma Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria - Poi occorre ammoderna e rendere più efficienti le strutture, migliorare gli equipaggiamenti e soprattutto ripensare l’esecuzione penale, rifondare l’amministrazione penitenziaria e ridisegnare l’architettura del corpo di polizia penitenziaria, riordinando infine la dirigenza”. Sassari. Finita la protesta dei detenuti islamici a Bancali La Nuova Sardegna, 5 luglio 2021 É rientrata la protesta dei detenuti islamici che si trovano nella sezione - alta sorveglianza 2 - del carcere di Bancali. I reclusi avevano manifestato per alcuni giorni dando vita anche allo sciopero della fame e in una lettera avevano spiegato le loro ragioni lasciando intendere di essere pronti anche a passare a forme ancora più significative. Il confronto con la dirigenza dell’istituto carcerario e con la dirigenza della polizia penitenziaria, insieme al garante per i diritti delle persone private della libertà, ha consentito di attivare una mediazione che alla fine ha portato i 19 detenuti a dichiarare conclusa la protesta. In particolare, i reclusi della sezione As2 avevano cominciato a lamentare una serie di problemi legati all’assistenza sanitaria ma anche e soprattutto al vitto con un riferimento particolare alle carni somministrate nei pasti e anche al tipo di macellazione. Su Bancali resta alta l’attenzione per via di una serie di problemi che riguardano l’adeguamento degli organici (non solo della polizia penitenziaria) e per il fatto che un carcere così importante - considerato di prima fascia a livello nazionale - continua a non avere un direttore titolare e anche un comandante della polizia penitenziaria. Situazioni mai risolte nonostante i continui appelli degli ultimi mesi. Milano. San Vittore quartiere della città di Alberto Figliolia tellusfolio.it, 5 luglio 2021 Fotografie di Margherita Lazzati; interviste biografiche coordinate da Laura Gaggini. I gradini consunti, consumati dall’uso di migliaia e migliaia e migliaia di passi dolenti nel corso dei decenni. Gradini e passi; ogni passo un pezzo di storia: drammatica, feroce forse e nel contempo di nostalgia per ciò che poteva essere e non è stato, di rabbia, rimpianto e rimorso (un tragico rimbalzo di r). Con una prospettiva dall’alto, straniante: una persona di spalle e un volto, di fronte, sfumato. Una porta a sbarre - rettangoli di duro silenzio - separa i due esseri umani; oltre, un’altra porta su cui campeggia la scritta DOCCIA. Siamo all’interno della Casa circondariale di San Vittore. L’immagine è quella della locandina della mostra “San Vittore quartiere della città” (in collaborazione con Galleria L’Affiche di Milano), fotografie di Margherita Lazzati e interviste biografiche coordinate da Laura Gaggini. La mostra sarà ospitata dalla storica Società Umanitaria, nel Chiostro dei Glicini (ingresso da via San Barnaba 48, Milano), dal 5 al 10 luglio (orario 8:30-20). “Il carcere a Milano è San Vittore. Lo capisci solo quando ci metti i piedi dentro”, è un’affermazione di Giacinto Siciliano, attuale suo direttore nonché già reggente della Casa di reclusione di Opera. Fra le altre fotografie: l’atrio, vuoto di presenze, che pare abbia un’aura spirituale, con i riflessi della luce a piovere sulle piastrelle, un anelito quasi empatico a lenire la sofferenza e la pena del luogo; una piccola cella (uno scatto a colori), arredata come un piccolo monolocale, e l’esiguità dello spazio non riesce a celare la cura con cui si tenta di riallestire una parvenza di domesticità familiare, con la saggezza del riciclo e lo sfruttamento di ogni possibilità permessa dal pur angusto ambiente (non compaiono persone, ma la suggestione è forte); il lungo corridoio con le celle aperte (un piccolo grande segnale di speranza?); il cortile, con elementi della imponente struttura architettonica, costruita nella logica del panopticon. “Il progetto “Il carcere: quartiere della città” ha incontrato e ascoltato le storie delle persone che abitano questo particolare