Mattanza in carcere, c’è responsabilità politica di Paolo Borgna Avvenire, 4 luglio 2021 Il punto centrale, per comprendere le responsabilità politiche di quanto è accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, sta in una domanda che Vincenzo R. Spagnolo rivolge al membro del Csm Sebastiano Ardita nell’intervista pubblicata da “Avvenire” il 2 luglio. Quando il 16 ottobre 2020 il ministro Bonafede riferisce in Parlamento su quanto avvenuto in quella struttura, definendo l’operato della polizia penitenziaria una “doverosa operazione di ripristino di legalità”, sono trascorsi già sei mesi dal momento in cui carabinieri e pm avevano sequestrato i video della “mattanza”. Poiché è doveroso ritenere che quando un ministro risponde in Parlamento lo faccia documentandosi e chiedendo precise notizie e relazioni non solo alle strutture dipendenti dal Ministero (in questo caso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Dap) ma anche ad altre istituzioni (in questo caso i Carabinieri), è altrettanto doveroso pensare che il 16 ottobre 2020 Bonafede fosse a conoscenza di quanto accaduto. Se non fosse così e le sue parole fossero il frutto di sciatteria e disattenzione, il giudizio politico non cambierebbe. Le chat interne tra gli agenti, pubblicate da vari quotidiani, e quelle tra il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, il capo del Dap, la direttrice del carcere, il comandante della polizia penitenziaria di Santa Maria dimostrano una pianificazione dell’azione violenta (“l’unico sistema, il sistema Poggioreale” invoca, all’inizio della perquisizione, il capo del nucleo speciale fatto venire da Secondigliano; alludendo alla “cella zero” del carcere di Napoli utilizzata per pestaggi sistematici). Ancorché il comandante della penitenziaria del carcere avesse poco prima comunicato che non vi era alcuna rivolta in atto e che tutti i detenuti erano “rientrati dai passeggi”. Sempre il consigliere Ardita, in un’intervista alla “Stampa” del 3 luglio, alla domanda sul coinvolgimento del Dap (e dunque del Ministero) in questa pianificazione della “mattanza”, risponde: “Il perimetro delle responsabilità è materia dell’inchiesta penale”. Giustissimo. Ma insufficiente. Perché è ovvio che la responsabilità penale per fatti delittuosi debba essere accertata dalla magistratura. Ma oltre a quella penale esiste (o dovrebbe esistere) una responsabilità politica. Dovrebbe esistere, perché uno dei problemi più gravi dell’Italia repubblicana è che ogni tipo di accertamento e di sanzione è stato delegato esclusivamente al processo penale che, in tal modo, è stato sovraccaricato di aspettative e di significati a volte impropri. Basti pensare a quel che è accaduto per le responsabilità politiche (anche quando non strettamente penali) in tema di collusione con la mafia. Se si fa il confronto con quanto avviene in Germania - dove un uomo politico come Helmut Kohl, artefice della riunificazione tedesca, fu costretto, su iniziativa della sua parte politica, ad abbandonare la scena pubblica per una vicenda di illeciti finanziamenti al suo partito (non alla sua persona) - si comprende la peculiarità del caso italiano. E si deve convenire che l’eccessivo peso del giudiziario, nel nostro Paese, non è certo solo colpa del “protagonismo” dei magistrati. Cambiare il carcere. Missione impossibile? di Franco Corleone* dirittiglobali.it, 4 luglio 2021 Orrendo massacro. Così la Procura della Repubblica ha definito il pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, parole forti come quelle usate da Massimo D’Alema per Bolzaneto: macelleria messicana. Parole forti, necessarie ma non sufficienti. La ministra Marta Cartabia ha efficacemente denunciato il “tradimento della Costituzione” e ha parlato di “oltraggio alla dignità della persona dei detenuti”. L’interrogativo è il che fare perché si sa tutto ma non si fa nulla. Vent’anni fa, da sottosegretario alla Giustizia, stroncai le manovre di occultamento delle botte organizzate scientificamente nel carcere di Sassari. Una squadra fatta venire da Napoli agli ordini di un comandante con l’impermeabile bianco, ridusse a corpi vilipesi i detenuti inermi e impotenti, tradotti poi in altre carceri coperti da sacchi neri per non disperdere sangue ed escrementi. Anche in quell’occasione i medici tradirono il loro mandato. Ora la mancata denuncia è più grave, perché la salute adesso è affidata al Servizio sanitario pubblico e non a una medicina domestica e subalterna. Chi si occupa di carcere da mezzo secolo ricorda le squadrette specializzate nel “Santantonio”, denunciate da Ernesto Rossi, ma oggi dopo tanti casi di mele marce (Asti, Torino, Firenze, San Gimignano, solo per ricordare recenti episodi), viene da chiedersi dove sia precipitata la smilitarizzazione del Corpo degli Agenti di Custodia. Non possiamo affidarci alla individuazione delle responsabilità personali da parte della magistratura. Questo è davvero il momento di un sussulto per la riforma del carcere e della giustizia. È ora di aggredire il sovraffollamento cambiando la legge criminogena sulle droghe che riempie le carceri della metà dei detenuti. Un carcere senza consumatori, piccoli spacciatori, poveri, stranieri (tutti “nemici perfetti”), sarebbe riservato ai gravi delitti contro la persona, l’ambiente, i reati finanziari e informatici. Allora si dovrebbe pensare a un cambiamento radicale, riservando un corpo di polizia solo per l’Alta sicurezza strettamente definita e delimitata. Come in Spagna, avere un corpo civile, preparato ad affrontare relazioni umane bandendo la violenza, e mettendo fine a questa guerra tra ultimi e penultimi, guardie e ladri, carichi di odio, disprezzo e sadismo. Diciamo basta a un carcere finto sostituto del welfare che non c’è, una discarica sociale che mima la rieducazione e il reinserimento sociale sulla base del paternalismo autoritario e di un sistema premiale ossificato. Siamo riusciti a chiudere i manicomi giudiziari, non può essere un sogno o una utopia velleitaria eliminare il carcere almeno per quelli che sono individuati come soggetti fragili. Insisto. Dopo novant’anni, bisogna abrogare il Codice Rocco e riscrivere il patto sociale con la riserva di codice, abbandonando la strada delle leggi speciali o eccezionali con aumenti di pena demagogici sempre più incomprensibili. Il diritto penale minimo e mite non può essere archiviato per il tempo del mai, di un futuro improbabile. Troppe occasioni sono state sprecate, la ministra Cartabia saprà realizzare la giustizia giusta? *Presidente Comitato Scientifico Società della Ragione “I pestaggi in carcere sono intollerabili. Temo non siano episodi circoscritti” di Rosa Carillo Ambrosio Corriere del Mezzogiorno, 4 luglio 2021 Intervista a Don Raffale Grimaldi, Ispettore generale dei cappellani. “Gestire criticità e sicurezza insieme non è facile, ma certamente non si può assolutamente condividere la violenza gratuita verso persone indifese che già stanno pagando con una pena detentiva per i loro errori commessi”. L’efferatezza delle aggressioni ai detenuti di Santa Maria Capua Vetere è condannata con determinazione da don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane. Non usa mezzi termini il sacerdote di Giugliano che, dopo 23 anni trascorsi a svolgere la funzione di cappellano nel non facile carcere di Secondigliano, dal 2017 è stato chiamato dai vescovi italiani a capo dell’ufficio che interfaccia la Cei con l’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile. All’indomani della diffusione dei video degli incresciosi episodi ha scritto una lettera specificando che c’è bisogno di “riportare dignità e umanità nei nostri istituti penitenziari, una strada possibile”. Vedendo quelle immagini, purtroppo, c’è molta poca umanità e nulla di bello. Gli animi sono scossi. Don Raffaele come si potrà ripartire? “Le carceri sono sempre luoghi dove continuamente si riparte con la forza della speranza. La violenza gratuita a persone indifese ha messo in evidenze le molteplici lacune del sistema penitenziario. Ma non bisogna arrendersi, anche se in questo momento c’è molta delusione e rabbia. Bisogna andare avanti. Il pianeta-carcere deve ritornare ad essere un vero luogo di rieducazione del condannato e non casa di repressione”. I detenuti sono in carcere perché devono scontare una pena, in teoria dovrebbero anche riabilitarsi. Crede che le maniere forti siano un modo per raggiungere questo obiettivo? “La violenza non porta da nessuna parte, è un’avventura senza ritorno; anzi, produce altra violenza. Il ristretto ha bisogno invece di ascolto, di fiducia di essere incoraggiato nel cambiamento”. Durante episodi come questi, il cappellano circondariale, si trova al cospetto di due “uomini”: quello detenuto che deve riabilitarsi ma che in carcere è malmenato e quello con la divisa che deve riabilitare ma abusa del suo potere. In questo limbo come si muove un cappellano? “I cappellani nelle nostre carceri sono uomini-ponte. La loro missione è di invitare polizia penitenziaria, operatori tutti e detenuti a vivere la logica del Vangelo che non è repressione ma è attenzione all’altro, rispettando pienamente la dignità di tutti”. Con sincerità: è possibile ipotizzare che, situazioni come quelle di Santa Maria Capua Vetere, esistano anche in altri penitenziari? “In Italia abbiamo circa 200 istituti e tutti vivono quasi le stesse tensioni e difficoltà. Noi ci auguriamo che tali episodi siano isolati, ma non possiamo escludere che anche in altre carceri ci siano state violenze gratuite, anche se in maniera diversa. Le indagini della magistratura faranno il loro corso”. Le nostre carceri sono al collasso per sovraffollamento. Lei coordina 250 cappellani attraverso i quali ha sicuramente contezza della problematica... “Il sovraffollamento è stato sempre la spina nel fianco delle strutture penitenziarie, la mancanza di personale, poi, non permette di lavorare con serenità per una piena rieducazione del condannato”. A suo giudizio quali sono le priorità per una riforma del sistema penitenziario nel nostro Paese? “Da anni si parla di riforma del sistema penitenziario, ma questo progetto fa fatica a decollare, il rischio è di rimanere ostaggi delle diverse correnti politiche. Ci auguriamo che con l’aiuto del ministro Marta Cartabia qualcosa possa cambiare”. In un momento delicato come questo le pesa essere il rappresentante di tutti i cappellani d’Italia? “Il mio compito è di sostegno e di incoraggiamento. Le mie continue visite nelle regioni hanno lo scopo di aiutare i miei confratelli a non sentirsi soli in questa difficile missione”. Sicuramente si starà relazionando con la Cei. Come si pongono i vescovi italiani rispetto a questo episodio? “I vescovi sono molto attenti alle problematiche delle carceri, ma certamente un forte slancio è stato dato da Papa Francesco con i suoi continui interventi. I vescovi. con le loro visite, fanno sentire certamente la vicinanza morale, spirituale e materiale della Chiesa”. Tra pochissimi giorni uscirà il suo libro dal titolo: “La voce di Dio dietro le sbarre”, edito dalla Tai. È un volume indirizzato ai cappellani e a tutti gli operatori della Chiesa che svolgono servizio nelle carceri. Nel Vangelo leggiamo: “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”. Cosa significa oggi portare la voce di Dio in questa realtà? “È una missione di misericordia. Nessuno può giudicare l’altro, nessuno può calpestare la dignità dell’uomo imprigionato. La voce di Dio arriva al cuore di ogni condannato e deve aiutarlo a rialzarsi e a vivere un vero cammino di conversione e di cambiamento”. Lei vive tra Roma e Giugliano, suo paese d’origine. Proprio qui, in questa terra difficile ha avviato una serie di iniziative per accogliere l’altro disagiato: i poveri, gli immigrati, i carcerati in regime di semi-residenzialità. E poi ha avviato un gemellaggio con il Burundi. Insomma, non si ferma mai... “Cerco di fare ciò che lo Spirito Santo mi suggerisce. Le molteplici attività di vicinanza al mondo scartato ed emarginato non è altro che la missione che mi è stata consegnata senza nessuna esaltazione. Ma vorrei ricordare a me stesso le parole del Signore: “Cosi anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”. “Draghi è d’accordo, quel pestaggio in carcere rovina l’immagine dell’Italia” di Liana Milella La Repubblica, 4 luglio 2021 Parla il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma: “L’ex ministro Bonafede non era a conoscenza dei gravi fatti che erano accaduti nella prigione di Santa Maria Capua Vetere. Dopo i pestaggi ho raccomandato io di sequestrare le immagini delle telecamere interne per trasferirle in procura”. Professor Mauro Palma, partiamo dal suo incontro con Draghi nella sua veste di Garante nazionale dei detenuti. Che vi siete detti? “Gli ho portato la mia relazione al Parlamento del 21 giugno perché non aveva potuto esserci. Gli ho espresso la mia preoccupazione per la cultura che emerge dalle immagini del carcere di Santa Maria Capua Vetere che richiede interventi radicali di cambiamento”. E lui che ha detto? “In verità il mio allarme era anche il suo per un’immagine che l’Italia non merita”. Draghi era preoccupato per le ripercussioni internazionali? “Il premier mi ha soprattutto ascoltato. E io certo non ho nascosto quanto tutto questo può produrre riflessi in Europa anche perché mi risulta che due parlamentari, Bartolo e Smeriglio, abbiano già presentata un’interrogazione urgente alla Commissione europea”. E che conseguenze potrebbe avere? “Di certo ne può risultare fortemente danneggiata l’immagine di un Paese che invece ha fatto progressi rispetto alla condanna di Strasburgo per le condizioni dei detenuti”. C’è una battuta di Draghi che può citare? “Pur nella dovuta riservatezza sono testimone della sua soddisfazione per l’esistenza in Italia di una struttura come quella del Garante che contribuisce ad assicurare il pieno controllo di legalità nelle carceri”. I fatti di Santa Maria sono del 6 aprile 2020. Siamo al 2 luglio 2021. Che cosa è successo in quella prigione nel frattempo? “Santa Maria continua a essere un carcere affollato e problematico, se non altro per gravi carenze strutturali come la mancanza di un collegamento diretto all’acquedotto, ma dove il controllo della magistratura di sorveglianza è continuo e tra i più attenti nel Paese”. Dopo quella “spedizione punitiva” lei cos’ha fatto? “Sono stato in stretto contatto con i magistrati di sorveglianza ed eravamo d’accordo sulla necessità di entrare subito nel carcere, raccogliere le testimonianze: ho raccomandato io di sequestrare le videoregistrazioni per trasferirle in procura”. Temeva che i video potessero sparire? “Purtroppo può accadere che dopo alcuni giorni vengano sovrascritti. E quindi se non si interviene subito, di fatto scompaiono. Proprio per questo è importante non solo estendere la videosorveglianza a tutti gli ambienti comuni nel carcere, ma anche prevedere una banca dati delle registrazioni per un tempo congruo”. Il 16 ottobre 2020 alla Camera il governo parla di “doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità”. Com’è possibile? “Ovviamente questo evidenzia che i fatti di Santa Maria erano stati riportati, via via nella catena gerarchica, in modo distorto, sminuendone la portata e negando quello che gli stessi detenuti andavano via via denunciando”. La ministra Cartabia parla di “Costituzione calpestata”. Ma lei ha partecipato anche a molti incontri con l’ex Guardasigilli Bonafede. Cos’ha sentito? C’è una sua responsabilità? Sapeva, e non ha fatto nulla? “Ottima la valutazione che la Guardasigilli ha dato sui fatti. Ma devo dire però che anche Bonafede non ha mai mostrato alcun segno di sottovalutazione di episodi così gravi. E certamente se ne fosse venuto a conoscenza in maniera completa e documentata non avrebbe minimamente autorizzato un’informazione di quel genere per qualificare quanto abbiamo visto”. Scusi, ma quando c’è stata contezza a Roma, tra Dap e ministero, dei gravi fatti avvenuti a Santa Maria? “Questo non lo so, ma presumo che siano stati via via riportati, di gradino in gradino, quasi a sminuire le responsabilità e rassicurare i superiori”. Cosa pensa dell’ex direttore delle carceri Basentini che dice “hai fatto benissimo” alla notizia dell’intervento su Santa Maria? “Voglio augurarmi che non avesse piena consapevolezza di cos’era avvenuto”. Basentini viene sostituito da Bonafede con l’attuale direttore Petralia il primo maggio 2020 dopo le polemiche sulla circolare del 21 marzo che ha finito per scarcerare i mafiosi e per la gestione delle rivolte. Arriva anche il vice direttore Tartaglia. Confermati entrambi da Cartabia. Lei vede un cambiamento? “Intanto la circolare non ha scarcerato nessuno ma ha dato una doverosa indicazione di vulnerabilità…”. Questa è la sua opinione. Ma i pestaggi? “Certamente oggi le pene vengono scontate con maggiore attenzione alle indicazioni della nostra Costituzione”. “Idee e pene alternative. Per cambiare le carceri non bastano più carceri” di Antonella Mollica Corriere Fiorentino, 4 luglio 2021 L’avvocato Michele Passione, una vita in difesa dei diritti dei detenuti non si stupisce, nemmeno dopo i fatti di Santa Maria Capua a Vetere. “Per cambiare le carceri, cambiamo prima le idee”. Cosa intende per cambiare il senso del carcere? “Credo che vada dismessa una certa idea. Oggi sentiamo continuamente parlare di certezza della pena, uno slogan che non significa niente ma che è stato pure inserito nelle linee programmatiche del modello delle esecuzioni del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Non dimentichiamo che la stragrande maggioranza dei detenuti è costituita da persone con condanne sotto i tre anni, non da ergastolani o condannati per mafia”. “Come si può cambiare la situazione delle carceri? Cambiando completamente paradigma: il carcere non può essere un luogo chiuso, escluso dal resto del mondo, deve essere aperto verso l’esterno. O si ripensa al senso del carcere oppure abbiamo poche speranze di vedere cambiare le cose”. L’avvocato Michele Passione, penalista di Firenze, è da sempre in prima fila nella difesa dei diritti dei detenuti. Il cappellano di Sollicciano ha scritto una lettera al nostro giornale denunciando le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere i detenuti... “Uno Stato che ti tiene dietro le sbarre senza prevedere la possibilità di aperture sul territorio dovrebbe quantomeno preoccuparsi di farti vivere in condizioni dignitose. Invece non accade. E non è un problema di risorse, visto che ogni detenuto costa allo Stato 130 euro al giorno. Già questo dato dice che dobbiamo ripensare tutto il modello. Il carcere è l’unico posto al mondo dove entri sano e ti aprono una cartella clinica. Questo significa una sola cosa: che il carcere fa male e fa ammalare”. Perché è così difficile cambiare le cose? Con il Recovery fund arriveranno delle risorse anche per il sistema penitenziario. Previsioni? Bisogna andare oltre l’idea che il detenuto è solo il cattivo che ha commesso un reato. Fosse anche per una mera logica utilitaristica: quel carcerato un giorno rientrerà nella società. Le statistiche dimostrano che se vuoi più sicurezza devi aprire di più a misure alternative che fanno crollare le percentuali di recidiva dal 70 al 19 per cento. Parlare di inclusione però non porta voti ai partiti e quindi se ne parla poco”. “Come al solito si punta tutto sull’edilizia. Va bene aumentare gli spazi, ne guadagna sicuramente la qualità della vita, ma la strada non può essere solo quella per migliorare la situazione. Ci saranno ristrutturazioni di alcuni padiglioni, verrà costruito qualche istituto penitenziario in più. Ma si parla sempre di cose, non di idee. Qui servono progetti di inclusione sociale. Bisogna investire su personale dell’area educativa. Chi lavora in carcere sostiene che anche gli agenti di polizia penitenziaria sono detenuti, costretti a lavorare in condizioni insostenibili… “Penso che non interessi a nessuno in realtà cambiare le cose. C’è una colpevole inerzia da parte di tutti e non c’è ascolto su questi temi. In troppi chiudono gli occhi. Il carcere è visto come qualcosa di distante, che non appartiene alla sfera quotidiana delle persone. Ovviamente finché non ti tocca personalmente”. In questi giorni siamo rimasti tutti sconvolti dalle immagini delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Le condizioni di lavoro degli agenti possono incidere su certi comportamenti? “Il burnout è una brutta bestia. Alcune condotte sono spesso frutto di degrado e disagio ma di fronte alla vicenda di Santa Maria Capua Vetere, come a quella di San Gimignano, che hanno visto il coinvolgimento di così tante persone, è difficile pensarlo. Non siamo di fronte a episodi, siamo di fronte alla rivendicazione della necessità di ristabilire l’ordine. La teoria delle mele marce non funziona più. Per questo mi sarei aspettato una maggiore chiarezza da parte delle istituzioni. Dal capo del Dap - che non è quello che era in carica al momento dei fatti di Caserta - mi sarei aspettato di sentir che certe cose non accadranno mai più. Invece trovo intollerabili certi silenzi. Bisogna fare ancora molto sul fronte della prevenzione, investendo di più nella formazione del personale. Che non può essere addestrato solo sull’uso della forza. Anche i magistrati conoscono poco il mondo carcerario. Dovrebbero fare un periodo di tirocinio all’interno degli istituti penitenziari come accade in Francia”. “Nelle carceri il metodo del branco: chi denuncia paga caro” di Luca Covino open.online, 4 luglio 2021 Samuele Ciambriello è il Garante dei diritti dei detenuti per la Regione Campania. Da anni le segnalazioni che raccoglie in dossier sulle condizioni nelle carceri del territorio sono spesso inascoltate. Lo abbiamo intervistato sui fatti di Santa Maria Capua Vetere che hanno portato sotto inchiesta 52 agenti di polizia penitenziaria per i pestaggi e le sevizie avvenute nell’istituto il 6 aprile 2020, dopo le proteste dei carcerati per i timori di contagio da Covid nella struttura. Dietro “all’offesa alla Costituzione” e al “cortocircuito” che la vicenda ha provocato a livello istituzionale, ci sono i depistaggi rilevati dall’inchiesta, un clima di “avversione” verso i 44 detenuti su 292 che “hanno avuto il coraggio di denunciare”. Un’atmosfera che crea silenzi e approccio “cinici” nel Paese rispetto alla questione della rieducazione. Portando chi “sconta i suoi sbagli a vivere in un clima forcaiolo”. Sono anni che denuncia le condizioni nelle carceri campane, ma non cambia nulla. Perché? A partire dalla questione del sovraffollamento, sono anni che riceviamo sanzioni dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Manca una riforma dell’ordinamento penitenziario da 10 anni e il tema viene affrontato con una distanza tra quello che è lo stato attuale degli istituti e ciò che dovrebbero essere secondo la Costituzione e le buone pratiche di rieducazione. Il cambiamento non avviene perché la politica e gli ultimi ministri della Giustizia hanno avuto un approccio cinico e pavido. Non trattano questi argomenti perché considerano il carcere una risposta semplice a bisogni concreti. Dal punto di vista sociale e culturale, sulle carceri c’è un clima negativo nel Paese. Perciò abbiamo aspettato un anno e mezzo per vedere quei filmati? Le indagini sono partite a ridosso dei fatti e dei filmati si sapeva già da giugno. Lo stesso quotidiano Domani scriveva dell’esistenza delle immagini già dallo scorso ottobre. I maltrattamenti e i depistaggi di quei giorni hanno creato un cortocircuito tra Roma e chi pensava di rimanere impunito. Poi, come emerge dalle stesse chat degli agenti al vaglio degli investigatori, tutti hanno capito che era accaduto qualcosa di terribile. Non si tratta di un gioco delle parti, ma il clima forcaiolo da “gettiamo la chiave” sulle carceri ha contribuito a malintesi e silenzi dannosi tanto quanto gli avvenimenti del 6 aprile 2020. Poi ci sono i depistaggi. Tra questi, stando alle carte della Procura, emergono foto utili a simulare la presenza di armi rudimentali nelle carceri. La presenza di armi, come fornellini e spranghe, dovevano fungere da attenuante all’operato. È importante segnalare che diversi agenti si sono ribellati al depistaggio fatto con le foto scattate dai loro colleghi. Cose del genere contribuiscono a dinamiche che spostano l’attenzione dalla necessità di rinnovamento del sistema carcerario. Nel luglio scorso, per esempio, Matteo Salvini in visita a Santa Maria Capua Vetere si rivolse alla stampa dicendo che “se usano coltelli e ti tirano l’olio bollente non puoi rispondere con le margherite”. Dai tabulati delle chat emerge il “Metodo Poggioreale”. C’è un preciso modus operandi nella gestione delle tensioni nelle carceri? Poggioreale è il carcere più grande d’Europa e per ristabilire l’ordine le guardie applicano il metodo del “branco”. Questo intendevano nelle chat. In un qualsiasi carcere d’Italia se sgarri 6 o 7 guardie ti prendono e ti “dicono chi comanda. Per i comuni mortali è sconvolgente vedere gente inerme trattata in quel modo, ma questo è: gli agenti presi dall’esterno rientrano nella logica dell’utilizzo, in caso di rivolte negli istituti, del Nucleo Operativo d’Intervento. Che all’occorrenza raccoglie agenti nel territorio per risolvere scontri delicati. Nel caso di Santa Maria Capua Vetere, il comandante è ai domiciliari. Come vive chi ha denunciato? La costrizione in carcere è dura. Delle 292 persone abusate solo in 44, più alcuni familiari che sono andati dai carabinieri, hanno denunciato. Queste persone hanno avuto il coraggio e alcuni di loro sono stati trasferiti in altre strutture per questo. Chi è rimasto lì, invece, vive in un clima avverso. Lo stesso Vincenzo Cacace, alla ribalta della cronaca dopo le accuse poi smentite alla direttrice del carcere, lo ha detto. Lo percepisco ogni volta che sono ritornato in quel carcere. C’è anche chi comprende la necessità di questo coraggio. Agenti della Casa Circondariale di Bologna e di Secondigliano, per esempio, hanno espresso solidarietà ai detenuti e sui social hanno chiesto giustizia per l’oltraggio al vivere civile, oltre che alla divisa. Ma davanti a questa coscienza c’è il fatto che, nello stesso carcere di Santa Maria Capua Vetere, continuano a starci gli agenti inquisisti ma a piede libero. Delle 114 guardie penitenziarie che sarebbero coinvolte, infatti, solo 52 sono stati raggiunti dagli ordini di custodia della Procura. La Costituzione vale soltanto se ci sono le telecamere? di Stefano Feltri Il Domani, 4 luglio 2021 Senza un video, gli abusi non interessano a nessuno. Dieci mesi di indifferenza e l’indifferenza rende complici. I media di tutta Italia e gran parte di quelli internazionali hanno rilanciato i video pubblicati da Domani sui pestaggi della Polizia penitenziaria ai danni di detenuti indifesi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il 6 aprile 2020. Lo scandalo è stato grande, la reazione delle istituzioni proporzionata. C’è però un altro scandalo in questa vicenda, che dovrebbe indignarci almeno quanto i pestaggi: il fatto che ci sia voluto quasi un anno perché qualcuno si preoccupasse delle violenze subite dai detenuti di Santa Maria Capua Vetere. Il primo articolo di Nello Trocchia su Domani è del 28 settembre 2020. Per quasi dieci mesi Nello ha continuato a seguire questa storia, della quale sapevamo ormai tutto: abbiamo raccontato il pestaggio, le prove fabbricate dalla polizia penitenziaria per depistare, le coperture istituzionali, le bugie raccontate in parlamento dal sottosegretario Vittorio Ferraresi per conto dell’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Abbiamo scritto tutto, ci mancava soltanto il video, del quale pure avevamo rivelato l’esistenza. E a nessuno interessava. Tolti i soliti Radicali e la galassia di associazioni e attivisti che si occupano di detenuti, ai grandi giornali, alle televisioni, alle testate internazionali e alla politica non fregava assolutamente nulla. Tanto erano carcerati, forse se l’erano meritata una bella lezione, un po’ come i 13 morti nelle rivolte del carcere di Modena del marzo 2020: se fossero rimasti tranquilli sarebbero ancora vivi, se la sono cercata. Questo l’atteggiamento generale. Per fortuna, dopo l’ordinanza del giudice Sergio Enea che ha autorizzato le misure cautelari per 52 persone, un po’ di attenzione è tornata sul caso. E il video recuperato da Nello Trocchia ha fatto il resto. Ma dovrebbe inquietarci tutti, anche noi a piede libero, che in Italia il rispetto dello stato di diritto e della Costituzione sia garantito soltanto dalle telecamere di sorveglianza. Senza un video, gli abusi non interessano a nessuno. E l’indifferenza rende complici. L’omertà istituzionale nelle carceri violente di David Allegranti La Nazione, 4 luglio 2021 Il filosofo del diritto Emilio Santoro: “In trent’anni non siamo stati in grado di ripulire l’amministrazione penitenziaria da questa cultura”. Il carcere è un luogo endemicamente violento. La sua violenza è psicologica e fisica, come dimostrano - a chi ancora non crede o non vuol vedere - i filmati di Santa Maria Capua Vetere, che immortalano i pestaggi in carcere. Pestaggi organizzati, a quanto pare, ma lasciamo pure parlare le indagini, che adesso proseguiranno dopo le 52 misure cautelari a carico di altrettanti agenti di polizia penitenziaria, perché si è garantisti sempre (anche se questo non significa essere fessi). Purtroppo la violenza e i reati commessi da chi dovrebbe invece preoccuparsi della salute delle persone private della libertà personale non sono una novità. Il reato che punisce le torture è relativamente recente, esiste dal 2017, dà la possibilità di denunciare quello che nelle carceri italiane esiste da 30 anni. “Il video di Santa Maria Capua Vetere è impressionante perché ricorda - anche se non abbiamo i video ma le descrizioni puntuali fatte dai detenuti e dagli ex detenuti - Pianosa 1992”, mi dice il filosofo del diritto Emilio Santoro. “Trent’anni fa, con l’attivazione del 41 bis, dopo l’assassinio di Borsellino, nelle carceri d’Italia furono presi tutti i criminali appartenenti alla mafia più gente che disturbava e andava tolta dai piedi. Furono portarono a Pianosa e pestati. In seguito ci fu una sentenza famosa, la Labita; l’Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo perché incapace di fare le indagini. Le violenze furono accertate ma non fummo capaci di individuare i responsabili dei fatti e non ci fu alcun condannato. Anche in quel caso l’organizzazione fu di tutto lo staff del carcere”. Insomma il problema, osserva Santoro paragonando i racconti dei detenuti di Pianosa ai video di Santa Maria Capua Vetere (stessa modalità: detenuti che passano attraverso due ali di agenti e vengono manganellati) è che c’è “una metodologia che si tramanda da 30 anni. In trent’anni non siamo stati in grado di ripulire l’amministrazione penitenziaria da questa cultura che continua ad avere presa sugli agenti di polizia penitenziaria”. Ci sono inchieste per tortura in tutta Italia. Due anche in Toscana, a San Gimignano (condanna in primo grado per dieci agenti di polizia penitenziaria) e a Sollicciano (richiesta di rinvio al giudizio). E poi a Torino, a Ferrara. “La violenza in carcere c’è ma per fortuna oggi le procure la guardano”, dice Santoro. A differenza di prima, le indagini arrivano fino in fondo e si scopre che c’è un mondo agghiacciante che non si ferma soltanto alla polizia penitenziaria. Sotto indagine ci sono anche i medici, accusati di aver dichiarato il falso. È così purtroppo che nasce un contesto favorevole alla violenza: nell’omertà delle istituzioni. Chi dirige il carcere invece avrebbe il dovere di minimizzare la violenza in un luogo ontologicamente violento. I Dem: “Commissione d’inchiesta sulle violenze nelle carceri” Il Tempo, 4 luglio 2021 Il senatore Mirabelli: “Non basta il comitato costituito a Palazzo Madama”. L’idea è quella di proporre la costituzione di una commissione d’inchiesta in Parlamento che tratti non solo la vicenda a Santa Maria Capua a Vetere, ma tutte le violenze che si sono perpetrate nelle carceri italiane negli ultimi anni. “Ci stiamo pensando. È una strada percorribile, occorre fare chiarezza”, dice il senatore dem Franco Mirabelli. In realtà un comitato che dovrebbe valutare tutte le problematiche dei penitenziari italiani è già stato istituito dalla Commissione Giustizia di palazzo Madama ma “sarebbe necessaria - osserva il vicepresidente dei senatori del Pd - una commissione d’inchiesta ad hoc che si occupi di queste situazioni”. Infuria ancora la polemica tra le forze politiche sui pestaggi avvenuti nell’istituto penitenziario campano. Polemica che ha coinvolto anche l’ex Guardasigilli Bonafede. I dem, con il responsabile giustizia Rossomando, hanno invitato la Lega a collaborare sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. “Si tratta - ha spiegato la senatrice - di misure che intervengono sulla revisione dei circuiti penitenziari e un nuovo regolamento di esecuzione, pene alternative, completamento della dotazione organica della polizia penitenziaria anche attraverso personale civile specializzato, utilizzo di nuove tecnologie e vigilanza dinamica a distanza”. Il problema è legato al sovraffollamento delle carceri, con il Pnrr si tenterà di affrontarlo, ma tra le forze politiche si discute anche di norme alternative, anche se sul tema c’è ampia distanza all’interno della maggioranza. Nei prossimi giorni avverrà l’ispezione disposta dal Dap nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dopo il via libera dall’autorità giudiziaria. Sarà il direttore generale detenuti e trattamento del Dap, Gianfranco De Gesu, a guidarla, un segnale che il Dap vuole seguire in modo diretto le attività ispettive. Giovedì Salvini si è recato sul luogo dove sono avvenute le violenze. Chi ha una divisa ha il doppio delle responsabilità e, dunque, deve pagare più degli altri”, ha spiegato. “Però non si può dare del macellaio all’intero corpo della Polizia penitenziaria, che fa un lavoro enorme”, ha aggiunto. Il Pd punta il dito proprio contro il segretario del partito di via Bellerio. La Lega “cerca impossibili giustificazioni per l’immondo pestaggio di Santa Maria Capua Vetere”, dice il senatore dem Marcucci. “Al netto di condannare con fermezza quelle immagini e ogni tipo di violenza, sarebbe importante capire in quale contesto tutto questo è avvenuto e qual era la filiera di comando”, osserva il capogruppo della Lega alla Camera Molinari. “Le inchieste in corso sulle violenze nelle carceri ci interrogano pesantemente sul nostro grado di civiltà. Siamo di fronte a vere e proprie torture di Stato, a cui, nel Paese della Diaz e Bolzaneto, del massacro che portò alla morte di Stefano Cucchi e di altri come lui, non siamo nuovi”, rilancia il senatore di Leu Laforgia. Violenze in carcere, esposto del Dap: “Violata la privacy degli indagati, eccessi mediatici” rainews.it, 4 luglio 2021 La ministra Cartabia chiama il presidente dell’Ordine dei giornalisti. La Ministra della Giustizia Marta Cartabia ha avuto una telefonata con il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Verna dopo la pubblicazione su alcune testate locali dei dati personali di tutti gli indagati per i fatti di Santa Maria Capua Vetere. I vertici del Dap, Bernardo Petralia e Roberto Tartaglia, preannunciano inoltre un esposto al Garante della privacy e hanno già manifestato la propria