quartiere della città, che lo frequentano per lavoro o per passione civile e spirituale, per poche o per tante ore al giorno e alla settimana. Un gruppo di biografi formati alla LUA - Libera Università dell’Autobiografia e coordinati da Laura Gaggini ha raccolto più di cinquanta interviste che sono state registrate, sbobinate e successivamente sottoposte ai protagonisti per eventuali correzioni. Queste storie di vita fanno da cornice a una mostra fotografica realizzata da Margherita Lazzati, che ha raccolto immagini dei luoghi del Carcere di San Vittore”, recita il comunicato stampa. Margherita Lazzati, volontaria da una decina di anni nel Laboratorio di lettura e scrittura creativa nel Carcere di Opera fondato oltre cinque lustri or sono dalla poetessa Silvana Ceruti, si muove con rarissima sensibilità umana ed estetica all’interno di un ambiente quale il carcere, con il suo carico esistenziale così arduo da affrontare e da capire. I suoi scatti sanno raccontare quel tessuto invisibile, quell’intreccio inestricabile di varia umanità, e lo fanno con una potente e naturale pietas e con una resa formale mai forzata, bensì perfetta nella sua spontaneità sentimentale. Una costruzione, nel segno dell’oggettività, che è documento sociale e, insieme, effetto d’arte, processo intellettuale. “Nel Carcere di San Vittore, con l’autorizzazione del Direttore Giacinto Siciliano e il costante accompagnamento della Dottoressa Elisabetta Palù, ho fotografato celle, gallerie, cortili, mura e orizzonti ristretti. Al centro della città, luoghi che alla città sono inconsapevolmente sconosciuti. A differenza delle fotografie che ho presentato fino a oggi, qui non si vedono quasi mai persone. È una mostra che inevitabilmente parla degli spazi fisici, obbligati, che le persone vivono. Detenuti, polizia penitenziaria, operatori, volontari… non compaiono, ma sono i veri protagonisti di questi luoghi”, felicemente sintetizza la Lazzati. “Il filo che tiene insieme questo progetto è l’idea che davvero il carcere sia un quartiere della città dove uomini e donne si sono trovati a vivere gli uni accanto agli altri per passione, per scelta, per errore o per imprevedibili circostanze della vita. E l’obiettivo è quello di collocare questo quartiere ricco di umanità nel cuore della città esterna”, la chiosa di Carla Chiappini dell’Associazione Verso Itaca APS. Una mostra da vedere, per comprendere, per andare oltre i muri: quelli fisici e quelli del pregiudizio. Sotto il cielo siamo tutti fratelli, con le nostre disparate (e anche disperate) storie, e temporanei ospiti del pianeta che rotola nello spazio. Che sia anche questa una prigionia non saputa? O, al contrario, è una metafora, un’idea della libertà cosmica, altrove, del riscatto attraverso il cuore e il pensiero? Ciò che è possibile anche all’interno di un carcere, mentre fuori la vita continua a scorrere, pronta sempre a riprenderti nel suo generoso grembo.Per organizzare visite accompagnate è possibile rivolgersi a: Laura Gaggini, cell. 3314435314, o a Galleria l’Affiche, tel. 0286450124. Modena. I detenuti premiano Valeria Parrella e pubblicano racconti con “Il Dondolo” Gazzetta di Modena, 5 luglio 2021 È il libro “Almarina” di Valeria Parrella, ad aggiudicarsi l’edizione 2021 di “Sognalibero” il concorso letterario in cui sono i detenuti delle carceri italiane a fare da giurati e a scegliere il miglior romanzo da una rosa che viene loro proposta. Oltre a premiare il miglior autore, i detenuti sono chiamati ad esaminare anche una serie di storie e racconti pubblicati da carcerati. Quest’anno il premio è andato a Daniele Oriolo. Questo testo da ieri è pubblicato - in antologia con altre opere inedite dei carcerati - in un ebook dal Dondolo, la casa civica editrice digitale del Comune di Modena ed è gratuitamente scaricabile sul sito. “Il 2020 è stato un anno terribile per tutti. Per le carceri in particolare dove al Covid si è unito il dramma delle rivolte. - commenta Beppe Cottafavi, della casa editrice il Dondolo - Il fatto che la terza edizione del Sognalib(e)ro si sia svolta e infine conclusa possiede dunque un valore simbolico preziosissimo, soprattutto dopo la pubblicazione del video con cui il quotidiano Domani ha svelato i fatti gravissimi accaduti nel carcere di Santa Maria di Capua Vetere”. Nella loro veste di giurati, i detenuti hanno scelto Almarina (Einaudi) di Valeria Parrella. Ed è proprio la trascrizione del discorso di Valeria Parrella ad aprire l’antologia. All’autrice, come nelle edizioni precedenti, è stato chiesto di indicare letture importanti della sua vita. I testi che ha suggerito verranno acquistati e regalati con il contributo di BPER Banca alle biblioteche degli istituti che hanno partecipato al premio. Ora l’autrice farà un insolito book-tour per le carceri italiane presentando il suo romanzo vincitore. I carcerati oltre a leggere e votare uno dei tre libri, sono stati invitati anche a scrivere un loro inedito, valutato da una giuria composta da Barbara Baraldi e Simona Sparaco e da Paolo di Paolo. Il premio alle opere inedite (romanzo, racconto, poesia) prodotte dalle detenute e detenuti sul tema “Il mio lato positivo” è quello della pubblicazione nell’ebook che si può scaricare gratis dalla piattaforma Mlol, che digitalizza oltre 6mila biblioteche pubbliche italiane oppure sul sito del Comune di Modena https://www.comune.modena.it/ildondolo. Un libro particolarmente interessante, che permette di scoprire il mondo, di chi per errori commessi nel corso della vita si trova privato della libertà, chiuso in una cella. Questo volume digitale raccoglie gli scritti pervenuti. Poesie, racconti, semplici “sfoghi” sul tema “il mio lato migliore”. C’è anche un romanzo breve, Un po’ dentro, un po’ fuori di Daniele Oriolo, dal carcere di Torino, il vincitore, di cui la giuria ha apprezzato lo sforzo di costruire una trama complessa, ricca di colpi di scena, cercando anche di sensibilizzare sul tema della violenza sulle donne. Ricordiamo Il premio letterario Sognalib(e)ro nasce tre anni fa da un’idea di Bruno Ventavoli, responsabile di “Tuttolibri” della Stampa, realizzata con il Comune di Modena, il Ministero della Giustizia, BPER Banca e il Dondolo, la casa editrice digitale del Comune di Modena diretta da Beppe Cottafavi. Questa è la prima idea di un’azione nazionale per le carceri, che mira a promuovere lettura e scrittura negli istituti penitenziari e di reclusione come strumento di riabilitazione, come prevede l’articolo 27 della Costituzione. C’è una raccolta firme di cui si parla poco: è per il quesito sull’eutanasia legale di Valentina Stella Il Dubbio, 5 luglio 2021 L’Associazione Luca Coscioni propone di abrogare le norme penali sull’”omicidio del consenziente”, spiega Cappato. Binetti: “Battaglia ideologica, si aiuti chi soffre”. Non solo i referendum sulla giustizia promossi dal Partito Radicale e della Lega: questa estate gli italiani saranno chiamati a sottoscrivere anche un quesito sull’eutanasia, promosso dalla Associazione Luca Coscioni. “Il referendum - scrivono i promotori - vuole abrogare parzialmente la norma penale che impedisce l’introduzione dell’eutanasia legale in Italia. L’omicidio del consenziente non è altro che un reato speciale inserito nell’ordinamento per punire l’eutanasia. Con questo intervento referendario l’eutanasia attiva sarà consentita nelle forme previste dalla legge sul consenso informato e il testamento biologico, e in presenza dei requisiti introdotti dalla sentenza della Consulta sul “Caso Cappato”, ma rimarrà punita se il fatto è commesso contro una persona incapace o contro una persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia o contro un minore di diciotto anni”. L’eutanasia attiva è vietata dal nostro ordinamento sia nella versione diretta, in cui è il medico a somministrare il farmaco eutanasico alla persona che ne faccia richiesta, sia nella versione indiretta, in cui il soggetto agente prepara il farmaco eutanasico che viene assunto in modo autonomo dalla