preoccupazione per questi eccessi mediatici, in una telefonata con i Prefetti di Napoli e Caserta. L’indagine Tra gli episodi di depistaggio emersi nell’indagine sulle violenze nei confronti dei detenuti commesse dagli agenti della Penitenziaria al carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), secondo l’accusa ci fu anche il tentativo di modificare i video delle telecamere interne per falsare la rappresentazione della realtà del 6 aprile 2020, giorno dei violenti pestaggi. Protagonisti, come emerge dall’ordinanza di custodia cautelare, i massimi funzionari dell’amministrazione penitenziaria in Campania, ovvero l’allora comandante Pasquale Colucci e il Provveditore campano Antonio Fullone, il primo ai domiciliari, il secondo sospeso. Lo scopo della manomissione era giustificare la perquisizione straordinaria del 6 aprile, legandola in modo indissolubile, come fosse una diretta conseguenza, alla protesta dei detenuti del giorno prima. Il Gip evidenzia come Colucci acquisisca “indebitamente su mandato di Fullone, il 9 aprile 2020, cinque spezzoni delle video-registrazioni operate in data 5 aprile e relative alla protesta per barricamento”. Colucci, prosegue il Gip, invia i video “attraverso applicativo WhatsApp a Fullone nella stessa data e, a Massimo Oliva (sospeso, ndr), demandandogli l’alterazione mediante eliminazione dell’audio (“Mi togli l’audio?”) nonché l’alterazione della data e dell’ora di creazione, in modo da renderla coerente con quanto riportato nella sua falsa relazione del 6 aprile 2020 e simulare di aver visionato, in tempo reale, ed acquisito gli spezzoni del video - in data 5 aprile - nel corso delle proteste per barricamento, così artefacendo, con autonoma prova documentale, l’evento per giustificare in modo postumo la perquisizione del 6 aprile 2020 e le violenze avvenute nella medesima data”. “Una volta alterati gli spezzoni del video - prosegue il gip - Colucci li consegnava a Francesca Acerra (Commissaria della Penitenziaria sospesa dal servizio, ndr), la quale inviava nella chat di gruppo (composta da Acerra, Colucci, Fullone e..) due dei 5 spezzoni di video, privi dell’audio che riprendevano le proteste dei detenuti”. Gli spezzoni dei video finiscono in un cd-rom che Colucci consegna ad Acerra, e questa a sua volta li consegna ai carabinieri della Compagnia di Santa Maria Capua Vetere a cui sono state delegate le indagini. Quel cd-rom Fullone lo produsse anche nel corso dell’interrogatorio reso agli inquirenti il 10luglio 2020, nonostante “fosse consapevole dell’alterazione”. Lo striscione Intanto, su un cavalcavia di Roma, secondo quanto riferito in ambienti della polizia penitenziaria, è stato trovato uno striscione con il simbolo di un movimento anarchico con scritto: “52 mele marce? Abbattiamo l’albero!”. Lo striscione, secondo quanto si è appreso, è stato poi successivamente rimosso. La frase, minacciosa, ha destato forte preoccupazione in agenti della Polizia Penitenziaria che hanno riferito del fatto. Lo striscione fa riferimento ai 52 poliziotti penitenziari destinatari di misure cautelari emesse per i pestaggi dei detenuti avvenuti il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Uspp: striscione chiaro segnale di pericolo “Lo striscione apparso contro la Polizia Penitenziaria è solo uno dei segnali di pericolo che deve far riflettere chi continua a pubblicare foto nomi e indirizzi di persone appartenenti ad un’istituzione dello Stato che in questo modo di processo pubblico rischiano la reazione di appartenenti alla criminalità mentre vanno giudicati nelle aule di giustizia”. Lo sottolineano, in una nota, Giuseppe Moretti e Ciro Auricchio, rispettivamente presidente nazionale e segretario regionale per la Campania dell’Unione dei Sindacati della Polizia Penitenziaria (Uspp). “Troppa attenzione mediatica - aggiungono - rischia di generare pericoli anche per la tenuta del sistema carceri dove fino a prova contraria è la polizia penitenziaria a mantenere l’ordine, la sicurezza e la legalità che non può essere considerata solo all’interno delle mura perimetrali dei penitenziari ma anche per l’intera società pubblica”. “Il 7 luglio - fanno sapere i due sindacalisti - nell’incontro con la Ministra Cartabia affronteremo si spera finalmente nodi cruciali per la credibilità del Corpo che va si riformato ma proprio per il desolante abbandono a se stesso impegnato a colmare criticità giornaliere senza risorse umane e materiali in ambienti inidonei a garantirne l’incolumità psicofisica. Un Corpo che deve poter vedere rilanciare il suo ruolo essendo il fulcro sella tenuta della certezza della pena”. “Chiediamo a chi ha la responsabilità politica e amministrativa - concludono Moretti e Auricchio - provvedimenti a tutela di chi svolgendo correttamente il proprio lavoro fa un servizio pubblico e non può rischiare a causa di azioni che se accertate andranno punite con un regolare processo nelle aule del tribunale e non in piazza”. Cartabia sente i vertici dell’Ordine dei giornalisti La Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha avuto una telefonata con il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, dopo la pubblicazione, su testate locali, di dati personali di tuti gli indagati per i fatti di Santa Maria Capua Vetere. È quanto si apprende da fonti di via Arenula. I vertici del Dap, Bernardo Petralia e Roberto Tartaglia, proseguono le fonti, preannunciano un esposto al Garante della privacy e hanno già manifestato la propria preoccupazione per questi eccessi mediatici, in una telefonata con i Prefetti di Napoli e Caserta. Carceri, gli agenti a Cartabia: “Così non si può più lavorare” di Francesco Grignetti La Stampa, 4 luglio 2021 I sindacati in piazza: restituiranno le chiavi delle prigioni alla ministra della Giustizia. Il delicatissimo equilibrio su cui vivono le carceri è incrinato. E ora tocca alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, riprenderne i fili. C’è infatti il Corpo della Polizia penitenziaria, finito nell’occhio del ciclone per le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, e non solo lì, che è sull’orlo della crisi di nervi. Il primo segnale viene dal sindacato autonomo Sappe, di gran lunga il più rappresentativo, che è tentato da un gran rifiuto. Mettono in dubbio di partecipare all’incontro straordinario organizzato dalla ministra martedì prossimo a Via Arenula. “Un vertice a favor di opinione pubblica”, insorge il leader del sindacato, Donato Capece. Ma è solo l’assaggio di quel che potrebbe accadere. Nei prossimi giorni, il Sappe terrà un sit-in di protesta sotto il palazzo della Direzione dell’Amministrazione penitenziaria. Nell’occasione, i sindacalisti in divisa “restituiranno” al vertice del Dap le chiavi delle prigioni, di cui loro sono i custodi. “Sarà un gesto simbolico, ovviamente. Non possiamo mica buttare le chiavi e non andare al lavoro”, precisa Capece. E questa però sarà solo la prima di una serie di proteste che stanno mettendo in cantiere. “Che ci vadano loro, a garantire la sicurezza là dentro. A queste condizioni è un lavoro che non vogliamo più fare”. È allarme rosso, di conseguenza, al vertice del ministero La prima contromossa di Cartabia è stata una telefonata di doglianze al presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, lamentando che si è superato il limite del diritto di cronaca, dopo la pubblicazione su alcune testate locali dei dati personali di tutti gli agenti indagati. A loro volta i vertici del Dap, Bernardo Petralia e Roberto Tartaglia, preannunciano un esposto al Garante della privacy e hanno già manifestato la propria preoccupazione per questi eccessi mediatici, in una telefonata con i prefetti di Napoli e Caserta. La denuncia della “gogna mediatica” è un primo tentativo di recupero verso un Corpo che si sente sotto pressione. “Ci hanno fatti passare - insiste Capece - per manganellatori e torturatori. Tutti a parlare di macelleria messicana. Ma non è così. È ingiusto per migliaia di colleghi che fanno onestamente il loro lavoro. Chi ha sbagliato, pagherà. Ma ricordo a tutti che in questo Paese il giudizio tocca all’autorità giudiziaria. E non dimentico che i colleghi a Santa Maria Capua Vetere nei giorni della rivolta erano usciti con le magliette sporche di sangue”. È un fiume in piena, il leader del Sappe. Che nel mondo delle carceri è uno che pesa parecchio. Non risparmia il sottosegretario Francesco Paolo Sisto: “Come si fa a pensare al carcere come ad un’unica comunità, senza distinguere chi è in carcere a rappresentare lo Stato e chi è ristretto per avere commesso reati?”. Ce l’ha con la ministra: “Da lei, zero attenzione per noi”. Ce l’ha con i media: “Si fanno sentenze”. Denuncia, Capece: “A Santa Maria Capua Vetere, da due giorni misteriosamente i telefoni fissi non funzionano più. La criminalità organizzata ha isolato l’istituto. Ci vogliono intimidire. A Melito, lì vicino, alcuni colleghi che stavano montando di turno sono stati fermati per strada e insultati, colpiti dal lancio di pomodori. Ora per precauzione i direttori ci ordinano di andare vestiti in borghese per evitare aggressioni. Ecco, questo è il risultato di averci criminalizzati tutti. Noi, con stipendi dei più giovani che non superano i 1.400 euro, saltando ferie e riposi per coprire i vuoti di organico, facciamo un lavoro di schifo. A chi ci critica, dico: stateci voi tutti i giorni con i delinquenti”. Minacce agli agenti, l’avviso del direttore: “Non indossate più la divisa in strada” di Liana Milella La Repubblica, 4 luglio 2021 L’avviso campeggia in bella evidenza nella bacheca del carcere di Secondigliano. Non è un ordine, ma un consiglio al personale della Polizia penitenziaria: “A seguito dei fatti di cronaca accaduti a Santa Maria Capua Vetere indossate abiti civili nel tragitto da e per questo istituto”. Firmato Giulia Russo, la direttrice del supercarcere. Una decisione che svela quello che a Roma, tra ministero della Giustizia e direzione delle carceri, definiscono “un brutto clima”. Al punto che Carmelo Cantone, provveditore del Lazio appena incaricato di occuparsi anche della Campania, giovedì ha fatto una scelta che non ha precedenti. A tutti i direttori delle prigioni della regione ha raccomandato di dare un consiglio agli agenti per garantire la propria incolumità: “In questo momento - conferma Cantone a Repubblica - è meglio mettersi la divisa all’interno del carcere, e non andarci in giro”. Eh sì, purtroppo le immagini delle violenze contro i detenuti di Santa Maria stanno scatenando un clima ostile. Ne sono preoccupati i vertici del Dap, Dino Petralia e Roberto Tartaglia, ma la stessa ministra Marta Cartabia che ha telefonato al presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, per via degli indirizzi di casa degli agenti inquisiti resi pubblici. E Petralia e Tartaglia si stanno per rivolgere al Garante della privacy. Ma è “il brutto clima” che preoccupa. Perché c’è un dossier anti-agenti che di giorno in giorno diventa sempre più ricco. Vediamo cosa contiene. Innanzitutto la ragione per cui si è mosso il provveditore Cantone. È successo che in zona Secondigliano più di un agente che andava al lavoro in divisa s’è visto piovere addosso degli “ortaggi” - così li chiama la nota di servizio, ma doveva trattarsi di pomodori - lanciati da persone a bordo di scooter. Non basta. Ecco, a Roma, cosa si poteva leggere ieri mattina sulla campata di un cavalcavia finché non è stato cancellato: “52 mele marce? Abbattiamo l’albero”, seguito da un cerchio attraversato da una freccia, simbolo degli squatter. Digos della polizia e Nucleo investigativo centrale della penitenziaria sono in allarme. Anche perché c’è dell’altro. Come la scritta comparsa sulla fiancata di una casa: “Non esistono le mele marce, il carcere è tortura”. E poi un manifesto diffuso in Sardegna dal titolo minaccioso, “non lasciamo soli i detenuti, lasciamo sole le guardie”. Seguito da un testo che al Dap hanno letto con allarme. L’invito è netto, “isoliamo le guardie”. Le motivazioni sintetiche: “I secondini hanno scelto di chiudere a chiave altre persone per uno stipendio mensile. Ogni tanto viene fuori la notizia che pestano e torturano i detenuti. Questo basta per non dargli confidenza, per isolarli e non portargli rispetto: questo è ciò che dovremmo fare quando sappiamo che uno fa il secondino. Per strada, nel palazzo di casa, al bar, al parchetto”. Gruppi anarchici? La Digos segue questa pista. Ma Cartabia e il Dap si preoccupano. Al punto da dare quell’inedito consiglio, meglio andare al lavoro senza mettersi la divisa. Salvini attacca Bonafede. Per FdI c’è una “rappresaglia mediatica” contro gli agenti di Nello Trocchia Il Domani, 4 luglio 2021 Sulla spedizione punitiva consumata il 6 aprile del 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere si consuma uno scontro politico tutti contro tutti. Il leader della Lega, Matteo Salvini, che prima della diffusione da parte di questo giornale del video del pestaggio dei detenuti aveva sempre difeso gli agenti, ora attacca l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: “Mentì: o dormiva o non capiva”, ha detto il leghista. La giravolta del leader del Carroccio è avvenuta proprio nel giorno della sua visita al carcere casertano, lo scorso 1° luglio. E ieri dopo le sue parole su Bonafede, il capogruppo del M5s in commissione giustizia alla Camera gli ha ricordato come pochi giorni prima avesse puntato il dito “contro il nostro ex ministro reo, secondo lui, di non difendere dalle violenze dei detenuti gli agenti penitenziari accusati di torture. A questo punto la domanda ci pare legittima: parliamo dello stesso Salvini che oggi attacca Bonafede accusandolo di avere responsabilità sui fatti accaduti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere o si tratta di un suo omonimo?”. Una campagna denigratoria - Fratelli d’Italia, invece, con il coordinatore nazionale Edmondo Cirielli arriva a denunciare una “campagna denigratoria” nei confronti della polizia penitenziaria. “È inaccettabile che dei servitori dello stato vengono quotidianamente presi di mira su giornali e televisioni senza avere la possibilità di difendersi. Questa rappresaglia mediatica contro gli agenti penitenziari rischia di generare pericoli anche per la tenuta del sistema carceri, dove sono proprio loro a garantire la legalità e la sicurezza, nonostante la grave e permanente mancanza di organico e l’assenza di strumenti utili alla difesa come il taser”, ha detto Cirielli, non è chiaro se riferendosi ad alcuni giornali locali che ieri hanno pubblicato i nomi e i cognomi degli indagati. Lo striscione - Cirielli non è il solo a prendersela con i media. Ieri mattina, secondo quanto riferito in ambienti della polizia penitenziaria, è stato trovato su un cavalcavia di Roma uno striscione con la frase “52 mele marce? Abbattiamo l’albero!” e il simbolo di un movimento anarchico. Gli agenti che hanno riportato il fatto hanno denunciato forte preoccupazione per la minaccia. Il presidente nazionale dell’Unione dei sindacati della Polizia penitenziaria (Uspp) Giuseppe Moretti e il segretario dell’Uspp Campania, Ciro Auricchio, hanno commentato sottolineando la “troppa attenzione mediatica” che “rischia di generare pericoli anche per la tenuta del sistema carceri dove fino a prova contraria è la polizia penitenziaria a l’ordine, la sicurezza e la legalità che non può essere considerata solo all’interno delle mura perimetrali dei penitenziari ma anche per l’intera società”. Il Dap si difende - Pd e Italia viva, invece, hanno chiesto alla ministra della giustizia Cartabia di indagare all’interno del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) per capire da chi sia stata avallata l’azione nei reparti dirigenziali. E ieri il direttore del Dap, Francesco Basentini, intervistato dal Corriere della sera, si è difeso: “Sono stato io a consegnare ai magistrati la copia delle mie conversazioni in chat con il provveditore della Campania Antonio Fullone. Dire che sapessi quello che era avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è pura follia”. “Il provveditore Fullone mi informò che il 5 aprile un gruppo di 50 detenuti si era barricato all’interno di un reparto. Mi disse che aveva avviato un dialogo ed effettivamente riuscì a tenere la situazione sotto controllo”. Basentini ha detto di essere stato informato il giorno successivo che avevano proceduto a una perquisizione straordinaria”, da lui approvata nel nome della fiducia e della professionalità del provveditore. Se avesse saputo, conclude, non avrebbe esitato a denunciare. Azione contro il Pd - La strada di una commissione parlamentare di inchiesta sulle violenze sostenuta da eletti sia del Partito democratico che del Movimento cinque stelle, intanto, viene picconata anche dal centro. Ieri Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, il partito di Calenda, ha definito la proposta una presa in giro: “Il Pd ora chiede una commissione d’inchiesta sui maltrattamenti dei detenuti? Al momento dei fatti di Santa Maria Capua Vetere loro erano al governo con M5s, sostenevano Bonafede, il loro segretario ha parlato di “doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto”. Chi vogliono prendere in giro?”