persona, fatte salve le scriminanti procedurali introdotte dalla Consulta con la sentenza Cappato. Forme di eutanasia passiva, ovvero praticata astenendosi dall’intervenire per tenere in vita il paziente in preda alle sofferenze, sono già considerate lecite soprattutto quando l’interruzione delle cure ha come scopo quello di evitare il cosiddetto “accanimento teraputico”. Per Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Coscioni, “dopo aver contribuito all’entrata in vigore della legge sul “testamento biologico” e aver conquistato nei Tribunali precedenti cruciali per chi vive con terribili sofferenze, abbiamo deciso di promuovere un referendum per arrivare a legalizzare l’eutanasia. Si tratta di una parziale abrogazione dell’articolo 579 del codice penale che andrebbe a depenalizzare l’”omicidio del consenziente”, l’unica fattispecie che nel nostro ordinamento assume un ruolo centrale nell’ambito delle scelte di fine vita, dal momento che non esiste una disciplina penale che proibisca in maniera espressa l’eutanasia. In assenza della menzione stessa del termine “eutanasia” nelle leggi italiane, la realizzazione di ciò che comunemente si intende per eutanasia attiva (sul modello olandese o belga) è impedito dal nostro ordinamento. In caso di approvazione, passeremmo dal modello della “indisponibilità della vita”, previsto dal codice Rocco del 1930, a quello della “disponibilità della vita” e dell’autodeterminazione individuale previsti dalla Costituzione. Una modifica che andrebbe incontro anche a tutte quelle persone che vivono sofferenze insopportabili ma non sono dipendenti da trattamenti di sostegno vitale. È arrivato il momento che siano i cittadini a decidere su un tema che la politica continua a rifiutarsi di affrontare. Sono passati quasi otto anni da quando è stata depositata la proposta di legge d’iniziativa popolare per l’eutanasia legale, il Parlamento non l’ha mai discussa nonostante le ripetute sollecitazioni della Corte costituzionale. Per questo abbiamo iniziato a raccogliere le 500mila firme, che adesso possono essere autenticate anche dagli avvocati) da depositare in Cassazione entro il 30 settembre. Se non si interviene ora con il referendum, il problema rimarrà ignorato per molti anni. Per rispetto alle troppe persone costrette a subire condizioni di sofferenza insopportabile imposta dallo Stato italiano, dobbiamo farlo adesso”. Di parere opposto la senatrice dell’Udc Paola Binetti: “Veniamo dall’esperienza difficile del covid, durante la quale abbiamo visto tante persone morire da sole negli ospedali e nelle Rsa, con l’unico desiderio, grande e profondo, di voler vivere e di volerlo fare accanto alle persone a cui si vuole bene. Io non ho sentito alcuna notizia di qualcuno che in questo periodo abbia chiesto di morire. A me sembra che questa insistenza assoluta per la legalizzazione dell’eutanasia voluta da alcuni rappresenti una scelta ideologica in virtù della quale i bisogni veri delle persone sono lasciati in un angolo. La gente vuole vivere. Noi stiamo cercando di fare degli investimenti, anche con il Pnrr, per migliorare la qualità della vita delle persone, per portare le cure a casa dei pazienti. Per chi si trova in gravi condizioni, noi come governo, Parlamento, come Paese dobbiamo moltiplicare gli aiuti e le risorse di cui hanno bisogno”. Tuttavia nel caso di Dj Fabo, il ragazzo aveva intorno a sé tutto l’amore possibile e la migliore assistenza. Eppure non è bastato: “Se non ci fosse stata questa volontà ideologica di insistere sulla possibilità di ricorrere all’eutanasia in Svizzera, forse Dj Fabo sarebbe ancora vivo. Non possiamo dimenticare che quel caso - aggiunge la senatrice Binetti - è diventato la bandiera elettorale di Marco Cappato, ritenuto ormai paladino della eutanasia. Si tratta di un messaggio attraverso cui può richiamare su di sé i riflettori. Capisco che quando questi riflettori si girano da un’altra parte si sollevi nuovamente il problema per spostare l’attenzione sulla volontà di morte, come forma di presunta libertà radicale. Io mi sarei augurata un impegno ben diverso per venire incontro alle persone con gravi e gravissime difficoltà, per aiutarle a trovare un senso alla propria vita, nonostante le tante oggettive difficoltà. Pensate alla bellezza e alla grandezza delle prossime paralimpiadi di Tokyo, grazie alle quali tante persone con disabilità riescono a dare un senso alla loro vita. Il tema vero è: come possiamo aiutare queste persone a dare un senso alla loro vita? Come non farle sentire un peso, condizione che potrebbe spingerle a chiedere di morire?”