. Il giorno prima il senatore dem Franco Mirabelli aveva definito lo strumento della commissione di inchiesta percorribile e utile per fare chiarezza. Violenze e punizioni rituali contro i detenuti pestati di Adriana Pollice Il Manifesto, 4 luglio 2021 Il Dap sapeva dal 26 aprile della “perquisizione” a Santa Maria Capua Vetere ma nessun provvedimento è stato preso per oltre un anno rispetto al personale coinvolto. Sono stati in sei, ieri, a sostenere l’interrogatorio di garanzia con il gip Sergio Enea, 32 in totale gli indagati già sentiti sui 52 destinatari di misure di garanzia (8 sono in carcere, 18 ai domiciliari, 3 con obbligo di dimora) per l’inchiesta sui pestaggi ai danni dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile 2020. La maggior parte ha scelto di non rispondere, alcuni hanno reso dichiarazioni spontanee. Per adesso sono due le tesi difensive: “Le modalità di intervento sono state decise dai miei superiori” ma c’è chi ha scaricato la responsabilità sugli agenti arrivati a supporto da Secondigliano, agenti che non è stato possibile identificare perché col viso coperto e ignoti ai detenuti. I 52 sono stati sospesi dal servizio: il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha disposto la misura martedì scorso, solo dopo i provvedimenti del gip. Sospese da venerdì ulteriori 25 persone, ancora sotto indagine. Per oltre un anno sono rimasti tutti al loro posto di lavoro. Francesco Basentini, direttore del Dap all’epoca dei fatti (dimessosi poi ai primi di maggio), al Corriere ha spiegato: “La relazione mandata al Dap è del 26 aprile, prima non ero mai stato informato di quanto avvenuto nelle sezioni”. E ancora: “A settembre sono stato interrogato dai magistrati come persona informata dei fatti. Se avessi avuto informazioni su quello che era successo non avrei esitato a disporre provvedimenti cautelari a carico dei responsabili”. Almeno dal 26 aprile i fatti stavano venendo fuori ma nessun provvedimento venne preso. A giugno 2020 arrivarono anche gli avvisi di garanzia e ancora nessun provvedimento. Lo scorso ottobre, nella replica dell’allora ministro della Giustizia Bonafede all’interpellanza di Riccardo Magi di +Europa Radicali, si legge: “Con nota 3 luglio 2020, il locale provveditore ha trasmesso al Dap l’elenco del personale nei confronti del quale è stata data formale comunicazione dell’avvio di procedimento penale da parte della procura di S. M. Capua Vetere”. Anche allora nulla. Perché sia preoccupante lo spiegano gli atti. Le misure cautelari sono state adottate perché c’è “il concreto pericolo che gli indagati commettano ancora delitti della stessa specie di quelli per cui si procede” ossia torture, maltrattamenti, lesioni, falso, calunnia, favoreggiamento, frode processuale e depistaggio. “L’attività di indagine ha consentito di disvelare un uso diffuso della violenza - scrive il gip - intesa da molti ufficiali e agenti di polizia penitenziaria come l’unico espediente efficace per ottenere la completa obbedienza dei detenuti, tesi inaccettabile in uno stato di diritto”. E ancora: “Che la violenza costituisca con tutta probabilità una costante nel rapporto fra gli indagati e i detenuti lo si evince dai filmati di videosorveglianza. Si nota che gli agenti in modo del tutto naturale compiono dei gesti quasi “rituali”, come nel caso in cui si dispongono a formare un “corridoio umano” tutte le volte in cui i detenuti si apprestano a transitare e cominciano a picchiarli con estrema violenza, sebbene inermi”. Il 5 aprile i detenuti avevano protestato temendo il diffondersi del Covid. L’azione era terminata pacificamente. Nelle chat viene fuori “l’assoluta insofferenza di un numero significativo di agenti e ufficiali rispetto al metodo del dialogo che si stava utilizzando con i detenuti in rivolta, tanto da mettere anche in dubbio le capacità di comando”. Pasquale Colucci, comandante del nucleo traduzioni e piantonamenti, scrive la notte tra il 5 e il 6: “Il personale di smcv è molto deluso. Si sono raccolti per contestare il comandante”. Poi arriva la decisione di effettuare “la perquisizione” e il tono dei messaggi cambia: “Spero che pigliano tante di quelle mazzate che domani li devono trova tutti ammalati”. Ad azione terminata: “Aho ci siano rifatti. 350 passati e ripassati”. Il gip scrive: “I pestaggi sono stati pianificati con modalità tale da impedire ai detenuti di conoscere i propri aggressori. Le vittime erano costrette a comminare con la testa rivolta al suolo e nella sala della socialità erano posti con la faccia al muro, mentre venivano picchiati da tergo”. I vertici (come il comandante della polizia penitenziaria, Manganelli, e la comandante del Nic di Napoli, Francesca Acerra) hanno contribuito a confezionare falsi documenti e depistaggi. “A seguito del disvelamento dell’indagine - si legge negli atti - si è assistito a una deprimente quanto incessante attività di manipolazione”. I filmati della videosorveglianza hanno ripreso solo una parte di quanto accaduto. Uno degli agenti in chat: “Mi hanno potuto vedere che tiravo qualche pugno con le chiavi in testa a D’Avino (un detenuto ndr)”. Il collega: “Ma il lato tuo non ci stanno le telecamere”. E il primo: “Eh là bravo, quelle già non ci stavano, è là che feci un buco in testa a D’Avino e a quegli altri due”. Il crimine al di là delle ideologie di Moni Ovadia Il Manifesto, 4 luglio 2021 Santa Maria Capua Vetere. Le affermazioni perentorie non appartengono al mio costume mentale e men che meno a quello etico. Questa volta farò un’eccezione. Un gruppo di uomini che si accaniscono contro una persona inerme con percosse, o corpi contundenti sono un branco di vigliacchi sadici, o sono afflitti da una grave psicopatologia e devono essere sottoposti a terapie specifiche per impedire loro di nuocere. Chi guarda una azione cosi ripugnante senza reagire si comporta da vile. E sia chiaro, non importa chi sia la persona aggredita, anche se si tratta di un criminale assassino, un aguzzino, un torturatore, un criminale di guerra o di un genocida. In una civiltà che si voglia tale si seguono le regole della giustizia altrimenti le differenze fra il criminale e la vittima si stingono fino a rendersi indistinguibili. Se si possono capire le reazioni di istintiva ed incontrollata aggressività di una madre o di un padre incontrando l’assassino del proprio figlio, non è lecito giustificarla. E non ci può essere nessuna comprensione per il branco che massacra l’inerme o vuole linciarlo. Se poi ci volgiamo verso la fattispecie per la quale siamo stati chiamati a confrontarci dalla visione di alcuni video di una parte della “macelleria” programmata a freddo e messa in atto da un folto numero di agenti di custodia contro i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere per “vendetta” - i detenuti avevano inscenato una protesta per timore di contagio da Covid - tutto cambia. Ancorché parziali, le immagini trasmesse dalle televisioni ricavate dalle camere di sorveglianza grazie ad uno scoop di un giornalista del quotidiano Domani erano raccapriccianti, pugni, schiaffi, manganellate, calci, umiliazioni. I video hanno provocato, come prevedibile, le reazioni indignate di commentatori, giornalisti, conduttori e politici vari. Ci sono state anche, come di prammatica, espressioni di solidarietà verso le forze di polizia garanti della sicurezza dei cittadini. I tutori dell’ordine, se non vado errato, giurano fedeltà alla Costituzione Repubblicana, e garantiscono sicurezza ai cittadini nel quadro delle leggi e dei valori inalienabili espressi dalla Carta. Quando un poliziotto, un carabiniere o un agente di custodia si comporta come tale, la solidarietà nei suoi confronti è naturale e doverosa. Ma quando egli viola oltre ogni ragionevole dubbio le leggi del codice e quelle basilari dell’umanità, non solo non merita solidarietà bensì merita disprezzo e condanna. Una donna o un uomo che hanno titolo a indossare una divisa e a portare armi che li qualifica come rappresentanti dello stato, dovrebbero comportarsi come un pugile, un karateka o un maestro di arti marziali ed esercitare il massimo controllo sulla loro capacità di ferire, infierire e persino di uccidere. Un essere umano e, a fortiori, un servitore dello Stato dovrebbero sapere e sentire che un detenuto in attesa di giudizio e un condannato sono ristretti nel carcere per espiare una pena, ma quale che sia la loro colpa rimangono esseri umani, l’integrità della loro persona, la loro dignità personale e sociale sono inviolabili. Appartengono a loro e solo a loro. Non sono a disposizione né dell’autorità di polizia, né di quella investigativa, né di quella giudicante, né di quella carceraria. E quella delle guardie delle carceri deve custodire e garantire dignità ed integrità. Non sono un uomo ingenuo e sprovveduto, so quali siano le condizioni del nostro sistema carcerario, quanto siano dure e alienanti, non solo per i detenuti ma anche per le guardie. La Corte Europea dei Diritti ha ripetutamente condannato il nostro Paese per le sue violazioni, le sue carenze e le sue inadempienze. La mediocre classe dirigente dell’Italia, in particolare di quella politica, con rarissime eccezioni, non si occupa di questo decisivo problema nel tracciare il confine che separa barbarie da civiltà. Anche una parte non piccola dei nostri concittadini sa essere molto forcaiola quando si tratta dei detenuti che appartengono ai ceti diseredati. Per tutto ciò dobbiamo tenere a mente il monito che ci viene dal secolo breve e feroce: quando si espungono da un essere umano integrità e dignità lo si trasforma in uno “stuck”, un “pezzo” e risuona l’eco dei vagoni piombati con destinazione sterminio. Il Dap conosceva i nomi degli agenti dei pestaggi da un anno, e non li ha trasferiti di Fulvio Bufi Corriere della Sera, 4 luglio 2021 Le tappe dopo il pestaggio: nessuno degli agenti coinvolti è stato trasferito né sospeso, tutti sono rimasti a contatto con i detenuti che li avevano denunciati. Venerdì, invece, una trentina di detenuti sono stati improvvisamente trasferiti, anche fuori dalla Regione. Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria conosceva da un anno i nomi degli agenti in servizio nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere indagati per i pestaggi ai detenuti del 6 aprile 2020 ma non ha adottato alcun provvedimento, né di sospensione né di trasferimento. Lo si deduce con chiarezza dalle parole che il 16 ottobre 2020 l’allora sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi pronunciò in Parlamento rispondendo all’interrogazione del deputato di +Europa Riccardo Magi sui fatti accaduti nel carcere casertano. “Con riferimento agli agenti attinti dagli avvisi di garanzia e da decreti di perquisizione - disse Ferraresi - si evidenzia che, con nota 3 luglio 2020, il locale provveditore ha trasmesso al Dap l’elenco del personale del Corpo nei confronti del quale è stata data formale comunicazione dell’avvio di procedimento penale da parte della procura”. Viene quindi da chiedersi perché gli indagati rimasero tutti al proprio posto, quotidianamente a contatto con i detenuti che li avevano denunciati. La motivazione, secondo quanto trapela dal Dap, sarebbe da ricercare nell’impossibilità da parte del dipartimento di conoscere i reati che venivano contestati agli agenti. Dalla Campania era stato mandato l’elenco dei nomi, ma non le singole posizioni. Né chiarimenti in questo senso sarebbero arrivati successivamente, quando tre ulteriori richieste di informazioni inviate, tra luglio e ottobre direttamente ai magistrati inquirenti, rimasero senza alcuna risposta. In mancanza di questi elementi il Dap non avrebbe potuto motivare i trasferimenti con precise contestazioni. E inoltre trasferire un poliziotto sotto inchiesta avrebbe potuto interferire con il lavoro investigativo di magistrati e carabinieri e con la loro ricerca di ulteriori elementi d’accusa per ognuno degli indagati. In parte queste cose erano già spiegate nella risposta di Ferraresi all’interrogazione di Magi: “Con nota 8 luglio 2020, la competente Direzione generale del personale e delle risorse ha chiesto alla direzione dell’istituto di acquisire, presso la competente autorità giudiziaria, copia integrale degli avvisi di garanzia a carico del personale di polizia penitenziaria coinvolto, al fine di conoscere le contestazioni. In assenza di riscontro, con nota 28 settembre 2020, n. 336014, la competente direzione generale del personale e delle risorse del Dap ha chiesto direttamente alla procura della repubblica-tribunale di Santa Maria Capua Vetere copia integrale degli avvisi di garanzia, evidenziando che la richiesta costituisce elemento indispensabile ai fini di ogni determinazione da parte di questa amministrazione. Infatti, come sa, se un’indagine è aperta, ovviamente, il Dap o la direzione del carcere, per eventuali accertamenti, deve prima chiedere all’autorità giudiziaria l’assenso. Anche per tale ragione, allo stato, non risulta intrapresa alcuna iniziativa, sia di natura cautelare sia disciplinare, a carico del personale coinvolto”. Quindi sono rimasti tutti lì, denuncianti e denunciati. E gli spostamenti, solo dei denuncianti, però, sono cronaca di queste ore. Venerdì sera, infatti, una trentina di detenuti del reparto Nilo sono stati improvvisamente trasferiti in vari istituti di pena, anche di regioni diverse dalla Campania. Il provvedimento, disposto come da prassi dal Dap, stavolta è stato adottato in parte anche d’intesa con la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, perché coinvolge alcuni dei reclusi le cui testimonianze sono agli atti dell’inchiesta. Si tratterebbe quindi di provvedimenti a tutela degli stessi reclusi, ma ci sarebbe anche un altro motivo: dopo gli arresti e le altre misure cautelari emesse dal gip, il dipartimento ha sospeso non soltanto, come era ovvio, chi è finito in carcere o ai domiciliari e che è stato interdetto, ma anche altri venticinque appartenenti all’amministrazione penitenziaria coinvolti in questa inchiesta che conta complessivamente più di centocinquanta indagati. Di conseguenza negli ultimi giorni il personale in servizio al Nilo si è decisamente ridotto, e il rapporto numerico tra agenti e detenuti ne è risultato sbilanciato. I trasferimenti servirebbero quindi anche a ristabilire l’equilibrio necessario per la gestione delle otto sezioni del reparto secondo gli abituali standard. Ostacoli e depistaggi per bloccare i video del carcere di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 4 luglio 2021 Come scrive il gip, è grazie alle riprese interne, in tanti altri casi non disponibili, se sarà possibile fare luce sul caso del pestaggio all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ma non è stato facile mettere quei file in sicurezza e gli indagati hanno cercato di alterarli. “Ciò che caratterizza la vicenda in esame è il fatto che la prova delle condotte delittuose poste in essere il 6 aprile 2020 ai danni dei detenuti del reparto Nilo è in larga parte evincibile in modo inequivoco dalla visione delle riprese video del circuito di videosorveglianza del carcere”. Come scrive il gip Sergio Enea nell’ordinanza che ha disposto le misure cautelari per gli agenti di polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, se questa volta la storia delle violenze all’interno delle mura di un carcere può essere ricostruita è perché ci sono le immagini delle videocamere interne. Non tutte, visto che in due piani su cinque (il piano terra e il quarto) l’impianto di riprese interne risulta fuori uso. Ma i video “di diverse ore” arrivati in procura e dai magistrati inquirenti mostrati alle vittime del pestaggio - quelli che noi conosciamo perché pubblicati in un montaggio da Domani - sono fondamentali per provare le accuse. Sono, come scrive ancora il gip, “un presidio di conoscenza ineludibile”. Grazie al fatto che sono stati messi in sicurezza. Non è stato semplicissimo. Come ricostruisce l’ordinanza, il 10 aprile 2020 i carabinieri di Santa Maria Capua Vetere si presentano in carcere per chiedere le registrazioni video. Dalla violentissima “perquisizione straordinaria” sono passati quattro giorni, Ma sono passate solo poche ore dalla ispezione nel reparto Nilo da parte del magistrato di sorveglianza Marco Puglia (arrivato senza preavviso in carcere la sera del 9 aprile). Di fonte alla richiesta dei carabinieri “il personale penitenziario prospettava l’impossibilità di intervenire sull’impianto di videosorveglianza in assenza di personale tecnico”. Il giorno dopo, 11 aprile i carabinieri nominano un ausiliario di polizia giudiziaria perché scarichi i file delle videoregistrazioni, Ma anche questa operazione risulta impossibile. Allora procedono al sequestro di tutto l’impianto, nominando custode la comandante della polizia penitenziaria del carcere Nunzia Di Donato (poi anche lei indagata). Passano altri tre giorni e solo il 14 aprile il consulente tecnico riesce a scaricare i video delle riprese all’interno del reparto Nilo del 5 e 6 aprile. Il garante nazionale dei detenuti Palma ha spiegato qual è il rischio con queste registrazioni all’interno dei penitenziari: si conservano solo per pochi giorni, poi vengono sovrascritte. Per questo stavolta è stata fondamentale la loro acquisizione rapida. Anche perché uno dei tentativi di depistaggio da parte degli indagati ha riguardato proprio i video. Secondo le ipotesi dell’accusa accolte dal gip, infatti, il 9 aprile 2020 quando ormai la notizia del pestaggio era uscita dal carcere grazie ai racconti dei detenuti nei colloqui con i familiari, il comandante del nucleo operativo del carcere di Secondigliano Pasquale Colucci, che aveva guidato la pattuglia di agenti arrivati da Napoli per la “perquisizione straordinaria” e che adesso è in custodia cautelare in carcere, visionò i filmati delle proteste dei detenuti del 5 aprile. E visionandoli li riprese con il suo telefono su incarico del provveditore regionale alle carceri Antonio Fullone. Poi inviò cinque spezzoni video a un altro agente di polizia penitenziaria, Massimo Oliva, chiedendogli di togliere l’audio e di cambiare la data del file, retrodatando la sua ripresa del video dal 9 al 6 aprile 2020. Alla fine questi file sono stati consegnati ai carabinieri come prova