. Italia Viva tenta la mediazione sul ddl Zan, “no” del deputato dem: “Volete affossarla” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 5 luglio 2021 Proposte modifiche agli articoli 1, 4 e 7 del disegno di legge, quelli contestati sia dal centrodestra sia dal Vaticano. Giorni caldissimi per la discussione in commissione Giustizia al Senato del ddl Zan, la legge contro l’omotransfobia già approvata alla Camera e che sta aspettando l’ultimo via libera da palazzo Madama. Dopo la nota verbale del Vaticano in cui la Santa sede chiedeva espressamente modifiche ad alcuni articoli del disegno di legge, il dibattito si è polarizzato più di quanto non fosse già e coinvolge principalmente il segretario del Pd, Enrico Letta, che propone di votare la legge così com’è, e quello della Lega, Matteo Salvini, che chiede modifiche. In mezzo c’è Matteo Renzi, che con il suo partito sta cercando di trovare un punto di caduta proponendo modifiche agli articoli 1, 4 e 7, quelli più contestati. Italia Viva ha proposto un emendamento che avvicina il testo del ddl Zan a una proposta di legge contro l’omotransfobia che aveva presentato nella precedente legislatura il deputato Ivan Scalfarotto. Nella formulazione originale del ddl Zan, l’articolo 1 parla di discriminazioni “sul sesso, sul genere, sull’orienta­mento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”. Nella proposta dei renziani i motivi di discriminazione previsti sarebbero più semplicemente quelli “fondati sull’omofobia o sulla transfobia”. Iv chiede poi di sopprimere l’articolo 4, quello accusato da destra di mettere un bavaglio alla libertà d’espressione, con il senatore di Italia Viva, Davide Faraone, che spiega che la libertà d’espressione è giù tutelata in Costituzione e non servono ulteriori provvedimenti. C’è poi l’articolo 7, quello che istituisce la giornata nazionale contro l’omofobia, contestato dalla Chiesa e sul quale Italia Viva propone di aggiungere la frase “nel rispetto della piena autonomia scolastica”, andando incontro alle richieste del Vaticano. Gli emendamenti di Italia Viva saranno discussi in commissione la prossima settimana, poi si tenterà un’ultima mediazione che, se finirà con un nulla di fatto, porterà alla calendarizzazione e al voto segreto in Aula. Voto che secondo i renziani potrebbe affossare la legge e per questo “è meglio un compromesso che faccia arrivare in fondo la legge”. Ma lo stesso Zan ha ricordato che alla Camera, pur con il voto segreto, la legge “è stata approvata a larga maggioranza, anche da pezzi di centrodestra” aggiungendo che “questa non è una legge su cui si possa fare qualsiasi mediazione, perché stiamo parlando dei diritti umani”. Ddl Zan, Matteo Renzi: “Meglio un compromesso che nessuna legge” di Concetto Vecchio La Repubblica, 5 luglio 2021 Il leader di Iv: “Il Pd vuole solo una bandierina, sono stato io a firmare per le unioni civili”. “Falso. È vero il contrario: siamo gli unici a volerlo salvarlo. L’ipocrisia di chi urla sui social ma sa che al Senato non ci sono i numeri è la vera garanzia dell’affossamento della legge. Se andiamo sotto su un emendamento a scrutinio segreto, questa legge è morta e ne riparliamo tra anni. E quanti ragazzi gay soffriranno per la mancanza di questa legge? Voglio evitare questo rischio. Ma per fare le leggi servono i voti dei senatori, non i like degli influencer. Chi vuole una legge trova i numeri, chi vuole affossarla trova un alibi” Ma il compromesso in questo caso è la via maestra? “La questione è sempre la stessa, il contrasto tra massimalisti e riformisti. I massimalisti fanno i convegni, i riformisti fanno le leggi. Preferisco un buon compromesso a chi pensa di avere ragione solo lui ma non cambia le cose”. I suoi avversari temono che così non se ne farà nulla... “Io ho firmato le Unioni Civili. E l’ultima sera prima della decisione di porre la fiducia ci fu una polemica sulla stepchild adoption. Chi si fidava dei grillini ci assicurava che avrebbero votato a favore” E come andò? “Io non mi fidai e dopo aver parlato col primo ministro (omosessuale) del Lussemburgo, il mio amico Xavier Bettel, misi la fiducia togliendo la stepchild. E meno male! I grillini nella notte fecero marcia indietro e la legge fu approvata coi voti di Verdini. Grazie a quella legge da cinque anni migliaia di persone dello stesso sesso possono sposarsi. Se non avessimo fatto un compromesso oggi in Italia ci sarebbero meno diritti” Cosa chiedete di cambiare? “A me interessa che ci sia una buona legge. La proposta di Scalfarotto, firmata anche da Zan, elimina i punti controversi su identità di genere e scuola. Può essere un punto di caduta. L’importante è non affossare la legge: a scrutinio segreto la legge rischia molto. Anche nei gruppi Pd Cinque Stelle potrebbero mancare voti, è il segreto di Pulcinella” Le richieste di Italia viva coincidono con quelle della destra... “Non sapevo che le femministe - che chiedono di eliminare identità di genere - fossero di destra. Ma comunque se la destra vota a favore di una legge del genere significa che è una destra europea. Meglio una destra che assomiglia alla Merkel di una destra che assomiglia a Orban”. Il Pd vi attacca e Salvini applaude. Non è in imbarazzo? “Il Pd deve decidere: vuole una bandierina anche a costo di condannare una generazione di ragazze e ragazzi gay a non avere tutele o preferisce una legge? Io non avrei dubbi. E vero che per tanti anni i dirigenti dem hanno preferito il consenso identitaria al compromesso politico: infatti fino a che non sono arrivato io, nessuno ha fatto la legge sulle unioni civili. Proponiamo di votare gli emendamenti di Scalfarotto, non quelli di Pillon”. Ma perché allora l’avete votato alla Camera? “Perché lì c’erano i numeri. Noi siamo a favore della Zan. Ma se al Senato non ci sono i numeri preferisco fare una buona legge modificando qualcosa. In Italia, come noto, c’è ancora il bicameralismo: finché non cambia la costituzione, il voto del Senato serve. Se poi vogliamo abolire il bicameralismo, io sono favorevole da sempre. Ci ho perso la poltrona per quella battaglia, non ho cambiato idea”. Il ddl Scalfarotto fu già bocciato dal centrodestra. Che senso ha? “Deve chiederlo alla destra. Noi siamo sempre dalla stessa parte. E non solo Ivan Scalfarotto ma anche Lucia Annibali e Lisa Noja alla Camera hanno dato una grande mano. Come pure stanno facendo tutti i colleghi deputati e senatori. L’attività parlamentare non è scontro ideologico ma nobile e faticoso compromesso. Nel tempo della cancel cultur e della dittatura social figuriamoci se mi sfugge la difficoltà di fare ragionamenti del genere” Davvero pensate che una volta approvato al Senato con le modifiche possa passare con la fiducia alla Camera? “Eviterei di coinvolgere il Governo con la fiducia. Se ci sono modifiche concordate, alla Camera si approva in terza lettura in venti giorni. Preferisco aspettare venti giorni con una buona legge che far saltare tutti e dover aspettare altri dieci anni” Nel Pd pensano che lei voglia sganciarsi dal centrosinistra. È così? “Il Pd in questi mesi ha scelto una strategia suicida, immolandosi per Conte sia nella vicenda crisi che su Draghi che nelle ultime discussioni in casa grillina. Forse i nostri amici del Nazareno potrebbe occuparsi di più della loro miope visione anziché attaccare noi che non ci svendiamo a un progetto fallimentare come quello pentastellato”. Farebbe un accordo