che la “perquisizione straordinaria” era stata decisa come reazione spontanea e immediata alla rivolta dei detenuti del Nilo Violenza in carcere, la guardia che si oppose: “Ma un collega mi disse di pensare a me” di Conchita Sannino La Repubblica, 4 luglio 2021 L’ispettore Crocco è uno dei 52 indagati per i pestaggi a Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020: “Alcuni detenuti hanno confermato che intervenni per difenderli”. “Non so come nacque quella “perquisizione”, so che ci trovammo in istituto i colleghi del Gruppo speciale di supporto che venivano da fuori. Era impossibile arginare ciò che stava avvenendo. Ci ho provato, in più occasioni ho tentato di evitare dei colpi ai detenuti. Alcuni dei carcerati possono raccontarlo. E dai filmati si vede che cerco di sottrarne alcuni alle percosse. Ma a un certo punto, quando nella concitazione di quei momenti, alcuni colpi hanno preso anche me, ho dovuto fermarmi. Sono cardiopatico, ho subito un’operazione a cuore aperto anni fa. Ho prodotto al giudice tutta la mia documentazione sanitaria”. Parla con Repubblica l’ispettore Giuseppe Crocco, attraverso il suo avvocato Dezio Ferraro. Piccole crepe si aprono, nell’inchiesta sulla mattanza in carcere che, il 6 aprile 2020, ha oltraggiato lo Stato a Santa Maria Capua Vetere. Ma quella dell’indagato Crocco è una voce diversa dalle altre, a leggere le carte. L’ispettore, scrive il gip Sergio Enea, “è stato pressoché l’unico ad essersi fattivamente attivato per contenere l’escandescenza dei suoi sottoposti, intervenendo più volte energicamente”, circostanza riscontrata dalle dichiarazioni di alcuni detenuti. Il gip, esaminando video e dichiarazioni delle vittime, sottolinea: “Il detenuto Pasquale Bottone lo riconosce come colui che lo ha protetto, il detenuto Pasquale Luca sottolinea che è stato l’unico che non lo ha picchiato”. Evidenzia che “Crocco ferma il pestaggio sul detenuto Luigi Fumo” e che, “anche quando intima ai reclusi di volgere la faccia verso il muro, dai filmati si evince che è l’unico che prova a fermare i suoi colleghi che pestano”. Ed è anche “l’unico - scrive sempre il gip - tra gli ispettori di quel Reparto”, a non realizzare carte false ex post per coprire le spalle ai colleghi. Cioè: “A non sottoscrivere quella nota del 6 aprile in cui è stato falsamente rappresentato che i detenuti avevano opposto resistenza”. Frasi che fanno da contraltare alle condotte di vertici, come il provveditore Antonio Fullone, che dinanzi all’autorità giudiziaria presenta relazioni e foto di cui - per i pm - conosce la falsità. E che servirebbero a giustificare surrettiziamente quelle violenze sulle cui indagini si è attivata la macchina del depistaggio da parte del comandante del Gruppo speciale Pasquale Colucci. Così, Crocco è la anomala figura dell’indagato che guarda, che cerca di salvarne alcuni, che torna a guardare, che evita colpi a un altro, che si ferma accanto a uno che piange. E alla fine è bloccato da un collega che gli dice: pensa a te. Ha 52 anni e la famiglia nel Casertano. Crocco sembra ancora sotto choc per lo scandalo. La Procura aveva chiesto il carcere anche per lui, ma il giudice - pur di fronte alle accuse che restano gravi: concorso in torture, lesioni e maltrattamenti - ha attenuato la sua posizione disponendo l’obbligo di dimora. E l’ispettore ha reso una lunga dichiarazione spontanea al gip. “Ero molto provato - dice - perché questa vicenda non appartiene alla mia storia e al mio legame con la divisa, e perché, da cardiopatico, non riuscivo a reggere. In più occasioni, come gli atti dimostrano, ho cercato di evitare che i detenuti prendessero colpi”. Ma chi erano questi suoi colleghi? E perché agivano come picchiatori? Che ordini avevano avuto? “Erano determinati, questo posso dire”. Interviene il legale: “Per rispetto della magistratura che sta compiendo accertamenti, Crocco ripete ciò che in coscienza ha voluto dire al gip”. Ovvero: noi operatori di Santa Maria abbiamo visto arrivare i colleghi del Gruppo di supporto, (costituito anche da colleghi di Secondigliano e guidati da Colucci, ndr) e abbiamo saputo che si doveva procedere a perquisizione”. L’avvocato Ferraro ricorda che “alcune vittime hanno testimoniato che l’ispettore Crocco in più casi li ha coperti o sottratti ai colpi”. Ma perché non ha denunciato? Aggiunge Ferraro: “Il mio assistito non può andare oltre. Ma è agli atti che mentre lui provava a evitare che alcuni venissero picchiati, alcune manganellate hanno colpito proprio Crocco. E alcuni gli hanno detto: fatti i fatti tuoi”. Saprebbe riconoscerli? “No. Gli operatori provenienti dall’esterno avevano il casco integrale”, ricorda l’avvocato. “No”, ripete Crocco, inedita figura di quelle ore della vergogna, con la divisa dei picchiatori e il cuore a rischio delle vittime. Mattanza nelle carceri: la riproduzione delle brutalità sistematiche del dominio liberista di Salvatore Palidda MicroMega, 4 luglio 2021 C’è voluta la diffusione dei video dei pestaggi per far diventare “notizia” un fatto di cui tutti quelli che dovevano sapere erano a conoscenza. E intanto le realtà che si battono per la tutela di chi è in carcere continuano a essere inascoltate o, addirittura, messe al bando. La terribile mattanza da parte di operatori della polizia penitenziaria a Santa Maria Capua Vetere era nota sin dal giorno dei fatti solo grazie alla denuncia del Garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello. Ma c’è voluta la pubblicazione del video di tali fatti sul quotidiano Domani e poi su tutti i media nazionali per stupire, indignare e far reagire una parte dell’opinione pubblica. Questa è l’ennesima dimostrazione che per “diventare virale” la notizia deve essere corredata da “immagini forti”. Meglio che niente si può dire; una volta tanto i social e i media hanno diffuso un’informazione importante per la tutela dell’incolumità e dei diritti fondamentali di tutti gli esseri umani. Ma questa scoperta tardiva di un episodio tanto grave lascia quantomeno l’amaro in bocca alle persone che da sempre si impegnano per tale tutela e troppo spesso rimangono inascoltati, marginalizzati se non addirittura messi al bando (alludo all’Osservatorio Repressione, l’Associazione Contro gli Abusi in Divisa (Acad), “Verita` e Giustizia per le Morti in Carcere” e Antigone, all’associazione A buon diritto, al libro Malapolizia di Adriano Chiarelli (2011). Purtroppo i fatti di quel carcere maledetto fanno parte di una pratica che sistematicamente si riproduce. E ogni volta che poi si scopre che si tratta di brutalità inaudite è sempre illusorio pensare che non si ripetano. La ricerca svolta sul dopo le violenze e la tortura praticate durante il G8 di Genova mostra in maniera inequivocabile che dal 2001 a oggi queste pratiche si sono succedute provocando un numero impressionante di vittime rispetto ai 20 anni precedenti (vedi Polizie, sicurezza e insicurezze, Meltemi, 2021). I cognomi e talvolta anche i nomi di alcune di queste vittime sono ormai assai conosciuti: Carlo Giuliani, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, e poi meno noti Marcello Lonzi, Giuseppe Uva, Aldo Bianzino, Niki Aprile Gatti, Stefano Brunetti, Serena Mollicone, Riccardo Rasman, Michele Ferrulli, Riccardo Magherini, Carmelo Castro, Simone La Penna, Cristian de Cupis, Manuel Eliantonio, Massimo Casalnuovo, Arafet Arfaoui, Sekine Traore, Jefferson Tomala`, Kayes Bohli, Dino Budroni, Mauro Guerra, Davide Bifolco, Francesco Mastrogiovanni, Stefano Consiglio, Riccardo Boccaletto, Gabriele Sandri, Vito Daniele, Stefano Frapporti, Aziz Amiri, Roberto Collina, Carlo Saturno, Abderrahman Sahli, Ilario Aurilia, Marcelo Valentino Gomez Cortes, Ettore Stocchino, Francesco Smeragliuolo, Vincenzo Sapia, Ciro Lo Muscio, Antonio Dello Russo. A questi si aggiungono quelli della lista ancora più lunga dei morti “nelle mani dello Stato”, come dice l’Associazione A buon diritto, cioè dei morti in carcere o in stato di fermo com’è successo recentemente a Emanuel Scalabrin, morto in una cella di sicurezza della Caserma dei CC di Albenga. E fra questi i 13 detenuti morti durante la rivolta nel carcere di Modena (vedi l’appello del Comitato di verità e giustizia e vedi anche l’articolo di Lorenza Pleuteri). Se si fa una ricerca anche solo approssimativa sulle notizie reperibili sul web riguardanti i casi di brutalità praticata da operatori di tutte le polizie si ottengono migliaia di risultati che si confondono con casi di corruzione, di “malepolizie” e ovviamente si tratta sempre solo di ciò che è stato scoperto. Il caso della caserma dei Carabinieri di Piacenza è emblematico ma alquanto simile ad altri casi in cui la pratica di brutalità e torture si sovrappone sempre a corruzione e vera e propria attività criminale. È del tutto plausibile pensare che tali casi siano ancora più numerosi visto che la scoperta è sempre difficile poiché gli autori di tale genere di brutalità fanno parte di cerchie sociali e professionali autoreferenziali che legittimano tali comportamenti come socialmente e moralmente giusti e non semplicemente per “spirito di corpo”. Come scrive Sergio Segio sul sito del Comitato per la Verità e la Giustizia sulle morti nelle carceri (dirittiglobali.it): “Le mele marce che hanno partecipato alla spedizione punitiva che, secondo la locale Procura, ha massacrato e torturato i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020, erano circa 300. Non si ha notizia di mele sane che si siano rifiutate di partecipare, che abbiano tentato di impedire il pestaggio organizzato o che, non riuscendoci, abbiano poi denunciato l’accaduto”. In altre parole, si può dire che tali fatti sono abituali come comportamenti banali, anche perché in genere sono raramente impediti e puniti, al contrario prevale sempre la quasi certezza dell’impunità accordata ai carnefici. Lo si era visto già in occasione delle violenze e torture contro chi si opponeva al G8 di Genova. Ci sono voluti oltre 15 anni di processi e infine la sentenza della Cassazione e della Corte europea per arrivare alla condanna ma solo di alcuni dei responsabili e autori di tali pratiche. Come ricorda il dott. Enrico Zucca il sabotaggio dell’indagine giudiziaria fu sistematico e ciò persino da parte degli allora dirigenti del tribunale di Genova. In realtà la mattanza di Genova fu la prima grande operazione del nuovo corso violento della gestione della sicurezza liberista. 20 anni dopo possiamo dire con certezza che l’ordine di massacrare i manifestanti e persino suore, anziani e ragazzi era tassativo: stroncare a ogni costo l’opposizione alle scelte dei dominanti e all’ordine liberista. Ed è la stessa logica che dopo ha prodotto centinaia di vittime anche nel quotidiano delle carceri, del controllo del territorio, dell’imposizione violenta da parte di caporali spesso lasciati fare da parte delle polizie garantendo così il lavoro super sfruttato o da neo-schiavi e a rischio di incidenti mortali. La diffusione della violenza poliziesca come di quella dei caporali e del super sfruttamento è emblematica dell’attuale contesto in cui s’è imposta la sicurezza del dominio liberista che quindi nega la protezione delle vittime delle vere insicurezze che sono appunto il risultato dell’assenza di tutela dell’incolumità e dei diritti fondamentali dei dominati. E non è casuale che l’orientamento del governo Draghi non fa che confermare la scelta di un sicuritarismo che protegge solo i dominanti: di fatto solo misure a favore di dispositivi repressivi, per l’aumento delle forze di polizie e nessuna previsione di rafforzare la prevenzione, il personale socio-sanitario nelle carceri come fuori, gli ispettorati del lavoro e gli ispettorati Asl e Inail. Quindi nulla per la protezione delle vittime di abusi, violenze e persino torture e nulla per istituire una istituzione effettivamente indipendente per la sorveglianza delle attività di tutte le polizie, cioè per abolire l’impunità sinora sempre accordata alle forze repressive. Police partout justice nulle part diceva Victor Hugo nel suo celebre discorso al Parlamento francese. E ancora oggi: sempre più risorse per le polizie e la sicurezza liberista e sempre meno protezione e tutele per i deboli. Torture in carcere, il precedente di Pianosa e Asinara del 1992 di Tiziana Maiolo Il Riformista, 4 luglio 2021 A S. Maria Capua Vetere e un po’ in tutta Italia sembrano tornate le torture degli anni novanta nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. Abbiamo dunque avuto un governo Conte e un ministro Bonafede che proteggevano dei torturatori? Pare di sì, a leggere i verbali della magistratura sulle spedizioni punitive attuate un anno fa nelle carceri italiane dopo l’ondata di proteste dei detenuti impauriti dal dilagare dell’epidemia di Covid-19. Calci, pugni, sputi, persone catturate nel sonno, con o senza pigiama, con o senza ciabatte, sicuramente senza spazzolino da denti o biancheria o vestiti, libri e oggetti personali. Presi e trasferiti da agenti irriconoscibili nel loro assetto di guerra. È vero, c’erano state proteste e rivolte, nella primavera di un anno fa nelle carceri, mentre la paura di un virus-nemico, invisibile e tremendo ci stava terrorizzando “fuori”, e a maggior ragione “dentro”. Ma la risposta dello Stato, a quel che si legge dai provvedimenti della magistratura in questi giorni dopo gli arresti di Santa Maria Capua Vetere, è stata violenta e arrogante. Sono immagini fotocopia di qualcosa che non avremmo più voluto vedere, ricordi di una stagione drammatica in cui le mafie lasciavano sul selciato ogni giorno i corpi delle loro vittime. La stagione in cui furono giustiziati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. L’estate del 1992 la ricordo personalmente. I tanti testimoni -in una notte ne furono deportati 300 nelle due isole- parlano di uomini con il passamontagna della vendetta. La spedizione punitiva di quella notte non era conseguenza di proteste o di rivolte carcerarie, era vendetta pura nei confronti di una mafia sanguinaria che in realtà aveva poco a che vedere con quei corpi che furono martoriati per settimane negli istituti speciali. I boss di Cosa Nostra erano tutti latitanti, così lo Stato si vendicò su alcuni picciotti e con tanti che non c’entravano niente, delinquentelli di borgata o addirittura incarcerati da innocenti. La vendetta di Stato servì anche a costruire i falsi “pentiti”, i più deboli, quelli che non ce la facevano più a essere picchiati ogni giorno, a bere l’acqua arrugginita dei rubinetti, a mangiare poca pasta spesso condita con pezzi di vetro, a stare nel caldo torrido senza doccia se non una volta ogni quindici giorni per tre minuti e chiusa d’improvviso quando il corpo era insaponato. Era tortura quella del 1992 a Pianosa e Asinara. E quella della primavera 2020 a S.Maria Capua Vetere, ma anche a Modena, ad Ascoli, a Melfi che cosa è stata? Quando si legge nelle deposizioni “mi hanno fatto inginocchiare e mi hanno tenuto bloccato a terra, venivo colpito dagli sfollagente degli agenti… mi colpivano in testa, alla schiena, sulle gambe…”, non si trattava di tortura? Trent’anni fa gli omicidi Falcone e Borsellino avevano fatto perdere la testa agli apparati dello Stato. Pur dopo il Maxiprocesso con i suoi ergastoli, restava il fatto che Totò Riina, Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro erano sempre uccel di bosco. Loro continuavano a sparare e lo Stato usava il manganello sui corpi dei più deboli, i detenuti. Proprio come nel 2020, quando un debolissimo governo Conte-due invece di sfollare gli istituti di pena come avrebbe dovuto in presenza del virus, aveva sfogato la propria impotenza sui corpi prigionieri. Nel 1992 le torture, per le quali poi l’Italia fu condannata dalla Cedu, produssero anche quella gravissima distorsione politico-giudiziaria che fu il caso Scarantino, il falso pentito nel delitto Borsellino. Enzino, il picciotto della Guadagna, che non era neanche un mafioso, ma un delinquentello che si arrangiava con piccolo spaccio e altri lavoretti di basso rango, era uno dei ragazzi torturati che avevo incontrato in carcere. Invano era stata resa pubblica la lettera della moglie che denunciava il capo della mobile Arnaldo La Barbera per le torture e la costrizione al falso pentimento. È storia nota che venti innocenti sono rimasti in carcere per quindici anni ingiustamente prima che si disvelasse l’imbroglio. Ma nelle violenze di un anno fa non paiono esservi neanche motivazioni di politica giudiziaria. Sembra piuttosto una serie di azioni muscolari del debolissimo governo giallo-rosa che nessuno rimpiange, insieme all’indimenticabile ministro Bonafede preoccupato più di sbattere gente in galera che di fare giustizia. Infatti giusto un anno fa, nel mese di giugno era andato in aula a Montecitorio a portare la propria solidarietà agli agenti picchiatori. Qualcuno gli chiederà conto di quei fatti così agghiaccianti da riportare alla memoria le torture di Pianosa e Asinara di quasi trent’anni fa? Medici complici e referti falsi per nascondere le violenze di Nello Trocchia Il Domani, 4 luglio 2021 La ricostruzione creata ad arte dai responsabili del pestaggio nel carcere attribuisce alla reazione dei carcerati il ferimento di alcuni agenti penitenziari durante la perquisizione del 6 aprile 2020. Due medici della azienda sanitaria locale hanno firmato referti falsi, tutti uguali fra loro, dopo visite sommarie, nei quali si specifica che i traumi sono legati al “contenimento” da parte degli agenti. Per completare il piano di depistaggio, gli agenti hanno ottenuto referti per mostrare che erano stati aggrediti. In realtà, le lesioni erano localizzate sulle mani: si erano feriti picchiando i detenuti. Sul brutale pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile 2020, il ministero della Giustizia ha creduto anche a un’altra falsa ricostruzione, relativa alla resistenza dai detenuti. Secondo questa versione, la reazione dei carcerati causati il ??ferimento di alcuni penitenziari durante la perquisizione straordinaria, disponibile dal provveditore Antonio Fullone. Fullone, che oggi è indagato e interdetto, è rimasto in sella fino a lunedì scorso, quando il giudice Sergio Enea ha disposto, su richiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere, 52 misure cautelari ai danni di agenti penitenziari e della catena di comando. “Nelle operazioni in questione taluni resistenze hanno resistenza. Dodici, in particolare, sono stati individuati e rapportati disciplinarmente”, ha risposto in aula il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi lo scorso 16 ottobre. Ma c’è stata davvero una resistenza? La circostanza risulta soltanto dai documenti elaborati poche ore dopo il pestaggio dalla catena di comando del carcere con l’obiettivo non solo di depistare, ma anche di attribuire a uno sparuto gruppo di detenuti la responsabilità di una resistenza con traumi riportati dai poliziotti penitenziari. La complicità dei medici - La strategia era molto semplice e aveva bisogno del contributo anche dei medici della locale azienda sanitaria per essere eseguito in modo efficace. Per quindici detenuti sono stati emessi referti senza contatto, o con un contatto minimo, con il medico, e le testimonianze raccolte confermano che la procedura usata era “totalmente in una visita medica seppure somma”. Lo conferma anche il fatto che i referti firmati dai medici erano tutti uguali. La visita è stata raccontata con dovizia di particolari da diversi detenuti, quelli accusati di avere picchi di resistenza e per questo brutalizzati e rispetto a più violenza agli altri. “Un dottore è venuto giù alla matricola che stava con loro e faceva... “trauma cranico, lesione alla fronte”, scrivi. Ciao ciao”, ha raccontato un detenuto ai pubblici ministeri. Nessuna visita, solo uno sguardo a distanza. Le testimonianze confermano questa procedura. “Avevo sangue che mi colava dappertutto, qua sopra, qua… tutto sfondato”, dice un detenuto. Prima del medico che faceva i referti a occhio passava l’ispettore per minacciare i carcerati: “Una parola: non passate parola e siete morti; stasera siete morti!”