con la destra sul Colle? “Anche con la destra, certo. Il sogno è sempre quello di eleggere un Presidente della Repubblica con un consenso amplissimo. In questa elezione, per di più più, la destra ha il 45% dei grandi elettori, quindi sarà sicuramente al tavolo. E meno male che bel 2019 abbiamo tolto i pieni poteri al Salvini del Papeete: fossimo andati a votare allora - come volevano alcuni dirigenti anche del Pd - ora dovremmo eleggere un Presidente sovranista”. Chi è il suo candidato al Colle? “Al Colle non ho candidati, ma solo un Presidente per volta. Ora si chiama Sergio Mattarella: tutti noi abbiamo la responsabilità di rispettarlo e aiutarlo. Dei nomi parleremo a febbraio 2022” Il governo reggerà alla crisi del M5s? “Si. Draghi sta lavorando benissimo, il pil migliora, la fiducia cresce, l’Italia va. Il Governo regge. Credo invece che i Cinque Stelle non reggeranno al Governo Draghi: la crisi di gennaio ha prodotto un quadro politico nuovo e per me il Movimento e finito. Quando l’ho detto in una intervista a Repubblica tre mesi fa mi hanno preso per pazzo, ora mi sembra che si stiano convincendo in tanti”. Crede alla mediazione Conte-Grillo? “Mi sembra una tregua di corto respiro. Torneranno a litigare dopo le amministrative. Ma non è un mio problema. Anche perché non discutono di idee diverse ma solo di chi debba comandare: puro potere”. Migranti. Il governo aumenta i fondi per la guardia costiera libica di Vanessa Ricciardi Il Domani, 5 luglio 2021 Dopo le immagini della guardia costiera libica che spara a un’imbarcazione di migranti con una motovedetta donata dall’Italia, è arrivato in parlamento il decreto sulle missioni internazionali: il governo ha deciso di aumentare i fondi, sia diretti a supporto della guardia costiera libica sia alle missioni italiane ed europee in mare che cooperano con l’apparato militare libico. “Il governo deve spiegare quali sono le reali intenzioni dietro l’aumento di questi fondi - dice Paolo Pezzati di Oxfam - e i parlamentari devono porre dei limiti perché questo non significhi cooperare con i respingimenti dei migranti”. L’occasione sarà prossima, mercoledì il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il ministro della Difesa Lorenzo Guerini sono stati già convocati in parlamento in audizione per illustrare il decreto. Dopo le immagini della guardia costiera libica che spara a un’imbarcazione di migranti con una motovedetta donata dall’Italia, è arrivato in parlamento il decreto sulle missioni internazionali: il governo ha deciso di aumentare i fondi, sia diretti a supporto della guardia costiera libica sia alle missioni europee in mare che cooperano con l’apparato militare libico. “Il governo deve spiegare quali sono le reali intenzioni dietro l’aumento di questi fondi - dice Paolo Pezzati di Oxfam -, e i parlamentari devono porre dei limiti perché questo non significhi cooperare con i respingimenti dei migranti”. I conti - La verità è contenuta nelle schede delle missioni internazionali che il governo ha approvato in via definitiva il 17 giugno ma che sono giunte alle Camere solo il 30. L’approvazione era stata discussa e nei giorni scorsi più voci dal Partito democratico e di Liberi e uguali si sono levate contro le intenzioni non ancora dichiarate dell’esecutivo. Il governo ha infatti deciso di destinare 500 mila euro in più nel 2021 per sostenere le attività della guardia costiera libica, che sono così arrivati a 10,5 milioni: la missione ha l’obiettivo di supportare “le autorità libiche preposte al controllo dei confini marittimi ai fini della prevenzione e repressione dei traffici illeciti via mare”. In particolare, la missione prevede l’impiego di personale della Guardia di finanza in Libia per l’addestramento di personale appartenente alle Istituzioni Libiche preposte al controllo dei confini marittimi e il mantenimento in esercizio delle unità navali appartenenti al naviglio libico. Le altre missioni - Il punto però non è solo quello. Oxfam lancia l’allarme sulle altre missioni: per le missioni navali nel Mediterraneo è stato registrato un aumento di 17 milioni rispetto al 2020 per la missione Mare Sicuro e 15 milioni per Eunavfor Med Irini: “Nessuna - sottolinea Pezzati - ha compiti di ricerca e soccorso in mare”. Irini, la missione europea, si legge nei documenti, tra le altre cose, oltre al contrasto del traffico illegale di armi, ancora una volta contribuisce allo sviluppo delle capacità e alla formazione della marina libica, inclusa la Guardia costiera. In particolare “nei compiti di contrasto in mare, in particolare per prevenire il traffico e la tratta di esseri umani”, un compito “svolto in alto mare” ma anche “nel territorio, comprese le acque territoriali, della Libia o di uno Stato terzo ospitante vicino della Libia”. Inoltre sostiene “l’individuazione e il controllo delle reti di traffico e tratta di esseri umani attraverso la raccolta di informazioni e il pattugliamento in alto mare effettuato con mezzi aerei, nel teatro dell’operazione convenuto”. Il dispositivo aeronavale Mare Sicuro, italiano, si occupa di sorveglianza e protezione delle piattaforme dell’Eni ubicate nelle acque internazionali prospicienti la costa libica, e “svolge compiti di sorveglianza e sicurezza marittima nel Mediterraneo centrale, allo scopo di assicurare adeguate condizioni di sicurezza in mare operante in area, il supporto alla missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia”. Le unità navali impiegate in Mare Sicuro dovranno operare per “protezione delle unità navali nazionali impegnate in operazioni di ricerca e soccorso (Sar)”. Frasi che prendono un’altra luce dopo che le Ong hanno filmato come la cosiddetta guardia costiera libica abbia cercato di colpire e speronare un’imbarcazione di migranti, o ancora prima come ne abbia fermate altre picchiando le persone a bordo, o peggio ancora dopo i mancati soccorsi libici che continuano ad accrescere il numero di morti nel tratto di mare che separa la Sicilia dalla Libia. Spiega Pezzati: “Ci sono stati aumenti molto importanti alle missioni navali collegate alle attività per le missioni in mare. Ci sono tre missioni nel Mediterraneo e non ci preoccupiamo se non di intercettare, mentre non ci sono fondi per i salvataggi”. L’unica missione in Libia ad essere stata tagliata - da 47,9 milioni a 46,8 - è Miasit, che fornisce supporto sanitario e umanitario, e in parte anche formazione e addestramento sia in Italia sia in Libia. Il comando della missione è schierato a Tripoli e il Comandante è il colonnello Roberto Vergori, mentre la dipendente Task Force “Ippocrate”, che include l’ospedale da campo, è schierata a misurata, e di recente, come rivelato da Domani, è stata al centro di un braccio di ferro diplomatico. In totale, le missioni collegate alla Libia - in Mediterraneo e direttamente riferite alla Libia, senza aprire il capitolo dei paesi confinanti - pesano sul bilancio dello stato per oltre 207 milioni, mentre l’anno scorso avevano raggiunto i 177 milioni. Quello che chiede la Ong è chiaro: “A pochi giorni dalla discussione parlamentare sul rinnovo delle missioni militari italiane all’estero, - si legge in una nota diffusa da Oxfam - chiediamo perciò ai partiti di maggioranza di interrompere immediatamente gli stanziamenti per il 2021 diretti alla Guardia Costiera libica, che solo quest’anno ha intercettato e riportato in un paese non sicuro il triplo dei migranti, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno”. Inoltre “è necessaria - aggiunge Pezzati - una revisione delle missioni che contengono iniziative legate alla sua formazione e al suo supporto. Quello che serve è un cambio deciso di approccio, una gestione diretta dei flussi e non la mera chiusura delle frontiere delegata a paesi come la Libia o la Turchia”. L’occasione per discuterne sarà prossima, mercoledì il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il ministro della Difesa Lorenzo Guerini sono stati già convocati in parlamento in audizione per illustrare il decreto.