. Chi ha protestato è stato picchiato anche davanti al medico, raccontano i testimoni. Il “contenimento” - Cosa c’era scritto in questi referti? Contenevano tutti la stessa dicitura relativa a traumi derivanti dal “contenimento da parte del personale di polizia penitenziaria”. Insomma, i detenuti hanno fatto resistenza e da lì discendono i traumi riportano. Per la resistenza detenuti i sono stati denunciati. Tutto falso sia la presunta resistenza, sia le relazioni nelle quali vengono ricostruite le responsabilità dei detenuti, secondo la procura. “Alla luce delle sicure risultanze video e documentali della dinamica del 6 aprile 2020, era del tutto evidente che nessuna resistenza fosse stata attuata da parte loro, essendo stata già ricevuta la loro sorte, ossia il pestaggio, verosimilmente più di altri”, scrive il giudice Sergio Enea. Il medico, indagato per falso ideologico, è in servizio presso l’Asl di Caserta. Non ha rotto la catena del silenzio che ha riportato una storia, dove nessuna figura si è opposta a quanto accaduto, firmando riferiti con “mendace origine causale lesionite”, scrive la procura che ne aveva chiesto i domiciliari. La misura è stata bocciata dal giudice, sulla base del fatto che, anche se sommarie, le visite mediche sono state effettuate e gli antidolorifici effettivamente somministrati. Non è l’unico indagato. Dovrà rispondere di falso anche un altro medico sempre in servizio nell’azienda sanitaria di Caserta, che risulta essere l’estensore materiale dei certificati medici dei detenuti. Il quadro accusatorio della procura è chiaro. Da una parte, i medici avrebbero sottoscritto quindi referti falsamente “rappresentativi di fatti e diagnosi inesistenti”, così da firmare atti pubblici non veritieri sia in merito alla genesi delle lesioni, sia per quanto riguarda la negatività al Covid-19 dei soggetti. Dall’altra, i falsi avrebbero contribuito a occultare i reati commessi dagli agenti agevolando anche la commissione del delitto di calunnia. I medici rispondono solo di falso, ma secondo i magistrati, guidati da Maria Antonietta Troncone, aggiunto Alessandro Milita (pm Daniela Pannone e Alessandra Pinto) con questi referti hanno agevolato gli agenti che hanno costruito la calunnia contro i detenuti accusandoli di aver resistito con violenza alla perquisizione. I referti dei poliziotti - La seconda fase del meccanismo riguarda i poliziotti penitenziari che vanno al pronto soccorso per ottenere un referto. Se ci sono i detenuti denunciati per resistenza, per rendere la scena credibile occorre che ci siano anche delle vittime: gli agenti. I medici riscontrano traumi di ogni genere, ma tutti localizzati sui punti del corpo con i quali avevano sferrato i colpi: mani, braccia, gambe, dita. Praticamente si sono fatti male picchiando. I referti sono 31 e per 19 agenti è scattata la denuncia per falso, oltre che per gli altri reati, perché hanno attribuito le ferite alle violenze commesse dai detenuti e non a quelle che loro stessi avevano commesso. La regia del pestaggio non aveva considerato la prontezza dei carabinieri, prima nel sequestrare i video, fonte di prova indispensabile, e poi attraverso consulenze medico-legali per accertare i segni delle violenze sui giorni attraverso perizie effettuate dieci dopo il 6 aprile. I corpi, a distanza di tempo, continuavano a riportare i postumi del pestaggio: nasi rotti, deficit uditivi, lesioni, traumi. I morti di Modena. Non è successo niente di Susanna Ronconi* dirittiglobali.it, 4 luglio 2021 Marco Boattini, Salvatore Cuono Piscitelli, Slim Agrebi, Artur Iuzu, Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi, Ante Culic, Carlo Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri, Ghazi Hadidi, Abdellah Ouarrad. Morti a seguito delle lotte dell’8 e 9 marzo 2020. Per otto di loro, questione archiviata. Così ha deciso il Giudice Andrea Salvatore Romito del Tribunale di Modena, con ordinanza del 16 giugno 2021, nonostante parti civili, Garante nazionale e associazione Antigone. Questi ultimi non ammessi, a sancire che la difesa dei diritti di chi è detenuto non è rilevante, e chi se ne occupa non c’entra (“soggetti privi della qualifica di persone offese in riferimento ai reati ipotizzati”). Un’archiviazione contro cui, per più di un anno, in tanti abbiamo lottato. E che continuiamo, con ragione e tante ragioni, a non accettare. Perché le responsabilità dell’Amministrazione penitenziaria e della catena di comando balzano agli occhi dai verbali, dalle dichiarazioni, dalle testimonianze, dalle inadempienze, dalle parole di quei detenuti - gli unici che davvero rischiano per la verità - che non sono stati creduti o nemmeno ascoltati. Polizia penitenziaria (non proprio uno sguardo terzo e imparziale che non ha bisogno di riscontri…) e Polizia di Stato bastano e avanzano, per la ricostruzione dei fatti (“Relazioni redatte dalla Polizia penitenziaria e dalla Squadra Mobile della Questura modenese, ben sintetizzate nella richiesta in esame; e ad esse, pertanto, in ragione della accuratezza della struttura storico-narrativa e delle caratteristiche della presente fase procedimentale, pare lecito operarsi integrale riferimento”). Insomma, non servono altri riscontri. Le tante testimonianze sulle violenze ai danni dei detenuti sono voci rese mute, tacitate. Ma anche volendo dire che la morte è sopraggiunta per overdose da farmaci e la violenza nulla conta - e noi non lo vogliamo dire, perché questo aspetto della vicenda, la violenza, doveva e deve essere oggetto di indagine - ciò che viene archiviato e su cui incredibilmente si rinuncia a indagare è comunque il fatto, così evidente, che la morte non è stata per overdose ma per omissione di soccorso. E per totale incuria per la tutela della vita dei detenuti, alcuni imbarcati in lunghi viaggi verso altre carceri senza visite mediche degne di questo nome, senza accertamenti. Al Sant’Anna, la morte di Hafedh Chouchane, da sola, avrebbe dovuto garantire il prosieguo del procedimento: portato da alcuni compagni, preoccupati per le sue condizioni, davanti agli agenti sofferente ma ancora in vita, doveva e poteva essere soccorso (“in data 08.03.2020 … alle ore 19:30 circa, durante la protesta dei detenuti, che hanno invaso l’intero istituto, alcuni detenuti non identificati trasportavano il nominato in oggetto fino al passo carraio interno della portineria centrale dell’istituto perché non stava bene, lasciandolo in terra”). Se di metadone si è trattato, allora il tempo dell’overdose è un tempo lungo, al contrario di quanto accade con l’eroina, e c’è tutto il modo di intervenire. L’antidoto per gli oppiacei, il naloxone, agisce in pochi secondi. Invece, dopo 50 minuti, un medico ne certifica la morte. È rimasto rantolante là, davanti al passo carraio del carcere, per 50 minuti. Chi non ha fatto ciò che doveva fare, in quei 50 minuti? E perché non c’era un piano di pronto intervento conoscendo il rischio overdose a seguito dell’appropriazione di una così ingente quantità di farmaci oppioidi? Una domanda ovvia, come ben spiega qui, nella sua intervista, l’avvocato Luca Sebastiani, tenace difensore di Hafedh Chouchane. Ma il giudice di Modena non se ne cura. Ecco comparire, a protezione e tutela di agenti, medici, amministrazione, il rischio eccentrico. Che cos’è? Si tratta, per farla breve, di una gerarchia di cosa è importante e cosa no, in questo caso si afferma che la rivolta è un fatto eccezionale e abnorme, che la prima cosa da fare è sedarla e che in tutto ciò non c’è tempo per vedere se qualcuno sta morendo e, in questo caso, soccorrerlo. E poi insomma, se la sono voluta. (“interruzione del vincolo protettivo gravante sul garante a fronte di condotte, assunte volontariamente dal soggetto tutelato (sic!), connotate, sotto i profili soggettivo e oggettivo, da imprevedibilità ed abnormità rispetto all’area della tutela approntata dalla norma genetica dell’obbligo”). Una rivolta, un fatto abnorme in un carcere? Davvero? In conclusione, “l’opposizione formulata dai familiari di Chouchane Hafedh, pertanto, deve essere rigettata per insussistenza di alcuna ipotesi di responsabilità in capo ai soggetti intervenuti nel processo gestionale della sommossa”. Con buona pace della Procura e del Tribunale di Modena, però, la cosa non finisce qui. Si va alla Corte Europea, e sarà una battaglia dura. La Corte Europea interviene laddove la giustizia nazionale non abbia fatto giustizia. E il giudice di Modena non l’ha fatta. *Comitato Verità e Giustizia per i morti in carcere “Picchiati a sangue, spostati come bestie”. Le denunce che riaprono il caso Modena di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 4 luglio 2021 Per Procura e gip i nove decessi dopo la rivolta sono stati causati da overdose di farmaci. “Le ferite? Lievi e irrilevanti”. Ma ora sei detenuti raccontano di “pestaggi di massa e commando di agenti”. E una perizia denuncia: indagini carenti. Due esposti che denunciano pestaggi, testimonianze su violenze e mancati soccorsi, una consulenza scientifica sulle autopsie riaprono il caso Modena, facendo ipotizzare che in quel carcere, nel marzo 2020, dopo una “grave rivolta” sia accaduto qualcosa di più rispetto alla “semplice” morte di nove detenuti causata da “overdose di metadone e di sostanze psicotrope”, come finora ricostruito nella prima inchiesta recentemente archiviata dal gip su richiesta della Procura. Una seconda inchiesta della Procura di Modena è aperta sui pestaggi. Alcuni detenuti sono stati interrogati. I fatti, così come ricostruiti dalla Procura, risalgono all’8 marzo. La mattina viene ufficializzato il primo caso di positività al Covid. Alle 13 comincia la rivolta: saccheggi, incendi, tentativi di evasione. Alle 16 viene assaltata l’infermeria, i detenuti “riempiono forsennatamente sacchi per l’immondizia con quantitativi ingenti di farmaci che poi riportano in sezione”. Le infermiere si rifugiano sotto un letto. Seguono “colluttazioni e risse” tra detenuti per accaparrarsi compresse di psicofarmaci distribuite “come caramelle” e flaconi di metadone bevuti “a canna”. Alcuni vengono portati fuori “in stato di apparente coma”, rianimati o ricoverati in ospedale in una situazione da “emergenziale assimilabile alla medicina da campo da guerra”. In serata, a rivolta non ancora sedata, su 546 detenuti ne vengono trasferiti 417. Nove muoiono: cinque a Modena (tre la stessa sera, due il 10 marzo); gli altri nelle ore successive al trasferimento: a Verona, Alessandria, Parma, Ascoli. Sei tunisini, un marocchino, un moldavo, un italiano. Procura e gip riconducono le morti alla “massiccia, incongrua e fatale assunzione di metadone”. Ininfluenti escoriazioni ed ecchimosi su schiena, braccia, gambe, labbra e occhi, in quanto “superficiali, di limitate dimensioni e comunque compatibili con contusioni” nelle risse tra rivoltosi. Incolpevoli agenti e medici. Messa così, pare “una storia semplice”. Però parenti delle vittime, associazione Antigone e Garante dei detenuti si oppongono, per ora invano, all’archiviazione. Rilevano “gravi lacune, carenze e incongruenze investigative”, contestano la “apodittica” ricostruzione della Procura, denunciano la mancanza dei referti medici. Di più. Per conto del Garante, l’anatomopatologa Cristina Cattaneo (già impegnata nei casi Yara e Cucchi, tra gli altri) evidenzia “diverse carenze documentali”. Contesta che sul cadavere di Ghazi Hadidi “non è stata erroneamente compiuta l’autopsia”, a dispetto di “un trauma contusivo al volto di non scarsa entità” con perdita di due denti. Che per la Procura dipende da una malattia gengivale; per la Cattaneo no, perché c’era sangue fresco in bocca. Si chiede dunque “se non vi fosse stato anche un trauma encefalico”, domanda “senza risposta in assenza di autopsia”. E su Arthur Iuzi scrive che “l’apparente modestia delle lesioni cutanee lascia spazio al dubbio che vi sia stata una successione tale di colpi da produrre lesioni cerebrali che possono evolvere verso il peggio”. Ma “anche in questo caso il dubbio non può essere fugato” senza autopsia. Mancano anche i video delle telecamere interne, perché durante la rivolta fu staccata la luce. Dunque di quanto accaduto a sera e nella notte nulla si sa. Fino a quando sei detenuti trasferiti da Modena non inviano in Procura due esposti. Cinque detenuti italiani raccontano di aver “assistito ai metodi coercitivi” degli agenti di polizia penitenziaria: “ripetuti spari ad altezza uomo, cariche a colpi di manganelli di detenuti palesemente alterati” e in overdose. “Noi stessi dopo esserci consegnati spontaneamente senza aver opposto resistenza siamo stati privati delle scarpe, picchiati selvaggiamente e ripetutamente e fatti oggetto di sputi, minacce, insulti e manganellate. Un vero pestaggio di massa” proseguito “sui furgoni a colpi di manganelli durante il viaggio verso Ascoli” e poi il giorno dopo in cella “con calci pugni e manganellate ad opera di un commando”. Nell’altro esposto, un detenuto marocchino ora a Forlì racconta che la sera della rivolta, nel carcere di Modena, chi si consegnava doveva passare tra due file di agenti della polizia penitenziaria. “Io volevo solo andarmene perché avevo paura. Sono uscito con le mani in alto. Nonostante ciò, alcuni agenti mi hanno bloccato. Poi mi hanno portato in sorveglianza, sdraiato e picchiato violentemente con calci pugni e manganelli”, al pari di un detenuto tunisino, “nonostante fosse ammanettato e fermo. Ho provato a protestare per lui, ma gli agenti mi dicevano “stai zitto e abbassa la testa” e per aver parlato venivo nuovamente picchiato. A un certo punto il tunisino mi cadeva addosso. Non rispondeva. Gli agenti cominciavano a prenderlo a botte per farlo svegliare”, prima di portarlo via “come un animale, trascinandolo fuori. Ricordo il corpo che strisciava a terra. Non so dove sia stato portato”. All’esposto sono allegati i referti della visita medica successiva al trasferimento a Forlì, con “vistoso ematoma frontale e mani tumefatte, lussazioni e fratture”. La Procura dovrà riscontrare la fondatezza di questi racconti. Destinati a non rimanere isolati. Segnalazioni arrivano ancora a Garante, associazioni e avvocati. “Siamo stati massacrati, tutte le piastrelle erano piene di sangue”, ha raccontato al TgR Rai dell’Emilia Romagna un detenuto sotto garanzia di anonimato, confermando i pestaggi prima dei trasferimenti, nel momento in cui si doveva passare “in un corridoio di quindici metri” con i poliziotti incappucciati sui due lati “che mi hanno dato tante di quelle botte che ho pensato di morire”. Modena. Per Hafedh non finisce qui. Intervista all’avvocato Luca Sebastiani di Susanna Ronconi dirittiglobali.it, 4 luglio 2021 L’avvocato Luca Sebastiani è il difensore di Hafedh Chouchane, morto al carcere Sant’Anna di Modena. Ha portato avanti con tenacia la battaglia perché si facesse chiarezza e giustizia, e contro l’ipotesi di archiviazione. Oggi fa un bilancio di questa brutta pagina della giustizia italiana e promette che non finisce qui. La morte di Hafedh finirà alla Corte europea. SR: Colpisce, nella lettura delle motivazioni dell’archiviazione, proprio la parte che riguarda Hafedh, che lascia un interrogativo più che mai aperto: cosa è accaduto in quei 50 minuti, dalle 19.30 alle 20.20, tra quando i suoi compagni lo hanno portato, grave ma vivo, davanti agli agenti a quando il medico ne ha certificato la morte? Del resto, questo è uno dei nodi di tutta la vicenda: perché non sono stati salvati? LS: Ha perfettamente ragione, questo è il punto fondamentale che non è stato adeguatamente risolto. Premesso che nell’atto di opposizione avevamo evidenziato come nella richiesta di archiviazione, e quindi negli atti di indagine, emergevano tre versioni differenti sui soccorsi ad Hafedh in relazione sia al posto dove lo stesso è stato consegnato dai detenuti non identificati agli agenti della penitenziaria, sia all’orario in cui questo è avvenuto. E stiamo parlando di differenze macroscopiche, che dunque dovevano essere chiarite. Ad ogni modo, pur prendendo in considerazione la ricostruzione avallata dalla Procura che lei ha citato, nessuno ha spiegato cosa sia successo in quei 50 minuti nei quali poteva essere salvato. Anche perché alle 19.30 pare sia stato consegnato agli agenti della polizia penitenziaria nei pressi dell’uscita del carcere e il medico era collocato immediatamente all’esterno, dunque a poche decine di metri. SR: Il giudice insiste molto sul “rischio eccentrico”, se interpretiamo correttamente significa che una tale situazione di emergenza giustifica che si sia posta la massima attenzione al controllo e alla repressione ben più che ad altri aspetti, quali la tutela dei reclusi. Non è un modo, per altro sbrigativo, per aggirare ogni responsabilità della catena di comando? LS: Dal nostro punto di vista è discutibile ravvedere il “rischio eccentrico” quando si parla di una rivolta all’interno di un carcere. L’abbiamo ripetuto in più occasioni: la rivolta in un carcere è un evento che deve essere previsto e, nei limiti del possibile, evitato: è chiaro che in presenza di un tasso di sovraffollamento carcerario così elevato e di una presenza numerica della polizia penitenziaria ridotta rispetto a quando dovrebbe essere previsto, una rivolta può scoppiare e degenerare. Ma a mio avviso questa non è una giustificazione per chi aveva obblighi di protezione e garanzia nei confronti dei detenuti. Sono certo che questo tema sarà affrontato con estrema attenzione dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che saremo costretti ad adire e dove su queste tematiche il nostro Paese è stato condannato in più di un’occasione. SR: Il Garante nazionale e l’associazione Antigone non sono stati ammessi, è una scelta che mina la possibilità per chi è recluso di avere tutela, sostegno e difesa. Che valutazione fa di questa scelta e, come avvocato, quanto pensa sia importante che le associazioni per i diritti di chi è recluso possano essere attori attivi in casi come questo? LS: È una domanda che dovrebbe rivolgere ai legali delle associazioni che sono certo avranno molto da dire su questo aspetto. A mio avviso è una decisione che non può essere accettata, in quanto quelle associazioni nascono proprio per tutelare i diritti dei soggetti privati della libertà personale e in una vicenda dove sono morti otto detenuti all’interno di un carcere italiano, quello di Modena [per la nona vittima, Salvatore Piscitelli, l’inchiesta è stata stralciata ed è ancora aperta, Ndr], appare quantomeno singolare che a tali associazioni non sia stata riconosciuta la legittimità a intervenire. SR: Cosa succede adesso, è possibile che questa vicenda non si chiuda così? Ci sono possibilità sul piano giuridico di ricorrere? LS: Questa vicenda non si chiuderà così. Per quanto riguarda le posizioni che assisto, avendo esperito ogni rimedio nazionale, siamo pronti, come dicevo, a presentarci davanti la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che già in passato è intervenuta in vicende simili e che sono convinto valuterà con attenzione le perplessità che abbiamo evidenziato. SR: Se possiamo porre una domanda sul piano più personale, cosa le lascia, in termini di riflessioni ma anche di sentimenti, la storia di Hafedh e degli altri? LS: Tanta tristezza e delusione. È stato già molto doloroso affrontare la notizia della morte di Hafedh, al quale ero particolarmente affezionato; è stato ancor più doloroso dover informare personalmente i familiari, che non conoscevo, ma che se non era per me chissà quando lo avrebbero saputo; lo è stato vederlo sepolto in un cimitero vicino Modena in condizioni che vi lascio immaginare ed è davvero angosciante sentire ancora oggi la madre che non riesce a farsi una ragione e non ha ancora la possibilità di avere la salma di suo figlio in Tunisia. Per fortuna ci sono tanti cittadini che ci stanno dando una mano, costituendo comitati e raccogliendo fondi per rimpatriare la salma di Hafedh, ai quali va un sentito grazie da parte nostra. Ci aspettavamo altro e per questo siamo delusi e amareggiati, ma tutto questo è ciò che ci anima e che ci consente di portare avanti una battaglia così triste e solitaria. Firenze. Carcere di Sollicciano, è una lenta agonia di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 4 luglio 2021 Tentativi di suicidio e ogni giorno atti di autolesionismo fra i detenuti: 700 solo nel 2020. Giovedì scorso l’ultimo tentativo di suicidio da parte di un detenuto. E ogni giorno si verificano almeno due episodi di autolesionismo (700 nel 2020). Questa è la realtà di Sollicciano, dove anche gli agenti “si sentono abbandonati” e dove nonostante i piccoli e lenti interventi strutturali è sempre emergenza, su più fronti: troppi detenuti, pochi agenti. Tanto caldo, pochi ventilatori e docce non in tutte le celle. Ore 9 di giovedì scorso, carcere di Sollicciano. Mentre alcuni detenuti escono per l’ora d’aria e altri vanno a lavorare, lui esce dalla cella e va in bagno. Porta con sé un lenzuolo e una lametta da barba. Nessuno se ne accorge. Entra in bagno, controlla che non ci sia nessuno e si lega il lenzuolo attorno al collo. Stringe forte, vuole morire, ma non ci riesce. Allora prende la lametta, si taglia la gola. Sanguina, urla. Accorre un agente. Trova il detenuto, uno straniero di 40 anni, riverso sul pavimento. Chiama i soccorsi, il detenuto viene portato a Torregalli, dove si trova in prognosi riservata. Ancora un tentato suicidio a Sollicciano. E ogni giorno almeno due episodi di autolesionismo. “Soltanto nel 2020 ci sono stati oltre 700 casi di autolesionismo”, ha detto il garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani. C’è chi lo fa per disperazione, chi per ricattare gli agenti. Che non sempre riescono ad arginare il disagio mentale. Sono pochi, troppo pochi. Il piano penitenziario ne prevede 750, invece sono 550. Proprio ieri, gli agenti del sindacato Uil penitenziari hanno scritto alla direzione: “Il personale di polizia si sente abbandonato a se stesso, estraneo nel proprio ambiente lavorativo”. I detenuti, invece, sono molti di più rispetto alla capienza regolamentare. Ce ne potrebbero stare 490, sono invece 650. Da anni si parla di sovraffollamento, ma poco o nulla è cambiato. Ultimamente, grazie alla riapertura del reparto femminile a Pisa, molte donne sono state trasferite. Ma il reparto maschile è sempre troppo pieno. Anche per questo il cappellano dell’istituto don Vincenzo Russo ha scritto una lettera al Corriere Fiorentino, pubblicata ieri, per dire che “di anno in anno le condizioni peggiorano senza che nessuno faccia niente”. E come tutte le estati torna il problema della temperatura in cella. Quasi quaranta gradi. I ventilatori? Non ci sono per tutti. Quanto alle risorse per migliorare Sollicciano, tre anni fa il capo dell’Amministrazione penitenziaria, in visita a Firenze, aveva promesso 3 milioni. Seguirono altri 4 milioni dalla Regione. Obiettivo: una doccia in ogni cella, nuovi tetti impermeabili anti infiltrazioni, triplicazione dei passeggi esterni, nuova cucina. Cosa è stato fatto? Qualcosa. Le docce? Solo nel 20 per cento delle celle. I passeggi esterni? Solo 6 su 13 sono stati ampliati. La nuova cucina sì, quella c’è. E sono in corso i lavori per la ristrutturazione delle facciate, del tetto, delle caldaie. Mentre è in arrivo la gara per gli impianti di risparmio energetico. “Qualcosa è cambiato - conferma con toni positivi il garante provinciale dei detenuti Eros Cruccolini - Sono in corso interventi che porteranno benefici, tra questi la direttrice ha concesso telefonate tutti i giorni ai detenuti, e inoltre saranno realizzati 400 metri quadrati per strutture di formazione e lavoro”. E poi c’è il problema degli educatori, soltanto 5 per quasi 700 reclusi. Non ultimo, la direzione vacante del carcere, che negli ultimi anni ha visto avvicendarsi numerosi direttori. Attualmente la carica è ricoperta da Antonella Tuoni, direttrice anche dell’adiacente Gozzini. Entro autunno, fanno sapere dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dovrebbe essere nominato il nuovo direttore. Tra i candidati c’è la stessa Tuoni. Milano. Foto e voci per restituire San Vittore alla città di Lorenzo Rosoli Avvenire, 4 luglio 2021 Le immagini scattate da Margherita Lazzati. In dialogo con passi delle interviste raccolte fra quanti “abitano” lo storico istituto di pena. Dal 5 al 10 luglio in mostra alla Società Umanitaria. “Il carcere a Milano è San Vittore. Lo capisci solo quando ci metti i piedi dentro”. Parola di Giacinto Siciliano, direttore della casa circondariale di piazza Filangieri. Uno che in carcere ci è entrato non solo con i piedi ma con la testa, il cuore, la vita. Chi volesse comprendere cosa c’è dentro - dentro le parole di Siciliano, dentro la realtà di San Vittore, dentro la vita dei suoi “abitanti” - ora ha un’occasione preziosa: la mostra “San Vittore quartiere della città” che si svolge da lunedì 5 a sabato 10 luglio alla Società Umanitaria di Milano.?L’esposizione mette in dialogo le fotografie scattate da Margherita Lazzati nei primi sei mesi del 2019 fra le mura dell’istituto di pena intitolato a Francesco Di Cataldo con passi delle interviste coordinate da Laura Gaggini e raccolte fra quanti “abitano”, per lavoro o per passione civile e spirituale, il carcere di San Vittore. Immagini e interviste: sono questi i due “polmoni” del progetto “Il carcere: quartiere della città”, promosso dall’associazione “Verso Itaca”, che ha coinvolto un gruppo di biografi formati alla Lua-Libera Università dell’Autobiografia. Grazie a loro sono state raccolte più di 50 interviste. “Il filo che tiene insieme il progetto è l’idea che il carcere sia un quartiere della città dove uomini e donne si sono trovati a vivere gli uni accanto agli altri per passione, per scelta, per errore o per imprevedibili circostanze della vita. E l’obiettivo è quello di collocare questo quartiere ricco di umanità nel cuore della città esterna”, spiega Carla Chiappini dell’associazione “Verso Itaca”. Nella mostra all’Umanitaria le interviste sono distribuite su quattro pannelli; 14 le foto esposte. “A San Vittore, con l’autorizzazione del direttore Siciliano e il costante accompagnamento della vicedirettrice Elisabetta Palù e di un ispettore, ho fotografato celle, gallerie, cortili, mura e orizzonti ristretti - racconta Lazzati -. Al centro della città, luoghi che alla città sono sconosciuti. A differenza delle fotografie che ho presentato fino a oggi, qui non si vedono quasi mai persone. È una mostra che parla degli spazi fisici, obbligati, che le persone vivono. Detenuti, polizia penitenziaria, operatori e volontari non compaiono, ma sono i veri protagonisti di questi luoghi”. Margherita Lazzati da dieci anni collabora come volontaria al Laboratorio di lettura e scrittura creativa di Opera. “Amo moltissimo fare i ritratti. Ed evitando ogni retorica, mi piace “dare visibilità” a chi non l’ha. Come ho fatto nel 2015 fotografando gli homeless e le architetture dell’Expo - ricorda Lazzati. Dal 2016 ho l’autorizzazione per fotografare a Opera. Che però è una casa di reclusione. E lì ho ritratto sia le persone detenute, sia i volontari. Mentre San Vittore è una casa circondariale. Dunque: è un luogo di passaggio, un “porto di mare”, dove sono rinchiuse persone in attesa di giudizio, che poi magari verranno assolte, e questo ti turba terribilmente...”. Ecco, dunque, la scelta: niente volti. Solo luoghi. “Ho avuto piena libertà di fotografare ovunque. Nessuna censura. Il mio - chiarisce Lazzati - non è un reportage di denuncia: è un racconto. La denuncia e la presa di coscienza, casomai, devono nascere da chi legge le testimonianze e vede fotografie come quella della cella allestita per mamme che devono tenere con sé il loro bambino... Questa mostra è stata esposta per la prima volta, fra il gennaio e il febbraio del 2020, nel IV Raggio di San Vittore, quello utilizzato durante la guerra per gli ebrei e i detenuti politici. Mai il IV Raggio aveva ospitato esposizioni. Ora la mostra arriva all’Umanitaria. Per la prima volta fuori dal carcere. Come “liberata”. E attendo con trepidazione le reazioni di chi la visiterà. Temo che questo tempo di pandemia abbia reso la gente ancora più intollerante verso il mondo del carcere, verso un’umanità che durante l’emergenza Covid ha conosciuto fatiche e sofferenze drammatiche. È questa umanità, con i suoi luoghi di vita, che vogliamo restituire alla città. Come quartiere fra i quartieri. Come persone tra le persone”. “San Vittore, quartiere della città” è il titolo della mostra ospitata dal 5 al 10 luglio nel Chiostro dei Glicini della Società Umanitaria di Milano (ingresso da via San Barnaba 48; orario 8,30-20). La mostra, nella quale le foto scattate da Margherita Lazzati dialogano con le interviste agli “abitanti” di San Vittore raccolte dai “biografi” guidati da Laura Gaggini, è realizzata con la collaborazione della Galleria l’Affiche ed è espressione del progetto “Il carcere: quartiere della città”. Quattordici le foto esposte, 10 verticali e 4 orizzontali, formato 90 per 120 centimetri. L’inaugurazione: lunedì alle 18,30. Con Lazzati e Gaggini interverranno Carla Chiappini (“Verso Itaca”), il direttore di San Vittore Giacinto Siciliano e l’ex direttore dello stesso istituto, Luigi Pagano. I contatti per le visite guidate - Il progetto “Il carcere: quartiere della città” è promosso dalla associazione “Verso Itaca Aps”, assieme alla casa circondariale milanese di San Vittore, e ha il sostegno della Fondazione Cariplo. Alla sua realizzazione hanno collaborato: Auser, Centro Nazionale di Ricerche e Studi Autobiografici Athe Gracci, Progetto Ekotonos e Quartieri Tranquilli con il patrocinio della Camera Penale di Milano. Per visite guidate alla mostra ospitata dal 5 al 10 luglio all’Umanitaria: Laura Gaggini (331.4435314); Galleria l’Affiche (02.86450124). Perché si parla tanto della libertà di Michele Serra La Repubblica, 4 luglio 2021 Chi si domanda come mai la questione dei diritti personali abbia assunto tanto peso politico, magari a scapito della macro-questione del lavoro, dovrebbe leggersi il manifesto dei sovranisti europei, firmato da Meloni e Salvini a nome del 40 per cento (mamma mia!) degli elettori italiani. Questo manifesto, con parole di invidiabile chiarezza, dispone che il futuro degli europei rinneghi il disordine imposto da un imprecisato radicalismo delle élite, e ritorni all’ordine già indicato dal fascismo e qui riverniciato come “valori tradizionali”: Dio, Patria, Famiglia, che non sono esattamente new entry. Il Dio dei cristiani, la Nazione senza contaminazioni “mondialiste”, la famiglia tradizionale contrapposta a ogni altro genere di con-fusione. Chi non rientra nel triplice assetto, non rompa le scatole. Se gli va bene, rimarrà zitto e buono nel suo angolino. Se si ribella, verrà tacciato di “attività antipatriottiche” e finirà nei guai. A parte lo spavento che molteplici minoranze (religiose, politiche, sessuali) sono legittimate a provare, visti i precedenti novecenteschi e le attuali cose turche, ungheresi e polacche, è evidente che questo è uno scontro che investe in pieno la società nel suo complesso: dunque le maggioranze. È lo scontro tra la democrazia così come la intendiamo, e un modello autoritario che pretende di escludere ciò che non è conforme. Così come il fascismo, il neofascismo sovranista, quando parla di lavoro, può perfino dire qualcosa “di sinistra”. Ma quando parla della vita delle persone, divide in modo drastico, drammatico. E ci aiuta a capire meglio perché a sinistra si parla tanto della libertà delle persone. Ddl Zan senza più maggioranza: i leghisti cantano (quasi) vittoria di Giovanna Casadio La Repubblica, 4 luglio 2021 Dopo che i renziani si sono smarcati dai giallorossi proponendo di stralciare la definizione di identità di genere, di fatto in Senato la legge contro l’omotransfobia non ha più i numeri per passare così com’è. Si apre la strada alla riscrittura del testo. Cirinnà: “Ridicole le proposte renziane, cercano di prepararsi a future alleanze con il centrodestra”. “Penso a questo punto ci sia una maggioranza parlamentare che vuole modificare il ddl Zan”. Massimiliano Romeo, il capogruppo leghista al Senato, canta (quasi) vittoria. I renziani fanno la differenza. Sulla legge contro l’omotransfobia si sono smarcati dai giallorossi. Ieri hanno presentato modifiche al testo che porta il nome del deputato dem e attivista lgbt, Alessandro Zan, come ha sollecitato il presidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama, il leghista Andrea Ostellari nel tavolo politico di confronto. Italia Viva ha riproposto il testo presentato nella passata legislatura da Ivan Scalfarotto, sottosegretario renziano, e che naufragò. Ma ora sono sicuri che sia la strada giusta, in particolare dopo la nota diplomatica di contrarietà del Vaticano che chiede riformulazioni sin dall’articolo uno del ddl Zan. In un botta e risposta social tra il capogruppo di IV, Davide Faraone, e Zan, il nuovo corso renziano è confermato: via il riferimento all’identità di genere; cassato l’articolo 4 sulla libertà d’espressione e religiosa; iniziative contro le discriminazioni nelle scuole sì, ma solo nel rispetto dell’autonomia didattica e quindi della libertà d’insegnamento delle scuole cattoliche paritarie come da Concordato. La “blindatura” della legge contro l’omofobia, così come è stata approvata alla Camera il 4 novembre scorso, non c’è più. Perché quella ventina di voti che facevano la differenza giallorossa (arrivando a circa 158 a favore del ddl Zan a Palazzo Madama), vengono a mancare. La maggioranza si ribalta. Interviene anche il presidente della Camera, il grillino Roberto Fico in un post per invitare, nel giorno del Pride a Napoli, a fare in fretta per una legge condivisa, indicando proprio il ddl Zan: “Un contributo contro le discriminazioni può essere fornito dalla legge già approvata a Montecitorio e ora al Senato...”. I leghisti sono soddisfatti di questo pre-partita: l’esame del ddl infatti non è ancora iniziato e comunque il centrosinistra (renziani inclusi) ha promesso di portarlo in aula il 13 luglio. Matteo Salvini si spinge a dichiarare: “Sì, spero che la legge contro l’omofobia sia in dirittura d’arrivo. La gente ci chiede soluzioni ai problemi del lavoro, non polemiche. Quindi colpire di discrimina o aggredisce qualcuno solo per scelta d’amore è un dovere. Mandare l’ideologia gender sui banchi di scuola e inventarsi reati di opinione, censure e bavagli, invece, non fa parte delle mie priorità”. Contrattacco del M5S e del Pd. “Le proposte di modifica di Italia Viva sono veri cavalli di Troia”, è la reazione indignata della pentastellata Alessandra Maiorino. Franco Mirabelli afferma che non c’è un’altra strada se non il ddl Zan, se davvero si vuole portare a casa la legge. Laura Boldrini rincara: “IV sta proponendo lo svuotamento del ddl Zan”. Monica Cirinnà, responsabile diritti dem, si dice indignata: “Ridicole le proposte renziane, cercano di prepararsi a future alleanze con il centrodestra”. Alessandro Zan chiede a Faraone come può pensare a un accordo con la Lega che sta con Orban e il suo manifesto di valori. Scrive Zan sui social: “Caro Davide, abbiamo approvato insieme le unioni civili e abbiamo approvato insieme il ddl Zan alla Camera come sintesi condivisa di diverse proposte compresa quella di Scalfarotto. Rifare tutto significherebbe affossare la legge”. Replica Faraone: “Con la fiducia alla Camera la mettiamo in sicurezza, senza certezze sui numeri in aula al Senato e con i voti segreti l’affossiamo. Io voglio una legge contro le discriminazioni omotransfobiche, non mi accontento di essermi battuto. Su temi così sensibili e con il M5S balcanizzato impossibile avere certezze”. Aggiunge che non c’è nulla di nuovo, casomai Zan può accusare i renziani di plagio perché hanno ripreso un pezzo della proposta Scalfarotto, che lo stesso deputato dem aveva sottoscritto. L’altra idea di Faraone è appunto di mettere la fiducia alla Camera. Significa chiamare il governo Draghi a scendere in prima linea. Lo farebbe? Il dem Mirabelli ricorda che siamo in un’altra stagione politica rispetto a quando il governo Renzi mise la fiducia sulle unioni civili: è improbabile. Simone Pillon, ultrà leghista, senatore, apre alle proposte renziane (“Sono migliorative anche se non sono perfette”), però avverte: “Non credo opportuno che il governo si occupi di un tema tanto divisivo, e che oltretutto non è nel programma”. Fa pressing la forzista Licia Ronzulli, che ha sottoscritto con Salvini, un ddl anti Zan: “L’incomprensibile intransigenza della sinistra ad approvare una norma condivisa contro l’omofobia rischia non solo di affossare il ddl Zan, ma di bloccare qualsiasi legge contro le discriminazioni”. Martedì il tavolo del confronto di Ostellari farà il punto, mentre in aula dovrebbe esserci la decisione sul calendario di esame del ddl Zan. Solo allora si entra nel vivo della partita. Elio Vito, forzista liberal e pro Zan avverte: “Non è possibile mediare sui diritti, il ddl Zan diventi subito legge”. Identità di genere e identità politica di Stefano Cappellini La Repubblica, 4 luglio 2021 Il dibattito sul ddl Zan torna ad accendersi sull’identità di genere ma si porta appresso lo scontro sull’identità politica. Di Italia viva, nello specifico, dato che il partito di Matto Renzi, con una mossa che non si può certo definire sorprendente, ha proposto di apportare in Senato alcune modifiche al testo della legge che vuole combattere le discriminazioni omo e transfobiche. Proposta che ha fatto infuriare Pd e M5S, gli ex soci di Matteo Renzi nel Conte bis, e in compenso ha raccolto l’applauso di Matteo Salvini e di buona parte del centrodestra. Lo scontro sulla Zan si carica insomma di nuovi risvolti politici oltre quelli che già da mesi dividono il Parlamento. Il sospetto dei detrattori di Renzi è che la mossa sul ddl sia il passaggio decisivo per aprire una fase di avvicinamento al centrodestra, la prima di una serie di convergenze che potrebbero passare anche dal voto sul nuovo presidente della Repubblica all’inizio del prossimo anno e concludersi con un accordo alle politiche nel 2023. Forse il sospetto, al momento, non reggerebbe il vaglio di un processo. Ma gli indizi non mancano e certo la tesi difensiva dei renziani - che si dicono decisi a trovare un’intesa con la destra sulla legge per evitare che il testo così com’è finisca impallinato dal voto segreto in aula - non è solidissima. Anche perché Renzi e i senatori Iv fin qui hanno giurato di non essere loro i franchi tiratori in agguato pronti a giocare uno scherzo alla Zan. Quindi bisognerebbe credere che si siano appassionati alla possibilità di modificare la legge insieme alla destra solo per scongiurare che siano i presunti franchi tiratori di Pd e M5S ad affossarla. Una forma di machiavellismo altruistico, non proprio il genere più praticato dalle parti di Italia viva. Il problema che complica la vicenda è l’esistenza di un altro fondato sospetto, cioè che la Lega non abbia tanto a cuore l’idea di un compromesso sul testo quanto quella di spedire la legge su un binario morto. Una possibilità così concreta che lo stesso capogruppo al Senato di Iv, Davide Faraone, ha proposto di aggirarla così: accordo su un nuovo testo in Senato e fiducia alla Camera, dove il ddl dovrebbe inevitabilmente tornare per una nuova lettura. Le reali intenzioni della destra sono un punto chiave della vicenda, perché è ovvio che non è in sé blasfemo né inaccettabile ipotizzare aggiustamenti. Alcuni passaggi, per esempio quello nell’articolo che “fa salva” la libertà di espressione, potrebbero certamente essere scritti meglio. La stessa “identità di genere”, che Iv propone di cassare dalla legge lasciando solo il riferimento alla discriminazione omo e transfobica, potrebbe uscire senza gravi danni rispetto alla finalità della legge, che è prevenire e punire più severamente gli atti di aggressione alla comunità lgbtq+. Lo stesso Zan, nel respingere la proposta di Iv, ha ricordato ieri che l’identità di genere “è già tutelata da sentenze costituzionali e trattati internazionali come diritto fondamentale della persona”. È chiaro che c’è una distinzione tra identità sessuale e orientamento sessuale, ma onestamente è arduo sostenere che la differenza abbia un peso nello smuovere l’odio e gli atti ostili di violenti e intolleranti, né si rischierebbe di lasciare impuniti i trasgressori. Ma è evidente che chi aspetta con ansia una norma ispirata a criteri di civiltà fa giustamente fatica ad accettare che tutto salti in aria per questioni di pulizia formale del provvedimento, soprattutto se tali questioni potrebbero nascondere semplicemente l’intento di tenere l’Italia agganciata all’Europa di Orbàn, con cui Salvini e Meloni hanno appena firmato un manifesto reazionario, piuttosto che all’Europa dei diritti e del progresso civile. Migranti. Appello al Parlamento: basta denaro alla Libia per il blocco dei flussi Avvenire, 4 luglio 2021 Il governo propone di aumentare gli stanziamenti, pagati dai contribuenti italiani, nonostante che Tripoli non rispetti i diritti umani e lasci campo libero a detenzioni disumane e ai trafficanti Colpi di mitraglia dalla motovedetta libica verso il barcone con una quarantina di migranti a bordo, poi i tentativi di speronamento col rischio che le persone finissero in mare. Sono le drammatiche immagini del video diffuso da Sea watch (le riprese sono fatte dal velivolo dell’organizzazione), che ha dato la notizia degli spari contro i migranti in area Sar maltese, a 45 miglia da Lampedusa, il 1° luglio. Mentre in Libia i migranti continuano a essere detenuti in condizioni inumane, sfruttati e poi messi in mare su imbarcazioni strapiene e insicure. E mentre continuano a morire nel Mediterrraneo e vengono inseguiti, con grave pericolo per loro, dalla cosiddetta Guardia costiera libica, che ne approfitta per allargare il raggio di mare che i libici (sostenuti dalla Turchia) intendono controllare, anche a danno dei nostri interessi nazionali, ecco che l’Italia aumenta i finanziamenti proprio alla cosiddetta Guardia costiera libica, dopo avere già fornito navi militari. Crescono, infatti, di mezzo milione di euro i finanziamenti destinati al blocco dei flussi migratori: passati da 10 milioni nel 2020 a 10,5 nel 2021. In totale 32,6 milioni destinati alla cosiddetta Guardia costiera libica dal 2017, salgono a 271 i milioni spesi dall’Italia per le missioni nel paese nord africano. Questo nonostante che anche le Nazioni Unite e le associazioni che si occupano di diritti umani abbiano ormai messo chiaramente in evidenza che in questo Paese il rispetto delle persone migranti sia inesistente e che Tripoli non può essere considerato un approdo sicuro. Avvenire ha già più volte denunciato le mancanze della politica di Roma nei confronti della Libia. Adesso le denunce e gli appelli si moltiplicano. Anche Oxfam interviene con un appello a cambiare rotta. E segnala che nel testo deliberato dal Governo, che andrà in Parlamento, rispetto al 2020 si registra un’impennata delle risorse destinate alle missioni navali che non prevedono il salvataggio dei migranti in mare: +17 milioni per Mare Sicuro e +15 milioni per Irini. Tutto questo mentre, dall’inizio dell’anno, si contano oltre 720 vittime lungo la rotta del Mediterraneo centrale, almeno 7.135 dalla firma dell’accordo tra Italia e Libia. Oltre 13 mila i migranti riportati in Libia. Alla vigilia del dibattito in Parlamento, quindi, Oxfam lancia un appello urgente per un’immediata interruzione degli stanziamenti alla cosiddetta Guardia costiera libica e la revisione delle missioni che contengono iniziative italiane di formazione e supporto. In quanto ai numeri sale a 960 milioni il costo sostenuto dai contribuenti italiani per le missioni navali nel Mediterraneo, (nessuna delle quali ha compiti di ricerca e soccorso in mare) e nel paese nord africano, con un aumento di 17 milioni rispetto al 2020 per la missione Mare Sicuro e 15 milioni per Irini. Quello cha lascia perplessi, spiega Oxfam, è che “il governo Draghi stia agendo in perfetta continuità con gli esecutivi precedenti sulle politiche migratorie nonostante che la Libia sia un paese dove l’industria del contrabbando e tratta è stata in parte convertita in industria della detenzione, con abusi e violenze oramai note a tutti, anche grazie a questo considerevole flusso di denaro”. L’appello all’Italia - “A pochi giorni dalla discussione parlamentare sul rinnovo delle missioni militari italiane all’estero, - afferma Paolo Pezzati, responsabile per le emergenze umanitarie di Oxfam - chiediamo perciò ai partiti di maggioranza di interrompere immediatamente gli stanziamenti per il 2021 diretti alla Guardia Costiera libica, che solo quest’anno ha intercettato e riportato in un Paese non sicuro il triplo dei migranti, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Assieme è necessaria una revisione delle missioni che contengono iniziative legate alla sua formazione e al suo supporto. Quello che serve è un cambio deciso di approccio, una gestione diretta dei flussi e non la mera chiusura delle frontiere delegata a paesi come la Libia o la Turchia”. Una direzione che Oxfam ritiene possa essere intrapresa solo con una serie di interventi diretti a: 1) superare la legge Bossi-Fini ed estendere i canali di ingresso regolari per i migranti in Italia e in Unione europea; 2) approvare un piano di evacuazione delle persone detenute illegalmente in Libia; 3) istituire una missione navale europea con chiaro compito di ricerca e salvataggio delle persone in mare; 4) riconoscere il ruolo fondamentale delle organizzazioni umanitarie nella salvaguardia della vita umana in mare; 5) interrompere l’accordo Italia-Libia, subordinando qualsiasi futuro accordo alla fine della fase di transizione politica nel paese, nonché alle necessarie riforme che eliminino la detenzione arbitraria e prevedano adeguate misure di assistenza e protezione, in particolare per migranti e rifugiati. Etiopia. Ora lo spettro della fame oscura la festa di Macallè di Declan Walsh* La Repubblica, 4 luglio 2021 Migliaia di prigionieri di guerra etiopi sono stati fatti sfilare venerdì nella capitale regionale del Tigray, con la folla esultante che si accalcava lungo le strade per schernirli e per applaudire le milizie, che pochi giorni fa hanno sbaragliato uno degli eserciti più potenti d’Africa. Molti dei soldati erano a testa china, guardavano per terra. Alcuni dovevano essere trasportati su barelle, altri portavano bende macchiate di sangue. La repentina sconfitta delle forze etiopi ha ribaltato in modo sorprendente la situazione in una guerra civile che ha provocato quasi due milioni di sfollati nella regione del Tigray, dove la popolazione ha sofferto fame, atrocità e stupri. La sfilata dei prigionieri è stata la risposta al primo ministro etiope, Abiy Ahmed, che martedì scorso, nella capitale nazionale, Addis Abeba, aveva definito “una bugia” sostenere che le sue truppe fossero state sconfitte, e aveva aggiunto di aver dichiarato un cessate il fuoco unilaterale per motivi umanitari. Abiy ha proclamato la vittoria l’anno scorso, circa un mese dopo aver avviato, a novembre, l’operazione militare nel Tigray, ma i combattimenti sono proseguiti per altri sette mesi. Affiancate dai miliziani tigrini, le ingenti colonne di soldati etiopi sconfitti hanno marciato per quattro giorni dai campi di prigionia fino alla capitale del Tigray, Macallè. Tra la folla, molti schernivano i soldati, mentre altri concentravano la loro rabbia soprattutto sul primo ministro etiope. Circa otto mesi fa, Abiy aveva inviato le sue forze a Macallè per strappare il potere ai leader della regione, dichiarando di doverlo fare perché i tigrini avevano tenuto elezioni locali senza il permesso del governo federale. Ora i leader tigrini vittoriosi sono tornati a Macallè. Debretsion Gebremichael, il leader del partito di governo, il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray, ci dice che i suoi miliziani hanno fatto prigionieri più di 6mila soldati etiopi. Ma nella regione la situazione resta difficile: da quando, lunedì, l’Etiopia ha annunciato un cessate il fuoco unilaterale e ritirato le sue truppe da Macallè, nel Tigray ci sono state interruzioni nella fornitura di energia elettrica, nelle telecomunicazioni e in Internet. Il tutto esacerba una situazione umanitaria già definita terribile dalle Nazioni Unite. Le agenzie umanitarie internazionali avvertono che sulla regione incombe una catastrofe umanitaria: non è ancora chiaro se la vittoria dei ribelli permetterà di raggiungere i più bisognosi. E secondo l’Onu centinaia di migliaia di persone sono state colpite dalla carestia. Giovedì è stato inoltre distrutto un ponte sul fiume Tekeze, che forniva un accesso vitale alla città di Shire, nel Tigray centrale, dove l’Onu stima che ci siano tra i 400mila e i 600mila sfollati che vivono in condizioni terribili. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli Affari umanitari ha detto che il ponte è stato distrutto da truppe appartenenti alle Forze speciali Amhara e all’esercito dell’Eritrea, il Paese a nord del Tigray che ha combattuto come alleato delle truppe etiopi. “La distruzione del ponte avrà pesanti conseguenze”, dice Claire Nevill, portavoce del Programma alimentare mondiale. Redwan Hussein, portavoce del governo etiope, ammette che due ponti che collegano la regione del Tigray sono stati distrutti, ma nega che il governo o le forze sue alleate ne siano responsabili. Un operatore di un’agenzia umanitaria ci racconta che nella regione entra “poco o nulla” e che le truppe lungo il confine con la regione di Amhara non lasciano passare i camion carichi di aiuti alimentari. Nell’intervista, Debretsion ha detto che i leader del Tigray stanno lavorando per far arrivare gli aiuti internazionali il prima possibile, ma sul terreno lo scontro prosegue: uno dei più importanti leader militari della regione, Getachew Reda, sostiene che le forze del Tigray non esiterebbero ad entrare in Eritrea se fosse necessario a impedire alle truppe eritree di attaccare di nuovo. “Vogliamo colpire il più possibile il potenziale offensivo del nemico”, dice Getachew. Mentre marciano verso la prigione, i soldati etiopi sembrano affamati ed esausti. Una volta arrivati, uomini e donne sono stati separati e messi in celle. Ma prima di fermarsi sono passati per le forche caudine dei tigrini esultanti per la loro cattura. Adanay Hagos, 23 anni, dopo aver inveito contro le colonne di militari, spiega di essere così arrabbiato perché alcuni dei suoi amici sono stati uccisi dalle truppe eritree alleate con l’esercito etiope. “Questo è solo il primo passo”, ha detto. “Hanno invaso la nostra terra da ovest e da sud. Finché non se ne andranno, la guerra non sarà finita”. *Traduzione di Luis Moriones